Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
NOTA BENE
NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB
SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA
NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE
NOTA LEGALE: USO LEGITTIMO DI MATERIALE ALTRUI PER IL CONTRADDITTORIO
LA SOMMA, CON CAUSALE SOSTEGNO, VA VERSATA CON:
accredito/bonifico al conto BancoPosta intestato a: ANTONIO GIANGRANDE, VIA MANZONI, 51, 74020 AVETRANA TA IBAN: IT15A0760115800000092096221 (CIN IT15A - ABI 07601 - CAB 15800 - c/c n. 000092096221)
versamento in bollettino postale sul c.c. n. 92096221. intestato a: ANTONIO GIANGRANDE, VIA MANZONI, 51, 74020 AVETRANA TA
SCEGLI IL LIBRO
PRESENTAZIONE SU GOOGLE LIBRI
presidente@controtuttelemafie.it
Via Piave, 127, 74020 Avetrana (Ta)3289163996 0999708396
INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA - TELEWEBITALIA
FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE
(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -
ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI
(pagine) GIANGRANDE LIBRI
WEB TV: TELE WEB ITALIA
NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
CAPORALATO
IPOCRISIA
E SPECULAZIONE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2017, consequenziale a quello del 2016. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
INDICE
INTRODUZIONE.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
COLF, BADANTI E BABYSITTER. UN LAVORO PERICOLOSO, LOGORANTE E SOTTOPAGATO.
PADRINI, PADRONI E SCHIAVI.
LAVORO MINORILE. SCHIAVI INVISIBILI.
QUANDO IL CAPORALE E' LO STATO. LAVORARE A NERO PER LO STATO.
PARLIAMO DEI PORTABORSE, OSSIA GLI ASSISTENTI PARLAMENTARI.
L'INFORMAZIONE E LA SCHIAVITU' DEI GIORNALISTI.
LA DURA VITA DEGLI STEWARD...DI TERRA E DI CIELO.
PARLIAMO DEI POSTINI PRIVATI.
CIBO A DOMICILIO. I RIDER SFRUTTATI.
LA GIUNGLA DEGLI ANIMATORI TURISTICI.
I RIGGER. MONTATORI DI PALCHI SENZA TUTELE E SICUREZZA.
I CAPITANI DELLE NAVI. PARAFULMINI DEI GUAI.
VENDITORE DI AUTO: UN INCUBO.
LA DURA VITA DEI CASSIERI NOTTURNI.
L'ALTRO LATO DEL MONDO CONVENIENZA.
LAVORA E NON FERMARTI MAI.
L'INFERNO DELLA GRANDE DISTRIBUZIONE ORGANIZZATA (GDO).
VOLONTARIATO ED IDEOLOGIA: CAPORALATO E LAVORO NERO. SFRUTTATI A FIN DI BENE.
SOTTOPAGATI E SENZA GARANZIE: L'ESERCITO INVISIBILE DOVE MENO TE LO ASPETTI...
IL MONDO DEI NEET.
STUDIARE I CALL CENTER.
LA MAFIA DELLE RACCOMANDAZIONI. MARTONE, LE VITTIME, SFIGATI A PRESCINDERE.
CERVELLI IN FUGA.
PARLIAMO DI RACCOMANDAZIONE: FAMILISMO, NEPOTISMO, CLIENTELISMO.
I PARENTI ECCELLENTI DELLA POLITICA: DALLE DINASTIE PERPETUE A CHI SISTEMA I FIGLI NEGLI UFFICI O LE MOGLI IN PARLAMENTO.
PARLIAMO DI RACCOMANDAZIONE IN TV.
IL FASCINO DEL CONCORSO PUBBLICO E DEGLI ESAMI DI STATO (TRUCCATI).
LA REPUBBLICA DEI BROCCHI NEL REGNO DELL'OMERTA' E DEL PRIVILEGIO.
VERONICA PADOAN ED IL RIBELLISMO DEI FIGLI DI PAPA’.
IL FAMILISMO AMORALE ED IL COOPTISMO AMORALE.
IMPIEGO PUBBLICO: LA TRUFFA DEL DOPPIO LAVORO.
PARLIAMO DI POVERI. COSA E' LA POVERTA'.
PARLIAMO DELLO SFRUTTAMENTO MAFIOSO E LEGALIZZATO.
PARLIAMO DI FORMAZIONE PROFESSIONALE.
PARLIAMO DI ALTERNANZA SCUOLA-LAVORO.
PARLIAMO DI RISCATTO IMPOSSIBILE.
IL CAPORALATO.
IL CAPORALATO DEL TRASPORTO.
SIAMO TUTTI CAPORALI.
PARLIAMO DI CAPORALATO.
REGIONE CHE VAI, CAPORALATO CHE TROVI.
COOPERATIVE E CAPORALATO.
NAZIONE CHE VAI, CAPORALATO CHE TROVI.
COMUNISTI. QUELLI CHE CI VOGLIONO TUTTI UGUALI: TUTTI PIU’ POVERI.
TROPPE LEGGI = ILLEGALITA’.
COMUNISTI. QUELLI CHE CAMPANO SULLE SPALLE DEGLI ITALIANI.
VOUCHER: I BUONI LAVORO.
VOUCHER ED ASSUNZIONI FACILI...
QUELLI COME…I PARLAMENTARI.
QUELLI CHE COMBATTONO IL LAVORO NERO...
LA BUFALA DEL 1° MAGGIO? PARLIAMO DI LAVORO NERO E SFRUTTAMENTO. PARLIAMO DI VERO “CAPORALATO”.
PARLIAMO DEGLI O.S.S. OPERATORI SOCIO SANITARI.
PARLIAMO DEI TIROCINANTI PRESSO GLI UFFICI GIUDIZIARI.
PARLIAMO DI SFRUTTAMENTO DEL LAVORO.
LE DONNE IMMIGRATE PER I GIORNALISTI? MEGLIO SCHIAVE CHE PUTTANE.
SIAMO TUTTI PUTTANE.
IL FALLIMENTO DEI CENTRI PER L'IMPIEGO.
IL COLLOCAMENTO FAI DA TE...
AGENZIE PER IL LAVORO.
LA LOBBY DEI SINDACATI. DECISIVA E POLITICAMENTE IRRESPONSABILE.
PARLIAMO DI INFORTUNI SUL LAVORO.
IL CAPORALATO DA SPECULARE.
L'EQUIVOCO E L'ABBAGLIO SULLA EVASIONE FISCALE.
AZIENDE SUICIDATE. CONTROLLI VESSATORI E SPECULATIVI. ABUSI E PARADOSSI.
INTRODUZIONE.
LEGGE 29 ottobre 2016, n. 199. Disposizioni di 12 articoli in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro e di riallineamento retributivo. Se ci si toglie il paraocchi ideologico ci si accorge che sono interessati tutti i settori economici (pubblici e privati) (GU Serie Generale n.257 del 03-11-2016). Entrata in vigore del provvedimento: 04/11/2016
La Camera dei deputati ed il Senato della Repubblica hanno approvato;
IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA Promulga la seguente legge:
Art. 1. Modifica dell'articolo 603-bis del codice penale
1. L'articolo 603-bis del codice penale è sostituito dal seguente: «Art. 603-bis. (Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro). - Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da 500 a 1.000 euro per ciascun lavoratore reclutato, chiunque:
1) recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori;
2) utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l'attività di intermediazione di cui al numero 1), sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno. Se i fatti sono commessi mediante violenza o minaccia, si applica la pena della reclusione da cinque a otto anni e la multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato. Ai fini del presente articolo, costituisce indice di sfruttamento la sussistenza di una o più delle seguenti condizioni:
1) la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato;
2) la reiterata violazione della normativa relativa all'orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all'aspettativa obbligatoria, alle ferie;
3) la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro;
4) la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti.
Costituiscono aggravante specifica e comportano l'aumento della pena da un terzo alla metà:
1) il fatto che il numero di lavoratori reclutati sia superiore a tre;
2) il fatto che uno o più' dei soggetti reclutati siano minori in età' non lavorativa;
3) l'aver commesso il fatto esponendo i lavoratori sfruttati a situazioni di grave pericolo, avuto riguardo alle caratteristiche delle prestazioni da svolgere e delle condizioni di lavoro».
La legge anti-caporalato? La fece il fascismo nel 1926. E la abolì Badoglio, scrive Antonio Pannullo, mercoledì 8 agosto 2018, su "Il Secolo d’Italia". Il “caporale” è la figura di intermediatore illegale tra latifondista e manodopera non specializzata. È una piaga presente da sempre, e in Italia si è saldata con la criminalità organizzata, soprattutto nel centrosud. La parola “caporalato” è tornata in questi giorni sotto i riflettori a causa degli incidenti che hanno visto coinvolti lavoratori stagionali stranieri in Puglia, ma è un male antico, un male “liberale”. Nel 2016 la Camera approvò la cosiddetta legge anti-caporalato, che però evidentemente non ha avuto effetto sul fenomeno, probabilmente a causa degli scarsi controlli da parte delle autorità. La rivista e blog Italia coloniale però, diretta da Alberto Alpozzi, ci ricorda che il caporalato fu combattuto e sconfitto, come la mafia del resto, dal fascismo, che nel 1926 varò la legge 563, detta “legge sindacale”, perfezionata e modificata fino al 1938 con altre norme tese a “contemperare secondo equità gli interessi dei datori di lavoro con quelli dei lavoratori tutelando, in ogni caso, gli interessi superiori della produzione”. Italia coloniale ricorda anche che queste rivoluzionarie normative, inserite nel Codice corporativo e del lavoro fascista, valevano oltre che in Italia anche nelle colonie, cosa che contribuì ad abolire nell’Africa italiana la schiavitù e la servitù della gleba, fiorenti fino alla conquista da parte dell’Italia dell’Africa orientale.
Il caporalato era completamente scomparso. In particolare, racconta ancora l’Italia coloniale, due furono i provvedimenti più incisivi: “i contratti collettivi di lavoro e gli uffici di collocamento gratuiti per i lavoratori disoccupati. I primi dovevano essere obbligatoriamente redatti e approvati dal Sindacato di categoria (ente che provvedeva anche al continuo miglioramento della formazione professionale dei lavoratori attuata attraverso gli organi d’istruzione professionale) prima di iniziare qualsiasi rapporto di lavoro subordinato”, provvedimenti non esistenti nella precedente legislazione liberale. Insomma, l’imprenditore poteva assumere la manodopera soltanto per mezzo di tali uffici, scegliendo tra gli operai iscritti; viceversa quest’ultimi, per cercare un impiego, avevano l’obbligo di avvalersi degli stessi: in caso contrario erano previste sanzioni pecuniarie per entrambi, dice ancora la rivista storica. In nessun caso l’imprenditore poteva assumere operai attraverso intermediatori privati, considerati dal fascismo né più né meno che parassiti sociali. Inoltre, ci dice l’Italia coloniale, le richieste di manodopera non potevano essere nominative ma numeriche, per evitare qualsiasi tipo di clientelismo. Se un lavoratore veniva licenziato senza motivo, poteva ricorrere alla Magistratura del Lavoro. Caporalato e mafia, quest’ultima grazie al prefetto Cesare Mori, furono bandire per qualche anno dall’Italia. Fino al settembre 1944, quando il governo Badoglio con il decreto 287 abolì tutte le leggi della Carte del Lavoro con le conseguenze che oggi ci troviamo a combattere.
Caporali e Operai. La legge fascista anti caporalato valida in Italia e nell’Africa Orientale, scrive Alberto Alpozzi il 18 luglio 2017 su Italiacoloniale.com. (Di Maria Giovanna Depalma). Il Caporale è una figura storica che da sempre si occupa sia di intermediazione tra proprietà agricola e manodopera – rigorosamente poco specializzata – che di reclutamento, organizzazione del lavoro, gestione delle paghe. Un sodalizio che spesso unisce la criminalità organizzata e lo sfruttamento dei lavoratori. Un giro d’affari da 17 miliardi di euro che oggi coinvolge 400 mila braccianti in tutto il territorio nazionale, pagati in media 3 euro per ogni occasione. A seguito di diverse denunce che hanno confermato una larga diffusione del fenomeno, nell’ottobre del 2016, la Camera dei Deputati ha approvato in via definitiva la legge anti-capolarato che prevede la descrizione del comportamento punibile e l’inasprimento delle pene già previste dall’articolo 603-bis (intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro). C’è da dire, però, che questa pratica criminale è una vecchia piaga del sistema liberale, già conosciuta e combattuta dal Governo italiano a partire dal 1926 grazie alla legge n. 563 ovvero la “Legge Sindacale”. Attraverso l’attuazione dell’Art. 16 della predetta legge e di una serie di norme giuridiche varate tra il 1926 e il 1938 atte a “Contemperare secondo equità gli interessi dei datori di lavoro con quelli dei lavoratori tutelando, in ogni caso, gli interessi superiori della produzione” venne attuata una vera e propria rivoluzione sia in campo economico che sociale. Ovviamente queste leggi -previste dal Codice Corporativo e del Lavoro – valevano sia nella Madre Patria che nelle Colonie, sia per i lavoratori coloni che per gli autoctoni, abolendo così anche forme di schiavitù o servitù della gleba nell’Africa Orientale Italiana. Furono due, in particolare, i provvedimenti più incisivi in termini di organizzazione del lavoro e tutela dei lavoratori (non contemplati nel sistema liberale vigente in precedenza): i contratti collettivi di lavoro e gli uffici di collocamento gratuiti per i lavoratori disoccupati. I primi dovevano essere obbligatoriamente redatti e approvati dal Sindacato di categoria (ente che provvedeva anche al continuo miglioramento della formazione professionale dei lavoratori attuata attraverso gli organi d’istruzione professionale) prima di iniziare qualsiasi rapporto di lavoro subordinato. Gli elementi essenziali di questi contratti stabilivano: il periodo di prova del lavoratore, la misura e le modalità di pagamento della retribuzione, l’orario di lavoro, il riposo settimanale, il periodo annuo di riposo feriale retribuito, i rapporti disciplinari, la cessazione dei rapporti di lavoro per licenziamento senza colpa, il trattamento dei lavoratori in caso di malattia o richiamo alle armi (Legge n.1130/1926). Invece per combattere il fenomeno del caporalato, seguendo i principi sanciti dalle dichiarazioni XXII e XXX della “Carta del Lavoro”, si utilizzarono gli uffici di collocamento (Legge n. 1103 del 28 marzo 1928). Questi enti funzionavano a 360 gradi: servivano sia a controllare il fenomeno dell’occupazione e della disoccupazione (indice complessivo della produzione e del lavoro) che a tutelare gli operai dai caporali. L’imprenditore, infatti, poteva assumere la manodopera soltanto per mezzo di tali uffici, scegliendo tra gli operai iscritti; viceversa quest’ultimi, per cercare un impiego, avevano l’obbligo di avvalersi degli stessi: in caso contrario erano previste sanzioni pecuniarie per entrambi. In tal modo l’imprenditore non poteva più assumere gli operai attraverso dei mediatori privati, che lucrando sui bisogni dei lavoratori, esercitavano una vera e propria funzione di parassiti. Per di più, con la “Riforma del Collocamento” attuata con il decreto-legge n. 1934 del 21 dicembre 1934, gli uffici assunsero anche la funzione pubblica di controllo: attraverso gli organi territoriali preposti, accertavano che l’obbligo di avviamento al lavoro per il tramite degli uffici di collocamento fosse rispettato da tutti i lavoratori. Solo in casi di urgente necessità (allo scopo di evitare danni alle persone alle materie prime, o agli impianti) fu data facoltà ai datori di lavoro di assumere direttamente la mano d’opera con l’obbligo, però, di darne comunicazione entro tre giorni all’ufficio di collocamento competente. Successivamente, nel 1935, il Governo sancì un’ulteriore regola per gli imprenditori: la richiesta di manodopera non doveva essere più nominativa ma numerica, indispensabile ai fini di un’equa distribuzione del lavoro tra gli operai ed evitare qualsiasi rapporto di clientelismo. Per i datori di lavoro, tra l’altro, vigeva l’obbligo di denunciare entro 5 giorni, sempre presso gli uffici competenti per territorio e per categoria, i lavoratori che per qualsiasi motivo cessavano il rapporto di lavoro. Anche in questo caso l’azione dello Stato fu lungimirante: se il lavoratore veniva licenziato ingiustamente aveva facoltà di ricorrere presso la “Magistratura del Lavoro”, organo competente nella risoluzione delle controversie tra datore di lavoro e operai. Tutto questo cessò di esistere il 14 settembre 1944 quando il Governo Badoglio con il decreto n. 287 abolì tutte le leggi (comprese quelle anti-capolarato) che avevano preso forma nella Carta del Lavoro attuando la rivalsa del sistema liberale nei confronti di quello corporativo e ripristinando quel principio economico basato sull’espansione del singolo individuo – senza limitazioni di sorta pur di accrescere la propria ricchezza – anche a scapito della collettività e della giustizia sociale. Di Maria Giovanna Depalma.
In una circolare fascista la tutela dei lavoratori somali che i sindacati di oggi dovrebbero leggere, scrive Alberto Alpozzi il 29 maggio 2017 su Italiacoloniale.com. A Genale, poco a sud di Mogadiscio, quando la Somalia era chiamata italiana, vi era la sede dell’Azienda Agricola Sperimentale. Qui, negli ’20 e ’30 del ‘900, si trovava una vasta zona di concessioni agricole, sorrette dal Governo italiano. Le concessioni si estendevano su 30.000 ettari per la coltura del cotone, resa possibile dalla grande diga di sbarramento dell’Uebi Scebeli e dalle numerose canalizzazioni che il Regno d’Italia aveva realizzato. Vi si coltivavano, oltre al cotone, anche la canna da zucchero, il sesamo, il ricino, il granoturco, la palma, il capok e soprattutto le banane. La prima azienda sperimentale a Genale venne creata nel 1912 da Romolo Onor che vi condusse i primi studi tecnici ed economici sull’agricoltura in Somalia. Nel 1918, alla sua morte l’Azienda cadde in disgrazia e quasi abbandonata. Fu il primo Governatore fascista, il Quadrumviro della marcia su Roma, Cesare Maria de Vecchi di Val Cismon che ne intuì l’importanza e la risollevò, facendone un grosso centro di colonizzazione unico nel suo genere. Fu infatti il primo esperimento di colonizzazione sorretto totalmente dallo Stato, assegnando i terreni a coloni italiani. L’Ufficio Agrario e l’ufficio di Colonizzazione ordinavano e disciplinavano le concessioni e curavano e distribuivano l’acqua per l’irrigazione. Il Governatore de Vecchi fece studiare anche un nuovo sistema di irrigazione in derivazione del fiume Uebi Scebeli per distribuire omogeneamente l’acqua in tutto il comprensorio, facendo realizzare una nuova diga, lunga 90 metri, in sostituzione di quella vecchia ormai fatiscente. Insieme alla diga, inaugurata il 27 Ottobre 1926, vennero realizzati un nuovo canale principale di 7 chilometri e cinque secondari, creando complessivamente una rete di 55 chilometri di nuove canalizzazioni, insieme a 200 chilometri di strade camionabili terminate poi nel 1928. Parallelamente alle opere per l’irrigazione l’intero comprensorio, circa 18 mila ettari, venne indemaniato, inquadrato e colonizzato, suddividendolo in 83 concessioni divise in cinque zone. Ma come funzionava la manodopera nelle concessioni e quali erano le direttive del governatore fascista per gestire il comprensorio?
Così scriveva il de Vecchi in una CIRCOLARE del 14 GIUGNO 1926 (vedi “Orizzonti d’Impero”, Mondadori 1935, pagg. 320-327)indirizzata al Residente di Merca: “Le popolazioni indigene hanno risposto allo sforzo dello Stato con una ubbidienza, una disciplina ed uno slancio, di cui non si può a meno di tenere conto oggi ed in avvenire, quando si ricordi che appena poco più di due anni addietro il Governo stentava a mettere assieme in questa regione duecento uomini per il lavoro dei bianchi, che si rassegnavano a lasciar perire ogni impresa per la deficienza della mano d’opera, mentre oggi abbiamo al lavoro nella zona circa settemila persone, senza che mai avvenga il benché minimo incidente da parte delle masse lavoratrici, buone, serie e fedeli; si deve avere ragione di profondo compiacimento, sia per i risultati della politica compiuta, sia per il giudizio sulle popolazioni.” […] Molti dei concessionari, invece di comprendere tutto ciò e di sforzarsi di rimanere nella loro funzione, materialmente la più proficua senza dubbio, di parti di una grande macchina, sono portati da un male inteso individualismo, dominato da un egoismo gretto e da non poca protervia, a credersi ciascuno creatore, operatore e centro della risoluzione di un problema che invero è stato risolto soltanto dal dono fondamentale dell’acqua, della terra e della organizzazione delle braccia che la lavorano, e cioè della Stato per tutti. […] Il Governo ed il Governatore hanno un solo interesse: quello del popolo italiano e cioè quello di tutti. Ogni singolo è parte dello Stato. […] Ho riservata da ultima la questione delle mano d’opera. Ho detto più sopra che il Governo della Colonia ha creduto opportuno di organizzare e guidare questo servizio, ottenendo così quello che può essere ritenuto un miracolo in confronto ai convincimenti prima radicatasi in Colonia ed in Patria nella materia. La soluzione, così pronta e così ferma, del problema ha indotto la massima parte dei concessionari ad attendersi tutto dal Governo ed a credersi in diritto di pretendere che quegli vi provveda ora e sempre, secondo aliquote fisse o variabili createsi nella fantasia degli interessati. Avviene assai spesso di sentir parlare di “proprio spettanza”, di “propria mano d’opera”, di “assegnazione ordinaria o straordinaria”, di “gente che scappa”, di “forza presente”, come se ciascun bianco che arriva qui dall’Italia, per la semplice ragione di aver fatto un viaggio per mare e di aver ottenuto in uso un pezzo di terreno, avesse pieno diritto di tenere per forza al suo servizio un certo numero di indigeni e di pagarlo o non pagarlo se e come crede, e di trattarlo… come purtroppo è avvenuto. Non mi fermo sulla questione del trattamento limitandomi a ricordare che in Somalia vige per legge il Codice penale italiano per bianchi e neri; che il Giudice della Colonia conosce molto bene il suo dovere e che io sono fermamente deciso a non ammettere da chicchessia la benché minima violazione della legge. Ma la precisa informazione che qui intendo dare perché tutti la conoscano, si è che non tarderanno molto tempo ad essere emanate altre chiare disposizioni di legge protettive del lavoro e quindi della mano d’opera anche agricola nella intera Colonia, e che la organizzazione e l’impiego dell’ascendente enorme del Governo e del Governatore sugli indigeni hanno lo scopo umanitario, disciplinare e fascista di un graduale avviamento al lavoro di queste popolazioni, e non mai di qualsiasi coazione che crei larvate schiavitù o servitù della gleba, e meno che mai a semplice uso od abuso e servizio di privati.” Singolare come nessun libro di storia coloniale abbia mai ripreso questa circolare fascista, fascistissima, del 1926 del Governatore de Vecchi a tutela dei lavoratori somali, affinché non venissero sfruttati e maltrattati, che non si creasse una qualsivoglia forma di sfruttamento o di caporalato e che sottolineava come in Colonia vigesse il Codice Penale italiano e che era valido per bianchi e neri.
GIOVANI SENZA FUTURO PRIGIONIERI DI UNA POLITICA POPULISTA. I populisti ed i comunisti ogni giorno ci inondano di logorroiche dichiarazione miranti a portarci sull'orlo della povertà per tutti. Ogni rimedio è buono affinchè più poveri significa più schiavi. Il sostegno economico al sostentamento e la solidarietà ai poveri è un marchingegno per farli rimanere tali. Nessuno aiuta i poveri a farli diventare ricchi. Anzichè sussidi a pioggia, perchè lo Stato non sovvenziona, ma garantisce presso le banche i progetti d'impresa, affinchè il lavoro, più che cercarlo per sè, si inventa anche per gli altri?
Giovani senza futuro, élite più agguerrite, scrive Francesco Alberoni, Domenica 22/04/2018, su "Il Giornale". Quale futuro stiamo preparando? Già oggi le multinazionali che estendono il loro potere su decine di Paesi costringono i governi a piegarsi ai loro interessi. Esse, disponendo di enormi capitali, acquistano sul mercato le imprese più moderne e che danno maggiori profitti, privando i Paesi meno forti delle loro eccellenze. Nello stesso tempo alcune società multinazionali e i centri commerciali decentrati fanno chiudere i negozi tradizionali, impedendo in questo modo l'estrinsecazione delle straordinarie capacità artigianali e le raffinate creazioni delle piccole imprese. Questa trasformazione sta anche avendo un effetto negativo sui giovani lavoratori, sia maschi sia femmine. Prendiamo come esempio il caso delle migliaia di giovani che distribuiscono a domicilio i prodotti. Essi non guadagnano abbastanza per pagarsi un alloggio, sposarsi, fare programmi per il futuro. Se uno di loro fa questo lavoro a vent'anni cosa immaginerà di fare a 30, a 40, a 50? Continuerà a correre? La loro condizione è peggiore perfino di quello del minatore che perlomeno aveva una casa, dei figli e immaginava, al peggio, di continuare a fare il minatore finché non andava in pensione. In parallelo, una minoranza di giovani più agiata, più intraprendente, più creativa studia all'estero, trova lavori qualificati e in questo modo fa carriera ed entra nell'ingranaggio dell'élite che dirige la macchina economico finanziaria mondiale. Alcuni di loro hanno addirittura la prospettiva di diventare ricchissimi. Ma la gran massa dei precari, dei poveri, di chi non studia, di coloro che non possono immaginare il loro futuro continua ad aumentare. Il mondo si sta spaccando in un'élite di persone ricche e ricchissime e di tecnici superqualificati che danno gli ordini e una sterminata moltitudine di disoccupati e di sottoproletari condannati alla povertà, all'incertezza e all'ubbidienza. Non è mai successo nella storia che un'intera generazione venisse cosi schiacciata, asservita, privata del futuro. Oggi sono rassegnati, tranquilli, ma cosa sta maturando nel loro cervello?
Perché la Finlandia ha detto stop al reddito di cittadinanza. L'esperimento di Helsinki: 560 euro al mese a 2.000 disoccupati per due anni in cambio di nulla. Ma il governo ci ha ripensato, scrive Massimo Morici il 23 aprile 2018 su Panorama. Se in Italia il reddito di cittadinanza proposto dal M5S è ancora tra gli argomenti in cima all'agenda di una possibile futura maggioranza di governo che includa i pentastellati, in Finlandia, dove già qualcosa di simile esisteva, hanno deciso di fare dietrofront. Già, dalle parti di Helsinki è partita la campagna elettorale e la lotta alla disoccupazione, che nel 2015 ha raggiunto il picco del 10 per cento (oggi viaggia attorno all'8,5 per cento), e alle sfide poste dall'innovazione tecnologica al mondo del lavoro è uno dei cavalli di battaglia dell'attuale governo, guidato dal premier Juha Sipilä, leader del Partito di Centro di ispirazione liberale, in cerca di conferma alle elezioni che si terranno il prossimo anno in aprile.
Il premier c'ha ripensato. Sipilä, in alcune dichiarazioni riportate dall'Helsinki Times, ha detto quella che ormai è una banalità e cioè che con l'avvento delle nuove tecnologie "molti posti di lavoro spariranno", anche se se ne creeranno altri. Ovvio che in un campionato del genere vince chi eccelle sulla formazione: il premier ha ricordato che l'esperimento sul reddito di cittadinanza (in realtà si chiama basic income, reddito di base) è un "buon punto di partenza per lanciare questo tema in campagna elettorale". Non ha detto però se e come il governo intenderà proseguire su questa strada. Anzi, ha parlato volentieri di contrattazione locale e di incentivi fiscali per la formazione del personale delle imprese, soprattutto in un'ottica di espansione delle skills dei dipendenti, come strumenti per combattere la disoccupazione.
L'annuncio dell'Inps finlandese. La dichiarazione che sancisce la fine del programma, per lo meno quella ripresa da tutti i media internazionali, è invece quella rilasciata al quotidiano svedese Svenska Dagbladet da Miska Simanainen, un ricercatore del Kela, l'istituto finlandese per la sicurezza sociale, una sorta di Inps: "Al momento, il governo sta attuando delle modifiche che stanno allontanando il sistema dal reddito di cittadinanza". Simanainen nell'intevista ha fatto un po' pubblicità al progetto (e forse a se stesso), spiegando che due anni sono pochi per stabilire l'efficacia del provvedimento e che sarebbero necessari più tempo e maggiori risorse, allargando la platea agli occupati di fascia bassa.
L'esperimento fa già flop. Il test finlandese - perché di questo si trattava - è stato condotto su 2.000 disoccupati dai 28 ai 58 anni scelti a caso: i "fortunati" hanno ricevuto nel 2017 - e continueranno a ricevere fino alla fine dell'anno - 560 euro al mese senza alcun vincolo, cioè anche se hanno trovato o troveranno lavoro o se decidono di non fare nulla. La spesa per le casse dello Stato è stimata attorno a 20 milioni di euro. Helsinki avrebbe poi potuto estendere la misura agli occupati con salario minimo a partire da quest'anno, ma non l'ha fatto. I risultati saranno pubblicati nel 2019, ma non è detto: per ora è tutto congelato. Motivo? Fra un anno si torna alle urne e Sipilä (prudentemente) ha tirato il freno e si appresta a fare inversione a U. Il governo finlandese, infatti, aveva prima detto sì ai 560 euro al mese "senza vincolo", un'iniziativa che aveva attirato le attenzioni di tutto il mondo e ricevuto il plauso proprio da molti imprenditori dei settori più innovativi, tra cui Bill Gates e Mark Zuckerberg, che sono gli indiziati numero uno quando si parla di calo dell'occupazione, stando al noto teorema "computer sostituisce uomo". Ora il suo ministro delle finanze parla di un sistema di incentivi (fiscali e non) simili a quelli adottati nel Regno Unito per combattere la disoccupazione.
Gli obiettivi mancati. L'obiettivo dell'esperimento - come si legge sul sito di Kela - è (o meglio era) quello di garantire ai disoccupati un assegno di base per dedicare più tempo alla ricerca di un lavoro e agli occupati "insoddisfatti" una risorsa in più che li spingesse poi a cercare corsi di formazione per cambiare lavoro. L'assegno da 560 euro, per due anni e senza nulla in cambio, sarebbe secondo l'Inps finlandese un "forte incentivo occupazionale" e la risposta più innovativa del welfare finlandese agli attuali cambiamenti del mondo del lavoro, oltre che una semplificazione a livello burocratico del complesso sistema di aiuti del paese nordico.
Il cambio di rotta. Ma non sono pochi coloro che fanno notare che il cambio di orientamento del governo era già intuibile lo scorso dicembre, quando il parlamento finlandese ha alzato le condizioni di accesso ai benefit per disoccupati e lavoratori in difficoltà: chi ha uno stipendio non sufficiente per andare avanti, deve comunque dimostrare di lavorare come minimo 18 ore. Chi lo stipendio non ce l'ha, deve entrare in un programma di formazione di tre mesi con l'obbligo di trovare (e accettare) un impiego, altrimenti nisba. Proprio il contrario degli obiettivi dell'esperimento avviato lo scorso anno.
Disoccupazione, il circolo vizioso del sussidio: in Italia chi lo prende non cerca più lavoro. Una sperimentazione per aiutare 28 mila disoccupati a trovare un nuovo impiego ha ottenuto solo il 10 per cento di adesioni. Maurizio Del Conte, capo dell'Anpal che coordina i centro per l'impiego, non si arrende: «Il progetto è stato esteso a un milione di disoccupati. Vedremo chi si attiverà», scrive Gloria Riva il 12 aprile 2018 su "L'Espresso". Incassa il sussidio e nasconditi. L'italiano, quando perde il posto e accede agli ammortizzatori sociali, si guarda bene dal cercare un nuovo lavoro. È una questione culturale, è l'abitudine alle politiche passive del lavoro che rende complicato attivare in Italia sistemi di sostegno al reddito a pioggia, come potrebbe essere il reddito di cittadinanza proposto dal Movimento 5 Stelle. La conferma viene da una sperimentazione lanciata da Anpal, Agenzia nazionale per le politiche attive del Lavoro, creata a inizio 2017 e diretta da Maurizio Del Conte, professore di Diritto del Lavoro alla Bocconi di Milano. L'Anpal nasce non solo per rilanciare il sistema nazionale dei centri per l'impiego, ma anche per disegnare nuove strategie di sostegno alla ricerca di nuove opportunità professionali. L'ente ha avviato lo scorso anno una sperimentazione, coinvolgendo 28 mila disoccupati su una platea di circa 125 mila percettori di Naspi, l'indennità di disoccupazione introdotta dal Jobs Act. Ai soggetti selezionati - scelti con un sistema randomizzato e quindi estratti a caso su tutto il territorio nazionale - sono state inviate delle lettere per partecipare a un percorso di attivazione su misura con colloqui, corsi di formazione e un sistema di ricollocamento che prevedeva un premio compreso tra i 250 e i 5 mila euro euro per la società o il centro per l'impiego che fossero riuscite a trovare un lavoro alla persona. Il risultato? Solo 2.800 persone si sono presentate ai centri per l'impiego, vale a dire il 10 per cento degli aventi diritto. Un esito piuttosto magro, che Maurizio Del Conte prova a spiegare così: «Il dato più negativo di questa sperimentazione è stata sicuramente la bassa partecipazione al piano di attivazione al lavoro. Tendenzialmente abbiamo notato che la reazione delle persone coinvolte è stata quella di nascondersi, di non dare alcun seguito alla proposta offerta». In parte succede perché i percettori di disoccupazione sono lavoratori stagionali con contratto a termine e quindi non necessitano di un altro lavoro, ma attendono la ripartenza della stagione, facendo fronte ai periodi di inattività con i sussidi pubblici. Ma in generale «c'è un'assoluta impreparazione e una mancanza di tradizione all'idea che, quando si percepisce indennità, si possa e si debba ricercare attivamente un lavoro», spiega Del Conte, «abbiamo notato che le domande si sono concentrate verso la fine del periodo di copertura economica dell'assegno Naspi. Significa che, solo quando il sussidio economico sta per finire, allora alcune persone si attivano per valutare l'opportunità offerta dai centri per l'impiego. Questo non è buono, perché tutti gli studi concordano nel dire che più ci si allontana dal periodo di occupazione precedente, più è difficile trovare un nuovo lavoro». Il professore, più che puntare a un sussidio a pioggia - come quello ipotizzato dal Movimento 5 Stelle, che vorrebbe lanciare un sistema di sostegno al reddito a 360 gradi con il reddito di cittadinanza - avanza l'urgenza di lanciare un piano massivo di formazione culturale, perché vengano scardinate le cattive abitudini e si punti piuttosto a una immediata ricerca di lavoro, già dal giorno seguente della perdita del posto di lavoro. Il piano è già cominciato: infatti dal 3 aprile di quest'anno l'assegno di ricollocazione, cioè la sperimentazione descritta sopra, è stata esteso a tutte le persone disoccupate che percepiscono la Naspi da almeno quattro mesi, vale a dire a una platea di un milione di italiani. Fra qualche mese sarà possibile capire l'attitudine dei percettori di assegno di disoccupazione alla ricerca di un nuovo lavoro. «Estendendo il progetto, speriamo di raccogliere risultati molto diversi. Infatti nella sperimentazione alcuni lavoratori non si sono presentati perché non erano stati coinvolti i colleghi di lavoro, poiché non avevano ricevuto la lettera. L'effetto gruppo, invece, potrebbe invogliare molti a partecipare». Nella fase di sperimentazione, si è aggiunta la preoccupazione che, partecipando all'evento, si mettesse a rischio l'indennità di disoccupazione percepita: «Ma si tratta di una paura ingiustificata, perché il percorso di formazione e ricollocamento è un'opportunità in più e non toglie nulla», spiega Del Conte. L'assegno di ricollocazione, infatti, che varia dai 250 ai 5 mila euro a seconda della probabilità di occupabilità del disoccupato e della tipologia di contrato, viene versato all'ente che eroga il servizio di ricollocazione solo se riesce a trovare un posto al disoccupato. Il progetto, grazie a una nuova disposizione contenuta nella legge di bilancio, si potrà estendere anche ai lavoratori in cassa integrazione straordinaria. In questo caso sono state fatte altre sperimentazioni, concedendo ai percettori di cassa integrazione di mantenere parte dell'ammortizzatore sociale anche quando ha trovato una nuova opportunità di lavoro: qui l'86 per cento dei lavoratori ha aderito all'iniziativa. «Con Anpal abbiamo iniziato un'inversione di rotta dal punto di vista del messaggio da comunicare ai disoccupati e delle regole di ingaggio. C'è bisogno di far capire alle persone che il sussidio economico non è fine a se stesso, ma deve essere solo finalizzato alla ricerca di un nuovo lavoro. Il rischio, introducendo e ventilando l'ipotesi di un reddito di cittadinanza come lo vorrebbe il Movimento 5 Stelle è tornare a una logica assistenzialista, di dispensare denaro senza avere la possibilità di inserire queste persone nel mondo del lavoro. Perché oggi i centri per l'impiego non sarebbero in grado di far fronte ai volumi che potrebbero riversarsi lì». La fase due del jobs act, che doveva concentrarsi sullo sviluppo delle politiche attive, si è bloccata soprattutto a causa della vittoria del No al Referendum del 4 dicembre 2016, che non ha permesso ai centri per l'impiego territoriali di essere unificati sotto un unico ente nazionale. Al contrario restano vincolati alle specifiche leggi regionali, frammentando parecchio il sistema e rendendo complicato realizzare un unico database con le opportunità occupazionali del paese. Attualmente le persone che lavorano nei 550 centri per l'impiego nazionali sono 7.500, più 1.500 collaboratori. Poca cosa se confrontati con i 110 mila addetti alle politiche attive della Germania, i 70 mila del Regno Unito i 60 mila della Francia. «Nel panorama europeo siamo il paese meno avvezzo alle politiche attive. La nostra tradizione si basa solo sui sussidi di cassa integrazione, un modello oggi non più è sostenibile. Bisogna innanzitutto ripartire dai servizi di ricollocamento non solo potenziandoli, ma assumendo persone con professionalità e competenze». C'è ancora da affrontare il tema della condizionalità del sussidio: infatti nel Jobs Act esiste l'obbligo per il lavoratore di accettare l'offerta occupazione presentata dal centro per l'impiego, sempre che sia rispondente alla formazione e agli skill professionali della persone, pena il taglio del sussidio economico. «Il fatto che l'erogazione dell'assegno mensile sia condizionato all'accettazione del percorso lavorativo è una regola esistente già da molti anni. Tuttavia i casi di revoca del sussidio per mancata attivazione a causa del rifiuto del lavoratore sono rarissimi. Siccome il contributo proviene direttamente dallo Stato, non c'è nessuna pressione sul funzionario del centro per l'impiego a segnalare i casi di rifiuto all'Inps, che a sua volta dovrebbe adottare il provvedimento di revoca del sostegno economico stanziato. Questo sistema molto complesso ha reso pura teoria il principio di condizionalità. A tal proposito andrebbe ricostruito tutto il sistema decisionale della condizionalità, in modo da rendere automatico il taglio del sostegno economico in caso di rifiuto».
Reddito di cittadinanza, minimo, di inclusione: la giungla delle forme di contrasto alla povertà. In Italia esistono, a livello nazionale e locale, numerosi programmi per aiutare chi ha redditi bassi o nulli. A questi si aggiunge la proposta del Movimento 5 Stelle. Ecco una rassegna di tutte le sigle esistenti (che creano non poca confusione), scrive Gloria Riva il 29 marzo 2018 su "L'Espresso". Cinque anni fa l’Europa ha chiesto all’Italia di studiare un sistema per garantire un’esistenza dignitosa a tutti. Perché il nostro Paese, insieme alla Grecia, è l’unico nella Ue sprovvisto di una misura strutturale anti povertà. Un passo in questa direzione è costituito dal Rei, il Reddito di inclusione, approvato in autunno dal governo. Il Rei è un contributo già oggi versato a 500 famiglie e che dall’estate sarà destinato a un povero su due. Vale 1,7 miliardi e crescerà fino a tre miliardi nel 2020. È riservato per ora alle famiglie, con alcune specifiche condizioni (quelle numerose, con reddito inferiore a seimila euro, con minori a carico, con disabili, con donne in gravidanza etc). L’alternativa al Rei è la proposta dei Cinque Stelle: i 17 miliardi per quello che viene impropriamente chiamato reddito di cittadinanza ed è in realtà un reddito minimo condizionato, riservato ai disoccupati e revocabile se si rifiuta per tre volte un lavoro. Secondo Massimo Baldini, professore di Economia Pubblica all’Università di Modena, la proposta pentastellata è però sbagliata: «Oggi l’Italia destina 187 euro a ciascun povero, troppo poco se paragonati ai 500 euro della Francia. Ma i 780 euro del M5S sono troppi. E finirebbero per scoraggiare la ricerca di un posto di lavoro. L’assistenza economica dev’essere un incentivo all’attivazione, non una trappola», sostiene il professore. Il Rei tuttavia è considerato da molti una misura debole e per questo - in alcune Regioni e qualche Comune - è accompagnato da finanziamenti locali. Sono misure a macchia di leopardo, gestite in modo autonomo, che danno vita a un sistema complesso e farraginoso. L’economista Giovanni Gallo ha messo a confronto le sei misure regionali di reddito minimo: «Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Puglia, Sardegna, Valle d’Aosta e Molise, anche se quest’ultimo tentativo non è mai venuto alla luce».
In Emilia Romagna è stato istituto il Res, reddito di solidarietà, destinato anche ai single esclusi dal Rei nazionale. Le domande di accredito in Emilia sono state circa diecimila e sono stati stanziati fino a 400 euro a famiglia.
Il Friuli-Venezia Giulia nel 2015 ha avviato la Mia, Misura attiva di sostegno al reddito, dedicata a 14 mila famiglie che possono ricevere fino a 550 euro. Sia in Emilia sia in Friuli sono gli uffici comunali, insieme all’Inps a valutare i requisiti e decidere se intervenire con il Rei o con le misure locali, evitando doppioni e sprechi.
In Puglia dallo scorso anno c’è il Red, Reddito di dignità: 35 milioni per 20 mila famiglie, a cui spettano 400 euro mensili. Chi riceve il Red deve svolgere un tirocinio: «Tutti i sussidi regionali prevedono l’obbligo di attivazione sociale», spiega Gallo, che continua: «A chi non partecipa viene revocato il contributo». Nella pratica però poi è complicato togliere il sussidio.
A Livorno, ad esempio, unica città pentastellata in cui il sindaco Filippo Nogarin ha avviato una forma di reddito minimo, non tutti si sono dati da fare: «Qualcuno, grazie al contributo economico, è uscito dalla povertà perché, non dovendo pensare all’urgenza di sopravvivere, ha avuto modo di fare corsi di formazione, colloqui di lavoro, pensare a un’exit strategy. Altri, invece, non sono stati altrettanto dinamici, e sono quelli che continuano a chiedere aiuto», spiega il portavoce del Comune di Livorno, che ha stanziato 400 mila euro per 250 beneficiari e prevede nuove misure per quest’anno.
Si chiama Reis, Reddito di inclusione sociale, la misura introdotta in Sardegna che lo scorso anno è stata richiesta da 20.800 persone. Possono ottenerlo anche gli ex residenti sardi che tornano sull’isola e potrebbe quindi prestarsi al cosiddetto “turismo del welfare”. Il sussidio valdostano è invece destinato solo agli over 25enni e a chi ha lavorato per 365 giorni negli ultimi cinque anni.
Un altro caso è quello della Lombardia e del suo Reddito di autonomia: un insieme di bonus e sgravi per chi ha reddito inferiore ai 20 mila euro. Infine ci sono le città di Bari, Piacenza e Ragusa: anche loro hanno attivato un sistema simile al Rei.
Alla fine la mappa del welfare anti povertà appare oggi complicata. E per capirci qualcosa, i cittadini spiazzati di fronte alla babele dei sussidi finiscono per bussare alla porta dei Caf, i centri di consulenza dei sindacati.
Parafrasando il titolo del film di Totò: “Siamo uomini o caporali?” oggi si potrebbe adottare l’ossimoro “siamo sindacalisti o caporali? Questi due termini non possono definirsi in antitesi (in dicotemia) in quanto a differenza della figura retorica dell'antitesi, i due termini, sindacalisti o caporali, sono spesso incompatibili e uno di essi ha sempre una funzione determinante nei confronti dell'altro: si tratta quindi di una combinazione scelta deliberatamente da chi scrive o comunque stilisticamente non casuale, tale da creare un originale contrasto, ottenendo sorprendenti effetti stilistici di effettiva concretezza. Ciò sta significare che dietro scelte politiche, spinte da propagazioni mediatiche, e di conseguenza adozioni giuridiche, si nascondono interessi indicibili di casta.
Giudici di pace contro ANM su libertà sindacali e prerogative del Governo, scrive il 28 febbraio 2018 AgenPress. Inaccettabile interferenza di ANM sulle prerogative politiche del Governo e sulle libertà sindacali dei giudici di pace e dei magistrati onorari. Lascia sbalorditi il comunicato stampa rilasciato ieri dalla Giunta esecutiva centrale dell’ANM di “contrarietà alla proclamazione di prolungate astensioni dalle udienze da parte della magistratura onoraria” e di “dialogo su possibili modifiche della riforma”. In primo luogo rammentiamo ad ANM che la riforma della magistratura onoraria, scritta da magistrati fuori ruolo incardinati all’interno dei Ministeri, e fortemente voluta e sostenuta da ANM, addirittura con pareri di natura politica preclusi ad un organismo che dovrebbe rappresentare l’indipendenza della magistratura e non interferire sulle scelte politiche del Governo, è integralmente osteggiata dalla magistratura onoraria e di pace che ne chiede l’abrogazione ed il suo radicale ripensamento. Anche prescindendo dalla circostanza che, in una Paese democratico, il “dialogo su possibili modifiche alla riforma” non può certo prescindere dal coinvolgimento delle forze politiche e del potere legislativo ed esecutivo che esse rappresentano, neanche menzionate nel comunicato stampa ANM, ad ulteriore riprova dell’unilateralità delle scelte contenute nella contestata riforma, è gravissima l’affermazione di ANM che vorrebbe limitare le motivazioni della nostra protesta a ragioni di natura meramente economica. Noi stiamo scioperando da oltre un anno per garantire un migliore servizio Giustizia ai cittadini e preservare l’indipendenza dei giudici onorari e la loro professionalità, cancellate da una riforma che vorrebbe relegarci a mere “ancelle” dei magistrati di carriera, sia all’interno dell’ufficio del processo, sia negli uffici dei giudici di pace, dove saremmo assoggettati a loro direttive nell’esercizio della giurisdizione in aperta violazione della Costituzione, con la sostanziale cancellazione del giudizio di primo grado, appiattito sulla giurisprudenza dei Tribunali. Senza considerare la necessità ineludibile di un corretto inquadramento della magistratura onoraria nell’ambito dei principi fondamentali sanciti dall’ordinamento costituzionale e comunitario, previo riconoscimento della sussistenza di un rapporto di lavoro e di tutte le correlate tutele giuridiche, economiche e previdenziali, a partire dal diritto alla pensione e dal diritto alla retribuzione nei periodi di malattia, maternità, paternità, ferie, tutele fondamentali, anche a garanzia della dignità ed indipendenza della magistratura, neppure accennate nel comunicato ANM. Non sono certo i nostri scioperi, ma proprio il trattamento indecoroso riservato ai giudici di pace ed ai magistrati onorari ad attentare gravemente agli inviolabili diritti di Giustizia dei cittadini. Domani verrà convocato il direttivo nazionale congiunto dell’Unione Nazionale Giudici di Pace e dell’Associazione Nazionale Giudici di Pace per decidere sulla proclamazione immediata di un nuovo mese di sciopero da tenersi subito dopo le consultazioni elettorali.
Una squadra di 5500 giudici onorari pagati a gettone. La nuova inchiesta di PresaDiretta. Hanno costruito una carriera sul diritto, ma non hanno diritto a niente, scrive il 17/02/2018 "Huffingtonpost.it". Tribunale di Salerno, seconda sezione penale del giudice monocratico. Sulla porta dell'aula c'è l'elenco dei processi di questa mattina: 44, uno di seguito all'altro. Si inizia alle 9, si finisce quando si finisce. Elisabetta Barone da 17 anni svolge le funzioni di Pubblico Ministero come magistrato onorario, cosi come è previsto dalla Costituzione. Sostiene la pubblica accusa in dibattimento, esamina i testi, acquisisce prove, studia fascicoli. Fa insomma lo stesso lavoro ordinario di un magistrato. Ma per lo Stato italiano, la dottoressa Barone non è un magistrato ordinario. Anzi, per l'esattezza, il suo non è nemmeno un lavoro. Quelli come la dottoressa Barone dovevano essere dei sostituti temporanei, tre, massimo sei anni, ma passati più di 15 e loro sono ancora li: un esercito di 5500 precari. Tra viceprocuratori, giudici onorari e giudici di pace, sono oltre la metà dei magistrati professionali in servizio. Quando qualche settimana fa hanno scioperato, i tribunali monocratici si sono paralizzati. Pubblici ministeri e giudici che emettono sentenze in nome del popolo italiano, pagati a gettone: 98 euro lordi a udienza, cioè a giornata in aula. E non se ne fanno in media più di tre la settimana. Hanno costruito una carriera sul diritto, ma non hanno diritto a niente. Si lavora a mesi, a giornate, a settimane, a ore, la notte, la domenica, persino gratis. Il lavoro c'è ma nessuno lo vuole più pagare. A PresaDiretta poi l'ultima frontiera del precariato, la nuova economia dei "lavoretti", la gig economy. Un viaggio tra l'Italia e l'Inghilterra tra i lavoratori on demand. Dai fattorini ai rider, dagli autisti agli operai della logistica, ai tuttofare. Con "LAVORATORI ALLA SPINA" un viaggio di PresaDiretta nel mondo del precariato - sabato 17 febbraio alle 21.30 su Rai3, la prima di quattro puntate speciali in onda il sabato sera.
Un’inchiesta per raccontare cosa è veramente il precariato, scrive Presa Diretta. Dal 2008, anno di inizio della crisi, l'Italia ha recuperato 700mila posti di lavoro ma ha perso 1,3 miliardi di ore lavorate. Significa che ad aumentare sono i lavori part time, saltuari, precari, discontinui. Si lavora poco e si guadagna anche poco. La retribuzione media procapite in dieci anni ha perso 600 euro circa al mese e sono proprio i salari più bassi a perdere di più. Il traino dell'occupazione è sicuramente il tempo determinato. Finiti gli incentivi del governo infatti, il lavoro a termine ha conosciuto una crescita record, ma dura sempre meno: il 60 per cento dei contratti dura meno di un mese, il 26 per cento meno di tre giorni. Si lavora a mesi, a giornate, a settimane, a ore, la notte, la domenica, persino gratis. Il lavoro c’è ma nessuno lo vuole più pagare. Magistrati onorari a meno di 1000 euro al mese, avvocati a 600 euro, professori universitari a 3 euro e 60 l'ora. Tutto naturalmente senza ferie, senza tutele, senza pensione. Lavoro senza diritti. A PresaDiretta poi l’ultima frontiera del precariato, la nuova economia dei “lavoretti”, la gig economy. Un viaggio tra l’Italia e l’Inghilterra tra i lavoratori on demand, i cosiddetti lavoratori alla spina. Dai fattorini ai rider, dagli autisti agli operai della logistica, ai tuttofare. La gig economy concentra il grosso dei guadagni nelle mani dei pochi che possiedono la piattaforma e che trattengono una commissione da chi svolge la prestazione. Il lavoratore ci mette l’attrezzatura, il know how, i rischi e qualcuno in cambio di una commissione, offre la piattaforma su cui far incontrare la domanda con l’offerta. Assunzioni zero. E’ questo il futuro del lavoro? “LAVORATORI ALLA SPINA”, è un racconto di Riccardo Iacona con Lisa Iotti, Irene Sicurella, Raffaella Notariale.
Lavoratori alla spina: l’inchiesta di Presa diretta sul mondo del lavoro, scrive il 18 Febbraio 2018 "Infosannio". Il reportage di Lisa Iotti per Presa diretta ha attraversato il mondo del lavoro, dalla commessa all’insegnante universitario, ricostruendo la guerra che è oggi il mondo del lavoro. Mostrando il paradosso italiano: abbiamo recuperato 300 mila posti di lavoro ma meno ore di lavoro, è il lavoro precario, a giorni. Sono i lavoratori alla spina, pagati a ore.
Come Francesco Garofalo che prende 800 euro al mese e che per sopravvivere deve insegnare in tre università spostandosi in treno.
Elisabetta Barona magistrato onorario, pagata 98 euro ad udienza: senza malattia né previdenza.
C’è l’avvocato sfruttato in uno studio, senza essere pagata, solo provvigioni e rimborsi.
La commessa part time, Vanessa, trasferita a 150km di distanza per aver chiesto una domenica libera al mese.
Il rider che deve farsi intervistare senza mostrare il volto, per non essere licenziato: viene pagato a ore e la sua vita è gestita da un algoritmo.
È la nuova frontiera del lavoro? È questo il futuro? A me sembra tanto un passato di sfruttamento, dove le persone devono andare avanti di settimana in settimana. Tutto questo farà bene alle persone? E all’economia?
C’è un giudice a Londra. Un giudice a Londra ha stabilito che le persone non devono essere pagate a cottimo: Uber sfruttava i suoi dipendenti come nell’epoca vittoriana, ci stanno prendendo in giro – racconta l’avvocato che ha portato avanti la causa contro Uber. Questa è una decisione importante anche per l’Italia: le aziende della gig economy possono essere sfidate e si può vincere, per avere più diritti. Gli autisti non sono liberi professionisti, ma dipendenti che hanno diritto a pause, tutele e tutto il resto. Non siamo schiavi di Uber – parla un autista che lavora con Uber Pop. In 6 anni Uber è passata a 70mld di capitalizzazione, un boom che si basa su un algoritmo e sullo sfruttamento dei guidatori: Uber non ha mezzi, non spende nulla per la loro manutenzione. Tutto è a carico dei guidatori, costretti a lavorare a cottimo per guadagnare a sufficienza per sopravvive a Londra. Anche al rating per le votazioni delle persone che portano in giro per la città: più si abbassa il rating, più alto è il rischio di perdere il lavoro.
Gig economy = lavoro a singhiozzo. Con la Gig economy lavora 1 ml di persone in Inghilterra: sullo smartphone puoi trovare tutto, gente che ti lava la macchina per Go wash my car. La parola Gig è nuova, significa che tu metti la manodopera, metti i mezzi, la manutenzione e qualcun altro che fa da intermediario per i clienti, si prende la commissione. Senza fare altro.
C’è una app per trovare la manodopera per i lavoretti in casa, come Taskrabbit.
C’è una applicazione di bellezza, che ti manda una persona per farti le unghie, ad esempio.
C’è il fattorino che ti fa la commissione, il massaggiatore a casa, i designer a tua disposizione...
Gente che lavora come fosse un libero professionista, senza orari: sono più di 1 ml, ma il loro numero cresce di giorno in giorno, perché le piattaforme stanno crescendo. È il sogno dei capitalisti dell’800: niente fabbrica, niente dipendenti. Tutti liberi professionisti, con la spada di Damocle del rating. Niente obblighi per i lavoratori, niente paghe, niente pensioni, niente contributi. Tu, cliente, scegli il prezzo, che però a furia di concorrenza, sono paghe più basse.
L’ultima frontiera della ristorazione sono le dark kitchen: strutture chiuse con dentro i cuochi che cucinano per te, qualcuno porterà il cibo cucinato a casa. In Italia sono arrivate Deliveroo, Foodora, Just eat, Sgnam: un rider viene pagato 3,6 euro fino a 5 euro a consegna. Più consegni, più prendi: sempre con l’algoritmo che decide cosa, quando e dove.
È il nuovo capo del personale. Come Frank, l’algoritmo di Deliveroo: ogni rider è geolocalizzato e sa a chi affidare la consegna in un dato posto. Lavoratori prenotati tutto il giorno ma che possono fare consegne solo in pochi slot, nel giorno. Niente ferie, tanta disponibilità, nessun contratto: i lavoratori di Foodora lavorano perfino a cottimo, come nell’antico 800. Il salario è stato il superamento del cottimo – spiega un professore della Ca Foscari: è un modello che destabilizza il modello sociale perché toglie la possibilità di pianificare un futuro.
Il manager di Deliveroo, Matteo Sarzana. Il loro è un lavoro, dice il manager, però non può assumerli perché non esiste contratto per il tipo di lavoro: ma tutta la flessibilità rivendicata, nella realtà mostrata dal servizio non esiste.
E poi c’è il ranking, c’è l’algoritmo che misura l’efficienza il che può voler dire dover correre sulle due ruote. Non il massimo per la sicurezza: esiste una polizza, è vero, ma i massimali sono stati cancellati, prima di darli alla giornalista. Il kit consegnato ai dipendenti comprende anche il casco (comprato su Amazon): nel contratto del 2018 è prevista tutta l’attrezzatura standard, per lavorare in sicurezza. Non tutti i rider intervistati lo indossavano. Il casco di Deliveroo però, non ha la conformità per la normativa UE, le prove fatte dalla giornalista hanno poi avuto esito negativo: non sono caschi che passerebbero le normative UE.
Il processo di Torino. A Torino sei rider hanno fatto causa a Foodora per essere assunti (e non essere considerati liberi professionisti): sono difesi dall’avvocato Sergio Bonetto, esperto in diritto sul lavoro. La nostra normativa ha un buco: che differenza c’è tra i rider e i postini che consegnano le lettere via bici? Deliveroo Italia ha però scritto a Presa diretta dicendo che ha cambiato modello di casco, che verrà messo nel nuovo kit.
L’incontro col giornalista Staglianò: la gig economy vale miliardi di dollari, nel mondo – spiega il giornalista. Un modello di lavoro che cresce ad un ritmo elevato e che coinvolge milioni di persone: queste piattaforme funzionano per tutti i tipi di lavoro, introduce una concorrenza spietata, porta la concorrenza e il dumping sotto casa. Il programmatore italiano deve confrontarsi col programmatore indiano, che prende molti meno soldi.
Ma non è colpa dell’evoluzione tecnologica. Ci sono aziende che usano queste tecnologie ma che non sfruttano i propri dipendenti: come Laudrapp, che assume i propri lavoratori, anche i fattorini. E con un salario dignitoso, con ferie e malattie. Se si tagliano troppo i costi, si taglia la vita: il CEO dell’azienda ha deciso di assumere i lavoratori e ora la sua azienda si sta espandendo nel mondo, anche in Italia sta arrivando. Quando vi dicono che non si può fare altrimenti, che è il progresso, vi stanno mentendo: esiste un modo onesto di fare le cose. La tecnologia è neutra, tutto dipende dalla politica, dalla coscienza delle persone. La crescita di queste imprese si è sviluppata dopo la crisi in America: tante persone hanno perso il lavoro, creando un bacino di persone disposte a tutto.
L’intervista a Marta Fana. Dal pacchetto Treu al Jobs Act: tutta una serie di riforme sulla stessa linea, stravolgono il sistema delle relazioni nel lavoro. È il frutto di una scelta politica ben precisa: abbiamo recuperato 1 ml di lavoratori, ma con molte meno ore, significa che lavoriamo meno, con meno stipendi. Sono aumentati i lavoretti: il 65% dei nuovi occupati sono a termine con un contratto che dura meno di 1 mese. I salari sono diminuiti: è il grande ricatto della flessibilità, se non ti sta bene questo lavoro ci sono altre persone dietro che prenderanno il tuo posto. Il risultato? Nuovi poveri, anche tra chi lavora. Stiamo tornando indietro, anche nella concezione del lavoro: ti pago solo nel minuto in cui sei produttivo, nei tempi morti non ti pago.
Nella Gig economy rischiano di finirci tutti. Tribunale di Salerno: i processi li fanno anche magistrati onorari, come Elisabetta Barone. Fa tutto il lavoro di un magistrato, ma non è un magistrato ordinario, perché per la legge italiana il suo non è nemmeno un lavoro. È un lavoro temporaneo, un lavoretto, un’esperienza che dura da 20 anni. Anche per reati non minori come un omicidio colposo: senza i magistrati onorari la giustizia ordinaria non andrebbe avanti. Sono oltre la metà dei magistrati in servizio: pm e giudici pagati a gettone, 98 euro a giornata, indipendentemente da quanti processi hai fatto.
Niente malattia, previdenza. Niente. Non sono pagati per studiare a casa, per fare formazione. Nemmeno Giusi è pagata il giusto, nello studio di avvocato dove lavora: corre nelle aule dove ha udienza, finché non crolli. Ma non te lo puoi permettere: perché nello studio dove torna, deve scrivere gli appelli, studiare le carte. Pagata poco:550 euro al mese. Niente contratto, niente di stabilito. Nemmeno quante ore lavorare in un giorno.
E cosa dice l’ordine degli avvocati? Quante storie ha raccolto Lisa Iotti, da avvocati in tutta Italia. Gente mortificata dallo sfruttamento, dalla fatica, dall’impossibilità di vedere un futuro diverso. La legge del libero mercato anche qua: non esistono tariffe minime dal 2006, dalla riforma Bersani.
I tirocinanti: i tirocinanti devono lavorare gratis, perché inesperti, per i magistrati.
Lavorano e non sono pagati. E’ nato nel 2013, col decreto Del Fare, di Letta: serviva a velocizzare le pratiche e serviva ai tirocinanti per avere formazione. Ma è diventato un lavoro non retribuito: non prendono nemmeno i 400 euro, stabiliti per legge, perché i soldi del Ministero non bastano. Ogni giorno aumentano i tirocinanti nei Tribunali: anche questa è una nuova frontiera del lavoro. Persone che lavorano senza stipendio: non manca il lavoro in Italia, manca la voglia di pagarlo il lavoro.
Docenti o pendolari? Domenico Garofalo è un professore a contratto: deve lavorare in tre università, per poter guadagnare abbastanza per vivere. Pordenone, Bolzano e Milano: avanti e indietro per il nord del paese, 1281 km alla settimana, per arrivare a guadagnare 13mila euro in un anno. Domenico fa questa vita da 15 anni: viene pagato ad ore, come le colf. Non viene pagato per le tesi di laurea, per gli esami da seguire. Solo per le lezioni. Nonostante abbia alle spalle pubblicazioni anche in riviste internazionali. Che non ha copiato come alcuni ministri. “Arrivi alla sera con una disperazione addosso, perché sai che domani sarà uguale”: sono 25mila i professori a contratto, inventati dalla riforma Gelmini, servivano solo per tappare i buchi, come i tirocinanti e i magistrati ordinari.
E invece Maria Grazia Turri è un’altra docente a contratto: dallo Stato prende 3000 euro circa l’anno, sono 3 euro abbondanti all’anno. Una vergogna. Stanno distruggendo la dignità del lavoro. Mondo Convenienza ha battuto persino Ikea, nella vendita dei mobili: va bene grazie al lavoro degli addetti alle vendite, che hanno obiettivi giorno per giorno, sulla merce da vendere. Ogni addetto è dentro una classifica, con tanto di commenti, sia per chi sta in cima che per chi sta in fondo alle classifiche. Nelle sale relax, i dipendenti a termine devono vedere questa classifica: nemmeno in pausa pranzo possono sottrarsi dallo stress. Se sei in basso nelle vendite sei a rischio licenziamento: se sei produttivo, bene. Altrimenti il contratto non è rinnovato. E non si può dire di no nemmeno nel giorno di pausa. C’è un gioco, il Master Seller: è una scalata in cima ad una montagna, calcolata in base alla produttività dei venditori, con premi in denaro o in tempo libero. Perché queste persone, tutte, lavorano anche il sabato. Sempre: il sabato libero è un premio. A Prato due anni fa una venditrice di Mondo Convenienza ha chiesto alla Inail di vedersi riconosciuta la malattia, per lo stress accumulato dentro l’azienda. Per la competizione, per il forte oppressione da parte della dirigenza. Il direttore delle risorse umane parla di gamification, che chi sta in fondo alle classifiche non è licenziato, che hanno dei valori come lealtà e spirito d’iniziativa. E che non è colpa loro se il business si fa nel fine settimana. Nell’outlet fuori Roma: nel negozio di Kalvin Klein si trovano solo part time, che lavorano sei giorni su sette, per 24 ore. Qui lavorava Valeria Ferrara: è stata allontanata dall’azienda (un punto vendita lontano di 50 km) perché ha chiesto una domenica libera al mese. Per stare a fianco al bimbo, che ha meno di tre anni, come spetterebbe per legge. Per aver rivendicato un diritto, sente di essere stata punita, Valeria: oggi si viene puniti per aver chiesto una domenica al mese.
Un lavoro senza diritti. L’udienza per la causa è fissata per marzo 2019. Tutto è nato con le liberalizzazione di Monti: le aziende possono tenere aperti tutti i giorni, anche nei festivi. Una volta c’erano le domeniche di dicembre, che erano pagate lautamente: oggi le domeniche sono giorni come gli altri. Contratti part time, con ore sparse nella giornata, con orari stabiliti all’ultimo minuto, rendendo difficile alle persone organizzarsi su più lavori. “Siamo tornati dietro di un secolo” racconta un sindacalista della USB “sono condizioni simili alla schiavitù”: come al Carrefour, di notte, dove lavorano gli scaffalisti delle cooperative. Qui trovi lavoratori sotto tutela e lavoratori stranieri in fondo alla catena. Carrefour paga una miseria per queste persone che, lavorando di notte, dovrebbero prendere una maggiorazione notturna. Perché Carrefour è aperta anche di notte: il fatturato è aumentato del 10-15%. Ma paga gli scaffalisti 4-5 euro l’ora, tutta la notte, alle cooperative. Ti dicono che se non lavori è colpa tua. Che se non accetti un lavoro per pochi euro l’ora, non ha veramente bisogno di lavoro.
Mi fa paura questa crudeltà...Sono le parole di una ragazza, di 30 anni, ancora in cerca di un lavoro. I posti di lavoro si pesano, dice Staglianò: i lavoratori a termine guadagnano di meno, hanno meno tutele, non possiamo considerare il lavoro solo un numero. Come fanno i signori del jobs act: ha creato occupazione solo per i sussidi, finiti i quali sono cresciuti solo i contratti a termine. Ma tutto questo non vale per i difensori della flessibilità, come Sacconi. Sono i tempi, serve la flessibilità, finché c’è insicurezza nel futuro, finché l’economia non tira...Per finire con una frase incredibile: meglio seicento euro che niente. Sbaglia Sacconi e sbagliano i talebani della flessibilità: impoverendo il lavoro si impoverisce la società, la classe media in particolare. Si inceppa l’economia, perché la gente non può spendere.
L’economia robotizzata di Amazon. Lisa Iotti ha intervistato Roy Perticucci, vice presidente di Amazon. In Amazon ci sono i robot per fare i magazzinieri, nei magazzini: il braccialetto brevettato dall’azienda servirebbe a minimizzare le inefficienze, i secondi persi per completare gli ordini. Ogni secondo deve essere profittevole. Ma Amazon crea posti di lavoro, dicono. Ma quanti posti di lavoro si sono persi? E quante tasse non pagate, per gli accordi particolari stipulati con paesi come il Lussemburgo?
AirBNB paga 83mila euro di tasse in Francia. Apple in Irlanda paga tasse in termini di decimali. C’è ancora, nelle idee di Amazon, spazio per gli umani (intendo, non consumatori)? Cosa condividono Uber, Amazon, Airbnb col resto del mondo? – Staglianò a Iacona. Un mondo di salari bassi, che durerà per quanti anni ancora?
Lavoro gratis e senza certezze per gli aspiranti giudici di pace. Una prospettiva deprimente per gli oltre 100 mila che hanno risposto all’appello del Csm, scrive Manuela D'Alessandro l'1 marzo 2018 su "Agi". Almeno sei mesi di lavoro gratis e senza la certezza di diventare magistrati onorari. Una prospettiva deprimente per gli oltre 100 mila, finora, che hanno risposto all’appello del Csm rivolto agli aspiranti giudici di pace e viceprocuratori onorari in diversi distretti giudiziari, tra cui Milano. In tanti protestano nelle chat dei candidati anche perché della gratuità non si parla nel bando ma viene ‘nascosta’ in un articolo del decreto legislativo che fissa i principi sul conferimento degli incarichi (“Ai magistrati onorari in tirocinio non spetta nessuna indennità”). Le regole del gioco prevedono che verrà stilata una graduatoria per titoli (tra i plus, per la prima volta, la giovane età) e saranno individuati 600 nominativi da avviare al tirocinio, al termine del quale ne saranno scelti solo 400 (300 giudici di pace e 100 vice procuratori). Agli altri 200 un bel ‘grazie e saluti’ per essersi messi sulla spalle il gigantesco peso della giustizia minuta. Ma non è finita. Una volta nominate, le toghe onorarie potranno lavorare al massimo due giorni alla settimana – meno che in passato per contenere i costi -, mentre per il tirocinio saranno impegnate verosimilmente dal lunedì al venerdì in quello che un candidato definisce “un aiuto gratuito ai giudici del Tribunale”, da aggiungersi alle 30 ore di corso previste dal bando. Gli avvocati interessati, la cui professione garantisce punti in graduatoria, fanno notare che un tirocinio così impegnativo non gli consentirebbe di svolgere la professione in quei sei mesi, e questo, va di nuovo sottolineato, senza nessuna garanzia di entrare nei magnifici 400 pagati poi poche centinaia di euro.
Ministero di (in)Giustizia: gli aspiranti giudici di pace costretti a fare 6 mesi di stage gratis, scrive Alberto Marzocchi il 9/3/2018 su "businessinsider.com". Il Ministero di (in)Giustizia colpisce ancora. Dopo il caso dei 1.300 tirocinanti di procure della Repubblica e tribunali, che hanno lavorato gomito a gomito con magistrati per 18 mesi senza vedere il becco di un quattrino, ora tocca agli aspiranti giudici onorari di pace, a cui toccano sei mesi di stage gratuito. Cosa hanno in comune le due categorie? Semplice: sono composte da giovani neolaureati (nel secondo caso anche da avvocati abilitati) il cui impegno, non riconosciuto, permette al sistema giuridico italiano di reggere sotto il peso di faldoni, sentenze da scrivere, ricorsi e udienze. Il bando è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale col riferimento alle 26 Corti d’Appello in cui è possibile presentare la domanda, e scadrà il 15 di marzo. La selezione viene svolta per titoli, è necessario avere una laurea in giurisprudenza e almeno 27 anni. I posti per diventare giudice onorari di pace sono 300, mentre quelli per vice procuratore onorario sono 100. Del compenso, ovviamente, nei dodici articoli del documento, non c’è traccia. Per sapere che il tirocinio è gratuito bisogna andare a pescarsi il decreto legislativo n.116, 13 luglio 2017, dove si dice, chiaramente, “ai magistrati onorari in tirocinio non spetta alcuna indennità”. E il problema, che abbiamo verificato contattando alcuni aspiranti candidati, è che non tutti sono a conoscenza della gratuità del periodo di prova. “Davvero? Allora ritiro la domanda” ci è stato risposto. Ma non finisce qui. Perché, dopo i sei mesi di tirocinio, non è detto che si raggiunga il titolo. Il magistrato togato a cui si viene assegnati, infatti, può decidere che l’aspirante giudice onorario (o vice procuratore) non è idoneo. Non a caso, al tirocinio, accederanno 600 persone (quindi più dei 400 posti offerti dal concorso). A Milano, ad alzare la voce ci pensa l’Associazione Articolo 73, nata lo scorso anno proprio per aggregare i tirocinanti degli uffici giudiziari, e che si è battuta perché le borse di studio venissero erogate a tutti: “Siamo dell’idea che vada riconosciuto un compenso – esordisce Marco Guidi – il fatto grave di questo bando è che sia rivolto a chi ha più di 27 anni. Cioè, paradossalmente, a persone con più titoli ed esperienza di un neolaureato. Se uno non è riuscito a mettere da parte dei soldi non può affrontare sei mesi di lavoro gratuito. A meno che non ci sia una famiglia che lo sostiene. E qui si arriva al paradosso per cui questa strada la può intraprendere soltanto chi ha le spalle coperte”.
E il gioco, alla fine, vale la candela? Non esattamente. Da anni le associazioni dei magistrati onorari lamentano una situazione di precarietà: stipendi bassi, zero tutele in caso di malattia, infortuni o gravidanza. Secondo i dati forniti dal CSM (relativi al 2016) i giudici onorari in servizio sono, in tutto, 7.184. Un bel numero, se si tiene conto che i togati (magistrati ordinari) sono 8.619. Senza il loro lavoro, in pratica, il sistema giustizia collasserebbe. Eppure, a fronte degli sforzi, l’indennità prevista, sempre dal decreto legislativo approvato lo scorso anno, è di 16.140 euro lordi all’anno, a cui si aggiunge una parte variabile di circa 3-4 mila euro. L.S. ha 28 anni ed è una delle tante aspiranti giudici onorarie. Dopo aver preso la laurea in giurisprudenza a Roma, nel 2014, ha conseguito la pratica forense obbligatoria (e gratuita nella maggior parte d’Italia) di 18 mesi presso uno studio legale. Nel frattempo si è iscritta a una Scuola di specializzazione per professioni legali, della durata di due anni, con una retta di 2.500-3mila euro all’anno. Nel marzo del 2016, ha iniziato altri 18 mesi di tirocinio gratuito alla Corte d’Appello di Roma. Ora è praticante avvocato abilitato. “Lavoro a tempo pieno nello studio legale e diventare giudice onorario di pace, per quanto mi riguarda, costituirebbe una sorta di integrazione al reddito. Purtroppo, lavorando già a Roma, dovrò fare domanda in un altro distretto per evitare l’incompatibilità territoriale. Pensavo a Firenze o Napoli”. Quindi un treno da prendere almeno una volta alla settimana, più il pernottamento fuori: “Sì, dovrei farcela. Mi porterò il lavoro con me durante i trasferimenti. Il fatto che non ci sia un compenso durante i sei mesi di tirocinio mi pesa, parecchio. Anche perché avrò molte spese da affrontare. E poi diciamolo: alla fine, se si viene nominati magistrati onorari, lo stipendio è una miseria. È un lavoro molto serio che prevede grandi responsabilità”. Ma forse al Ministero di (in)Giustizia non se ne sono accorti. O fingono di non accorgersene.
Giudici di pace 2018: ecco lo stipendio annuale e tutti i dettagli sul tirocinio. Aspiranti giudici di pace costretti: verranno pagati i 6 mesi di stage?, scrive I. M.V., Esperto di Lavoro, Autore della news (Curata da Massa Maria Francesca). Pubblicato il 11/03/2018 su Blasting News. Dopo l’aggiornamento sui concorsi pubblici riservati agli economisti e ai giuristi ecco in questo articolo un focus sul periodo di formazione previsto dopo il superamento del concorso pubblico per 400 giudici di Pace bandito dal Ministero della Giustizia il 15 febbraio. Più precisamente 300 posti sono per i giudici onorari di pace e 100 sono per i vice procuratori onorari. Il relativo bando è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale con riferimento alle 26 Corti d’Appello in cui è possibile presentare la domanda esclusivamente in forma telematica entro il 15 marzo. Requisito principale è il possesso della laurea in giurisprudenza. Costituiscono titoli preferenziali [VIDEO] dopo la formazione della graduatoria, l'aver esercitato il ruolo di dirigente, nelle cancellerie nelle segreterie giudiziarie o l’aver svolto la professione di docente in materie giuridiche o, ancora, quella di avvocato o di notaio. L’incarico dura 4 anni e può essere confermato una sola volta per altri 4 anni. Il magistrato onorario deve osservare i doveri previsti per i magistrati ordinari.
Formazione giudici di pace: tirocinio di 6 mesi non retribuito. Dopo il superamento del concorso, i vincitori devono sapere che saranno sottoposti ad un periodo di prova di 6 mesi. Ai magistrati onorari in tirocinio non spetta alcuna indennità. Dopo i 6 mesi di tirocinio, non è neanche detto che si raggiunga il titolo comunque. Spetta infatti al magistrato togato a cui si viene assegnati, decidere se l’aspirante giudice onorario (o vice procuratore) è o meno idoneo. Sono 600 le persone vincitrici che accederanno al tirocinio, mentre le persone ritenute idonee sono solo 400. Ciò significa che 200 aspiranti giudici saranno mandati a casa. Coloro che quindi vogliono intraprendere tale carriera e che sono già avvocati o praticanti abilitati devono sapere oltre al fatto che non è previsto un compenso durante i sei mesi di tirocinio, che lo stipendio previsto per i giudici onorati non è poi così alto. Non è un caso infatti che le associazioni dei magistrati onorari contestano stipendi ed indennità non adeguati al lavoro che ogni giorno svolgono non solo nelle aule di udienza ma anche che si portano a casa. Stipendi bassi cui si aggiungono le scarse tutele in caso di gravidanza, infortuni, malattia. L’indennità si aggira intorno ai 16.140 euro lordi all’anno, a cui si deve aggiunge (per fortuna) una parte variabile di circa 3-4 mila euro. Ecco quindi che tali associazioni di categoria auspicano un adeguamento delle indennità al costo della vista visto che senza il lavoro dei giudici onorari il sistema giustizia andrebbe seriamente in crisi. Secondo i dati forniti dal Consiglio Superiore della Magistratura i giudici onorari in servizio sono, in tutto, 7.184.Un bel numero, mentre i togati sono poco di più ovvero 8.619. #Concorso pubblico per 400 giudici di pace #stipendio giudici di pace.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
La legalità è un comportamento conforme alla legge. Legalità e legge sono facce della stessa medaglia.
Nei regimi liberali l’azione normativa per intervento statale, per regolare i rapporti tra Stato e cittadino ed i rapporti tra cittadini, è limitata. Si lascia spazio all’evolvere naturale delle cose. La devianza è un’eccezione, solo se dannosa per l'equilibrio sociale.
Nei regimi socialisti/comunisti/populisti l’intervento statale è inflazionato da miriadi di leggi, oscure e sconosciute, che regolano ogni minimo aspetto della vita dell’individuo, che non è più singolo, ma è massa. Il cittadino diventa numero di pratica amministrativa, di cartella medica, di fascicolo giudiziario. Laddove tutti si sentono onesti ed occupano i posti che stanno dalla parte della ragione, c’è sempre quello che si sente più onesto degli altri, e ne limita gli spazi. In nome di una presunta ragion di Stato si erogano miriadi di norme sanzionatrici limitatrici di libertà, spesso contrastati, tra loro e tra le loro interpretazioni giurisprudenziali. Nel coacervo marasma normativo è impossibile conformarsi, per ignoranza o per necessità. Ne è eccezione l'indole. Addirittura il legislatore è esso medesimo abusivo e dichiarato illegittimo dalla stessa Corte Costituzionale, ritenuto deviante dalla suprema Carta. Le leggi partorite da un Parlamento illegale, anch'esse illegali, producono legalità sanzionatoria. Gli operatori del diritto manifestano pillole di competenza e perizia pur essendo essi stessi cooptati con concorsi pubblici truccati. In questo modo aumentano i devianti e si è in pochi ad essere onesti, fino alla assoluta estinzione. In un mondo di totale illegalità, quindi, vi è assoluta impunità, salvo l'eccezione del capro espiatorio, che ne conferma la regola. Ergo: quando tutto è illegale, è come se tutto fosse legale.
L’eccesso di zelo e di criminalizzazione crea un’accozzaglia di organi di controllo, con abuso di burocrazia, il cui rimedio indotto per sveltirne l’iter è la corruzione.
Gli insani ruoli, politici e burocratici, per giustificare la loro esistenza, creano criminali dove non ne esistono, per legge e per induzione.
Ergo: criminalizzazione = burocratizzazione = tassazione-corruzione.
Allora, si può dire che è meglio il laissez-faire (il lasciare fare dalla natura delle cose e dell’animo umano) che essere presi per il culo e …ammanettati per i polsi ed espropriati dai propri beni da un manipolo di criminali demagoghi ed ignoranti con un’insana sete di potere.
Prendiamo per esempio il fenomeno cosiddetto dell'abusivismo edilizio, che è elemento prettamente di natura privata. I comunisti da sempre osteggiano la proprietà privata, ostentazione di ricchezza, e secondo loro, frutto di ladrocinio. Sì, perchè, per i sinistri, chi è ricco, lo è perchè ha rubato e non perchè se lo è guadagnato per merito e per lavoro.
Il perchè al sud Italia vi è più abusivismo edilizio (e per lo più tollerato)? E’ presto detto. Fino agli anni '50 l'Italia meridionale era fondata su piccoli borghi, con case di due stanze, di cui una adibita a stalla. Paesini da cui all’alba si partiva per lavorare nelle o presso le masserie dei padroni, per poi al tramonto farne ritorno. La masseria generalmente non era destinata ad alloggio per i braccianti.
Al nord Italia vi erano le Cascine a corte o Corti coloniche, che, a differenza delle Masserie, erano piccoli agglomerati che contenevano, oltre che gli edifici lavorativi e magazzini, anche le abitazioni dei contadini. Quei contadini del nord sono rimasti tali. Terroni erano e terroni son rimasti. Per questo al Nord non hanno avuto la necessità di evolversi urbanisticamente. Per quanto riguardava gli emigrati bastava dargli una tana puzzolente.
Al Sud, invece, quei braccianti sono emigrati per essere mai più terroni. Dopo l'ondata migratoria dal sud Italia, la nuova ricchezza prodotta dagli emigranti era destinata alla costruzione di una loro vera e bella casa in terra natia, così come l'avevano abitata in Francia, Germania, ecc.: non i vecchi tuguri dei borghi contadini, nè gli alveari delle case ringhiera o dei nuovi palazzoni del nord Italia. Inoltre quei braccianti avevano imparato un mestiere, che volevano svolgere nel loro paese di origine, quindi avevano bisogno di costruire un fabbricato per adibirlo a magazzino o ad officina. Ma la volontà di chi voleva un bel tetto sulla testa od un opificio, si scontrava e si scontra con la immensa burocrazia dei comunisti ed i loro vincoli annessi (urbanistici, storici, culturali, architettonici, archeologici, artistici, ambientali, idrogeologici, di rispetto, ecc.), che inibiscono ogni forma di soluzione privata. Ergo: per il diritto sacrosanto alla casa ed al lavoro si è costruito, secondo i canoni di sicurezza e di vincoli, ma al di fuori del piano regolatore generale (Piano Urbanistico) inesistente od antico, altrimenti non si potrebbe sanare con ulteriori costi sanzionatori che rende l’abuso antieconomico. Per questo motivo si pagano sì le tasse per una casa od un opificio, che la burocrazia intende abusivo, ma che la stessa burocrazia non sana, nè dota quelle costruzioni, in virtù delle tasse ricevute e a tal fine destinate, di infrastrutture primarie: luce, strade, acqua, gas, ecc.. Da qui, poi, nasce anche il problema della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti. Burocrazia su Burocrazia e gente indegna ed incapace ad amministrarla.
Per quanto riguarda, sempre al sud, l'abusivismo edilizio sulle coste, non è uno sfregio all'ambiente, perchè l'ambiente è una risorsa per l'economia, ma è un tentativo di valorizzare quell’ambiente per far sviluppare il turismo, come fonte di sviluppo sociale ed economico locale, così come in tutte le zone a vocazione turistica del mediterraneo, che, però, la sinistra fa fallire, perchè ci vuole tutti poveri e quindi, più servili e assoggettabili. L'ambientalismo è una scusa, altrimenti non si spiega come al nord Italia si possa permettere di costruire o tollerare costruzioni alle pendici dei monti, o nelle valli scoscese, con pericolo di frane ed alluvioni, ma per gli organi di informazione nazionale, prevalentemente nordisti e razzisti e prezzolati dalla sinistra, è un buon viatico, quello del tema dell'abusivismo e di conseguenza della criminalità che ne consegue, o di quella organizzata che la si vede anche se non c'è o che è sopravalutata, per buttare merda sulla reputazione dei meridionali.
Prima della rivoluzione francese “L’Ancien Régime” imponeva: ruba ai poveri per dare ai ricchi.
Erano dei Ladri!!!
Dopo, con l’avvento dei moti rivoluzionari del proletariato e la formazione ideologica/confessionale dei movimenti di sinistra e le formazioni settarie scissioniste del comunismo e del fascismo, si impose il regime contemporaneo dello stato sociale o anche detto stato assistenziale (dall'inglese welfare state). Lo stato sociale è una caratteristica dei moderni stati di diritto che si fondano sul presupposto e inesistente principio di uguaglianza, in quanto possiamo avere uguali diritti, ma non possiamo essere ritenuti tutti uguali: c’è il genio e l’incapace, c’è lo stakanovista e lo scansafatiche, l’onesto ed il deviante. Il capitale di per sé produce reddito, anche senza il fattore lavoro. Lavoro e capitale messi insieme, producono ricchezza per entrambi. Il lavoro senza capitale non produce ricchezza. Il ritenere tutti uguali è il fondamento di quasi tutte le Costituzioni figlie dell’influenza della rivoluzione francese: Libertà, Uguaglianza, Solidarietà. Senza questi principi ogni stato moderno non sarebbe possibile chiamarlo tale. Questi Stati non amano la meritocrazia, né meritevoli sono i loro organi istituzionali e burocratici. Il tutto si baratta con elezioni irregolari ed a larga astensione e con concorsi pubblici truccati di cooptazione. In questa specie di democrazia vige la tirannia delle minoranze. L’egualitarismo è una truffa. E’ un principio velleitario detto alla “Robin Hood”, ossia: ruba ai ricchi per dare ai poveri.
Sono dei ladri!!!
Tra l’antico regime e l’odierno sistema quale è la differenza?
Sempre di ladri si tratta. Anzi oggi è peggio. I criminali, oggi come allora, saranno coloro che sempre si arricchiranno sui beoti che li acclamano, ma oggi, per giunta, ti fanno intendere di fare gli interessi dei più deboli.
Non diritto al lavoro, che, come la manna, non cade dal cielo, ma diritto a creare lavoro. Diritto del subordinato a diventare titolare. Ma questo principio di libertà rende la gente libera nel produrre lavoro e ad accumulare capitale. La “Libertà” non è statuita nell’articolo 1 della nostra Costituzione catto comunista. Costituzioni che osannano il lavoro, senza crearne, ma foraggiano il capitale con i soldi dei lavoratori.
Le confessioni comuniste/fasciste e clericali ti insegnano: chiedi e ti sarà dato e comunque, subisci e taci!
Io non voglio chiedere niente a nessuno, specie ai ladri criminali e menzogneri, perché chi chiede si assoggetta e si schiavizza nella gratitudine e nella riconoscenza.
Una vita senza libertà è una vita di merda…
Cultura e cittadinanza attiva. Diamo voce alla piccola editoria indipendente.
Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Una lettura alternativa per l’estate, ma anche per tutto l’anno. L’autore Antonio Giangrande: “Conoscere per giudicare”.
"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI.
La collana editoriale indipendente “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” racconta un’Italia inenarrabile ed inenarrata.
È così, piaccia o no ai maestrini, specie quelli di sinistra. Dio sa quanto gli fa torcere le budella all’approcciarsi del cittadino comune, ai cultori e praticanti dello snobismo politico, imprenditoriale ed intellettuale, all’élite che vivono giustificatamente separati e pensosi, perennemente con la puzza sotto il naso.
Il bello è che, i maestrini, se è contro i loro canoni, contestano anche l’ovvio.
Come si dice: chi sa, fa; chi non sa, insegna.
In Italia, purtroppo, vigono due leggi.
La prima è la «meritocrazia del contenuto». Secondo questa regola tutto quello che non è dichiaratamente impegnato politicamente è materia fecale. La conseguenza è che, per dimostrare «l'impegno», basta incentrare tutto su un contenuto e schierarsene ideologicamente a favore: mafia, migranti, omosessualità, ecc. Poi la forma non conta, tantomeno la realtà della vita quotidiana. Da ciò deriva che, se si scrive in modo neutro (e quindi senza farne una battaglia ideologica), si diventa non omologato, quindi osteggiato o emarginato o ignorato.
La seconda legge è collegata alla prima. La maggior parte degli scrittori nostrani si è fatta un nome in due modi. Primo: rompendo le balle fin dall'esordio con la superiorità intellettuale rispetto alle feci che sarebbero i «disimpegnati».
Secondo modo per farsi un nome: esordire nella medietà (cioè nel tanto odiato nazional-popolare), per poi tentare il salto verso la superiorità.
Il copione lo conosciamo: a ogni gaffe di cultura generale scatta la presa in giro. Il problema è che a perderci sono proprio loro, i maestrini col ditino alzato. Perché è meno grave essere vittime dello scadimento culturale del Paese che esserne responsabili. Perché, nonostante le gaffe conclamate e i vostri moti di sdegno e scherno col ditino alzato su congiuntivi, storia e geografia, gli errori confermano a pieno titolo come uomini di popolo, gente comune, siano vittime dello scadimento culturale del Paese e non siano responsabili di una sub cultura menzognera omologata e conforme. Forse alla gente comune rompe il cazzo il sentire le prediche e le ironie di chi - lungi dall’essere anche solo avvicinabile al concetto di élite - pensa di saperne un po’ di più. Forse perché ha avuto insegnanti migliori, o un contesto famigliare un po’ più acculturato, o il tempo di leggere qualche libro in più. O forse perchè ha maggior dose di presunzione ed arroganza, oppure occupa uno scranno immeritato, o gli si dà l’opportunità mediatica immeritata, che gli dà un posto in alto e l’opportunità di vaneggiare.
Non c'è nessun genio, nessun accademico tra i maestrini. Del resto, mai un vero intellettuale si permetterebbe di correggere una citazione errata, tantomeno di prenderne in giro l'autore. Solo gente normale con una cultura normale pure loro, con una alta dose di egocentrismo, cresciuti a pane, magari a videocassette dell’Unità di Veltroni e citazioni a sproposito di Pasolini. Maestrini che vedono la pagliuzza negli occhi altrui, pagliuzza che spesso non c'è neppure, e non hanno coscienza della trave nei loro occhi o su cui sono appoggiati.
Intervista all’autore, il dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
«Quando ero piccolo a scuola, come in famiglia, mi insegnavano ad adempiere ai miei doveri: studiare per me per sapere; lavorare per la famiglia; assolvere la leva militare per la difesa della patria; frequentare la chiesa ed assistere alla messa domenicale; ascoltare i saggi ed i sapienti per imparare, rispettare il prossimo in generale ed in particolare i più grandi, i piccoli e le donne, per essere rispettato. La visita giornaliera ai nonni ed agli zii era obbligatoria perché erano subgenitori. I cugini erano fratelli. Il saluto preventivo agli estranei era dovuto. Ero felice e considerato. L'elargizione dei diritti era un premio che puntuale arrivava. Contava molto di più essere onesti e solidali che non rivendicare o esigere qualcosa che per legge o per convenzione ti spettava. Oggi: si pretende (non si chiede) il rispetto del proprio (e non dell'altrui) diritto, anche se non dovuto; si parla sempre con imposizione della propria opinione; si fa a meno di studiare e lavorare o lo si impedisce di farlo, come se fosse un dovere, più che un diritto; la furbizia per fottere il prossimo è un dono, non un difetto. Non si ha rispetto per nessun'altro che non sia se stesso. Non esiste più alcun valore morale. Non c'è più Stato; nè Famiglia; nè religione; nè amicizia. Sui social network, il bar telematico, sguazzano orde di imbecilli. Quanto più amici asocial si hanno, più si è soli. Questa è l'involuzione della specie nella società moderna liberalcattocomunista».
Quindi, oggi, cosa bisogna sapere?
«Non bisogna sapere, ma è necessario saper sapere. Cosa voglio dire? Affermo che non basta studiare il sapere che gli altri od il Sistema ci propinano come verità e fermarci lì, perché in questo caso diveniamo quello che gli altri hanno voluto che diventassimo: delle marionette. E’ fondamentale cercare il retro della verità propinata, ossia saper sapere se quello che sistematicamente ci insegnano non sia una presa per il culo. Quindi se uno già non sa, non può effettuare la verifica con un ulteriore sapere di ricerca ed approfondimento. Un esempio per tutti. Quando si studia giurisprudenza non bisogna fermarsi alla conoscenza della norma ed eventualmente alla sua interpretazione. Bisogna sapere da chi e con quale maggioranza ideologica e perchè è stata promulgata o emanata e se, alla fine, sia realmente condivisa e rispettata. Bisogna conoscere il retro terra per capirne il significato: se è stata emessa contro qualcuno o a favore di qualcun'altro; se è pregna di ideologia o adottata per interesse di maggioranza di Governo; se è un'evoluzione storica distorsiva degli usi e dei costumi nazionali o influenzata da pregiudizi, o sia una conformità alla legislazione internazionale lontana dalla nostra cultura; se è stata emanata per odio...L’odio è un sentimento di rivalsa verso gli altri. Dove non si arriva a prendere qualcosa si dice che non vale. E come quel detto sulla volpe che non riuscendo a prendere l’uva disse che era acerba. Nel parlare di libertà la connessione va inevitabilmente ai liberali ed alla loro politica di deburocratizzazione e di delegificazione e di liberalizzazione nelle arti, professioni e nell’economia mirante all’apoteosi della meritocrazia e della responsabilità e non della inadeguatezza della classe dirigente. Lo statalismo è una stratificazione di leggi, sanzioni e relativi organi di controllo, non fini a se stessi, ma atti ad alimentare corruttela, ladrocinio, clientelismo e sopraffazione dei deboli e degli avversari politici. Per questo i liberali sono una razza in estinzione: non possono creare consenso in una massa abituata a pretendere diritti ed a non adempiere ai doveri. Fascisti, comunisti e clericali sono figli degeneri di una stessa madre: lo statalismo ed il centralismo. Si dicono diversi ma mirano tutti all’assistenzialismo ed alla corruzione culturale per influenzare le masse: Panem et circenses (letteralmente «pane e [giochi] circensi») è una locuzione latina piuttosto nota e spesso citata, usata nell'antica Roma e al giorno d'oggi per indicare in sintesi le aspirazioni della plebe (nella Roma di età imperiale) o della piccola borghesia, o d'altro canto in riferimento a metodi politici bassamente demagogici. Oggi la politica non ha più credibilità perchè non è scollegata dall’economia e dalle caste e dalle lobbies che occultamente la governano, così come non sono più credibili i loro portavoce, ossia i media di regime, che tanto odiano la "Rete". Internet, ormai, oggi, è l'unico strumento che permette di saper sapere, dando modo di scoprire cosa c'è dietro il fronte della medaglia, ossia cosa si nasconda dietro le fake news (bufale) di Stato o dietro la discultura e l'oscurantismo statalista».
Cosa racconta nei suoi libri?
«Sono un centinaio di saggi di inchiesta composti da centinaia di pagine, che raccontano di un popolo difettato che non sa imparare dagli errori commessi. Pronto a giudicare, ma non a giudicarsi. I miei libri raccontato l’indicibile. Scandali, inchieste censurate, storie di ordinaria ingiustizia, di regolari abusi e sopraffazioni e di consueta omertà. Raccontano, attraverso testimonianze e documenti, per argomento e per territorio, i tarli ed i nei di una società appiattita che aspetta il miracolo di un cambiamento che non verrà e che, paradosso, non verrà accettato. In più, come chicca editoriale, vi sono i saggi con aggiornamento temporale annuale, pluritematici e pluriterritoriali. Tipo “Selezione dal Reader’s Digest”, rivista mensile statunitense per famiglie, pubblicata in edizione italiana fino al 2007. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi nei saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali di distribuzione internazionale in forma Book o E-book. Canali di pubblicazione e di distribuzione come Amazon o Google libri. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche. I testi hanno una versione video sui miei canali youtube».
Qual è la reazione del pubblico?
«Migliaia sono gli accessi giornalieri alle letture gratuite di parti delle opere su Google libri e decine di migliaia sono le pagine lette ogni giorno. Accessi da tutto il mondo, nonostante il testo sia in lingua italiana e non sia un giornale quotidiano. Si troveranno, anche, delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato».
Perché è poco conosciuto al grande pubblico generalista?
«Perché sono diverso. Oggi le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili sono emarginati o ignorati. Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti. In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo. Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso. Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte. Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”».
Qual è la sua missione?
«“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente…Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili”. Citazioni di Bertolt Brecht. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»
Perché è orgoglioso di essere diverso?
«E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta...” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso...” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale».
Dr. Antonio Giangrande. Orgoglioso di essere diverso.
La massa ti considera solo se hai e ti votano solo se dai. Nulla vali se tu sai. Victor Hugo: "Gli uomini ti stimano in rapporto alla tua utilità, senza tener conto del tuo valore." Le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale, tangibile ed immediata, da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili da sempre, pur con altissimo valore, sono emarginati o ignorati, inibendone, ulteriormente, l’utilità.
Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
Fa quello che si sente di fare e crede in quello che si sente di credere.
La Democrazia non è la Libertà.
La libertà è vivere con libero arbitrio nel rispetto della libertà altrui.
La democrazia è la dittatura di idioti che manipolano orde di imbecilli ignoranti e voltagabbana.
Cattolici e comunisti, le chiese imperanti, impongono la loro libertà, con la loro morale, il loro senso del pudore ed il loro politicamente corretto.
Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.
Facciamo sempre il solito errore: riponiamo grandi speranze ed enormi aspettative in piccoli uomini senza vergogna.
Un altro errore che commettiamo è dare molta importanza a chi non la merita.
"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI
Le pecore hanno paura dei lupi, ma è il loro pastore che le porta al macello.
Da sociologo storico ho scritto dei saggi dedicati ad ogni partito o movimento politico italiano: sui comunisti e sui socialisti (Craxi), sui fascisti (Mussolini), sui cattolici (Moro) e sui moderati (Berlusconi), sui leghisti e sui pentastellati. Il sottotitolo è “Tutto quello che non si osa dire. Se li conosci li eviti.” Libri che un popolo di analfabeti mai leggerà.
Da queste opere si deduce che ogni partito o movimento politico ha un comico come leader di riferimento, perché si sa: agli italiani piace ridere ed essere presi per il culo. Pensate alle battute di Grillo, alle barzellette di Berlusconi, alle cazzate di Salvini, alle freddure della Meloni, alle storielle di Renzi, alle favole di D’Alema e Bersani, ecc. Partiti e movimenti aventi comici come leader e ladri come base.
Gli effetti di avere dei comici osannati dai media prezzolati nei tg o sui giornali, anziché vederli esibirsi negli spettacoli di cabaret, rincoglioniscono gli elettori. Da qui il detto: un popolo di coglioni sarà sempre amministrato o governato, informato, istruito e giudicato da coglioni.
Per questo non ci lamentiamo se in Italia mai nulla cambia. E se l’Italia ancora va, ringraziamo tutti coloro che anziché essere presi per il culo, i comici e la loro clack (claque) li mandano a fanculo.
Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.
Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.
Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?
"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)
«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.
Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.
Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.
John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!
Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.
Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013.
Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.
Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...
Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa".
Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.
La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.
Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.
Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.
Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.
Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.
Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.
Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.
Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.
E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.
Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.
E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.
Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.
Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.
Ergo. Ai miei figli ho insegnato:
Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;
Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;
Le banche vi vogliono falliti;
La burocrazia vi vuole sottomessi;
La giustizia vi vuole prigionieri;
Siete nati originali…non morite fotocopia.
Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere.
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Lettera ad un amico che ha tentato la morte.
Le difficoltà rinforzano il carattere e certo quello che tu eri, oggi non lo sei.
Le difficoltà le affrontano tutti in modi diversi, come dire: in ogni casa c’è una croce. L’importante portarla con dignità. E la forza data per la soluzione è proporzionale all’intelligenza.
Per cui: x grado di difficoltà = x grado di intelligenza.
Pensa che io volevo studiare per emergere dalla mediocrità, ma la mia famiglia non poteva.
Per poter studiare dovevo lavorare. Ma lavoro sicuro non ne avevo.
Per avere un lavoro sicuro dovevo vincere un concorso pubblico, che lo vincono solo i raccomandati.
Ho partecipato a decine di concorsi pubblici: nulla di fatto.
Nel “mezzo del cammin della mia vita”, a trentadue anni, avevo una moglie e due figli ed una passione da soddisfare.
La mia vita era in declino e le sconfitte numerose: speranza per il futuro zero!
Ho pensato ai miei figli e si è acceso un fuoco. Non dovevano soffrire anche loro.
Le difficoltà si affrontano con intelligenza: se non ce l’hai, la sviluppi.
Mi diplomo in un anno presso la scuola pubblica da privatista: caso unico.
Mi laureo alla Statale di Milano in giurisprudenza in due anni: caso raro.
Sembrava fatta, invece 17 anni per abilitarmi all’avvocatura senza successo per ritorsione di chi non accetta i diversi. Condannato all’indigenza e al discredito, per ritorsione dei magistrati e dei media a causa del mio essere diverso.
Mio figlio ce l’ha fatta ad abilitarsi a 25 anni con due lauree, ma è impedito all’esercizio a causa del mio disonore.
Lui aiuta gli altri nello studio a superare le incapacità dei docenti ad insegnare.
Io aiuto gli altri, con i miei saggi, ad essere orgogliosi di essere diversi ed a capire la realtà che li circonda.
Dalla mia esperienza posso dire che Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi o valutazioni lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.
Quindi, caro amico, non guardare più indietro. Guarda avanti. Non pensare a quello che ti manca o alle difficoltà che incontri, ma concentrati su quello che vuoi ottenere. Se non lasci opere che restano, tutti di te si dimenticano, a prescindere da chi eri in vita.
Pensa che più difficoltà ci sono, più forte diventerai per superarle.
Volere è potere.
E sii orgoglioso di essere diverso, perché quello che tu hai fatto, tentare la morte, non è segno di debolezza. Ma di coraggio.
Le menti più eccelse hanno tentato o pensato alla morte. Quella è roba da diversi. Perché? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Per questo bisogna vivere, se lo hai capito: per ribellione e per rivalsa!
Non si deve riporre in me speranze mal riposte.
Io posso dare solidarietà o prestare i miei occhi per leggere o le mie orecchie per sentire, ma cosa posso fare per gli altri, che non son stato capace di fare per me stesso?
Nessuno ha il potere di cambiare il mondo, perché il mondo non vuol essere cambiato.
Ho solo il potere di scrivere, senza veli ideologici o religiosi, quel che vedo e sento intorno a me. E’ un esercizio assolutamente soggettivo, che, d’altronde, non mi basta nemmeno a darmi da vivere.
E’ un lavoro per i posteri, senza remunerazione immediata.
Essere diversi significa anche essere da soli: senza un gruppo di amici sinceri o una claque che ti sostenga.
Il fine dei diversi non combacia con la meta della massa. La storia dimostra che è tutto un déjà-vu.
Tante volte ho risposto no ai cercatori di biografie personali, o ai sostenitori di battaglie personali. Tante volte, portatori delle loro bandiere, volevano eserciti per lotte personali, elevandosi a grado di generali.
La mia missione non è dimostrare il mio talento o le mie virtù rispetto agli altri, ma documentare quanto questi altri siano niente in confronto a quello che loro considerano di se stessi.
Quindi ritienimi un amico che sa ascoltare e capire, ma che nulla può fare o dare ad altri, perché nulla può fare o dare per se stesso.
Sono solo un Uomo che scrive e viene letto, ma sono un uomo senza Potere.
Dell’uomo saggio e giusto si segue l’esempio, non i consigli.
Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.
Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.
Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo?
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati. Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.
Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.
Ho la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?
Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le magagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.
Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.
Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.
Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite.
Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....
All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.
Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.
E’ da scuola l’esempio della correzione dei compiti in magistratura, così come dimostrato, primo tra tutti gli altri, dall’avv. Pierpaolo Berardi, candidato bocciato. Elaborati non visionati, ma dichiarati corretti. L’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano. Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.
Concorsi Pubblici ed abilitazioni Truccati. Chi è senza peccato scagli la prima pietra.
CUORI, TRUFFE E MAZZETTE: È LA FARSA “CONCORSONI”, scrive Virginia Della Sala su "Il Fatto Quotidiano" il 15 agosto 2016. Erano in 6mila per 340 posti. Luglio 2015, concorso in magistratura, prova scritta. Passano in 368. Come in tutti i concorsi, gli altri sono esclusi. Stavolta però qualcosa va diversamente. “Appena ci sono stati comunicati i risultati, a marzo di quest’anno, abbiamo deciso di fare la richiesta di accesso agli atti. Abbiamo preteso di poter visionare non solo i nostri compiti ma anche quelli di tutti i concorrenti risultati idonei allo scritto”, spiega uno dei concorrenti, Lugi R. Milleduecento elaborati, scansionati e inviati tramite mail in un mese. Per richiederli, i candidati hanno dovuto acquistare una marca da bollo da 600 euro. Hanno optato per la colletta: 230 persone hanno pagato circa 3 euro a testa per capire come mai non avessero passato quel concorso che credevano fosse andato bene. E, soprattutto, per verificare cosa avessero di diverso i loro compiti da quelli di chi il concorso lo aveva superato. “Ci siamo accorti che su diversi compiti compaiono segni di riconoscimento: sottolineature, cancellature, strani simboli, schemi”. Anche il Fatto ha potuto visionarli: asterischi, note a piè di pagina, cancellature, freccette. In uno si contano almeno due cuoricini. In un altro, il candidato ha disegnato una stellina. “Ora non c’è molto che possiamo fare per opporci a questi risultati – spiega Luigi – visto che sono scaduti i termini per ricorrere al Tar. Inoltre, molti di noi stanno tentando di nuovo il concorso quest’anno. Ecco perché preferiamo non esporci molto mediaticamente”.
IL RAPPORTO DI BANKITALIA. Eppure, decine di sentenze dimostrano come sia possibile richiedere l’annullamento anche per un solo puntino. “Cancellature, scarabocchi, codici alfanumerici. Decisamente un cuoricino è un segno distintivo per cui può essere sollecitata l’amministrazione – spiega l’avvocato Michele Bonetti –. Qui si parla di un concorso esteso. Ma mi è capitato di assistere persone che partecipavano a un concorso in cui, dei cinque candidati, c’era solo un uomo. Capirà che la grafia di un uomo è facilmente riconoscibile come tale”. Al di là delle scorrettezze, una ricerca della Banca d’Italia pubblicata qualche giorno fa ha dimostrato che in Italia, i concorsi pubblici non funzionano. O, per dirlo con le parole dei quattro economisti autori del dossier Incentivi e selezione nel pubblico impiego (Cristina Giorgiantonio, Tommaso Orlando, Giuliana Palumbo e Lucia Rizzica), “i concorsi non sembrano adeguatamente favorire l’ingresso dei candidati migliori e con il profilo più indicato”. Si parla di bandi frammentati a livello locale, di troppe differenze metodologiche tra le varie gare, di affanno nella gestione coordinata a livello nazionale. Tra il 2001 e il 2015, ad esempio, Regioni ed Enti locali hanno bandito quasi 19mila concorsi per assunzioni a tempo indeterminato, con una media di meno di due posizioni disponibili per concorso. Macchinoso anche il metodo: “Prove scritte e orali, prevalentemente volte a testare conoscenze teorico-nozionistiche” si legge nel paper. Ogni concorrente studia in media cinque mesi e oltre il 45 per cento dei partecipanti rinuncia a lavorare. Così, se si considera che solo nel 2014, 280mila individui hanno fatto domanda per partecipare a una selezione pubblica, si stima che il costo opportunità per il Paese è di circa 1,4 miliardi di euro l’anno. La conseguenza è che partecipa solo chi se lo può permettere e chi ha più tempo libero per studiare. Anche perché si preferisce la prevalenza di quesiti “nozionistici” che però rischiano di “inibire la capacità dei responsabili dell’organizzazione di valutare il possesso, da parte dei candidati, di caratteristiche pur rilevanti per le mansioni che saranno loro affidate, quali le ambizioni di carriera e la motivazione intrinseca”. A tutto questo si aggiungono l’eccesso delle liste degli idonei – il loro smaltimento determina “l’irregolarità della cadenza” dei concorsi e quindi l’incertezza e l’incostanza dell’uscita dei bandi, dice il dossier.
LA BEFFA SICILIANA. Palermo, concorsone scuola per la classe di sostegno nelle medie. Quest’anno, forse per garantire l’anonimato e l’efficienza, il concorso è stato computer based: domande e risposte al pc. Poi, tutto salvato su una penna usb con l’attribuzione di un codice a garanzia dell’anonimato. Eppure, la settimana scorsa i 32 candidati che hanno svolto la prova all’istituto Pio La Torre a fine maggio sono stati riconvocati nella sede. Dovevano indicare e ricordarsi dove fossero seduti il giorno dell’esame perché, a quanto pare, erano stati smarriti i documenti che avrebbero permesso di abbinare i loro compiti al loro nome. “È assurdo – commenta uno dei docenti – sembra una barzelletta: dovremmo fare ricorso tutti insieme, unirci e costringere una volta per tutte il Miur ad ammettere che forse non si era ancora pronti per questa svolta digitale”.
IL VOTO SUL COMPITO CHE NON È MAI STATO FATTO. Maria Teresa Muzzi è invece una docente che si era iscritta al concorso nel Lazio ma poi aveva deciso di non parteciparvi. Eppure, il 2 agosto, ha ricevuto la convocazione per la prova orale per la classe di concorso di lettere e, addirittura, un voto per uno scritto che però non ha mai fatto: 30,4. Avrebbe potuto andare a fare l’orale con la carta d’identità e ottenere una cattedra, mentre il legittimo concorrente avrebbe perso la sua chance di cambiare vita. Ha deciso di non farlo e ancora si attende la risposta dell’ufficio scolastico regionale che spieghi come sia stato possibile un errore del genere. In Liguria per la classe di concorso di sostegno nella scuola secondaria di I grado, l’ufficio scolastico regionale ha disposto la revoca della nomina della Commissione giudicatrice e l’annullamento di tutti i suoi atti perché sarebbero emersi “errori che possono influire sull’esito degli atti e delle operazioni concorsuali”. I candidati ancora attendono di avere nuovi esiti delle prove svolte. E, va ricordato, la correzione dei compiti a risposta aperta nei concorsi pubblici ha una forte componente discrezionale. “Ogni concorso pubblico ha margini di errore ed è perfettibile – spiega Bonetti –. In Italia, però, di lacune ce ne sono troppe e alcune sono strutturali al tipo di prova che si sceglie di far svolgere. L’irregolarità vera è propria, invece, riguarda le scelte politiche che, se arbitrarie e ingiuste, sono sindacabili”.
LE BUSTARELLE DI NAPOLI. Il problema è che si alza sempre più la soglia di accesso in nome della meritocrazia, ma si continuano a lasciare scoperti posti che invece servirebbe coprire. Favorendo così le chiamate dirette e i contratti precari. “Dalla scuola al ministero degli esteri all’autority delle telecomunicazioni – spiega Bonetti. La scelta politica è ancora più evidente nel settore della sanità: ci sono meccanismi di chiusura già nel mondo universitario. Oggi il corso di medicina è previsto per 10mila studenti in tutta Italia mentre le statistiche Crui dal 1990 hanno sempre registrato una media di 130mila immatricolati. Sono restrizioni con un’ideologia. Una volta entrati, ad esempio, c’è prima un altro concorso per la scuola di specializzazione e poi ancora un concorso pubblico che però è per 5mila persone. E gli altri? Attendono e alimentano il settore privato, che colma le lacune del sistema pubblico. O sono chiamati come collaboratori, con forme contrattuali che vanno dalla partita iva allo stage”. Nelle settimane scorse, il Fatto Quotidiano ha raccontato dell’algoritmo ritrovato dalla Guardia di Finanza di Napoli che avrebbe consentito ai partecipanti di rispondere in modo corretto ai quiz di accesso per un concorso. Ad averlo, uno degli indagati di un’inchiesta sui concorsi truccati per accedere all’Esercito. Nel corso delle perquisizioni la Finanza ha ritrovato 100mila euro in contanti, buste con elenchi di nomi (forse i clienti) e un tariffario: il prezzo per superare i concorsi diviso “a pacchetti”, a seconda dell’esame e del corpo al quale accedere (esercito, polizia, carabinieri). La tariffa di 50.000 euro sarebbe relativa al “pacchetto completo”: dai test fisici fino ai quiz e alle prove orali. Solo 20.000 euro, invece, per chi si affidava ai mediatori dopo aver superato le prove fisiche. Uno sconto consistente. Tutto è partito da una soffiata: un ragazzo al quale avevano fatto la proposta indecente, ha rifiutato e ha denunciato. Un altro pure ha detto no, ma senza denunciare. Virginia Della Sala, il Fatto Quotidiano 15/8/2016.
Concorsi truccati all’università, chi controlla il controllore? Scrive Alessio Liberati il 27 settembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Sta avendo una grande eco in questi giorni l’inchiesta sui concorsi truccati all’università, ove, come la scoperta dell’acqua calda verrebbe da dire, la procura di Firenze ha individuato una sorta di “cupola” che decideva carriere e futuro dei professori italiani. La cosiddetta “raccomandazione” o “spintarella” (una terminologia davvero impropria per un crimine tanto grave) è secondo me uno dei reati più gravi e meno puniti nel nostro ordinamento. Chi si fa raccomandare per vincere un concorso viene trattato meglio, nella considerazione sociale e giuridica (almeno di fatto) di chi ruba un portafogli. Ma chi ti soffia il posto di lavoro o una progressione in carriera è peggio di un ladro qualunque: è un ladro che il portafogli te lo ruba ogni mese, per sempre. Gli effetti di delitti come questo, in sostanza, sono permanenti.
Ma come si è arrivati a ciò? Va chiarito che il sistema giuridico italiano prevede due distinti piani su cui operare: quello amministrativo e quello penale. Di quest’ultimo ogni tanto si ha notizia, nei (rari) casi in cui si riesce a scoperchiare il marcio che si cela dietro ai concorsi pubblici italiani. Di quello relativo alla giustizia amministrativa si parla invece molto meno. Ma tale organo è davvero in grado di assicurare il rispetto delle regole quando si fa ricorso?
Personalmente, denuncio da anni le irregolarità che sono state commesse proprio nei concorsi per l’accesso al Consiglio di Stato, massimo organo di giustizia amministrativa, proprio quell’autorità, cioè, che ha l’ultima parola su tutti i ricorsi relativi ai concorsi pubblici truccati. Basti pensare che uno dei vincitori più giovani del concorso (e quindi automaticamente destinato a una carriera ai vertici) non aveva nemmeno i titoli per partecipare. E che dire dei tempi di correzione? A volte una media di tre pagine al minuto, per leggere, correggere e valutare. E la motivazione dei risultati attribuiti? Meramente numerica e impossibile da comprendere. Tutti comportamenti, si intende, che sono in linea con i principi giurisprudenziali sanciti proprio dalla giurisprudenza dei Tar e del Consiglio di Stato.
E allora il problema dei concorsi truccati in Italia non può che partire dall’alto: si prenda atto che la giustizia amministrativa non è in grado di assicurare nemmeno la regolarità dei concorsi al proprio interno e che, quindi, non può certo esserle affidato il compito istituzionale di decidere su altri concorsi: con un altro organo giurisdizionale che sia davvero efficace nel giudicare le irregolarità dei concorsi pubblici, al punto da costituire un effettivo deterrente, si avrebbe una riduzione della illegalità cui si assiste da troppo tempo nei concorsi pubblici italiani.
Se questa è antimafia…. In Italia, con l’accusa di mafiosità, si permette l’espropriazione proletaria di Stato e la speculazione del Sistema su beni di persone che mafiose non lo sono. Persone che non sono mafiose, né sono responsabili di alcun reato, eppure sottoposte alla confisca dei beni ed alla distruzione delle loro aziende, con perdita di posti di lavoro. Azione preventiva ad ogni giudizio. Alla faccia della presunzione d’innocenza di stampo costituzionale. Interventi di antimafiosità incentrati su un ristretto ambito territoriale o di provenienza territoriale.
Questa antimafia, per mantenere il sistema, impone la delazione e la calunnia ai sodalizi antiracket ed antiusura iscritti presso le Prefetture provinciali. Per continuare a definirsi tali, ogni anno, le associazioni locali sono sottoposte a verifica. L’iscrizione all’elenco è condizionata al numero di procedimenti penali e costituzioni di parti civili attivate. L’esortazione a denunciare, anche il nulla, se possibile. Più denunce per tutti…quindi. Chi non denuncia, anche il nulla, è complice od è omertoso.
Ma cosa sarebbe codesta antimafia, che tutto gli è concesso, se non ci fosse lo spauracchio mediatico della mafia di loro invenzione? E, poi, chi ha dato la patente di antimafiosità a certi politicanti di sinistra che incitano le masse…e chi ha dato l’investitura di antimafiosità a certi rappresentanti dell’associazionismo catto-comunista che speculano sui beni…e chi ha dato l’abilitazione ad essere portavoci dell’antimafiosità a certi scribacchini di sinistra che sobillano la società civile? E perché questa antimafiosità ha immenso spazio su tv di Stato e giornali sostenuti dallo Stato per fomentare questa deriva culturale contro la nostra Nazione o parte di essa. Discrasia innescata da gruppi editoriali che influenzano l’informazione in Italia?
Fintanto che le vittime dell’antimafia useranno o subiranno il linguaggio dei loro carnefici, continueremo ad alimentare i cosiddetti antimafiosi che lucreranno sulla pelle degli avversari politici.
Se la legalità è l’atteggiamento ed il comportamento conforme alla legge, perché l’omologazione alla legalità non è uguale per tutti,…uguale anche per gli antimafiosi? La legge va sempre rispettata, ma il legislatore deve conformarsi a principi internazionali condivisi di più alto spessore che non siano i propri interessi politici locali prettamente partigiani.
Va denunciato il fatto che l’antimafiosità è solo lotta politica e di propaganda e la mafia dell’antimafia è più pericolosa di ogni altra consorteria criminale, perchè: calunnia, diffama, espropria e distrugge in modo arbitrario ed impunito per sola sete di potere. La mafia esiste ed è solo quella degli antimafiosi, o delle caste o delle lobbies o delle massonerie deviate. E se per gli antimafiosi, invece, tutto quel che succede è mafia…Allora niente è mafia. E se niente è mafia, alla fine gli stranieri considereranno gli italiani tutti mafiosi.
Invece mafioso è ogni atteggiamento e comportamento, da chiunque adottato, di sopraffazione e dall’omertà, anche istituzionale, che ne deriva.
Non denunciare ciò rende complici e di questo passo gli sciasciani non avranno mai visibilità se rimarranno da soli ed inascoltati.
L’Italia non è un paese per giovani (avvocati): elevare barriere castali e di censo non è una soluzione, scrive il 28 Aprile 2017 “L’Inkiesta”. Partiamo da due disfunzioni che affliggono il nostro Paese e che stanno facendo molto parlare di sé. Da una parte, la crisi delle libere professioni e, in generale, delle lauree, con importanti giornali nazionali che ci informano, per esempio, che i geometri guadagnano più degli architetti. Dall’altra, le inefficienze del sistema giudiziario. Queste, sono oggetto di dibattito da tempo immemorabile, ci rendono tra i Paesi peggiori dell’area OCSE e ci hanno fatti condannare da niente-popò-di-meno-che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Incrociate ora i due trend. Indovinate chi ci rimane incastrato in mezzo? Ovviamente i giovani laureati/laureandi in giurisprudenza, chiusi tra un percorso universitario sempre più debole e una politica incapace di portare a termine una riforma complessiva e decente dell’ordinamento forense. Come risolvere la questione? Con il numero chiuso a giurisprudenza? Liberalizzando la professione legale? Niente di tutto questo, ci mancherebbe. In un Paese dove gli avvocati rappresentano una fetta rilevante dei parlamentari, la risposta fornita dall’ennesima riforma è facile facile. Porre barriere di censo e di casta all’accesso alla professione. Da questa prospettiva tutte le recenti novità legislative acquistano un senso e rivelano una logica agghiacciante. I malcapitati che si laureeranno in Giurisprudenza a partire dall’anno 2016/2017 avranno una prima sorpresina: l’obbligo di frequentare una scuola di formazione per almeno 160 ore. Anche a pagamento se necessario, come da parere positivo del Consiglio Nazionale Forense.
La questione sarebbe da portare all’attenzione di un bravo psicanalista. Giusto qualche osservazione: (1) se la pratica deve insegnare il mestiere, perché aggiungere un’altra scuola obbligatoria?; (2) Se la Facoltà di Legge - che in Italia è lunghissima: 5 anni, contro i 3 di Stati Uniti e Regno Unito e i 4 della Francia, per esempio – serve a così poco, tanto da dover essere integrata anche dopo la laurea, perché non riformarla?; (3) perché fermare i ragazzi dopo la laurea, invece di farlo prima? Ci sarebbero anche altre questioni. Per esempio, 160 ore di formazione spalmate su 18 mesi, per i fortunati ammessi, non sono molte in teoria. Tuttavia, basta vedere le sempre maggiori proteste riportate dai giornali, e rigorosamente anonime, di praticanti-fotocopisti senza nome, sfruttati e non pagati, per accorgersi che la realtà è molto diversa dalla visione irenica (ipocrita è offensivo?) dei riformatori. E, in ogni caso, anche se il praticante fosse sufficientemente fortunato da avere qualche soldo in tasca, ciò non gli permetterebbe di godere del dono dell’ubiquità. Ma così si passerebbe dal settore della psicanalisi a quello della parapsicologia. Meglio evitare. Andiamo oltre.
Abbiamo superato la prima trincea. Coi soldi del nonno ci manteniamo nella nostra pratica non pagata o mal pagata. Magari siamo bravissimi ed accediamo ai corsi di formazione a gratis o con borsa. Arriva il momento dell’esame. Presto l’esame scritto sarà senza codice commentato. E fin qui, nessun problema. Meglio ragionare con la propria testa che affannarsi a cercare la “sentenza giusta”, magari senza capirla. Le prove verteranno sempre su diritto civile, diritto penale e un atto. Segue un esame orale con quattro materie obbligatorie: diritto civile, diritto penale, le due relative procedure, due materie a scelta e la deontologia forense. E qui il fine giurista si deve trasformare in una specie di Pico de La Mirandola, mandando a memoria tutto in poco tempo. Magari col capo che non ti concede più di un mese di assenza dalla tua scrivania. Ma il problema di questo esame è un altro. Poniamo che io sia un praticante in gamba e che abbia trovato lavoro in un grosso studio internazionale leader nel settore del diritto bancario. Plausibilmente, lavorerò con professionisti fantastici e avrò clienti prestigiosi. Serve a qualcosa per l’esame di stato? Risposta: no. Riformuliamo la questione. Se io mi occupo di diritto bancario o di diritto societario, cosa me ne frega di studiare diritto penale, materia che non mi interessa e che non praticherò mai? Mistero. L’esame di abilitazione fu regolato per la prima volta nel 1934 e la sua logica è rimasta ferma lì. Come se l’avvocato fosse ancora un piccolo professionista individuale che fa indifferentemente tutto. Pensateci la prossima volta che sentite qualcuno sciacquarsi la bocca con fregnacce sulla specializzazione degli avvocati e sulla dipartita dell’avvocato generico. Pensateci.
Passata anche la seconda trincea. Siete avvocati. Tutto bene? No. Tutto male. Finirete sotto il fuoco della Cassa Forense, obbligatoria, che vi mitraglierà. Non importa se siete potentissimi astri nascenti o piccoli professionisti. I risultati? Migliaia di giovani avvocati che si cancellano dall’albo ogni anno. Sgombriamo subito il campo da equivoci. Spesso quando si introduce questo tema ci si sente rispondere che in Italia ci sono troppi avvocati e se si sfoltiscono è meglio. Giusto. Ma ciò non può condurre ad affermare che dei giovani siano tagliati fuori da un sistema disfunzionale. La selezione dura va bene; il terno al lotto no. La competizione, anche spietata, va bene; le barriere all’accesso strutturate senza la minima logica no. Dietro le belle parole, si nasconde un sistema che, come avviene anche per altre professioni, cerca di tutelare se stesso sbattendo la porta in faccia ai giovani che vorrebbero entrare. Non tutti ovviamente. Senza troppa malizia vediamo che avrà meno crucci: (1) chi ha il padre, nonno, zio, fratello maggiore ecc… titolare di uno studio legale. Una mancetta arriverà sempre, con essa il tempo libero per frequentare la formazione obbligatoria e una study leave succulenta di un paio di mesi per preparare l’esame; (2) chi è ricco di famiglia e che, dunque, può godere dei vantaggi di cui sopra per vie traverse; (3) chi, date le condizioni di cui ai punti 1 e 2, può sostenere l’esame due, tre, quattro, cinque volte. E la meritocrazia? Naaaa, quello è uno slogan da sbandierare in campagna elettorale, cosa avete pensavate, sciocconi? In definitiva, il sistema come si sta concependo non fa altro che porre barriere all’ingresso che favoriscono il ceto e di casta. Una volta che si è entrati, invece, si fa in modo di cacciare fuori coloro che non arrivano a fine mese, tendenzialmente i più giovani o i più piccoli.
Ci sono alternative? Guardiamo un paese come la Francia. Lì, l’esame duro e temutissimo è quello per l’accesso all’école des Avocats, superato ogni anno da meno di un terzo dei candidati. Ma, (1) lo si sostiene appena terminata l’università, quando si è “freschi”; (2) è la precondizione per l’accesso al tirocinio, non un terno al lotto che viene al termine di 18/24 mesi di servaggio, spesso inutile ai fini del superamento dell’esame. Quindi, se si fallisce, al netto della delusione, si può subito andare a fare altro. Oppure si riprova (fino a tre volte). In ogni caso, però, non si buttano due anni di vita. La conclusione è sempre la stessa. L’Italia è un Paese che investe poco nei giovani. E che ci crede poco, a giudicare dalle frequenti sparate e rimbrotti di ministri vari. Sperando che non si cerchi, di fatto, di risolvere il problema con l’emigrazione, il messaggio deve essere chiaro. Non si faccia pagare ai giovani l’incapacità del sistema di riformarsi seriamente e organicamente. Le alternative ci sono.
Giornalisti? E’ meglio se andate a fare gli operai, scrive di Andrea Tortelli, Responsabile di "GiornalistiSocial.it". E’ meglio se andate a fare gli operai, credetemi. Lo dicono i numeri. Chiunque aspiri a fare il giornalista, in Italia, deve confrontarsi con un quadro di mercato ben più drammatico di quello di altri settori in crisi. Il giornalista rimane una professione molto (troppo) ambita, ma non conferisce più prestigio sociale a chi la pratica e soprattutto non è più remunerativa. Diverse classifiche, non solo italiche, inseriscono quello del reporter fra i lavori a maggiore rischio di indigenza. E chi pratica bazzica in questo mondo non può stupirsene.
Qualche numero sui media. Il mondo dei media è in crisi da tempo, ben prima che arrivassero i social a dare il colpo di grazia. In una provincia come Brescia, dove vivo, non c’è un solo giornale cartaceo o una televisione locale che nell’ultimo quinquennio non abbia ridotto il proprio organico e chiuso qualche bilancio in rosso. Tutto ciò mentre gli on line sopravvivono, ma non prosperano: generando numeri, ma recuperando ben poche delle risorse perse per strada dai media tradizionali. In Italia, va detto, i giornali non hanno mai goduto di troppa gloria. Da sempre siamo una delle popolazioni al mondo che legge meno. Meno di una persona su venti, oggi, compra un quotidiano in edicola e il calo è costante. Il Corriere della Sera, solo per fare un esempio, tra il 2004 e il 2014 ha dimezzato le proprie copie (l’on line, nello stesso periodo, è passato da 2 milioni di utenti al mese a 1,5 al giorno, Facebook da zero a 2 milioni di fan…). Nel 2016, ancora, i cinque giornali cartacei più venduti (Corsera, Repubblica, Sole 24 Ore, La Stampa e Gazzetta dello Sport) hanno perso un decimo esatto delle copie.
Non va meglio sul fronte dei fatturati. Dal 2004 al 2014 – permettetemi di riciclare un vecchio dato – il mercato pubblicitario italiano è passato da 8 miliardi 240milioni di euro a 5 miliardi e 739milioni (fonte DataMediaHub). La tv è scesa da 4 miliardi 451 milioni a 3.510 milioni, la stampa si è più che dimezzata da 2 miliardi 891 milioni a 1 miliardo 314 milioni, il web è cresciuto sì. Ma soltanto da 116 milioni a 474. Vuol dire che – dati alla mano – per ogni euro perso dalla carta stampata in questo decennio sono arrivati sul web soltanto 22 centesimi (del resto, agli attuali prezzi di mercato, mille clic vengono pagati oggi meno di due euro…). E gli altri 80 centesimi dove sono finiti? Un po’ si sono persi a causa della crisi. Ma una grossa fetta – non misurabile – è finita alle big del web, nel grande buco nero fiscale di Google e Facebook. Cioè è uscita dal circuito dell’informazione e dell’editoria.
I giornalisti che fanno? A una drastica riduzione delle copie e dei fatturati consegue ovviamente una drastica riduzione degli organici. Ma a questo dato si somma un aumento significativo dell’offerta (complici le scuole di giornalismo, ma non solo…) e un aumento esponenziale della concorrenza “impropria”, dovuta al fatto che Facebook è ormai la prima fonte di informazione degli italiani e sono molti a operare fuori dal circuito tradizionale (e spesso anche fuori dal circuito legale) dei media. In questo contesto, le possibilità di spuntare un contratto ex Articolo 1 (Cnlg) per un giovane sono praticamente nulle. Ma anche portare a casa almeno mille euro lordi al mese è un’impresa se ci sono quotidiani locali, anche di gruppi importanti, che pagano meno di 10 euro un articolo. E on line, a quotazioni di “mercato”, un pezzo viene pagato anche un euro. Lordo. Non è un caso che sempre più colleghi abbiano decisi di cambiare vita, e molto spesso sono i più validi. Ne conosco molti. C’è chi fa l’operaio part time a tempo indeterminato e arrotonda scrivendo (quasi per passione), chi ha mollato tutto per una cattedra da precario alle superiori, chi all’ennesima crisi aziendale ha deciso di andare a lavorare a tempo pieno in fabbrica per mantenere i figli e chi ancora era caporedattore di un noto giornale – oltre che penna di grandissimo talento – e ora si dedica alla botanica. Con risultati di eguale livello, pare. I dati dell’Osservatorio Job pricing, del resto, indicano che nel 2016 un operaio italiano guadagnava mediamente 1.349 euro. Il collaboratore di una televisione locale, a 25 euro lordi a servizio, dovrebbe fare più di 50 uscite (con montaggio annesso) per portare a casa la stessa cifra. Il collaboratore di un quotidiano locale dovrebbe firmare almeno 100 pezzi, tre al giorno. Senza ferie, tredicesima, malattia e possibilità di andare in banca a chiedere un mutuo se privo della firma di papi. Insomma: il vecchio adagio del “sempre meglio che lavorare” è ancora attuale, ma ha drammaticamente cambiato significato. Visto che il giornalismo è diventato per molti un hobby o una moderna forma di schiavitù, quasi al livello dei raccoglitori di pomodori pugliesi. Dunque?
La soluzione. Dunque… Quando qualcuno mi contatta per chiedermi come si fa a diventare giornalista (circostanza piuttosto frequente, visto che gestisco GiornalistiSocial.it) cerco sempre di fornirgli un quadro completo e oggettivo della situazione, per non illudere nessuno. Alcuni si incazzano e spariscono. Altri ringraziano delusi. I più ascoltano, ma non sentono. Una piccola parte comprende che il mestiere del giornalista, nel 2017, ha un senso solo se sussistono due elementi: una grande passione e la volontà di fare gli imprenditori di se stessi. Fare il giornalista, in Italia ma non solo, richiede oggi una grande capacità di adattamento al sistema della comunicazione e un sistema di competenze tecniche estese (fotografia, grafica, video, social, web, seo e anche marketing, parola che farebbe accapponare la pelle a quelli della vecchia scuola) per sopravvivere a un mercato sempre meno chiuso, in cui i concorrenti sono tanto i colleghi e gli aspiranti colleghi, quanto tutti i laureati privi di occupazione e i liberi professionisti dell’articolato mondo web. Ma questo è un altro capitolo. Nel frattempo, è meglio che andiate a fare gli operai. Oppure ribellatevi.
I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)
“L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.
La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."
TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).
"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)
Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.
Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato, istruito ed informato da coglioni.
È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt
Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.
"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta".
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?
Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.
Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."
Aste e usura: chiesta ispezione nei tribunali di Taranto e Potenza. Interrogazione dei Senatori Cinque Stelle: “Prassi illegali e vicende inquietanti”, titola “Basilicata 24” nel silenzio assordante dei media pugliesi e tarantini.
Da presidente dell’ANPA (Associazione Nazionale Praticanti ed Avvocati) già dal 2003, fin quando mi hanno permesso di esercitare la professione forense fino al 2006, mi sono ribellato a quella realtà ed ho messo in subbuglio il Foro di Taranto, inviando a varie autorità (Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, Procura della Repubblica di Taranto, Ministro della Giustizia) un dossier analitico sull’Ingiustizia a Taranto e sull’abilitazione truccata degli avvocati. Da questo dossier è scaturita solo una interrogazione parlamentare di AN del Senatore Euprepio Curto (sol perché ricoprivo l’incarico di primo presidente di circolo di Avetrana di quel partito). Eccezionalmente il Ministero ha risposto, ma con risposte diffamatorie a danno dell’esponente. Da allora e per la mia continua ricerca di giustizia come Vice Presidente provinciale di Taranto dell’Italia dei Valori (Movimento da me lasciato ed antesignano dei 5 Stelle, entrambi a me non confacenti per mia palese “disonestà”) e poi come presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno, per essermi permesso di rompere l’omertà, gli abusi e le ingiustizie, ho subito decine di procedimenti penali per calunnia e diffamazione, facendomi passare per mitomane o pazzo, oltre ad inibirmi la professione forense. Tutte le mie denunce ed esposti e la totalità dei ricorsi presentati a tutti i Parlamentari ed alle autorità amministrative e politiche: tutto insabbiato, nonostante la mafiosità istituzionale è sotto gli occhi di tutti.
I procedimenti penali a mio carico sono andati tutti in fumo, non riuscendo nell’intento di condannarmi, fin anche a Potenza su sollecitazione dei denuncianti magistrati.
Il 3 ottobre 2016, dopo un po’ di tempo che mancavo in quel di Taranto, si apre un ulteriore procedimento penale a mio carico per il quale già era intervenuta sentenza di assoluzione per lo stesso fatto. Sorvolo sullo specifico che mi riguarda e qui continuo a denunciare alla luna le anomalie, così già da me riscontrate molti anni prima. Nei miei esposti si parlava anche di mancata iscrizione nel registro generale delle notizie di reato e di omesse comunicazioni sull’esito delle denunce.
L’ufficio penale del Tribunale è l’ombelico del disservizio. Non vi è traccia degli atti regolarmente depositati, sia ufficio su ufficio (per le richieste dell’ammissione del gratuito patrocinio dall’ufficio del gratuito patrocinio all’ufficio del giudice competente), sia utenza su ufficio per quanto riguarda in particolare la lista testi depositata dagli avvocati nei termini perentori. Per questo motivo è inibito a molti avvocati percepire i diritti per il gratuito patrocinio prestato, non essendo traccia né delle istanze, né dei decreti emessi. Nell’udienza del 3 ottobre 2016, per gli avvocati presenti, al disservizio si è provveduto con una sorta di sanatoria con ripresentazione in udienza di nuove istanze di ammissione di Gratuito patrocinio e di nuove liste testi (fuori tempo massimo); per i sostituiti avvocati, invece, ogni diritto è decaduto con pregiudizio di causa. Non un avvocato si è ribellato e nessuno mai lo farà, perché mai nessuno in quel foro si è lamentato di come si amministra la Giustizia e di come ci si abilita. Per quanto riguarda la gestione degli uffici non si può alludere ad una fantomatica mancanza di personale, essendo l’ufficio ben coperto da impiegate, oltretutto, poco disponibili con l’utenza.
Io ho già dato per fare casino, non foss’altro che ormai sono timbrato tra i tarantini come calunniatore, mitomane o pazzo, facendo arrivare la nomea oltre il Foro dell’Ingiustizia.
La presente, giusto per rendere edotti gli ignoranti giustizialisti e sinistroidi in che mani è la giustizia, specialmente a Taranto ed anche per colpa degli avvocati.
COLF, BADANTI E BABYSITTER. UN LAVORO PERICOLOSO, LOGORANTE E SOTTOPAGATO.
Colf, badanti e babysitter. Ilo: "Sfruttamento inaccettabile", scrive il 29 gennaio 2015 stranieriinitalia.it. La campagna per la ratifica della Convenzione sul lavoro dignitoso. "Solo una piccola parte dei 53 milioni di lavoratori domestici nel mondo sono tutelati". Segregate in casa, private dei documenti, costrette a lavorare tutti i giorni a qualunque ora per un tozzo di pane e pochi spiccioli, maltrattate, picchiate. É la condizione in cui versano tante lavoratrici domestiche nel mondo, una condizione “inaccettabile”. A gridarlo è un video appena pubblicato dall'Organizzazione Internazionale del Lavoro per promuovere la Convenzione 189, dedicata al "lavoro dignitoso per le lavoratrici e i lavoratori domestici". L'Italia, per prima tra i Paesi occidentali, l'ha ratificata nel 2013. "Solo una piccola parte dei 53 milioni di lavoratori domestici nel mondo – ricorda l'Ilo - sono tutelati dalle leggi sul lavoro. Nel 2011, gli stati membri dell'Ilo hanno adottato la convenzione dei lavoratori domestici per proteggere i loro diritti, promuovere l'uguaglianza di opportunità e trattamento e migliorare le loro condizioni di lavoro e di vita. Finora 17 Paesi hanno ratificato questa convenzione. Manteniamo lo slancio!"
Colf e badanti, un lavoro logorante e pericoloso. Il lavoro delle assistenti familiari, anche dette badanti, o colf, nato come risposta a basso costo per la crescente richiesta di cura da parte della società, tende a essere per chi lo svolge un'attività logorante e pericolosa, scrive il 20/03/2017 Francesca Alice Vianello su ingenere.it. Le riflessioni in merito all’invecchiamento della società italiana e più in generale europea si soffermano spesso sul benessere delle persone anziane, mettendo in risalto l’importanza della qualità della cura che queste ricevono, senza però riflettere sull’interdipendenza tra la salute degli anziani e il benessere delle lavoratrici che offrono loro assistenza. Anche i numerosi studi sulle assistenti familiari non hanno indagato in modo accurato le implicazioni che tale occupazione ha sulla salute delle lavoratrici. Infatti, sebbene diverse ricerche abbiano messo in luce le varie forme di sfruttamento, la precarietà, la persistenza di connotati servili e di dipendenza che caratterizzano tale occupazione, rimane nell’ombra il tema della nocività del lavoro delle badanti. Nella ricerca promossa dalle Acli Colf Viaggio nel lavoro di cura pubblicata recentemente da Ediesse, abbiamo quindi deciso di approfondire tale questione per comprendere quali sono i fattori che incidono maggiormente sullo stato di salute delle assistenti familiari, con l’obiettivo di contribuire al miglioramento delle loro condizioni di vita e di lavoro. Sia nei focus group (9) sia nei questionari (867) rivolti alle assistenti familiari abbiamo dunque affrontato il tema del mal da lavoro facendo domande dirette e indirette relative ai problemi di salute, alle esperienze di violenza vissute e agli aspetti più difficili del lavoro. Successivamente, in fase di analisi, i risultati di tali domande sono stati messi in relazione alle informazioni raccolte in merito all’orario di lavoro, alla disponibilità di tempo libero e al suo utilizzo, al regime di coresidenza, alla complessità tecnico-relazionale del lavoro, al rapporto con i familiari, al livello di solitudine e isolamento nonché alle caratteristiche socio-demografiche delle lavoratrici. Dall’analisi dei dati raccolti siamo state in grado di individuare i fattori che mettono maggiormente a rischio lo stato di benessere delle lavoratrici.
Un primo dato importante riguarda la correlazione positiva tra elevati livelli di malessere psico-fisico e impegno lavorativo: le assistenti familiari che lavorano più di otto ore al giorno e che non dispongono di ore di riposo o che usano le ore di riposo per svolgere altri lavori sono più interessate da problemi di salute, come mal di schiena, insonnia, ansia e depressione. Inoltre, si riscontrano livelli più elevati di malessere tra le lavoratrici che lavorano in regime di coresidenza, cioè tra coloro che dormono presso l’abitazione della persona assistita. Si tratta di una condizione di vita e di lavoro caratterizzata dalla porosità e indefinitezza dei confini spazio-temporali tra lavoro e non-lavoro, che favorisce lo svilupparsi di problemi di salute derivanti dall’estensione della giornata lavorativa e dall’intensificazione del carico lavorativo ed emotivo. Anche le assistenti familiari possono infatti essere colpite dalla sindrome da burnout: un tipo di stress lavorativo tipico delle professioni della cura, che consiste nell’esaurimento emotivo.
Un secondo elemento significativo emerso dalla ricerca consiste nell’aver individuato un rapporto direttamente proporzionale tra la complessità tecnico-relazionale del lavoro derivante dalle condizioni di salute della persona assistita e il rischio di sviluppare problemi di salute. Chi assiste persone con limitate capacità motorie, problemi di demenza o gravemente ammalate è maggiormente interessata da problemi di salute non solo di tipo fisico, derivanti dalla movimentazione dei loro assistiti/e, ma anche psicologici, poiché può produrre nelle lavoratrici un continuo stato di ansia dettato dalle difficoltà relazionali con la persona assistita.
L’ansia, la paura di sbagliare e la fatica fisica aumentano poi quando la lavoratrice si sente sola nell’affrontare le problematiche quotidiane. Spesso, infatti, le famiglie delegano totalmente la cura dei parenti anziani alle assistenti familiari, senza preoccuparsi delle difficoltà che le badanti sono chiamate ad affrontare specialmente se accudiscono persone non autosufficienti, oltre a dover occuparsi delle attività di pulizia della casa e preparazione dei pasti. Il senso di isolamento, tuttavia, non deriva solamente dalla solitudine nel lavoro, ma anche dalla lontananza dai familiari e dagli amici rimasti nel paese di origine. L’origine migrante di gran parte delle badanti rende particolarmente rilevante la questione della solitudine, facendola diventare agli occhi delle intervistate la principale problematica del loro lavoro. Per questo è importante essere in grado di cogliere non solo i fattori che incidono maggiormente sulla salute delle lavoratrici, ma individuare come questi si declinano diversamente in base alle specificità biografiche delle assistenti familiari. L’intreccio tra status migratorio e condizioni di lavoro è di certo un elemento indispensabile per comprendere il malessere delle lavoratrici impiegate nel settore dell’assistenza domiciliare.
Infine, un quarto aspetto rilevante per la salute delle badanti riguarda le esperienze di violenza, che risultano essere tra le cause più importanti del loro malessere. Le assistenti familiari, sia per il loro genere sia per le caratteristiche del lavoro che svolgono, possono essere vittime di diverse forme di violenza fisica (dalle molestie sessuali alle percosse di vario tipo), psichica (insulti e ricatti) ed economica (bassi salari, licenziamento, indisponibilità a fare domanda di regolarizzazione) commesse dagli assistiti o dai familiari. Tra le lavoratrici intervistate il 14,2% afferma di aver subito molestie sessuali, il 10,1% viene insultata frequentemente, il 5% è sovente soggetta a lanci di oggetti e il 2,1% viene picchiata spesso. Sebbene, una parte di questi comportamenti violenti siano molto probabilmente involontari, in quanto commessi da pazienti aggressivi a causa delle loro malattia, si pensi ai malati di Alzheimer, la pericolosità per le lavoratrici è comunque elevata. Abbiamo, infatti, osservato che l’esperienza di violenza è correlata in modo marcato con la presenza di elevato indice di malessere psico-fisico.
Nel complesso, lo studio condotto evidenzia quanto il lavoro delle assistenti familiari sia nocivo proprio per le sue caratteristiche intrinseche – la coabitazione, il lunghi orari di lavoro, l’isolamento, la densità emotiva e relazionale – in quanto occupazione sviluppatasi per dare una risposta, a basso costo, alla crescente domanda di cura della società italiana a scapito della qualità di vita di centinaia di migliaia di lavoratrici migranti. La tutela dei diritti e della salute delle assistenti familiari, e con loro di tutte le professioni della cura, non può che partire dal riconoscimento del valore sociale ed economico del lavoro di riproduzione in tutte le sue articolazioni e dalla costruzione di un nuovo modello di welfare inclusivo volto ad assicurare benessere sia a chi cura sia a chi viene curato.
Nel Lazio 70 mila badanti in nero, scrive il 25 luglio 2018 rassegna.it. Cresce l’esercito degli invisibili – quasi tutte donne – che portano ricchezza al Paese e sostituiscono il servizio pubblico. La perdita per le casse dello Stato – stima la Cgil regionale – ammonta a circa 280 milioni di mancati contributi. “Negli ultimi tempi si parla molto di precari, dei ‘lavoretti’ e dei riders, insomma di tutte quelle forme di sfruttamento. Non si parla mai, però, di una tipologia nascosta perché confinata dentro le mura domestiche, quella degli assistenti familiari. Dalle stime effettuate dal nostro Centro studi si tratta di 130 mila badanti ‘regolari’ nel Lazio (in realtà spesso il contratto non corrisponde appieno al servizio prestato). Parliamo di quell’esercito per la quasi totalità immigrato, per la gran parte composto da donne che rispondono alle esigenze della non-autosufficienza sostituendosi al pubblico, ma che gravano sul privato cittadino”. Così, in una nota, i segretari della Cgil di Roma e del Lazio Roberto Giordano e Tina Balì. “Con le trasformazioni della famiglia tradizionale e i processi di emancipazione delle donne italiane – osservano i due sindacalisti – lo spazio di cura familiare è entrato in crisi. E allora donne migranti si sostituiscono alle native, quasi costituissero un passaggio del loro processo di emancipazione. È una questione sociologica su cui riflettere, a proposito d’invasioni immaginarie di migranti. Parliamo di lavoratrici (soprattutto) e lavoratori della nostra regione il cui lavoro porta nelle casse dell’Inps circa 200 milioni di euro annui e in quelle dell’erario quasi 350 milioni di euro. Ma la nostra attenzione non può che andare ai quasi 70 mila assistenti familiari che nel Lazio permangono nell'irregolarità, senza contratto, al nero. In questo caso lo Stato perde circa 110 milioni di euro di contributi Inps e circa 170 milioni di euro di versamenti Irpef, per un totale di 280 milioni circa”. Così concludono Balì e Giordano: “Lavoratori invisibili che portano ricchezza al paese e che svolgono un ruolo di sostituzione (qui non siamo alla sussidiarietà) del servizio pubblico. Per questo abbiamo chiesto alla Regione Lazio e al Comune di Roma un’interlocuzione per applicare una delibera regionale (223 del 2017) che provi a regolamentare la materia e, allo stesso tempo, utilizzare i 60 milioni di euro individuati fra i fondi europei per le politiche sociali e per sostenere le famiglie che sottoscrivono un contratto con gli assistenti familiari. È vero che in questa fase le risorse economiche scarseggiano, ma almeno quando ci sono – come in questo caso o nel caso delle politiche abitative con i 197 milioni di euro bloccati per l’insipienza del Comune di Roma – proviamo a utilizzarle”.
"Lavoro di più, mi pagano meno". Badanti in tempo di crisi, scrive il 20 giugno 2014 stranieriinitalia.it. 20 giugno 2014 – L’Italia invecchia, indipendentemente dalla crisi economica. E mentre lo Stato latita, le famiglie hanno comunque bisogno di assistenza per i loro anziani non autosufficienti. L’ultimo anello di questa catena diventano le badanti, che devono accettare la formula “più lavoro, per lo stesso stipendio”. Il mestiere dalla badante in tempo di crisi è al centro della ricerca “Viaggio nel lavoro di cura” realizzata da Ires per le Acli Colf. “Negli ultimi anni –sintetizza il patronato - le famiglie chiedono alle badanti di lavorare di più, senza per questo aumentare lo stipendio. Le lavoratrici sembrano dunque avere una chiara percezione di quello che sta accadendo: la crisi economica ha impattato sugli standard minimi di lavoro, in alcuni casi, provocando un peggioramento”. Per realizzare la ricerca sono state interviste più di 800 badanti. Nel 94% dei casi sono donne, nel 95% straniere (il 25% romene, il 25% ucraine), il 58% ha tra i 45 e i 64 anni. “il profilo socio-demografico è vicino alla rappresentazione tipica della badante: una donna matura, proveniente dall’Est-Europa, con un titolo di studio mediamente alto che abita nella casa della persona che assiste”. Queste donne lavorano sodo, spesso nell’ombra. Il 65% , due su tre, fanno un numero di ore superiore al massimo previsto dal contratto nazionale di lavoro (54 ore per un full time). Il 51% denuncia qualche livello di irregolarità contributiva, il 15% non ha mai visto un contributo. “Spie di una condizione lavorativa che, nei casi più estremi, può arrivare a connotarsi in termini di sfruttamento”. E le retribuzioni? In media una badante guadagna 800 euro al mese, con una retribuzione oraria di 4 euro. Abbastanza per chi coabita, troppo poco per chi deve pagarsi anche un affitto. Nel 2007, la media mensile era di 850 euro: in sette anni 50 euro in meno. Una perdita contenuta? Non se si guarda alla retribuzione oraria, che sette anni fa era di 6 euro. “In pratica, per mantenere un livello retributivo minimamente soddisfacente, le badanti lavorano di più, abbassando il proprio costo orario”. Le chiamano badanti, ma sono tutto-fare. Oltre il 50% svolge tutte le sette attività considerate “di base” (lavare, aiutare la persona nelle funzioni corporali, tenere in ordine la casa, stirare e cucinare), il 91% ne aggiunge anche almeno una di quelle “accessorie” (pagare le bollette, andare dal medico, controllare la scadenza di alimenti e farmaci), l’86% ha anche incombenze “para-infermieristiche” (somministrare medicinali, misurare febbre, pressione, glicemia, fare iniezioni e medicazioni varie). La percezione dei tempi più duri è chiara: il 42% è sicuro che negli ultimi anni sia diventato sempre più difficile lavorare con un contratto di lavoro, il 44% conferma che negli ultimi anni le famiglie chiedono di lavorare di più, senza per questo aumentare lo stipendio. Intanto, il lavoro logora corpo e mente: il 69%, da quando fa la badante, soffre di mal di schiena, il 41% di altri dolori fisici, il 39% ha problemi di insonnia, il 34% di ansia o depressione. L’autopercezione della professione è però positiva, se l’82% non ha remore nel dire a chiunque che mestiere fa. E si può anche dare a meno di perifrasi, tipo assistente familiare: il 59% ritiene che il termine “badante” sia il migliore per descrivere il lavoro che fa.
Viaggio nel lavoro di cura. Le trasformazioni del lavoro domestico nella vita quotidiana tra qualità del lavoro e riconoscimento delle competenze. Indagine promossa da ACLI COLF e PATRONATO ACLI e pubblicata il 16 Giugno 2014. Realizzata da IREF (Istituto di Ricerche Educative e Formative). In collaborazione con le sedi territoriali di Acli Colf e del Patronato Acli.
Nota metodologica. “Viaggio nel lavoro di cura” è un’indagine promossa da Acli Colf e Patronato Acli per comprendere le trasformazioni del lavoro domestico in Italia negli anni della crisi economica. La ricerca ha previsto due moduli: il primo preparatorio, realizzato attraverso focus group con le lavoratrici e il secondo, realizzato attraverso un’indagine con questionario strutturato. I risultati del primo modulo sono stati presentati nel novembre 2013 e sono disponibili sul sito acli.it. Le anticipazioni del secondo modulo di indagine sono l’oggetto della presente nota. Per l’inizio del 2015 è prevista la pubblicazione dei risultati definitivi di entrambi i moduli di indagine. L’indagine con questionario è stata realizzata dall’Istituto di Ricerche Educative e Formative (irefricerche.it) con la collaborazione di trenta sedi Acli Colf e Patronato Acli. Attraverso questa rete sono state contattate 837 lavoratrici, residenti in 177 comuni, attive nel settore dell’assistenza alle persone: le cosiddette “badanti”. Le interviste sono state realizzate dai volontari e dagli operatori delle Acli Colf in modalità faccia a faccia, solo in alcune situazioni il questionario è stato auto compilato dalle lavoratrici. La metodologia dell’indagine non prevedeva un piano di campionamento specifico, l’unico vincolo è che le intervistate lavorassero come assistenti familiari con persone anziane (in termini tecnici, quello analizzato è quindi un campione autoeletto).
Chi è stato intervistato. Il campione raccolto per l’indagine è risultato composto per la quasi totalità (94%) da donne. Al di là del dato più macroscopico, la presenza nel campione di un seppur piccolo gruppo di maschi conferma il risultato di altre indagini e mostra che il lavoro di assistente familiare non è esclusivamente femminile. Le persone intervistate nella maggior parte dei casi hanno un’età compresa tra i 45 e i 64 anni (rientra in questa fascia il 58% delle intervistate); le giovani donne (under35) sono l’11,7% del totale. Si tratta di persone sposate nel 34,8% dei casi, separate/divorziate nel 34,4%; mentre il 20,3% è single e il 10,5% ha perso il coniuge. Nel complesso, le intervistate che non hanno legami matrimoniali sono tre su quattro. Sotto il profilo formativo, una badante su tre è andata all’università (nel 21,2% dei casi ottenendo la laurea). Il 54,4% delle intervistate ha comunque studiato per almeno nove anni, soglia che, nell’ordinamento scolastico italiano, corrisponde alla frequentazione della scuola secondaria superiore. A ciò occorre aggiungere che il 22,4% ha avuto un’esperienza formativa in campo medico-infermieristico. Inoltre, una su tre ha fatto un corso di formazione specifico in Italia. Considerando entrambe le possibilità, si ottiene un 44,9% di intervistate che ha una qualche esperienza formativa in campo assistenziale. Le credenziali formative delle lavoratrici sono dunque mediamente elevate, sia in termini di cultura generale, sia rispetto alla formazione di settore. Ciò spinge a rilevare che il campione considerato dall’indagine appare rappresentativo del segmento medio-alto del lavoro domestico e di cura, considerazione che appare coerente con il dato sulla durata dell’esperienza professionale nel settore della cura: il 51,3% delle intervistate fa la badante da più di 5 anni. Sul fronte della provenienza nazionale, sono state intervistate donne e uomini da 35 nazioni diverse. Una badante su quattro è rumena, un altro 25% è di nazionalità ucraina. L’8,3% viene dal Perù, il 7,4% dalla Moldavia. In generale le donne dell’est-europee sono il 64,8% del campione, le intervistate che vengono dall’America Latina il 14,1%, dall’Asia il 6,6%, dall’Africa il 9,2%. Infine, il 5,2% delle lavoratrici è di nazionalità italiana. Quanto alle modalità di svolgimento del lavoro, nel 60% dei casi la lavoratrice coabita con la persona che assiste: è questo un dato da tenere presente perché la coabitazione, quasi sempre, implica delle differenze nella quantità e nella qualità della prestazione assistenziale. In generale, il profilo socio-demografico del campione è molto vicino alla rappresentazione tipica della badante: una donna matura, proveniente dall’Est-Europa con un titolo di studio mediamente alto che abita nella casa della persona che assiste. Per completare il profilo, un ultimo dato relativo ai legami con le organizzazioni che hanno promosso l’indagine: il 37,4% delle intervistate è iscritta alle Acli Colf, il 18,7% alle Acli. È interessante notare che, pur avendo realizzato l’indagine attraverso la rete Acli, il numero di lavoratrici con nessun legame formale con l’associazione è consistente: difatti, le iscritte ad almeno una delle due organizzazioni sono, nel complesso, il 51,8%. Al di là di queste affiliazioni, le donne contattate non hanno altre appartenenze socio-politiche: solo il 5,6% è iscritta a un sindacato. Anche i dati sulla partecipazione associativa sono particolarmente bassi: è iscritto a un’associazione italiana il 3,6% del campione, a un’associazione di connazionali il 5,6%.
Tanto lavoro per poco. Le badanti hanno ritmi di lavoro molto sostenuti: in media lavorano nove ore al giorno per sei giorni alla settimana. All’interno del campione ci sono anche lavoratrici che dichiarano di lavorare sette giorni su sette (11,8%); le badanti che dichiarano di lavorare 60 ore, o più, a settimana sono il 34,4%. Il 64,6% del campione fa un numero di ore superiore al massimo previsto dal contratto nazionale di lavoro (54 ore settimanali per una lavoratrice assunta full time): in pratica, due lavoratrici su tre lavorano più del massimo previsto dalla legge. Nel 76,5% dei casi il rapporto di lavoro è regolato da un contratto scritto, ma il 51,1% delle intervistate dichiara un qualche livello di irregolarità contributiva, con il 15% che afferma di non aver ricevuto nessun versamento contributivo. Orari di lavoro lunghi, difficoltà a contrattualizzare il rapporto, mancata contribuzione previdenziale sono le spie di una condizione lavorativa che, nei casi più estremi, può arrivare a connotarsi in termini di sfruttamento. Sul fronte delle retribuzioni, la stima ottenuta tramite la combinazione del calendario lavorativo (una serie di domande sull’orario lavorativo nei sette giorni della settimana) e l’ammontare complessivo dello stipendio mensile, evidenzia che in media le badanti guadagnano 800 euro al mese, risultato di una retribuzione oraria di 4 euro (valore mediano). Una cifra che, in caso di coabitazione, può essere considerata relativamente soddisfacente, mentre se la lavoratrice preferisce o è costretta ad abitare per conto proprio può essere insufficiente, soprattutto nelle grandi città. Continuando a esaminare i dati sulle retribuzioni, è interessante verificare le differenze tra non coresidenti e lavoratrici che invece non abitano nella casa della persona assistita. Le prime, al mese dichiarano di guadagnare 700 euro (valore mediano), le seconde, invece, 850 euro. Questa differenza si ribalta se si considera la paga oraria: le badanti coresidenti guadagnano 3,75 euro l’ora, le non coresidenti 4,32 euro. È evidente che il lavoro in coabitazione implichi un impegno orario nettamente superiore, per cui chi coabita guadagna un poco di più, lavorando molto di più. Questi dati, peraltro, possono essere comparati con quanto registrato in un’indagine similare, realizzata dall’IREF nel 2007 (Il welfare fatto in casa). Il confronto evidenzia una mediana della retribuzione mensile di 850 euro: in sette anni le badanti hanno quindi perso 50 euro al mese. All’apparenza si tratta di una perdita stipendiale contenuta, tuttavia se si considerano i dati relativi agli orari di lavoro si nota una dinamica di compensazione tra stipendio e orario di lavoro. Lo scarto più significativo è difatti nella retribuzione oraria che, nel 2007, era di 6 euro l’ora, nel 2014 solo di 4 euro. In pratica, per mantenere un livello retributivo minimamente soddisfacente le badanti lavorano di più, abbassando il proprio costo orario. La formula è più lavoro, per lo stesso stipendio. A livello territoriale, ci sono altre differenze significative: se nel Centro-Nord la retribuzione media è di 4,20 euro, nel Meridione si scende a 2,70. Proiettando su un orario di 54 ore settimanali i due dati citati, si ottiene un gap salariale fortissimo: poco più di 900 euro per le lavoratrici del Centro-Nord, 540 euro per le meridionali. Scendendo lo stivale in pratica si perde circa il 40% del salario. A influire in negativo, sulla retribuzione oraria sono anche altre variabili, come la dimensione della città e, ovviamente, lavorare o meno in co-residenza. Il combinato di questi due elementi dà come risultato che una badante coresidente occupata in un comune non capoluogo di provincia guadagna 3,86 euro all’ora. Al contrario una lavoratrice non coresidente che vive in una città metropolitana riesce a portare a casa 5 euro l’ora. Considerando, invece, solo la ripartizione geografica si ha che in un piccolo comune del Sud Italia il guadagno orario è di 2,69 euro, mentre in una grande città del Nord 4,50, con una differenza di 1,80 euro. I dati dunque evidenziano divari territoriali sia tra Nord e Sud, sia tra città e paese, con la co-abitazione che rafforza, in entrambi i casi, gli scalini retributivi. Un’altra indicazione di rilievo proviene dal confronto con l’indagine 2007. Le lavoratrici in coabitazione hanno perso in sette anni 1,25 euro all’ora: nel 2007 la retribuzione oraria era di 5 euro, nel 2014 è di 3,75 euro; una flessione di proporzioni maggiori si riscontra, però, tra le lavoratrici non coresidenti: da 6,50 euro l’ora a 4,32 euro, con una perdita di oltre 2 euro. In pratica, il lavoro in coabitazione ha resistito un po’ meglio alla compressione dei salari innescata dalla crisi poiché partendo da una base retributiva più bassa la riduzione non è potuta essere così marcata come quella riscontrata nel lavoro senza coabitazione. Sintetizzando al massimo le indicazioni ottenute dalle interviste, va rilevato che le retribuzioni orarie appaiono fortemente schiacciate sui minimi retributivi previsti dal CCNL e, in alcuni casi, sono anche significativamente inferiori. Per fare un esempio, un lavoratore non convivente di livello A (il più basso equivalente a un impiego generico e con limitato livello di responsabilità e autonomia) ha un minimo orario di 4,47 euro, una cifra molta vicina a quella percepita da molte delle badanti intervistate per la ricerca. Tuttavia, come si evince con chiarezza dai dati sulle mansioni, le badanti svolgono compiti molto più complessi e che darebbero diritto a retribuzioni orarie superiori.
Qualunque cosa succeda, occupatene tu. Le badanti intervistate assistono per lo più persone non autosufficienti dal punto di vista fisico e mentale (42,4%): solo il 19,1% lavora per persone completamente autosufficienti. In altre parole, le intervistate si fanno carico di assistere quelle persone che, per le famiglie, rappresentano un vero “rebus assistenziale” poiché hanno bisogni di cura complessi e costanti. Un dato fondamentale per comprendere la situazione lavorativa delle badanti è il supporto di altre figure assistenziali come assistenti domiciliari, infermieri/e, assistenti sociali. Al riguardo, il 60% delle lavoratrici afferma di occuparsi completamente da sola dell’assistenza. Il dato restituisce uno scenario preoccupante: le badanti che assistono persone con gravi problemi psico-fisici, in un caso su due, sono sole. Nel Meridione, il dato sale al 67,9%. C’è da aggiungere che nel caso di assistenza a un soggetto completamente non autosufficiente, la percentuale di lavoratrici che non riceve alcun aiuto esterno scende solo di dieci punti (50,8%). Specificando meglio il problema è opportuno riportare anche il dato relativo al supporto da parte di altre badanti: tra le lavoratrici che supportano persone con scarsa autonomia psico-fisica, solo una su quattro (25,6%) condivide il carico lavorativo con qualche altra collega. L’indagine permette di analizzare nel dettaglio le mansioni svolte dalle lavoratrici. Si possono distinguere tre generi di mansioni assistenziali: (1) di base, nel quale rientrano attività come lavare, aiutare la persona nelle funzioni corporali, tenere in ordine la casa, stirare e cucinare; (2) accessorie, ossia pagare le bollette, andare dal medico, controllare la scadenza di alimenti e farmaci, (3) para-infermieristiche, consistenti nel somministrare medicinali, misurare febbre, pressione, glicemia, fare iniezioni e medicazioni varie. Nel complesso, la ricerca ha raccolto informazioni su tutto lo spettro delle attività di cura e gestione della casa, assumendo – e testando con domande ad hoc tale ipotesi – che la badante non sia una figura occupata solo dell’assistenza alla persona, ma colei che entra anche nella gestione di ciò che ruota attorno alla persona assistita. Rispetto alle mansioni assistenziali di base, il 50,5% delle intervistate afferma di svolgere tutte e sette le attività previste dal questionario, un altro 29% invece dichiara di essere di svolgerne tra le cinque e le sei. Quando la lavoratrice coabita con la persona assistita è molto più frequente che sia incaricata di svolgere tutte le mansioni assistenziali di base (61,3%, contro il 33,7% delle lavoratrici che non coabitano). Sul fronte delle mansioni accessorie, il 90,9% delle intervistate ne svolge almeno una, con il 31,1% che si incarica di assolvere quattro o cinque mansioni accessorie. I dati mostrano che l’espressione mansioni accessorie, per quanto teoricamente adeguata, non coglie la concretezza del lavoro: in pratica, la badante è una sorta di factotum alla quale si chiede di espletare compiti eterogenei e non necessariamente connessi con l’assistenza alla persona. Basti pensare che il 43,2% delle intervistate afferma di svolgere anche lavori per la famiglia di appartenenza della persona che assiste e, in un caso su quattro, senza che per questi compiti aggiuntivi venga corrisposta alcuna integrazione economica. A questi carichi lavorativi occorre poi aggiungere una serie di incombenze di tipo para-infermieristico, mansioni che solo il 13,8% delle badanti non svolge. Il 49,8%, invece, ha la responsabilità solo di alcune delle attività para-infermieristiche previste dal questionario, mentre il 36,4% dichiara di doversi occupare di tutte le mansioni para-infermieristiche. C’è da rilevare che tra le badanti che dichiarano di svolgere tutte le mansioni di piccola assistenza medica, il 33,9% lavora “in nero”. In termini di responsabilità personale e di rischio lavorativo, quest’ultimo è un dato da considerare con attenzione poiché senza le tutele contrattuali si perde la possibilità di veder garantita la propria posizione in eventuali situazioni problematiche. Combinando i tre tipi di mansioni è stato elaborato un indice di carico lavorativo. Quando si assiste una persona in condizioni di non autosufficienza psico-fisica si rilevano i carichi maggiori si hanno: in questo caso, il 50,8% delle badanti fa registrare un valore alto sull’indice di carico lavorativo (il dato sul totale del campione è di 14 punti percentuali più basso, 36,4%); una differenza simile si osserva anche in assenza di supporto assistenziale da parte di terze persone (infermieri, assistenti sociali e domiciliari): 49,5% di alto carico lavorativo. Più di una lavoratrice su due si trova quindi in una situazione lavorativa nella quale la badante è l’unico attore assistenziale. L’assistente diventa un soggetto al quale viene chiesto di intervenire su tutto lo spettro dei bisogni di cura della persona. In pratica, in questi casi, la badante riceve una sorta di delega “in bianco”, sulla quale è scritto: “qualunque cosa succeda, occupatene tu”.
Comincio a non farcela più. Secondo le badanti intervistate, negli ultimi anni è diventato sempre più difficile lavorare con un contratto di lavoro: il 41,7% si dichiara molto d’accordo con questa considerazione. Allo stesso modo, il 44,3% delle badanti è molto d’accordo con l’idea che negli ultimi anni le famiglie chiedano alle badanti di lavorare di più, senza per questo aumentare lo stipendio. Le lavoratrici sembrano dunque avere una chiara percezione di quello che sta accadendo: la crisi economica ha impattato sugli standard minimi di lavoro, in alcuni casi, provocando un peggioramento. Una trasformazione che non riguarda solo orari e salari. Se si considerano i dati riferiti ai disturbi psico-fisici derivanti dall’esercizio della professione, si riscontrano altri segnali negativi. Il 68,6% delle intervistate dichiara che da quando lavora come badante soffre di mal di schiena, il 40,6% riferisce di altri dolori fisici. Fare la badante è, dunque, un lavoro logorante che influisce sulla salute della lavoratrice, soprattutto quando è condotto con ritmi di lavoro così serrati. C’è poi il logoramento psicologico: il 39,4% soffre di insonnia, mentre il 33,9% delle donne intervistate afferma di soffrire di ansia o depressione. Bisogna aggiungere che una badante su tre, nell’ultimo anno, non è mai andata da un medico a controllare il proprio stato di salute, tra le under35 il dato sale al 44,2%. Il tema del logoramento si salda dunque con la questione della qualità del lavoro: il settore assistenziale è strutturalmente labour intensive, tuttavia i dati su orari e carichi evidenziano la diffusione di fenomeni di sovra-occupazione. Per compensare le perdite salariali si lavora di più, peggiorando l’impatto del lavoro sulla vita personale. Sebbene a causa della crisi, la redditività del lavoro si sia ridotta, l’auto-percezione della professione è positiva: l’81,6% delle donne intervistate non ha remore nel dire a chiunque di fare la badante, mentre il 59,5% è dell’opinione che “badante” sia il termine migliore per descrivere il lavoro che fa (e per questo viene usato anche in questo comunicato stampa). Un’espressione per anni considerata squalificante trova l’approvazione della stragrande maggioranza delle lavoratrici. È un dato dall’alto valore simbolico che, però, appare in parziale contraddizione con un’altra opinione espressa dalle intervistate. Alla domanda, “Secondo te la gente sa quanto è importante il lavoro di badante?”, il campione si spacca in due gruppi: il 50,5% afferma che le persone comuni hanno una consapevolezza poca o nulla della valenza sociale del lavoro di cura; l’altra metà, invece, esprime un punto di vista positivo. Il lavoro di cura non ha, dunque, nelle percezione di chi lo svolge, caratteristiche socialmente stigmatizzanti ma sconta un deficit di riconoscimento sociale: questa sfasatura può essere una fonte di disillusione per le lavoratrici e influire negativamente sulle motivazioni personali, elemento quest’ultimo che, nello svolgimento di un lavoro stressante e logorante, conta molto.
Lavoro badanti 2018: addio assistenza H24 con vitto e alloggio, obbligatorie 11 ore di riposo consecutive. Come cambiano i contratti di lavoro badanti 2018 dopo la sentenza che ha imposto 11 ore di riposo consecutive al giorno: l'assistenza H24 con vitto e alloggio deve essere distribuita tra due persone? Ecco come essere in regola ed evitare multe, scrive Alessandra De Angelis il 06 Febbraio 2018 su Investire Oggi. Che cosa cambia per i contratti di lavoro badanti 2018 per soggetti che hanno bisogno di assistenza H24 dopo la recente sentenza della Cassazione in merito all’obbligo di riposo giornaliero di 11 ore consecutive? Le novità sul lavoro badanti 2018 non riguardano solamente l’aggiornamento delle tabelle delle retribuzioni ma sono fortemente connesse anche alle ripercussioni di questa sentenza. Ci scrive a tal proposito Vittoria L. per avere informazioni a favore della madre, che lavora come badante ed è stata in passato obbligata dai datori di lavoro ad accettare i turni H24 e contratti di lavoro domestico con vitto e alloggio: “ho letto che non sono più validi i contratti 24/24 che finalmente una lavoratrice dopo il turno di lavoro come badante ha il diritto di ritornare a casa sua e non può essere obbligata ad usufruire della formula vitto e alloggio…. Che è obbligatorio 11 ore di riposo consecutive. Quindi per un lavoro 24/24 devono essere due persone (una di giorno e l’altra di notte?), è così?”. La lettrice fa riferimento alla sentenza n. 24 del 4 gennaio 2018 con cui la Corte di Cassazione ha esteso anche al lavoro domestico il diritto al riposo giornaliero fissato a 11 ore consecutive. La conseguenza più evidente (e che sta suscitando grande interesse da ambo le parti coinvolte nel contratto di lavoro domestico) è proprio quella che richiede due persone per coprire il turno di giorno e di notte. Il caso di specie riguardava una Onlus di Lecco che forniva personale per l’assistenza familiare H24 sull’assunto che le ore di riposo dei dipendenti non dovessero essere necessariamente consecutive. Secondo la Onluns amministrata da religiosi, infatti, il contratto Uneba – Unione nazionale istituzioni ed iniziative di assistenza sociale – nello “stabilire che le lavoratrici e i lavoratori avevano diritto a un riposo giornaliero di undici ore ogni ventiquattro ore, non aveva previsto che le ore di riposo dovessero essere consecutive, lasciando in tal modo intendere che la volontà delle parti contraenti era quella di derogare, come facoltà, al dettato normativo generale, al fine di introdurre una disciplina più rispondente alle realtà e alle esigenze aziendali e, quindi, non irrazionale”. I giudici però hanno dato ragione alle badanti facendo peraltro appello al decreto legislativo 66 del 2003 che ha recepito la direttiva comunitaria sull’orario di lavoro e che prevede per tutti i lavoratori il diritto alla “fruibilità in modo consecutivo” delle undici ore di riposo minimo giornaliero, “fatte salve le attività caratterizzate da periodo di lavoro frazionati durante la giornata o da regimi di reperibilità”. Chi trasgredisce a questo diritto, oltre a multe salate (nel caso di specie una sanzione da 13.620 euro che però dovrà essere ricalcolata in conseguenza di alcuni cambiamenti legislativi intervenuti nel corso della causa), rischia una denuncia per sfruttamento della manodopera.
Le badanti truffate dalle cooperative: 800 euro per 22 ore di lavoro al giorno. E con partita Iva. Vengono sfruttate da società senza scrupoli che approfittano della loro scarsa conoscenza dell'italiano. E mentre le famiglie pagano bene queste coop, a loro a fine mese arriva un assegno inferiore ai mille euro. Su cui devono poi pagare le tasse, scrive Gloria Riva il 3 agosto 2018 su "L'Espresso". Sono quasi tutte straniere, parlano un italiano stentato e hanno una grandissima necessità di trovare lavoro. E così si trovano a sgobbare 22 ore al giorno per 900 euro al mese, al soldo di cooperative che le sfruttano. Il fenomeno, denunciato dalla Camera del lavoro di Bergamo è in rapida crescita e, per via di un buco normativo, perfettamente legale. Tant'è che i tentativi di denuncia e i procedimenti legali sono finiti male (per le lavoratrici), ma ora anche i sindacati dell'Emilia Romagna stanno ricorrendo alle vie legali per contrastare il fenomeno, riuscendo a ottenere le prime vittorie. Il tranello sta tutto nell'incapacità delle donne coinvolte di capire quale tipo di contratto viene loro proposto, come spiega Orazio Amboni, segretario della Cgil di Bergamo: «Non avendo una buona padronanza dell'italiano e, andando in fiducia, firmano documenti senza sapere esattamente di cosa si tratti. Credono si tratti del contratto, invece stanno aprendo una partita iva, si stanno iscrivendo alle Camere di Commercio locali». Le cooperative provvedono a tutto, trovano le famiglie bisognose di una badante e loro iniziano a lavorare presso di loro. Poi, una volta al mese, si recano alla cooperativa per incassate la busta paga e l'assegno: «In realtà quella è una fattura e i soldi intascati, che sono circa 800 al massimo 900 euro al mese, sono lordi, perché essendo lavoratrici indipendenti dovrebbero poi provvedere a pagare tasse e contributi». Insomma, queste immigrate, provenienti dall'Africa, dal Sud America e dall'Est sgobbano in media 22 ore al giorno, con solo un giorno di riposo la settimana per 800 euro lordi, cioè 400 euro netti al mese. Nella sola Lombardia sarebbero migliaia le donne coinvolte in questo fenomeno. Le stesse ignorano di non essere in regola, finché all'indirizzo della loro residenza arrivano cartelle esattoriali salatissime perché, ovviamente, non sanno di non aver versato tasse e contributi. Il sindacalista di Bergamo parla di un vero e proprio allarme e il sistema si sta estendendo anche all'Emilia Romagna: «Il fenomeno ha ripercussioni pesanti a livello contrattuale, sia per le lavoratrici, sia per le famiglie degli anziani, costretti a firmare clausole che prevedono un’esclusiva dell’agenzia nei confronti della lavoratrice attraverso un sistema di pesanti penali», denuncia la Cgil di Modena, che continua: «Conti alla mano, le famiglie che si appoggiano a queste cooperative spendono molto di più di quello che spenderebbero facendo un contratto regolare di assunzione secondo il contratto nazionale del lavoro domestico; con il rischio di dover sborsare altri soldi in quanto, in caso di controversie, risponde la famiglia utilizzatrice e non la cooperativa. Purtroppo le normative attuali, a causa di un buco giuridico, non consentono di dichiarare l’illegittimità di questa prassi; ma è fuori dubbio che ci si stia approfittando di lavoratrici deboli contrattualmente e di clienti deboli emotivamente». A Modena sarebbero oltre settanta le situazioni di questo tipo e decine le denunce all'ispettorato del lavoro che tuttavia fatica a districare la matassa, perché in alcuni casi le cooperative fanno capo ad aziende straniere e non regolarmente registrate in Italia. «Ovviamente le famiglie sono ignare di questi trattamenti alle badanti - continua Amboni - e a loro volta, hanno un rapporto commerciale con l’agenzia a cui pagano il doppio di quanto percepito dalla lavoratrice. Inoltre, capita che nel sottoscrivere il contratto di fornitura con la coop, le famiglie si obbligano per almeno 3 anni dalla cessazione del rapporto con la badante, a non assumerla direttamente e in caso contrario incorrono in penali economiche di 250 euro al mese e sino ad un massimo di 9 mila euro». Casi eccezionali? Non proprio. Per come sono strutturate le cooperative stanno diventando il sistema perfetto per aggirare le leggi sul lavoro, pagare poco i dipendenti e creare un sistema di dumping salariale legalizzato. Ne parliamo sul numero de l'Espresso in edicola domenica 5 agosto con un'inchiesta sul sistema delle cooperative italiane. Del resto proprio il ministero del Lavoro ha invitato tutti gli ispettori a concentrarsi nel corso del 2018 sulle finte cooperative, che sono il nervo sensibile e scoperto del mercato del lavoro. «Il tasso di irregolarità delle aziende controllate è del 65 per cento, significa che due aziende su tre sono risultate irregolari con una media di un lavoratore sfruttato ogni due imprese», c'è scritto nel resoconto annuale dell'Ispettorato, che continua dicendo: «In particolare bisogna continuare a porre particolare attenzione alle cooperative spurie. Addirittura nel 2017 una sola cooperativa ha ricevuto un verbale di oltre 25 milioni di euro, con debiti contributivi per 19,6 milioni e sanzioni civili per 6,4 milioni e migliaia di lavoratori coinvolti». E il settore più drammaticamente scoperto è quello del welfare, come spiega Adele Vitagliano, capo della Funzione Pubblica della Cgil di Milano: «Il sistema è malato. Nel senso che i comuni, le asl e gli ospedali, così come le rsa ricorrono ai soci di cooperative per la maggior parte delle attività di cura e assistenza. Gli appalti sono economicamente miseri e solo le cooperative possono accettarli. Poi, fanno quadrare i conti pagando pochissimo i soci cooperatori, costringendoli a turni massacranti e giocando sulla loro ricattabilità».
Colf, baby sitter, badanti: la carica degli uomini tutti casa, scuola e famiglia. Per scelta, scrive l'8 giugno 2014 Manuela Mimosa Ravasio su Oggi. Un po’ per crisi, un po’ per scelta, gli uomini si stanno avvicinando a impieghi prima considerati esclusivamente femminili. Si fanno chiamare baby tutor, manny, collaboratori alla cura… la rivoluzione che cambia famiglie, rapporti sociali e mondo del lavoro è iniziata. All’ennesimo licenziamento della servizievole badante di turno da parte della mamma anziana e incontentabile, la nuora suggerisce: «Prova con un uomo!». Arriva così un signore che si presenta come infermiere professionale, che limita con una certa autorevolezza alcuni eccessi senili e che in pochi giorni ristabilisce silenzio e benessere. La scena, per la verità presa da una puntata della serie americana di successo The Good Wife (moglie e marito sono i protagonisti Alicia e Peter Florrick), illustra alla perfezione ciò che sempre più spesso avviene nelle famiglie italiane. Sì, perché proprio nel Bel Paese, dove i lavori così detti “di cura” erano, fino a poco tempo fa, territorio prevalentemente femminile, un numero sempre più crescente di colf, baby sitter, casalinghi e badanti maschi, sta cambiando il mondo del lavoro e quindi scardinando molti pregiudizi sui lavori considerati “da donna” o “da uomo”. «La verità è che non c’è nessun elemento di predisposizione innata per attribuire a priori un tipo di lavoro a un uomo o una donna. Si tratta più di un’aspettativa sociale e di una tradizione culturale che portano a educare i diversi sessi a diverse professioni e quindi a sviluppare in modo differente alcune competenze». Chi parla è Margherita Sabrina Perra, autrice, insieme a Elisabetta Ruspini, del libro Trasformazioni del lavoro nella contemporaneità. Gli uomini nei lavori non maschili, il primo che prova a indagare in modo sistematico un fenomeno che in Europa è già realtà, e che raccoglie molte storie interessanti. Soprattutto storie di uomini che hanno scelto di fare lavori “da donna”. C’è un laureato di 35 anni, per esempio, che ha deciso di occuparsi di casa e figli mentre la moglie va al lavoro. Un altro che ha fatto di tutto pur di diventare maestro elementare, un altro ancora che rivendica il suo status di baby sitter. A complicare la vita, sono semmai le fidanzate, i papà, gli amici, la scuola che non ti fa compilare il modulo. È difficile rispondere “faccio il casalingo” si legge in una testimonianza, ma alla fine, tutti dovranno accettare: «Se le donne possono fare gli amministratori delegato, perché io non posso fare il badante?». Anche perché, per la verità, quando gli uomini si mettono a fare lavori “non maschili”, subito qualcosa cambia. «La cosa che emerge in modo piuttosto chiaro» continua Perra «è l’approccio professionale degli uomini che si avvicinano ai lavori di cura. Non si fanno neppure chiamare badanti, ma collaboratori familiari alla cura; non baby sitter, ma male tutor che non si limitano alla custodia del bambino, ma lo aiutano a sviluppare alcune conoscenze, magari linguistiche o sportive. In Europa, questi uomini, hanno costituito una vera e propria lobby con centri di formazione e selezione del personale ad hoc, perché persino trovare impiego con il classico passa-parola è considerato poco serio». Ma c’è di più. Al contrario delle donne, gli uomini non usano mai il fattore emotivo o relazionale nel rapporto con il datore di lavoro. Non si occupano del “nonnino”, non sono la “seconda mamma” o il “secondo papà”, non enfatizzano l’affetto o il sentimento. Essi dimostrano, o tendono a dimostrare, semplicemente la loro competenza e la loro efficienza. Il che, a quanto pare, piace, perché, a parità di lavoro, riescono a guadagnare di più, a migliorare più in fretta il loro status, e a fare più carriera. In Italia, siti organizzati sull’esempio dei tato/mannyanglosassoni (parola derivante da male+nanny) come l’autraliano My Manny ( ), l’americano NYCMannies, o l’inglese Royal Nannies, non ce ne sono. Alessandro Scali (nella foto tra Adriana Cantisani e Lucia Rizzi) è forse il più famoso baby tutor d’Italia, ma il fatto che, all’ottava stagione, un programma come SOS Tata abbia messo un tato, la dice lunga sulla rivoluzione nel settore dell’assistenza domestica di piccoli e grandi. E soprattutto sulla crescita della domanda. Conclude Perra: «Nel caso degli anziani, sembra che le famiglie abbiano compreso che l’approccio maschile riesca a rompere meglio quella sorta di dittatura delle assistite rispetto a chi le assiste… Il badante impone una diversa e precisa gerarchia e le richieste, in termini di disponibilità oraria o di prestazioni, tendono a contenersi. Per quanto riguarda i bambini invece, sono soprattutto le madri separate a richiedere una figura maschile: pensano che un uomo che accompagna il proprio figlio, o la propria figlia, a fare sport o alle feste, riesca a compensare un vuoto formale». Comunque la si pensi, bisogna constatare che la presenza degli uomini in questo settore sta aprendo la strada a una maggiore professionalizzazione dei lavori di cura. Inoltre, cosa di non poco conto, questa trasformazione sociale incide in modo profondo sul concetto tradizionale di mascolinità. Se i giovani uomini oggi non hanno paura di esprimere la loro identità emotiva e relazionale, se sono genitori partecipi praticamente ed emotivamente e quindi vicini a quello che, per cultura e abitudine, era un ambito esclusivamente femminile, è naturale che si apra per loro anche la dimensiona lavorativa. E che, per esempio, gli uomini casalinghi costituiscano una rete per dire che la vita domestica in fondo è un piacere.
PADRINI, PADRONI E SCHIAVI.
Padrini, padroni e schiavi, scrive Attilio Bolzoni il 14 marzo 2018 su "La Repubblica". Questa è un'inchiesta sulle mafie che dai campi arrivano fino alle nostre tavole. Passando dalla "tratta” delle ragazze e dai "caporali” del Sud e del Nord, dai mercati ortofrutticoli più grandi d'Italia, dalla riduzione in schiavitù di uomini e donne e a volte anche di bambini, dal racket dei trasporti e dalla “grande distribuzione organizzata”, dai meccanismi legali per sfruttare meglio i lavoratori, dai ricatti sessuali, dalla mala accoglienza degli stranieri che favorisce sempre e comunque i boss. E' il "made in Italy” che diventa il "made in Mafia”. E' un'inchiesta firmata da Marco Omizzolo, sociologo e giornalista, responsabile scientifico della Onlus "In Migrazione”, uno dei massimi esperti italiani che da anni denuncia il legame che c'è fra la filiera agricola e la criminalità. La settimana scorsa Marco ha subito l'ennesima intimidazione, un altro avvertimento per farlo stare zitto, i suoi scritti danno molto fastidio. E allora eccoci qui con lui. Per quindici giorni consecutivi. Nel nostro Paese - quello con il maggior numero di prodotti agricoli tutelati nel mondo, come scrive Omizzolo nelle prime righe del suo lavoro - non ci sono zone franche. Non c'è solo l'Agro Pontino dei padrini e dei padroni, non ci sono solo le serre del Ragusano o gli aranceti della Piana di Gioia Tauro, i campi della Capitanata e gli orti di Villa Literno o di Castel Volturno. Le mafie dei campi hanno messo radici anche su, in Piemonte e in Emilia Romagna, in Toscana, in Veneto, in Lombardia. Vittime di abusi che sfiorano lo schiavismo - con un "caporalato” strutturato come nelle regioni meridionali -, sono marocchini e cinesi, romeni, albanesi. Un giro di false cooperative, truffe, manodopera migrante da una città all'altra, capi e sottocapi che dirigono il "traffico”. Marco Omizzolo entra nei tre grandi mercati di Fondi, di Milano e di Vittoria ma anche nel labirinto della mafia a km 0, del "mondo del bio” che non è sempre quello che sembra. Parla dei primi processi contro i negrieri e dei ritardi della giustizia italiana, del ruolo dei clan stranieri, delle varie forme di "pizzo” che bisogna pagare per lavorare. Una serie del blog "Mafie” sulle agromafie che s'inoltra anche nel mistero e nel dramma dei suicidi dei braccianti indiani nelle campagne intorno a Latina. E racconta di un doping molto speciale, ragazzi che assumono droghe - metanfetamine, oppio, antispastici - per stare qualche ora più in campagna e non sentire la fatica. Con spacciatori che sono loro connazionali e con fornitori di provenienza camorristica: c'è sempre mafia dove c'è droga. E dove c'è da spremere sangue e soldi c'è sempre 'Ndrangheta. Analisi, dati, storie, uno spaccato della realtà italiana che è sotto gli occhi di tutti ma che nessuno vuole vedere. Marco Omizzolo ci accompagna nell'inferno delle campagne dove regnano le mafie.
Ingiustizia organizzata e giustizia troppo lenta, scrive Marco Omizzolo il 26 marzo 2018 su "La Repubblica". Marco Omizzolo - Giornalista, saggista, sociologo, responsabile scientifico della Onlus "In Migrazione”. Contro mafiosi e criminali, caporali e trafficanti tutti riconoscono l'importanza della denuncia. Se ti sfruttano, affermano, devi denunciare. Se sei vittima di caporalato, devi denunciare. Gli appelli in tal senso sono continui. Non si sconfiggono le mafie e lo sfruttamento, affermano e con ragione, senza la denuncia. Non ci sarebbe antimafia senza il coraggio di alcuni, italiani e migranti, che da semplici cittadini o come lavoratori, decidono di denunciare il boss di turno, il caporale, il trafficante di esseri umani. Quando si presenta una denuncia, sia chiaro, ci si affida allo Stato, ai processi che dallo Stato sono organizzati, alle procedure formali, alle leggi dell'ordinamento. Si ripone fiducia nella giustizia immaginando di ottenerne presto, dando un contributo al Paese in cui si è nati o nel quale si risiede. Questa però è solo, purtroppo, a volte, retorica. Contro le mafie dei padrini e dei padroni si chiede infatti alle vittime più fragili, le lavoratrici e i lavoratori migranti sotto caporalato e gravemente sfruttati, di denunciare e di avere fiducia nello Stato italiano. Una fiducia a volte ricambiata. È accaduto con il processo Sabr a Lecce che ha riconosciuto le responsabilità di un sistema mafioso di sfruttamento che prevedeva la riduzione in schiavitù dei lavoratori migranti. Ma cosa succede invece generalmente in molti tribunali italiani? Succede che ci si rende conto di un'Italia che decide di non scendere in campo e di perdere, dunque, la partita della giustizia ancora prima di averla giocata. Sono decine i processi contro caporali, sfruttatori e trafficanti iniziati grazie alle coraggiose denunce di lavoratori migranti ridotti in schiavitù, vittime di caporalato e di tratta internazionale a scopo di sfruttamento lavorativo. Pochi di questi però arrivano addirittura alla prima udienza. C'è da vergognarsi. Se per questa strada si vuole contrastare e sconfiggere lo sfruttamento lavorativo e le agromafie è meglio tornare alla mobilitazione o nel peggiore dei casi riconoscere di aver fallito come Paese. Spesso i tribunali più inefficienti sono proprio quelli presenti in territori in cui il fenomeno mafioso e dello sfruttamento lavorativo è particolarmente organizzato, rodato, diffuso, sistemico. Presso il Tribunale del Lavoro di Latina, ad esempio, una della province dove il caporalato e le mafie sono più diffuse, peraltro in forme spesso originali, c'è solo un giudice deputato a dirimere migliaia di cause. Secondo le raccomandazioni giunte da Roma dovrebbero, forse, arrivare altri due magistrati. Per ora però nessuna garanzia reale e, comunque, resterebbe un Tribunale gravemente sotto organico. Proprio in provincia di Latina, il 18 aprile del 2016, è stato organizzato dalla Onlus "In Migrazione” e dalla Flai Cgil uno dei più importanti scioperi di braccianti migranti contro lo sfruttamento degli ultimi cinquant’anni. Una vera azione di antimafia sociale. Da allora “In Migrazione” continua a girare per le campagne per intervistare i braccianti indiani vittime di caporalato e tratta, gravemente sfruttati e truffati in vario modo, fornendo loro consulenza legale gratuita, facendo formazione e spesso incoraggiando la denuncia nei casi più gravi. Un'attività non senza pericoli, considerando il complesso degli interessi economici e politici, criminali e non solo, che si toccano, contrastano e denunciano. “Dopo il 18 aprile – dichiara Simone Andreotti, presidente di In Migrazione - grazie al capillare lavoro di mediazione e informazione che stiamo conducendo nel territorio e nonostante i pericoli, abbiamo aiutato oltre 70 braccianti indiani a denunciare caporali, padroni e sfruttatori vari. Un lavoro fatto con grande passione e competenza e senza alcun sostegno da parte delle istituzioni locali interessate”. Scorrendo i nomi delle aziende e dei caporali denunciati si riesce a disegnare una cartina precisa dell'agromafia di quella provincia mentre ascoltando le storie dei lavoratori punjabi sfruttati si comprende perfettamente l'organizzazione mafiosa del caporalato pontino. Eppure, con un solo giudice al lavoro o quasi, quelle domande di giustizia e legalità vengono puntualmente disattese. In questo modo l'ingiustizia rimane organizzata, diffusa e mafiosa. L'ordine degli avvocati di Latina si è già rivolto al Consiglio superiore della Magistratura e al ministro della Giustizia denunciando il rinvio sine die dei processi e l'inadeguatezza dei locali adibiti a sezione lavoro, incapienti e inadatti alla trattazione delle udienze. “E' inaccettabile – afferma Roberto Iovino, responsabile legalità Flai Cgil - che in un paese civile e a distanza di anni, i lavoratori che hanno avuto il coraggio di denunciare la difformità della loro retribuzione rispetto a quanto previsto dai contratti non abbiano ancora ricevuto giustizia. Si dà cosi l’immagine di uno Stato assente, vanificando lo sforzo di chi è impegnato ad affermare legalità e giustizia nel mondo del lavoro. Non si può da un lato annunciare una lotta senza quartiere al lavoro nero e al caporalato per poi non fornire a chi deve fare le ispezioni e ai magistrati del lavoro le risorse necessarie per assicurare che sia fatta giustizia”. Intanto le denunce continuano a riempire gli armadi del tribunale, l'ansia di giustizia dei lavoratori viene umiliata e la certezza di impunità dei padroni e dei mafiosi confermata. Kamaljiit, bracciante indiano di circa cinquant'anni che per venti ha lavorato nelle relative campagne spezzandosi la schiena sotto diversi padroni e molti caporali, dice di essere “molto deluso dallo Stato italiano. ..Io volevo giustizia perché il padrone italiano mi ha sfruttato facendomi lavorare tutti i giorni e dandomi a fine mese circa 400 euro. Lavoravo anche 14 ore al giorno. Ma qui in Italia sembra che la giustizia sia dalla parte dei padroni”. Dopo aver ascoltato una riunione organizzata da “In Migrazione” e precisamente nel tempio Sikh nel comune di Sabaudia, in cui si informavano i braccianti dei loro diritti, del valore del contratto di lavoro, del ruolo del padrone e del caporale, Kamaljiit decide, con un atto di grande coraggio e responsabilità, di denunciare la sua condizione facendo nomi e cognomi. Un atto che meriterebbe il riconoscimento della cittadinanza italiana in un Paese civile. Kamaljiit abitava in un uno stanzone senza riscaldamento e con copertura in eternit insieme ad altri 7 lavoratori indiani. Aveva a disposizione solo un letto e un armadio dove teneva i suoi pochi vestiti e qualche foto della famiglia in India. Per mangiare si rivolgeva al tempio della sua comunità che gli garantiva sempre un pasto caldo. Lavorava per un'azienda agricola tra San Felice Circeo e Sabaudia, domenica compresa, per appena 3 euro l'ora. Coi pochi soldi guadagnati poteva permettersi solo una bicicletta con la quale ogni mattina faceva circa 20 chilometri per andare a lavorare ed altrettanti per tornare a casa. Per due anni Kamaljiit ha annotato tutto dietro le pagine di alcuni calendari. Ha registrato il complesso delle ore lavorate al giorno, quanti soldi ha percepito e quanti il padrone gliene aveva promessi, fino al momento in cui ha deciso di denunciare, consapevole che la difesa della propria dignità è la prima forma di antimafia da mettere in campo. La denuncia gli è costata molto, anche solo considerando la sua esposizione e i rischi impliciti. Stante la sua condizione, si trattava di un gesto rivoluzionario. Dal padrone, dopo qualche settimana, è stato allontanato e gravemente minacciato. Kamaljiit viene preso in carico da “In Migrazione” che riesce a trovargli fuori provincia un lavoro in un'azienda agricola che gli ha garantito un contratto e tutti i diritti relativi. Si è affidato allo Stato.
Ebbene, sono trascorsi 4 anni da quella denuncia e il Tribunale di Latina non è riuscito a tenere neanche la prima udienza di quel processo. Quattro anni di silenzi, frustrazione, anonimato obbligatorio. Intanto i suoi testimoni hanno preso altre strade. Alcuni sono tornati in India, altri sono andati a lavorare nelle campagne di Reggio Emilia. La sua udienza, finalmente fissata per il 30 novembre del 2017, è stata ulteriormente rinviata a fine novembre del 2018. Kamaljiit sa che forse non avrà giustizia dal Paese nel quale vive da circa 20 anni. Il padrone italiano invece non sarà obbligato ad assumersi le sue responsabilità, anzi, ne uscirà, probabilmente, pulito e libero. Lo stesso sta accadendo con un'azienda ortofrutticola tra le più grandi del Pontino. Produce ravanelli in serra che i lavoratori raccolgono piegati sulle ginocchia tutto il giorno per poi esportarli in tutta Europa, Olanda compresa. I lavoratori venivano pagati 3 euro per raccogliere 120 mazzetti da 15 di ravanelli. È lavoro a cottimo. Gli 80 euro del governo non sono mai arrivati nelle tasche dei braccianti indiani che erano obbligati anche a comprarsi gli indumenti adatti per lavorare. Dopo una loro pacifica richiesta di aumento rivolta direttamente al datore di lavoro, quest'ultimo, per repressione, ha abbassato la retribuzione a 2,90 euro. Il caporale indiano reclutava prevalentemente i lavoratori più giovani la sera per la mattina mediante messaggio sui social. I lavoratori più anziani erano considerati meno subordinati perché più consapevoli dei loro diritti e, dunque, meno ricattabili. Per questa ragione sono stati chiamati sempre meno, mobbizzati, emarginati e mal pagati. I braccianti indiani, anche in questo caso, hanno denunciato tutto, compreso il caporale indiano che dopo due anni di appostamenti della Polizia di Stato, intercettazioni, interrogatori e filmati, viene arrestato, salvo tornare in libertà e al lavoro nella sua stessa ex azienda dopo appena pochi giorni. “Abbiamo denunciato e aspettiamo giustizia ma ci ha sorpreso rivedere il caporale lavorare. Quella persona ci ha insultato, trattenuto i soldi dallo stipendio e spesso non ci chiamava a lavorare perché noi conosciamo i nostri diritti. Se dopo le denunce non cambia nulla perché denunciare?” dice Hardeep, uno dei lavoratori che ha presentato denuncia e che peraltro è stato vittima di tratta internazionale a scopo di sfruttamento lavorativo. Sono trascorsi tre anni e ci sono state solo alcune udienze preliminari. I testimoni dei lavoratori indiani dovevano presentarsi dinnanzi al giudice a fine novembre 2017 ed invece l'udienza è stata rinviata, anche in questo caso, a fine novembre del 2018. I lavoratori continuano a chiedere giustizia ad uno Stato che sembra aver alzato bandiera bianca. Padroni, aziende e sempre più anche caporali lo sanno benissimo e si lasciano denunciare sapendo che tutto sarà rinviato, sine die. I braccianti intanto continuano ad essere reclutati dai caporali e alcune aziende agricole continuano a pagare 3 euro l'ora per 14 ore di lavoro al giorno. Poco è cambiato per i lavoratori se non la consapevolezza di vivere in un Paese ingiusto come i padroni italiani dinnanzi ai quali devono chinare la testa ogni giorno della loro vita lavorativa, alcuni dei quali si fanno anche chiamare boss.
L'inferno delle donne, lavoro in cambio di sesso, scrive il 22 marzo 2018 Marco Omizzolo su "La Repubblica". Marco Omizzolo - Giornalista, saggista, sociologo, responsabile scientifico della Onlus "In Migrazione”. Sempre più donne, migranti e italiane, lavorano come braccianti nelle campagne del Paese. Solo in Puglia, secondo la Flai Cgil, ci sono circa quaranta mila braccianti donne gravemente sfruttate e retribuite trenta euro per lavorare 10 ore continuative nella raccolta delle fragole o dell'uva. Molte di loro sono sfruttate più dei loro colleghi italiani e, a volte, anche sottoposte a spregevoli forme di ricatto e violenza sessuale. Donne, spesso migranti, che per lavorare devono accettare di essere toccate dal padrone o dal caporale di turno, se non di salire sull'auto del padrone italiano allo scopo di soddisfare ansie sessuali. È il corpo della lavoratrice donna che diventa oggetto, strumento, espressione di un potere che è machista e mafioso nel contempo. Esistono realtà in cui questa aberrazione è in qualche modo esplosa. Si tratta di aree agricole in cui lo sfruttamento lavorativo e il caporalato è meglio organizzato e più ramificato, come in Calabria, Puglia, a Vittoria (Sicilia) e nel Pontino, e le mafie diffuse nella filiera agricola come in quella politica e amministrativa. Non è raro infine trovare alcuni centri di accoglienza che fanno da cornice e ufficio di collocamento di questa coniugazione spregevole tra sfruttamento lavorativo e sessuale. Ancora una volta partire dalle parole delle donne sfruttate e ricattate è la strada migliore da seguire per comprendere i contorni di questa vicenda. Ramona, bracciante romena di circa 30 anni impiegata nelle campagne della provincia di Latina dichiara: “Il padrone mi aveva assunto e subito chiesto di andare ad una cena aziendale con lui. Mi sorprese questa proposta ma accettati perché pensai di stare con altre persone e di non correre pericoli. Tra le prime persone che mi presentò c'era l'avvocato dell'azienda, un uomo molto ricco di circa 70 anni. Sul finire della serata il padrone mi disse che, se volevo davvero lavorare nella sua azienda, dovevo salire con quell'avvocato nella sua auto e soddisfare le sue richieste sessuali. Io mi alzai e andai via. Ovviamente non ho potuto lavorare con quell'azienda”. Anche Amita, giovane donna, madre e bracciante indiana pontina, racconta la stessa esperienza. “Io non ho capito subito – dice Amita - non sono abituata. Per noi il rispetto è tutto. Il padrone invece mi ha detto che dovevo accettare la sua proposta, altrimenti andavo a lavorare nel campo con gli uomini oppure restavo a casa”. Amita ne parla con accanto il marito che ci accoglie in una casa modesta, nelle campagne tra i Comuni di Sabaudia e Pontinia. Il padrone esporta ortaggi in tutta Europa, fa lavorare i braccianti indiani di notte, è dichiaratamente un fascista e usa le donne come strumenti da sfruttare sul lavoro e per il suo piacere personale. Un imprenditore agricolo pontino invece confessa di impiegare braccianti romene che spesso recluta direttamente in Romania alle quali concede in affitto alcune sue abitazioni, chiedendo loro di soddisfare le sue richieste sessuali o quelle dei figli. Sono tutte giovani ragazze reclutate anche sulla base dell'età e bellezza, impiegate come braccianti e spesso malpagate e, infine, indotte ad accettare le richieste sessuali del padrone per poter continuare a lavorare. Un padrone non collegato ad alcun clan e di origine veneta peraltro. Il fenomeno è molto più esteso di quello che si pensa. Storie analoghe si possono ascoltare in Puglia o in Sicilia. Leonardo Palmisano, sociologo e scrittore, non ha dubbi: “La condizione delle donne in agricoltura è spaventosa. Ci sono, per esempio, braccianti nigeriane e ghanesi, nel foggiano, sfruttate come prostitute la sera. Il ricatto sessuale è all'ordine del giorno. E non poche sono minorenni. I due fenomeni tendono a fondersi in un unico sistema neoschiavistico”. E quando le ragazze, sfruttate nei campi agricoli italiani, vivono nei centri di prima accoglienza il cerchio si chiude. Dormono nei centri, lavorano come schiave nei campi e di notte sono obbligate a prostituirsi sulle strade in prossimità del centro stesso. Lo ha denunciato ad ottobre del 2017, in un convegno pubblico organizzato dal Dipartimento Pari opportunità, il responsabile immigrazione della Caritas, Oliviero Forti, che ha dichiarato: “Nei centri di accoglienza straordinaria, le vittime di tratta vivono accanto ai propri sfruttatori. È una realtà nota, alla quale finora non si è riusciti a dare alternativa”. Un problema già sollevato e mai affrontato nel merito. La preparazione degli operatori nei centri di accoglienza è spesso inadeguata ad affrontare situazioni di questa natura. Molte delle strutture presenti in Campania, in particolare lungo il litorale Domizio, ad esempio, sono dotate di un unico operatore per la mediazione, accompagnamento in questura, presso la Asl e in ospedale, distribuzione dei pasti e gestione delle varie criticità. Sotto questo profilo la situazione è fuori controllo in diverse regioni, come in Calabria, ad esempio, almeno secondo la denuncia degli attivisti della Campagna LasciateCIEntrare che sono riusciti a introdursi in due strutture della provincia di Catanzaro, a Lamezia Terme e a Feroleto Antico. Tutto questo significa che la tratta delle prostitute sta passando anche attraverso alcuni centri di accoglienza italiani. Le schiave nei campi e sulle strade compiono lo stesso esodo dei profughi. Prima nel deserto, poi su un gommone in mezzo al Mediterraneo e, infine, sbarcano in Italia e vengono collocate in un centro di accoglienza. Molte di loro vengono sfruttate nei campi e poi in strada. Vittoria però, in Sicilia, è il caso più eclatante. Donne reclutate in Romania vengono spesso portate nel ragusano per essere sfruttate nelle relative campagne. Alcune di loro, dopo essere giunte a Vittoria, vengono impiegate in campagna per lavorare 10 o 12 ore al giorno. Le più belle e giovani, spesso le più fragili e ricattabili, anche perché madri, sono obbligate a soddisfare le voglie sessuali del padrone. Vengono infatti obbligate ad esibirsi in qualche casolare abbandonato in campagna con intorno padroni italiani. Il primo a denunciare tutto è stato un parroco di Vittoria, Don Beniamino Sacco, un uomo forte e coraggioso, che ha chiamato questa mostruosità, “festini agricoli”. A Vittoria, oltre il 40% della manodopera romena è composta da donne, arrivate in autobus dalla zona di Botosani con la speranza di lavorare per mantenere quasi sempre il loro bambino rimasto in patria. In tutto i romeni di questa zona sono 4 mila e le donne circa 1.600-1.800, con un’età che va dai venti ai quarant' anni. Don Sacco ritiene che sarebbero tra le 1.000 e le 1.500 le donne romene vittime dei loro padroni italiani. Il numero di aborti nella provincia è infatti esploso ed è un chiaro indicatore che conferma le violenze sessuali nei confronti delle braccianti romene. É un fenomeno diffuso e nel contempo ancora troppo sommerso. Lo Stato dovrebbe intervenire non solo reprimendo i protagonisti di questa mostruosità ma prevenendo il fenomeno e poi agendo con servizi sociali adeguatamente finanziati e articolati, professionali e competenti, per aiutare tutte le donne vittima di violenza e sfruttamento, tratta, ricatto sessuale e segregazione a superare il trauma e tutelandole integralmente. Ma di uno Stato così attento e impegnato per ora non si vede neanche l'ombra.
Gli invisibili “caporali” dell'Italia del Nord, scrive il 23 marzo 2018 Marco Omizzolo su "La Repubblica". Marco Omizzolo - Giornalista, saggista, sociologo, responsabile scientifico della Onlus "In Migrazione”. Le agromafie sono un fenomeno esteso. La loro dimensione è sistemica e come tale interna al modello di produzione vigente in agricoltura a livello globale. Per questa ragione è bene superare ogni riserva geografica che vuole confinare lo sfruttamento, il caporalato, l'azione delle agromafie solo all'interno di alcune regioni italiane del Meridione. Il caporalato è infatti presente anche in Toscana, Abruzzo, Emilia Romagna, Veneto, Lombardia e in molte altre regioni del Nord del Paese. I rapporti Agromafie e caporalato dell'Osservatorio Placido Rizzotto della Flai Cgil e Agromafie dell'Eurispes lo rilevano annualmente e mettono in guardia da interpretazioni superficiali del fenomeno. In Piemonte, ad esempio, le aree dove il caporalato è più organizzato e diffuso sono i distretti di Cuneo (Saluzzo e Bra), Alessandria (con Tortona e Castelnuovo di Scrivia), Asti (con Canelli, Castigliole e Motta), Verbania (con Cusio-Ossola). In questa regione gli occupati nel settore agro-alimentare sono circa 71 mila, di cui oltre 20mila stranieri. Un lavoratore su 4 è dunque immigrato. Le collettività straniere maggiormente impiegate sono quella cinese, marocchina, romena, indiana e albanese. Anch'essi sfruttati in modo criminale, soprattutto nella provincia di Alessandria e nell’Astigiano. Tra Canelli e Carmagnola, ad esempio, la Guardia di Finanza ha scoperto ad agosto del 2016 ben 106 lavoratori in nero e quasi 150 cooperative agricole che sottopagavano (anche 2 euro all’ora) i braccianti. A Carmagnola, un bracciante di 45 anni romeno è morto a causa del lavoro intensivo e dei 50 gradi in serra. A Saluzzo la situazione è gravissima e si ripete ogni anno. Ilaria Ippolito, operatrice sociale e ricercatrice, racconta di “centinaia di migranti originari dell’Africa Subsahariana che lavorano o sono alla ricerca di un impiego in agricoltura, accampati in tende e baracche auto-costruite nella zona del Foro Boario”. Inoltre, “nonostante la gestione di progetti di accoglienza in campi container e edifici comunali da parte di Caritas e Coldiretti – continua Ippolito - per un totale, attualmente, di circa 230 posti, le condizioni delle persone accampate al Foro Boario rimane inaccettabile. In questo contesto, l’affermazione e la tutela di alcuni diritti fondamentali - abitare dignitoso e ottenimento di una residenza amministrativa, cure mediche nell’ambito del Sistema Sanitario Nazionale, tutela legale e sindacale in linea con le esigenze delle persone - risultano estremamente complessi, se non inattuabili”. In Lombardia spiccano, per numero di stagionali, soprattutto stranieri, i distretti di Lecco, Mantova, Pavia (con il Pavese, l’Oltrepo e la Lomellina), Monza e Milano. Già, proprio Milano, la locomotiva economica d'Italia che ha ospitato l'Expò, dove di caporalato, tratta internazionale a scopo di sfruttamento lavorativo, agromafie, della responsabilità della Grande Distribuzione Organizzata, di mafie nella filiera agro-industriale italiane e in quella commerciale, non si è di fatto parlato. Un'occasione mancata ma anche un segnale puntuale: si può parlare di cibo ma non di chi lo produce e come. E poi il bresciano dove a settembre del 2016 un bracciante romeno di 66 anni è morto mentre lavorava con altri connazionali reclutati da una cooperativa romena in una vigna di Erbusco. È accaduto durante la vendemmia del Franciacorta, anche a causa del caldo torrido e di un'afa fuori stagione. Una morte che un risultato lo ha sicuramente ottenuto: i braccianti polacchi e romeni sfruttati in modo impietoso nella vendemmia per guadagnare solo pochi euro l’ora, con contratti facilmente aggirati e privi di tutele, sotto caporale e pagati a cottimo, sono stati sostituiti lentamente da pakistani e indiani impiegati con le medesime condizioni. Nella provincia di Bolzano, soprattutto a Laives, la situazione non cambia, mentre in Emilia Romagna si devono considerare le aree di Ravenna, Cesenatico e Ferrara (con i distretti di Codigoro, Argenta, Copparo, Alto ferrarese, Ferrara e Portomaggiore). Nella regione “rossa” il caporalato è assai diffuso nonostante nessuno ne parli. Secondo la Flai Cgil Emilia Romagna, ad esempio, il caporalato e il grave sfruttamento lavorativo si manifesta mediante appalti non regolari e false cooperative coi lavoratori che aspettano l’sms la sera prima per sapere se il giorno successivo andranno a lavorare o meno. Nelle industrie di trasformazione, macellazione, salumifici e prosciuttifici è diventata questa la forma di lavoro utilizzata da molte aziende. Una prassi diffusa a Modena come a Parma, dove sono presenti molti impianti di macellazione bovina e suina. C’è però anche la macellazione avicola, ed ecco dunque la Romagna, con Forlì-Cesena in particolare. Ci sono cooperative che albergano in Veneto e organizzano lavoratori del nord Africa per caricare i camion dei polli. In questo tipo di settore è prevalente manodopera migrante ma sono presenti anche italiani. La Guardia di Finanza ha eseguito nel 2016 un ordine di custodia cautelare nei confronti di 5 caporali accusati di associazione per delinquere finalizzata allo sfruttamento del lavoro e impiego di manodopera clandestina. Tre arresti sono stati eseguiti a Cesena, mentre gli altri due a San Bonifacio, in provincia di Verona. La loro organizzazione sarebbe riuscita a gestire più di 50 lavoratori, tutti marocchini, di cui 15 non regolarmente soggiornanti, impiegati, grazie alla copertura fornita loro da tre cooperative, nella raccolta dell'uva nelle vigne e nel facchinaggio all'interno degli allevamenti di polli e galline del Forlivese. In Veneto, fenomeni di caporalato si sono registrati invece nella provincia di Padova. In Toscana, diverse centinaia di braccianti migranti, soprattutto romeni, bulgari, bangaldesi e albanesi, continuano ad essere impiegati sin dalle prime ore dell'alba, attraverso caporali, nelle aziende agricole tra Siena e Grosseto. È la vendemmia a costo zero, tra i vigneti preziosissimi del Chianti e della Maremma. Molti di loro sarebbero retribuiti neanche cinquanta euro per una giornata di otto o dieci ore di lavoro, senza contratto, assicurazione e indumenti adeguati. Ovviamente non è solo illegalità, evasione fiscale e contributiva. È un sistema criminale che determina forme di impiego neo-schiavistiche, pienamente mafiose, perché è all'interno di tale cornice che il caporalato e il grave sfruttamento lavorativo si collocano. E questo vale nel Sud come nel Nord del Paese. Il governo dovrebbe mettere mano al sistema della grande distribuzione organizzata, riformare le norme sulle migrazioni e il welfare, migliorare la giustizia, cambiare il sistema di produzione dichiarando guerra ad ogni mafia, sfruttamento e caporalato. Non basta arrestare mafiosi e caporali. Si devono cambiare le condizioni alla base che determinano la nascita di queste figure, spregevoli quanto uno Stato che non vuol capire.
Il trucco delle buste paga “legali”, scrive il 21 marzo 2018 Marco Omizzolo su "La Repubblica". Marco Omizzolo - Giornalista, saggista, sociologo, responsabile scientifico della Onlus "In Migrazione”. “Quel sindacalista è amico del padrone. Lui mi ha detto di firmare un foglio scritto in italiano che non capivo perché così avrei lavorato anche la prossima stagione. Altrimenti perdevo il lavoro”. Lo confida Deep, bracciante indiano in provincia di Latina durante uno dei molti colloqui che la Onlus “In Migrazione” tiene nelle campagne o nei luoghi di culto indiani pontini, per dare alle migliaia di braccianti suoi connazionali la possibilità di contrastare un sistema rodato di sfruttamento pienamente mafioso. Quello che racconta Deep avviene ogni volta che un'azienda agricola italiana, più o meno grande, decide di intervenire sugli arretrati non pagati ai suoi lavoratori, rubando loro, anche in questo caso, mesi e mesi di salario, in cambio di poche centinaia di euro, con la complicità di qualche conciliatore italiano, a volte un sindacalista. Niente di illegale, sia ben inteso. La legge è dalla loro parte, ancora una volta. Lo stesso è accaduto a Ramona, una bracciante rumena ancora della provincia di Latina che si è sentita prima proporre delle cene galanti con il suo ex padrone italiano di circa settant'anni, “per renderlo felice del lavoro che facevo”, confida con gli occhi lucidi, e poi di “conciliare circa 40mila euro con 600 euro che il padrone mi avrebbe dato ma recuperato sottraendomi dalle mie buste paga future circa 100 euro al mese per sei mesi”. Ramona ha resistito, si è trasferita in un paese del Nord Italia ma solo dopo aver accettato di diventare testimone, in un importante processo in provincia di Latina, per alcuni braccianti indiani, suoi compagni di lavoro, contro il padrone italiano e il suo caporale. Le conciliazioni, che peraltro il Jobs Act ha reso ad ulteriore vantaggio del datore di lavoro, sono un istituto che dovrebbe permette di evitare l'azione giudiziaria, e dunque di ingolfare ulteriormente i nostri Tribunali, a fronte di un accordo stabilito tra le parti con l'aiuto di un conciliatore regolarmente autorizzato. Parti che dovrebbe essere messe però su un piano di eguaglianza, almeno in teoria. In questo caso invece si conciliano le posizioni di un padrone italiano, ricco e potente, con quelle di un bracciante indiano, spesso incapace di comprendere gli elementi essenziali del discorso impostato dal conciliatore e dal padrone e di leggere e comprendere quanto da loro scritto sul verbale di conciliazione. La dinamica padronale e mafiosa è sempre la stessa. O firmi quel verbale in italiano o non vieni richiamato al lavoro, non solo nell'azienda del padrone ma in tutte quelle con le quali quel padrone è in contatto. Per questa ragione il lavoratore indiano, o di altra nazionalità, decide di firmare. E così concilia. Il padrone gli riconosce a volte 500 o 600 euro in cambio dell'azzeramento di un debito nei confronti del bracciante anche di 30mila, 40mila o 50mila euro. Soldi che spetterebbero al lavoratore straniero e che invece non riceverà mai sebbene abbia lavorato 14 ore al giorno tutti i giorni del mese, per anni. Il conciliatore ovviamente conosce perfettamente questa pratica e la incentiva invitando il lavoratore indiano a firmare. Così si avalla, in sostanza, uno spregevole ricatto occupazionale per via di una procedura che ancora una volta non considera i reali rapporti di forza tra datori di lavoro agricoli e lavoratori migranti, spesso gravemente sfruttati. Ma il danno in questo caso diventa beffa. La legge italiana prevede conciliazioni al minimo di 1 euro. Questo significa che una conciliazione a 500 euro è perfettamente legale. Con un'aggravante: il lavoratore, una volta firmata la conciliazione, rinuncia definitivamente alla possibilità di presentare una denuncia o una vertenza. Cornuto e mazziato dunque. Non è da escludere una convenienza diretta, magari economica, da parte del conciliatore. Il padrone ricava così decine di migliaia di euro non corrisposti ai lavoratori, che moltiplicato per i suoi 30, 50, 100 dipendenti significa intascarsi centinaia di migliaia di euro. Il lavoratore, bracciante indiano in questo caso, torna a casa con un foglio che sa di condanna, con pochi euro in tasca, che arriveranno forse con un assegno circolare, e la convinzione di poter tornare a lavorare il mese successivo, per 14 ore al giorno, tutti i giorni del mese, tutto l'anno, chiamando padrone il datore di lavoro italiano. A questa pratica si aggiungono quelle di molti altri liberi professionisti, avvocati, commercialisti, consulenti del lavoro, notati e ragionieri. Alfieri di un sistema di sfruttamento che con la loro professionalità riescono ad organizzare in modo pressocchè perfetto. Sono infatti molti i ragionieri che tengono la contabilità in aziende agricole governate da padroni italiani che mediante caporali sfruttano i braccianti. Sono professionisti che preparano i contratti di lavoro, che scrivono le buste paga dei lavoratori, dove registrano solo 4 giornate lavorative a fronte delle 30 realmente lavorate, ben sapendo che dietro quei numeri si nasconde una realtà di sfruttamento e truffa. Ogni mese inseriscono in busta paga solo 6 ore e trenta di lavoro, come previsto dal contratto nazionale di categoria, eppure sanno bene che i lavoratori sono impiegati 12 o 14 al giorno. Sono professionisti che si guardano bene dal tradurre i contratti nelle lingue dei braccianti stranieri e che mai si permettono di diventare testimoni nei processi contro i datori di lavoro, i caporali, i trafficanti, ma che agiscono consentendo loro, sul piano formale, di continuare le loro azioni criminali unendo così il mondo illegale dello sfruttamento e delle mafie con quello formale e regolare. Sono dunque complici, come afferma Mandeep, bracciante di 45 anni che ha partecipato il 18 aprile del 2016 al primo sciopero dei braccianti indiani in provincia di Latina. “Come è possibile che io lavoro 30 giorni al mese e il padrone ne segna solo 4? E' così che in busta paga ci danno solo 300 euro e invece dovremmo prenderne 1200 o di più. Tutto il resto rimane nelle tasche del padrone che divide parte di quei soldi col caporale”. E i commercialisti, pronti a costituire nuove società e aziende appena il padrone ritiene conveniente farlo per non pagare le tasse oppure per evitare di essere condannato in una eventuale vertenza di lavoro messa in piedi dai suoi ex lavoratori e dal sindacato. Ne sono prova alcune importanti aziende agricole pontine che dopo una serie di vertenze di lavoro organizzate da alcuni loro ex braccianti indiani, hanno pensato bene di chiudere le loro vecchie società, svuotarle di ogni bene e credito, per aprirne di nuove così ostacolando la giustizia e impedendo, di fatto, il riconoscimento di quanto dovuto in caso di condanna ai braccianti. È un sistema formale, che è costola di quello mafioso, in cui vince sempre il più forte, potente, ricco. Come anche quegli avvocati che indicano ad alcuni padroni italiani le procedure e le prassi migliori per continuare a gestire la propria manodopera, soprattutto migrante, nel modo che ritengono più conveniente, a consolidare il redditizio traffico di esseri umani a scopo di sfruttamento lavorativo, a evitare le trappole della nuova legge contro il caporalato, a riciclare milioni di euro mediante passaggi societari, anche internazionali, con la complicità di funzionari di banca che incassano milioni di euro senza interrogarsi mai sulla loro origine. È il problema del “money laundering”. L’Italia vanta una delle legislazioni antiriciclaggio più avanzate eppure, già nel maggio del 2011, l’allora Vice Direttore Generale di Bankitalia, Anna Maria Tarantola, affermava come il riciclaggio pesasse oltre il 10% del PIL (contro il 5% stimato dal FMI a livello mondiale). Un'autentica emergenza che si perpetua a causa di un network mafioso che va oltre le mafie generalmente intese e i criminali abitualmente identificati ma che comprende professionisti del crimine bancario, del riciclaggio, della truffa, dello sfruttamento lavorativo, della tratta internazionale, dell'occultamento di denaro nero. Una mafia oltre le mafie che si muove in giacca e cravatta, mafiosa nel sangue ma titolata e di alto profilo culturale. Mafiosi e professionisti che lo Stato dovrebbe combattere con maggiore determinazione a partire da quelli tra questi che occupano posizioni nella pubblica amministrazione, nelle aziende di Stato, nelle prefetture o nelle banche. Aveva però forse ragione De Andrè quando cantava: “e lo Stato sai che fa? Si costerna, s'indigna, si impegna, poi getta la spugna con gran dignità”.
Puglia, il primo processo agli schiavisti, scrive il 17 marzo 2018 Marco Omizzolo su "La Repubblica". Marco Omizzolo - Giornalista, saggista, sociologo, responsabile scientifico della Onlus "In Migrazione”. Condannati per riduzione in schiavitù e associazione a delinquere finalizzata allo sfruttamento dei lavoratori. È l'esemplare sentenza di primo grado di condanna stabilita dai giudici della Corte d’Assise di Lecce al processo Sabr emessa il 13 luglio 2017 nei confronti di 12 imputati, 4 imprenditori salentini e 8 caporali stranieri. Per la prima volta, infatti, una corte di giustizia italiana ha riconosciuto ufficialmente il reato di riduzione in schiavitù, praticato da un'associazione criminale di Nardò, in provincia di Lecce, espressione di un'alleanza perversa tra alcuni imprenditori agricoli italiani e caporali stranieri con riferimento al periodo fra il 2008 e il 2011. I braccianti migranti erano tutti residenti nella masseria Boccuri, luogo oggi simbolo del degrado che coinvolge parte del Paese e della sua imprenditoria, obbligati a vivere in condizioni indecenti e ad obbedire agli ordini del padrone di turno. La retribuzione era da fame: appena 3,5 euro ogni 300 chili di pomodori raccolti a fronte di un contratto provinciale di lavoro che prevedeva 5,92 euro a ora e 38,49 euro a giornata per 6 ore e 30 di lavoro. La giornata lavorativa prevedeva dalle 10 alle 12 ore di lavoro tutti i giorni, domenica compresa, per un totale di circa 20/25 euro giornaliere. Inoltre, essendo vietato portare acqua e cibo, i lavoratori erano costretti ad acquistarli direttamente dal caporale al prezzo di 1 euro a bottiglia e 3,50 euro a panino. Ciascuno di loro poi doveva pagare 5 euro ai caporali per il trasporto sui campi agricoli: in un furgone da 9 posti venivano stipati anche 25 lavoratori. I braccianti venivano obbligati a lavorare senza soste, senza le protezioni necessarie per la propria incolumità fisica previste dalla legge, privi di assistenza sanitaria e contributi previdenziali. Le intercettazioni della Procura sono emblematiche: “Ora quelli te li sfianco fino a questa sera…”, viene detto da uno dei caporali. Il giudice delle indagini preliminari di Lecce, Carlo Cazzella, nell'ordinanza cautelare è stato chiarissimo. Nel caso delle campagne salentine esisteva “un’organizzazione criminale transnazionale costituita da italiani, algerini, tunisini e sudanesi, attiva anche a Rosarno e in altre parti del sud Italia”. Dei controlli neanche l'ombra. Dove erano gli ispettori del lavoro, la Asl e quanti avevano il potere di intervenire? La condizione di clandestinità costringeva i lavoratori ad accettare qualsiasi occupazione per sopravvivere. I braccianti arrivavano soprattutto dalla Tunisia, spinti dalla disperazione e della prospettiva di un lavoro. Sbarcati in Sicilia, a Pachino, centro noto per la coltivazione del pomodoro ciliegino, venivano reclutati dall’organizzazione criminale per lavorare nelle campagne pugliesi e proprio a Pachino si recava l'imprenditore agricolo salentino Pantaleo Latino, ritenuto “il promotore e organizzatore del sodalizio”. Uomini dunque trattati come schiavi, obbligati al silenzio, ammassati in casolari abbandonati e fatiscenti, privi di servizi igienici e arredi, costretti a pagare a prezzi spropositati alimenti e bevande forniti dai caporali. Se si ribellavano, venivano sottratti loro i documenti e minacciati pesantemente. Le accuse a carico degli imputati portati alla sbarra dalla procura antimafia di Lecce erano pesanti: associazione a delinquere e riduzione in schiavitù, estorsione, favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e della permanenza in stato di irregolarità sul territorio nazionale, intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. A questi capi d'imputazione i magistrati hanno aggiunto il vecchio reato di caporalato introdotto nel codice penale nell'estate 2011, ossia proprio nei mesi roventi in cui - secondo il pm Elsa Valeria Mignone - a Nardò si sarebbero consumati reati terribili, documentati dai carabinieri del Ros. Tra i maggiori protagonisti di quella battaglia, si deve ricordare Yvan Sagnet, che insieme ai suoi compagni decise di organizzare scioperi e manifestazioni, rompendo un sistema mafioso di silenzi, connivenze, complicità. Tutti sapevano in paese ma nessuno parlava. Ci hanno pensato i braccianti migranti a rompere quell'omertà mafiosa, mettendo in campo un'azione di vera antimafia sociale, pubblica, coraggiosa, rivoluzionaria. Vennero arrestate 22 persone e 12 furono infine gli imprenditori e caporali condannati ad undici anni di reclusione per riduzione in schiavitù (che ha assorbito anche quello di associazione a delinquere) e all'interdizione perpetua dagli uffici pubblici. I loro nomi meritano di essere ricordati: Pantaleo Latino, 63 anni, di Nardò, ritenuto l’imprenditore che organizzava l’arrivo, la permanenza e i turni di lavoro dei braccianti; Ben Mahmoud Saber Jelassi, 47 anni, tunisino, il cui soprannome di “Sabr” diede poi il nome all’inchiesta. Stessa condanna per quegli altri imputati definiti dall’accusa collaboratori di Latino: Livio Mandolfo, 51 anni, di Nardò; Giovanni Petrelli, 54 anni, di Carmiano (per entrambi erano stati chiesti nove anni); Meki Adem, 56 anni, sudanese; per Aiaya Ben Bilei Akremi, 33 anni, tunisino; Yazid Mohamed Ghachir, 48, nato in Algeria, chiamato “Giuseppe l’algerino”. E ancora, Saeed Abdellah, 30 anni, sudanese; Rouma Ben Tahar Mehdaoui, 42 anni, tunisino. Nizar Tanja, 39 anni, sudanese. Infine, Marcello Corvo, 55 anni, di Nardò, e Abdelmalek Aibeche Ben Abderrahma Sanbi Jaquali, 46 anni, tunisino, sono stati assolti dall’accusa di riduzione in schiavitù e condannati a tre anni di reclusione e all’interdizione di cinque anni dagli uffici pubblici, con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla permanenza irregolare di stranieri per sfruttarli nel lavoro nei campi. Assolti invece “per non aver commesso il fatto”, Corrado Manfredi, 64 anni, di Scorrano; Giuseppe Mariano, 79 anni, di Porto Cesareo e Salvatore Pano, 61 anni, di Nardò. La Corte d’Assise ha inoltre riconosciuto i risarcimenti per coloro che si sono costituiti parte civile, ovvero otto braccianti, tra cui Yvan Sagnet, attualmente presidente dell’associazione No Cap, la Regione Puglia, la Cgil e l’associazione Finis Terrae, che gestì fino al 2011 la masseria nelle campagne neretine e sostenne i migranti nella lotta allo sfruttamento. Secondo Sagnet, “si tratta di una sentenza storica che segna una svolta nella lotta contro il caporalato e lo schiavismo moderno in Italia e non solo. Giustizia è stata fatta per migliaia di lavoratori e lavoratrici che da almeno 30 anni nelle campagne neretine vedevano la loro dignità calpestata, ogni giorno”. E con ragione continua ancora: “I nostri avvocati hanno dimostrato che la schiavitù moderna non consiste nel mettere fisicamente le catene ai piedi dei lavoratori, ma nel ridurli in uno stato di soggezione continua, approfittando della loro vulnerabilità. Con questa sentenza lo ripeto giustizia è stata fatta”. Il processo Sabr certifica l'intima natura di un sistema di produzione che è arrivato ad includere e legittimare, nelle forme criminali che lo esprimono, lo stato in schiavitù di migliaia di lavoratori e lavoratrici, soprattutto migranti, in Italia. È anche la più chiara smentita dell'ottusa miopia di alcuni studiosi, avvocati, giuristi, sedicenti esperti, che persistono nel sostenere che le moderne forme di schiavitù non sarebbero presenti nel Paese. Proprio il processo Sabr, invece, ha rotto l'ipocrisia dei “negazionisti/riduzionisti” e svelato, anche dal punto di vista giudiziario, l'esistenza di una forma di schiavitù che ha nel rapporto di lavoro la sua espressione di base ma che si estende fino a definire un nuovo modello sociale localmente determinato e mafioso in sè, governato da padroni, caporali, trafficanti, mafiosi, dentro il quale i lavoratori vengono ridotti a puro strumento di produzione e di arricchimento. Chi nega tutto questo, dopo il processo Sabr, dichiara la propria complicità con chi ancora ritiene legittimo sfruttare e schiavizzare uomini e donne.
Quando il succhiasangue è straniero, scrive il 15 marzo 2018 Marco Omizzolo su "La Repubblica". Marco Omizzolo - Giornalista, saggista, sociologo, responsabile scientifico della Onlus "In Migrazione”. Quando si parla di mafie in Italia vengono subito in mente i nomi delle principali famiglie criminali o di clan efferati: Riina, Badalamenti, Cava, Schiavone, Rinzivillo, Strangio, Arena e poi clan dei Casalesi, di 'Ndrangheta, di camorra e di altre mafie. Ma non tutte le mafie sono note e non tutte sono italiane. Esistono mafie straniere che in Italia gestiscono affari milionari, in alcuni casi con l'ausilio e sotto la podestà di clan italiani. Alcune di queste battono bandiera straniera ma non sono d'importazione. Sono nate nel nostro Paese attraverso prassi, consuetudini, metodologie d'azione consolidate che nel lungo periodo hanno generato organizzazioni sostenute da interessi economici criminali dentro un'economia che comprende tutti i portatori di denaro, senza mai interrogarsi sulla loro origine, obiettivi e modalità operative. La loro primaria collocazione è proprio nella filiera agricola nazionale. Esse gestiscono la tratta internazionale a scopo di sfruttamento lavorativo, l'intermediazione illecita (caporalato) e una serie di “servizi” non secondari come il racket interno alla propria comunità di appartenenza, usura, rinnovo dei documenti normativamente previsti (si ricorda il caso di un bracciante indiano nel Pontino che per avere la carta di identità si è rivolto ad un boss suo connazionale che si è fatto pagare 1.000 euro), superamento delle vertenze con il datore di lavoro, spaccio di sostanze stupefacenti, in alcuni casi connesso allo sfruttamento nei campi agricoli come nel caso della comunità indiana pontina - come denunciato dal dossier “Doparsi” per lavorare come schiavi di “In Migrazione,” - gestione illegale delle abitazioni e dei servizi connessi. Alcune operazioni delle forze dell'ordine hanno messo in evidenza questo fenomeno. Un imprenditore di origini bangladesi è stato condannato dal Tribunale di Napoli nel luglio del 2017 a 8 anni con l'accusa di associazione per delinquere finalizzata al grave sfruttamento lavorativo e al favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, con l'aggravante del reato transnazionale. L'imprenditore sfruttava venti lavoratori migranti pagandoli 250 euro al mese, facendoli lavorare dodici ore al giorno dopo aver ritirato loro i passaporti e minacciato ritorsioni sui loro familiari in Bangladesh. Ad un imprenditore agricolo di Paternò, in Sicilia, invece, sono stati sequestrati beni per 10 milioni di euro dalla Direzione investigativa antimafia di Catania per aver reclutato manodopera romena a basso costo da impiegare nelle campagne del catanese attraverso un'associazione operante fra Paternò e la Romania. Ogni mafia straniera, secondo la Procura Nazionale Antimafia e le varie Direzioni distrettuali antimafia, ha specifiche caratteristiche connesse agli ambiti culturali di provenienza. La mafia nigeriana è specializzata nella tratta internazionale a scopo di sfruttamento sessuale e lavorativo. Quella russa ricicla denaro sporco e investe in immobili e in finanza. Quella cinese nel riciclo di denaro illecito, nell'impiego di loro connazionali in occupazioni senza regolare contratto e nella tratta. Quella indiana è in corso in formazione soprattutto in provincia di Latina ed è in grado di reclutare in Punjab, regione nord occidentale dell'India dalla quale proviene gran parte della relativa comunità pontina, mediante una relazione diretta e interessata con alcuni imprenditori agricoli locali, connazionali ai quali viene promesso di arrivare regolarmente in Italia e un lavoro nelle aziende agricole locali. Si tratta di false promesse per le quali il migrante indiano è disposto a pagare, spesso indebitandosi, anche 10mila o 15mila euro, per ritrovarsi nelle campagne pontine alle dipendenze del padrone italiano a volte per 200-300 euro la mese. Un sistema rodato e organizzato che in origine prevedeva addirittura la collaborazione con la mafia russa, la quale si preoccupava di trasportare i migranti indiani facendogli attraversare gli Urali su auto o piccoli furgoni in condizioni terribili in cambio, ancora una volta, di denaro contante. È dentro questo sistema che caporali, sfruttatori e trafficanti stranieri, col tempo e attraverso la migliore organizzazione delle loro attività, diventano nuovi boss, attori protagonisti di un nuovo agire mafioso che trova proprio in agricoltura la sua cornice perfetta sebbene non l'unica. Già nel 2008, con l’“operazione Viola”, risultò la penetrazione e strutturazione della criminalità nigeriana in Italia nella gestione di un traffico di esseri umani che in Nigeria reclutava manovalanza a bassissimo costo per le imprese edili italiane e, nel contempo, reclutava donne nigeriana che obbligava con violenza alla prostituzione. Ancora ad ottobre del 2017 i carabinieri del Nucleo Ispettorato del Lavoro di Taranto, della Compagnia di Castellaneta e della stazione di Marina di Ginosa, hanno dato esecuzione a due provvedimenti cautelari in carcere nei confronti di un italiano di Ginosa Marina e di un romeno, considerati responsabili, a vario titolo, di intermediazione illecita di manodopera e sfruttamento del lavoro nell’ipotesi aggravata, estorsione, furto aggravato, lesioni personali, tentata violenza privata in concorso. Sono stati anche deferiti in stato di libertà altri tre romeni accusati di avere, insieme all'italiano arrestato, provocato lesioni ad un loro connazionale durante una “spedizione punitiva” dopo la segnalazione da lui fatta alla polizia sulle irregolarità e i soprusi subiti. In provincia di Latina esistono invece squadristi indiani assoldati dal boss indiano per intimidire, spesso con atti di grande violenza e sempre pubblici, coloro che osano contestarne l'autorità o intralciarne gli affari. È accaduto ad Ardea, vicino Roma, e a Pontinia, a Latina, durante alcune manifestazioni tradizionali della comunità punjabi. Circa trenta indiani hanno infatti assaltato gli organizzatori con bastoni e spranghe con lo scopo di dare loro una lezione, tanto da mandarne alcuni in ospedale e ricordare a tutta la comunità chi detiene il potere e cosa è capace di fare. Ad agosto del 2017 un importante blitz dei carabinieri è scattato nelle campagne fra Monreale e Camporeale, in provincia di Palermo, area dove nulla si muove o si raccoglie senza il consenso dei clan, nelle quali giovani ghanesi, gambiani, eritrei, ivoriani erano impiegati nella vendemmia per il migliore vino siciliano anche per quattordici ore al giorno per 20-30 euro. Dalle vigne del palermitano a quelle di Mazara la situazione non cambia. Nei campi di Gibellina si coltivano i meloni, nelle serre del ragusano i pomodorini, nei terreni dell’agrigentino invece le pesche ma ovunque il sistema di reclutamento internazionale e impiego risulta gestito da consorterie criminali straniere che forniscono manodopera a bassissimo costo alle aziende locali, spesso con il consenso dei boss italiani. Nelle campagne di Vittoria, in Sicilia, numerose donne romene vengono reclutate nel loro paese d'origine probabilmente anche sulla base della loro bellezza ed età da clan romeni. Per essere sfruttate nelle campagne siciliane da caporali italiani e stranieri insieme a imprenditori italiani che su di esse praticano, al termine della giornata di lavoro, ricatti e violenze sessuali. Le mafie straniere, dunque, sono un altro capitolo delle agromafie italiane sulle quali poco si ragiona e meno si agisce. Un errore grave che rischia di farci ritrovare, tra non molto tempo, con interi territori e settori economici gestiti da nuove mafie non meno efferate di quelle italiane, con collegamenti internazionali e in mano centinaia di migliaia di persone e milioni di euro.
LAVORO MINORILE. SCHIAVI INVISIBILI.
Lavoro minorile: l’Italia è il Paese dei piccoli schiavi. Hanno tra i 10 e i 14 anni. Per paghe da fame si spaccano la schiena nei campi o scaricano casse al mercato. Inchiesta su una piaga sociale in aumento, che ci fa ripiombare nel passato, scrive Arianna Giunti il 9 gennaio 2019 su "L'Espresso". Mercato del pesce di Napoli, prime luci dell’alba. Giovanni,13 anni, affonda le mani nude nel ghiaccio, che taglia la pelle come una lama. Qualche chilometro più avanti, vicino alla stazione Centrale, c’è una che ragazzina di 12 anni che vende profumi in un chiosco abusivo. Dall’altra parte dell’Italia, nella campagna del Piemonte, Francesco, 14 anni, sta iniziando a scaricare la sua prima cassa di frutta della giornata. Continuerà fino a notte fonda, per 75 euro a settimana. Piccoli schiavi che lavorano: un esercito di manovalanza invisibile, risucchiata dal gorgo del mercato nero per retribuzioni da fame, senza contratti né tutele. Sembra una fotografia in bianco nero scattata nell’Italia del Dopoguerra, quando la miseria era talmente profonda che a rimboccarsi le maniche dovevano essere persino i bambini. E invece succede adesso, a tutte le ore, sotto le luci al neon delle nostre metropoli. Ragazzini lavoratori nei cantieri, nei mercati, nei bar e ristoranti, nei chioschi e negli autolavaggi. Il lavoro minorile - in Italia vietato dal 1967 - è una piaga mai definitivamente guarita. Anzi adesso, per via di una crisi economica che infuria e uccide sogni e speranze, è in lento e continuo aumento. Un problema di cui nessuno parla, dimenticato dalle istituzioni e dai ministeri. Basti sapere che un monitoraggio nazionale - più volte invocato dalle associazioni del settore - ancora oggi non esiste. Per capirne la portata, però, basta dare uno sguardo al numero di ispezioni e segnalazioni che ogni settimana arrivano alla Direzione Centrale della Vigilanza dell’Ispettorato del Lavoro: dal 2013 fino al primo semestre del 2018 si sono verificati 1.437 casi di violazioni penali accertate della normativa sul lavoro minorile. In poche parole: ragazzini al lavoro sotto l’età consentita per legge, 16 anni. Diciotto, per i lavori più usuranti. Ogni anno - confermano i numeri - si registrano piccoli ma subdoli aumenti del fenomeno. E si tratta ovviamente soltanto di una minuscola stima. Perché nella maggioranza dei casi lo sfruttamento dei minori rimane sotterraneo, impermeabile a denunce e controlli. Secondo i calcoli dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro il numero dei piccoli schiavi in Italia supera ormai le 300mila unità. Un’emergenza che riguarda soprattutto bambini italiani, spesso convinti a lavorare dalle loro stesse famiglie. E così, di pari passo con un livello di dispersione scolastica sempre più allarmante, ecco che avanza una generazione senza avvenire. O pronta a diventare potenziale serbatoio per attività criminali. Per capire basta un dato: il 66% dei minori che oggi sta scontando una condanna penale ha svolto attività lavorative prima dei 16 anni.
La trappola della “gestione familiare”. La mappa del lavoro minorile si srotola lungo l’Italia in una desolante geografia che dalle campagne della Pianura Padana porta ai mercati rionali del Sud. Anche i Tribunali - per contrastare il fenomeno - lavorano a pieno ritmo. A Ravenna, pochi mesi fa, una coppia è stata condannata per aver accettato che il figlio di 15 anni lavorasse in un’azienda agricola a conduzione familiare. Durante un controllo, i militari hanno trovato il ragazzino intento a scaricare pesanti casse di frutta. Indagando hanno scoperto che il piccolo - che per lavorare aveva abbandonato la scuola - doveva rispettare turni precisi, dalle 8 del mattino. Tutto ovviamente in nero. «Si è tirato su le maniche e siamo orgogliosi di lui», si sono difesi i due genitori davanti al giudice Beatrice Marini. E ora, convinti di essere nel giusto, hanno presentato ricorso. Contrariamente a quanto si possa pensare, il lavoro minorile è infatti anche un fenomeno settentrionale: i casi più frequenti si registrano in Lombardia, Emilia Romagna e Piemonte, terre di fabbriche e di piccole imprese a gestione familiare. I settori dove il lavoro minorile è più diffuso - è il freddo dato delle statistiche - sono il commercio, la ristorazione, l’agricoltura e i servizi. «Si tratta dei lavori più terribili nelle condizioni peggiori, che spesso comportano danni fisici perché non osservano neppure le più basilari norme di sicurezza», conferma il pediatra Giuseppe Mele, Presidente dell’Osservatorio Nazionale sulla salute dell’Infanzia. Fra le attività più controllate dai Carabinieri del Nucleo Ispettorato del Lavoro nel Nord, per esempio, ci sono gli autolavaggi delle grosse metropoli come Torino, dove spesso ragazzini dai 13 ai 18 anni vengono sottoposti a ritmi massacranti per 3 euro all’ora. Poche settimane fa, l’ultimo caso: un adolescente di 14 anni è stato trovato in servizio presso un’officina di Porta Palazzo.
«La giustificazione da parte dei familiari che li spronano a lavorare è sempre la stessa: imparano un mestiere e, in tempo di crisi, portando qualche euro a casa», spiega Anna Teselli, ricercatrice dell’associazione Bruno Trentin Cgil. «In realtà non potrebbe esserci approccio più sbagliato e traumatizzante al mondo del lavoro: in questo modo i baby lavoratori rischiano di diventare “neet”, giovani adulti senza più speranze né futuro, che una professione neppure la cercano perché, per quel poco che hanno potuto vedere, quel mondo li ha disgustati».
Ambulanti dall’alba al tramonto. Che i piccoli lavoratori finiscano per ingrossare le fila delle maestranze criminali, invece, è quasi una certezza a Napoli. Qui gli “scugnizzi che faticano” sono sotto gli occhi di tutti. I ragazzini fra i 9 e i 16 anni vengono utilizzati da bar e ristoranti per le consegne a domicilio, nei chioschi e persino dalle piccole imprese edili dove maneggiano cazzuole e mattoni senza le adeguate protezioni. Le paghe - tutte ovviamente in nero - rasentano la miseria: dai 2 ai 5 euro all’ora. Nei mercati rionali, i piccoli ambulanti sono impiegati ai banchi del pesce e della frutta e verdura, si svegliano all’alba e rimangono fino alla chiusura dell’attività. Se si chiede loro quanti anni abbiano, la risposta è una bugia automatica che serve ad allontanare eventuali controlli: «Ho 16 anni, e sto aiutando mamma e papà». La loro, ormai, è diventata una scelta di vita: hanno abbandonato per sempre gli studi, in un territorio dove l’addio precoce alle aule scolastiche raggiunge il 18%. Al parcheggio abusivo di San Giovanni a Teduccio ogni mattina lo scenario è lo stesso: i bambini vengono scaricati dalle automobili dai loro stessi genitori, aprono i bagagliai e tirano fuori cassette di pane fatto in casa e altri generi alimentari, che andranno a vendere al mercato abusivo. I baby ambulanti sono presenti anche sulle scale del vicolo Pallonetto di Santa Lucia: di giorno si vendono carciofi, pane e focacce; di notte si offrono dosi di cocaina. In viale Giochi del Mediterraneo, la professione di parcheggiatore abusivo si tramanda di padre in figlio. Sotto gli occhi dei passanti, ma evidentemente invisibili alle istituzioni. Perché le segnalazioni alle forze dell’ordine, spesso, rimangono lettera morta. Uno degli ultimi esposti presentati in Procura - firmato dal consigliere regionale dei Verdi Francesco Emilio Borrelli, fra i più attivi a denunciare il lavoro minorile nei quartieri a rischio - risale a qualche giorno fa: un bambino stava lavorando in un cantiere a pochi passi dalla Questura. A inquadrare bene la questione sono gli operatori dell’Istituto penale per minorenni Nisida: «Il lavoro nero a Napoli è il più subdolo dei problemi perché viene giustificato come fosse un’alternativa alla criminalità, in realtà è solo l’anticamera della delinquenza: presto si stuferanno di essere sfruttati per pochi spiccioli e finiranno direttamente fra le braccia di qualche boss». Situazioni simili si trovano in tutto il Sud. Qui, solo nell’ultimo anno e mezzo si sono verificati più di 120 episodi accertati dalle forze dell’ordine e dall’Ispettorato del Lavoro. Qualche mese fa a Savoia di Lucania, Basilicata, un imprenditore è stato denunciato dai Carabinieri della stazione di Vietri Potenza perché nella sua fabbrica di scarpe aveva alle dipendenze quasi tutti lavoratori in nero, fra cui tre minorenni fra i 15 e i 16 anni. Abbandonare gli studi e a lavorare nelle piccole attività di famiglia - soprattutto nel campo della ristorazione - sembra essere una costante in Sicilia. Poche settimane fa, a Catania, nel quartiere San Cristoforo, i carabinieri hanno denunciato per sfruttamento di lavoro minorile i genitori di due ragazzi di 11 e 12 anni, impiegati in nero nel panificio di famiglia, costretti a lavorare in condizioni disastrose.
Ahmed tra le casse di frutta. Fra i ragazzini intrappolati in un sistema di sfruttamento e umiliazioni c’è anche Ahmed, 16 anni, egiziano. Il suo, infatti, è un destino dal quale raramente sfuggono i piccoli migranti, che si trasformano in manodopera a bassissimo costo per imprenditori senza scrupoli. Per alcuni mesi, Ahmed ha frequentato una scuola serale e corsi di italiano. Il suo rendimento scolastico - confermano gli operatori - era eccellente. Una sera si è allontanato dalla comunità piemontese che lo ospitava e non è più tornato. Oggi lavora ai Mercati Generali di Torino, dalle 5 del mattino fino alle 9 di sera, a scaricare pesanti casse di frutta. Gli avevano promesso un contratto di lavoro dopo le prime due settimane di prova. E non è ancora arrivato. Sulla testa dei giovani stranieri, infatti, quasi sempre pesa una terribile spada di Damocle: il debito che devono pagare alle organizzazioni criminali che li hanno fatti arrivare in Italia, somme di denaro che arrivano fino ai 15.000 euro. Pur di riscuoterli, i trafficanti non esitano a minacciare le loro famiglie. E così la pressione psicologica e l’ansia di riuscire a racimolare i soldi nel minor tempo possibile si fanno impellenti. Fra loro ci sono soprattutto ragazzi egiziani, adolescenti provenienti dalle zone di Al Sharkeya e Assiut, arrivati in Italia tramite ricongiungimento familiare, spesso in affido a lontani parenti. I numeri diffusi dal Ministero del Lavoro parlano chiaro: dei 1.266 minori accolti in strutture d’accoglienza fino allo scorso maggio, quasi la metà di loro è scappata ed è scomparsa nel nulla. Capire dove siano finiti non è poi così difficile. «Ci troviamo di fronte alla punta dell’iceberg di un fenomeno sommerso e non rilevato dalle istituzioni che sta raggiungendo numeri inquietanti e che su questi ragazzi avrà ripercussioni psicologiche allarmanti», sintetizza Roberta Petrillo, ricercatrice di Save The Children.
La spina dorsale rovinata per sempre. Per far fronte a orari massacranti e sopportare le tensioni psicologiche con i datori di lavoro, infatti, molti baby lavoratori assumono psicofarmaci e anfetamine. Racconta Paolo, 18 anni, per cinque anni manovale in un cantiere abusivo vicino Caserta: «Tutte le mattine mi svegliavo con la febbre: era il modo in cui il mio corpo mi faceva capire che non ce la faceva più. E allora mi imbottivo di farmaci. Dovevo resistere perché avevo promesso alla mia famiglia che avrei portato a casa 300 euro al mese». Un giorno però il suo fisico ha ceduto: «Sono svenuto, non riuscivo più a muovere le gambe. Nessun operaio del cantiere ha avuto il coraggio di portarmi in ospedale, per paura che il mio datore di lavoro potesse avere dei guai. Ho capito che un giorno, lì dentro, io sarei anche potuto morire e nessuno avrebbe fatto nulla per aiutarmi». Solo allora se n’è andato per sempre: «Oggi ho le mani di un vecchio, i muscoli atrofizzati, la spina dorsale rovinata per sempre. Però sono vivo». Come i piccoli lustrascarpe Pasquale e Giuseppe protagonisti della pellicola neorealista Sciuscià, anche lui metteva da parte i soldi per esaudire il suo più grande desiderio: loro volevano un cavallo bianco, a lui bastava un motorino. Per comprarlo ha barattato la sua infanzia.
I bambini e le ferite della diseguaglianza: se nasci in periferia ti laurei di meno. La differenza nei voti non la fa il merito. Ma il quartiere, il piccolo comune o la città. In un sistema che dimentica sistematicamente chi sta ai margini. Ecco il nuovo Atlante dell'Infanzia a rischio di Save the Children, pubblicato da Treccani. Che mostra come l'iniquità che colpisce i più piccoli parta dai banchi, scrive Francesca Sironi il 12 novembre 2018 su "L'Espresso". La stimmate si chiama "Fonte Nuova", a Roma, oppure "Corsico" o "Cologno Monzese" o "Cinisello Balsamo", a Milano. Non sono ghetti. Solo periferie, quartieri dove abitano in milioni per restarci poco. Zone che si svuotano di giorno. Fatta eccezione per una popolazione speciale: i bambini. I comuni indicati infatti sono aree urbane cresciute ai bordi delle due più grandi città d'Italia. Che condividono nello specifico una concreta stimmate: il maggiore distacco dal centro nei risultati alle prove Invalsi, i test standardizzati che in qualche modo danno una misura delle competenze in Italiano e Matematica degli studenti. La forbice fra i ragazzi di Corsico o di Fonte e quelli che abitano “dentro” le mura della città è di oltre 10 punti.
Un piccolo abisso. Che si riflette su altre statistiche: come in quella di chi prosegue gli studi fino alla laurea. Perché bastano sette chilometri, sette, che fanno mezz'ora con i mezzi e meno in motorino, per passare dal 51 per cento di laureati delle zone bene di corso Magenta, a Milano, al 7,6 per cento di Quarto Oggiaro. È la differenza più alta d'Italia in così poco spazio. A Palermo, si salta comunque dal solo 2,3 per cento di universitari a Palagonia al 23 di Palazzo Reale. Nella capitale chi abita a Roma Nord ha quattro volte in più la possibilità di arrivare alla laurea rispetto a chi abita a Est del Raccordo. Non hanno scelto. È l'infrastruttura educativa del paese che li ha abbandonati. Sono alcune delle disuguaglianze ostili e troppo spesso banalizzate, che vengono messe invece in luce dal nuovo Atlante dell'infanzia a rischio di Save the Children, pubblicato da Treccani e dedicato quest'anno, appunto, alle periferie educative. Ovvero ai margini in cui sono lasciati in Italia i più piccoli. Partendo dai banchi. Le tavole dell'Atlante mostrano infatti come spostandosi di pochi chilometri, all'interno delle stesse città, cambino le possibilità di un futuro, gli strumenti per capire il presente. Un esempio? I Neet, gli scoraggiati, i ragazzi tra i 15 e i 29 anni che sono usciti dai circuiti della formazione e non sono ancora approdati al traino di un'occupazione. Nel capoluogo lombardo, in zona Tortona, fra le vie strette che ogni anno vengono invase dai frequentatori del Design, sono il 3,6 per cento dei residenti. Ossia meno di un terzo dei disillusi che abitano invece a Triulzo Superiore, a Sud della città, dove i Neet sono il 14 per cento. Lo stesso accade a Genova: si sentono (e sono, adesso) esclusi dal futuro 3 ragazzi su 100 a Carignano e 16 su 100 a Ca Nuova. O ancora, passando da Palocco a Ostia Nord, raddoppiano. «È assurdo che due bambini che vivono a un solo isolato di distanza possano trovarsi a crescere in due universi paralleli», ha detto Valerio Neri, direttore Generale di Save the Children presentando il volume: «Rimettere i bambini al centro significa andare a vedere realmente dove e come vivono e investire sulla ricchezza dei territori e sulle loro diversità, combattere gli squilibri sociali e le diseguaglianze, valorizzare le tante realtà positive che ogni giorno si impegnano per creare opportunità educative che suppliscono alla mancanza di servizi». Un miraggio, in molte strade. E un miraggio che soprattutto sta peggiorando: la distanza fra chi abita nelle strade "bene" e "gli altri" aumenta, anziché diminuire. «Mentre nelle scuole dei quartieri più centrali e storici di Roma le scuole si svuotano», spiega l’urbanista Carlo Cellamare: «nei comuni più esterni del Grande raccordo, dentro o fuori il comune di Roma, le scuole sono spesso oberate da una super domanda e i servizi sono più scarsi, e si osservano alti tassi di dispersione. Sono segni della mancanza di visione e governo del territorio». Questa è un'altra delle contraddizioni più forti portate in luce dal rapporto: dove abitano più bambini, ovvero nelle periferie – e i dati dettagliati sono inequivocabili, a Roma o a Genova vivono in aree definite periferiche il 70 per cento dei bambini sotto i 15 anni - ci sono meno servizi. Meno giochi, meno strade illuminate, meno luoghi aperti per lo studio. E sono anche le zone dove le scuole sono lasciate più sole, con meno supporto. E quindi non riescono a aiutare i ragazzi a crescere, a conquistare gli strumenti per comprendere il presente. È un'altra ferita della disuguaglianza che aumenta. Senza trovare alcuno spazio oggi nella politica di Palazzo.
QUANDO IL CAPORALE E' LO STATO. LAVORARE A NERO PER LO STATO.
Lavorare a nero per lo Stato. Report. Ingiustizia. Puntata del 19/03/2018 di Bernardo Iovene. È il terzo potere dello stato, quello giudiziario, funziona nel modo che tutti conosciamo anche grazie a un esercito di magistrati che lavorano a cottimo: sono i “giudici onorari”, che vengono pagati 98 euro a udienza (lordi) e vanno avanti con proroghe annuali da oltre vent’anni. Insieme ai giudici di pace sono in tutto 5500 magistrati. Hanno la competenza sull’80% dei reati commessi; in qualità di pubblici ministeri e giudici accusano e condannano per esempio un datore di lavoro che non versa i contributi ai propri dipendenti, mentre loro sono i primi a non riceverli dallo Stato. La riforma del ministero della Giustizia li ha definitivamente resi dei volontari, nonostante gli appelli del Csm e della maggior parte dei magistrati togati. La domanda è: cosa succederà quando la riforma andrà a regime tra qualche anno? Sempre in tema di giustizia ci occuperemo dei “medici incaricati” all’interno dei penitenziari. Dal 1994 non si fanno concorsi e ormai dal 2008 a questi professionisti non viene riconosciuta né la previdenza né l’assistenza, per non parlare degli scatti biennali o dell’indennità di buona uscita.
Infine il caso dei “pianisti accompagnatori” nei conservatori italiani. Devono avere un repertorio per ogni classe di strumento e sono a carico degli stessi conservatori per 9000 euro l’anno. Una figura indispensabile, ma in Italia, a differenza del resto d’Europa, non sono nemmeno previsti come categoria.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO. Si può lavorare in nero per lo Stato per venti, trent’anni? E parliamo di professioni strategiche, medici, insegnanti, magistrati. Entri in un’aula di Tribunale Palazzo e ti aspetti che chi indossa la toga per condannare quell’imprenditore che i contributi non li ha versati al suo dipendente, ecco quel magistrato i contributi sia il primo a riceverli dallo Stato, dal ministero per cui lavora. E invece parliamo di un esercito di 5500 magistrati onorari, vice procuratori onorari, giudici di pace che sta lavorando da venti, trent’anni senza ferie, senza contributi, senza diritto alla malattia. Ecco quella scritta che hanno alle spalle, la legge è uguale per tutti, suona un po’ una beffa quando devono applicarla, e alla fine della giornata vengono trattati diversamente per legge, dagli altri magistrati ordinari. Ecco. Hanno cominciato da tempo una protesta nell’indifferenza e facciamo male a non preoccuparci perché se si fermano loro si ferma gran parte della macchina della giustizia. Il nostro Bernardo Iovene è salito in gondola ed è arrivato in tempo in tempo per l’inaugurazione dell’anno giudiziario.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO. A inaugurare l’anno giudiziario alla Corte di Appello di Venezia oltre al presidente, c’è il rappresentante del Csm, il sottosegretario alla Giustizia Ferri, il procuratore generale, il presidente dell’Ordine degli avvocati, il rappresentante dell’Anm e c’è anche il giudice onorario del tribunale di Vicenza, Luigi Giglio, che davanti a questa platea – al completo – denuncia che i giudici onorari lavorano a nero per lo Stato.
LUIGI GIGLIO - GIUDICE ONORARIO DI TRIBUNALE. Di ottenere una previdenza, una retribuzione dignitosa e l’accompagnamento alla pensione, dopo 20 anni di lavoro svolto senza la titolarità di diritti che normalmente distinguono un lavoratore regolare da uno in nero.
LUIGI GIGLIO - GIUDICE ONORARIO DI TRIBUNALE. Sono un lavoratore in nero dello Stato.
BERNARDO IOVENE. E fa il giudice?
LUIGI GIGLIO - GIUDICE ONORARIO DI TRIBUNALE. E faccio il giudice.
BERNARDO IOVENE. Come è possibile? Questi qua sono suoi colleghi, questi con le toghe rosse?
LUIGI GIGLIO - GIUDICE ONORARIO DI TRIBUNALE Sì. Questi sono giudici ordinari.
BERNARDO IOVENE. Sono ordinari loro?
LUIGI GIGLIO - GIUDICE ONORARIO DI TRIBUNALE. Ordinari.
BERNARDO IOVENE. Loro sono quelli che hanno fatto un concorso?
LUIGI GIGLIO - GIUDICE ONORARIO DI TRIBUNALE. Un concorso, esatto.
BERNARDO IOVENE. Lei ha fatto un concorso a titoli?
LUIGI GIGLIO - GIUDICE ONORARIO DI TRIBUNALE. Io ho fatto un concorso per titoli, però comunque ho superato.
BERNARDO IOVENE. Non ha niente?
LUIGI GIGLIO - GIUDICE ONORARIO DI TRIBUNALE. Non ho nulla. Nulla.
BERNARDO IOVENE. Io veramente rimango stupito, perché lei comunque è un giudice. Lei fa le sentenze…
LUIGI GIGLIO - GIUDICE ONORARIO DI TRIBUNALE. Faccio sentenze.
BERNARDO IOVENE. Condanna le persone, le assolve…
LUIGI GIGLIO - GIUDICE ONORARIO DI TRIBUNALE. Esatto, facciamo sentenze. Non ci viene riconosciuto nulla.
ETTORE GRIMALDI - GIUDICE DI PACE – ROMA. Il cottimo non deve più esistere. La giustizia non può essere pagata a 50 euro a sentenza.
BERNARDO IOVENE. Giudice?
GIUDICE. Vice procuratore onorario, sì.
BERNARDO IOVENE. Di dove?
GIUDICE. Napoli.
BERNARDO IOVENE. Lei?
GIUDICE. Giudice di pace, Roma. Sezioni civili.
BERNARDO IOVENE. Lei?
GIUDICE. Vice procuratore di Napoli.
BERNARDO IOVENE. Napoli? Lei?
GIUDICE. Giudice di pace Vicenza.
GIUDICE. Giudice di pace Vicenza.
GIUDICE. Vice procuratore onorario Palermo.
VOCE AL MEGAFONO. Hanno reso la giustizia qualcosa di elitario. La faremo ritornare la culla del diritto.
BERNARDO IOVENE. È incazzatissimo questo giudice?
VINCENZA GAGLIARDOTTO – GIUDICE ONORARIO DI TRIBUNALE PENALE – PALERMO. Eh no ma ha ragione. Ha ragione, siamo tutti così.
BERNARDO IOVENE. Lei da dove viene?
VINCENZA GAGLIARDOTTO – GIUDICE ONORARIO DI TRIBUNALE PENALE – PALERMO. Io vengo da Palermo, sono un Got, Giudice onorario di tribunale penale. E faccio da due anni anche esecuzioni immobiliari, che non si dovrebbe fare. Noi veniamo pagati a gettone, significa a udienza. Ho fatto 550 sentenze all’anno, sono l’unica, l’unica del tribunale di Palermo che fa questi numeri. Mi hanno gentilmente invitata a diminuirle, perché sennò…
BERNARDO IOVENE. Sennò guadagna troppo?
VINCENZA GAGLIARDOTTO – GIUDICE ONORARIO DI TRIBUNALE PENALE – PALERMO. No, sennò faccio fare brutta figura agli altri.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO. Una manifestazione di giudici e pubblici ministeri è del tutto irrituale. E succede che non fanno nemmeno notizia, pochi trafiletti sui giornali, nelle pagine interne. Questo perché la maggior parte degli italiani non conosce la figura del giudice onorario e nemmeno cosa fa.
PASSANTE. Giudice onorario? No, precisamente non so cosa faccia.
PASSANTE. Un giudice che probabilmente si presenta in un’occasione particolare? Può essere? Onorario?
PASSANTE. Può essere un giudice con una lunga carriera alle spalle che magari ha raggiunto determinati meriti.
PASSANTE. Che ha avuto una carriera particolarmente brillante e quindi gli è stata data un’onorificenza… no, non lo so…
PASSANTE. Un’alta carica a livello di magistratura.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO. E invece è un giudice pagato a cottimo. Svolge la stessa funzione dei magistrati ordinari ma non ha alcun diritto tra i più elementari dei lavoratori. Oggi sono arrivati a Roma per protestare da tutta Italia, sotto una pioggia battente. Sono stati anche cacciati dal portico del Palazzaccio, che è sede della Cassazione e dell’Associazione nazionale magistrati.
ALBERTO ROSSI – GIUDICE DI PACE – ROMA. Non ci fanno neanche entrare dall’ingresso principale. Gestiamo l’80% della giustizia e ci trattano come estranei e l’Anm non dice nulla, il Csm non dice nulla.
NUNZIA PAUDICE – VICE PROCURATORE ONORARIO – NAPOLI. Non ci ascoltano, non ci hanno ascoltato e continuano a non ascoltarci.
BERNARDO IOVENE. Lei fa il giudice?
GIULIO CALOGERO – GIUDICE ONORARIO TRIBUNALE – NAPOLI. Faccio il giudice settore civile, da vent’anni. Dal 1998. Io ho subìto un’operazione per un carcinoma, non ho avuto un giorno di malattia, un giorno di assistenza. E son dovuto rientrare al lavoro in 30 giorni con una terapia oncologica che ho portato avanti per tre anni, altrimenti perdevo il – chiamiamolo - posto in tribunale.
MARIA ELENA FRANCONE – GIUDICE ONORARIO TRIBUNALE – ROMA. Ho dovuto subire un intervento molto grave e non ho avuto nessuna previdenza, nessuna possibilità di prendermi un giorno di malattia. Due maternità, due maternità che non sono state assolutamente riconosciute. Parliamo di diritti basilari.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO. Questi magistrati, tra giudici di Tribunale, pubblici ministeri e giudici di Pace sono circa 5.500 divisi tra civile e penale. Insieme ai 9.000 magistrati ordinari fanno funzionare la macchina della giustizia.
LISA GUARNIERI – GIUDICE ONORARIO DI TRIBUNALE – BOLOGNA. E la condanno alla pena di anni 1 e mesi 6 di reclusione.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO. Lisa Guarnieri è un Got che sta per giudice onorario di tribunale, è alla sezione penale di Bologna, oggi dice di avere pochi processi, soltanto 17, normalmente ne fanno 40 al giorno.
LISA GUARNIERI – GIUDICE ONORARIO DI TRIBUNALE – BOLOGNA. Noi veniamo pagati a udienza, ma in realtà lavoriamo molto dietro a tutti questi processi.
BERNARDO IOVENE. Questi diciassette processi oggi se li è studiati un po’ a casa immagino?
LISA GUARNIERI – GIUDICE ONORARIO DI TRIBUNALE– BOLOGNA. Ma, caspita, certo!
LISA GUARNIERI – GIUDICE ONORARIO DI TRIBUNALE – BOLOGNA. Truffa, truffa, appropriazione indebita, furto aggravato, ricettazione e ancora furto. Quindi oggi più che altro reati contro il patrimonio.
BERNARDO IOVENE. Questa è la toga? La stessa che hanno i togati?
LISA GUARNIERI – GIUDICE ONORARIO DI TRIBUNALE – BOLOGNA. Sì, sì. Questa dovrebbe essere un segno di purezza.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO. Oltre ai giudici ci sono anche i pubblici ministeri onorari che formulano un capo di imputazione e chiedono condanne o assoluzioni. Sono denominati viceprocuratori onorari, anche loro guadagnano 98 euro lordi a udienza, dopo 5 ore scatta un altro gettone ma tutte le ore i giorni che passano a studiare i processi non sono calcolati.
BERNARDO IOVENE. Oggi in pratica in quest’aula c’era un giudice onorario e un pubblico ministero onorario. Cioè voi mandate avanti questa macchina di trenta/quaranta processi al giorno da giudici onorari?
ELENA NITTOLI – VICE PROCURATORE ONORARIO – BOLOGNA. Assolutamente sì. Arriviamo anche a un carico di cento processi. Quando facciamo delle istruttorie…
BERNARDO IOVENE. In un giorno? Cento processi?
ELENA NITTOLI – VICE PROCURATORE ONORARIO – BOLOGNA. Sì. Parlo di udienze di smistamento significa la trattazione delle questioni preliminari.
BERNARDO IOVENE. Lei tutti questi processi se li è dovuti studiare?
ELENA NITTOLI – VICE PROCURATORE ONORARIO – BOLOGNA. Assolutamente sì. Alla fine della fiera è senz’altro quello il compito: accertare la verità.
BERNARDO IOVENE. I testimoni che sono arrivati oggi, insomma gli imputati, non lo sanno che lei è un Pubblico ministero onorario?
ELENA NITTOLI – VICE PROCURATORE ONORARIO – BOLOGNA. Assolutamente no.
BERNARDO IOVENE. Lei è un pubblico ministero?
ELENA NITTOLI – VICE PROCURATORE ONORARIO – BOLOGNA. A tutti gli effetti.
BERNARDO IOVENE. La dottoressa è giudice?
ELENA NITTOLI – VICE PROCURATORE ONORARIO – BOLOGNA. A tutti gli effetti. Svolgiamo questo incarico.
BERNARDO IOVENE. Noi non notiamo la differenza tra onorario e non?
ELENA NITTOLI – VICE PROCURATORE ONORARIO – BOLOGNA. Assolutamente no. Come potreste?
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO. La differenza è che il magistrato ordinario di carriera, detto togato, ha vinto un concorso per esami ed è un dipendente viene assunto. Mentre quello onorario viene selezionato – sempre dal Consiglio superiore della magistratura – ma tramite un concorso a titoli.
FRANCESCO CANANZI – PRESIDENTE COMMISSIONE MAGISTRATURA ONORARIA - CSM. Noi facciamo una valutazione di selezione che si fonda sostanzialmente sui titoli.
BERNARDO IOVENE. Se ce ne sono seicento e ne dovete prendere quattrocento come fate?
FRANCESCO CANANZI – PRESIDENTE COMMISSIONE MAGISTRATURA ONORARIA - CSM. A seconda del periodo: per esempio, il titolo più importante è quello relativo alla professione forense svolta in precedenza.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO. Dopo il concorso a titoli, c’è un tirocinio e poi si esercita la professione di magistrato pagato a cottimo. La nomina dovrebbe durare tre anni prorogabili una sola volta, ma vista la carenza dei magistrati e una professionalità ormai acquisita, ogni anno vengono prorogati. E così ci sono magistrati che lavorano da oltre vent’anni senza diritti e senza contributi per la pensione.
BERNARDO IOVENE. Siete tutti giudici? Giudici e procuratori….
RAIMONDO ORRÙ – VICE PROCURATORE ONORARIO – ROMA. In realtà siamo dei veri e propri lavoratori in nero. Purtroppo è antipatico doverlo dire.
BERNARDO IOVENE. Cioè voi magistrati siete lavoratori in nero?
RAIMONDO ORRÙ – VICE PROCURATORE ONORARIO – ROMA. Siamo lavoratori in nero. Il massimo della contraddizione di uno Stato che si rende caporale nei nostri confronti.
BERNARDO IOVENE. Lei sta dicendo una cosa abbastanza grave, perché voi fate delle sentenze, i giudici fanno delle sentenze. Lei insomma mette sotto accusa le persone, le manda in galera insomma…
RAIMONDO ORRÙ – VICE PROCURATORE ONORARIO – ROMA. Guardi, immaginate il paradosso della situazione attuale: cioè io sono privo di versamenti contributivi da parte dello Stato, dei contributi previdenziali, però devo accusare e far condannare chi nel privato non versa contributi ai propri dipendenti. Noi forse saremo un giorno titolari di pensione sociale.
BERNARDO IOVENE. Lo stipendio si aggira più o meno…?
RAIMONDO ORRÙ – VICE PROCURATORE ONORARIO – ROMA. Stiamo parlando di 1.200-1.300 euro.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO. Ed ecco i cedolini, arrivano a meno di mille e 200 euro netti, questo quando in un mese si riescono a fare 20 udienze, se no siamo intorno ai 900 euro. La legge permetterebbe loro di esercitare contemporaneamente anche la professione di avvocato ma in un’altra provincia la maggior parte però ha deciso di esercitare solo come giudice o sostituto procuratore perché sente il peso di un conflitto di interessi.
RAIMONDO ORRÙ – VICE PROCURATORE ONORARIO VPO – ROMA. Le pare una cosa ragionevole che chi svolge l’attività di accusa su uno spacciatore o su un estorsore, poi si trovi magari a difenderlo fuori dal tribunale di Roma? Mi sembrerebbe assurdo.
BERNARDO IOVENE. Quindi vivete solo di questo?
RAIMONDO ORRÙ – VICE PROCURATORE ONORARIO VPO – ROMA. Viviamo solo di questo.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO. Si sopravvive per passione: ad esempio Ferdinando Brizzi, vice procuratore onorario a Torino, ha partecipato come pm alla maxi operazione Minotauro contro la ‘ndrangheta piemontese.
FERDINANDO BRIZZI – VICE PROCURATORE ONORARIO – TORINO. Ci sono stati giorni che sono entrato qua dentro alle 7 di mattina e sono uscito alle 9 di sera. Io il 30-31-1-2 sono stato qua a fare il turno arrestati con il dottor Rinaudo. Anche gratis, ovviamente.
BERNARDO IOVENE. Parliamo di Dicembre.
FERDINANDO BRIZZI – VICE PROCURATORE ONORARIO – TORINO. Si, si. A Capodanno.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO. Gratis, perché senza le udienze non ti pagano. Poi si è rotto una gamba.
FERDINANDO BRIZZI – VICE PROCURATORE ONORARIO – TORINO. Con la gamba in trazione e dovevo lavorare con il computer sulla pancia.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO. E ha lavorato dall’ospedale senza riconoscimento. Un esperto di mafia che dai banchi dell’accusa per sopravvivere potrebbe essere tentato di oltrepassare la barricata.
FERDINANDO BRIZZI – VICE PROCURATORE ONORARIO – TORINO. Se lo Stato mi costringe, io poi quello che ho imparato a fare qui, io andrò a farlo dalla parte dei delinquenti. È ovvio.
BERNARDO IOVENE. Addirittura ci sta dicendo questo?
FERDINANDO BRIZZI – VICE PROCURATORE ONORARIO – TORINO. Qualcuno sa che io sono capace a fare certe cose e mi hanno offerto di andare a lavorare dall’altra parte. È chiaro che prima o poi lo farò.
RAIMONDO ORRÙ – VICE PROCURATORE ONORARIO – ROMA. Immaginate se l’indipendenza e l’autonomia di un magistrato può essere tutelata in questo modo dal nostro Stato.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO. Ma i magistrati ordinari cosa ne pensano? Il procuratore Armando Spataro, sulla difesa dei diritti della magistratura onoraria, si è fatto portavoce di 110 procure italiane.
ARMANDO SPATARO – PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI TORINO. Se noi non avessimo queste persone al nostro fianco – non avremmo i magistrati da mandare in udienza; esamineremmo i nuovi rapporti di denuncia con grandi ritardi; i provvedimenti avrebbero un iter più lento. Queste persone ci aiutano in tanti campi e tutti debbono capire che stiamo parlando di una componente essenziale del funzionamento della giustizia.
BERNARDO IOVENE. Indispensabile mi sta dicendo...
ARMANDO SPATARO – PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI TORINO. Assolutamente indispensabile. Far funzionare la giustizia. Senza queste persone che lavorano al nostro fianco, la giustizia andrebbe in tilt completo e soprattutto le procure considerati il volume e il carico di lavoro da cui siamo afflitti, spesso in condizioni difficili.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO. I magistrati onorari hanno competenza su gran parte dei reati, maneggiano sentenze civili: in materia di multe, incidenti stradali, liti condominiali, cartelle di Equitalia, ma anche quelle penali: reati come maltrattamenti, pedopornografia, furti, rapine, spaccio, ricettazione, estorsioni, sequestro di persona, bancarotta, omicidio colposo. Ecco si tratta, tranne per quei reati più gravi che poi finiscono sostanzialmente in Corte d’Assise fanno il lavoro dei colleghi togati, ordinari. La differenza è nei diritti e contributi non goduti e anche ovviamente nel peso della busta paga, 1170 euro lordi circa per un magistrato onorario, 14.000 lordi per un collega togato ordinario più anziano. Ed è giusto che vengano pagati tanto, perché al magistrato si richiedono impegno, competenza, indipendenza e incorruttibilità, che poi sono quei requisiti che vengono chiesti anche ai politici, tanto è vero che poi i politici, i parlamentari si sono adeguati lo stipendio ai magistrati di Cassazione. Solo che poi invece di oliare la macchina della giustizia hanno messo sabbia: hanno ingolfato gli uffici giudiziari con la burocrazia e hanno affidato compiti amministrativi ai giudici come per esempio la gestione dei beni sequestrati, hanno reso inutili poi quelle pratiche per via dei meccanismi della prescrizione, e non hanno mai sopperito alla carenza cronica dei cancellieri. Ecco, una volta che poi si sono accumulati i fascicoli nel tempo hanno sanato l’emergenza e hanno creato il magistrato a cottimo: dieci euro a fascicolo 50 euro a sentenza. Tutto rigorosamente a lordo.
TESTIMONE Consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo con la mia deposizione mi impegno a dire tutta la verità.
EDMONDO MIGNUCCI – GIUDICE DI PACE – ROMA. Lei ricorda di avere assistito alla dinamica un sinistro?
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO. Davanti a un giudice di pace vengono iscritti circa un milione e trecentomila procedimenti civili: si tratta di contenziosi assicurativi, di condominio, recupero crediti, ricorsi sulle multe.
SIGNORE. Facciamo le iscrizioni stamattina, sono tutte cause da iscrivere.
SIGNORA. Iscrizioni contro le multe del Comune?
SIGNORA. La preferenziale, lo scandalo che è uscito sulla preferenziale di Via di Portonaccio…
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO. In Via di Portonaccio a Roma, ad esempio, hanno installato una telecamera su una corsia preferenziale riaperta dopo anni di lavori e pare che nei primi venti giorni non ci fosse il cartello segnaletico. A oggi, hanno emesso 300mila multe e sono partiti i ricorsi.
SIGNORE. Io ne ho prese de consecutive, un giorno dopo l’altro.
ALTRO SIGNORE. Noi ne abbiamo prese un paio: due, tre. Poca roba rispetto a tanti altri che ne hanno prese una trentina, quaranta. SIGNORA Noi adesso stiamo facendo le varie udienze.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO. Qui invece siamo a Bologna, dove nel settore civile dei giudici di Pace ne capitano anche di peggio.
FRANCESCO FIORE – GIUDICE DI PACE - BOLOGNA. A noi ci capitano anche casi abnormi: per esempio, rimozione di un’auto. Gli rimuovono un’auto e passano sotto una telecamera e gli fanno una multa per accesso nelle ZTL. Questa dovrebbe essere una pratica che in un paese normale il Comune l’annulla. Dice: “Sì, ti abbiamo rimosso la macchina”. La stessa cosa. C’è un medico del Sant’Orsola che è rimasto a piedi e spingeva la sua moto ed è passato sotto una corsia preferenziale. Gli è arrivata una multa.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO. Ed ecco il malcapitato, che per dimostrare una cosa evidente ha dovuto fare ricorso davanti al Giudice di Pace, in quattro copie da consegnare alla cancelleria, pagare 43 euro, una marca da bollo da 27 e magari trovarsi anche l’avvocato.
BERNARDO IOVENE. Lei è un giudice?
MARIA FLORA DI GIOVANNI – GIUDICE DI PACE - CHIETI. Sì, sono Maria Flora di Giovanni.
BERNARDO IOVENE. Lei è un giudice?
CECILIA BONACCI – GIUDICE DI PACE - GAETA. Sì, sono Cecilia Bonacci.
BERNARDO IOVENE. Anche lei è giudice?
MARIA RITA MARANDO – GIUDICE DI PACE – ROMA. Sì, sono Maria Rita Marando.
BERNARDO IOVENE. Giudice di Pace?
GABRIELE DI GIROLAMO – GIUDICE DI PACE – AVEZZANO. Gabriele di Girolamo.
BERNARDO IOVENE. Lei da quanti anni lavora?
MARIA FLORA DI GIOVANNI – GIUDICE DI PACE - CHIETI. Io da 27.
BERNARDO IOVENE. Cioè lo Stato non le ha mai versato un contributo?
MARIA FLORA DI GIOVANNI – GIUDICE DI PACE - CHIETI. Mai, mai. E io ho lavorato in via esclusiva per lo Stato. Non ho fatto mai nient’altro che questo. Noi siamo retribuiti con un cottimo, sempre all’interno dello Stato, siamo pagati a sentenza.
BERNARDO IOVENE. Anche lei signora mi scusi da quanti anni lavora?
CECILIA BONACCI – GIUDICE DI PACE – GAETA. Circa 26 anni.
BERNARDO IOVENE. Lei è giudice? Cioè io devo chiamarla giudice?
CECILIA BONACCI – GIUDICE DI PACE – GAETA. Certo. Mi sento tale.
BERNARDO IOVENE. Cioè un giudice che non ha cassa previdenziale praticamente.
CECILIA BONACCI – GIUDICE DI PACE– GAETA. No.
BERNARDO IOVENE. Anche Lei, non mi dica…
GABRIELE DI GIROLAMO – GIUDICE DI PACE – AVEZZANO. Sì, tutti quanti. Allora noi come magistrati di Pace - c’è la ritenuta Irpef, ma non ci sono le previdenze.
LETTURA SENTENZA In nome del Popolo italiano, noi giudici di pace, colpevole del reato a lei ascritto e per effetto condanna alla pena di euro 10.000 di multa.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO. Oltre alla sezione civile, anche i giudici di pace hanno la sezione penale. Si occupano di lesioni, minaccia, diffamazione, piccoli furti, danneggiamenti, uccisioni di animali e una marea di piccoli reati che ingolferebbero i tribunali. Ed è per questo motivo che negli anni hanno avuto sempre più competenze, non ultima le convalide delle espulsioni degli immigrati.
ALESSANDRA ZAGARELLA – GIUDICE DI PACE SEZIONE IMMIGRAZIONE - ROMA. Un’udienza di convalida importantissima che dobbiamo fare entro le 48 ore, perché se scadono i termini gli stranieri – quindi gli immigrati – tornano in libertà.
BERNARDO IOVENE. La stanno aspettando?
ALESSANDRA ZAGARELLA – GIUDICE DI PACE SEZIONE IMMIGRAZIONE - ROMA. Ora c’è la macchina della polizia, ogni giorno viene a prenderci. Non è che viene solo oggi per me. Eccoli qua. Ogni giorno vengono a prenderci e poi ci portano al centro a Ponte Galeria e poi mi riportano qua in ufficio.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO. Quindi il giudice, all’interno del centro di identificazioni ed espulsioni – i cosiddetti CIE, ex centri di permanenza – fa una vera e propria udienza.
ALESSANDRA ZAGARELLA – GIUDICE DI PACE SEZIONE IMMIGRAZIONE ROMA. Abbiamo svolto l’udienza regolarmente con il funzionario di Polizia con un’interprete spagnola, con un avvocato. Abbiamo convalidato, non convalidato, ed ho anche disposto due proroghe delle trattenute perché in questo momento ci sono soltanto le donne all’interno del CPR.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO. Dopodiché viene riaccompagnata.
ALESSANDRA ZAGARELLA – GIUDICE DI PACE SEZIONE IMMIGRAZIONE ROMA. Sono udienze che facciamo noi onorari, che non fanno i togati, anche perché i togati – se lo dovessero fare loro – ovviamente sarebbero oberati di questo.
BERNARDO IOVENE. Lei viene retribuita per questo servizio che fa oggi?
ALESSANDRA ZAGARELLA – GIUDICE DI PACE SEZIONE IMMIGRAZIONE ROMA. Allora le dico subito che per ogni fascicolo io vado a prendere 10 euro lorde.
BERNARDO IOVENE. Cosa significa 10 euro lorde?
ALESSANDRA ZAGARELLA – GIUDICE DI PACE SEZIONE IMMIGRAZIONE ROMA. Significa che per ogni convalida…
BERNARDO IOVENE. Stamattina ha guadagnato sessanta euro…
ALESSANDRA ZAGARELLA – GIUDICE DI PACE SEZIONE IMMIGRAZIONE ROMA. Neanche forse. Sessanta lorde. Nette saranno quaranta.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO. La busta paga del giudice di pace è più ricca dei giudici onorari di Tribunale, ma è sempre a cottimo.
CRISTINA PIAZZA – GIUDICE DI PACE SEZIONE PENALE - BOLOGNA. Con un cottimo puro praticamente abbiamo 250 euro di indennità mensile, poi abbiamo 35 euro per l’indennità di udienza – quindi per esempio adesso iniziamo alle 9, finisco alle 17.30 in genere 18 – e sono 35 euro lorde. Per ogni sentenza 56 euro.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO. Poi arrivano dei conguagli verso fine anno, anche previdenziali e si ritrovano cifre ridicole.
PINA CIPOLLONE – GIUDICE DI PACE –ROMA. Mese di dicembre: totale netto 200 euro. Quindi mi hanno tolto 3.424,14 di trattenute. Questo è un altro caso limite: parliamo di novembre 2017. Vi dico, ho preso 1 euro.
BERNARDO IOVENE. Si però quello che non capisco, se le fanno una trattenuta di conguagli fiscali e previdenziali dove vanno questi soldi?
PINA CIPOLLONE – GIUDICE DI PACE –ROMA. Non ho nessuna posizione previdenziale.
BERNARDO IOVENE. E dove vanno questi soldi?
GABRIELE DI GIROLAMO – GIUDICE DI PACE– AVEZZANO. Noi dovremmo avere soltanto, come ho io, la trattenuta Irpef.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO. L’anomalia è che mentre nei tribunali ci sono i magistrati ordinari e quelli onorari, gli uffici del giudice di pace invece sono retti solo da magistrati onorari non dipendenti e pagati in questo modo, il padre della legge istitutiva è stato l’ex guardasigilli Claudio Martelli.
BERNARDO IOVENE. Lei ha istituito nel ’91 il Giudice di pace. Non aveva previsto una figura dipendente con un inquadramento lavorativo?
CLAUDIO MARTELLI – MINISTRO DELLA GIUSTIZIA 1991-1993. Dunque, era una fase ancora sperimentale che sarebbe poi sfociata in una disciplina più organica da stabilirsi in base all’esperienza che doveva fare testo. Vedo che così non è stato. Anzi, è stato esattamente il contrario. Ad ogni responsabilità deve corrispondere una retribuzione e deve corrispondere un ruolo professionale: non si può bistrattare in questo modo una categoria che ha dato un contributo importante a decongestionare la magistratura ordinaria e a sveltire pratiche minori che tuttavia hanno una loro importanza nella vita dei cittadini.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO. Insomma la fase sperimentale è durata 27 anni, fino a che non è intervenuto il comitato europeo dei diritti sociali, di cui fanno parte quindici stati ed è presieduta da un italiano che sulla decisione si è astenuto.
GIUSEPPE PALMISANO – PRESIDENTE COMITATO EUROPEO DEI DIRITTI SOCIALI. Noi abbiamo accertato che non garantendo la copertura previdenziale dei giudici di pace, lo Stato italiano viola l’articolo 12 paragrafo 1 della Carta sociale europea, che è un trattato ratificato dall’Italia, che l’Italia dovrebbe rispettare.
BERNARDO IOVENE. E invece non lo rispetta…
GIUSEPPE PALMISANO – PRESIDENTE COMITATO EUROPEO DEI DIRITTI SOCIALI. In questo caso non lo rispetta.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO. Nella motivazione il comitato europeo afferma che i giudici onorari sono da un punto di vista funzionale, equivalenti ai magistrati titolari, vale a dire: fanno lo stesso lavoro, e quindi vanno retribuiti allo stesso modo. Lo Stato italiano, prima della decisione del Comitato, ha tentato di difendersi con una motivazione veramente mortificante e sorprendente.
GIUSEPPE PALMISANO – PRESIDENTE COMITATO EUROPEO DEI DIRITTI SOCIALI. Di fronte al Comitato si è difeso addirittura ha contestato che si trattasse di lavoratori. E quindi non sarebbero coperti dall’obbligo di tutela previdenziale.
BERNARDO IOVENE. Gli esperti che vengono dagli altri Stati, quando hanno letto questa cosa si sono meravigliati un po’?
GIUSEPPE PALMISANO – PRESIDENTE COMITATO EUROPEO DEI DIRITTI SOCIALI. Sì, si sono meravigliati abbastanza. La decisione è stata adottata all’unanimità. La decisione dal punto di vista dell’accertamento giuridico è definitiva. Dopo di che l’accertamento viene trasmesso al comitato dei ministri del consiglio d’Europa che decide sui seguiti.
GABRIELE DI GIROLAMO – GIUDICE DI PACE– AVEZZANO. La Commissione europea ha detto al Governo italiano di riconoscere – tra le altre cose anche la previdenza alla magistratura di Pace. Cosa ha fatto il buon ministro Orlando? L’intera previdenza è a carico al 100% del lavoratore.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO. Il Governo italiano, davanti alle richieste dell’Unione Europea invece di stabilizzare ha scelto di dare ai giudici onorari un mandato occasionale, il ruolo di indipendenza e terzietà del magistrato sarà svolto secondo la riforma Orlando da avvocati come secondo lavoro, al massimo due volte a settimana, con 16.000 euro lordi. Contributi e tasse a carico del lavoratore. Resteranno più o meno 600 euro al mese.
VITTORIA PESANTE – GIUDICE DI PACE SEZIONE PENALE - BOLOGNA. Ci stanno mettendo in condizione di non farlo più. Per 600 euro, 700 al mese perché devi pagarti anche la previdenza. Puoi lavorare due volte alla settimana: che poi me lo dovranno spiegare questa cosa. Perché se io faccio il giudice e faccio udienza due volte alla settimana, quando liquido le note agli avvocati? Quando studio i processi? Quando faccio le sentenze? Le devo fare tutte a parte gratis?
CRISTINA PIAZZA – GIUDICE DI PACE SEZIONE PENALE - BOLOGNA. È previsto che devi lavorare, devi fare un altro lavoro per legge. Quindi dovrei fare o l’avvocato o non lo so l’insegnante, forse non lo so, durante la settimana e poi hai quei due giorni… per i nuovi saranno solo due.
PAOLO VALERIO – VICE PROCURATORE ONORARIO – ROMA. Dobbiamo sloggiare - almeno per metà del nostro orario settimanale lavorativo – trovarci un’altra attività.
BERNARDO IOVENE. Che sarebbe quale?
PAOLO VALERIO – VICE PROCURATORE ONORARIO – ROMA. Aprire un negozio, un negozio di ferramenta, un distributore di benzina – per chi ha capitali per farlo. Oppure non lo so.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO. Prima di emanare il decreto il ministro Orlando ha chiesto un parere al Consiglio superiore della magistratura, all’Associazione nazionale magistrati e infine al Consiglio di Stato chiedendo se ci fosse una possibilità di stabilizzazione per il magistrato onorario. Il Consiglio di Stato ovviamente ha risposto che la costituzione non prevede l’accesso a un incarico pubblico senza un concorso ma…
GIULIO VELTRI – CONSIGLIERE DI STATO. Il Consiglio di Stato indica anche una soluzione che sembrerebbe plausibile, consentita. In che termini però? Il Consiglio di Stato fa rifermento a una legge del ’74, che mi ha prodotto prima, in cui si è sostanzialmente prorogato, confermato l’incarico da giudice onorario ai vecchi vicepretori fino ad una certa età, 65 anni in quel caso. Bene, secondo il Consiglio di Stato non ci sono vincoli costituzionali in questo senso, non c’è un veto. Quindi questo potrebbe essere una soluzione percorribile.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO. Ma nella riforma del ministro Orlando la soluzione indicata dal Consiglio di Stato non è stata presa in considerazione. Secondo i giudici onorari il guardasigilli si sarebbe fatto condizionare dal parere dell’ANM, il sindacato dei magistrati togati che testualmente recita: “dev’essere escluso che i magistrati onorari in servizio possano essere stabilizzati”.
RAIMONDO ORRÙ – VICE PROCURATORE ONORARIO – ROMA. L’Associazione nazionale magistrati ci ha definito soggetti che devono rimanere caratterizzati da occasionalità, accessorietà e temporaneità dell’incarico. La cosa più assurda è che un ministro della Giustizia ha chiesto un parere tecnico su una formula di sistemazione di questa categoria in termini giuridicamente accettabili al Consiglio di Stato e chiede un parere politico all’Associazione nazionale magistrati. Non lo ha chiesto a noi. L’ha chiesto ad un’associazione privata, ad un sindacato.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO. Un sindacato che nel parere politico non ha tenuto conto nemmeno dei propri iscritti. Il procuratore capo di Torino, Armando Spataro, è un magistrato iscritto all’Anm.
ARMANDO SPATARO – PROCURATORE CAPO DELLA REPUBBLICA DI TORINO. La difesa che certamente tutti i procuratori della Repubblica italiana - meno l’Anm - hanno fatto di questa categoria, non è mossa, come dire, da esigenze di solidarietà per persone che vediamo tutti i giorni – c’è anche quello evidentemente – ma è mossa dalla necessità di far funzionare la giustizia.
BERNARDO IOVENE. Voi, 110 procuratori avete fatto presente questo anche al Legislatore?
ARMANDO SPATARO – PROCURATORE CAPO DELLA REPUBBLICA DI TORINO. Certo. Abbiamo scritto documenti: il ministro ci ha sentito, il Csm pure. Torno a dire, le Commissioni giustizia – la Camera e il Senato – hanno ritenuto di non sen ministro ha detto: «Prego accomodati fuori, cercati un altro lavoro, e poi in base all’anzianità vieni due o tre volte a settimana in tribunale», un po’ come si fa con le colf e poi ha detto: «I contributi li versi tu». Solo che chi ha cercato di aprirsi una posizione come lavoratore autonomo nei panni di giudice presso l’Agenzia delle Entrate non è riuscito, perché mancherebbe il codice di riferimento. E se digiti come luogo di lavoro il tribunale o la procura, ti appare il codice per i rifiuti a carico, ecco probabilmente dovranno metterci mano. Quello che è certo è che hanno trasformato una classe di magistrati in volontari per la pubblica amministrazione, li hanno resi più ricattabili e più precari. Siamo certi che tutto questo soddisfi quei requisiti di indipendenza per la magistratura, della magistratura? E poi il fatto di poter indossare a rotazione nella stessa settimana la toga come avvocato, o quella del Pm o quella di giudice, siamo certi che non è come miscelare l’acqua santa con il diavolo? E adesso vediamo invece cosa accade quando è lo Stato a non indire i concorsi.
BERNARDO IOVENE – FUORI CAMPO. Questo è il carcere di Teramo, il dottor Paolini da trent’anni ogni giorno varca i cancelli perché è un medico penitenziario.
FRANCO PAOLINI - RESPONSABILE PRESIDIO SANITARIO CARCERE DI TERAMO. Sono il responsabile del presidio sanitario interno e quindi di tutta la struttura sanitaria, della gestione del personale.
BERNARDO IOVENE. Quanti detenuti ci sono qui?
FRANCO PAOLINI - RESPONSABILE PRESIDIO SANITARIO CARCERE DI TERAMO. Eh, penso che ormai ci sono circa 400 detenuti per una capienza di 260. Abbiamo malati psichici, cardiopatici, come fosse un reparto ospedaliero: c’è il Sert, c’è psichiatria, ventidue specialistiche accedono quando ce ne è necessità.
BERNARDO IOVENE. Questo è un lavoro importante, di responsabilità?
FRANCO PAOLINI - RESPONSABILE PRESIDIO SANITARIO CARCERE DI TERAMO. Su due fronti: da parte del detenuto che ha il diritto a vedersi tutelata la sua salute, dall’altra ci sono i giudici che vogliono sapere per filo e per segno come stanno i detenuti.
BERNARDO IOVENE. Lei è responsabile di questo presidio, però è provvisorio?
FRANCO PAOLINI - RESPONSABILE PRESIDIO SANITARIO CARCERE DI TERAMO. Sono un medico incaricato – provvisorio - di sostituire quello che era il definitivo.
BERNARDO IOVENE. Lei qui dentro da quanti anni è?
FRANCO PAOLINI - RESPONSABILE PRESIDIO SANITARIO CARCERE DI TERAMO. Io sto qui dentro da trent’anni. Come responsabile del presidio, formalmente dal 2008.
BERNARDO IOVENE. Ed è ancora provvisorio?
FRANCO PAOLINI - RESPONSABILE PRESIDIO SANITARIO CARCERE DI TERAMO. Sono ancora provvisorio. E quindi non percepisco – in base alla legge 740 del 1970 – i contributi previdenziali.
BERNARDO IOVENE. Complimenti.
FRANCO PAOLINI - RESPONSABILE PRESIDIO SANITARIO CARCERE DI TERAMO. Grazie.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO. L’ultimo concorso per medici penitenziari è stato fatto nel 1994. Man mano che i medici definitivi sono andati in pensione, il loro posto è stato coperto da quelli provvisori.
FRANCESCO CERAUDO – PROFESSORE DI MEDICINA DELLE COMUNITÀ UNIVERSITÀ DI PISA. Non viene riconosciuta la previdenza. Non viene riconosciuta l’assistenza. Non vengono riconosciuti gli scatti biennali. Non viene riconosciuta la tutela assicurativa. Non viene riconosciuta l’indennità di buona uscita. Quindi è un mondo.
BERNARDO IOVENE. Quindi è in nero?
FRANCESCO CERAUDO – PROFESSORE DI MEDICINA DELLE COMUNITÀ UNIVERSITÀ DI PISA. È in nero. È una cosa…
BERNARDO IOVENE. Un direttore, tra l’altro lui è il direttore di quel presidio.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO. I medici penitenziari con la riforma del 2008 sono passati dal ministero della Giustizia alle competenze delle Asl regionali. All’epoca, per i provvisori il ministero non prevedeva il pagamento dei contributi previdenziali, e quando sono passati alle Asl, sono stati applicati gli stessi criteri.
FRANCO PAOLINI - RESPONSABILE PRESIDIO SANITARIO CARCERE DI TERAMO. Il ministero della Giustizia trasmette alla Asl e dice «guardate, questo professionista lo pagavamo così». La Asl recepisce e quindi poi mi paga più o meno la stessa…diciamo che la Asl fondamentalmente ha detto: «Va bene, pagavate in questo modo. Continuiamo a pagare in questo modo».
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO. I medici incaricati provvisori sono professionisti titolati per la medicina penitenziaria, ma per loro non è stata ancora trovata una collocazione contrattuale nazionale nella sanità pubblica, né l’ha trovata la Asl di Teramo.
MASSIMO FORLINI – DIRIGENTE AUSL TERAMO. Il presidio del carcere di Teramo è diretto dal dottor Paolini.
BERNARDO IOVENE. È un responsabile provvisorio però…
MASSIMO FORLINI – DIRIGENTE AUSL TERAMO. Ma la parola «provvisorio» è legata alla sua figura professionale.
BERNARDO IOVENE. Lui è trent’anni che sta dentro al carcere…
MASSIMO FORLINI – DIRIGENTE AUSL TERAMO. Loro sono dei medici convenzionati, praticamente con ruolo ad esaurimento. Siccome nel Sistema Sanitario nazionale non c’è una figura come quella – e quindi esistono solo dei dirigenti medici dipendenti, come me – secondo me c’è stata una criticità nella legge del 2008 che ha lasciato un po’ troppo poco regolamentato lo status di queste persone.
FRANCESCO CERAUDO – PROFESSORE DI MEDICINA DELLE COMUNITÀ UNIVERSITÀ DI PISA. Io avevo su questi libri, perché sto scrivendo l’ultimo libro. Si chiama «Uomini come bestie». Quindi già nel titolo è contenuto…
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO. Francesco Ceraudo è stato medico penitenziario, sindacalista, ha scritto vari libri sulla medicina in carcere e ha contribuito alla riforma del 2008 che nello spirito doveva equiparare l’assistenza sanitaria del detenuto a quella del cittadino libero.
FRANCESCO CERAUDO – PROFESSORE DI MEDICINA DELLE COMUNITÀ UNIVERSITÀ DI PISA. Perché è fallita fondamentalmente la riforma? È fallita soprattutto perché come era stata programmata, doveva essere fatta con i medici penitenziari. Perché in quella maniera lì, mettendo a frutto le competenze, le esperienze, si poteva combinare veramente un qualcosa di buono. Ognuno qui si è sentito nel diritto e nel dovere di interpretarlo a modo proprio e sono venute fuori delle cose sconclusionate, come la Regione Campania: ogni tre mesi sostituisce il medico di guardia. Ma che criterio ha sostituire un medico di guardia che in tre mesi non fa in tempo neanche a capire l’«a, b, c» della medicina penitenziaria, per poi sostituirlo con un altro. Per quale motivo?
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO. Le uniche regioni che hanno trovato una formula per l’assunzione dei medici provvisori sono Emilia Romagna e Toscana, dove ci sono sedici carceri. Ai medici incaricati provvisori è garantito lo stesso trattamento giuridico ed economico dei medici definitivi, compresi i trattamenti contributivi e previdenziali.
BERNARDO IOVENE. Cioè quindi sono passati da medici provvisori dentro al ministero della Giustizia, a dipendenti della Regione Toscana?
LORENZO ROTI – SETTORE ORGANIZZAZIONE DELLE CURE REGIONE TOSCANA. Esattamente. Chi voleva veniva inquadrato all’interno di una forma contrattuale che è una forma tipo dei contratti presenti in sanità.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO. Un esempio che non hanno seguito le altre regioni, e che secondo Ceraudo ha segnato il fallimento della riforma della medicina penitenziaria.
FRANCESCO CERAUDO – PROFESSORE DI MEDICINA DELLE COMUNITÀ UNIVERSITÀ DI PISA. Dispiace che siamo arrivati a un punto di non ritorno. Io dico in questo momento: «Un punto di far west».
BERNARDO IOVENE. Immagino la sua amarezza, la sua delusione…
FRANCESCO CERAUDO – PROFESSORE DI MEDICINA DELLE COMUNITÀ UNIVERSITÀ DI PISA. Totale. Totale perché – ripeto – con presunzione immaginavo di poter trascinare – per la bontà delle iniziative – tutte le altre Regioni. Invece mi hanno snobbato completamente. Quindi sono diventato il diavolo per loro. Non mi giudichi dai risultati. Lei mi deve giudicare dall’impegno che io ho profuso.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO. Tanta ammirazione per il povero dottor Ceraudo che ha passato la sua vita a difendere i diritti della sua categoria, che ha un certo ruolo perché dalla certificazione di un medico penitenziario dipende se un criminale poi rimane in carcere oppure no. Dal 1994 lo Stato non ha più indetto concorsi, ha messo una toppa mandandoci qualche medico provvisoriamente, provvisoriamente si fa per di dire perché è rimasto lì per 30 anni, senza diritti, senza previdenza, senza scatti di anzianità, senza buonuscita. Nel 2008 se li sono anche passati di mano: dal ministero della Giustizia sono finiti alle Asl, conoscevano la perversione, l’hanno messa addirittura nero su bianco in una lettera, ma non è che l’hanno sanata, hanno detto, li pagava così il ministero della Giustizia facciamo altrettanto noi, le Asl. Ecco, la Regione Toscana e l’Emilia Romagna li hanno invece assunti e regolarizzati. Perché’ non hanno fatto la stessa anche le altre? Insomma saranno anche ad esaurimento ma paghiamoli il dovuto? Ma facciamo attenzione, perché l’Europa in materia di cura ai detenuti ci ha messo sotto osservazione.
PARLIAMO DEI PORTABORSE, OSSIA GLI ASSISTENTI PARLAMENTARI.
Portaborse, le Iene respinte a Palazzo. Il caso dell’onorevole Caruso, ripreso mentre chiedeva sesso alla portaborse, scrive Gianluca Roselli su "Il Fatto Quotidiano" il 5 ottobre 2017. Il ricatto sessuale del deputato alla collaboratrice, ripreso dalle Iene. Nonostante fosse accreditato alla Camera, Filippo Roma delle Iene, con i suoi tecnici, non è stato fatto entrare. Anzi, è stato fermato a spintoni dai commessi. Altra incursione del programma Mediaset ieri a Montecitorio, per chiedere a Laura Boldrini come sia possibile che la collaboratrice non pagata del deputato Mario Caruso avesse il tesserino per entrare a Montecitorio. Per avere la tessera, infatti, serve un contratto. Per il gruppo parlamentare a cui appartiene, “Democrazia solidale-Centro Democratico”, invece, Caruso deve scusarsi con la sua assistente, pagarle quanto dovuto e interrompere subito il rapporto di collaborazione con il figlio del sottosegretario alla Difesa, Domenico Rossi, di cui la collaboratrice faceva le veci. IL CASO dell’assistente presa dal parlamentare per coprire il figlio di Rossi, assunto per quel ruolo ma mai recatosi al lavoro e scoperto dalle Iene è solo uno dei numerosi episodi vergo- gnosi che riguardano il sottobosco dei lavoratori del Parlamento. In questi anni si è visto di tutto, dal collaboratore pagato in nero a quello non pagato affatto, da laureati con dottorato contrattualizzati come colf e badanti ad assistenti che ricevono lo stipendio ma poi devono rigirarlo in larga parte al parlamentare. Più, naturalmente, casi di avance sessuali, come quelle denunciate alle Iene della ragazza in questione. Ieri della vicenda è tornata a occuparsi la Boldrini, che ha inviato una lettera ai questori di Montecitorio chiedendo di “effettuare una dettagliata ricostruzione su quanto è avvenuto”. Mentre la protagonista di questa storia ha ricevuto offerte di contratto in regola da parte di diversi gruppi parlamentari. Ma per una che parla, sono decine che restano nell’ombra. “Se ti fai il nome di rompi scatole, magari perché chiedi un contratto regolare, poi farai fatica a trovare qualcuno disposto ad assumerti”, racconta un assistente. Solo dopo l’esplosione del caso Iene, dunque, il Palazzo è tornato a occuparsi della questione. La presidente della Camera ieri ha incontrato i rappresentanti dell’Associazione italiana collaboratori parlamentari (Aicp) assicurando loro di fare il possibile affinché la vicenda possa essere risolta entro fine della legislatura. Nella lettera ai questori, Boldrini ha esortato l’ufficio di presidenza “a valutare possibili iniziative da adottare, anche sul piano della normativa interna, affinché simili episodi non abbiano a ripetersi”. Il problema, finora, è stata la mancanza di volontà politica dei partiti. A Montecitorio so- no attivi 628 contratti (su 630 deputati), di cui 364 per collaboratori che lavorano alla Camera, il resto nei collegi. Ogni deputato per i collaboratori percepisce 3.690 euro (4.180 in Senato) di cui solo il 50% (1.845 euro) deve essere rendicontato. Ma ciò che finisce in tasca all’assistente è ben poco: la stima oscilla tra gli 800 e i 1.200 euro, sotto la forma dei contratti più disparati: co.co.co, partite Iva, contratti di consulenza o a tempo determinato. Una giungla senza diritti. Per questo l’Aicp chiede un nuovo regolamento simile a quello del Parlamento europeo, dove i soldi non transitano tramite il parlamentare, ma direttamente dall’istituzione al collaboratore: il deputato segnala solo la persona da assumere, la forma di contratto e il relativo stipendio. I partiti, però, fanno orecchie da mercante, mentre per il questore Stefano Dambruoso “non ci sono soldi per eventuali aumenti di spesa”. Per cambiare le cose basterebbe una delibera votata dall’ufficio di presidenza (22 deputati di tutti i gruppi). “Finora abbiamo sentito tante belle parole, ma poi tutti si sfilano”, racconta Lorenzo Carrozza, vice presidente Aisp. I collaboratori parlamentari questa mattina, saranno protagonisti di un flash mob davanti a Montecitorio. “Rimandare alla prossima legislatura – dicono - significa perdere altri 5 anni…”.
Onorevole Mario Caruso, video servizio Le Iene: nuova Parentopoli, il figlio del Sottosegretario Domenico Rossi assunto senza lavorare. La denuncia di una ex collaboratrice e le avances, scrive il 4 ottobre 2017 Niccolò Magnani su "Il Sussidiario". Sicuramente il servizio delle Iene sull'Onorevole Mario Caruso ha fatto allungare di nuovo l'ombra lunga di Parentopoli sulle istituzioni che già da tempo soffrono di un calo di considerazione molto importante da parte dei cittadini. Nonostante questo, va registrata l'ondata di indignazione generale che soprattutto nelle ultime ventiquattro ore è montata attorno al caso: le dimissioni del sottosegretario Rossi sono state definite obbligate dai tanti osservatori che sui social hanno iniziato a criticare i quadri politici. "Altro che taglio delle pensioni e dei vitalizi, questi puntano a creare una dinastia". "Non ci può essere fiducia per chi da anni prospera sulla spalle degli italiani" alcuni dei commenti social più... leggibili. Sicuramente lo scoop delle Iene è stato grande, ma in un anno che porterà ad elezioni politiche molto attese e che potrebbero radicalmente cambiare il quadro del parlamento italiano, sicuramente storie come il caso Caruso-Rossi minano ulteriormente la fiducia degli italiani nelle istituzioni. (agg. di Fabio Belli)
LO SDEGNO DELLA BOLDRINI. La Presidente della Camera, Laura Boldrini, alla quale la stagista si era rivolta nell'intervista al Corriere, ha replicato, all'indomani del servizio de Le Iene, in merito al caso dell'Onorevole Mario Caruso. La Boldrini ha usato parole decisamente forti per definirlo: "inaccettabile, vergognoso e imbarazzante", ha detto. Durante un incontro con una delegazione dell'Associazione Italiana Collaboratori, la Boldrini ha poi fatto sapere, come rivela Corriere Quotidiano, di aver già scritto al Collegio dei Questori chiedendo una istruttoria sul caso. Pur essendo inaccettabile, la presidente ha chiarito che non sarebbero comunque della Camera le responsabilità poiché "il rapporto di collaborazione è diretto tra il collaboratore e il deputato stesso". Con la richiesta dell'apertura di una istruttoria sul caso specifico, Laura Boldrini spera di poter fare totale chiarezza su un aspetto del quale ancora manca la trasparenza. A lei si era ricolta anche la giovane stagista tenuta a nero per oltre un anno e mezzo da Caruso e mai pagata, ed alla quale l'Onorevole avrebbe rivolto delle avances. (Aggiornamento di Emanuela Longo)
LE PAURE DELLA STAGISTA. Federica, la giovane protagonista stagista nell'ufficio del deputato Mario Caruso, pur non essendo mai stata pagata, ora ha paura. Lo ha detto nella medesima intervista rilasciata al Corriere dopo l'ultimo nuovo servizio de Le Iene trasmesso ieri, durante il quale è stato riproposto per intero quanto già trasmesso nella puntata di esordio del programma. Nelle ultime ore la giovane ha avuto modo di risentire l'onorevole, sebbene la conversazione non sia stata affatto positiva. "Mi ha solo fatto sapere che non lavoro più per lui", ha spiegato. Ora cosa si aspetta, dunque? "Ora mi auguro che non mi succeda nulla, dopo le minacce che ha fatto alle Iene", ha spiegato. Il riferimento è alle minacce che Caruso aveva rivolto all'operatore video e poi allo stesso Filippo Roma, che ha realizzato il servizio con il quale è stato messo in luce cosa accadeva nel suo ufficio, dove la stagista veniva tenuta a nero e non pagata, a differenza del figlio del sottosegretario Domenico Rossi, da lui assunto, pagato dal padre ma comunque sempre assente. (Aggiornamento di Emanuela Longo)
APPELLO DELLA STAGISTA ALLA BOLDRINI. Torna a parlare la stagista del video girato dalle Iene che dopo un anno e mezzo di lavoro “in nero” e senza retribuzioni dall’onorevole Mario Caruso ha deciso di denunciare la nuova Parentopoli in Parlamento: lo ha fatto con il Corriere della Sera che ha utilizzato come rampa di lancio per un appello rivolto alla politica, alle istituzioni e alla Presidente della Camera, puntano sulla sua spiccata sensibilità in tematiche di violenze e soprusi sulle donne in politica. «Spero che la presidente Boldrini e le istituzioni ora non mi lascino sola. Ho tanta paura e devo anche trovarmi un nuovo lavoro. Prima ero renziana, ma dopo tutto lo schifo che ho visto non voglio più avere a che fare con la politica». Si chiama Federica, il cognome è ancora tenuto nascosto, e ora deve ricominciare tutto da capo dopo il clamore lanciato contro Caruso e Rossi dopo la denuncia delle Iene Show. Dopo qualche mese dall’inizio del lavoro senza alcun contratto, l’invito a cena con inganno: ecco il racconto della ragazza, «mi invita a cena con l'inganno. Mi dice che sarebbe stata una cena di lavoro con altri, ma ci ritroviamo io e lui, in un ristorante di piazza Cavour. Lì mi spiega che se andavo a letto con lui, mi avrebbe messo nella segreteria di qualche Commissione. Rifiuto: non sono una scappata di casa, ho famiglia. Ogni occasione è buona per restare solo con me. Comincio a soffrire, ho attacchi di panico. Dopo i tre mesi, mi promette un contratto, che non mi farà mai».
LA DENUNCIA A MARIO CARUSO. Un nuovo caso di Parentopoli in Parlamento, questa volta smascherato dal video servizio de Le Iene Show andato in onda ieri sera e avente nel mirino l’onorevole Mario Caruso e il Sottosegretario Domenico Rossi: secondo l’indagine condotta dall’inviato Filippo Roma, il deputato di Democrazia Solidale Centro Democratico Mario Caruso avrebbe assunto il figlio del Sottosegretario alla Difesa con il quale lo stesso parlamentare condivide l’ufficio. Nasce tutto dalla denuncia di una giovane parlamentare che sostiene di aver lavorato gratis, senza contratto e senza alcuna promessa di retribuzione da un anno e mezzo presso l’ufficio di Mario Caruso: la ragazza ha raccontato alle Iene di aver cominciato con uno stage di tre mesi e di essere andata avanti da allora senza retribuzione, subendo anche qualche avance sessuale. «Se fossi andata a letto con lui, mi ha fatto capire Caruso, mi avrebbe aiutato», l’accusa grave riporta dalla ex collaboratrice al politico eletto con Mario Monti nel 2013. La ragazza ha registrato un suo colloquio con il deputato, andato in onda, in cui si osserva: «Non è che se ti avessi detto di sì mi avresti dato il lavoro?». «No, quelle sono cose separate e distinte» la replica di Caruso. In più, la donna denuncia il fatto che al posto suo era stato assunto il figlio del Sottosegretario Rossi, pagato con contratto regolare, senza però praticamente mai lavorare. «L’ho assunto dopo un’attentata valutazione delle sue capacità», l’altra replica di Caruso nel servizio delle Iene.
IL SOTTOSEGRETARIO ROSSI SI DIMETTE MA….Sul caso della nuova mini-Parentopoli in Parlamento, le conseguenze politiche non si sono fatte attendere: immediate le dimissioni e le deleghe rimandate di Domenico Rossi, il cui figlio starebbe stato assunto da Caruso ma pagato comunque dal padre senza presentarsi in ufficio (accusa dalla quale tutto dovrà essere confermato e dimostrato, ndr). «Sono accuse infondate e lesive della mia persona quelle che mi sono state rivolte nel servizio della trasmissione televisiva “Le Iene”. Insinuazioni che infangano, ancora una volta, la mia reputazione», ha spiegato al Corriere della Sera il generale di corpo d’armata dell’Esercito Italiano e già Sottocapo di Stato Maggiore dell’Esercito, che ha comunque deciso di rimettere le deleghe. Il motivo? «Al fine di non coinvolgere l’amministrazione che rappresento e per svolgere ogni azione in piena libertà e con maggiore serenità». Opposizioni in subbuglio, con i grillini che chiedono la “testa” anche di Caruso e con la presidente della Camera, Laura Boldrini, che ha commentato ««La violazione dei diritti di un lavoratore o di una lavoratrice è grave sempre, ma lo è ancor più se a rendersene responsabile è chi siede in Parlamento - spiega la presidente Boldrini - I comportamenti dei due deputati, qualora risultasse confermata la ricostruzione proposta dalla trasmissione televisiva, getterebbero pesante discredito su tanti altri loro colleghi che invece agiscono in maniera corretta e su un’istituzione che è impegnata in una azione di cambiamento, sobrietà, trasparenza».
Governo, il sottosegretario alla Difesa Rossi rimette le deleghe dopo servizio delle Iene: “Figlio assunto da deputato”. L'ex di Scelta Civica: "Contro di me accuse accuse infondate". L'ex generale era già finito in altre puntate del programma di Italia Uno per la sua "abitudine" a usare le auto blu (con cui si faceva accompagnare anche allo stadio). Al centro delle interviste anche il deputato Caruso. Una assistente parlamentare: "Mi fece anche avance per farmi continuare a lavorare", scrive "Il Fatto Quotidiano" il 3 ottobre 2017. Prima qualche problema con le auto blu, ora il figlio assunto alla Camera. Il sottosegretario alla Difesa Domenico Rossi dopo un anno si conferma il soggetto preferito per i servizi delle Iene ma questa volta la storia è un po’ più imbarazzante tanto che questa volta il generale braccio destro della ministra Roberta Pinotti ha rimesso le deleghe. Rossi non parla quindi di dimissioni, ma dovrà dare “spiegazioni esaustive e convincenti” dice Lorenzo Dellai, il capogruppo di Democrazia Solidale-Centro Democratico, gruppuscolo che alla Camera riunisce alcuni centristi della maggioranza e di cui fa parte anche Rossi, che nel 2013 fu eletto con Scelta Civica. Del gruppuscolo fa parte anche Mario Caruso, il deputato che ha assunto il figlio del generale-sottosegretario, Fabrizio Rossi. Secondo la tesi delle Iene il figlio del membro di governo è stato assunto come assistente parlamentare per fare “una cortesia” al padre perché lui non poteva farlo direttamente. Comunque, spiega Caruso parlando a telecamera nascosta, “lo paga il padre”. “Accuse infondate e lesive della mia persona” replica Rossi. Ma del caso si interessa ora anche la presidente della Camera Laura Boldrini che ha detto di “valutare iniziative”. Le accuse arrivano da una giovane assistente parlamentare che è stata intervistata da Filippo Roma, alle Iene, col volto oscurato e in modo anonimo. La ragazza ha raccontato di lavorare senza contratto e senza retribuzione da un anno e mezzo per Caruso, dopo aver cominciato con uno stage di tre mesi e di essere andata avanti da allora senza retribuzione, subendo anche avance sessuali. “Una sera al ristorante – ha detto la giovane – l’onorevole (Caruso, ndr) mi ha fatto capire che se fossi andata al letto con lui mi avrebbe aiutato”. La ragazza mostra anche un messaggino inviatole dal deputato qualche giorno dopo, a mezzanotte: “Sono a casa, valuta te cosa fare”. La ragazza ha anche registrato un suo colloquio con il deputato. “Non è che se ti avessi detto di sì mi avresti dato il lavoro?”. “No, quelle sono cose separate e distinte”, la replica di Caruso. Pressato dalle Iene, Caruso ha negato di aver chiesto alla sua collaboratrice prestazioni sessuali, sostiene che la ragazza ha fatto solo uno stage di tre mesi e dice di aver assunto il figlio del sottosegretario Rossi dopo aver fatto “una valutazione delle sue capacità”. Rossi si difende parlando di “insinuazioni che infangano, ancora una volta, la mia reputazione: mio figlio ha un regolare contratto di assistente parlamentare con un deputato della Camera. Il documento, consultabile, conferma l’assenza di un rapporto di dipendenza dal mio ufficio contrariamente a quanto riportato nel servizio. Un incarico di natura fiduciaria che non prevede vincoli di orario lavorativo e anche per questo con una minima retribuzione”. Ma non è la prima volta che Rossi finisce nei servizi delle Iene. A primavera il programma di Italia Uno aveva documentato l’arrivo del sottosegretario in auto blu allo stadio Olimpico per vedere il derby di Roma. Ancora prima – nell’ottobre 2016 – era finito al centro di un altro servizio sull’abuso di auto blu quando e aveva dovuto ammettere che la usava per recarsi da casa al ministero.
Dellai, capogruppo di Democrazia Solidale-Centro Democratico, parla di “stupore e sconcerto”. Anche per questo Rossi ha deciso di rimettere le deleghe per “non coinvolgere l’amministrazione” e per svolgere ogni azione in piena libertà e con maggiore serenità”. In sostanza, insiste, un modo per “fare chiarezza per evitare che queste informazioni siano strumentalizzate: le spese relative ai collaboratori sono rendicontate e questo basta per dimostrare da chi realmente dipende l’impiegato e viene retribuito”. Per la presidente Boldrini la situazione messa in evidenza nel servizio è “inaccettabile”. Per questo chiederà “al collegio dei questori una approfondita ricostruzione dell’accaduto, per valutare eventuali iniziative da assumere sia sulla specifica vicenda, sia in merito a una diversa regolamentazione di tutta la materia”.
Rossi, generale di corpo di armata ed ex sottocapo dello Stato maggiore dell’Esercito (fino al 2013), è stato eletto deputato con Scelta Civica. E’ diventato sottosegretario alla Difesa con la nascita del governo Renzi e poi riconfermato nell’esecutivo di Gentiloni. Da quando Scelta Civica in Parlamento si è disfatta, ha sempre scelto la parte un po’ più a destra: prima si scrive al gruppo Popolari per l’Italia, poi si candida alle Europee 2014con Ncd-Udc (non viene eletto), poi a Democrazia Solidale-Centro Democratico che unisce i popolari di Scelta Civica con i parlamentari eletti dal partito di Bruno Tabacci. Proprio per Centro Democratico si candida alle primarie del centrosinistra per le amministrative di Roma: si piazza terzo dopo Roberto Giachetti e Roberto Morassut, con 1320 voti, il 3 per cento delle preferenze.
Caruso invece si trova dentro il gruppuscolo centrista quasi per caso. La sua storia è stata sempre a destra: era sindacalista dell’Ugled è stato candidato alla Camera per la prima volta nella lista Per l’Italia nel mondo, di Mirko Tremaglia, che era l’espressione di An nei collegi esteri. Ci riprova due anni dopo con il Popolo delle Libertà (sempre nelle circoscrizioni estere), ma anche questa volta non viene eletto. Nel 2010 passa a Futuro e Libertà di Gianfranco Fini ed è, incredibilmente, l’unico di Fli che riesce a essere eletto a rimorchio di Scelta Civica e di Mario Monti. Del gruppo parlamentare (dove confluisce dopo un paio di anni) è ora tesoriere, anche se da indipendente (Fli ormai si è sciolta).
Filippo Roma, autore del servizio delle Iene, annuncia un nuovo servizio sull’ex generale. “Abbiamo fatto il nostro lavoro è tutto documentato dalle immagini, ci siamo semplicemente chiesti: ma è normale?”. Nel servizio, precisa, “è proprio il figlio a rivelare che lavora nell’ufficio del padre. Poi abbiamo coperto il rapporto con Caruso. Ci siamo posti delle domande: è giusto?”. Per i Cinquestelle quella di Rossi è “un’ammissione di colpa anche se il generale cerca di correggere goffamente il tiro”. Per i parlamentari M5s delle commissioni Difesa “siamo di fronte a un presunto, e ripetuto, caso di favoritismo e clientelismo, a spese peraltro dei cittadini. Rossi non deve rimettere le deleghe, ma deve dimettersi immediatamente e lasciare l’incarico di sottosegretario”.
Dopo il servizio delle Iene il sottosegretario Rossi si dimette: “Accuse infondate”, scrive il 4 ottobre 2017 "Il Corriere del Giorno". Il servizio delle Iene riguarda anche la denuncia di una giovane “portaborse” che ha dichiarato di lavorare da un anno e mezzo per il deputato Caruso, senza essere retribuita e subendo avances sessuali. Il sottosegretario alla Difesa, Domenico Rossi, dopo una trasmissione televisiva delle Iene da cui è emerso che il deputato Mario Caruso (Democrazia Solidale – Centro Democratico) aveva formalmente assunto il figlio del sottosegretario per fargli un favore, che peraltro non si presentava mai al lavoro. Rossi ieri sera ha rassegnato le proprie dimissioni dal Governo.
Caruso eletto deputato nel 2013 in lista con Mario Monti, si era già presentato alla Camera nel 2008 nelle liste del Popolo della Libertà, seguendo poi nel 2010 Gianfranco Fini e aderendo a Futuro e Libertà per l’Italia: nel 2013 appunto la nomina come deputato della XVII Legislatura e alla Camera aderisce al gruppo di Scelta Civica per l’Italia, quindi nel dicembre 2013 al nuovo gruppo parlamentare Democrazia Solidale-Centro Democratico a cui sono iscritti anche Bruno Tabacci e Lorenzo Dellai. Caruso invece si trova dentro il piccolo raggruppamento centrista quasi per combinazione. La sua storia politica infatti è stata sempre a destra: sindacalista dell’Ugl è stato candidato alla Camera per la prima volta nella lista Per l’Italia nel mondo, di Mirko Tremaglia, che era l’estensione di An nei collegi esteri. Due anni dopo ci riprova sempre nelle circoscrizioni estere con il Popolo delle Libertà, ma anche questa volta non viene eletto. Nel 2010 passa a Futuro e Libertà con Gianfranco Fini ed è, incredibilmente, l’unico di Fli che riesce a essere eletto grazie all’unione elettorale estera con Scelta Civica di Mario Monti. Attualmente anche se da indipendente, Fli ormai si è sciolta, è tesoriere dell’attuale gruppo parlamentare dove è confluito da un paio di anni.
Rossi, generale di corpo di armata ed ex sottocapo dello Stato maggiore dell’Esercito (fino al 2013), è stato eletto deputato con Scelta Civica. E’ diventato sottosegretario alla Difesa con la nascita del governo Renzi e poi riconfermato nell’esecutivo di Gentiloni. Da quando Scelta Civica in Parlamento si è disfatta, ha sempre scelto la parte un po’ più a destra: prima si scrive al gruppo Popolari per l’Italia, poi si è candidato alle Europee 2014 con Ncd-Udc (non venendo eletto), poi a Democrazia Solidale-Centro Democratico che riunisce i popolari di Scelta Civica con i parlamentari eletti dal partito guidato da Bruno Tabacci. Proprio per Centro Democratico si candida alle primarie del centrosinistra per le amministrative di Roma: si piazza al terzo posto dopo Roberto Giachetti e Roberto Morassut, con 1320 voti, ricedendo appena il 3 per cento delle preferenze. Rossi ex generale dell’esercito e sottosegretario alla Difesa ha negato quanto è emerso documentalmente dal servizio dell’inviato Filippo Roma delle Iene: “Sono accuse infondate e lesive della mia persona. Insinuazioni che infangano, ancora una volta, la mia reputazione. Mio figlio ha un regolare contratto di assistente parlamentare con un deputato della Camera. Il documento, consultabile, conferma l’assenza di un rapporto di dipendenza dal mio ufficio contrariamente a quanto riportato nel servizio. Un incarico di natura fiduciaria che non prevede vincoli di orario lavorativo e anche per questo con una minima retribuzione”. Peccato però dal servizio si vede e sente ben altro. “In ogni caso al fine di non coinvolgere l’Amministrazione che rappresento e per svolgere ogni azione in piena libertà e con maggiore serenità – ha aggiunto Rossi – ho deciso di rimettere le deleghe conferitemi dal Ministro della Difesa. Con questa iniziativa – prosegue l’ormai ex- sottosegretario – voglio fare chiarezza per evitare che queste informazioni siano strumentalizzate: le spese relative ai collaboratori sono rendicontate, e questo basta per dimostrare da chi realmente dipende l’impiegato e viene retribuito”. Immancabile l’azione penale per difendersi: “Ho dato mandato a uno studio legale al fine di tutelare l’immagine mia e di mio figlio ed esaminare la possibilità di contestare le accuse che mi sono state rivolte nelle opportune sedi legali”.
Il servizio delle Iene riguarda la denuncia di una giovane assistente parlamentare che ha sostenuto di lavorare da un anno e mezzo per il deputato Caruso, senza essere retribuita e senza alcun tipo di contratto. Nell’intervista al programma Le Iene andato in onda ieri sera la giovane assistente parlamentare, mostrata con il volto oscurato e nome occultato, ha raccontato di aver cominciato con uno stage di tre mesi e di essere successivamente andata avanti da allora senza retribuzione, subendo anche qualche avance sessuale. “Una sera, al ristorante l’onorevole mi ha fatto capire che se fossi andata al letto con lui mi avrebbe aiutato”». La ragazza ha mostrato anche un messaggino ricevuto qualche giorno dopo, a mezzanotte dal deputato Caruso: “Sono a casa, valuta te cosa fare”. La ragazza ha anche videoregistrato un suo colloquio con il deputato. “Non è che se ti avessi detto di sì mi avresti dato il lavoro?” a cui Caruso replicava “No, quelle sono cose separate e distinte”. Il deputato Caruso – sempre grazie alla telecamera nascosta -spiega riguardo al figlio del sottosegretario Rossi, che lo avrebbe assunto per fare “una cortesia” al padre in quanto lui non poteva assumerlo direttamente e che comunque “lo paga il padre”. Caruso pressato dall’inviato delle Iene, ha negato di aver chiesto alla sua collaboratrice prestazioni sessuali, sostiene che la ragazza aveva fatto solo uno stage di tre mesi e dice di aver assunto il figlio del sottosegretario Rossi dopo aver fatto “una valutazione delle sue capacità”. L’ on. Dellai ha dichiarato di aver preso atto “di quanto riportato dal servizio de “Le Iene” a proposito di due deputati aderenti al Gruppo. Nel precisare che i comportamenti oggetto dell’inchiesta giornalistica si riferiscono al rapporto esclusivo tra i singoli deputati e i loro collaboratori e non all’attività del Gruppo Parlamentare, attendo in ogni caso dai due colleghi spiegazioni esaustive e convincenti”. La presidente della Camera Laura Boldrini è intervenuta sulla denuncia della trasmissione, commentando come “inaccettabile” la situazione e preannunciato che chiederà al Collegio dei Questori della Camera dei Deputati una ricostruzione approfondita e dettagliato dell’accaduto, per valutare ogni eventuale iniziativa da assumere sia sulla specifica vicenda, sia in merito a una diversa regolamentazione di tutta la materia. “La violazione dei diritti di un lavoratore o di una lavoratrice è sempre grave, ma lo è ancor più se a rendersene responsabile è chi siede in Parlamento – aggiunge la Boldrini – I comportamenti dei due deputati, qualora risultasse confermata la ricostruzione proposta dalla trasmissione televisiva, getterebbero pesante discredito su tanti altri loro colleghi che invece agiscono in maniera corretta e su un’istituzione che è impegnata in una azione di cambiamento, sobrietà, trasparenza”.
Perché dico grazie a Filippo Roma delle Iene per il caso di Mario Caruso e Domenico Rossi, scrive Roberto Arditti su "Formiche.net" il 4 ottobre 2017. Grazie, mille volte grazie alle Iene e a Filippo Roma per il memorabile servizio dedicato all’improbabile onorevole Mario Caruso (nella foto con Bruno Tabacci), al sottosegretario Domenico Rossi e al suo simpatico figlio scavezzacollo Fabrizio, con la complicità della stagista anonima (anch’essa piuttosto improbabile, oltreché viziata da un drammatico accento romanesco degno di un film con Tomas Milian). Grazie non tanto per aver scoperchiato il pentolone delle assunzioni di favore (il figlio di Rossi in carico al collega di partito Caruso), monumento vivente all’Italietta della raccomandazione prêt-à-porter, di cui, caro generale Rossi, il mondo delle alte burocrazie nostrane (comprese quelle militari) è campione del mondo. Anche se, aprendo una parentesi, vorremmo sapere cosa ne pensano l’irreprensibile presidente Laura Boldrini ed il collegio dei questori della Camera, poiché il contribuente paga un cittadino italiano per lavorare da una parte mentre l’interessato fa tutt’altro al servizio del padre, peraltro membro del governo. E neppure grazie per aver messo in luce un altro memorabile vizio nazionale, quello delle dimissioni parziali ed innocue, visto che il sottosegretario di fronte ad una storia oggettivamente impresentabile decide di sospendersi dalle deleghe di governo, che è ben altra cosa dal dimettersi a tutti gli effetti (e anche qui saremmo grati al ministro Roberta Pinotti se ci mettesse a parte della sua opinione). Noi vogliamo ringraziare Filippo Roma per aver svelato ciò che solo il senatore Antonio Razzi ci aveva fatto intuire (con la collaborazione soave di Maurizio Crozza): abbiamo in Parlamento gente come l’onorevole Caruso che non parla la lingua italiana. Egli infatti farfuglia, con tono allusivo e spesso minaccioso, mettendo in fila parole a caso sperando che l’algoritmo installato dal Buon Dio nella sua testolina vuota faccia il miracolo di mettere tutto a sistema, creando così delle frasi di senso compiuto. Uno scempio esilarante ascoltare questo improbabile eletto del popolo, per la cui penosa elevazione in vetta allo scranno di deputato saremo per sempre irriconoscenti a Gianfranco Fini, che lo volle in lista con Mario Monti nella quota riservata al suo partito (vabbe’, oggi siamo indulgenti sul fronte lessicale). Un danno, quello di aver portato in Parlamento l’onorevole Caruso, al cui confronto la vicenda della casa di Montecarlo appare come una bazzecola, un peccato veniale, una distrazione per amore (parentale, as usual). Ora il nostro pensiero va al camerata Mirko Tremaglia, che volle fortissimamente la legge per allargare alle circoscrizioni estere il nostro sistema elettorale. Lodevole intento di un gentiluomo di destra, roccioso bergamasco dal cuore tenero. Oggi però di fronte agli strafalcioni del grottesco onorevole Caruso possiamo dire che quel tentativo è definitivamente fallito. Già Razzi con la sua passione per la Corea del Nord ci aveva fatto capire che qualcosa di sbagliato c’era nel nocciolo di quella intuizione. Adesso però ne abbiamo la prova assoluta. L’onorevole Caruso è la Cassazione, la sentenza definitiva, il verdetto inappellabile. Questa vicenda umana e (poco) politica degli eletti all’estero è una monumentale fesseria, evitando di usare un’espressione tanto cara al rag. Fantozzi (solo per carità di patria). Prima la chiudiamo e meglio è.
Le Iene accusano, il sottosegretario Rossi lascia il Governo. "Ho dato mandato a uno studio legale - afferma il sottosegretario - al fine di tutelare l'immagine mia e di mio figlio ed esaminare la possibilità di contestare le accuse che mi sono state rivolte nelle opportune sedi legali". Boldrini: "inaccettabile", scrive il 3 ottobre 2017 "Today". "Sono accuse infondate e lesive della mia persona quelle che mi sono state rivolte nel servizio della trasmissione televisiva 'Le Iene'. Insinuazioni che infangano, ancora una volta, la mia reputazione". Ad affermarlo è il sottosegretario alla Difesa, Domenico Rossi, annunciando di aver deciso di rimettere le deleghe conferitegli dal ministro "al fine di non coinvolgere l'amministrazione che rappresento e per svolgere ogni azione in piena libertà e con maggiore serenità". "Mio figlio - spiega Rossi - ha un regolare contratto di assistente parlamentare con un deputato della Camera. Il documento, consultabile, conferma l'assenza di un rapporto di dipendenza dal mio ufficio contrariamente a quanto riportato nel servizio. Un incarico di natura fiduciaria che non prevede vincoli di orario lavorativo e anche per questo con una minima retribuzione. Con questa iniziativa voglio fare chiarezza per evitare che queste informazioni siano strumentalizzate: le spese relative ai collaboratori sono rendicontate, e questo basta per dimostrare da chi realmente dipende l'impiegato e viene retribuito". "Ho dato mandato a uno studio legale - conclude il sottosegretario - al fine di tutelare l'immagine mia e di mio figlio ed esaminare la possibilità di contestare le accuse che mi sono state rivolte nelle opportune sedi legali".
Durante il programma televisivo Le Iene, nella puntata andata in onda il 1 ottobre, Filippo Roma, nel corso del servizio televisivo realizzato con Marco Occhipinti, ha denunciato come il signor Fabrizio Rossi lavorerebbe presso un ufficio del padre, l'onorevole Domenico Rossi (Democrazia Solidale - Centro Democratico e membro della Commissione Difesa alla Camera) situato nei pressi della propria abitazione. Inoltre nel servizio una ex assistente di un parlamentare racconta di aver lavorato in nero, senza un contratto e senza neppure aver percepito uno stipendio.
Boldrini: "Fatti emersi da servizio "Iene" inaccettabili". "La situazione messa in evidenza dal servizio trasmesso domenica sera dalle Iene è inaccettabile. La violazione dei diritti di un lavoratore o di una lavoratrice è grave sempre, ma lo è ancor più se a rendersene responsabile è chi siede in Parlamento ed è tenuto ad esercitare la sua funzione con disciplina e onore, come stabilisce la Costituzione". Lo afferma la presidente della Camera, Laura Boldrini. "I comportamenti dei due deputati, qualora risultasse confermata la ricostruzione proposta dalla trasmissione televisiva, - aggiunge la Boldrini - getterebbero pesante discredito su tanti altri loro colleghi che invece agiscono in maniera corretta e su un'istituzione che è impegnata in una azione di cambiamento, sobrietà, trasparenza. Ma la vicenda ripropone anche la necessità di una differente regolamentazione dei rapporti economici tra i deputati e i collaboratori parlamentari. Attualmente è il singolo deputato che provvede a retribuire chi collabora con lui, ma più trasparente sarebbe un rapporto nel quale fosse la Camera ad erogare il compenso in presenza di un contratto regolarmente registrato. È quello che da tempo, giustamente, chiede l`Associazione che rappresenta questi lavoratori e lavoratrici. Quando li ho incontrati ho apprezzato le loro proposte, ma non ho riscontrato tra i gruppi il consenso necessario per giungere a una decisione, trattandosi di una materia sulla quale deve deliberare l'Ufficio di Presidenza". "Chiederò dunque al Collegio dei Questori - conclude la Boldrini - una approfondita ricostruzione dell`accaduto, per valutare eventuali iniziative da assumere sia sulla specifica vicenda, sia in merito a una diversa regolamentazione di tutta la materia".
Fabrizio Rossi? E chi? Chi lo ha mai visto? Scrive Mario Ajello per il Messaggero il 4 ottobre 2017. Ma è uno che lavora a Montecitorio? Non credo proprio... Ecco, il figlio del generale Rossi non è proprio un assiduo del Palazzo. Eppure, grazie a papà lo stipendio ce l’ha. I pochi che dicono di ricordarselo - «Ah, devo averlo intercettato qualche volta» - lo descrivono l’opposto del portaborse o dell’animale da Transatlantico o da ufficio parlamentare. Un look da rocker, da leader di una band alternativa. Capelli lunghi. Portamento simpatico da chi non deve certo guadagnarsi la gloria in Parlamento né quello è il suo scopo né quello è il suo luogo. Ma papà, ovvero il generale, ha trovato il modo per fargli avere uno stipendiuccio da assistente dell’amico deputato Caruso ed è sempre meglio di niente. Anche se quei soldi sarebbero potuti andare non al simpatico Fabrizio - «Un tipo estroverso, chiacchierone, con la grande fortuna di potersene infischiare di tutto e ciò lo rende un fico», dicono di lui - ma all’assistente che lavora veramente al posto suo. La quale un giorno lo incontra per strada e gli fa: ««Non vieni da un anno e mezzo alla Camera, perché non ti fai più vedere?». E lui, pagato da quello che dovrebbe pagare lei e non lui: «Perché papà ha preso uno studio qui vicino e mi vuole sempre accanto a lui». Caruso paga Rossi junior, Rossi junior lavora per papà e l’assistente, nella giungla del Palazzo, cerca invano di avere i soldi che le spettano. A un certo punto, Rossi padre decise di candidarsi in una lista di centro-destra per le europee nel 2014. Non viene eletto. Si tiene il posto in Italia dove invece sta nel centrosinistra. E anche al governo. Il generale ha pure provato a diventare sindaco di Roma. Ha partecipato in quota Tabacci alle primarie del centrosinistra contro Giachetti, Morassut e gli altri. Ha preso il 3 per cento e la cosa divertente - a detta dei partecipanti - era che alle riunioni preparatorie dei gazebo al Pd Lazio partecipava, in rappresentanza di papà, il figlio rockettaro. Fabrizio dava un colpo di colore e di diversità estetica, tra tante divise da politicanti, a quelle sonnolente riunioni. Ed era lì, pagato dall’erario.
La ragazza del video de “Le Iene”: «Quel deputato ci provava, le istituzioni mi aiutino». «Mi ha invitata a cena con l’inganno chiedendomi di andare a letto con lui e che mi avrebbe sistemata. Ho detto no», scrive Alessandro Trocino il 3 ottobre 2017 su "Il Corriere della Sera". «La mia paura più grande è che ora mi lascino sola. Vorrei che le istituzioni e la presidente Boldrini mi aiutassero a superare questa situazione e a trovare un lavoro». Federica B. ha una voce decisa. Parla rapida, mentre un bassotto abbaia in sottofondo. Spiega che non vuole più avere a che fare con la politica: «Ero renziana. Lo stimo ancora, ma sono schifata da tutto, dopo quello che ho visto».
Federica, ci racconta come è finita nell’ufficio del deputato Mario Caruso?
«Ho 30 anni, sono laureata in Giurisprudenza e ho un master in Politiche pubbliche in Parlamento. Un’amica mi ha messo in contatto con lui e ho cominciato uno stage. Non retribuito, anche se la legge dice il contrario. Lavoravo a Palazzo Valdina. Tutti i giorni. Stesso ufficio del deputato e del sottosegretario Domenico Rossi, sempre assente».
E che faceva?
«Non granché. L’agenda, le proposte di legge. Lui si occupava dei fatti suoi, dei Caf che ha a Stoccarda, dove vive».
Poi che succede?
«Un mese e mezzo dopo l’inizio, mi invita a cena con l’inganno. Mi dice che sarebbe stata una cena di lavoro con altri, ma ci ritroviamo io e lui, in un ristorante di piazza Cavour. Lì mi spiega che se andavo a letto con lui, mi avrebbe messo nella segreteria di qualche Commissione. Rifiuto: non sono una scappata di casa, ho famiglia. Ogni occasione è buona per restare solo con me. Comincio a soffrire, ho attacchi di panico. Dopo i tre mesi, mi promette un contratto, che non mi farà mai».
E lei continuerà comunque a lavorare con lui.
«Sì, nella speranza che mi paghi. Viaggio anche, andiamo a Catania per lavoro. Mi invita a Stoccarda, ma non vado. Mi manda un messaggino notturno, invitandomi a casa sua. Io nel frattempo divento rigida, non voglio che fraintenda, che ci provi ancora».
Quando decide di denunciarlo?
«Quando scopro lo schifo. Vengo a sapere che Caruso ha assunto il figlio del sottosegretario Rossi, Fabrizio, che non viene mai e non lavora. A lui dà 500 euro al mese, a me neanche il pranzo. È raccapricciante. Poi dici che i giovani devono crescere».
Chi paga il figlio di Rossi?
«A me Caruso dice che lo paga il padre. Ma per legge non può. Avranno fatto qualche magheggio».
Ha sentito Caruso in queste ore?
«No, mi ha solo fatto sapere che non lavoro più per lui. Ora mi auguro che non mi succeda nulla, dopo le minacce che ha fatto alle Iene».
La rabbia dei portaborse dei parlamentari: "Obbligati a intrattenere l'amante del capo". Assistenti parlamentari in piazza: c'è chi è stata allontanata perché incinta, chi penalizzata perché malata, scrive Fabrizio Ratiglia il 6 ottobre 2017 su "Il Quotidiano Nazionale". Sono giovani, quasi tutti con laurea e master, molto determinati e soprattutto stufi di esser sfruttati e trattati come collaboratori tuttofare con stipendi da colf. Talvolta obbligati addirittura a rendersi complici di tradimenti e a intrattenere l’amante fino all’arrivo del proprio capo. Dovrebbero occuparsi di gestire la segreteria, dei rapporti con la stampa, della preparazione di proposte di legge invece troppo spesso i collaboratori sono costretti a fare gli autisti per gli onorevoli e le loro famiglie, a portare i vestiti in tintoria, a ritirare certificati medici, a fare la spesa. Ieri in piazza Montecitorio l’Associazione Italiana Collaboratori Parlamentari ha organizzato un flash mob chiedendo di essere pagati direttamente da Camera e Senato e non lasciare discrezionalità a Deputati e Senatori che troppo spesso se ne approfittano. C'erano poche decine di persone, la punta dell’iceberg, solo quelli più tutelati. Tutti gli altri, i più deboli, coloro che denunciando i soprusi avrebbero solo da perdere il poco che hanno, non sono apparsi pubblicamente. Si sentono «l’ultima ruota del carro» e hanno preferito non rischiare. Ma protetti dall’anonimato hanno raccontato a Qn le loro storie. E qualcuna è eclatante. C’è la classica, la collaboratrice da anni precaria allontanata perché incinta e spinta alle dimissioni volontarie per poi essere riassunta a metà stipendio come consulente. C’è la storia di Giulia (nome di fantasia…) che prima ha scoperto di aver contratto un cancro e di doversi sottoporre alla chemio, e poi come ulteriore beffa, proprio nel momento in cui aveva bisogno di sostegno, si è vista tagliare il compenso perché obbligata a figurare come part time. Senza alcuna tutela, neanche in caso di malattia gravissima. Poi c’ è la vicenda di un senatore della maggioranza, e non è affatto un caso isolato, che obbliga il suo collaboratore ad occuparsi addirittura dell’amante. Il malcapitato deve andare a prenderla a casa, portarla in hotel, offrirle da bere e intrattenerla fino all’arrivo dell’onorevole. Storie di sfruttamento e molestie sessuali venute alla luce con l’inchiesta di Italia Uno e la denuncia di Federica nei confronti dell’On. Mario Caruso che ha portato Domenico Rossi a rimettere le deleghe di Sottosegretario alla Difesa. Ieri la ragazza, finalmente più distesa, ha ricevuto una lunga telefonata di solidarietà da Laura Boldrini. Registrata dalle Iene, il Presidente della Camera le ha garantito che prenderà provvedimenti entro la fine della legislatura. La sua intenzione è convincere i partiti a pagare direttamente i collaboratori, magari – come ipotizza il Questore di Montecitorio Stefano Dambruoso – a versargli 1800 euro. Si tratta del 50 per cento che deve essere rendicontato per ottenere i 3600 euro che ogni Deputato ha in busta paga sotto le voci staff e attività politica. Poi l’On. naturalmente, a sua discrezione, sarebbe libero di pagare al collaboratore anche l’intera cifra. Intanto fioccano i contenziosi che – come confida Fabio Santoro, il legale dell’associazione che ha organizzato il flash mob – finiscono sempre nello stesso modo: Prima il parlamentare prova a fare la voce grossa e minaccia richieste per risarcimento del danno di immagine, poi, una volta di fronte al giudice, abbassa la testa e concilia per quasi l’intero importo richiesto dal suo ex collaboratore. Negli ultimi tre casi, due Deputati e un Senatore hanno accettato di pagare dai 1500 ai 16 mila euro». Della serie: l’importante è non perdere la faccia con una sentenza pubblica.
Portaborse dei parlamentari, stipendi da fame e poche tutele. Schiavi dei politici: la vita poco onorevole degli assistenti sfruttati. La rabbia dei portaborse: "Obbligati a intrattenere l'amante del capo", scrive Veronica Passeri il 6 ottobre 2017 su "Il Quotidiano Nazionale". Figlio "assunto" alla Camera, sottosegretario Rossi rimette le deleghe dopo video Iene. C'è chi assume il parente, dal fratello al marito, e chi la baby sitter che così viene pagata con i soldi destinati al collaboratore parlamentare e può badare al pargolo mentre l’onorevole è impegnato. Ci sono ragazzi con laurea, dottorato e master che lavorano 12 ore al giorno per poco più di 600 euro nette al mese. Con viaggi e pasti a carico loro perché spesso per un lavoro in Parlamento si è disposti a sobbarcarsi anche le spese e a fare i pendolari. Basta un giro in Parlamento, tra il Transatlantico e Palazzo Madama, per sentirne diverse di testimonianze del genere. Perché, nonostante i tentativi di mettere delle regole, tanti assistenti parlamentari, spesso molto qualificati, sono ancora pagati in modo non adeguato, con contratti precarissimi, senza nessun riconoscimento delle loro capacità. E così esposti anche ad abusi.
La rabbia dei portaborse: "Obbligati a intrattenere l'amante del capo". In alcuni casi, citati sottovoce, vengono inquadrati addirittura come colf per pagare meno contributi. È ormai prassi, poi, che tanti entrino in Parlamento ogni giorno con il pass di ‘ospite’ e figurino come volontari ma è una copertura: lavorano nell’ufficio del parlamentare tutto il giorno. Succede a molti giovani del Sud che, senza lavoro, sono disposti a fare i pendolari e a non avere orari per stipendi, spiega un assistente che lavora al Senato, «che spesso si aggirano intorno alle 3-400 euro al mese, o nei casi migliori rasentano le 6-700. Pochissimi soldi per un lavoro delicato e difficile come elaborare schede sulle finanziaria o approfondimenti sulle delibere del Consiglio dei ministri». Una realtà che tocca anche gli uffici più in vista, come gli uffici stampa dove i contratti giornalistici pare continuino ad essere pochi. Situazione peggiorata, se fosse possibile, dal fatto che siamo a fine legislatura. «In queste ultime settimane – racconta un’assistente parlamentare della Camera – siccome mancano pochi mesi al voto molti onorevoli si sono disfatti dei collaboratori». Cioè? «Eh, li hanno mandati a casa dicendo che non ne avevano più bisogno, ma è chiaro: è per tenersi i soldi». Pare che questo stia avvenendo a livello trasversale, in più gruppi parlamentari. I soldi per retribuzioni più eque ci sarebbero. I deputati hanno a disposizione circa 3.600 euro al mese per pagare i collaboratori parlamentari e per coprire anche altre spese (come ad esempio quella di avere una sede sul territorio o di disporre di banche dati). La disponibilità dei senatori è di circa 4 mila euro. Ma, e qui sta in realtà il guaio, solo la metà di queste cifre deve essere rendicontata dal parlamentare: quindi, di fatto, il budget per i collaboratori si riduce a 1.800 euro, perché l’altra metà «l’onorevole o il senatore la usa come meglio crede». «Siamo tutti professionisti, spesso con titoli oltre la laurea – spiega Valentina Tonti dell’Associazione italiana collaboratori parlamentari – e stiamo facendo una battaglia anche per contrastare la visione dell’assistente parlamentare come semplice portaborse». Le norme introdotte contro lo sfruttamento selvaggio degli assistenti parlamentari secondo gli addetti ai lavori sono «sempre aggirabili». La exit strategy appare solo una: togliere di mano al parlamentare la gestione diretta dei soldi in modo che non ci sia la tentazione di «risparmiare sul collaboratore pagandolo di meno o non facendogli un contratto adeguato».
Portaborse in piazza dopo l’ennesimo scandalo. E Bernini (M5s) condannato non paga l’ex collaboratore da 5 mesi. Manifestazione di protesta degli assistenti parlamentari dopo lo scandalo costato le deleghe al sottosegretario Rossi. "Stop a contratti in nero, compensi da fame e mansioni inadeguate". E c'è chi porta i figli del deputato a scuola, chi gli fa la spesa. Basterebbe una delibera di presidenza, ma i gruppi non vogliono. E anche i Cinque Stelle non sono immuni: il caso Andraghetti-Bernini e il conto impignorabile, scrive Thomas Mackinson il 5 ottobre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Alla carica di “adesso o mai più”, quasi al crepuscolo della legislatura, scendono in piazza i “portaborse” con flash mob in piazza Montecitorio. L’appuntamento è per il 5 ottobre alle 12.30 e fino alle 14. E chissà se denunceranno vicende come quella, documentata da Le Iene, costata le deleghe al sottosegretario Domenico Rossi che avrebbe fatto assumere come collaboratore fittizio il figlio da un collega parlamentare, che si presta a tenerlo lì a far nulla e però usa la triste circostanza per negare un solo euro di compenso alla propria, che lavora gratis da un anno e mezzo. Alla quale però fa intendere maggior fortuna in caso di un’intesa amorosa. Oppure quello di Lorenzo Andraghetti: l’ex collaboratore del deputato M5s Paolo Bernini, secondo il tribunale di Roma ha diritto a un risarcimento di 70mila euro che però non arriva. Chi non ha in famiglia una storia così? Oggi magari ne arriveranno altre, stando alla chiamata alle armi che recita: “Cari soci, dopo il clamore che i fatti riportati dalla trasmissione Le Iene hanno suscitato, i media nazionali hanno puntato i riflettori su di noi. Riteniamo che questo sia il momento giusto per alzare la voce e metterci la faccia. Molti di voi lo hanno richiesto. È il momento di farlo e farlo bene”. Fare cosa? “Alzare la voce” contro i pagamenti in nero, lo sfruttamento e le piccole illegalità che sono considerati dai partiti, senza eccezione, una tradizione da osservare con rigore. Per l’ennesima volta chiederanno all’Ufficio di Presidenza di essere riconosciuti e tutelati come categoria, manco avessero datori di lavoro seri. Cosa smentita dal fatto stesso che nessuno, ad oggi, sa quanti siano: il Senato non ha neppure una statistica, alla Camera solo nel luglio e per la prima volta si è tentato di rispondere alla domanda coi questori che alla fine contano 612 contratti tra vecchi cococo, partite Iva travestite da consulenze e tempi determinati. “Ma molti lavorano per 2-3 deputati”, spiega il vice il vicepresidente dell’associazione, Jose De Falco che ribadisce la richiesta. “Una delibera di presidenza con pochi e semplici accorgimenti: fermo restando il rapporto di fiducia con il singolo parlamentare si potrebbe fare come all’estero, dove i collaboratori sono assunti direttamente dalla Camera. In questo modo il Parlamento può gestire direttamente contratti e retribuzioni di tutti gli staff, senza assegnare i rimborsi ai singoli eletti. Sottraendoci tutti dall’arbitrio totale del singolo”. A qualcuno però, sull’onda dell’entusiasmo, potrebbe scappare qualche altra storiella di inquadramenti da colf (che ancora ci sono), sui deputati che non hanno mai versato i contributi (magari qualcuno di sinistra). Oppure di incarichi non proprio connessi al mandato come portare i figli dell’eletto a scuola, andare alla posta o ritirare un vestito in tintoria. Storie simili che non hanno più colore politico: perfino tra le fila dei grillini c’è chi ha appreso l’arte di passare sulla schiena dei collaboratori, sicché oggi è difficile per qualsiasi gruppo intestarsi la battaglia per i loro diritti. Che poi ti spunta la storiaccia. Non è un caso, ad esempio, se in piazza Montecitorio non ci sarà Lorenzo Andraghetti. “Ormai vivo all’estero”, dice mentre proprio da Roma sta partendo per Lisbona. Alla fine ha cambiato mestiere ed è emigrato. E’ l’ex assistente parlamentare del deputato bolognese Paolo Bernini (M5S) che ad aprile ha ottenuto una sentenza “storica” per la categoria: il Tribunale di Roma ha condannato l’onorevole a risarcirgli 70mila euro per licenziamento senza giusta causa nel 2015. In quella si legge che Bernini aveva 10 giorni di tempo per farlo ma lui non ci pensa proprio, fa ricorso (il 2 novembre l’udienza) e in assenza di una sospensiva – dice Andraghetti – “non scuce un soldo”. Così non gli resta che tentare di recuperare il credito ma lo stipendio di un eletto (12mila euro al mese) non è pignorabile, checché ne dicano gli altri grillini che volevano abolire l’ingiusto privilegio. Andraghetti tenta così di aggredire i conti correnti dell’onorevole per recuperare il dovuto, ma la caccia finora ha dato esiti infausti.
Il deputato, contattato dal fattoquotidiano.it, non risponde al telefono ma manda queste poche righe via mail: “La questione è banale e burocratica e sarà chiarita in sede di ricorso in appello che ho ottenuto. Evidentemente sono stati valutati e considerati i validi elementi forniti per ottenerlo. E, purtroppo, sono stato costretto a ricorrere in sede penale per tutelare la mia persona, il mio operato e i miei familiari”. Punto. “Mi spiace non essere coi miei ex colleghi domani”, racconta intanto l’ex assistente. “Ma non aspettatevi più di 30-40 persone, anzi se sono tante c’è da brindare. Il fatto è che – come insegna la mia disavventura – i comportamenti coraggiosi di chi denuncia non vengono premiati bensì puniti. E questa scoperta mi ha sconvolto e mi fa pensare che davvero non se ne uscirà. Denunciare per un collaboratore parlamentare equivale a tagliarsi il ramo sotto i piedi, inutile sperare in un altro lavoro in Parlamento. Ecco perché la gente non denuncia. Siamo a fine legislatura. I parlamentari vogliono persone fidate che tengano la testa bassa”. Certo quella di domani è l’ultima chiamata della XVII Legislatura. Secondo l’Aicp le retribuzioni medie degli assistenti viaggiano tra gli 800-1200 euro, quando il budget per pagarli ammonta a 3.600 euro per deputato alla Camera e 4.100 al Senato. Soldi che vengono erogati per intero all’onorevole che deve rendicontarne solo la metà (mentre l’altra è erogata forfettariamente). Così che sfruttando il collaboratore il parlamentare può mettersi in tasca tutto il rimborso senza sostenere spese reali. “A noi restano solo le briciole”, spiega De Falco. Ma com’è che dopo gli scandali degli anni passati siamo ancora qui a parlarne? Sempre per via di promesse mancate: sul fronte dell’amministrazione l’ultima relazione dei questori al bilancio della Camera dice che non si possono pagare direttamente gli assistenti stante “l’attuale situazione del bilancio”. Inutile contestare che il Parlamento è costato gli italiani un miliardo e mezzo nel 2016 e che dei 977 milioni della sola Camera 81 sono andati in indennità e 63 in rimborsi. Insomma, i soldi non mancano certo. Ci sono varie proposte di legge per regolare tutto, ma nonostante le promesse sono rimaste tali.
L’uomo dei diritti del Pd ha un problema a riconoscerli: da 5 anni non versa i contributi all’assistente parlamentare. Il deputato Khalid Chaouki, coordinatore dell'intergruppo cittadinanza e immigrazione, è citato in giudizio dalla sua assistente parlamentare per omessi versamenti. Il Fatto.it lo chiama e per magia "tutto risolto, pagherò". Ma agli atti non risulta. C'è poi il caso di Scilipoti che ha pagato 1.500 euro per conciliare la causa con un portaborse al nero. E pure chi alla fine cede, ma pretende il silenzio con una clausola penale da 50mila euro, scrive Thomas Mackinson il 6 ottobre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". C’è un campione dei diritti umani e del Pd che si scopre evasore contributivo totale e pure contumace. Ha appena aderito allo sciopero della fame per lo ius soli e da sempre difende parità di diritti tra stranieri e italiani, ma alla sua assistente parlamentare – italianissima – da cinque anni non versa un contributo che sia uno, come fosse una colf in nero, totalizzando nell’arco di un’intera legislatura la bellezza di 12.500 euro di mancati versamenti previdenziali. La storia che tira in ballo Khalid Chaouki – deputato e coordinatore dell’intergruppo cittadinanza e immigrazione – racconta meglio di altre la doppia morale del ceto politico nostrano. Diceva Ghandi che la democrazia si vede da come si tengono gli animali. In Italia anche da come i parlamentari trattano i loro assistenti, come conferma lo scandalo appena costato le deleghe a un sottosegretario. Nel caso specifico Chaouki appena eletto ha assunto una collaboratrice ma nonostante le richieste di regolarizzare la posizione non le ha versato i contributi per quasi 5 anni. Così lei lo trascina in giudizio, al quale lui si sottrae finendo per essere dichiarato contumace dal giudice, come un qualunque gestore di pub in fuga dal Fisco. Parliamo di un giovane politicamente cresciuto sulla battaglia per i diritti degli ultimi fino a diventare un pezzo grosso del Partito Democratico. “Ma è tutto risolto – assicura lui al telefono, preso alla sprovvista – è vero, c’è stato un ritardo nel versamento (di 5 anni, ndr) che è dovuto a problemi personali, ma ora abbiamo trovato un accordo, per cui la causa sarà ritirata. Altro non dico”. Il legale di lei, avvocato Marzia Rositani, avvertito dell’interesse della stampa in serata precisa: “Un possibile accordo è in avanzato stato di composizione”. Accordo che arriva dunque dopo il vorticoso giro di telefonate ma agli atti, per ora, non risulta nulla di tutto ciò. Tanto che è già fissata la prossima udienza che si terrà il 20 febbraio 2018, alla fine della Legislatura. Per saperne di più bisogna superare i cancelloni grigi di Piazza Buozzi, sede del tribunale civile di Latina. Muoversi tra le cancellerie e ruolini delle udienze. Col numero di protocollo 906/2017, da marzo scorso, pende qui l’azione giudiziale proposta dall’assistente S.M. contro Chaouki Khalid da Casablanca. Si scopre allora che in verità Chaouki è anche uno dei pochi che dopo un biennio di cocopro ha fatto un contratto regolare alla Camera, anzi coi fiocchi, approfittando degli incentivi previdenziali del JobsAct. Quando però ha capito che non coprivano tutti i costi e che una parte della previdenza sarebbe stata a suo carico ha deciso semplicemente di non pagare, ipotecando senza troppe remore il futuro pensionistico. Perché alla fine è come se lei non avesse mai lavorato. E poco importa se l’evasione contributiva, per certa giurisprudenza, si configura come un reato di appropriazione indebita, giacché i contributi sono trattenuti in buona parte anche dallo stipendio del lavoratore. E infatti lui non sembra preoccuparsene più di tanto. A giugno si è svolta la prima udienza alla quale non ha partecipato alcun legale del citato in giudizio, per il semplice fatto che il deputato non si è mai costituito. Era presente però l’Inps perché avendo anticipato i contribuiti figurativi, e verificato di non aver mai ricevuto i pagamenti effettivi, ha aderito al giudizio contro il “datore”. I giudizi in realtà sono poi due, perché l’assistente ha almeno preteso il pagamento della 13esima prevista dal contratto sottoscritto post Jobs Act che il deputato non voleva pagare. Il giudice ha emesso un decreto ingiuntivo, mr Chaouki ha pagato. E forse un giorno pagherà davvero il resto. La vicenda è un’ulteriore anomalia dell’anomalo sistema di lavoro nei palazzi della Repubblica. Fabio Santoro è il legale che segue alcune delle cause al fianco dell’Associazione degli assistenti parlamentari (Aicp) che giovedì era in piazza Montecitorio a protestare contro la condizione di precariato e sfruttamento della categoria. Dalla sua viva voce si scopre una notizia: quando gli onorevoli sono citati in giudizio corrono a conciliare. E’ successo con Domenico Scilipoti contro il quale ha difeso un assistente che sosteneva di essere stato impiegato al nero per alcuni mesi, e alla fine ha pagato 1.500 euro per conciliare la causa davanti al giudice. Ma gli onorevoli conciliatori – che da datori sfruttavano i loro stessi collaboratori – nei panni del debitore spesso tengono la posizione fino all’ultimo. “Di solito propongono accordi stragiudiziali o direttamente in giudizio, appena inizia il processo, nei quali fanno balenare la restituzione del dovuto a fronte di un impegno alla riservatezza totale, a tutela della loro immagine, circa l’irregolarità dei rapporti in essere”. Impegno che in un caso è arrivato a una proposta di penale record di 50mila euro. Tanto, a giudizio dell’onorevole in questione, valeva la reputazione di un deputato. Non per nulla la proposta è stata rifiutata. E lui ha conciliato lo stesso. Crede all’impegno della Boldrini per una revisione delle norme che metta fine agli abusi? “Non ci credo, spero di essere smentito. Ha avuto quasi cinque anni di tempo per occuparsene e la situazione le è stata prospettata dal primo giorno della legislatura esattamente come con Bertinotti e Fini prima di lei. Promettere ora, a fine legislatura, un impegno sembra una premura pre-elettorale. Basta una delibera del suo ufficio, e se in quello non ha l’appoggio dei capigruppo lo convochi in modo da formalizzare le posizioni, così che ciascun partito si assume la sua responsabilità in questa storia di fronte agli elettori. Ha il sostegno di tutto il Paese su questo. Vediamo se vincerà ancora una volta l’ipocrisia”.
In Italia non cambia mai nulla…Già anni prima si scriveva...
GLI ASSISTENTI PARLAMENTARI - Neanche in Parlamento si sfugge al lavoro nero. Più del 60% dei portaborse dei deputati lavora senza contratto, a rivelarlo è un servizio della trasmissione di Italia 1, Le Iene, andata in onda venerdì 27 marzo 2009.
Con il governo Prodi (centro sinistra) dei 683 collaboratori accreditati alla Camera, infatti, solo 54 avevano un contratto regolare. I giornalisti de Le Iene hanno intervistato 629 "portaborse" i quali hanno dichiarato di percepire dai 750 ai 900 euro al mese, tutti in nero, e di non avere riconosciuto alcun diritto. E solo alcuni dei deputati intervistati ha ammesso di avere collaboratori a titolo non oneroso (pagati in nero o addirittura non pagati).
Secondo i dati forniti dalla Camera dei Deputati durante il governo Berlusconi (centro destra), su 516 portaborse solo 194 ha un contratto e, quindi, uno stipendio. Gli altri 322, cioè il 62%, non sono legati al loro parlamentare da un contratto, quindi sono senza stipendio, cioè ufficialmente risultano lavorare gratis.
Le Iene hanno intervistato due di questi portaborse che ufficialmente lavorano gratis.
Ecco una portaborse che lavora attualmente al Senato.
Filippo Roma: Che fai nella vita?
Intervistata: Faccio l'assistente parlamentare per un senatore.
Filippo Roma: Da quanti anni?
Intervistata: da cinque anni.
Filippo Roma: Sei in regola?
Intervistata: No, assolutamente no.
Filippo Roma: In che senso?
Intervistata: Nel senso che prendo 700 euro al mese senza contratto, quindi senza versamento di nessun contributo.
Filippo Roma: Tutto in nero?
Intervistata: Tutto in nero.
Filippo Roma: Quante ore lavori al giorno?
Intervistata: Lavoro 9-10 ore al giorno senza nessuna interruzione, quindi senza pausa pranzo e spesso anche nei week-end.
Filippo Roma: E che diritti hai?
Intervistata: Nessuno. Non ho il versamento di contributi, quindi non avrò una pensione, non ho la malattia, non ho le ferie pagate, non posso avere la maternità.
Filippo Roma: Come fai ad entrare al Senato se non hai un contratto?
Intervistata: Abbiamo una badge rilasciato dall'ufficio di Questura richiesto dai senatori. Ogni senatore può avere al massimo due collaboratori, però non viene chiesto se c'è un contratto o meno.
Filippo Roma: il Presidente Marini aveva promesso a suo tempo una "leggina" per risolvere questo problema. Questa "leggina" è stata fatta o no?
Intervistata: No, assolutamente. Non è stato fatto nulla, non è cambiato niente. Continuiamo ad entrare tranquillamente senza che nessuno controlli se abbiamo un contratto o meno.
Filippo Roma: I tuoi colleghi portaborse sono in regola o sono in nero?
Intervistato: Ma, io ne conosco decine e decine. Di tutti questi nessuno ha un contratto.
Ecco le dichiarazioni di un ex collaboratrice parlamentare della Camera dei deputati:
Filippo Roma: Tu che fai nella vita?
Intervistata: Sono disoccupata.
Filippo Roma: E perché?
Intervistata: Perché prima lavoravo come assistente parlamentare alla Camera dei deputati, ma sono stata costretta ad andare via.
Filippo Roma: E come mai?
Intervistata: Perché non ero regolarmente contrattualizzata. Il mio deputato dopo promesse e promesse, non mi aveva comunque mai messo in regola.
Filippo Roma: Per quanto tempo hai lavorato per questo deputato?
Intervistata: Circa cinque mesi.
Filippo Roma: E quanto ti pagava?
Intervistata: 500 euro al mese, in nero ovviamente.
Filippo Roma: Quante ore lavoravi al giorno?
Intervistata: Quando c'era aula entravo alle otto del mattino e non si andava via mai prima delle nove alla sera, mentre il lunedì e il venerdì, che erano giornate un po' più libere diciamo, comunque mi costringeva a stare lì fino alla diciotto del pomeriggio.
Filippo Roma: E tu che diritti avevi?
Intervistata: Nessun diritto, né ferie, né malattie. Infatti, quando chiesi all'Onorevole come comportarmi nel momento in cui fossi stata male, mi disse che quello sarebbe stato un problema.
Inoltre esercitava mobbing nei miei confronti alzando al voce… era anche parecchio maleducato.
Filippo Roma: Il Presidente della Camera Bertinotti ci aveva garantito che sarebbero entrati soltanto gli assistenti con regolare contratto di lavoro.
Intervistata: È falso perché comunque io riuscivo ad accedere all'ufficio dell'Onorevole con un permesso che mi veniva firmato settimanalmente da lui stesso. Lasciavo il mio documento all'ufficio passi, che veniva registrato e mi veniva dato un badge da ospite. In più spesso lui dimenticava, partendo, di firmarmi questo permesso, per cui ero io stessa a firmarlo e ad accedere in questa maniera.
Filippo Roma: I tuoi colleghi portaborse alla Camera, sono in regola o sono in nero?
Intervistata: Per quanto ne so io la maggior parte sono in nero.
Le iene si erano infatti occupate del problema anni fa, con il governo Prodi. Allora risultava che solo alla Camera su 683 portaborse solo 54 avevano un contratto. Qualche parlamentare aveva ammesso il lavoro nero.
Dopo le polemiche sui giornali, Fausto Bertinotti e Franco Marini, allora rispettivamente Presidenti di Camera e Senato, avevano preso un impegno preciso per risolvere questa questione.
Estratto del servizio andato in onda il 12/3/2007 - Franco Marini: Io sono d'accordo con i Questori del Senato di procedere alla definizione di una leggina che risolva questo problema.
Estratto del servizio andato in onda il 12/3/2007 - Fausto Bertinotti: La Camera riconoscerà come collaboratori soltanto coloro che esibiranno, e depositeranno alla Camera, un contratto di lavoro.
Da allora al Senato non hanno preso alcun provvedimento. Alla Camera hanno cambiato il regolamento d'accesso, continuando però a consentire che potessero entrare anche i collaboratori a titolo non oneroso, cioè senza un contratto.
Filippo Roma si è recato, inoltre, dal senatore Antonio Paravia.
Filippo Roma: Molti portaborse sono ancora in nero.
On. Antonio Paravia: Penso proprio di sì.
Filippo Roma: E lei come ha risolto il problema?
On. Antonio Paravia: Io l'ho risolto innanzitutto perché avevo una serie di consulenti disponibili che mi hanno suggerito l'unico contratto possibile che era quello dei collaboratori degli studi professionali. Ho scritto in proposito al Ministero del Lavoro, all'Inps, all'Inail… Mi hanno, diciamo, confortato in questa decisione e quindi ho sottoscritto col mio precedente collaboratore e poi con quello attuale, un contratto di lavoro, ovviamente subordinato, perché il collaboratore parlamentare fa un'attività subordinata e regolata da orari e da quant'altro che stabilisce il parlamentare.
Filippo Roma: Ma il contratto a progetto potrebbe essere adatto per i portaborse?
On. Antonio Paravia: Io credo francamente di no. Credo che il contratto a progetto lo si faccia esclusivamente per pagare meno contributi.
Deputati e senatori avrebbero quindi potuto risolvere il problema adottando diverse soluzioni tra cui quella scelta dal senatore Paravia, cioè attraverso un contratto di lavoro subordinato con tutti i diritti e le garanzie del caso.
Inoltre, la iena Filippo Roma intervista telefonicamente uno dei portaborse dell'On. Santo Versace, che ha un contratto a progetto e ammette: "La cosa su cui io mi focalizzerei è la retribuzione, perché non è corretto che ci sono molti colleghi che sicuramente percepiscono una retribuzione irrisoria".
Filippo Roma: E qual è questa retribuzione?
Portaborse On. Santo Versace: In media può andare da 300, 400, 500, 600, 700. Queste solo le medie di netto mensile che un collaboratore, tra virgolette non propriamente in regola, percepisce.
Filippo Roma: Quindi lei ci dice che l'Onorevole Versace è uno dei pochi che tiene in regola il suo collaboratore.
Portaborse On. Santo Versace: Sicuramente sì, questo è facilmente verificabile. Ripeto, sono uno dei pochi, probabilmente insieme a qualcun altro fortunato, che riceve un trattamento regolare e tutto dichiarato.
Filippo Roma: Perché scusi, gli altri parlamentari che fanno?
Portaborse On. Santo Versace: La stragrande maggioranza dei parlamentari… chi ha un collaboratore sicuramente non dichiara completamente quello che il collaboratore guadagna.
Filippo Roma: Quindi sono in nero, diciamo?
Portaborse On. Santo Versace: Sì, sì, sì ma è rimasto quello… lo avete già fatto in un servizio.
2015. I portaborse: "Siamo sfruttati e umiliati". Intanto l’onorevole fa la cresta sul rimborso. Collaboratori costretti a pagare le bollette. Altri inquadrati come colf per pagare meno contributi. Malgrado i parlamentari ricevano oltre 3500 euro al mese per regolarizzarli. E adesso gli assistenti chiedono di modificare la normativa.
Precari e invisibili, ecco l’esercito dei portaborse. Giovani, sottopagati e orfani di uno status giuridico. Ma sono i “fusibili” del sistema parlamentare, scrive Marco Fattorini il 12 Novembre 2014 su "L'Inkiesta". C’era il collaboratore licenziato perché l’onorevole doveva pagare il mutuo di casa, quello stipendiato in nero o che figura come «volontario» ed entrava in Parlamento in qualità di “ospite”. C'era pure l’assistente che andava a fare la spesa per il parlamentare e gli scriveva le partecipazioni di nozze. Nei corridoi di Montecitorio e Palazzo Madama i collaboratori si muovono come fantasmi. Eppure «sono considerati i fusibili del sistema, in loro assenza la macchina politica si ferma ma in situazione di crisi sono i primi a saltare». Un destino beffardo su cui si concentra il rapporto “I collaboratori dei parlamentari - il personale addetto alla politica” a cura di Hilde Caroli Casavola dell’Istituto di Ricerche sulla Pubblica Amministrazione. La loro è una categoria negletta, «quella meno studiata, sfuggente all’attività di rilevazione dei dati delle istituzioni pubbliche e tuttora sprovvista di un adeguato statuto giuridico». Una nuova forma di precariato con il massimo degli sforzi e il minimo delle tutele. Chi sono, cosa fanno, quanti sono? Sulla stampa e in tv sfilano col bollino di “portaborse”, qualcuno li associa al film del 1991 con Nanni Moretti e Silvio Orlando. I collaboratori sono spesso ragazzi al di sotto dei trent’anni, giovani e dagli ottimi curricula. Lauree specialistiche, master, dottorati, corsi di specializzazione, abilitazione forense. Le mansioni spaziano: si va dall’elaborazione di interventi, interrogazioni, proposte e articolati di carattere regolativo alla più classica segreteria comprendente la gestione dell’agenda e della corrispondenza del parlamentare, oltre al supporto per appuntamenti e interviste. Infine le ricerche bibliografiche e di materiale documentale. Trattasi di mansioni direttamente funzionali al lavoro del Parlamento, «compiti essenziali alle dinamiche della rappresentanza democratica». Responsabilità e impegni che pesano quotidianamente.
Il numero esatto dei collaboratori parlamentari è attualmente sconosciuto. Un esercito di invisibili scivola veloce tra le porte girevoli della politica. Da alcuni atti del Senato risalenti al 2007 emergevano «629 volontari accreditati» e «800 persone che supportano il lavoro dei parlamentari», mentre nel 2009 divennero «migliaia di ragazzi e ragazze». Molti, indefiniti e in crescita. Anche nei costi: nel 2012 il volume dei contributi pubblici diretti a singoli e gruppi parlamentari per le spese di staff ammontava a 97,5 milioni di euro (di cui 60 ai singoli). Nell’ultimo triennio la spesa è aumentata in modo «straordinario». Soldi della collettività, ovviamente. Ogni onorevole ha a disposizione 3.690 euro mensili di «rimborso delle spese per l’esercizio del mandato», che diventano 4.180 per i senatori. Con questa voce, metà della quale è obbligatoriamente rendicontata, vengono pagati i collaboratori. Facile intuire come una situazione del genere presti il fianco a opacità, scorciatoie e abusi. Sebbene il parlamentare sia tenuto a depositare il contratto che lo lega al collaboratore, resta diffuso il ricorso a forme atipiche. Partite Iva e collaborazioni a progetti, contratti di lavoro intermittente, a chiamata e part time. Eppure le caratteristiche dell’impiego sono quelle del classico rapporto subordinato. Come risulta anche da interviste e questionari somministrati dal rapporto Irpa, solo una minoranza è riuscita a strappare un contratto di lavoro dipendente: il 51% dichiara una collaborazione a progetto e il 26% un co.co.co. La questione si ripercuote sulla retribuzione, che per molti oscilla tra i 500 e i 1500 euro a fronte di una giornata lavorativa superflessibile. Si lavora più delle otto ore canoniche, magari senza indennità per lo straordinario. Spesso non vengono riconosciute nemmeno ferie regolari, permessi, aspettative, congedi. Mancano le garanzie minime, di articolo 18 neanche a parlarne. La percezione di precarietà in cui vive il collaboratore si evince anche dallo stato civile dichiarato nelle interviste condotte dall’indagine Irpa. Stravincono celibi e nubili, mentre le convivenze prevalgono sulle unioni matrimoniali. E niente mutui per comprare casa.
Sono bravi, se non secchioni. Conta il merito, certo, ma nella scelta dei portaborse prevale il criterio della fiducia personale: rimane preponderante l’affiliazione politica o la provenienza dal collegio di elezione del parlamentare di riferimento. E non è un caso che molti collaboratori risultino iscritti a un partito. Dall’indagine Irpa emerge l’alta incidenza del reclutamento di carattere informale che coinvolge soprattutto la cerchia di famiglia e amici o quella del politico di riferimento. L’acquario è sempre lo stesso. Se i “cugini” collaboratori dei gruppi parlamentari sono selezionati mediante procedure soggette a controllo di organi istituzionali con contratti oggetto di un regime ben definito, i collaboratori dei singoli parlamentari sono appesi alla discrezione dell’onorevole di turno. Con annesso bagaglio di irregolarità e casi limite. La categoria dei collaboratori è frammentata. Non esiste un albo. Col frequente turnover, il lavoro individuale, la debolezza negoziale e la paura di ritorsioni, i diretti interessati vivono in un limbo. Pochi mesi fa su queste pagine un gruppo di collaboratori si sfogava dietro richiesta di anonimato: «Vorremmo svegliarci un giorno, andare al lavoro e sentirci uguali ai colleghi del resto d’Europa e non svilenti portaborse o mercenari in attesa di una nuova occasione professionale magari con raccomandazione». Cosa chiedono? Che i contratti siano depositati presso la tesoreria della Camera di appartenenza che, solo su questa base, andrebbe a erogare lo stipendio al dipendente del parlamentare. Così avviene al Parlamento Europeo, dove il contraente è l’amministrazione parlamentare: i deputati indicano i nomi dei collaboratori e gli uffici delle istituzioni rappresentative provvedono a stipulare un regolare contratto e a pagargli lo stipendio. Per le mani del deputato non passa un euro. Oltre alle buone intenzioni dei parlamentari in ordine sparso, incluse quelle di Grasso e Boldrini, la situazione non sembra evolversi. L’indagine curata da Hilde Caroli Casavola ha contato undici progetti di legge fermi tra Camera e Senato. E a Palazzo Madama è parcheggiato un ordine del giorno che impegna il Consiglio di Presidenza e il Collegio dei Questori «ad adottare misure idonee a disciplinare in modo trasparente il rapporto contrattuale tra senatore e collaboratore». Eppure, lamenta un senatore ai microfoni di Linkiesta, «è il solito odg in cui dicono che si occuperanno della questione ma poi non fanno nulla». Ai portaborse non resta che attendere, mentre dall’Irpa lanciano un campanello d’allarme: «A differenza degli altri Paesi, il Parlamento italiano non soltanto non ha contezza del numero dei collaboratori ma è addirittura estraneo al rapporto giuridico e, dunque, sprovvisto di poteri di verifica e sanzione». Il risultato? «I politici di professione non hanno alcun efficace incentivo a contenere le dimensioni della crescita del fenomeno».
La rivolta dei portaborse: per il Palazzo non esistiamo. Lavoro utile, invisibile e sottopagato, scrive Marco Fattorini il 31 Marzo 2014 su "L'Inkiesta". Le mansioni sono le più disparate, tutte sotto il cappello di una professione non riconosciuta: dalla segreteria all’ufficio stampa, da ghost writer a esperti legislativi e consiglieri politici. In qualche caso si aggiungono faccende quotidiane come fare la spesa o scrivere le partecipazioni di nozze per l'onorevole. I collaboratori parlamentari vivono di luce riflessa, lavorano nel sottobosco dei Palazzi all’ombra di deputati e senatori per poi essere riconosciuti mediaticamente con l’etichetta di “portaborse”. Condannati all’invisibilità nonostante «mandino avanti la baracca» portando sulle spalle incarichi delicati e orari super flessibili. Negli anni si sono trovati a solcare praterie di lavoro nero e situazioni borderline: nel 2011 su 630 deputati solo 230 avevano assunto regolarmente un assistente. E gli altri? Non pervenuti. Eppure in busta paga i parlamentari ricevono una quota destinata alle spese per “l’esercizio di mandato”, specificamente riservata ai collaboratori. Per i senatori si tratta di 4.180 euro mensili, mentre i deputati ne intascano 3690. Soldi liquidi che entrano nelle disponibilità dell’onorevole il quale ha poi obbligo di rendicontare solo il 50%. Cifre per nulla irrisorie, se si pensa che ogni anno Palazzo Madama corrisponde 16 milioni di euro ai suoi inquilini per assolvere all’esercizio del mandato. Soldi che si perdono tra creste e spese non sempre chiare. Così fanno molti, peones e pezzi da novanta: ci sono i casi celebri di Gabriella Carlucci e Domenico Scilipoti ma anche molti altri che scivolano silenziosi nei corridoi del Palazzo. Storie che rasentano l’assurdo come quella del deputato che licenzia l’assistente perché con i soldi destinati all’indennità dei collaboratori deve pagarci il mutuo di casa, oppure giovani che lavoravano in nero col paravento (imposto dai datori) di «volontari». Il malcontento è equamente diffuso nei due rami del Parlamento: trionfa il bicameralismo perfetto anche nei problemi e nelle rivendicazioni di una categoria professionale «inesistente» che continua a sentirsi calpestata. Se negli altri paesi europei e nello stesso Europarlamento ai membri degli staff parlamentari viene riconosciuto uno status con annesse regolamentazioni, in Italia non c’è un albo nè un inquadramento professionale. Figure indefinite che navigano a vista. Linkiesta ha raccolto lo sfogo e le idee di un gruppo di collaboratori che, per ovvie ragioni, decide di rispondere alle domande dietro garanzia di anonimato. In molti casi opera infatti il ricatto occupazionale perché «se vuoi vedere rinnovato il tuo contratto, ti conviene non alzare polveroni». La parola d’ordine è eterogeneità. Il destino professionale dei lavoratori in questione viene inquadrato per lo più con contratti a progetto benché «spesso il progetto non sia chiaro», oppure con partita IVA, raramente con contratti di subordinazione a tempo determinato. «Non c’è mai stata la volontà politica di affrontare la questione». Eppure il ruolo degli assistenti ha regole uniformi nelle assemblee elettive di mezza Europa «mentre da noi - denunciano i diretti interessati - si continuano ad approvare ordini del giorno, cioè pannicelli caldi, coi quali ci s’impegna a risolvere il problema in un indefinito futuro». Chiedono legalità, che poi fa rima con rispetto: «Archiviamo una volta per tutte nell’immaginario collettivo il portaborse spicciafaccende e diamo dignità al collaboratore parlamentare anche in Italia come nel resto del mondo». Le condizioni di lavoro a Palazzo per loro non contemplano qualità, ma solo quantità: «Spesso parliamo di contratti a progetto da 500 euro al mese, sette giorni su sette coprendo ogni esigenza dell’ufficio: segreteria, stampa, studio e legislativo». Si fa tutto, tanto, sempre a disposizione dell’onorevole di turno. Da anni i collaboratori, molti dei quali con curricula gonfi di lauree e master, chiedono che la cifra erogata ai parlamentari dedicata alle “spese per il mandato” venga liquidata solo in presenza di un contratto depositato presso la camera di appartenenza. Si tratterebbe di prevedere una serie di tipologie contrattuali specifiche di subordinazione a tempo determinato adatte alle mansioni di legislativo/ufficio stampa/segreteria, oltre a una forchetta per i compensi con importo minimo e massimo. I contratti verrebbero poi depositati presso la tesoreria della Camera di appartenenza che, solo ed esclusivamente su questa base, andrebbe a erogare lo stipendio al dipendente del parlamentare fino a quando il contratto non viene meno per scadenza naturale o per licenziamento. Trafila peraltro già in essere al Parlamento Europeo. Per i collaboratori parlamentari lavorare nel dorato mondo di Montecitorio e Palazzo Madama è condizione incidentale, più croce che delizia. I privilegiati sono altri, cioè i loro capi: «Noi non apparteniamo alla casta, piuttosto somigliamo ai tanti coetanei laureati ultraprecari coi quali condividiamo l’angoscia di essere sottopagati e di non avere la possibilità di accendere mutui senza la firma dei genitori ed essere certi che la pensione non la vedremo mai». La situazione descritta a Linkiesta rasenta il paradosso: «Ci sono collaboratori con contratto a progetto che si troveranno a pagare l’Irpef di tasca propria perché il parlamentare - persona fisica e non giuridica - non è sostituto d’imposta. A saperlo prima non si sarebbero sentiti per nulla umiliati ad avere un contratto da colf, che offre questa garanzia oltre al Tfr». Una modalità, quest'ultima, che è stata attuata tra mille polemiche da alcuni onorevoli dell’Assemblea Regionale Siciliana.
Molti collaboratori sono sopravvissuti ai governi, ma le disavventure lavorative si perpetuavano. «Finora non possiamo dire di aver visto risultato concreti, al netto dell’alternarsi delle varie presidenze, dei colori di governo». Ora, ripetono in coro, «possiamo riporre qualche timida speranza in una legislatura che ha tra i banchi di presidenza una paladina dei diritti degli ultimi, l’ex procuratore nazionale antimafia e giudice a latere del maxiprocesso, una sindacalista, dei grillini, eccetera». Senza dimenticare il presidente del Consiglio Matteo Renzi che nel curriculum annovera anche l’esperienza da collaboratore parlamentare di Lapo Pistelli, poi diventato suo avversario nella sfida per le primarie a sindaco di Firenze. Coincidenze e persone per dire che sì, il periodo potrebbe essere quello giusto. Tra ventate di rinnovamento e istanze di trasparenza, a Palazzo si parla anche di riforma del lavoro, ragion per cui l’esercito di collaboratori parlamentari torna all’attacco: «Il governo sta lavorando al Jobs Act e le camere stanno costituendo il ruolo unico dei dipendenti. Potrebbero essere due contesti in grado di facilitare anche la discussione sul nostro futuro». Negli anni è stato ciclicamente asfaltato un sentiero di buone intenzioni e proposte di legge finite sul binario morto del disinteresse. Ogni tanto riemerge un servizio delle Iene o un articolo sui quotidiani, poi di nuovo le tenebre. I diretti interessati hanno provato a organizzarsi autonomamente: in campo il Co.Co.Parl, coordinamento di base fondato nel 2009 da una cinquantina di assistenti parlamentari per rivendicare diritti sindacali, mentre l’associazione In Parlamento organizza corsi di formazione e promuove «la figura e le competenze dei collaboratori parlamentari». Nel 2013 sono stati i parlamentari, in ordine sparso, a sollevare la questione. All’inizio del loro mandato i presidenti di Camera e Senato Boldrini e Grasso promettevano «garanzie» per il lavoro dei collaboratori parlamentari. Poi è stato il turno di Gianfranco Rotondi: «Da anni mi batto per chiudere la fabbrica di frustrazioni costituita dal turnover di esterni introdotti a Palazzo da tutti i partiti e destinati alla disoccupazione. Sono i sedotti e abbandonati della 'casta'». L’ex ministro auspicava la regolarizzazione di tutti i rapporti di lavoro dei gruppi parlamentari, magari compensando il maggiore costo con un’ulteriore riduzione degli stipendi di deputati e senatori. Agli atti c’è anche un odg del Senato che impegna il Consiglio di Presidenza e il Collegio dei Questori «ad adottare misure idonee a disciplinare il rapporto contrattuale tra senatore e collaboratore», cui si aggiungono le prese di posizione di Fava (Sel), Khalid Chaouki e Valeria Fedeli (Pd). Fino all'auspicio dell’ultrarenziano Matteo Richetti che chiede di «scorporare i compensi dei collaboratori dalle retribuzioni dei deputati».
In attesa che gli ordini del giorno galleggianti in Parlamento prendano una strada certa, a Palazzo Madama è stato depositato un disegno di legge che porta la firma dei senatori del Movimento 5 Stelle, compresi gli espulsi Lorenzo Battista e Francesco Campanella, per far sì che i collaboratori vengano assunti direttamente dalla camera di appartenenza introducendo un inquadramento simile a quello del Parlamento Europeo. Sarebbero le amministrazioni di Camera e Senato a corrispondere il pagamento della retribuzione e degli oneri previdenziali direttamente al collaboratore sulla base del contratto che quest’ultimo stipula col parlamentare. La ratio è chiara nelle parole di Battista: «Finchè non si darà il giusto riconoscimento ai propri collaboratori il Parlamento come pensa di poter dare le risposte al mondo del lavoro?». Intanto la speranza dei diretti interessati al termine del colloquio con Linkiesta somiglia a una richiesta di normalità: «Vorremmo svegliarci un giorno, andare al lavoro e sentirci uguali ai colleghi del resto d’Europa e non svilenti portaborse, mercenari o free riders in attesa di nuova occasione professionale magari con raccomandazione. Questo dovrebbe essere un lavoro con regole riconosciute e chiare». Tutto qui, ma forse è già troppo.
Due deputati su tre pagano i loro portaborse al nero. Parla il portavoce del movimento cocoparl, i precari parlamentari. «Spider Truman secondo me non esiste, e poi noi ci mettiamo la faccia. La legge prevede 3700 euro al mese per gli assistenti, ma solo 230 dichiarano di averne. Come in Europa, i soldi dovrebbero essere svincolati alla presentazione...scrive Ciro Pellegrino il 20 Luglio 2011 su "L'Inkiesta". Fra i dubbi sulla sua identità, gli scetticismi sulle sue presunte rivelazioni, il caso di Spider Truman, il presunto precario ex portaborse di un deputato, diventato su Facebook la gola profonda dei segreti della casta, ha avuto un merito: quello di accendere i riflettori su una categoria, quella degli assistenti dei parlamentari italiani. Laureati, spesso con una lunga gavetta alle spalle ma condannati ad essere, nell'immaginario collettivo anti-casta, semplicemente dei “portaborse”. Ebbene: nel 2009 una cinquantina di assistenti parlamentari ha fondato un coordinamento di base, il Cocoparl, per rivendicare diritti sindacali. Il portavoce è Emiliano Boschetto, assistente del deputato Pd Andrea Sarubbi. Da qualche giorno, suo malgrado, Emiliano ha superato in popolarità il suo parlamentare.
Anzitutto: crede all'autenticità del precario che su Facebook rivela i segreti della casta?
«No. Per due motivi. Il primo è che quel che dice è per l'ottanta per cento realtà ma si tratta di questioni note a tutti. E non dico a tutti in Parlamento, ma proprio a tutti. Poi la sensazione è che si tratti di un'operazione strumentale che usa la figura del portaborse per ottenere visibilità in vista di una campagna più ampia».
Però ha fatto bene alla causa alla base del suo coordinamento, non crede?
«Beh, noi ci esponiamo con le nostre facce, nomi e cognomi. Ripeto, ci sono altre dinamiche dietro questa vicenda, non certo l'etica. E poi, parli di etica e ci metti 15 anni per parlare? Il vero tema in questa vicenda è la mancanza di trasparenza».
Dunque il problema esiste...
«Sì, ma il rischio concreto, oggi, è che nel momento in cui bisogna soddisfare la “sete di sangue”, si faccia un taglio lineare e non razionale. E si colpiscano quei deputati che hanno gli staff in regola».
Qual è la situazione, oggi?
«Allora: la Camera dei Deputati per ogni parlamentare eroga, a prescindere dall'utilizzo, circa 3.700 euro al mese - nel 2010 prima dei tagli erano 4.200 - per il cosiddetto “fondo eletto-elettore”. Sono i soldi che servirebbero a pagare i collaboratori sia a Roma che sul territorio. Dico che sono soldi erogati “a prescindere” perché non c'è un controllo sull'utilizzo di questi fondi, il deputato ne fa l'uso che ritiene».
E quanti deputati hanno collaboratori “dichiarati”?
«Sono 230 su 630. Dunque 400 deputati non risultano avere un collaboratore».
Siete riusciti anche ad individuare che tipologia di contratti hanno gli assistenti parlamentari?
«Qui c'è da divertirsi perché c'è di tutto. Mi spiego: per entrare in Parlamento come collaboratore c'è bisogno del tesserino, per il tesserino c'è bisogno del contratto. Ma non viene specificato quale tipo di contratto. Non siamo una categoria riconosciuta, il contratto più diffuso è il co.co.pro. ma ricordo che una deputata fece un contratto di operaia a una sua collaboratrice bravissima. Non era cattiveria: a conti fatti diceva che era più tutelata. Il problema vero che stiamo ponendo da tempo come coordinamento è l'adeguamento di Montecitorio al modello europeo».
Vale a dire?
«Vale a dire che i soldi dovrebbero essere erogati solo se il parlamentare realmente li utilizza - rendicontandoli - per lo scopo cui sono destinati. Insomma, questo fondo dovrebbe essere vincolato: se io voglio i soldi vado alla Camera e porto il contratto di lavoro. A questo punto, i 400 deputati che dichiarano di non avere collaboratori non potrebbero prendere questi soldi e si risparmierebbero, subito, 17 milioni di euro all'anno».
L'INFORMAZIONE E LA SCHIAVITU' DEI GIORNALISTI.
“AAA – Giornalista web cercasi… ma senza stipendio”, scrive Alessandro Martegani il 13 settembre 2017 su Articolo 21. “Cerchiamo giornalista laureato, giovane, con esperienza, esperto di nuove tecnologie, pieno di entusiasmo, con una buona conoscenza di due lingue, che scriva almeno un pezzo al giorno… naturalmente gratis”. Che il settore del giornalismo fosse in crisi e che i compensi e le condizioni lavoro di migliaia di colleghi giovani, e non più tali, fossero ben al di sotto delle minime regole della dignità purtroppo non è una novità, ma la rete, (mezzo da me ritenuto utilissimo e fondamentale, sia chiaro), sembra aver aperto nuove frontiere di sfruttamento e degrado professionale. È l’amara considerazione che sorge scorrendo le numerose offerte di lavoro per giornalisti, o aspiranti tali, come molti specificano, pubblicate sui maggior siti nazionali. Gli annunci di lavoro on line per un settore che oscilla fra giornalismo e comunicazione sono molto frequenti: un qualsiasi motore di ricerca restituisce decine di voci alle parole chiave “lavoro, giornalisti, offerta”, ma basta leggere gli annunci per rendersi conto che l’attività giornalistica, e in generale l’informazione, sono ormai considerati beni da ottenere gratis, o al massimo con un minimo rimborso. Partiamo dai migliori, vale dire da quegli annunci che promettono un compenso, (e non è affatto una cosa scontata), e precisano condizioni e luogo di lavoro: si va da 800 euro lordi al mese offerti da una società editrice con sede ad Aosta, che cerca “giovani giornalisti, con laurea triennale o di secondo grado, da inserire nella propria redazione per realizzare articoli di cinema, musica, eventi, tecnologia e ambiente”, alla testata di Ancona che per 700 euro vuole selezionare giornalisti di spettacolo, disponibili full time, con “laurea di tipo umanistico di primo e/o di secondo livello, passione per la scrittura, età non superiore ai 36 anni, buona cultura generale, con efficienza, organizzazione e sensibilità editoriale”. Si trovano però anche casi che raggiungono il ridicolo, come quello di un’anonima società editoriale di Napoli, (l’assenza di riferimenti sul datore di lavoro purtroppo è un elemento molto frequente, e, visti i termini delle offerte, anche comprensibile) che, a fronte di requisiti come “conoscenza di WordPress e delle tecniche base del SEO, disponibilità a scrivere almeno 5 articoli settimanali, predisposizione al lavoro in team” e la richiesta di “un periodo di prova di una settimana” gratis, propone, “una retribuzione di 0,50 centesimi”, mezzo euro, “per articolo per poi aumentare in base ai risultati ottenuti”. C’è anche chi si limita a promettere un generico “rimborso spese”, sempre a fronte di profili di altissima preparazione e professionalità, ma non sono i peggiori …La tendenza ormai consolidata è infatti quella di non pagare più il pezzo, ma solo i contatti ottenuti dall’articolo pubblicato on line. Le offerte che propongono questo meccanismo non mancano: alcune scomodano alti valori, puntando sulla necessità di “alimentare la democrazia sul Web”, altre stuzzicano le aspirazioni di “visibilità” degli “aspiranti giornalisti”, altri ancora invitano molto modestamente a partecipare a “rendere il mondo un posto migliore, dando ad ognuno la possibilità di condividere le proprie idee con un pubblico globale e beneficiare di un’informazione veramente indipendente”. Anche qui le pretese non mancano, e per scrivere pezzi pagati in base ai contatti (un meccanismo che, a voler essere molto generosi, per un sito di media notorietà non procurerebbe all’autore più di 10 euro lordi ad articolo), i moderni e lungimiranti editori non si accontentano: vogliono giovani “che amano la scrittura, adorano il confronto con il pubblico e l’approfondimento”, e che scrivano “almeno 3 articoli a settimana”. Qualcuno aggiunge anche “No perditempo!!!”: quasi una contraddizione, visto che per scrivere per pochi euro a pezzo di tempo da buttare occorre averne molto. Ciò che più preoccupa però sono le conseguenze di questo metodo di retribuzione, che non garantisce il giornalista, ma soprattutto non fornisce buona informazione ai lettori, innescando meccanismi che con il giornalismo hanno ben poco a che fare. Pagare a contatti spinge infatti chi scrive a scegliere temi e toni puntando esclusivamente ad attirare l’attenzione dei navigatori, innescando una sorta di gara a chi la spara più grossa, ormai già ben evidente sul web. La tendenza a rifiutare le regole volute dalla categoria a garanzia dei lettori è confermata perfino da uno siti dei più attivi, “Blasting news”: per lavorare, si afferma nell’annuncio, “Non è necessario essere iscritti all’albo dei giornalisti, poiché la missione di Blasting News è quella di diffondere informazioni liberamente”. Non manca chi sventola di fronte agli aspiranti cronisti la possibilità di ottenere la tessera da pubblicista, salvo poi specificare, due righe più sotto, che si tratta di “un percorso di formazione giornalistica sul campo, gratuito, non di un’offerta di lavoro”, omettendo che, perché siano validi per ottenere la tessera da pubblicista, i pezzi devono essere retribuiti. Quella del lavoro gratuito in cambio di “visibilità”, o della tessera da pubblicista, è comunque una strada molto battuta, e non senza pretese: si cercano, senza retribuzione, “talenti italiani che abbiano effettivamente una marcia in più in termini di capacità, doti naturali, preparazione e motivazione”, “giovani che si occupano di affari internazionali, politica estera, politica di difesa, scienze strategiche, politica italiana, economia” con “conoscenza delle lingue” e preferibilmente la laurea, il tutto naturalmente raccolto in un “CV in formato europeo”. Qualcuno infine batte anche al strada della compassione e della speranza, come la testata che, cercando “persone serie, realmente motivate e appassionate”, afferma che al “momento non è prevista retribuzione in quanto si tratta di un sito giovanissimo, ma non escludiamo che con il tempo si possa arrivare a ciò: offriamo comunque visibilità sui canali social e web”.
Non è lavoro, è sfruttamento: proletari di tutto il mondo, svegliatevi!, scrive il 7 ottobre 2017 Francesca Fornario, Giornalista e autrice satirica, su "Il Fatto Quotidiano". Raccogliere cozze gratis in alternanza scuola-lavoro non è lavoro, è sfruttamento. Scrivere un articolo al giorno per il giornale locale per cinque euro lordi a pezzo non è lavoro, è sfruttamento. Indossare la maglietta fucsia – dell’azienda – e consegnare sushi in bici – la tua – quando ti squilla il telefono – il tuo – per 2,70 euro non è lavoro, è sfruttamento. Fare uno stage retribuito per un anno come apprendista commessa in un negozio di mutande per 400 euro al mese non è lavoro, è sfruttamento. Marcire alla catena di montaggio tre sabati su quattro senza straordinari pagati, nell’azienda che per la crisi di domanda lascia a casa a far niente i cassintegrati, non è lavoro, è sfruttamento. Impacchettare le Nike e le cuffie e le tazze e la cover del cellulare e il maglione che il cliente ha fretta di ricevere il giorno seguente senza poterti fermare per mangiare, pisciare, fumare, parlare non è lavoro, è sfruttamento. Prestare servizio ogni giorno, per anni, allaBiblioteca Nazionale di Roma, pagato con il rimborso degli scontrini del bar che riesci a recuperare dalla pattumiera non è lavoro, è sfruttamento. Aprire una partita Iva per lavorare per quell’unico committente che prima ti faceva il contratto a progetto e che oggi ti spreme dieci ore in uno studio di architettura, nella redazione di un programma tv, in un ambulatorio dentistico, pretendendo che a pagarti i contributi sia tu e negandoti il diritto costituzionale al riposo, alle ferie, alla malattia, il diritto a diventare madre e padre non è lavoro, è sfruttamento. Ramazzare i giardini pubblici per dimostrare che ti meriti di ottenere asilo politico in Italia perché ramazzi le aiuole e non perché ti hanno violentato in un lager in Libia non è lavoro, è sfruttamento. Fare il saldatore in una fabbrica pagato a voucher, lasciarci tre dita, venire per questo lasciato a casa senza sussidi e sostituito con un nuovo saldatore a voucher fino quando non si rompe anche lui non è lavoro, è sfruttamento. Marta Fana, dottore di ricerca in Economia all’istituto di Studi politici Sciences Po di Parigi e collaboratrice di questo giornale, sembra rinfacciarlo a chi ci governa e ci ha governato: Non è lavoro, è sfruttamento (Laterza). A Elsa Fornero e Giuliano Poletti che con la scusa di far emergere il lavoro nero lo hanno legalizzato con i voucher, il Poletti ministro che Fana ha pubblicamente smentito quando aveva spacciato per buoni, fregando tutti i giornali che gli avevano creduto, un milione e 195.681 nuovi posti di lavoro. A Renzi che con la scusa di creare lavoro ha cancellato l’articolo 18 e regalato alle imprese l’equivalente di due Finanziarie in sgravi fiscali pregandole di assumere i lavoratori che le imprese, una volta intascati gli sgravi, hanno smesso di assumere. Ai Maroni e ai Sacconi e alle Fornero che con la scusa di creare lavoro lo hanno reso precario, sottopagato, pericoloso, mortificante attraverso le agenzie interinali, l’aumento dell’età pensionabile, la liberazione di ogni forma di lavoro gratuito mascherato da apprendistato, da stage, da attività scolastica. «Non avete creato lavoro, avete creato sfruttamento». Ma non è a loro che Fana lo dice, in questo volume che mette in fila i numeri e le storie e mappa le vertenze del lavoro povero. Loro lo sanno, lo hanno fatto di proposito. Chi non sapeva dello sfruttamento in agguato eravamo noi, gli sfruttati. Non ci avrebbero ridotto così senza la nostra complicità. Non ci avrebbero persuaso solo inventandosi che la colpa era degli altri: degli immigrati che ci rubano il lavoro pure se gli immigrati siamo noi, quelli che partono per cercare fortuna all’estero che sono più di quelli che arrivano per cercarla qui. Colpa dei vecchi che lavoravano al posto nostro con i diritti che noi non abbiamo perché ce li hanno tolti, che dunque, per porre fine a questa vergognosa ingiustizia, bisognava che i diritti li togliessero anche ai vecchi. Colpa dei sindacati che difendevano i pensionati invece dei lavoratori e per porre fine a questa vergognosa ingiustizia bisognava che in pensione non ci si potesse andare più, se non per in ultimi in Europa, con l’età media che si accorcia sempre di più e quella pensionabile che si allunga sempre di più (di questo passo, nel 2050 andranno in pensione solo i cattolici). No. Ci hanno convinto spiegandoci che la colpa era nostra. Che eravamo bamboccioni (Padoa Schioppa), schizzinosi (Fornero), sfigati (Martone) che il posto fisso era monotono (Monti, Sposato con la stessa donna da 50 anni. E viene a spiegare a noi che cos’è la monotonia), che se volevamo un lavoro dovevamo giocare di più a calcetto e non perdere tempo a rafforzare il curriculum (Poletti, che infatti ha trovato un posto da ministro del Lavoro senza lo straccio di una laurea). Ci hanno convinti a essere affamati e folli che se non lo sei lavori per un anno a voucher in un supermercato facendo i turni di notte e affamato e folle lo diventi. Ci hanno convinti che eravamo imprenditori di noi stessi, fondatori start up, riders e non fattorini. Ci hanno convinti ad abbandonare il conflitto che non era producente: imprese e lavoratori oggi sono sulla stessa barca e anzi, ci hanno convinto che i lavoratori quelli sporchi e proletari non esistessero proprio più, che tanto la prole, i proletari non se la possono mica più permettere, che fossero diventati tutti soci e collaboratori, e se sei collaboratore collabori, mica scioperi. Ci hanno convinti che dopo lo stage, dopo l’assegno di ricerca, dopo la collaborazione gratuita e l’esperienza formativa all’Expo si sarebbero aperte molte opportunità. Ci hanno convinti che fosse normale lavorare in un milione e mezzo di noi a voucher nelle gioiellerie e nei fast food per un compenso medio di cinquecento euro all’anno, che fare i turni di notte pagati come quelli di giorno e insegnare agli studenti universitari per un euro all’ora fosse un lavoro. «Non è lavoro, è sfruttamento». Marta Fana lo dice a noi. Svegliamoci, difendiamoci l’un l’altro, reagiamo: perché gli sfruttatori sono uniti e coesi e per reagire bisogna che ci coalizziamo anche noi sfruttati. Perché come dice il vecchio carrozziere che si ribella alla multinazionale in «A l’Attaque!», film del marsigliese Robert Guediguian, «Se non combatti non vinci. Ma soprattutto, ti rompi le palle».
Giornata libertà stampa: dalle querele ai 6 euro a pezzo, è sempre più difficile fare il giornalista, scrive il 3 maggio 2018 su "Il Fatto Quotidiano" Elisabetta Ambrosi, Giornalista. È sempre emozionante per chi fa questo mestiere festeggiare la Giornata Mondiale della Libertà di Stampa (World Press Freedom Day). È un modo per ricordare quanto sia prezioso il mestiere che facciamo, al di là delle critiche, spesso giuste, sull’abbassamento della qualità degli articoli, l’assenza diffusa di spirito critico, la scarsa indipendenza. Normalmente in questa giornata si ricordano soprattutto i reporter, spesso freelance, uccisi dalle guerre oppure da dittature ancora ben salde al potere. Numeri purtroppo drammaticamente in crescita. L’ultimo, sconvolgente, caso è l’attentato avvenuto in Afghanistan, dove sono rimasti uccisi 9 giornalisti accorsi proprio sul luogo di un attentato per raccontare l’accaduto e lì uccisi. Una vicenda incredibile, che avrebbe dovuto finire, parlando di stampa, sulle prima pagine dei giornali, ben sopra le notizie su un governo che non riesce a formarsi. Ciò di cui però raramente si parla in questa giornata, perché è un tema di cui nessuno scrive, sono gli ostacoli e le avversità che chi fa il nostro mestiere oggi si trova di fronte. Per capirle bisogna cambiare l’immaginario che la maggior parte della gente ha di di un giornalista. E cioè quello di una persona che lavora, come dipendente, in una redazione e che viene inviata, sempre come dipendente, all’estero o dove occorra raccontare la realtà. Oggi la maggior parte dei giornalisti, dicono i numeri, è freelance, il che significa che non lavora in una redazione ma altrove. Che deve farsi carico di tutte le spese che questo mestiere comunque comporta (basti pensare agli spostamenti) e rispondere direttamente di ciò che scrive, senza mediazioni o tutele. Una persona di questo tipo sarà molto più fragile di fronte a una querela, che oggi purtroppo è facile ricevere grazie a una legge, fatta da politici miopi e meschini, totalmente sbilanciata a favore di chi fa intenta la causa. Se infatti un potente o un ricco decide che un certo articolo gli dà fastidio, fosse anche per una parola, può querelare il giornalista anche per milioni di euro senza alcuna conseguenza, come invece accade in altri paesi se la querela è pretestuosa, cioè non fondata. Ciò significa mettere in ginocchio chi fa questo mestiere, che sarà costretto a prendersi un avvocato ed entrare in un girone da incubo, nel quale rischia di perdere i suoi pochi beni, come la casa di proprietà o le sue scarse entrate. Mentre nel caso vincesse, avrebbe solo il rimborso delle spese giudiziarie. Un’assurdità. Di questo tema si occupa in Italia Ossigeno per l’informazione, un Osservatorio sui cronisti minacciati. Ma si tratta solo di una piccola parte di ciò che rende oggi quasi impossibile fare il giornalista in Italia. L’altro aspetto è infatti la povertà, ovvero lo scarsissimo compenso che si riceve oggi per questo lavoro, tra contratti atipici e partita Iva e che non consente certamente una vita dignitosa. Le cause? Sicuramente una crisi profonda in cui versa questo settore editoriale, che non consente ai giornali grandi margini di manovra. Ma anche l’iniquità nella distribuzione delle tutele, la totale indifferenza dei sindacati degli stessi giornalisti che hanno mai difeso i freelance e ovviamente una legislazione sul lavoro che ormai consente ogni deregulation. 6 euro, 9 euro, 10 euro a pezzo: queste sono alcune delle cifre date ai giornalisti oggi per un articolo. Ma sono pochi anche 50 o 70, perché da quella cifra bisogna scalare i contributi, l’assistenza sanitaria, le tasse, la formazione obbligatoria che non sempre è gratuita, la strumentazione. I giornalisti sono forse una delle poche categorie rimaste a non avere un salario minimo, ovvero un giusto compenso, anche se sul sito dell’Ordine dei Giornalisti esiste una tabella che ricorda quale dovrebbero essere le cifre giuste e dignitose per un articolo o un video. Ma nessuno la rispetta. Qualche dato: i giornalisti autonomi sono oggi il 65,5% dei lavoratori, 33.188 contro 17.486 lavoratori dipendenti, una percentuale di precariato inimmaginabile in qualsiasi altro settore. 8 su 10 di questi giornalisti guadagnano meno di 10.000 euro l’anno, sono cioè sotto la soglia di povertà. Il 52,6% si ferma sotto i 5.000 euro, il 34% lavora gratis. Le prime pensioni dei giornalisti autonomi erogate dall’Inpgi 2 ammontano a 500 o 1000 euro all’anno. Purtroppo i lettori o i commentatori non conoscono queste condizioni, e continuano ad additare la classe giornalistica come “casta” senza sapere delle condizioni tragiche in cui versa. Condizioni che a volte – non sempre – giustificano articoli mal scritti, perché fare un’inchiesta approfondita e seria per poche decine di euro è letteralmente impossibile. Tutto questo, per tornare al tema della giornata, sta minando la liberà e la qualità della stampa in maniera altrettanto grave di quanto non faccia una minaccia più diretta e manifesta come quella di un potere illiberale e avverso alla stampa. Anche i nostri governi, che non hanno fatto e non fanno leggi a protezione dei giornalisti e a sostegno delle loro condizioni di vita, sono dunque responsabili di aver impoverito la forza di una stampa libera e, dunque, la qualità della nostra democrazia. Un fatto gravissimo, né più né meno di una legge sul lavoro sbagliata o di una iniqua norma sui vitalizi.
La libertà di stampa è precaria? Migliaia di giornalisti muoiono di fame. Nicola Biondo è un giornalista freelance: ha lavorato nella redazione di "Blu notte" di Carlo Lucarelli e, nel 2009, ha pubblicato insieme a Sigfrido Ranucci, il libro "Il patto" (Chiarelettere). L'arguto collega ha scritto un esilarante articolo sulla "più bella professione", analizzando il concetto di libertà di stampa e lo stato di precarietà di troppi giovani: il suo "sfogo -testimonianza" è stato pubblicato sul famoso "Blog di Beppe Grillo" destando non pochi scalpori fra "gli addetti ai lavori". Dal Blog di Beppe Grillo riportato da “Lucca News”. Ve lo proponiamo pari pari, nell'intento, forse, di far riflettere, qualcuno..."Dove vanno a finire i soldi che lo Stato dà ai giornali? Di sicuro non servono a pagare i giornalisti. Anzi. Perché in Italia tranne rare eccezioni fare il giornalista significa rassegnarsi ad una vita da precario. Se c'è un microcosmo lavorativo che riassume tutti i difetti del sistema Italia è quello del giornalismo. E allora, dove finisce il finanziamento pubblico? Nei mega stipendi a direttori, capiredattori, amministratori delegati e a tutte quelle penne illustri (?) che si ergono a guide morali che da anni non portano un straccio di notizia, ma commentano, avvertono, monitorano. Vi hanno detto che la libertà di stampa è minacciata dalla mafia, da Berlusconi, dalle mille leggi bavaglio. Minchiate. La libertà di stampa è minacciata dalla miseria in cui vivono e lavorano migliaia di giornalisti sfruttati: dagli editori, dai direttori e, infine, dai loro stessi colleghi assunti con contratto a tempo indeterminato che quando scioperano, protestano, denunciano è solo per i loro privilegi di giornalisti professionisti e assunti mentre gli altri muoiono di fame. Facciamo un esempio. Un articolo di cronaca, secondo una ricerca compiuta dall'Ordine dei giornalisti pubblicata nel 2011, viene pagato anche 5 euro lordi a 60-90 giorni dalla pubblicazione. Sono i numeri della vergogna, la cifra, vera, della censura. Ecco cosa dicono: La Repubblica a fronte di 16.186.244,00* euro di contributi dello Stato all'editoria elargisce un compenso che varia tra i 30 e i 50 euro lordi a pezzo. Il Messaggero, che riceve 1.449.995,00** euro di contributi pubblici, riconosce 9 euro di compenso per le brevi, 18 euro le notizie medie e 27 euro le aperture. Lordi, ovviamente. Il Sole 24 Ore: 19.222.767,00** euro di contributi pubblici e 0,90 euro a riga, con cessione dei diritti d'autore. Libero: 5.451.451** di finanziamenti pubblici e 18 euro lordi per un'apertura. Il Nuovo Corriere di Firenze (chiuso nel maggio 2012) riceve 2.530.638,81*** euro di contributi pubblici e paga a forfait tra i 50 e i 100 euro al mese, il Giornale di Sicilia a fronte di un finanziamento di quasi 500 mila euro (anno 2006) paga 3,10 euro. Provate a immaginare quanti articoli servono per arrivare ad uno stipendio decente. Provate ad immaginare quale sarà la pensione di chi scrive con un simile onorario (?). Perché questi giornalisti, se iscritti all'ordine- sennò sono abusivi ed è un reato penale - i contributi devono versarli da sé, nella misura del 10 per cento del compenso netto più un due per cento di quello lordo. Che vanno a confluire nella "gestione separata" (mai nome fu più azzeccato) dell'ente pensionistico dei giornalisti, l'Inpgi. Una "serie B" della cassa principale che, invece, prevede pensioni, disoccupazione, case in affitto, mutui ipotecari, prestiti e assicurazione infortuni. Ma questa vale solo per quelli "bravi", quelli a cui viene applicato il contratto collettivo nazionale di lavoro giornalistico che, solo nel 2011, dopo 6 anni, è stato rinnovato. Insomma quelli assunti. Che ovviamente sono una piccola minoranza. Ma, attenzione, questo solo per quanto concerne la parte economica. Perché il contratto collettivo non disciplina solo il trattamento economico ma regola a tutti gli effetti i rapporti fra datore di lavoro (editore) e lavoratore (giornalista). Fissa, insomma, diritti e doveri. Ma, ancora una volta, questo vale solo per chi il contratto ce l'ha e, quindi, tutti gli altri vivono nel far west, perché la loro posizione non è disciplinata da nulla. E si tratta della stragrande maggioranza dei giornalisti della carta stampata - da Repubblica fino al più piccolo foglio di provincia: precari, sottopagati, sfruttati, senza copertura legale, senza ferie, senza nulla. È questa moltitudine, oltre il 70% degli iscritti all'Ordine, che permette ai giornali cartacei e on-line, alle agenzie di stampa di produrre notizie 24 ore al giorno. Senza di loro le pagine bianche sarebbero molte di più di quelle scritte. La carta stampata riceve centinaia di milioni di euro di contributi dallo Stato ogni anno, ma lo Stato non chiede agli editori in cambio di garantire compensi minimi e tutele contrattuali ai collaboratori. Poi arriva la Fornero, ministro al Lavoro (nero) e di fronte alla più elementare delle proposte di legge sull'equo compenso ai giornalisti precari dice: "Non mi sembra opportuno". Della serie siete precari, non siete figli di papà (giornalista), e allora morite. E qualcuno c'è anche morto, stufo di subire. Come Pierpaolo Faggiano, collaboratore della Gazzetta del Mezzogiorno, che nel giugno 2011 si è tolto la vita: non sopportava più, a quarantuno anni, di vivere da precario. Chiara Baldi, da giornalista precaria ha scritto una tesi sul precariato: "i giornalisti sono "i più precari tra i precari" – scrive Baldi - "perché lo stipendio da fame li costringe anche a rinunciare ai principi deontologici a cui invece dovrebbero attenersi. Una buona informazione è possibile solo quando chi la fornisce non deve sottostare al ricatto di uno stipendio misero. Più è basso il guadagno del giornalista e più sarà alta la sua "voglia" di produrre senza professionalità, non tanto per un desiderio malato di non essere professionale, quanto per una necessità: quella di guadagnare". Il potere, di qualsiasi colore, non ama i giornalisti e in Italia per disinnescare il problema è stato consentito che diventare giornalisti, essere assunti, sia un privilegio di pochi, così che la stampa diventi il cagnolino del regime e non il guardiano. Assumere il figlio del giornalista è come candidare il Trota, sangue vecchio sostituisce altro sangue vecchio. Altro che bavaglio. Provate voi ad essere liberi a 5 euro a pezzo (lordi)." Nicola Biondo, giornalista freelance. Festival del Giornalismo di Perugia, 17 aprile 2011. Sul banco dei relatori sale il presidente dell’Ordine dei giornalisti Enzo Iacopino che viene introdotto dalla domanda del moderatore Roberto Zarriello: «…chiederei al Presidente dell’Odg Iacopino: le storie raccontate sono queste, il mondo del giornalismo è sicuramente in difficoltà! E’ anche vero però che piangersi addosso e dire non si può fare più questo mestiere non serve a nulla. Che cosa possiamo fare, che cosa possiamo iniziare a fare, Presidente?» Il Presidente inizia il suo intervento: «…la tentazione – dice Iacopino – che sento serpeggiare è come di creare quasi una figura del nemico tra di noi. Il nemico non è tra di noi, il nemico ha delle caratteristiche precise, io lo continuo a chiamare ladro, il nemico è fatto e rappresentato dagli editori. Se noi non ci chiariamo questa cosa e continuiamo a punzecchiare ora la Fnsi, ora l’Odg, perdiamo di vista quello che è il problema vero.»
A questo punto del suo intervento il Presidente Iacopino comincia ad illustrare leggendo da un copioso fascicolo che porta in grembo una serie di casi di sfruttamento del lavoro segnalati all’Ordine Nazionale:
1) faceva le pagine di cultura e spettacolo per il Domani della Calabria 150 euro per 2 mesi di lavoro;
2) 2 mesi di lavoro al Mattino di Napoli 325 euro lordi;
3) La Finanziaria editoriale quotidiano della Calabria 6 euro e 50 lordi al pezzo, tale compenso non potrà in ogni caso superare i 195 euro lordi mensili;
4) Il Giornale di Sicilia più di un mese di lavoro 422 euro;
5) Ciociaria Oggi ogni mese 150, 200 euro;
6) Finegil mese di marzo 119 pezzi 512 euro media di 4 euro e 30 lordi.
Interrompendo brevemente l’illustrazione dei casi di sfruttamento raccolti dall’Ordine il Presidente riferendosi all’intervento di De Benedetti all’ultimo Congresso Nazionale della Fnsi di Bergamo del gennaio scorso, stigmatizza: «… ha avuto l’impudenza di dire che lui non capiva perchè mai dovesse pagare un giornalista di Repubblica che collabora con l’on line : “non gli diamo forse maggiore visibilità?” , il passo successivo – prosegue Iacopino – sarà che vi daranno visibilità e li dovrete pagare voi! Io ho qui l’elenco delle aziende partecipate dall’Ing. Carlo De Benedetti, che fa milioni di euro di utili l’anno grazie all’azione che con i suoi giornali e le sue televisioni riesce a fare inevitabilmente.»
L’intervento del Presidente dell’Odg prosegue con la citazione di nuovi esempi di episodi di sfruttamento:
7) una tv di Bergamo con un editore costretto a patteggiare una condanna per mobbing;
8) una emittente fa dei servizi li vende a Rai 3 che glieli paga 300 euro l’uno;
9) il Gazzettino di Venezia ci sono tre fasce: 4 euro per 999 caratteri, 9 euro e 50 tra 1000 e 2000 caratteri, 15 euro per 2000/3000 caratteri che nessuno scrive più, non so di che cosa stiano parlando;
10) ancora il Gazzettino 214 euro per una serie di pezzi scritti dal 2 al 30 gennaio;
11) la Voce della Romagna un giornale che riceve dallo Stato 2 milioni e 500 mila euro di contributo l’anno che dice di pagare 2 euro i pezzi a far data di un anno dalla pubblicazione;
12) un collega che viene dall’Ifc di Urbino quindi viene dalla scuola; il Quotidiano della Calabria lo ha pagato 6 euro e 50 lordi al pezzo per un massimo di 200 euro lordi al mese;
13) la Provincia Pavese 7 euro lordi per più di 40 righe, 5 euro lordi al di sotto, 3 euro per le brevi anche questo collega viene dall’Ifg di Urbino;
14) il Messaggero Veneto edizione di Gorizia cancellata da un giorno all’altro, il collega che segnala il caso stava in redazione scriveva una media di 6 pezzi al giorno per 200 euro mensili di media;
15) La Città di Salerno 1 euro e 55 al pezzo.
«Posso continuare fino a quando volete – sottolinea Iacopino – perchè io ho fatto questo appello e nel giro di 48 ore ho ricevuto più di 800 segnalazioni. Noi ci continuiamo a raccontare che il problema della libertà di stampa in questo Paese è dato dal conflitto di interesse, è una menzogna! Il conflitto di interesse c’è, non c’è ne uno solo, non c’è solo quello di Berlusconi, c’è quello di De Benedetti, c’è quello di Caltagirone con le sue attività nell’edilizia e i giornali! Guardateli i giornali: un indice di volumetria che cambia significa milioni di euro di incasso! Il problema principale, il vero attentato alla libertà di stampa nel nostro Paese è rappresentato da quei ladri che ci sono tra gli editori! Vi rubano la vita in questo modo e vi tengono in una condizione sistematica di schiavitù e quando tu dipendi solo da questi rettili non hai la possibilità di fare il tuo lavoro in maniera assolutamente libera responsabile. Rubano i vostri sogni e rubano la verità ai cittadini…»
Giornalisti/Free lance sfruttati e malpagati: un articolo vale 2 euro. Da Repubblica a Libero, ecco le testate che incassano i soldi pubblici e non pagano i collaboratori, scrive Sabato, 22 maggio 2010 Affari italiani. Un articolo battute scritto per La Nazione può valere 2 euro, poco meno di quelli per Il Resto del Carlino, retribuiti "ben" 2,50 euro. Lordi, ovviamente. E non si pensi che sia solo il gruppo Poligrafici Editoriale a gestire "al risparmio" i suoi collaboratori: l'Ansa, principale agenzia italiana, paga 5 euro (sempre lordi) per ogni lancio, mentre la concorrente Apcom offre da 4 a 8 euro, ma non paga nulla nel caso in cui l’evento assegnato non si realizzi. Una testata storica e prestigiosa come Il Messaggero non supera i 27 euro ad articolo (ma le brevi valgono solo 9 euro). E l'avvento del web introduce nuove, bizzarre forme di retribuzione: è il caso, ad esempio, del giornale online Newnotizie.it, che compensa 35 news settimanali 1,50 euro ogni mille click raggiunti (e non devono essere molti i pezzi a raggiungere tale soglia), cui vanno aggiunte 12 news a settimana senza retribuzione, anche se "consentono il raggiungimento del tesserino da giornalista pubblicista". Vuoi mettere? Forse va meglio puntando sui principali quotidiani nazionali? Non proprio: la redazione toscana di Repubblica paga 20 euro a pezzo, ma dopo il 15mo articolo gli altri sono gratis... Sono alcuni dei "dati della vergogna" (così li ha definiti il segretario generale del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti, Enzo Iacopino), emersi dalla ricerca "Smascheriamo gli editori", realizzata dall'Odg grazie a un migliaio di giornalisti free lance che hanno accettato di rispondere alla richiesta, inviata via email a circa 4mila giornalisti professionisti, di rivelare le condizioni in cui lavorano. Condizioni che delineano una situazione di vero e proprio sfruttamento del (troppo numeroso, evidentemente) "popolo" dei giornalisti free lance. Certo, la crisi in cui versa il settore editoriale non contribuisce a rafforzare i compensi dei collaboratori, ma va ricordato che la maggior parte delle testate è abbondantemente finanziata con i soldi dei contribuenti attraverso i contributi pubblici: ad esempio, nonostante i 16 milioni di euro erogati dallo Stato al gruppo L'Espresso, La Repubblica paga 30 euro un articolo di 5-6mila battute. La voce della Romagna - che paga 2,50 euro ad articolo - riceve fondi pubblici per oltre 2 milioni e mezzo di euro l’anno, così come il Nuovo Corriere di Firenze che offre ai free lance forfait da 50 a 100 euro al mese. Peggio ancora Il Manifesto: ha incassato oltre 5 milioni di contributi, ma non avrebbe pagato alcuno degli articoli scritti dal collaboratore interpellato, "neanche per le aperture"; non è da meno Il Sole 24 Ore, che a fronte di oltre 19 milioni di contributi l’anno paga i giornalisti 50 centesimi a riga. E Libero (5 milioni e 451 mila euro di contributi) paga 18 euro anche per un’apertura. "I dati - commenta il vicepresidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti, Enrico Paissan - sono parziali ma significativi. Mostrano che quello di giornalista freelance è uno dei lavori più precari e meno retribuito dell’intero Paese. E’ una categoria sottoposta a ricatto quotidiano". Per questo il ministro per la Gioventù Giorgia Meloni, alla presentazione della ricerca nella sede dell’Ordine nazionale dei Giornalisti ha proposto l'istituzione di un "bollino blu" che comunichi all’opinione pubblica quali siano le testate che rispettano il lavoro dei giornalisti, mentre i parlamentari Antonio Borghesi, Elio Lannutti, Silvano Moffa, Vincenzo Vita hanno sottolineato l'obiettivo di mettere a punto una proposta di legge che "ponga come condizione sine qua non per l’elargizione di provvidenze all’editoria il rispetto del lavoro dei giornalisti".
Che cosa è come lavorare sui media di Freelance Media, scrive Rachel Deahl il 2 marzo 2017. La maggior parte delle persone capisce che cosa è un freelance, ma ha diverse connotazioni in diverse industrie. È interessante notare che nei media ci sono diversi lavori di freelance che puoi ottenere. Puoi lavorare come una libera professione a tempo parziale, lavorare con un orario ridotto, o puoi essere un freelancer a tempo pieno, lavorando come scrittore freelance, fotografo o illustratore. È anche possibile lavorare a tempo pieno e freelance sul lato, facendo progetti qui e là.
Quali sono i vantaggi dei lavori di Media Freelance?
Il più grande vantaggio di lavorare come freelance è la libertà che ti dà. Un freelance non è legato alla loro scrivania, o ad un programma da 9 a 5. E, nel mondo dei media, il freelance di lavoro potrebbe consentire di fare progetti diversi da quello di un impiegato a tempo pieno. Le assegnazioni di freelance ricevono spesso differiscono da quelle che lavorano a tempo pieno, poiché un freelance ha la capacità di viaggiare e trascorrere più tempo su un progetto. Ad esempio, ad una rivista molte funzioni sono assegnate a scrittori freelance, poiché i redattori a tempo pieno spesso non hanno il tempo di spendere fuori dall'ufficio di fare la storia.
Quali sono gli svantaggi dei Lavori Media Freelance?
Sia che tu sia freelancing a tempo pieno o part-time nel mondo dei media, il più grande svantaggio di lavorare come freelancer è il fatto che non ti offre alcuna sicurezza. Il freelance può essere difficile perché la maggior parte dei liberi professionisti non riceve la copertura sanitaria a meno che non abbiano un contratto specifico con un'azienda (e quindi hanno una posizione indipendente freelance a tempo pieno). L'altro grande problema con il freelance è che non puoi contare su un flusso costante di reddito. Avere un lavoro a tempo pieno significa poter contare su un paycheck costante. Un freelance non ha quel lusso.
Come si passa da Freelance a tempo pieno?
Per diventare un freelance di lavoro a tempo pieno devi valutare dove sei nella tua carriera e quali sono le vostre esigenze. Avete i contatti necessari per ottenere un flusso costante di assegnazioni? Quanti soldi si può ragionevolmente aspettarsi di fare? Hai bisogno di un'assicurazione sanitaria? Queste sono tutte le domande che qualcuno deve affrontare prima di poter avviare freelance a tempo pieno. Molti liberi professionisti, in varie sezioni dei media, lavoreranno a tempo pieno per anni, creano contatti all'interno del loro settore e assumono posti di lavoro indipendenti da parte, prima che essi effettivamente assumano il profitto e diventino freelance a tempo pieno. Una cosa che ha bisogno di un libero freelance ha forti legami con le persone che assegnano il lavoro che fanno. Ad esempio, i grandi autori di riviste freelance hanno spesso forti legami con alcuni editor che contano su più assegnazioni. Una volta che hai certe persone a cui puoi fare affidamento per darti il lavoro, puoi comodamente arrivare ad un punto dove puoi cercare altri posti di lavoro e portare ancora più incarichi potenziali e più soldi. A causa della natura rischiosa del lavoro freelance, è molto difficile sviluppare una carriera di freelance riuscita a meno che non stiate lavorando nei media per qualche tempo. Esistono eccezioni per ogni regola - per esempio, se sei un famoso romanziere, puoi spesso ingannare un lavoro di scrittura freelance peluche a causa della tua statura - ma la chiave del successo di freelance è sfruttare l'esperienza e la reputazione creata lavorando In quel campo.
Il giornalismo freelance è morto (di fame), scrive Elisabetta Ambrosi il 30 giugno 2017 su “Il Fatto Quotidiano”. “Lance libere” di colpire, criticare, inveire contro le ingiustizie e i mali del mondo. Così, romanticamente, si potrebbe tradurre la parola free lance, che nel giornalismo sta a indicare persone che non vogliono dipendere da un giornale, ma conoscere e osservare il mondo con i propri occhi e scriverne in maniera indipendente, libera e in totale assenza di vincoli. Nel mondo anglosassone il freelance è una figura rispettata, le redazioni hanno addirittura stanze dedicate a loro. Sono giornalisti e fotografi che realizzano servizi anche importanti, pagati molte centinaia di euro perché, comunque, i giornali che li comprano, oltre ad acquistare reportage e articoli di qualità, non versano contributi e tasse. In breve, non hanno i costi che hanno con i propri dipendenti. Per questo, com’è giusto che sia, un lavoro di un esterno viene pagato di più. Da noi la situazione è sempre stata diversa. I freelance si chiamano più facilmente “collaboratori”, anche se in teoria questa parola sarebbe più appropriata per persone che hanno un altro lavoro e quando possono e vogliono scrivono anche per i giornali. Invece così non è. Da noi, i collaboratori sono giornalisti veri e propri, semplicemente non hanno un contratto. Vivono dei pezzi che scrivono, fuori dalle redazioni, nelle loro case, chi può permetterselo nei coworking. Negli anni sono diventati migliaia e migliaia, e presto saranno la maggioranza dei giornalisti italiani, anche se i lettori – e i politici – di questo poco o nulla sanno. Ci sono stati anni in cui fare il freelance in Italia era ancora possibile, perché gli articoli erano dignitosamente pagati e la frequenza di scrittura era assidua. Col passare del tempo, la crisi dei giornali di carta e il passaggio al web, i compensi sono stati drasticamente ridimensionati (mentre i giornali hanno cominciato a premere sugli interni, che pure hanno i loro problemi, perché scrivessero di più). E poi ancora, negli ultimi anni, tagliati in maniera selvaggia, arrivando a cifre con le quali non è possibile sopravvivere. Spiccioli, sui quali comunque bisogna togliere i contributi, le tasse, le spese per l’assicurazione medica per chi ce l’ha, la formazione obbligatoria (in parte a pagamento), la strumentazione che serve (computer, cellulare, videocamera). In pratica, tolte le spese, non rimane quasi nulla di che vivere. Tutto questo è successo per vari motivi. Da un lato, la crisi delle vendite, le scarse entrate di pubblicità, che ancora non consente ai giornali web di sopravvivere (specie per quei giornali seri che continuano le loro inchieste e non si fanno comprare), ancora la follia delle notizie date in abbondanza senza far pagare nulla e abituando il lettore italiano medio a pretendere notizie imparziali, ricche e continue senza dare nulla in cambio. Dall’altro lato, la precarizzazione selvaggia del nostro mercato del lavoro, che ha consentito praticamente qualunque forma di (non) contratto. L’appartenenza a un Ordine, in questo senso, non ha in alcun modo arginato questo fenomeno, anzi ha contributo a fare ombra su ciò che succedeva nel nostro settore. Mentre il mondo – e i governi – credevano o facevano finta di credere che la presenza di un Ordine bastasse a garantire chi ne faceva parte. Niente di più falso. Da ultima parte, l’incredibile disinteresse dei sindacati verso il mondo dei freelance: un’indifferenza gravissima, colpevole, continua. Per tagliare un compenso a un collaboratore non serve neanche una telefonata, basta una mail, e nessuno, ma davvero nessuno, se ne accorge. Eppure, i dati ci sono. Basterebbe andare a vedere le retribuzioni annuali medie degli iscritti alla Gestione separata dell’Ipgi 2, l’ente previdenziale dei lavoratori autonomi dei giornali, per capire in che situazione di disperazione vivono migliaia di giornalisti che magari firmano in prima pagina: poche migliaia di euro l’anno, nessuna tutela in caso di malattia – quella malattia che pure è finalmente stata garantita ai lavoratori autonomi, ma paradossalmente solo se non appartenenti ad un Ordine – niente ferie, nessuna pensione. Il sindacato dei giornalisti, la Fsni, tutela esclusivamente i lavoratori dipendenti, arrivando persino ad auspicare – è stato il caso della trattativa per la crisi del Sole 24 ore – il taglio di tutte le collaborazioni per salvare gli interni. D’altronde, è stata proprio la Fsni a firmare un accordo vergognoso, quello che ha sancito la fine dei free lance, invece che la loro tutela, nel giugno del 2014 con la Fieg (gli editori), il governo (sottosegretario all’Editoria Luca Lotti) e l’Inpgi, ma senza la firma dell’Ordine dei giornalisti, un fatto davvero inverosimile. Questo accordo sull’“equo” compenso, tanto per fare un esempio, stabiliva tariffe minime di 20,8 euro lordi per un pezzo dei quotidiani, di 6,25 euro per le agenzie. “Neanche i soldi per il pane” aveva dichiarato in quella occasione il presidente dell’Ordine, facendo un esempio inequivocabile: una persona che scrivesse 432 articoli in un anno (praticamente più di uno al giorno, una cifra impossibile) guadagnerebbe 6.300 euro l’anno lordi. E queste sono, d’altronde, le cifre che la maggior parte dei giornalisti lavoratori autonomi percepiscono. A loro però viene chiesto il massimo della disponibilità, il massimo della rapidità, il massimo dell’esattezza e ricchezza di notizie, esattamente come si chiede a un interno, che guadagna dieci volte tanto. E il lettore che legge, o che commenta sul web, protestando, criticando, invitando l’autore a darsi all’ippica e via dicendo non sa che, magari, quel giornalista ha percepito pochi euro, se non, talvolta accade anche quello, proprio nulla. Della situazione dei giornali e del mondo giornalistico, dove da un lato hai un Fabio Fazio che percepisce milioni, dall’altro un freelance iperformato e magari di talento che ne guadagna venti a pezzo, nessuno parla, perché sono gli stessi giornali a non volerla denunciare. E perciò, forse, è una delle forme di ingiustizia che viene meno indagata ed esposta alla luce del sole. Esclusi dalle redazioni, chiusi nelle loro case, privi di un rappresentante dei loro diritti all’interno delle redazioni, mai consultati, primi a saltare e ad essere tagliati, senza tutele, senza ferie, senza pensione. Isolati, incapaci di unirsi, di scioperare, anche (ma d’altronde come?). Questa è la situazione della maggioranza dei giornalisti italiani, di cui forse sarebbe giunto il momento di parlarne perché, tra poco, questo sistema non sarà più sostenibile. Nel frattempo, quelli che non si rassegnano a morire di fame, e che non sono troppo anziani, si riciclano come uffici stampa, comunicatori o altro ancora. Ma con la morte nel cuore, perché il giornalismo, nonostante tutto, è un mestiere che si sceglie per passione. E per questo lo si vorrebbe continuare a fare. Basterebbe poco, basterebbero condizioni minime migliori.
Siamo condannati a un futuro da freelance, ma potremmo scoprirci più felici. Negli Stati Uniti già ora un terzo dei lavoratori collabora da esterno con le imprese, a tempo pieno o parziale. Nel giro di pochi anni si potrà arrivare alla metà della forza lavoro totale. Non è necessariamente uno scenario da incubo, a leggere le ultime indagini sul tema, scrive Fabrizio Patti su “L’Inkiesta” il 5 Aprile 2017. Robot e Big Data non sono tutto. Se si guarda alle forze che stanno stravolgendo il lavoro, in tutto il mondo, si trova molto altro. Per esempio che siamo alla vigilia di una trasformazione potenzialmente di massa: quella dei lavoratori dipendenti in freelance. Un paio di anni fa un‘analisi di Edelman Intelligence per i network Freelancers Union e Upwork aveva calcolato che poco meno di un terzo dei lavoratori statunitensi si già poteva considerare un “freelance”. In un aggiornamento di qualche mese fa la cifra, stimata attraverso un’indagine a campione su 6mila persone, era salita al 35 per cento. Si sta procedendo verso la profezia annunciata dalla stessa organizzazione dei lavoratori autonomi americana, che si arrivi entro il 2020 addirittura ad avere il 50% di forza lavoro etichettabile come freelance. Già oggi si parla di cifra enorme, pari a 55 milioni di persone negli Usa, che però va un po’ spacchettata. Lo studio di Edelman parla di 19 milioni di freelance puri, ossia persone che non hanno un datore di lavoro e che fanno lavori in autonomia sulla base di progetti. Altri 15 milioni sono lavoratori “diversificati”, che hanno un lavoro part-time principale che integrano con lavoretti (per esempio come guidatori di Uber). In 13,5 milioni sono stimabili i “moonlighters”, quelli che hanno un secondo lavoro dopo uno a tempo pieno. Infine altri 3,6 ciascuno sono i gruppi rappresentati da piccoli imprenditori che si identificano come freelance (per esempio chi ha creato una microimpresa di web marketing) e da lavoratori con un singolo datore di lavoro ma per lavori saltuari o comunque di breve durata. È la famosa america della Gig economy. La definizione di freelance e l’entità di questi dati sono discutibili. Se si guarda al caso italiano, un recente punto sul tema a cura di Truenumbers aveva definito con il termine “freelance” un lavoratore autonomo senza dipendenti e identificato 3,45 milioni di persone, pari al 13,8% della popolazione attiva italiana. Il trend, in ogni caso, è netto. I confini tra interno ed esterno delle aziende si stanno sgretolando, principalmente grazie alla tecnologia. Il fenomeno è stato ripreso da un recente studio di The Boston Consulting Groupsulle 12 forze che stanno cambiando radicalmente il modo in cui le organizzazioni lavorano. L’analisi va calata soprattutto nel contesto americano, ma dà indicazioni anche per il resto del mondo. Una di queste forze è l’“accesso alle informazioni e alle idee”. Quando, grazie a costi di hardware e software che continuano a scendere, anche nel cloud computing, qualsiasi persona può essere connessa, lavorare da remoto e scambiare dati in tempo reale, c’è ancora bisogno di avere impiegati fissi? Come nota Bcg, in molte grosse società di IT quasi metà dello staff a tempo pieno è composta da contractor esterni. Questa è una parte della storia. C’è poi il fatto che oggi «le soluzioni più innovative sono sviluppate da persone in giro per il mondo che si uniscono in comunità online, piattaforme su internet ed ecosistemi digitali». Tutto questo stravolge i modelli tradizionali non solo di impiego, ma anche del finanziamento delle nuove imprese, di sviluppo di nuovi prodotti e di gestione del ciclo di vita dei prodotti. Comunità di crowdsourcing come Kaggle e InnoCentive permettono alle società di “affittare” i talenti senza troppi investimenti iniziali. Invece di assumere impiegati a tempo pieno, le società possono creare dei team di progetto con le competenze richieste. Così un gigante delle assicurazioni come Allstate sta organizzando tramite Kaggle delle competizioni per risolvere delle sfide legate al proprio business. «Una di queste gare ha portato a un algoritmo per le previsioni delle richieste di risarcimento che è del 271% più accurato del modello esistente di Allstate», nota Bcg. Comunità di crowdsourcing come Kaggle e InnoCentive permettono alle società di “affittare” i talenti senza troppi investimenti iniziali. Invece di assumere impiegati a tempo pieno, le società possono creare dei team di progetto con le competenze richieste. «Le statistiche si possono discutere, ma il trend è chiaro ed è guidato da quello che le persone vogliono: lavorare in occupazioni diverse, non tradizionali, con più flessibilità», commenta a Linkiesta Grant Freeland, global leader della practice “People & Organization” di Bcg. «È un trend guidato anche dal fatto che le aziende cercano sempre più expertise in profondità su temi specifici che non possono essere trovati all’interno delle imprese in ogni momento. Ed è guidato dal fatto che si vuole avere flessibilità sia dal lato della offerta che della domanda di lavoro», ha aggiunto, a margine di un incontro nella sede di Milano della società dedicato ai nuovi modi di lavorare e a come le aziende possono creare modelli organizzativi più agili. Tra le 12 forze individuate dalla società di consulenza, sei riguardano appunto l’offerta di talento, cioè quello che sta succedendo sul versante dei lavoratori. Uno di questi trend riguarda da vicino la crescita dei freelance ed è quello dell’‘imprenditorialità e individualismo”. L’indipendenza, è la tesi, sta diventando un fattore di motivazione dominante per i Millennial (i nati tra i primi anni Ottanta e la metà degli anni Novanta) e per la nuova Generazione Z, quella dei nati dopo la metà degli anni Novanta. «Queste persone giovani tendono a essere annoiate nel fare lo stesso tipo di lavoro per lunghi periodi e sono particolarmente interessate a carriere indipendenti. Messi nelle condizioni dalle piattaforme e dagli ecosistemi digitali, molti stanno scegliendo l’imprenditorialità e l’auto-impiego rispetto ai tradizionali impieghi nelle imprese», si legge nello studio. Il contesto, va ricordato, è quello statunitense, dove le percentuali di disoccupazione giovanile non sono paragonabili con quelle italiane. «Tra quelli ancora interessati ai lavori nelle imprese - si legge ancora - molti sono propensi a sperimentare nuove idee, prendendo lunghe pause nella carriera, e perfino a lavorare part-time come volontari o come freelance in ambiti completamente nuovi. Uno studio recente ha fatto emergere che il 79% dei giovani della Generazione Z vogliono integrare l’istruzione con il lavoro e che il 42% si aspetta di diventare un imprenditore». Tutto questo si sposa ad altri trend legati all’offerta di talento, come il crescente desiderio di lavorare di più da casa (più di un quinto degli impiegati si dice disposto a rinunciare fino al 5% dello stipendio per poter lavorare uno o due giorni da remoto). E come la preferenza netta per compensazioni che permettano di conciliare vita e lavoro rispetto alle tradizionali compensazioni economiche (come i bonus di produttività). Se nel 2014 solo il 53% di loro dichiarava di esserlo per propria scelta, nel 2016 la percentuale era crescita al 63 per cento. E il 79% dichiara che lavorare da freelance è meglio che lavorare da dipendente. Sul lato delle opportunità, «i freelance - continua lo studio - ne vengono fuori con il beneficio aggiuntivo di essere ben connessi con gli sviluppi che avvengono nel settore nel suo complesso, a differenza degli impiegati, che invece tendono a essere più presi da dinamiche interne». È davvero un mondo così roseo? La realtà dei lavoratori freelance italiani parla di infinite difficoltà nel valorizzare il proprio lavoro, di ritmi di lavoro intensissimi e di pagamenti che arrivano con ritardi biblici. Lo stesso Grant Freeland, di Bcg, riconosce che è molto difficile dare una risposta univoca di fronte a trasformazioni che creano molte opportunità per alcuni e tagliano fuori molti altri (le ultime lezioni americane sono lì a dirlo chiaramente). Tuttavia la fotografia scattata dall’indagine commissionata dalla Freelancers Union (associazione fondata da Sara Horowitz) mostra dei miglioramenti nelle condizioni di vita di chi si definisce freelance. Se nel 2014 solo il 53% di loro dichiarava di esserlo per propria scelta, nel 2016 la percentuale era crescita al 63 per cento. E il 79% dichiara che lavorare da freelance è meglio che lavorare da dipendente, perché i lavoratori autonomi si sentono più rispettati, dotati di potere (empowered) e felici di iniziare ciascun giorno. In uno dei risultati più sorprendenti emerge anche il fatto che una larga parte dei freelance americani dichiara di lavorare la giusta quantità di ore di lavoro, con una media di 36 ore settimanali. L’80% di loro avrebbe anche una copertura sanitaria - questione quanto mai cruciale per i freelance americani - anche se una parte minoritaria mette da parte fondi per le pensioni integrative. Se questo fosse il futuro anche in Italia ci sarebbe da metterci la firma. Ma l’Oceano, in questo caso, è davvero enorme.
Due euro ad articolo: pagare per fare i giornalisti, scrive Ilaria Giupponi su radiocittafujiko.it lunedì 24 ottobre 2011. "Se potessi avere mille lire al mese", il primo reportage di FujikoInchieste dedicato allo sfruttamento lavorativo. L'esordio spetta al mondo del giornalismo, dove almeno 35mila lavoratori vengono pagati dai 2 ai 5 euro ad articolo e devono pagarsi benzina, telefono e computer. Ilaria Giupponi intervista la giornalista Antonella Cardone. "Non dite al mio editore che lo farei anche gratis". Così ironizzava Enzo Biagi. Eppure gli editori l'hanno capito e così ecco i cronisti pagati due euro a pezzo e inviati a proprie spese a caccia di notizie; i collaboratori eterni che di un contratto non vedono neanche l'ombra, professionisti costretti a fare un secondo lavoro di nascosta perchè vietato dall'ordine professionale. Antonella Cardone, giornalista professionista, consigliera nazionale dell'Ordine dei giornalisti, e membro del Free C.C.P. (Coordinamento Giornalisti Collaboratori Precari e Freelance in Emilia Romagna) racconta lo stato di un mestiere, quello del cronista, che la dice lunga sullo sfruttamento di entusiasmi ed energie lavorative dei giovani. "La situazione dell'informazione è sempre stata particolare, in Italia. Basti pensare alla strage di Bologna, a Ustica, o ai vari depistaggi: molte notizie non sono state date, o sono state omesse quindi parlando della qualità dell'informazione italiana ci sarebbe da dire molto", esordisce la giovane Antonella Cardone, collaboratrice freelance per svariate testate nazionali. A questo, si aggiunge un dato allarmante e significativo: le condizioni nelle quali questo mestiere viene svolto."Negli ultimi anni -racconta Antonella - si è formato una sorta di cancro all'interno della professione, che è quello della precarizzazione del lavoro". Una precarizzazione diffusa in molti settori, ma che in quello dell'informazione assume una rilevanza pubblica, visto il destinatario del "prodotto": l'opinione pubblica. Sono almeno 35mila i giornalisti pagati a cottimo, "con remunerazioni che vanno dai due ai cinque euro a pezzo. Con stipendi che stentano a raggiungere i 5mila euro l'anno". La media italiana, infatti, si aggira intorno ai 7mila euro annuali. Poco più di 400 euro al mese. Il tutto, raggiunto facendo un puzzle di collaborazioni ricavate ovunque si riesca e con tempi che inevitabilmente ricadono sulla qualità dell'informazione e sul suo grado di approfondimento. Se proprio non si volesse considerare la frustrazione di chi questa informazione la compone. "E' un arrabbattarsi continuo. Molti colleghi scelgono la via delle commistioni, che deontologicamente sarebbero anche punibili, facendo da ufficio stampa, lavorando in tv, facendo consulenze". L'alternativa, deontologicamente più dignitosa, ma mal vista dall'Ordine dei professionisti, è quella del secondo - o terzo - lavoro: "di nascosto, vanno a pulire la scale, lavare i piatti, fanno i camerieri. Ma per mangiare si fa anche questo". Il paradosso è questo: si cerca un lavoro per potersi permettere di fare il mestiere dei propri sogni. A chi conviene questa situazione? Non ha dubbi, la giornalista professionista: "Agli editori. Noi - ricorda - scontiamo il fatto che non esistono in Italia editori puri come altrove". Tranne la novità editoriale del Fatto Quotidiano (edito per l'appunto dall'editore Aliberti) tra contributi statali, di partito e soprattutto i vari industriali proprietari o nel consiglio d'amministrazione delle varie testate, in Italia il giornale è uno strumento di produzione di consenso, nonostante le schiere di professionisti onesti - e spesso mal pagati - che vi lavorano. "Si dice che il giornale è la voce passiva di un bilancio in attivo, cioè grandi imprenditori che usano il giornale per fini propri. L'esigenza è solo quella di riempire il giornale, poco importa la qualità". Non solo: per risparmiare, spesso si utilizza materiale proveniente da fonti casuali, tutt'altro che professionali: "Sul web, con la scusa del citizen journalism, vengono invitati i passanti a fornire materiali, spacciandolo poi come giornalismo quando giornalismo non è". A scapito di tutto quel lavoro che richiede preparazione, cognizione di causa e informazione che fa del giornalismo un mestiere di artigianato vero e proprio, da apprendere e poi maneggiare "tu devi verifica, confrontare, essere filtro: c'è un ruolo attivo nella gestione delle notizie". Per fortuna, piano piano "con molta molta fatica", i freelance si stanno organizzando. Si organizzano sui territori, come nel caso dei Free CCP, e lentamente si inseriscono nelle istituzioni di categoria. In attesa dell'approvazione dell'accordo di massima inserito nella legge sul giusto compenso, che se approvata vedrebbe fissati i criteri per i contributi pubblici sull'editoria. Così: "chi prende 4 milioni di euro l'anno, non può tenere le persone a cinquanta cents al pezzo". Un altro passo fatto, è la Carta di Firenze, in base alla quale diventerebbe "deontologicamente scorretto che giornalisti sfruttino i giornalisti". Anche nelle redazioni, infatti, si fa leva su quelli che prima erano gli abusivi, e che ora sono direttamente i collaboratori: domeniche pagate quanto gli altri giorni, pezzi richiesti e poi non pagati, e via di seguito. Ed essendo, ricordiamolo, "pagato a cottimo, a fornitura", di malattia, contributi, tredicesima nemmeno a parlarne. Il tutto, rigorosamente a spese proprie: telefoni, computer, attrezzature e spostamenti. Ben lontano dunque dall'immaginario comune del giornalista che viaggia spesato e soggiorna in alberghi di lusso. "Questo è un mestiere che in prospettiva rischia di diventare a pagamento. però si, c'è anche gente che è disposta a pagare per uscire sul giorale e certo, un'opera educativa va fatta anche in questa direzione". Restituire, di fatto, una dignità a questo mestiere. Cosa che probabilmente risanerebbe il nostro Paese in molti sensi.
Giornalisti, fine della schiavitù, già scriveva illusoriamente il 4 dicembre 2012 Stefano Corradino, Direttore Articolo21.org, su "Il Fatto Quotidiano". Oggi è un bel giorno per l’informazione ma anche per la politica che si riappropria (qualche volta succede) della sua funzione: approvare leggi che imprimono nell’ordinamento principi di equità. La Camera ha approvato infatti la legge sull’equo compenso dei cronisti e che, come hanno giustamente affermato in conferenza stampa Enzo Iacopino e Roberto Natale (Ordine dei Giornalisti e Federazione nazionale della Stampa) “mette fine alla schiavitù nel mondo dell’informazione”. Una legge travagliata nel passaggio dal Senato alla Camera ma che ha sancito, con una firma trasversale un principio inderogabile: basta con quel caporalato e quello sfruttamento ai danni di giornalisti vergognosamente sottopagati. Cinquanta centesimi lordi per un articolo sul web, o 2-3 euro per un pezzo sulla carta stampata sono un insulto alla dignità del lavoro e alla Costituzione che tutela la libertà di informazione, il dovere di informare e il diritto ad essere informati. Ora la legge (che è solo un primo passo) dovrà diventare operativa e non rimanere nei cassetti delle tante norme inapplicate e, auspicabilmente, affermarsi come un precedente virtuoso nella più complessa legislazione sul lavoro affinché, nei più svariati settori occupazionali si possano cancellare le tante abnormi diseguaglianze, e quell’indecente classificazione dei lavoratori di serie A e di serie B.
Enzo Iacopino contro Matteo Renzi. Il presidente dell'Odg: "Superficialità imbarazzante sullo sfruttamento dei giornalisti", scrive Gabriella Cerami su "l'huffingtonpost.it il 29/12/2015. “A volte si parla della vita delle persone con una superficialità imbarazzante”. È da poco terminata la conferenza stampa di fine anno e il presidente dell’Ordine dei giornalisti, Enzo Iacopino, è di nuovo nel suo studio nella sede di via Parigi a Roma. Risponde al telefono e dice: “Sono molto amareggiato. A Matteo Renzi non raccontano la verità. Un uomo intelligente, quale io credo che sia, non può dire che un giornalista pagato 4920 euro lordi all’anno non è uno ‘schiavo’. Io ho posto un problema”. Presidente Iacopino, lei ha parlato di “emergenza democratica” e ha chiesto al premier di non dare soldi pubblici ai gruppi editoriali che non pagano dignitosamente i giornalisti. Da Renzi si aspettava una risposta diversa?
"Renzi pensa che la risposta a questo problema non sia una norma che impedisca agli editori la ‘schiavitù’ ma sia l’abolizione dell’Ordine. Invece l’Ordine dei giornalisti è l’unico organo che sta contrastando da anni la politica della Fieg (Federazione italiana editori giornali) ma il premier ignora completamente la realtà e il problema".
Cosa sperava che il governo facesse a favore del settore?
"Intanto mi aspettavo che Renzi dicesse che lo sfruttamento dei giornalisti è una vergogna e che appunto si tratta di sfruttamento. E speravo il governo estendesse la norma del caporalato a tutti i lavori. Pensavo fosse una cosa di buonsenso invece, siccome andiamo verso la campagna elettorale, a Renzi conviene andare d'accordo con gli editori che con i cittadini".
Cosa si può fare a livello normativo?
"Ho fatto notare l'assurdità della mancanza di una legge che chieda agli editori la documentazione sulle retribuzioni dei dipendenti. Solo se questi ultimi vengono pagati in maniera dignitosa si può permettere agli editori l'accesso ai contributi. Ma parlare di abolizione dell'Ordine è assurdo".
Tuttavia spesso Renzi ha parlato di abolizione dell’Ordine dei giornalisti, non è la prima volta.
"Sì, ma la volgarità sta nell’aver detto di essere contro l’Ordine dei giornalisti, e non contro gli Ordini in generale, come invece ha detto altre volte. In realtà gli ha dato fastidio quando ho evocato la lista di proscrizione della Leopolda, quella in cui il premier ha messo al bando le prime pagine dei giornali per poi fare votare la peggiore. La sua reazione di stizza contro l’Ordine dei giornalisti dimostra proprio il suo fastidio. Si vedeva dalla faccia".
Eppure lei ha citato dei casi precisi. Derivano da segnalazioni che lei riceve? Ne aveva già parlato con il responsabile del governo per l’editoria?
"Non a caso ho invocato il caporalato. Ogni giorno mi arrivano e-mail e telefonate di persone disperate. Una collega mi ha scritto dicendo che aveva finito i suoi 288 articoli e adesso, in base a quella che io chiamo una ‘sinergia criminale’ tra Fnsi (Federazione nazionale della stampa italiana) e Fieg, il gruppo editoriale per cui lavora le ha detto che per tutti i pezzi in eccesso che scriverà le darà 120 euro lordi annui. Non solo. C’è anche un altro gruppo editoriale che ha iniziato a non pagare più i collaboratori. I colleghi mi chiedono dignità, non mi chiedono soldi, ma dignità. E la risposta di Renzi a tutto questo è la cancellazione dell’Ordine. Credo che il premier abbia le idee confuse".
In che senso?
"Considero Renzi una persona intelligente ma non si può dire che una pensione di 3500 euro, poi si è corretto dicendo 3000 e poi ancora 2500 euro, non sia da considerate una pensione d’oro. E non può dire che 4920 euro lordi l'anno siano una cifra con la quale poter vivere. Tre o quattro volte gli ho fatto notare il problema. Alla fine ha detto che siamo di opinioni diverse. Ecco, sono orgoglio di avere opinioni diverse dalle sue".
Cosa rimane di questa conferenza di fine anno?
"L'ho detto, sono amareggiato. Non ci resta che piangere".
"I giornalisti tra precarietà e sfruttamento: “8 su 10 sotto la soglia di povertà”. L'allarme arriva da Nicola Marini, presidente nazionale dell'Odg: “Va cambiata la legge sull'accesso all'Ordine”. Su Grillo: “Frase sgradevole, se la poteva risparmiare”, scrive Andrea Falla il 20 settembre 2017 su Today. Pagamenti a click, articoli da 5 euro e contratti di collaborazione che 'mascherano' il lavoro fatto in realtà. Sono soltanto alcune delle opzioni lavorative che un giornalista italiano può valutare al giorno d'oggi e che hanno contribuito a trasformare questo mestiere in uno dei lavori più bistrattati e soggetti a sfruttamento. “Una situazione devastante” come è stata definita da Nicola Marini, presidente nazionale dell'Ordine dei Giornalisti, che ha lanciato nei giorni scorsi un grido d'allarme per tutta la categoria: “Una grossa fetta degli iscritti all'Ordine percepisce uno stipendio lordo annuo inferiore ai 10mila euro e quindi al di sotto della soglia di povertà”. Intervistato da Today, Marini ha fatto chiarezza su questi numeri e analizzato la situazione: “Siamo di fronte ad un quadro drammatico: dei 106mila giornalisti che fanno parte dell'Ordine, il 50% non è iscritto all'Inpgi, e già questa è una prima anomalia. Dei rimanenti 53mila il 65% viene definito 'freelance', che al giorno d'oggi è un modo diverso per dire precariato. Di questo 65%, 8 giornalisti su 10 percepiscono un reddito inferiore alla soglia di povertà”. Quello del giornalista diventa così un lavoro accessibile a pochi. Con questi stipendi 'da fame', gli aspiranti giornalisti sono costretti a fare una scelta: abbandonare il sogno o accontentarsi di quello che si trova in giro. Ma facendo una rapida ricerca sul web, saltano all'occhio decine e decine di annunci in cui la retribuzione è un optional o è talmente bassa da non permettere ad un qualsiasi individuo di 'sbarcare il lunario'. Ma su questi annunci 'farsa' l'Ordine può fare poco o niente, come confermato a Today dallo stesso Marini: “Monitorare tutti questi annunci è impossibile. Anche perché spesso non sono rivolti nello specifico a figure giornalistiche, ma chiedono ai candidati di saper fare un po' tutto, dal portavoce al comunicatore, fino all'esperto di social e marketing”. Ma la realtà di questi lavori sottopagati non ha a che fare soltanto con piccole testate, esistono situazioni precarie anche in redazioni di quotidiani nazionali molto conosciuti, spesso soggetti ai controlli: “Gli accertamenti spettano all'Inpgi – commenta Marini – che controlla con che tipo di contratto vengono assunti i lavoratori. Dopo i controlli sono scattate anche le multe, il problema è che i giornali non le pagano”. “Con l'avvento di internet ci aspettavamo un miglioramento – continua il presidente nazionale dell'Odg - questo c'è stato dal punto di vista tecnologico, ma non da quello occupazionale. In Italia esistono più di 1.500 siti nativi digitali (non collegati ad un giornale cartaceo) alcuni dei quali vanno avanti con pochi giornalisti, pagati anche 200-250 euro al mese. Inoltre sul web, per la fretta e la pesante mole di lavoro, i giornalisti non riescono neanche a verificare le fonti, che dovrebbe essere la principale attività di questo mestiere”. Ma come si sta muovendo l'Ordine per porre rimedio a questa situazione drammatica per tutta la categoria? “L'idea di fare un contratto 'depotenziato' per i giornalisti potrebbe essere una soluzione per agevolare le assunzioni 'legali', Ma la prima cosa che dobbiamo fare è un'altra. L'accesso all'Ordine è regolato da una legge emanata nel 1963, quindi vecchia di 54 anni e da cambiare. In questo mezzo secolo il mondo è cambiato e ancor di più il lavoro del giornalista, è assurdo che siamo ancora dipendenti da una norma così obsoleta”. E' proprio per porre attenzione su questo tema che Marini ha lanciato l'allarme: “Volevo rilanciare questo argomento proprio per rimettere al centro il problema occupazionale. Se aspettiamo che il Governo faccia qualcosa per migliorare questa situazione la vedo molto dura”. “La mia era una provocazione – ha aggiunto Marini – ma in questi anni ci siamo impegnati su vari fronti. Ad esempio per quanto riguarda la formazione, siamo riusciti a renderla gratuita, aumentando i corsi gratuiti e online. Un modo per aiutare anche gli iscritti che spesso non riescono neanche a pagare la rata annuale”. Sul finale dell'intervista il presidente Marini ha voluto commentare le parole di Beppe Grillo, che rivolgendosi ai cronisti ha detto “Vorrei mangiarvi soltanto per il gusto di vomitarvi”: “La frase è stata di una volgarità assoluta. E' preoccupante che il leader del Movimento 5 Stelle, uno dei più importanti del Paese, possa concedersi delle licenze così pesanti, che non colpiscono soltanto i giornalisti ma tutta la libertà di stampa. Un insulto sgradevole che infila il dito nella piaga di tutti quei giovani giornalisti che fanno questo mestiere sottopagati. Una frase spiacevole, se la poteva risparmiare”. E come dargli torto.
LA DURA VITA DEGLI STEWARD...DI TERRA E DI CIELO.
Sotto il sole, senza acqua e a rischio mobbing: il lavoro impossibile degli steward negli stadi. Presidiano gli spalti durante le partite, i concerti e gli eventi. Rischiano molto e vengono pagati pochissimo. E se si ribellano scatta la lista nera. Ecco le loro denunce, scrive Maurizio Di Fazio il 9 luglio 2018 su "L'Espresso". Anche questa è Gig Economy, l’economia dei “lavoretti”, diventati oggi, nella maggior parte dei casi, l’unica occupazione possibile, l’unica fonte di reddito. Le proposte fioccano nei portali di ricerca lavoro. “Cerchiamo, per una squadra di calcio di serie A, degli steward. Le risorse si occuperanno del controllo dei titoli di accesso e dell’instradamento degli spettatori. Tipo di offerta: contratto a somministrazione. Titolo di studio minimo: licenzia media inferiore”. Negli stadi italiani sono stati introdotti una decina d’anni fa, per supportare le forze dell’ordine nella gestione della sicurezza. Devono fronteggiare la furia anarcoide dei tifosi, soprattutto di quelli ospiti, specialmente a inizio e fine partita. Ma il loro impiego va ben oltre il football e il rettangolo verde: li vediamo presidiare gli spalti dei concerti, i padiglioni delle fiere, i locali degli eventi. Spesso sono studenti universitari, anche se cresce lo stuolo dei quarantenni e dei cinquantenni in servizio permanente effettivo per mancanza d’altro. La proporzione numerica tra gli steward (uomini) e le hostess (donne) è di 4 a 1. Tutti loro guadagnano poco e rischiano tanto. E lavorano un bel po’ più del pattuito, a compenso invariato. Il calcio resta lo scenario più duro e difficile. “Sono innumerevoli gli episodi di umiliazione e sopraffazione ai danni degli steward. Il culmine lo si è raggiunto nell’ultima partita di campionato, Napoli- Crotone. Alcuni nostri colleghi assegnati a un settore della tribuna hanno subito un’ingiustizia decisamente sgradevole – ci scrive un comitato di “steward anonimi” -. Dopo il fischio finale dell’arbitro, al termine del deflusso degli spettatori è stato loro imposto di continuare il turno per altre tre ore, senza un euro in più in busta paga. E coloro che hanno provato a ribellarsi, sono stati minacciati: "Non vi convocheremo più per i prossimi match, da oggi siete nella nostra black lista (proprio così, non è un refuso)". Il mobbing e le mansioni borderline sono i nostri costanti compagni di viaggio”. La società responsabile dei presunti abusi è la MFC Security & Services di Napoli. L’abbiamo contattata, senza ricevere però risposta. Marco (il nome, solo quello, è di fantasia) ha lavorato alle loro dipendenze per dodici anni. “Mi hanno fatto odiare il mestiere di steward” ci premette. Marco racconta come funziona negli stadi. “Prima, fino a quattro anni fa, era ancora peggio, il Far West assoluto. Ora il più delle volte veniamo ingaggiati attraverso le agenzie di somministrazione, che garantiscono qualche diritto formale”. La MFC gli dava 22 euro e 50 centesimi a partita. La Manpower garantisce una base di 10 euro in più. “Se l’incontro cominciava alle 15, dovevamo stare lì alle 11, già operativi e fino alle 18.30, le 19. Le ore di straordinario necessarie per accompagnare la squadra, per aspettare e riaccompagnare la tifoseria ospite? Mai retribuite. Tre ore, almeno, di lavoro gratis. Nemmeno oggi percepiamo supplementi per il lavoro extra”. Potreste rifiutarvi. “Impossibile: finiremmo nella black lista. Io sono stato messo all’indice anche per non avere fatto entrare gratis gli amici dei capi della MFC. Lavoravo al tornello d’ingresso, mi sembrava la cosa giusta da fare”. Un “lavoretto” pericoloso. “Due anni fa, durante una Napoli-Inter, i tifosi partenopei hanno sfondato il cancello nerazzurro e s’è scatenato un parapiglia immane. Abbiamo preso botte da tutte le parti”. C’è poi il capitolo corsi di formazione (obbligatori) da steward. Durano 40 ore, forniscono nozioni di psicologia, erudiscono sulle norme anti-incendio, sul pronto soccorso, sulla sicurezza in genere. “L’ho fatto direttamente con MFC. Ho pagato 150 euro, quando altrove sono gratuiti. E non ho ricevuto lo straccio di un attestato”. Marco ci snocciola tanti altri casi agghiaccianti vissuti in prima persona. “Al concerto per i 60 anni di Nino D’Angelo, abbiamo prestato servizio dalle 3 di pomeriggio alle 2 di notte per 30 euro a testa”. «Quando hanno conferito la cittadinanza onoraria a Maradona, abbiamo lavorato sotto il sole ustionante di agosto dalle 3 di pomeriggio all’1 di notte, con 42 gradi, per 25 euro e senza il conforto di una bottiglietta d’acqua o di un tramezzino. Loro hanno intascato fior di quattrini. Noi siamo stati trattati peggio dei vermi». «Quando viaggiamo per eventi organizzati fuori regione, ci ammassano dentro pullman vetusti e sgangherati. Rischiamo la vita per quattro soldi. Per il mega-show di Modena di Vasco Rossi, partimmo in 150, riempiendo tre autobus. 30 ore di lavoro più il viaggio. Ero distrutto. Camminavo e cadevo. Avevamo stabilito un cachet, ma la MFC ci ha sottratto, di punto in bianco, 12 euro a persona. Moltiplicati per 150, fanno 1800 euro». Marco ha 40 anni e attualmente lavora nel campo della logistica a Bologna. Ma l’antica passione non lo abbandona. Sarebbe pronto a riprendere la divisa da steward, con dignità. «Mi avevano proposto il concerto di Jovanotti a Eboli a giugno. A queste condizioni: partenza alle 15, ritorno alle 3 di notte. Paga, 25 euro. Senz’acqua o vivande. Ad arrostirci al sole».
Gli steward allo stadio: da mesi non ci pagano. Trenta euro netti per sei ore di lavoro rappresentano a Udine il guadagno di uno steward che nei giorni di partita effettua il proprio servizio allo stadio Friuli. Trenta euro a match per i quali più..., scrive il 23 gennaio 2014 Mattia Pertoldi su "Il Messaggero Veneto". Trenta euro netti per sei ore di lavoro rappresentano a Udine il guadagno di uno steward che nei giorni di partita effettua il proprio servizio allo stadio Friuli. Trenta euro a match per i quali più di qualcuno è costretto ad attendere parecchi mesi prima dell’ottenimento del voucher di pagamento. Tempi di attesa che hanno spazientito una parte delle 270 persone che prestano servizio allo stadio in occasione delle partite e che punta il dito contro la cooperativa veneta – la Assist Group di Altavilla Vicentina – che ha ottenuto in appalto la gestione del servizio da parte dell’Udinese Calcio. «Il nostro può essere definito come un caso di sfruttamento all’italiana – hanno spiegato – visti i trattamenti retributivi a cui siamo soggetti o sarebbe meglio dire che non riceviamo. Tanti di noi, infatti, non vengono pagati dal mese di aprile dello scorso anno». E la società bianconera, per bocca del direttore generale Franco Collavino, si è detta sorpresa da questa situazione. «La società a cui abbiamo appaltato il servizio – ha detto il dirigente bianconero – non ci ha segnalato alcuna criticità in materia. Siamo sorpresi da queste lamentele, ma posso assicurare che procederemo a effettuare i controlli». Da un paio di stagioni a questa parte la gestione degli steward allo stadio Friuli è, come accennato, compito della vicentina Assist Group, una cooperativa specializzata in materia tanto da occuparsi del medesimo servizio anche per conto dell’Hellas Verona e del Sassuolo in serie A, del Padova e del Cittadella in serie B e di Venezia, Bassano Virtus, Vicenza e Delta Porto Tolle nei campionati minori. «Premettendo che mi sembra strano come qualcuno possa esigere dei crediti relativi alla passata stagione – ha detto Andrea Fior –, ammetto che siamo in ritardo con i pagamenti tanto che in questi giorni stiamo saldando le giornate lavorative effettuate nei mesi di settembre e ottobre. Il problema è che anche noi stiamo attendendo il saldo delle fatture di alcune società sportive».
Ryanair è indifendibile, parola di un ex dipendente. Un ex assistente di volo della compagnia aerea ha inviato una sua testimonianza spontanea sulle condizioni di lavoro da lui vissute all'interno dell'azienda, scrive il 19 Settembre 2017 TPI. Non si chiude la polemica sulle condizioni di lavoro in Ryanair. Sono tantissimi i messaggi giunti in redazione dopo la pubblicazione del racconto sul colloquio di lavoro sostenuto per entrare nella compagnia aerea, dopo l’intervista a Letizia, assistente di volo che ne difende l’operato e dopo che anche altri siti e trasmissioni si sono occupati della vicenda. Per questo motivo, riportiamo la testimonianza spontanea che un ex assistente di volo dell’azienda ha inviato a TPI.
"Mi chiamo Igor, ho 30 anni e sono un ex dipendente Ryanair. Voglio raccontare la mia esperienza in questa compagnia aerea come assistente di volo. Per quanto riguarda le modalità di assunzione, i contratti avvengono con Crewlink, agenzia interinale che si occupa di reclutare persone per conto di Ryanair. Questa compagnia è l’unica in Europa che per un corso si fa pagare dai 2.500 euro ai 3mila, mentre le altre compagnia aeree ti formano a loro carico o con una spesa a carico del candidato pari a un quinto di questa cifra. Molti contratti vengono terminati allo scadere del pagamento del corso (se si è scelto di farselo detrarre dallo stipendio), dopo che il lavoratore è stato spremuto e sfruttato durante il periodo estivo, quello con più traffico aereo, in cui le compagnie hanno bisogno di personale. Ad ogni inverno, calano i voli e parte la “mattanza”, si cerca il pelo nell’uovo di ogni lavoratore, magari quelli che qualche volta hanno dovuto chiedere giorni di permesso per malattia (eh sì, è vietato anche stare male), e si riesce sempre a trovare scuse per licenziare, tanto possono farlo, dato che il periodo di prova dura un anno e durante questo periodo si può essere licenziati anche senza motivazione, se ritengono che tu non sia all’altezza del lavoro. Oltre al guadagno in termini di tagli al personale invernale, la Crewlink ha un flusso costante di nuovi partecipanti ai corsi (di cui ricordo il prezzo che varia dai 2500 ai 3000 euro a candidato!). Parliamo del “fantastico” stipendio: sono stato costretto a vivere con circa 700 euro in Germania (la base dove si viene assegnati è random, mentre nelle altre compagnie dipende dalla tua nazionalità/competenza linguistica, in modo da essere anche di migliore aiuto con i passeggeri). I trasferimenti sono difficili da ottenere e sono sempre in base a quanto vendi e quante volte sei stato malato), dove è obbligatoria l’assicurazione sanitaria, la “Krankenversicherung” che costa mensilmente il 14,6 per cento delle entrate lorde dell’assicurato. Il datore di lavoro paga il 7,3 per cento dello stipendio lordo del suo dipendente. Ma ovviamente Ryanair, anzi Crewlink, non paga la sua percentuale, quindi il costo ricade totalmente sul dipendente. Inoltre non esiste uno stipendio base che ti permetta di vivere dignitosamente in caso non si stia volando per qualsiasi motivo, si viene pagati ad ore di volo, altra esclusiva di questa compagnia che non esiste nelle altre. Ci sono poi i target giornalieri di vendite di prodotti degli sponsor da raggiungere: le pressioni sui dipendenti sono quotidiane! Ogni giorno la compagnia pretende che il dipendente quasi obblighi i clienti a comprare, in modo insistente e fastidioso. Se non si raggiunge il target bisogna spiegarne il motivo al ritorno dal turno, con domande fatte dal supervisore del tipo “perché non hai venduto abbastanza?”, ad un tot di target non raggiunti cominciano ad arrivare i rimproveri via email dalla Crewlink, fino a essere chiamati a colloquio a Dublino, da personale dell’HR department. (Il dipartimento principale). Non solo, si viene chiamati a Dublino anche se il dipendente si è assentato per malattia per tre o quattro volte, ti chiedono perché sei stato male o, ancora, se pensi che succederà di nuovo, poi ti dicono che il tuo comportamento ha messo in difficoltà i colleghi e la compagnia che hanno dovuto trovare dei sostituti per rimpiazzarti. Come mai, se si sta così bene in Ryanair, nelle altre compagnie è pieno di dipendenti provenienti da essa, e nessuno che da un’altra va in Ryanair? Ti ritrovi a lavorare con ragazzi dai 18 ai 20 anni, alla prima esperienza lavorativa, che non parlano inglese, instabili emotivamente, a volte impreparati per questo lavoro perché al corso li hanno fatti passare a tutti i costi. Ragazzi che hanno accettato solo per lavorare ad ogni costo e andare via da casa, con la falsa promessa di viaggiare in Europa. Cosa succederebbe in caso di emergenza a bordo con del personale del genere? É ora che la gente apra gli occhi e scopra che, si, paga di meno il volo, ma si trova potenzialmente in pericolo, e per emergenza non si intende per forza una catastrofe aerea, basta che un bambino si stia strozzando con del cibo o che un anziano abbia un infarto, credetemi cose che capitano spesso. Le condizioni di lavoro ed i contratti sono pessimi, in tutti i paesi europei che hanno accettato lo sfruttamento dei dipendenti, in cambio di traffico aereo che genera introiti negli aeroporti (tra cui l’Italia che ha più basi Ryanair di ogni altro paese), mentre nei paesi che si sono opposti le basi sono assenti o ridotte al minimo (ad esempio la Francia). Ad ogni trattativa tra Ryanair ed istituzioni locali/nazionali, le condizioni sono semplici: “o accettate le nostre condizioni o chiudiamo la base aerea e perdete impieghi e denaro”. Tutto ciò a scapito di tutte le altre compagnie aeree che danno lavoro dignitosamente ai dipendenti e che si trovano in difficoltà, a causa della concorrenza spietata di Ryanair, condotta al limite della legalità. Purtroppo, molti ragazzi giovani, come la ragazza intervistata da voi che sostiene Ryanair, si accontentano, non sapendo che stanno mancando di rispetto al mestiere in sé e alla professionalità sia propria, sia dei colleghi di altre compagnie, accettando compromessi, stipendi da fame e zero tutele o benefit. Trovo tutto questo inaccettabile, specialmente in un periodo in cui la nostra compagnia di bandiera è in crisi. Sarebbe opportuno che l’opinione pubblica cominciasse a conoscere l’argomento, data la mole enorme di passeggeri che va in mano a una compagnia del genere piuttosto che a una nazionale, in modo che arrivi la questione all’attenzione dei politici, auspicando che prendano provvedimenti". (Di seguito la busta paga dello stipendio percepito da Igor). TPI è sempre a disposizione di chi abbia necessità di smentire o rettificare le informazioni riportate.
Quanto conviene lavorare per una compagnia aerea. Europa. Dopo le testimonianze sul caso Ryanair, abbiamo analizzato stipendi, requisiti e condizioni di lavoro dei dipendenti delle maggiori compagnie aeree oggi sul mercato, scrive il 27 Aprile 2018 TPI. Il 20 aprile TPI ha pubblicato il racconto di Sandro Gianni, che criticava le condizioni di lavoro per assistente di volo offerte dalla compagnia area low cost Ryanair. La vicenda aveva suscitato polemiche tra chi difende e chi condanna il modo di lavorare imposto dall’azienda irlandese. Alcuni sostengono che, nonostante gli stipendi non siano altissimi, lavorare in Ryanair offra opportunità notevoli in termini di formazione e prospettive, specialmente quando si è molto giovani. Altri ritengono che la situazione dei dipendenti della compagnia sia davvero terribile: turni massacranti, pressioni psicologiche da parte dei dirigenti, precariato delle posizioni lavorative delineano un quadro preoccupante. TPI ha analizzato stipendi, requisiti e orari dei dipendenti delle maggiori aziende presenti oggi sul mercato. Molte delle compagnie aeree più famose si stanno orientando verso l’utilizzo di contratti a zero ore – che non garantiscono un minimo di ore lavorative a settimana – e verso collaborazioni con agenzie di lavoro temporaneo con sede fuori dall’Unione europea per assumere personale a costi più bassi. Secondo il rapporto Atypical Employment in Aviation del 2012, finanziato dalla Commissione europea e condotto dall’Università di Gand, nel Belgio, le compagnie aeree si rivolgono sempre più a “pratiche di assunzione creative”.
I piloti e i contratti a zero ore. Su 6.600 piloti intervistati nel rapporto, più di un migliaio sono lavoratori autonomi, assunti attraverso agenzie, o dipendenti con contratto a zero ore. Quest’ultimo non obbliga il datore a offrire lavoro e il dipendente può rifiutare qualsiasi chiamata. Se dal punto di vista delle compagnie di volo questo consente ai lavoratori maggiore flessibilità, la ricerca mostra che i lavoratori a zero ore tendono a guadagnare meno di quelli con forme contrattuali diverse e sono a rischio sfruttamento. I contratti a zero ore sono più comuni tra i piloti di età inferiore ai 30 anni: sono soprattutto i giovani piloti a essere danneggiati. Quest’ultimi lavorano soprattutto per compagnie aeree low cost, come Ryanair e Easyjet. I piloti con più anzianità volano più spesso per una compagnia di linea, come Air France, dove le condizioni contrattuali sono in genere migliori. La maggior parte dei piloti decide quanto prima di cambiare compagnia per migliorare la propria condizione lavorativa e avere maggiore protezioni sociali. Sempre secondo il rapporto, quasi la metà dei piloti ha dichiarato di aver cambiato compagnia aerea più di sette volte dall’inizio della propria carriera.
Gli stipendi degli assistenti di volo. Bianco Lavoro, portale sul mondo del lavoro, riporta gli stipendi previsti dalle compagnie aeree, di linea e low cost, per piloti e assistenti di voli.
• Alitalia – Oggi un assistente di volo a metà carriera prende poco più di 2mila euro netti al mese, ma lo stipendio in senso stretto è appena la metà. Il resto è rappresentato da indennità su cui il lavoratore paga il 50 per cento di tasse.
• Air One – I responsabili di cabina prendono 975 euro netti al mese, mentre gli assistenti di volo hanno uno stipendio di 665 euro netti al mese.
• Blu express – Nella compagnia del gruppo Panorama, gli stipendi vanno dai 1.700 ai 1.800 euro mensili.
• Air France – Gli stipendi degli assistenti di voli vanno dai 1.520 euro fino ad arrivare a 3.768 euro al mese.
• Meridiana – Si va dai 20mila ai 26mila euro netti ogni anno. Spesso la maggior parte dei contratti sono a tempo determinato, impedendo così al personale di ricevere bonus anzianità.
• British Airways – Un assistente di volo ha uno stipendio base di circa 1.500 euro, può guadagnare fino a oltre 3mila euro mensili. Lo stipendio è funzione del raggio di percorrenza dei voli e del tempo.
• Qatar Airways – Stipendio mensile di 732 euro netti nei primi sei mesi, 814 euro dopo sei mesi a cui va aggiunta una paga oraria di 9 euro, che con 80 ore al mese permette di superare i 1400-1500 euro al mese di retribuzione (sempre netti).
• KLM – Gli stipendi della compagnia olandese sono di circa 18mila euro netti per un assistente di volo.
Gli stipendi nelle compagnie low cost.
• Easyjet – Per un assistente di volo lo stipendio si aggira sui 1.200-1.300 euro netti durante i mesi invernali e 1.600–1.800 euro netti in estate. La differenza è dovuta al fatto che durante l’interno si vola meno e le possibilità di accumulare ore di volo sono minori.
• Ryanair – I corsi di formazione sono a carico del lavoratore e si aggirano sui 2.000–2.500 euro per gli assistenti di volo, mentre l’uniforme costa 400 euro. I dipendenti sono pagati solo durante il volo: le ore d’attesa, scali e ritardi, non vengono retribuite.
All’inizio i contratti avvengono con Crewlink, agenzia leader per il reclutamento Ryanair. Gli stipendi di hostess e steward variano tra i 1.100 e i 1.400 euro al mese, ai quali bisogna aggiungere un incentivo di 1.200 euro destinato ai neoassunti ogni sei mesi.
• Volotea – Gli stipendi come assistenti di volo sono tra i più bassi d’Europa, visto che si tratta di 900 euro netti al mese per 12 mensilità a cui sottrarre il costo del corso e della divisa, entrambi a carico del dipendente. Le spese per il mantenimento della propria documentazione di volo sono a carico del personale. I contratti, rigorosamente a tempo determinato con durata di 4 mesi, prevedono come base di appartenenza l’aeroporto di Venezia. Come denunciava La Stampa nel 2012, la compagnia offre uno stipendio di poco più di mille euro al mese per giornate lavorative ritenute massacranti, con 6 scali quotidiani e solo 25 minuti di pausa tra l’uno e l’altro. Un’offerta di lavoro talmente deludente che ha scoraggiato le domande di assunzione.
• Vueling – Gli stipendi per gli assistenti sono di 12mila-13mila euro netti l’anno. Nei forum dove si trattano temi legati al lavoro in compagnie aree, alcuni sostengono che lo stipendio mensile può arrivare ai 1.700 euro. Metodo: abbiamo confrontato questi stipendi con quanto raccontato dai dipendenti sui vari forum dedicati, sugli articoli recanti informazioni a riguardo e sui diversi portali con offerte di lavoro per verificarne l’effettiva veridicità. Sullo stipendio gravano anche la normativa in termini di tassazione e previdenza sociale del paese del dipendente.
TPI è aperta a chiunque voglia smentire o rettificare le informazioni fin qui raccolte.
PARLIAMO DEI POSTINI PRIVATI.
Postini privati, la paga è la metà del dovuto e devono pure comprarsi lo scooter. Un gruppo di lavoratori ha aperto una vertenza: sarebbero costretti a straordinari ancorati solo a un "premio produzione" e a pagarsi di tasca propria il ciclomotore. Ma l'azienda replica: "Nessuna costrizione", scrive Maurizio Di Fazio il 4 ottobre 2017 su "L'Espresso". «Guadagnano la metà di quanto dovrebbero. Sono pagati per quattro, cinque ore al giorno quando ne lavorano il doppio. In un Paese normale tutto questo extra sarebbe chiamato “lavoro supplementare” o “straordinario”, e verrebbe trattato di conseguenza. Qui lo retribuiscono con un premio, e solo al raggiungimento del risultato. Altrimenti nulla. È il cottimo del terzo millennio. Aggiungiamo che non ricevono lo stipendio da maggio. È questa la politica innovativa, il modello di crescita sostenibile profetizzato da Nexive?». Nel parlare della vertenza promossa, a Lucca, contro il più grande operatore privato del mercato postale italiano, Giuseppe Priolini della Uil Toscana lancia un duro j’accuse. Secondo lui, che ha dato il via al contenzioso, Nexive (500 milioni di buste e 1,7 milioni di pacchi al giorno) bara. “Consideriamo le persone che lavorano con noi il ‘centro di tutto’" si legge sul sito Internet dell’azienda che vanta clienti fissi come Enel e Ferrero. Per Priolini è l’esatto opposto: «Riescono a vendere i servizi al massimo ribasso: risparmiando, all’estremo, sul costo del lavoro» afferma parlando con l'Espresso. Qualche settimana fa è cambiato il referente locale lucchese di Nexive: non più “La Posta Diretta”, da adesso in poi sarà la “Società Recapiti Ferrari” a gestire lettere e plichi per conto della casa-madre. E ha comunicato subito l’ulteriore riduzione dell’orario di lavoro quotidiano, 4 ore a al posto di 5. «Col solito cottimo mascherato da premio di produttività: il pagamento della quinta ora sarà vincolato al recapito di un tot di missive» aggiunge il dirigente Uil: «Una pratica immorale e illecita perché espone i postini, che girano in motorino, a elevati rischi sul lavoro». Ciclomotori che i lavoratori dovranno comprarsi di tasca propria, «anticipando 1.200 euro a Recapiti Ferrari: un acquisto-capestro, che di fatto costringe i dipendenti (che già percepiscono poco) a non potersi dimettere per almeno un anno, un anno e mezzo. È il tempo necessario per poter restituire i soldi “investiti” nello scooter». Alcuni postini privati di Lucca, in serie difficoltà economiche, hanno accettato «le condizioni imposte dalla società subentrata», altri «sono stati spinti al licenziamento non avendo firmato la rinuncia a rivendicare le somme dovute dall’uscente La Posta Diretta, e quindi l'obbligazione in solido spettante a Nexive. Una forma di ricatto nella quale il committente (Nexive) interferisce non facendo assumere dalla Società Recapiti Ferrari il personale avente diritto. E questa richiesta di rinuncia la dice lunga sulla piena consapevolezza da parte di Nexive del comportamento scorretto dei partner territoriali». La situazione di Lucca, in base ai documenti in nostro possesso, è rappresentativa di quanto accade tendenzialmente lungo l’intera penisola: in tutte le regioni, oltre alle filiali dirette, Nexive si avvale infatti di decine di piccole e capillari società private, spesso Srl, che magari falliscono lasciando il posto a un’altra nell’orbita del principale rivale di Poste Italiane. Una gestione mista che serve l’ottanta per cento delle famiglie tricolori e più di 30 mila operatori business. «Il nostro monitoraggio sui partner a cui appaltiamo i servizi di consegna corrispondenza è costante» assicurano da Nexive. «Sono anni che il sistema della corrispondenza privata è affidato, con subappalti, a cooperative e società che hanno l'unico scopo di sfruttare la forza lavoro per far guadagnare il committente» sostiene invece con l'Espresso la Uil per bocca di Priolini: «È questo il nuovo caporalato». Intanto la vertenza di Lucca va avanti, ed è destinata anch’essa ad avere ripercussioni nazionali. Una quindicina di lavoratori non mollano la presa. Vogliono il pagamento delle pregresse ore di lavoro “reali, non virtuali” mai retribuite, oltreché delle buste paga inevase. La Uil chiama in causa direttamente Nexive, «del resto è con loro, guarda caso, che trattiamo, mica con i partner subappaltanti» conclude Giuseppe Priolini: «L'obiettivo più generale è di raggiungere una stabilizzazione del mercato postale privato, con appalti congrui che garantiscano la corretta retribuzione degli impiegati e il pieno rispetto delle norme contrattuali e legali. Un traguardo che appare possibile solo prescrivendo a Nexive subappalti economicamente corretti». Interpellata dall’Espresso, Nexive nega ogni accusa. «Non è vero che i nostri lavoratori svolgano attività in nero. I nostri documenti e la normativa vigente possono confermarlo. Nexive e le sue società partner cercano un difficile equilibrio tra la salvaguardia dei livelli occupazionali e la riduzione dei carichi di lavoro, dando continuità di reddito anche in presenza di mutate condizioni contrattuali. E ogni revisione dei contratti è oggetto di una trattativa tra il datore di lavoro e i lavoratori. Nexive e i suoi Partner si impegnano a raggiungere con questi ultimi accordi che coniughino remunerazione e impegno di lavoro». Sugli straordinari legati al conseguimento di determinati standard di produttività e l’acquisto del motorino dal datore di lavoro, Nexive sostiene di rifarsi al contratto nazionale. «Nessuna costrizione, e le proposte sono state diverse. Il contratto collettivo nazionale di lavoro prevede la possibilità di utilizzare un mezzo proprio, a fronte di un indennizzo che è stato definito con i rappresentanti dei lavoratori e che tiene conto dei costi assicurativi e della manutenzione ordinaria» ribatte Nexive: «Ma per coloro che non possiedono un ciclomotore, la Società Ferrari si è resa disponibile ad anticiparne il costo d’acquisto, trattenendo una quota mensile. E resterà del lavoratore».
CIBO A DOMICILIO. I RIDER SFRUTTATI.
«Io, burattinaio dei rider, vi racconto come controlliamo le consegne e i fattorini». La geolocalizzazione, la competizione. Il cottimo. Parla per la prima volta un (ex) controllore dei ragazzi che ci portano il cibo a casa. «Sul mio schermo arrivava tutto: anche la velocità con cui i fattorini stavano pedalando. Mi sembrava di pilotare dei droni», scrive Francesca Sironi il 20 dicembre 2018 su "L'Espresso". Nel database sono chiamati i fantasmi. Si tratta dei fattorini fermi, pronti a prendere una nuova comanda. E a scattare al click, sostituendo quanti sono già in corsa. Sulla mappa sono indicati da un puntino grigio. In azzurro invece spiccano i rider disponibili: quelli che non sono in servizio, ma restano comunque arruolabili nell’immediato. Per esempio se qualcuno, durante il turno, finisce per essere in ritardo. E bastano solo otto minuti d’attesa imprevista per far scattare una prima allerta, un messaggio, una chiamata. Tutto ok? I fantasmi. V. ha lavorato per sei mesi nella centrale operativa di Foodora a Berlino. Era un “dispatcher”, ovvero un responsabile degli ordini, incaricato di seguire in tempo reale le corse che recapitano pasti a domicilio in moltissime città italiane. È il servizio di cui Foodora è uno dei leader mondiali: la società che la controlla, “Delivery Hero”, è un colosso che batte un milione di scontrini al giorno da oltre 200mila ristoranti in 40 paesi. Party pre-natalizi compresi, i menu vengono smistati minuto per minuto negli uffici dalla centrale di Berlino dove V. ha lavorato fino al 2018. Foodora ha dismesso da poco le attività in Italia. Ma Delivery Hero mantiene comunque un piede a Roma: all’inizio dell’anno il gigante delle spedizioni aveva investito infatti 51 milioni di euro nella catalana Glovo, di cui è oggi uno dei principali azionisti. È a Glovo che ha ceduto le attività italiane. Non i lavoratori però: i duemila fattorini che prima consegnavano per Foodora sono stati liquidati con un invito a ricominciare da zero, candidandosi a trasportare sushi a cottimo per l’ormai ex concorrente. Nel frattempo alcuni incidenti, anche gravissimi, che hanno colpito i lavoratori del settore, insieme al nulla di fatto con cui si è chiuso il tavolo avviato al ministero dello Sviluppo dal vicepremier Luigi Di Maio, hanno fatto riaffiorare con urgenza il problema, ancora non risolto, delle tutele necessarie per gli occupati digital-reali della distribuzione (e non solo). E ora sulla questione interviene una nuova, inedita, vertenza. Che riguarda il côté Grande Fratello del caporalato digitale. Il primo compito di ogni dispatcher, spiega V., è risolvere problemi: clienti che non si trovano, ristoranti che hanno la cucina sottosopra, ma anche e soprattutto inceppamenti dello stesso sistema. Deve, ad esempio, aggiustare il tiro dell’algoritmo (che a Foodora si chiama “Hurrier”, “colui che va di fretta”, come la società canadese che lo aveva elaborato) quando il meccanismo automatico attribuisce consegne in modo non efficace. «Io seguivo nel dettaglio gli itinerari dei rider, sapevo la velocità media con cui stavano pedalando o guidando, l’intero storico delle commissioni che avevano effettuato», racconta in esclusiva per L’Espresso, a condizione di anonimato: «Se pioveva forte, oppure c’era un tragitto molto lungo da coprire, o ancora un piatto da ritirare in un locale che sapevamo essere frequentemente più lento del dovuto, potevo assegnare delle “doppie”, cioè un compenso doppio per quella singola consegna, considerata più onerosa». L’ambiente era informale, in ufficio, anche se non poteva distrarsi molto dal monitor, ricorda, vista la fretta senza sconti con cui andavano portate a termine le missioni. «Su uno dei computer tenevamo sempre aperte le chat con i fattorini, via telegram o whatsapp. Dopo un po’ li conoscevo quasi personalmente», continua: «Anche se a volte il mio ruolo era dissociante: sembrava di pilotare un drone, con le mappe aperte sulla città o sul singolo quartiere, su una via, o una spedizione, e tutte le conversazioni telematiche aperte contemporaneamente». Come se i fattorini non fossero altro che punti in movimento su un monitor, «mentre io ero spesso l’unica voce con cui avevano un contatto umano dentro l’azienda, al di là delle notifiche dell’applicazione o delle mail del management. Mi ricordo una ragazza di Roma che aveva voluto sfogarsi, una sera: mi diceva che era stanchissima, e doveva lavorare per pagare le riparazioni del motorino, rotto per tre volte facendo consegne. Altri ci chiedevano consigli, altri ancora ci sfottevano. In generale cercavano almeno un po’ di contatto reale». Perché per il resto, la loro vita professionale aveva e ha come unica interfaccia l’app installata sul telefono personale, dotazione necessaria per iniziare a correre. Dall’altra parte del rider, vista dalla bici o dal motorino, c’è la società, con il suo algoritmo per la distribuzione dei clienti e con i dispatcher. Che si trovano così in prima linea nelle contraddizioni del business. Ad esempio ad affrontare uno degli elementi più controversi, forse, dell’attuale economia della fame: la continua creazione di un esercito di riserva, di precari in competizione fra loro per ottenere una commessa in più, un frammento di speranza flessibile in più. «Spesso capitava avessimo molti più fattorini disponibili che non ordini. Per esempio durante i turni che iniziavano sul presto, alle sette di sera», racconta V.: «Allora le persone iniziavano a chiamarmi dicendomi “dai, dammi un ordine, per favore”. Ti sentivi impotente». C’è un altro elemento che V. trovava disturbante: la possibilità di veder segnate sulla mappa le posizioni di lavoratori assolutamente non attivi. Richiamabili con un click, ma non in turno. Ugualmente tracciati? La società non ha risposto alle domande dell’Espresso riguardo alle osservazioni simili diventate ora materia di un reclamo al Garante della privacy, a Roma. La segnalazione, presentata dall’avvocata che segue la causa dei rider a Torino, Giulia Druetta, e da un esperto di privacy, Giovanni Maria Riccio, riguarda soprattutto due punti. «Il primo sono le informazioni, assolutamente non adeguate secondo noi, che venivano date ai rider rispetto alle modalità con cui avviene la loro geo-localizzazione. Alcuni elementi che abbiamo raccolto sembrano indicare, tra l’altro, che la loro posizione veniva rilevata anche fuori dall’esercizio effettivo del turno», racconta Riccio, che da avvocato e professore all’università di Salerno ha curato decine di pubblicazioni sulla protezione dei dati personali: «Il secondo riguarda invece le chat dove venivano scambiati messaggi aziendali. In un contesto, a nostro avviso, di generale scarso rispetto della dignità dei lavoratori». Può sembrare una questione laterale, quella della geo-localizzazione pervasiva dei fattorini digitali. Ma è invece al centro della difficile definizione stessa di quanto sia “autonomo”, e quanto invece subordinato, il mestiere di chi viene reclutato attraverso le piattaforme online. In Italia due tribunali, prima a Torino (di cui è atteso l’appello per il 9 gennaio) e poi a settembre a Milano, si sono schierati a favore dell’interpretazione fornita dai grandi gruppi come Foodora, Justeat o Deliveroo, secondo cui i pony sono liberi di scegliere se farsi carico o no di un ordine, e quindi vanno considerati liberi professionisti. In Francia però, a novembre, la Corte di cassazione ha rispedito in appello una sintesi simile. Poiché la sostanza prevale sulla forma, scrivono i giudici francesi, nel diritto del lavoro, allora a ben guardare c’è qualcosa che non torna rispetto a quanto accade attraverso queste app. I tre cardini della subordinazione, infatti, a Parigi come a Roma, sono i poteri di organizzazione, controllo e disciplina, esercitati da parte di un’impresa sui suoi sottoposti. «E se andiamo a vedere come funzionano nel concreto queste piattaforme, è difficile pretendere si tratti di sola intermediazione», discute Antonio Aloisi, ricercatore post-doc dell’Istituto universitario europeo di Firenze, che sta dedicando al tema numerosi nuovi studi: «Basta osservare la necessità che hanno, per funzionare, di garantire un servizio sicuro, uniforme e standard». È quello che pubblicizzano no? «Ora, se tutti i lavoratori – e penso al settore delle consegne come a molti altri», continua Aloisi: «Fossero effettivamente liberi e autonomi di scegliere se, come e quando lavorare, come potrebbe reggersi il business?». Sarebbe un caos. «Quello che accade è l’opposto: le società raccolgono un’enorme quantità di dati, hanno metriche dettagliatissime sui flussi, sulle richieste, sul mercato e sulle risposte da darvi. Potrebbero insomma facilmente, in teoria, prevedere offerta e domanda», ragiona il ricercatore: «Ma anziché usare queste informazioni per assumere con le tutele necessarie uno zoccolo duro di lavoratori, le usano per stabilire dei ranking interni fra una platea di “disponibili”, per organizzare occupati flessibili». Arrivando al paradosso: «anziché più libertà, i fattorini finiscono per averne meno», conclude: «Perché spostandosi da una società all’altra perderebbero tutta la “carriera digitale”, di affidabilità, che vi hanno costruito dentro». La tecnologia sottile con cui scontrini e contratti, mance e menu, vengono gestite, non aiuta spesso a comprenderne le implicazioni. «Il rapporto con la società sembra diretto. La semplicità con cui inizi a lavorare, attraverso l’app, con cui accetti condizioni, informative, spazi, cominciando subito a fare consegne, rende tutto molto immediato. Mosso quasi più da impulsi che da ragionamenti consapevoli», riflette Angelo, un rider di Milano che insieme ad altri ha dato vita al progetto “Deliverance”, un sindacato autonomo di fattorini che ha stilato all’inizio di dicembre un decalogo di richieste per la dignità dei rider. All’interno del quale tornano, oltre alle garanzie lavorative che mancano, anche le questioni che riguardano il controllo. Il documento chiede infatti il «diritto alla disconnessione» fuori dal servizio, la trasparenza sui dati raccolti, sul tracciamento, sulla possibilità per ognuno di sapere quali elementi valuti l’algoritmo nel momento in cui attribuisce individualmente le consegne. La tracciabilità dei comportamenti, accettata da milioni di consumatori digitali in cambio di servizi gratuiti, può diventare infatti più distopica all’interno di un rapporto di lavoro. «Pochi, banalmente, sospendono ogni volta che finiscono la geo-localizzazione interna all’app», racconta Angelo: «Io stesso tolgo del tutto il Gps, dal telefono, quando non sono in turno. Mi impedisce di usare altri sistemi, ma mi sento più tranquillo». V. arrivava in ufficio mezz’ora prima del momento in cui da case o uffici sarebbero iniziate le richieste di piadine e polli fritti. Si sedeva, controllava che i fattorini si stessero effettivamente avvicinando al luogo di partenza del turno, e cominciava il suo sorvolo sugli ordini. Anche i dispatcher, per mangiare, usavano Foodora. «La “mensa” era un buono da spendere sulla piattaforma stessa», ricorda. Dopo un po’, ha iniziato a portarsi i panini da casa. A giugno Delivery Hero ha festeggiato 340 milioni di euro di fatturato, ma risultati ancora in salita. Non tanto per il costo del personale. Quanto per il peso del marketing: che vale 180 milioni di euro a semestre. I servizi di delivery ne pesano solo 140. Difficile per un rider, pensare di valere meno di uno spot.
Uccisi mentre consegnano il nostro cibo: i riders e quelle vite spezzate senza tutele. L'ultimo della lista infame si chiamava Alberto. Travolto a 19 anni mentre portava una pizza. Il sindacato: «Sfruttamento inaccettabile. Qualche segnale del governo era arrivato, ma tutto è caduto nel dimenticatoio», scrive Maurizio De Fazio il 7 dicembre 2018 su "L'Espresso". Morire consegnando una pizza. Morire da rider. La gig economy conta i suoi primi caduti. L’ultimo martire involontario del lavoro del nuovo tipo è delle ultime ore. Si chiamava Alberto Piscopo Pollini, era uno studente dell’Alberghiero di Bari e aveva 19 anni. La sua esistenza è stata falciata sabato scorso intorno alle 22.30 – orario di fuoco per i ciclofattorini digitali - quando un’auto portata da un altro ragazzo l’ha travolto mentre sfrecciava, col suo scooter, per recapitare al cliente in tempo utile la cena ordinata da casa. Non è la prima tragedia del genere dalle nostre parti, senza considerare gli incidenti non mortali. Il 6 settembre un dramma analogo è capitato a un 29enne di Pisa, Maurizio Cammillini, che s’è schiantato in motorino contro un palo. Doveva consegnare un fritto e due panini; correva perché, se avesse fatto ritardo, avrebbe pagato una sanzione di tre euro come già accadutogli il giorno prima. Per lui non c’è stato nulla da fare. Si è salvato, invece, a maggio (ma ha perso una gamba) Francesco Iennaco, 28 anni: è finito sotto un tram a Milano mentre lavorava, in quel caso, con la bicicletta. Ecco le prime morti bianche nelle fila dei riders italiani, zaino termico in spalla, ancora in attesa di nuove garanzie e diritti e di una forma contrattuale che li liberi dal precariato estremo. Duro il percorso di questi post-proletari on demand. “Lo sfruttamento che decine di migliaia di giovani vivono quotidianamente è inaccettabile. Qualche segnale di attenzione era arrivato, da parte del governo, ma tutto è caduto nel dimenticatoio” ha commentato l’Usb (Unione sindacale di base) all’indomani della morte di Pollini. Dopo mesi di trattative, il confronto intrapreso dal governo sulle tutele da assicurare ai lavoratori 4.0 mostra infatti la corda. L’ennesima speranza frustrata è del 7 novembre scorso, l’ultimo rendez-vous plenario tra le parti. Il tavolo promosso dal Ministero dello sviluppo economico coi sindacati e le principali piattaforme del food delivery (da Just Eat a Deliveroo, da Glovo a Uber Eats, da Social Food a Foodora) non ha dato frutti. Lo stallo appare senza uscita, nonostante Luigi Di Maio ne avesse fatto una delle bandiere programmatiche e delle pietre d’angolo del “cambiamento”, addirittura la sua prima sortita pubblica da neo-ministro. Il capo politico del Movimento 5 Stelle, alle prese col reddito di cittadinanza, sembra aver messo un po’ in secondo piano la causa dei vulnerabili per eccellenza nell’economia dei lavoretti, già stornata, a suo tempo, dal Decreto Dignità. Il traguardo per un accordo complessivo era stato fissato a dicembre. Staremo a vedere. “Il Ministero redigerà una proposta che sia in grado di sintetizzare le diverse posizioni finora emerse, valorizzando come sempre il confronto con i rappresentanti delle aziende, con i rider e con le parti sociali intervenute al tavolo" è questa una delle ultime note ufficiali uscite dal suo dicastero. È irrisolta la necessità di giungere a una soluzione che garantisca un salario orario dignitoso (oggi si viene spesso pagati a consegna), sulla falsariga o meno di quanto prevede il contratto collettivo nazionale della Logistica come vorrebbero Cgil, Cisl e Uil. Manca tuttora un minimo di welfare dedicato: una piena assicurazione Inail, contributi Inps che aprano a un’eventuale indennità di disoccupazione, un monte ore garantito. E poi i diritti di assemblea e una maggiorazione retributiva se si effettuano consegne con la neve o sotto la pioggia, se si lavora di notte e nei festivi. Non dimenticando l’abolizione del ranking: i riders raccontano di uno strano algoritmo “di fedeltà” che regola il flusso delle loro chiamate, anche se le aziende negano. Nel frattempo si procede alla spicciolata. A fine novembre, per esempio, la Regione Piemonte ha approvato a maggioranza in Consiglio regionale un emendamento di Leu per vietare il cottimo nei servizi di consegna a domicilio. Perché, se pagato a prestazione, un tecno-fattorino si sente costretto a marciare il più velocemente possibile e mette a repentaglio la sua stessa vita. Il primo dicembre, nelle principali piazze italiane ed europee, è andata in scena una grande manifestazione di settore. Bologna ha confermato la sua leadership: è nata qui la sigla sindacale più agguerrita (Union Riders), è stata redatta qui la prima proposta collettiva di categoria (o, perché no, “di classe”), la Carta di Bologna. Nella città di Dalla pure la politica si mostra riders-friendly. “Tra un po' arriva la neve, e con questa anche il rischio per la sicurezza dei lavoratori. Il governo ha avviato un dialogo con i riders e le loro piattaforme, ma cosa hanno fatto? Sono passati quattro mesi e siamo ancora in attesa. Senza dimenticare che questo è un tema che, se non fosse stato lanciato da Bologna, non si sarebbe mai aperto" ha detto l’assessore comunale bolognese al lavoro Marco Lombardo, del Pd. Il Comune ha messo a disposizione una sala dove potere attendere gli ordini delle consegne via app senza gelarsi per strada. Lo stesso è avvenuto a Bergamo. “Anche nei settori più sfruttati del mondo del lavoro, anche nelle periferie produttive dove scompaiono i diritti e si afferma la presunta modernità del cottimo, anche laddove tutto sembra perduto, anche lì la lotta pagherà, come ha sempre pagato" ha rilanciato l’Union Riders Bologna, con una punta di ottimismo. Tutto questo in un mercato che perde qualche pezzo. La tedesca (e rosa) Foodora ha deciso infatti di abbandonare la nostra penisola perché “poco redditizia”, troppo difficile. A rilevare le sue attività tricolori sarà la spagnola Glovo, che oltre al cibo trasporta anche altre merci. Il prezzo da pagare potrebbe essere altissimo: rischiano il posto duemila dipendenti, del resto mai assunti formalmente dalla multinazionale. Erano infatti – come accade quasi sempre in quest’ambito – lavoratori autonomi. Collaboratori occasionali, “freelance”. Ma esistono delle differenze. L’inglese Deliveroo assicura un fisso orario lordo (12.80 l’ora) e segue la prassi delle collaborazioni occasionali con ritenuta d’acconto. Foodora (memorabile la frase del suo ceo italiano Gianluca Cocco, che dichiarò: “La nostra azienda è un’opportunità per chi ama andare in bici, guadagnando anche un piccolo stipendio”) inquadra come co.co.co e paga 5 euro lordi l’ora, inclusivi di contributi. Glovo, che l’ha rilevata, prevede la collaborazione occasionale e 2 euro netti a consegna, con un sovrappiù di 60 centesimi per ogni chilometro percorso (e di 5 centesimi per minuto d’attesa al ristorante). La danese Just Eat ha un sistema misto (co.co.co e collaborazione occasionale) e un fisso di 6.50 netti all’ora. E non vi lavorano esclusivamente studenti universitari o “secondo-lavoristi”, ma anche numerosi quarantenni e cinquantenni che non trovano più nient’altro. Lavoro autonomo o subordinato mascherato? Il dibattito resta aperto, ma i tribunali peninsulari hanno sposato al momento la prima linea. Di certo nessuna legge o contratto protegge ancora, come si dovrebbe, questi corrieri gastronomici, né riscatta i loro diritti da inizio Novecento e i loro compensi da fame.
Cibo a domicilio, mentre noi mangiamo i rider sfruttati raccolgono solo briciole. Pioggia o neve, la consegna della cena a casa ordinata tramite app sarà sempre puntuale. Peccato che per i lavoratori, in bici o in motorino, non ci siano tutele. «Siamo pagati a cottimo, senza sostegno per le spese mediche». Questo e altri casi di lavori da incubo nel libro denuncia Italian Job, scrive Maurizio Di Fazio il 19 febbraio 2018 su "L'Espresso". «Non abbiamo l’assicurazione sanitaria, un monte ore settimanale, i contributi per la manutenzione dei mezzi, un’indennità per le condizioni meteo avverse e per i turni festivi, un limite di chilometri per le distanze da percorrere in bicicletta. E se ti becchi una polmonite non hai i soldi per saldare il ticket al pronto soccorso. Il telefonino occorre controllarlo di continuo. L’app ci invia un messaggio con tutti i dettagli, monitora la nostra velocità di marcia. Se ci sfugge il bip della notifica, l’ordinazione va a farsi friggere e con essa il nostro magrissimo compenso. Abbiamo retribuzioni non trasparenti, paghe basse e a cottimo» mi dice un fattorino, o meglio, un fattorino digitale, o meglio ancora un rider, come vengono chiamati oggi. «Chi protegge la nostra incolumità fisica quando a bordo di bici e motorini sgangherati vi portiamo vaschette di cibo caldo a domicilio, grazie alle app del momento?». Che nevichi o piova che Dio la manda, sono sempre lì, sulla strada, puntualissimi. Pedalano con tutta la forza che hanno in corpo per spaccare il secondo, per rispettare il cronogramma fissato per la consegna. A costo anche di passare col semaforo rosso o di rompersi la testa se prendono una buca, se l’asfalto è ghiacciato, se la pioggia offusca il mondo. «Ti racconto un paio di episodi – aggiunge il ragazzo, che preferisce restare anonimo -. Una volta la piattaforma per cui lavoro, venuta a conoscenza di un incidente, ha messo in discussione il fatto di dover pagare l’intero turno al rider che si era fatto male a metà servizio, e gli ha tolto i turni già programmati per lui quella settimana, senza fornirgli nessun tipo di sostegno per le spese mediche. Un’altra volta un mio collega si è ammalato e ha informato i nostri superiori di non poter svolgere il suo turno perché a letto con l’influenza. Vuoi sapere cosa gli hanno risposto? Che se fosse successo nuovamente ‘avrebbero riconsiderato il loro rapporto lavorativo’». Un nuovo proletariato trasversale, tra i venti e i quarant’anni, s’avanza, zaino termico colorato e gigante in spalla, alimentato da studenti universitari, stranieri ed esodati dal mercato del lavoro tradizionale. Senza più diritti né tutele, senza possibilità di assunzione. No future, come divinavano i punk. Sottopagati on demand. A cottimo. Pagandosi da soli il mezzo a due ruote, la benzina e le spese di manutenzione. Sobbarcandosi persino certi rischi di impresa: se la merce che trasportano viene persa o danneggiata, ne rispondono loro. Con la spada di Damocle del tetto dei cinquemila euro sulla ritenuta d’acconto con prestazione occasionale e il ricatto dell’apertura di una partita iva che non ci si può permettere. E molti, allora, mollano. Ammesso che non si tirino fuori per cause di ulteriore forza maggiore: un trauma fisico dopo una caduta, o morale dopo un’umiliazione. Logistica in tempo reale. Eat in time. Si organizzano su gruppi e pagine Facebook dedicate, oppure via WhatsApp, dove vengono pure «sloggati», cioè licenziati direttamente. Sono retribuiti su base oraria, quattro o cinque euro all’ora, o con due, tre, quattro euro a consegna. Le flotte vengono rinnovate a intervalli regolari, il turn over è la regola, e se a fine mese non si raggiunge una soglia minima di una quarantina di consegne l’accredito dello «stipendio» è rimandato al mese successivo. «Caporalato digitale», l’ha definito Laura Boldrini. In effetti, il guadagno dei lavoratori della nuova era è molto simile a quello dei dannati dei campi di pomodori: pochi euro l’ora. I vecchi pony express se la passavano decisamente meglio. In Germania vanno sotto il nome di minijob, ma da quelle parti, si sa, il welfare funziona e i cittadini partono da un reddito minimo garantito di inclusione, una base solida per vivere. È la gig economy, l’economia dei lavoretti, quelli che erano un secondo lavoro ma adesso sono tutto, spesso il massimo a cui si possa ambire, il non plus ultra. Quando ordiniamo una porzione di spaghetti di soia, del sushi, un kebab, una delizia vegana o una ricetta etnica a scelta, pensiamo per un momento a loro, che per guadagnare cinquecento euro lordi devono pedalare l’equivalente di due giri d’Italia e l’acido lattico in esubero è soltanto l’ultimo dei problemi. Addio volantini stropicciati, numeri fissi occupati, telefoni mobili inesistenti. Ora ordini e paghi in una manciata di secondi con lo smartphone, dal tuo ristorante preferito o più vicino, e dopo mezz’ora ti vedrai recapitato a casa o in ufficio il piatto sfornato poco prima. Alla piattaforma che fa da tramite tra il ristorante e il consumatore andrà una bella commissione di percentuale. Al fattorino che ha effettuato la consegna le briciole. Un business in straordinaria espansione.
In Italia i signori del food delivery sono tre app.
JustEat. Il motto è eloquente: «Ogni desiderio è servito», ovunque tu sia. Un gruppo fondato nel 2001 in Danimarca da Jesper Buch e che ha a Londra la sua sede centrale. È presente in tredici nazioni, dall’Europa al Canada passando per l’India, con oltre trentaseimila ristoranti integrati nel suo sistema.
Deliveroo. Il logo è un canguro. Lo slogan: «I ristoranti che ami, a domicilio in 32 minuti». Lanciata a Londra nel 2013, è già un’azienda da due miliardi di dollari.
Foodora. Tedesca di Berlino, è attiva in dieci Paesi dal 2014, ma la denominazione corrente risale all’anno seguente. Può attingere da un portfolio di novemila ristoranti selezionati. Il suo colore ufficiale è il rosa.
Per Gianluca Cocco, condirettore di Foodora Italia, la sua azienda sarebbe «un’opportunità per chi ama andare in bici, guadagnando anche un piccolo stipendio». Tutta salute, insomma, serotonina e muscoli tonici, e pedalando pedalando puoi anche raggranellare la cifra sufficiente per offrire una coppetta di gelato con una pallina alla tua morosa. Più felici di così…Racconta un altro rider in giubbotto smanicato, city bike e lucette led: «Le aziende continuano a chiamarlo lavoretto. Se sarai disponibile e parecchio veloce, consegnerai tanto e salirai nel ranking, perché l’algoritmo ne tiene conto. Ma se avrai problemi, bucherai una ruota, ti ammalerai, partirai per le vacanze o sospenderai per un po’ la collaborazione, allora perderai posizioni su posizioni e la possibilità di intercettare altri slot orari. È la dura legge del food delivery». A novembre la neve ha imbiancato e reso insicure le strade di Bologna. Contestualmente ha mosso i suoi primi passi Riders Union Bologna, un’associazione che si batte per la salvaguardia dei diritti dei lavoratori del pasto caldo a domicilio. Ho parlato con uno dei riders che animano la sigla. «Durante la nevicata del 13 novembre, nonostante il meteo a tinte fosche, le compagnie di food delivery ci hanno chiesto di lavorare. Molti di noi si sono però rifiutati, costringendole a sospendere il servizio. È stato il primo sciopero della nostra categoria a Bologna». Le rivendicazioni promosse sono tante. «Il minimo comun denominatore è il contratto, l’iniquità di bollare il nostro come un lavoro di serie B. Per molti è la prima fonte di reddito. Alla faccia dei lavoretti». La formula alchemica è sempre la stessa: stipulare rapporti di collaborazione basati su prestazione occasionale. «In verità i turni e le modalità di consegna sono generati dall’azienda e dai suoi algoritmi. Un gran numero di noi lavora per la medesima società da anni». Contro il cinismo delle multinazionali delle pietanze viaggianti, si staglia una consapevolezza nuova. «Sfrecciamo dalla mattina alla sera con i nostri loghi bene in vista, ma i nostri diritti e le nostre tutele sono invisibili, come un contratto decente e l’assicurazione per gli infortuni. Siamo lavoratori e lavoratrici, non ingranaggi di un meccanismo che non dovrebbe fermarsi davanti a niente e a nessuno. Mai più consegne senza diritti». Nel 2015 il food delivery valeva centodieci miliardi di dollari, pari al 30-40 per cento del business del cibo in generale. E sono trascorsi tre anni. Certo, l’Italia non è l’America, il Giappone o la Corea del Sud, dove ormai molte pieghe del nostro quotidiano (da una visita specialistica a distanza all’acquisto, con recapito in tempo reale, di un proiettore 3D di ologrammi con risate pre-registrate delle sitcom vintage) vivono soltanto in rete, per mezzo di device tecnologici sempre più onnipotenti. Le suonerie di notifica? I nuovi bioritmi. Ma i fattorini digitali non sono replicanti alla Blade Runner, e nemmeno droni fatti di legno, plastica, alluminio, carbonio, batterie ai polimeri di litio, antenne GPS e accelerometri. Restiamo umani. Questo articolo è un estratto del libro di Maurizio Di Fazio "Italian Job" (Sperling & Kupfer)
LA GIUNGLA DEGLI ANIMATORI TURISTICI.
Truffe, stage a pagamento, orari e salari da schiavi: ecco la giungla degli animatori turistici. Ogni estate migliaia di ragazzi si mettono al lavoro negli hotel e nei villaggi per rendere uniche le vacanze degli italiani. Ma crescono i casi di sfruttamento, spesso organizzati da intermediari senza scrupoli, scrive Maurizio Di Fazio il 23 aprile 2018 su su "L'Espresso". Generalmente hanno dai 18 ai 35 anni, ma non mancano i quarantenni e i cinquantenni. Si occupano del nostro tempo libero all’interno di villaggi, hotel, campeggi, resort, crociere. Vestono i panni indifferentemente del coreografo, del ballerino, del maestro di tiro con l’arco e di yoga, dello scenografo, del dj. Quasi sempre sono inquadrati nel contratto nazionale per il personale artistico nei pubblici esercizi. Lavoratori stagionali dello spettacolo, insomma. Operativi dalle 9 del mattino alla sera tardi, con l’obbligo del sorriso e del buon umore. L’annuncio-standard, la cartolina-precetto che li riguarda è, di solito, questa, e viene spammata a cavallo tra il crepuscolo dell’inverno e l’inizio della primavera. Sognando di diventare Fiorello rispondono in decine di migliaia. «Selezioniamo animatori turistici con o senza esperienza, con doti relazionali e artistiche, spigliati e dinamici, per la prossima stagione estiva. Previsto inserimento in strutture turistiche in Italia e all’estero. Inviaci il tuo curriculum, cosa aspetti!». Ma a volte, e non poche volte, l’epilogo è differente. Racconta Anna Olivieri, che vive a La Spezia: «Sono la mamma di uno dei 140 ragazzi truffati da un'agenzia di animatori di villaggi turistici. Mio figlio Gianluca, nel 2012, ha risposto a un annuncio pubblicato da quest’agenzia che cercava animatori per i loro villaggi. È così partito per Milano per un colloquio, seguito da un weekend in un albergo romagnolo dove ha svolto prove di ballo e recitazione per poi essere reclutato, con un contratto "scandaloso", in un villaggio in Basilicata. 300 euro al mese, più vitto e alloggio. Ha cominciato a fine maggio: lui e gli altri animatori hanno lavorato 12 ore al giorno per pulire la struttura, rifare il teatro, imbiancare le pareti, E quando sono arrivati i villeggianti ha iniziato a fare il lavoro che gli era stato assegnato: sempre 12 ore al giorno, mezz’ora per i pasti e una giornata a settimana di riposo». Infine, l’amara scoperta: «Nel contratto era previsto il pagamento dell'intero periodo di lavoro (4 mesi) dopo 30/60 giorni dal rientro a casa. A distanza di tre anni, l'agenzia ha liquidato giusto la metà dell'importo dovuto a mio figlio, e solo a qualche decina di ragazzi...». L’appello online di Anna è stato suffragato dalla rivelazione di numerosi casi analoghi. Tutti j’accuse firmati con nome e cognome autentici, ma vi omettiamo le generalità complete. «Lavoro da vent’anni in questo mondo e vorrei che tornasse quello di una volta» scrive Paolo. «Anch'io 15 anni fa sono stata sfruttata in un villaggio in Sardegna. Rimasi colpita dalla mancanza di rispetto per i lavoratori. Volevano farmi pagare pure la divisa, ci misero a dormire in una topaia» dice Jussara. «Da marito di un’ex-animatrice, so per certo che esistono aziende serie, semiserie e truffaldine. Queste ultime devono essere cacciate dal mercato, perché alterano la concorrenza proponendo prezzi stracciati fondati sullo sfruttamento dei ragazzi» aggiunge Marco. E Mario: «Lavoro nell’animazione e nello spettacolo da 10 anni, purtroppo è sempre andata così. Fa piacere che qualcuno finalmente faccia qualcosa, protesti, perché sì, sarà pure il lavoro più bello del mondo, ma è pur sempre un lavoro. Un duro lavoro». Con uno stipendio da pionieri della gig economy. Uno dei principali collettori del disagio che cova sotto le bandane e i giochi-aperitivo è la pagina Facebook Truffe in animazione. «Il problema è che alcune agenzie, come vero business, organizzano gli stage, con cui guadagnano in nero sui ragazzi. E alla fine saranno presi in servizio giusto 2 o 3 tra i 150 che hanno finanziato il corso. Una vergogna» si legge in un post pubblicato di recente da uno degli amministratori. Per legge, questi stage dovrebbero essere gratuiti, ma spesso costano un occhio della testa. In un hotel di Rimini, a gennaio di quest’anno, sono piombati i carabinieri con tre auto di servizio. Era in corso una sessione di “formazione professionale per animatori in villaggi turistici”. Nella hall 32 aspiranti provenienti dall’intera penisola. «Ci spillano soldi millantando posti di lavoro inesistenti» hanno dichiarato amaramente dopo il blitz, prima di ripartire per le terre di residenza, magari lontanissime come la Calabria e la Sicilia. Niente più vacanze-lavoro (o lavori forzati estivi) per loro.
I RIGGER. MONTATORI DI PALCHI SENZA TUTELE E SICUREZZA.
"Noi, montatori dei palchi, rischiamo la vita per i concerti delle star senza tutele e sicurezza". I rigger al lavoro sui grandi spettacoli sono gli invisibili dello showbiz. Alcuni anni fa, in seguito alla morte di due di loro, venne fatta una legge. Ma la loro condizione è cambiata molto poco, scrive Maurizio Di Fazio il 13 febbraio 2018 su su "L'Espresso". Pensi alle luci della ribalta, ai biglietti costosissimi che vanno in fumo in pochissime ore. Alle prime, ai grandi show. Quasi nessuno si sofferma a pensare a chi rende possibile tutto ciò, questi grandi sogni a occhi aperti. Le maestranze degli spettacoli dal vivo sono molteplici, ma le figure nevralgiche sono gli allestitori e smontatori dei palchi dei concerti e delle kermesse negli stadi, nelle arene al chiuso e all’aperto, nei palazzetti. I più suggestivi e borderline di tutti sono i rigger, che volteggiano e quasi volano tra tralicci e ponteggi, ridde di cavi dell’alta tensione e corde, luci e dispositivi audio. Sospesi nel nulla, raggiungono altezze vertiginose, 52 metri per un concerto di Vasco Rossi. Lavorano sotto un regime di massima urgenza ed emergenza dalla mattina alla notte inoltrata dell’evento. Solo che ogni tanto questi mastodonti provvisori crollano e ci scappa il morto. È successo due volte pochi anni fa: Matteo Armelini, 31 anni, travolto dal palco che stava allestendo per il concerto di Laura Pausini a Reggio Calabria; e Francesco Pinna, prima di un live di Jovanotti. Altre volte si sono verificati infortuni gravi, e lo stillicidio è proseguito in questi ultimi anni. Luca (il nome di fantasia, ma tutto il resto è assolutamente vero) è uno dei più richiesti rigger e lavoratori a 360 gradi dei backstage del mondo dello spettacolo. Ha lavorato per il Blasco, Biagio Antonacci, Emma, Elisa, Carmen Consoli, Negramaro, J-Ax&Fedez e «tanti altri che nemmeno ricordo». Ricopre vari ruoli operativi, ma «la maggior parte del tempo sono attivo come tecnico luci». Oggi ha 26 anni, eppure è in questo mondo «da quando ne avevo 17». La paura è un convitato di pietra costante: «Ma se avessi una paura patologica di fare quello che faccio, avrei sbagliato mestiere. Bisogna sempre stare molto attenti a come ci si muove. Ci sono delle cose che vengono rispettate, altre che non lo sono affatto. La maggior parte delle norme di sicurezza adottate nello spettacolo sono state concepite per l'edilizia, e richiedono un tempo e delle spese quasi mai disponibili». Nel recente passato c’è scappato il morto: «Tutti gli incidenti più noti sono stati provocati da errori di progettazione. Chi progetta, chi commissiona e chi ci guadagna nutre ben poco interesse per chi lavora, e quindi a rimetterci siamo sempre noi operai. Incidenti più o meno gravi capitano spesso. Anche quest'anno abbiamo sfiorato il morto quando è cascata una putrella che sosteneva la copertura del palco di Renga, sfondandolo, a poca distanza da un tecnico che era lì a lavorare. Il concerto, la sera, si è svolto lo stesso». Ma la sicurezza è migliorata negli ultimi tempi? «Le cose continuano, salvo poche eccezioni, a essere esattamente come erano prima. Gli eventi si svolgono tuttora in posti inagibili o inadatti. Per una maggiore sicurezza nel settore, bisognerebbe fare investimenti, ma questo non interessa a chi possiede i capitali. Proliferano ingegneri che danno il via libera a strutture che conoscono solo superficialmente, e organizzatori che effettuano modifiche strutturali in extremis, dopo che la commissione di sicurezza ha dato l'ok». E poi c'è il tema delle coop. «La mano d'opera dello showbiz si fonda sulle cooperative. Ne esistono di grandi e di piccole, poi ci sono quelle che fanno capo alla stessa azienda per la quale fatturano. Ci sono aziende che invece di assumere direttamente il proprio personale, lo fanno cooptare dalla cooperativa di famiglia o di fiducia. Ci sono aziende che hanno licenziato i propri assunti per farli iscrivere nella coop X, che offre tariffe vantaggiose e agevolazioni sui pagamenti». E sui turni di lavoro la situazione non migliora, anzi. «Erano e restano lunghissimi. I rigger possono lavorare dall’alba a notte quasi ininterrottamente. E i tecnici sono costretti a viaggiare tra uno smontaggio e un montaggio, si chiama “Back to Back”. Le date devono essere il più ravvicinate possibile perché ogni giorno che i mezzi e i materiali stanno fuori, lievitano i costi». Ma se un impianto non è sicuro, lo spettacolo non ha più luogo? «Occorre un problema di sicurezza clamoroso per fermare lo show. Sennò ci si mette una pezza, o una benda davanti agli occhi. The show must go on». Eppure sono arrivate nuove norme di regolamentazione nel settore: il “decreto palchi e fiere” del luglio 2014 ha colmato alcune lacune e incertezze normative sulle attività di montaggio e smontaggio dei palchi. Nella stessa direzione è andata una circolare del dicembre 2014 del Ministero del lavoro. Il 6 novembre del 2014 era stato invece firmato il primo contratto collettivo nazionale di lavoro per gli artisti, tecnici e amministrativi dipendenti da società cooperative e imprese sociali nel settore della produzione culturale e dello spettacolo. «Non ho notato nessuna differenza, a parte che sulla busta paga: invece di leggere metalmeccanico, leggo, adesso, “tecnico dello spettacolo”. Per il resto imperversa un mercato al ribasso, e nessuna tutela tangibile», spiega Luca. Che aggiunge: «Le stelle arrivano quando è già tutto pronto per loro. Non ho mai avuto la sensazione o notizia che si interessassero degli operai, della nostra sicurezza. Alcune star non salutano nemmeno, non ti ci puoi avvicinare neanche per sbaglio; anzi, devi sospendere tutto quello che stai facendo se ci sono loro in prossimità».
I CAPITANI DELLE NAVI. PARAFULMINI DEI GUAI.
"Noi, capitani delle navi, altro che casta di ricchi: siamo solo parafulmini per i guai". "A bordo dobbiamo diventare contemporaneamente medici, psicologi, notai, poliziotti. E tanti di noi finiscono dallo psicologo per lo stress", scrive Maurizio Di Fazio il 10 agosto 2017 2018 su su "L'Espresso". Alessandro Mirabile ha 42 anni, ma è già un comandante internazionale di lungo corso, specialmente di navi di grossa stazza. Negli ultimi tempi ha guidato i leviatani del mare della Saudi Aramco, la più importante compagnia petrolifera (saudita) del pianeta: i suoi comandanti sono i meglio pagati al mondo. Prima aveva lavorato per società americane, inglesi e scozzesi che gli hanno affidato le loro ammiraglie «anche se insieme a greci e spagnoli siamo considerati comandanti di serie b, quasi quanto i cinesi e gli indiani»; ed è stato anche sul ponte di comando, tornando in Italia, dello yacht di Luciano Benetton. La sua carriera ha avuto inizio vent’anni fa come allievo ufficiale di coperta: ad appassionarlo, la voglia di viaggiare e le storie dei grandi navigatori. Nella sua Palermo trovava tutte le porte sbarrate e così ha cominciato a girare per il globo. «Quando terminava il contratto, ovunque ci trovassimo, io chiedevo all’armatore di non pagarmi il biglietto aereo di ritorno in modo tale da restare ancora qualche mese in zona». Per anni Alessandro ha guadagnato più del triplo dei suoi omologhi italiani. Secondo lui la sua professione starebbe perdendo la bussola, e non soltanto per l’onda lunga dell’affondamento della Costa Concordia e la condanna, prima morale e poi giudiziaria, del comandante Schettino. Il tutto contestualizzato in un settore, quello dell’industria marittima, che non si scrolla ancora di dosso gli effetti della crisi economica degli anni passati. «È un luogo comune che noi comandanti navighiamo nell’oro» premette Mirabile. Lavorare all’estero o restare in patria? «Nel Belpaese i comandanti di nave vengono retribuiti esclusivamente quando sono in servizio: in più ci tartassano. Nelle nazioni anglosassoni siamo pagati invece tutto l’anno, a prescindere dal tempo effettivo che si spende a bordo. Vale il principio di esclusiva. Da quelle parti lavoravo sei mesi e gli altri erano di vacanza, guadagnando tre volte più che in Italia. Da noi i comandanti di traghetti e aliscafi fanno una vitaccia, prendono duemila euro al mese e sono sempre in acqua. Ho degli amici, con moglie e figli, che sono finiti dallo psicologo. Due o tre tratte al giorno: nulla di diverso da un conducente di autobus, coi pericoli del mare e l’inesorabile erosione della vita privata e affettiva. Altro che casta». Il nuovo contratto collettivo nazionale dei comandanti di navi da crociera, da carico e di traghetti superiori ai 3 mila Tsl (tonnellate di stazza lorda) prevede un minimo contrattuale di 3.280 euro. Un comandante da diporto percepisce però molto meno: poco più di 1.600 euro. «Con il contratto di arruolamento a viaggio il comandante viene imbarcato per il compimento di uno o più viaggi. Ogni viaggio non può avere una durata superiore a quattro mesi, riducibile o prorogabile da parte del datore di lavoro di trenta giorni. Il rapporto derivante dal contratto di arruolamento a viaggio inizia al momento dell’imbarco e si estingue al momento dello sbarco» si legge nell’accordo. Significativo anche l’articolo 5 sull’orario di lavoro: «il comandante non è soggetto a uno specifico orario di lavoro e pertanto allo stesso non spetta il compenso per lavoro straordinario e il disagio derivante da una eventuale prolungata prestazione è comunque già compensato dal trattamento economico globale complessivo stabilito nel presente Ccnl». I comandanti, capri espiatori e senza diritto di voto. «Serviamo solo in caso di guai. Se avvengono incidenti, paghiamo per tutti. Siamo in sostanza dei parafulmini. E pensare che a bordo dobbiamo diventare contemporaneamente medici, psicologi, notai, poliziotti. Non basta un papiro per descrivere le nostre mansioni. A volte non ci rispetta nemmeno la capitaneria, nonostante i suoi uomini se lo sognino il nostro vissuto in mezzo agli oceani, tra tempeste e avversità di ogni tipo» il j’accuse del comandante Mirabile. Che segnala un'altra curiosità, ovvero l'impossibilità di esercitare il diritto di voto. «La nostra categoria è così svilita anche perché non abbiamo mai ottenuto il diritto al voto. Per quale ragione ci è vietato raccogliere i suffragi della flotta e consegnarli al consolato per il rinnovo del Parlamento o le Europee? I marittimi non hanno diritto di voto e i politici ci ignorano bellamente. Eppure saremmo noi gli ambasciatori dell’Italia nel mondo, come stabilisce il concetto della nave-territorio espresso dal diritto internazionale…». Sicurezza a bordo. Negli ultimi tempi, dopo gli incidenti dell’Erika, della Prestige e della Costa Concordia al Giglio, varie direttive e regolamenti dell’Unione europea hanno in teoria migliorato le norme di sicurezza della navigazione marittima. L'Organizzazione marittima internazionale (Omi) stabilisce norme internazionali di sicurezza uniformi. Ma poi la palla passa sempre alle legislazioni nazionali. Sono sicure le grandi imbarcazioni che solcano i nostri mari? Il comandante Alessandro Mirabile avanza sospetti: «Le regole prescrivono che ogni nave deve effettuare un tot di esercitazioni settimanali o mensili. Ma sta alla deontologia del comandante e del primo ufficiale il compito di tradurle in pratica. Sono stato su navi su cui si facevano veramente e su altre dove non si sono mai fatte. C’è un’ipocrisia pazzesca. Ad alcuni interessa ben poco della salvaguardia della vita in mare, tanto le navi sono assicurate…».
VENDITORE DI AUTO: UN INCUBO.
Altro che Yuppie, fare il venditore di auto oggi è un incubo. Festivi non pagati, ferie cancellate, straordinari regalati: i dipendenti dell'automotive sempre più spesso schiacciati tra le necessità dei brand a quattro ruote e le furberie dei proprietari delle concessionarie, scrive Maurizio Di Fazio il 15 gennaio 2018 su "L'Espresso". Eleganti, seduti dietro una scrivania splendente, auto da mille e una notte in comodato d’uso permanente: nell’immaginario collettivo i venditori delle concessionarie sono cristallizzati così, ultimi tra gli yuppie. E invece oggi sono spesso senza contratto, a partita Iva, inquadrati come agenti Enasarco ma senza autonomia, con stipendi che tra fisso e provvigioni raramente si avvicinano ai mille euro netti. «Le case automobilistiche parlano tanto di qualità, dell’esperienza unica da regalare al cliente. Ma non si chiedono in che condizione versino i diritti di chi rende possibile tutto questo. Noi, venditori e responsabili delle concessionarie», spiega Matteo, nome di fantasia, nel settore da quindici anni e consulente alla vendite di un noto marchio del lusso tedesco. Matteo gestisce i clienti a tutto tondo, anche dopo l’acquisto, e il quadro che fa di questo settore che impiega quasi 200mila persone nella penisola è molto poco radioso e "glamour". «Si lavora anche 10 ore al giorno, perché se il cliente si presenta alle 12.50 e la trattativa finisce alle 14.30, tu hai lavorato un’ora e mezzo in più ma nessuno ti riconoscerà questo extra. Per non dire dei weekend lavorativi, dei giorni festivi e delle feste comandate sempre soggette all’incognita-acquirente: se qualcuno vuole venire a vedere una macchina in sede, che sia il 25 aprile o la ricorrenza del patrono cittadino, che fai, non corri ad aprirgli gli uffici? E perciò lavori gratis». Sì, perché c'è anche la spina dei frequentissimi open weekend, i fine settimana in cui i saloni di auto sono appannaggio della clientela potenzialmente pagante e di semplici curiosi. «Gli open weekend sono decisi direttamente dal brand e dai vertici, soprattutto quando si tratta di presentare un nuovo modello, ed è impossibile non uniformarsi alla volontà paracadutata dall’alto, lasciando la saracinesca abbassata. Ci sono concessionarie che non chiudono mai, che stanno aperte tutto il mese». Il 31 dicembre di ogni anno inoltre, ci racconta ancora questo veterano delle concessionarie: «Spariscono le ferie non godute, e senza nessun rimborso». Un reset totale, basato su escamotage come questi: «L’azienda decide di star chiusa il sabato estivo? Allora ti toglie di soppiatto un giorno (pieno) di ferie, benché il sabato si lavori mezza giornata. Sommando tutte queste sottrazioni arbitrarie, ci si ritrova a fine anno senza ferie». L’ascensore socio-economico dei lavoratori di base dell’automotive è bloccato, come in molti altri settori: «Il mio stipendio è sempre quello, circa 1.300 euro perché ho il contratto nazionale. Non si bada alla tua storia, ma alla tua età e al tuo costo, se a buon mercato è molto meglio». Capitolo provvigioni. «Scattano solo al raggiungimento degli obiettivi. Ma questi traguardi non risultano definiti in nessun accordo, e noi siamo contrattualizzati per provare a vendere. E così tu vendi, e alla metà del mese ti comunicano che devi piazzarne un tot in supplemento, pena la perdita del premio, del monte-provvigioni integrale. Oppure sei riuscito brillantemente a vendere una berlina o un fuoristrada, ma non è passato il finanziamento e la tua provvigione è rimasta un’astrazione». Machiavellico il sistema escogitato per contenere le spese risparmiando sul lavoro. «Le case automobilistiche erogano delle provvigioni, già tassate, ai venditori. Ma cosa si sono inventati? È la concessionaria che le incamera, per poi inserirle come importo figurato in busta paga. Ed è qui che si nasconde il dettaglio diabolico, perché quei soldi a noi consulenti alle vendite non arriveranno mai. A fine trimestre, il concessionario manda alla casa automobilistica una manleva a firma falsa che autorizza la stessa finanziaria a non erogare il 100% sul codice venditore, ma una minima parte, in certi casi il 10%. Il resto della somma finisce nelle tasche del titolare o di un suo parente».
LA DURA VITA DEI CASSIERI NOTTURNI.
Soli e con meno diritti, la dura vita dei cassieri notturni. Riempire il carrello dalla mezzanotte alle sei del mattino è diventata un’esperienza possibile. Ma le condizioni contrattuali degli addetti sono molto peggiorative rispetto ai turni diurni, scrive Maurizio Di Fazio il 15 maggio 2017 su "L'Espresso". Oltre mille (per la precisione 1071) punti vendita, tra express, market e iper. Circa 20 mila collaboratori. Carrefour è il leader europeo nella grande distribuzione, e il mercato italiano ne è la locomotiva del sud Europa. C’è però un aspetto non ancora illuminato a sufficienza. Da due anni, il colosso francese ha inaugurato anche nella nostra penisola l’apertura continuata sulle ventiquattr'ore dei suoi supermercati. Le prime aperture nelle metropoli e nei grandi centri urbani, seguiti poi da diverse città di provincia. Riempire il carrello dalla mezzanotte alle sei del mattino è diventata un’esperienza possibile. “È nata come una semplice sperimentazione ma poi, visto il successo, è diventata parte del nostro modello operativo di business. Anche perché abbiamo riscontrato ripercussioni positive sulla fidelizzazione della nostra stessa clientela diurna – spiega all’Espresso Carrefour Italia -. La logica dell’h24 è di offrire un servizio soprattutto a quelle persone costrette a fare la spesa di notte: infermieri, poliziotti e carabinieri, operai a fine turno, chi esce tardi dall’ufficio… C’è poi il discorso stagionale: prendiamo i nostri market nelle località turistiche, che si accendono fino all’alba soltanto d’estate”. Ma chi sono questi lavoratori notturni? Quali le loro condizioni contrattuali? Sappiamo che sono per lo più giovani, qualche centinaio in tutto, due o tre per punto vendita più la guarda giurata; e che dovrebbero essere precettati su base volontaria, tra gli assunti a tempo indeterminato nel gruppo (ci dicono sempre da Carrefour), ma mancando candidature spontanee si ricorre massicciamente alle agenzie di somministrazione, ai contratti atipici, ai voucher finché durano. Alla flessibilità. Agli esterni. Francesco Iacovone della Usb Commercio nazionale è tra i pochi sindacalisti a potersi fregiare di una conoscenza diretta del lavoro by night nei supermarket della multinazionale francese. Qualche mese fa ha organizzato dei “blitz” pacifici all’interno di alcuni Carrefour notturni: “Abbiamo incontrato i nuovi schiavi contemporanei, col loro spezzatino contrattuale, e di notte il numero degli stranieri al lavoro alla cassa o in corsia si innalza sensibilmente – racconta all’Espresso -. Abbiamo visto supermercati con corsie immense ma sguarnite di clienti. La luce era forte, innaturale e fredda; la musica in radiodiffusione suonava per tenere svegli gli addetti alle casse. L’eco dei ronzii dei frigoriferi veniva amplificata dal vuoto. Fuori i negozi solo la vigilanza e la Polizia, allertata dal nostro tour di solidarietà. Abbiamo incontrato pochi addetti alle vendite, a contratto quasi sempre interinale e molti di questi sono stati timorosi e reticenti, hanno abbassato la testa. Avevano paura”. Il turno 24/6, che nessun italiano vuole fare, viene svolto per esempio, da filippini e “le cooperative, che coprono per larga parte il lavoro notturno, pagano poco e male. Al nostro sindacato sono venute a bussare delle interinali che hanno ricevuto il benservito dopo aver sgobbato per dieci anni in Carrefour” aggiunge Iacovone. A fine anno verranno meno i voucher: “Avverrà nella forma, ma non nella sostanza, e tutte le altre forme contrattuali atipiche esistenti trarranno sempre più forza a danno dell’occupazione diretta e a tempo indeterminato” preconizza il sindacalista. Difficile instaurare una qualsiasi forma di dialogo con questi lavoratori che si guadagnano il pane quando noi ci rigiriamo sotto le coperte: “Sono preoccupati, parlano poco. Si muovono con circospezione, non si organizzano, a volte non conoscono nemmeno la nostra lingua”. Esistono pericoli per la loro salute? “Lavorare di notte fa male a prescindere. Lavorare in quelle condizioni fa male ancora di più”. C’è chi sostiene che il lavoro di notte in un supermercato costituisca una ghiotta opportunità di nuova occupazione per i lavoratori, piuttosto che l’ultima spirale perversa imboccata dal proletariato 2.0. “Chi afferma questo mente. Di notte lavorano uomini e donne senza diritti e con scarso salario, che svolgono le stesse mansioni dei loro colleghi diurni, ma con meno garanzie e uno stipendio più basso”. Il commercio a mo’ di specchio del mondo del lavoro contemporaneo: “Per sua natura, il commercio è alimentato da una forza lavoro molto frammentata e difficilmente organizzabile. Per questo molte delle destrutturazioni contrattuali vengono testate proprio su questi lavoratori, per poi essere estese a tutte le altre categorie. Un laboratorio di precarietà e cattiva occupazione” conclude Francesco Iacovone. “Le cooperative ci forniscono gli scaffalisti, notturni o diurni che siano. Non servono a far funzionare l’apertura 24 ore: per quella, ci rivolgiamo alle agenzie di somministrazione del lavoro - replicano da Carrefour -. L’identikit del nostro lavoratore notturno? Studenti che arrotondano, disoccupati, chi cerca un’occupazione saltuaria”. E i paventati problemi di sicurezza sul posto di lavoro? “No, perché c’è la security e dopo le 22 o 23 non somministriamo più alcolici”. Nel libro “24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno”, Jonathan Crary ha scritto che ormai pure il sonno, l'unica condizione naturale superstite sopravvissuta al capitalismo, è in via di estinzione. Secondo Carrefour, “di certo la nostra società sta cambiando, i turni, i ritmi, le dinamiche familiari si stanno trasformando. E l’e-commerce avanza. Alla fine, la nostra non è altro che una risposta fisica alla possibilità che il commercio elettronico ti dà di fare shopping 24 ore al giorno”.
L'ALTRO LATO DEL MONDO CONVENIENZA.
Mondo Convenienza, ma a quale prezzo: l'altro lato del colosso del mobile. Straordinari obbligatori, perdita dei benefici di anzianità di servizio, mai un riposo nei giorni festivi e stipendi ridotti. Le testimonianze dei lavoratori dell'azienda di arredamento, scrive Maurizio Di Fazio il 11 dicembre 2017 su "L'Espresso". Parecchie aziende italiane della grande distribuzione organizzata di mobili e arredamento sono state spazzate via, o pesantemente ridimensionate, dal ciclone Ikea. Resiste invece, con una quota importante di mercato e magazzini sparsi in quasi tutt’Italia, Mondo Convenienza. Era il 1985 “quando Giovan Battista Carosi, il futuro fondatore, si trasferì da Viterbo a Civitavecchia per lavorare come commesso in un negozio di arredamento. Poco dopo è iniziata l'avventura di Mondo Convenienza” si legge sul sito Internet, dove non mancano richiami ai sacri principi aziendali. Dalla lealtà, “un valore che ispira l'agire quotidiano di ogni nostro dipendente, sia nei confronti dei colleghi che verso il cliente” al rispetto, “verso i fornitori, il loro lavoro e la loro competenza. Rispetto per i dipendenti, il loro impegno e la loro professionalità. E soprattutto il rispetto verso il cliente”. Ma il punto di vista di una parte non trascurabile dei lavoratori è diverso. Ultimamente se n’è parlato anche a Report, che ha messo sotto la lente di ingrandimento l’ultimo fenomeno in casa Mondo Convenienza: quest’anno i suoi addetti al trasporto e al montaggio si sono visti trasformare il contratto dalla categoria “trasporti-logistica” a quella “multiservizi-pulizie”. Con conseguente cambio in corsa della cooperativa subappaltante di riferimento. Questo significa, protestano i sindacati, 300 euro in meno di stipendio. Un meno venti per cento in busta paga. “Ecco spiegato lo sconto fisso del 22 per cento sui mobili” c’è chi insinua, coincidenze numeriche alla mano. «Mondo Convenienza conferma che per tali servizi, così come prassi per gli operatori del settore del mobile, si avvale di fornitori esterni» – dichiara all’Espresso il loro ufficio stampa - «I servizi di trasporto e montaggio vengono affidati in appalto. Dal negozio a casa tua, il servizio è fornito da terzi per conto di Mondo Convenienza, ma è normale che sia così». Ed è nata una pagina Facebook che funge da tazebao delle rivendicazioni e delle doglianze dei dipendenti. Il nome, dolente e ironico, è “Mondo sofferenza”. Il sottotitolo fa il verso allo slogan ufficiale: “qual è il prezzo della convenienza?”. Un florilegio di immagini emblematiche (come quella in cui si vede un gruppo di trasportatori caricare e scaricare a mano mobili pesanti decine di chili, “altro che l’uso di carrelli elevatori elettrici, altrimenti come si potrebbero fare sconti ai clienti?”), accuse trasversali e meme “di classe” (“sfruttamento trasversale e taglio dei diritti”). Francesca Ferone è di Roma, ha 39 anni e ha lavorato per Mondo Convenienza dal primo settembre del 2004 al 22 settembre del 2015, prima di essere licenziata “per avere risposto male al direttore. Ma non è vero”. La decisione finale sul suo reintegro spetterà alla Cassazione. Aveva, dal 2010, un contratto part time a 24 ore, “ma con gli straordinari obbligatori”. Prima lavorava 30, 35 ore a settimana. Nel reparto ordini o alla cassa, “è tutto intercambiabile. E per mesi ho vinto il premio aziendale come miglior cassiera”. Francesca ha girato diversi punti vendita: Roma-Pontina, Roma-Casilina, Pescara, Voghera. “Ogni volta firmavo le dimissioni e venivo riassunta nella nuova filiale, con la perdita dei benefici di anzianità di servizio” afferma Francesca all’Espresso. A Mondo Convenienza il lavoro fisso nei giorni festivi è sempre esistito, a prescindere dalla riforma Monti. “La prima cosa che abbiamo accettato è stato un lavoro su turnazione, ovvero cinque giorni alla settimana inizialmente, poi diventati sei, e due giorni di riposo, però mai di sabato o di domenica. A differenza di altre realtà come Ikea, dove ho lavorato nel 2003 e poteva capitarti un giorno libero nel fine settimana, da Mondo Convenienza il weekend si lavora sempre, tassativamente”. Nel corso del tempo sono state aggiunte le cosiddette “clausole di flessibilità ed elasticità”. “La flessibilità permette al datore di lavoro di modificarti la turnazione in qualunque momento o giorno della settimana, a dispetto di quanto stabilisce il contratto collettivo nazionale. L’elasticità permette invece al direttore di cambiarti persino la pausa pranzo, just in time, mentre sei di turno. E così, se stai facendo un 9-13 e 15-20, ma quel giorno c’è un aumento della lista dei clienti, ti viene imposto di staccare più tardi o di riattaccare prima”. Una deregulation “creativa” degli orari. “Magari era venerdì, e c'era poca affluenza. Ci domandavano: “volete andarvene prima?”. Un modo per “scalare” le ore lavorate in più senza che ci fosse stato pagato lo straordinario. Certo, eravamo liberi di rifiutarci. Ma il direttore, in contatto perpetuo con la sede centrale di Civitavecchia, non perdeva mai l’occasione di ricordarci che “se mai vi servirà qualcosa, i piani alti si ricorderanno…”. Disponibilità perenne e accondiscendente. “Gli addetti di Mondo Convenienza sono più reperibili di un chirurgo in corsia d'emergenza. Qualcuno può spiegarci, lavorando con questi ritmi, come faremmo a fare la spesa, andare dal dentista, prendere nostro figlio che sta uscendo dall’asilo, se la pausa pranzo non è mai certa e il giorno di riposo non è mai lo stesso?”. C’è inoltre il capitolo “liste d’attesa”. “I clienti che attendono di essere serviti per il preventivo di una cucina o di un soggiorno hanno la precedenza su tutto. Sono le statistiche sull'affluenza dei clienti che decideranno se potrai partecipare a un matrimonio, a un compleanno, a un battesimo o a qualunque altro importante impegno familiare. Persino se puoi raggiungere un parente in ospedale. Nell'estate del 2010, a un collega di via Salaria è stato negato il diritto di correre in nosocomio da un parente che era stato operato d'urgenza. Era agosto, c'era gente, la lista d’attesa cresceva. Il suo parente è deceduto”. I congedi parentali, insomma, esistono “solo sulla carta. Nella realtà ti trovi invece di fronte a turni punitivi, che inizi alle 9 e concludi alle 20. Però, se ti comporti bene, ci assicurava il direttore, “a metà pomeriggio ti faccio fumare una sigaretta". Risponde Mondo Convenienza: “I nostri non sono negozi, ma veri e propri showroom. I nostri venditori sono al 100% focalizzati sul servizio al cliente: non devono occuparsi di altre mansioni (come la pulizia e il mantenimento), che vengono gestite da personale addetto. Questo ci permette di mantenere il focus sul cliente, e sulla qualità e la personalizzazione del servizio che siamo in grado di riservargli”. Francesca prosegue il suo racconto. “I soprusi sono tanti, e forme di tutela alternative a un avvocato personale non ne esistono. Oggi l’azienda sta trasformando i contratti full in part-time. Tanto a colpi di elasticità e flessibilità si arriverà anche a 53 ore settimanali, le tutele svaniranno e vie di fuga da questa forma di schiavitù moderna non si intravvedono all’orizzonte”. “Aspetto rilevante è certamente la creazione di nuovi posti di lavoro: nel corso del 2016 le risorse umane del gruppo sono cresciute di 340 unità (+ 16%), passando da 2.135 a 2.475 – replica l’azienda -. L’utilizzo di contratti di lavoro interinale e l’indotto fanno moltiplicare questo già importante numero. La stima totale di nuove posizioni lavorative generate da Mondo Convenienza supera le 1.200 unità nell’anno”. E del passaggio dal full al part-time? “Quando si apre una nuova posizione part-time in azienda, si chiede prima alle persone interne se siano interessate a passare dal proprio full-time al part-time. Questo ci aiuta a restare vicini alle necessità dei nostri dipendenti, in particolare a quelli che, entrati giovani in azienda, possono avere maturato la necessità di ridurre il proprio orario di lavoro per coniugarlo con le nuove sopraggiunte esigenze familiari (come nel caso delle neo-mamme e papà) – aggiungono da Mondo Convenienza -. Tutti i nuovi venditori sono assunti con contratto part-time, e solo nel primo periodo (non lavorativo, ma di formazione retribuita) viene richiesta loro una disponibilità più estesa, equiparabile a un full-time in termini di tempo giornaliero”. In primo grado Francesca Ferone aveva vinto il ricorso, “e allora sono andata all'Inps con la copia autenticata dell'ordinanza esecutiva e ho compilato i moduli per riavere i contributi dei mesi precedenti. L’istituto di previdenza mi ha risposto dopo 15 giorni. “A noi non risulta che tu abbia lavorato a Mondo Convenienza, non ci sono documenti che lo attestino. Risulti licenziata da una società chiamata “Idea srl”. Lo sanno anche i sampietrini che Mondo Convenienza è un marchio, e ogni punto vendita è una Srl a sé”. Quest’estate ha fatto rumore un episodio di cronaca che ha visto protagonista un addetto alle vendite del Mondo Convenienza di Bologna, Luca Carioli, in azienda dal 2011. A Luca, che lavora tutti i sabati e le domeniche pomeriggio, l’azienda ha rifiutato un congedo parentale per il battesimo del figlio, chiesto nei modi e nei tempi giusti. La Cgil ha perciò indetto uno sciopero proprio per quella domenica. E Luca è potuto andare al battesimo. “Il dipendente ha presentato richiesta di congedo senza confrontarsi con la direzione del punto vendita e senza specificare le motivazioni. Quindi nessuno poteva sapere l’origine della necessità, tantomeno che si trattasse di un battesimo – ha replicato nei mesi scorsi Gianfranco Stefanoni, ad di Mondo Convenienza – Se l’azienda, e io in prima persona, avesse conosciuto la motivazione, senza alcun dubbio avrebbe fatto di tutto per concedere il permesso. Sono molto dispiaciuto dell’accaduto. I lavoratori di Mondo Convenienza operano in un clima sereno, collaborativo e amichevole, e l’azienda è molto sensibile alle loro esigenze… Spero che si possa quanto prima riprendere a collaborare in un clima sereno". Stefania Pisani della Cgil ha allargato il discorso parlando di "rappresaglie aziendali e soprusi costanti e continui non solo nei confronti dei lavoratori del magazzino, ma anche degli addetti alle vendite”. “Prepotenza padronale", ha aggiunto, in un’azienda tutt’altro che in crisi. A luglio di quest’anno, Mondo Convenienza ha pubblicizzato il bilancio del 2016. Per la prima volta ha oltrepassato il miliardo di ricavi, con un incremento di oltre il 18% rispetto all’anno precedente, superando il 10% della quota di mercato nazionale del mobile.
LAVORA E NON FERMARTI MAI.
La risposta choc dall'azienda: "Senza preavviso di sette giorni non puoi andare al funerale". L'assurdo caso di una barista senza tutele. Ha chiesto un giorno libero per un grave lutto familiare. Che non le è stato concesso perché doveva richiederlo con una settimana di anticipo. «Sono disperata, ma la morte non avvisa prima», scrive Maurizio Di Fazio il 10 luglio 2017 su "L'Espresso".
“Sono barista e commessa da 18 anni. Lavoro in nero da sempre. 3 euro e 50 l’ora, 53 ore la settimana, compresi il sabato e la domenica. Ferie e malattie non retribuite. Una figlia piccola a carico. Ho avuto, ieri, un grave lutto in famiglia e ho chiesto il giorno libero per recarmi ai funerali. Ma sapete cosa mi è stato risposto? Il permesso non può esserti concesso, perché avrei dovuto avvisare una settimana prima. E io ho replicato: ‘la morte non ti avvisa prima’”. Questa è la storia di Fulvia, vittima di ordinario sfruttamento in un centro commerciale italiano che non arretra nemmeno di fronte al tabù dell’evento più “straordinario” di tutti: la fine. Omettiamo il suo cognome perché del suo lavoro, nonostante non le riconosca i diritti più elementari come quello di dare l’ultimo saluto a un parente stretto, non può farne a meno. “Sono indignata. Non hanno rispetto neanche di un lutto. Sono disperata. Non ce la faccio più a sopportare tutto questo, le umiliazioni davanti ai clienti in primis, per una manciata di euro”. La testimonianza di Fulvia deve aver toccato un nervo scoperto e infranto un vaso di Pandora vista la catena di reazioni e rivelazioni che ha suscitato su Facebook.
Scrive Rosy N.: «22 anni fa, appena arrivata a Roma, sono stata per due anni in nero con la promessa del contratto. Poi è morta mia nonna, e mi hanno riservato lo stesso trattamento che è toccato a Fulvia. Impaurita e disgustata, ho cercato un altro lavoro ma prima ho aperto una vertenza sindacale che ancora se la ricordano. Avevo tanta di quella paura; ma i tre giorni di lutto previsti per legge me li sono fatti tutti». La normativa nazionale (legge n. 53/2000 con relativo regolamento di attuazione D.M. 21.07.2000 n. 278) prevede questo: "La lavoratrice e il lavoratore hanno diritto a un permesso retribuito di tre giorni lavorativi all'anno in caso di decesso o di documentata grave infermità del coniuge o di un parente entro il secondo grado, o del convivente”. Permessi retribuiti dall’azienda pure per i lavoratori con contratto a tempo determinato. Ma quelli in nero come Fulvia (da quasi 20 anni…) sono tagliati fuori e la stessa prassi distorta investe, spesso, i dipendenti (privati e pubblici) contrattualizzati. «Io lavoro in un ex Provveditorato agli studi, un comparto, perciò, statale – afferma Ornella G. - a un collega che chiedeva un permesso per il funerale di un congiunto di primo grado, il dirigente gli ha sibilato che non poteva concedergli più di un'ora».
Paola V.: «Non troppo tempo fa, nonostante un regolare contratto a tempo indeterminato, quando morì mio zio, a cui ero legatissima, non mi consentirono di andare via un giorno prima. Volevo rivederlo un’ultima volta, anche se da defunto e dentro una bara. Sono arrivata al cimitero a funerale iniziato».
Stefania G.: «Cara Fulvia, capisco benissimo la tua rabbia. Successe anche a me. Chiesi un giorno di permesso per la cerimonia funebre e mi venne risposto: “Dovevi pensarci 15 giorni fa"». Ma la morte non avvisa prima, non timbra il badge. «Mi è capitato varie volte che morisse un nostro collega di lavoro, che magari conoscevamo da 30 ani, ma non potevamo partecipare al suo funerale perché la produzione doveva andare avanti, solo chi era fuori turno poteva andarci – racconta all’Espresso Francesco Iacovone, sindacalista del settore commercio -. Per non dire delle battaglie per poter abbassare anche solo un minuto gli altoparlanti che diffondono la musica nei centri commerciali, quando muore uno di noi. Capita persino che blocchino le comunicazioni di morte per farti finire regolarmente il turno. L’azienda viene a conoscenza prima di te del decesso di tua madre, tua moglie o tuo nonno, ma non ti dice nulla per non lasciare scoperta la cassa». Il profitto über alles, che viene prima di tutto: prima della vita, e prima della morte.
Il dipendente deve andare in bagno? Usi il wc della chiesa. È quello che succede agli autisti del trasporto pubblico emiliano: ai capolinea sono stati rimossi i servizi chimici, e i lavoratori sono costretti a elemosinare l'uso delle toilette alla parrocchia nelle vicinanze, scrive Maurizio Di Fazio il 7 marzo 2017 su "L'Espresso". Anche questa è misericordia: far usare la toilette a chi ne ha necessità urgente. Specie se si tratta di un lavoratore o di una lavoratrice. Nella fattispecie, i conducenti d’autobus della Seta (Società emiliana trasporti autofiloviari), dal 2012 responsabile unica del servizio di trasporto pubblico locale automobilistico nei territori provinciali di Modena, Reggio Emilia e Piacenza. Ai capolinea degli autobus modenesi sono stati smantellati tutti i bagni chimici, e dunque ci si arrangia come si può. Così la parrocchia Sant’Anna ai Torrazzi di Modena cede senza problemi il suo bagno agli autisti e alle autiste di autobus che devono fare pipì, al capolinea della linea 14, e non hanno altre soluzioni ragionevoli per le proprie impellenze fisiologiche. Con tanto di accordo informale firmato tra l’azienda e la chiesa. Il parroco, don Enzo Solieri, commenta: “Be’, se vogliamo possiamo chiamarlo un atto di carità, soprattutto per le donne, considerando che in inverno può essere un sollievo avere un punto di riferimento dove fermarsi un attimo prima di riprendere a lavorare”. Il sacerdote ha persino consegnato un duplicato delle chiavi dei servizi igienici ai conducenti bisognosi. In più diversi bus del posto hanno preso fuoco in passato: due principi d’incendio si sono verificati anche a inizio anno. Oltre al problema dell'assenza dei bagni e al timore per le condizioni dei bus, i sindacati denunciano il ricorso sistematico e massiccio agli straordinari, dovuto all’“organico sottodimensionato e alla turnazione difettosa”. Il problema più odioso di tutti sembra essere proprio quello della scarsità di toilette.
«Mi chiamo Giovanni e sono un autista di linea della Seta di Modena. Sono anni che ci promettono bagni e questo è un fatto molto grave, che lede la nostra dignità oltre che la nostra salute» racconta uno dei lavoratori: «Solo per poche linee esistono i gabinetti a fine corsa. Guidiamo anche per cinque ore consecutive senza mai la possibilità di fare la pipì. Noi maschi possiamo anche arrangiarci, trovando posti di fortuna: ma le autiste donne?». Giovanni racconta all’Espresso la sua odissea quotidiana, sia a bordo sia a motori fermi: «Sono anni che lottiamo contro il carico di lavoro insostenibile, con turni micidiali che ci costringono a sobbarcarci di continuo gli straordinari, non esclusi doppi turni in cui l'autista è obbligato a guidare fino a 13/14 ore in una giornata». Il suo j’accuse prosegue: «Lavorare poi in questo modo, secondo l’ottica di super-risparmio dall’azienda, significa mettere a repentaglio la sicurezza sia del conducente che delle persone trasportate». Ultimamente diversi autisti modenesi sono stati colpiti da provvedimenti disciplinari: «Sanzioni che arrivano se non riusciamo ad assolvere al lavoro straordinario (oltre il turno normale) magari perché stanchi, assorbiti da preoccupazioni familiari o perché abbiamo altri e legittimi impegni». «Mettere il fiammifero più corto e acceso in mano all'autista è semplice: vessato e discriminato dall'azienda, apostrofato dagli utenti. I lavoratori del bacino di Modena hanno subito per anni il massimo del carico di lavoro assegnato, e ora sono allo stremo. Anche la radio in autostrada consiglia di fermarsi ogni due ore per fare una pausa: in Seta, quando ci si ferma?» protesta l’Usb (Unione sindacale di base) modenese: «Si sono mai veramente capite le conseguenze che comporta un simile carico di lavoro intensivo, con lo stress collegato?». Di recente la società, presieduta dal 2015 da Vanni Bulgarelli ha accusato i suoi dipendenti di un’impennata di assenze con certificato medico. Malanni fittizi, di conflittualità sociale? «Le malattie che si verificano d’inverno non sono fenomeni imprevedibili. Il nodo sta nell’annosa carenza di personale e nell’esigenza di una migliore programmazione dei turni degli autisti» risponde l’Usb. «La storia infinita di Seta, che è iniziata con l'insediamento dell'attuale Cda con presidenza Bulgarelli, ha innescato proteste a domino» dice Sebastiano Taumaturgo dell’Usb confederale trasporti. Era stato proclamato uno sciopero di quattro ore per il 27 febbraio, rimandato a marzo. «Ma faremo anche uno sciopero della fame» aggiunge Taumaturgo. Martedì mattina un nuovo capitolo della storia. Il Consiglio regionale dell’Emilia Romagna ha discusso un’interpellanza sul tema presentata da Giulia Gibertoni del Movimento 5 Stelle, indirizzata all’assessore regionale ai trasporti Raffaele Donini. Il direttore regionale Seta Roberto Badalotti ha sì ammesso qualche responsabilità (gli autobus sono oggettivamente vecchi, con infiltrazioni d’acqua, problemi alle sospensioni, i casi di surriscaldamento e di fuoriuscita di fumo), ma ha rispedito al mittente il grosso delle contestazioni: «Il sovraffollamento? È solo una percezione negativa di comfort: la colpa è delle borse e degli zaini stipati nell’ora di punta»; «l’emergenza wc? I bagni e gli spogliatoi sono oggetto di ripetuti atti vandalici da parte del personale viaggiante». Lo stesso assessore ai trasporti Donini ha però criticato aspramente l’azienda: «I disagi e i disservizi a Modena devono essere assolutamente risolti. Servono maggiori controlli sull’operato di Seta. Basta sovraffollamento e scarsa pulizia dei mezzi; stop alle tensioni con gli autisti. E vanno messi in sicurezza i mezzi, fortemente vetusti: la loro manutenzione è scarsa». «Denuncerò il presidente Seta per abuso d’ufficio» ci anticipa intanto Sebastiano Taumaturgo dell’Usb: «Quello che sta avvenendo è sempre più assurdo e surreale. Sono anni che ci impongono doppi turni massacranti, straordinari forzati in base a un’interpretazione travisata del lontano regio decreto del 1931. Eppure esisterebbe un algoritmo finalizzato alla copertura delle sostituzioni. E in questi giorni stanno arrivando numerose sanzioni disciplinari agli autisti. Sospensione dal lavoro, con blocco dello stipendio e dei contributi per chi si è rifiutato di fare gli straordinari. Pensi che tra i destinatari del provvedimento c’è anche un ragazzo che deve assistere una figlia in stato vegetativo».
Operaio costretto a urinarsi addosso, nessun provvedimento contro i responsabili. La Fiat Chrysler si scusa con il lavoratore della Sevel di Atessa a cui è stato impedito di lasciare la catena di montaggio per andare in bagno. Ma ai capireparto solo un richiamo, senza procedure disciplinari. Usb promette battaglia. E Sinistra Italiana presenta un'interrogazione parlamentare, scrive Maurizio Di Fazio il 15 febbraio 2017 su "L'Espresso". Ancora tensioni e battaglie dopo la denuncia del sindacato Usb che ha portato alla luce un fatto accaduto alla Sevel di Atessa (Chieti) , del gruppo Fiat-Chrysler, il più grande stabilimento industriale europeo per la produzione di veicoli commerciali leggeri (come il Fiat Ducato), con oltre seimila lavoratori in organico. Un operaio in catena di montaggio si è visto negare il diritto ad andare in bagno, nonostante avesse chiesto più volte il permesso; a quel punto, fattasi l’impellenza fisiologica insopportabile, non gli è rimasto che farsi la pipì addosso. E c’è chi ha ravvisato, in questo episodio "ottocentesco", la spia di un cambiamento del clima che si respira nelle nostre fabbriche dopo la sostanziale abolizione delle garanzie che l’articolo 18 prevedeva. E quella di Atessa sarebbe solo la punta di un iceberg che non finisce sui giornali perché poche tute blu troverebbero il coraggio di denunciare le eventuali angherie patite. Persino ai sindacati. È battaglia legale. "Tutto il nostro studio è mobilitato per gestire al meglio, e con la massima celerità, quanto accaduto al lavoratore, un fatto di inaudita ed eccezionale gravità. Vogliamo tutelare i suoi diritti - spiega all’Espresso l’avvocato Diego Bracciale, che patrocina l’operaio della Sevel - Verranno adite tutte le sedi, penali e civili, con ogni azione possibile e verso chiunque può presentare anche il più minimo profilo di responsabilità. Qui è stata lesa la dignità sia dell'uomo che del lavoratore. Sembra che tutte le battaglie combattute per l'affermazione dei diritti dei lavoratori siano state vane. Ma ora è possibile osservare finalmente anche dall’esterno il clima che regna dentro l'azienda. Ho appreso di scuse della società, che in tutta franchezza ritengo che a poco possano servire". La reazione del gruppo Fiat-Chrysler. L'azienda si è già scusata col lavoratore e ha preso parte (rappresentata da dirigenti) a un consiglio straordinario delle rsa Fim, Uilm, Fismic, Uglm e Associazione quadri e capi Fiat. In quella sede, ha annunciato che avrebbe fatto una ricognizione della vicenda intervenendo direttamente sui responsabili. Ma il sindacato sostiene che questi provvedimenti disciplinari, alla fine, non ci sono stati: la multinazionale di Sergio Marchionne si sarebbe limitata a richiamare i capi reparto e i team leader, ribadendo che la priorità deve essere il rispetto della persona. L'ufficio stampa Fiat-Chrysler, contattato dall'Espresso, comunica che l'azienda preferisce non rilasciare commenti fino a quando la vicenda non sarà stata chiarita. L’Usb non demorde. Ci dice invece Fabio Cocco, responsabile abruzzese Usb del lavoro privato e lui stesso operaio alla Sevel: "Noi crediamo che la responsabilità sia del tutto aziendale e dell'organizzazione del lavoro: perciò chiediamo provvedimenti precisi nei confronti dei dirigenti, e un intervento diretto di Marchionne per la rimozione sia del direttore dello stabilimento che del capo officina, a nostro avviso gli unici responsabili insieme all'incapacità di gestione del capo Ute". La vittima ha deciso di non parlare alla stampa: lei, che tra l’altro lavora con l’uomo, ha avuto modo di interloquirci in seguito? "Incontrandolo, ho notato in lui un crescente imbarazzo. Anche in azienda, perché ormai tutti sanno chi è. Stiamo parlando di un padre di famiglia, che si sente umiliato nel suo ambiente di lavoro: non vorremmo che gli accada lo stesso anche nella vita quotidiana". L’interrogazione parlamentare. L’ha presentata il deputato di Sinistra Italiana Gianni Melilla: "Si tratta di un fatto grave che lede la dignità di una persona e tramite lui dell'intera classe lavoratrice di questo stabilimento, che è la più grande fabbrica italiana della FCA. La Sevel produce circa 300.000 veicoli commerciali che vengono venduti in 80 Paesi del mondo; in Europa occupa il primo posto nelle vendite del suo segmento. Si tratta dunque della più grande fabbrica metalmeccanica italiana, un gigante dell'export industriale. La vicenda per questo non può essere sottovalutata: nella più grande fabbrica italiana i ritmi e i carichi di lavoro arrivano al punto di costringere un operaio a farsi la pipì addosso per non lasciare il suo posto alla catena di montaggio, cose che pensavamo appartenessero alla fase primitiva dello sfruttamento della forza lavoro da parte di un capitale avido e disumano. La democrazia non può fermarsi davanti ai cancelli di una fabbrica: anche alla catena di montaggio i lavoratori non devono essere umiliati".
"Non puoi andare in bagno". Così alla Sevel (Fiat Chrysler) un operaio si urina addosso. Nonostante avesse chiesto più volte di poter lasciare la catena di montaggio per andare alla toilette, il lavoratore dell'azienda di Atessa, parte del gruppo automobilistico, è stato costretto a restare al suo posto. L'accaduto è stato denunciato dall'Usb, che ha indetto uno sciopero e denuncia i ritmi di lavoro serrati dello stabilimento, scrive Maurizio Di Fazio il 9 febbraio 2017 su "L'Espresso". Un lavoratore della Sevel di Atessa, in provincia di Chieti, è stato costretto a urinarsi addosso perché gli è stato impedito di andare in bagno. L’episodio, che sembra uscito da una cronaca giornalistica della prima metà dell’ottocento, o da un romanzo di Dickens, è stato denunciato dal sindacato Usb, che ha poi proclamato un'ora di sciopero. Anche le altre sigle sindacali hanno chiesto chiarimenti all’azienda, il gruppo FCA (Fiat Chrysler Automobiles), di cui lo stabilimento abruzzese è il più grande d’Italia e tra i primi in Europa per dimensioni. L’azienda sta svolgendo verifiche interne ma l’accaduto è stato confermato da diverse tute blu. L’operaio aveva a più riprese richiesto di poter andare in bagno, invano. E a quel punto ha dovuto farsela addosso: “inascoltato, non gli è rimasto che urinarsi dentro i pantaloni. L'episodio varca ogni limite della decenza. Un fatto gravissimo che lede la dignità del lavoratore vittima dell'episodio e quella di tutti i lavoratori in generale. Pretendiamo che situazioni simili non si ripetano mai più" scrive l’Usb di Chieti. Alla protesta si associa anche Rifondazione Comunista: “Spremere i lavoratori fino al divieto, ripetuto e continuato, di poter andare in bagno, è un fatto di una gravità inaudita, da condannare senza mezzi termini. Da molti anni nel gruppo FCA si assiste all’incremento di ritmi e carichi di lavoro al limite del sostenibile. Troppo spesso gli aumenti di produttività sono stati salutati come un fatto positivo, senza chiedersi come fossero possibili, ogni anno, aumenti produttivi da record – affermano in una nota Marco Fars, segretario abruzzese di Rifondazione Comunista e Maurizio Acerbo, della segreteria nazionale -. Nei giorni scorsi la risposta è arrivata, di nuovo, dalla palese manifestazione delle condizioni che i lavoratori, loro malgrado, sono troppo spesso costretti a subire. L’arroganza aziendale si è spinta fino a costringere un lavoratore ad urinarsi addosso, dopo che per troppo tempo gli è stato vietato di recarsi in bagno. La produzione viene prima di tutto e perciò i lavoratori non possono permettersi nemmeno il "lusso" di espletare bisogni fisiologici normali per qualsiasi essere umano. Ai lavoratori, costretti a carichi e ritmi di lavoro insostenibili, non viene riconosciuta nemmeno la dignità umana”. I due esponenti politici chiamano in causa anche le recenti riforme del lavoro e le ristrutturazioni aziendali frutto della globalizzazione post-crisi: “La vicenda Sevel ci ricorda l’importanza e la necessità di riportare la democrazia reale dentro e fuori le fabbriche. Questo totalitarismo aziendale è il prodotto di anni di "riforme" del lavoro che hanno sottratto ai lavoratori diritti e tutele e accordi sindacali capestro accettati da sindacati "firma tutto”. Questi sono i risultati della cancellazione dell'art.18”.
Mangia un panino in orario di lavoro: perde l'impiego per cinque anni. Una donna dipendente per quattordici anni nello stesso supermercato era stata mandata via per aver consumato prodotti prelevati dallo scaffale durante il suo orario di servizio. Ora la Cassazione l'ha fatta reintegrare. Ma il suo non è l'unico caso, scrive Maurizio Di Fazio il 28 febbraio 2017 su "L'Espresso". Una sentenza attesa per cinque lunghi anni, dopo le prime due di segno opposto. E alla fine la donna, oggi 57enne, si è vista riconoscere i suoi diritti dalla Cassazione prima e dalla Corte d’Appello dell’Aquila adesso. I giudici hanno stabilito che dovrà essere reintegrata nel supermercato di Giulianova dove aveva lavorato per quattordici anni prima di essere licenziata in tronco. Per aver mangiato un panino. Per un semplice panino, farcito con prodotti prelevati dallo scaffale (era addetta alle vendite) durante il suo orario di servizio. Inizialmente il giudice del lavoro aveva sposato la tesi dell’azienda e così la donna, sposata e con figli, aveva perso il posto. E tutto questo avveniva quando l’articolo 18 era ancora in piedi. Il giudice parlò di “sottrazione di beni aziendali”. Era l’8 agosto del 2012. La dipendente prelevò dal suo reparto una confezione di salmone, una bibita dissetante e un panino. Li consumò, ma poi, stando a quanto dichiarato dai dirigenti del supermarket, non li voleva pagare. La difesa: “Anche dall'istruttoria è emerso chiaramente che la lavoratrice ha prelevato i prodotti senza nascondersi o occultarli e li ha consumati davanti a tutti: tant'è vero che è stata subito vista dai responsabili aziendali e ha gettato le confezioni nello stesso cestino del bancone dove lavorava, dove tutti quindi potevano vederle e trovarle, mentre se avesse voluto occultarli li avrebbe certamente fatti sparire in altro modo. E avrebbe pagato a fine turno. Questa decisione è abnorme, eccessiva e sproporzionata. Al massimo si poteva comminarle una multa”. Ora la magistratura ha ribaltato definitivamente le sorti professionali e umane della donna, spendendo queste parole: “Non c’è stata nessuna appropriazione nel luogo di lavoro di beni aziendali. In mancanza di ulteriori elementi, deve darsi necessario rilievo al modestissimo valore della merce consumata, ma soprattutto alla storia lavorativa della dipendente che pacificamente, nel corso di quattordici anni, non è stata mai oggetto di alcun richiamo disciplinare…”. E “la vicenda nel suo complesso è avvenuta alla luce del sole”. Licenziate per un panino. Una tendenza che sembra ricorrere nella nostra Italia dei vitalizi e delle sinecure per via ereditaria. E che colpisce soprattutto le donne. È accaduto lo stesso (la scorsa estate) anche a Daniela Gori, dipendente di un punto Conad a Livorno. Rimossa dal suo incarico per aver fatto colazione con un sandwich preso al banco della gastronomia. “Ho tolto l'etichetta adesiva (il prezzo era di circa un euro) e l'ho messa nel portafogli, pensando di pagare a fine turno come sempre. Però, dopo aver timbrato l’uscita e aver fatto la spesa, alla cassa mi sono dimenticata di quel panino. E lì è intervenuto il proprietario del negozio, probabilmente mi stava tenendo d’occhio...” ha raccontato Daniela. Le premesse al suo licenziamento sono state una settimana di ferie forzate, la prima sanzione disciplinare della sua vita e una sospensione. Il titolare non ha voluto saperne di reintegrarla, nonostante lo sciopero delle sue colleghe e la mobilitazione del sindacato Usb. “Un licenziamento pretestuoso” la loro versione unanime. “Licenziare per un panino è da infami”; “Conad, persone come cose” alcuni degli slogan intonati in quell’occasione. E a nulla è servito nemmeno l’amore incondizionato esternato dai clienti del quartiere nei confronti della 44enne, assunta con contratto a tempo indeterminato e volto familiare del supermercato sin dalla sua apertura. Gli screzi col nuovo proprietario, subentrato nel 2014, avrebbero modificato progressivamente l’armonia interna tra richiami disciplinari e minacce trasversali. Lui ha affermato: “Questo è solo l’ultimo di una serie di episodi che hanno fatto venire meno il patto di fiducia con la lavoratrice”. “Non è vero” hanno ribattuto con forza le sue vicine di bancone e di cassa: le classiche commesse rionali, della porta accanto. Insorte, come in un film di Kean Loach o di Aki Kaurismaki, col supporto della gente del luogo, in difesa della loro compagna. Cacciata dopo tredici anni di onorato servizio per avere addentato un panino di cinquanta grammi.
Un operaio sviene, ma la produzione va avanti. La denuncia della Fiom-Cgil di Chieti su un episodio accaduto alla Sevel di Atessa. "Il caporeparto non ha fatto sospendere l'attività e ha chiesto agli altri di far finta di non vedere il corpo a terra". L'azienda replica: "No, soccorsi scattati subito e linea bloccata", scrive Maurizio Di Fazio il 13 aprile 2017 su "L'Espresso". Un operaio batte la testa, cade a terra e sviene mentre è alla catena di montaggio, ma il caporeparto non fa sospendere la produzione. Anzi, chiede agli altri lavoratori presenti di “far finta di non vedere il corpo a terra e di riprendere il lavoro”. È accaduto mercoledì mattina alla Sevel di Atessa, di proprietà della Fiat Chrysler, il più grande stabilimento europeo per la produzione di veicoli commerciali leggeri. Un nuovo episodio in odore di prima rivoluzione industriale per la fabbrica abruzzese, dopo quello avvenuto due mesi fa, quando una tuta blu si vide negare il diritto di andare in bagno nonostante lo avesse chiesto più volte e a quel punto, non facendocela più, non gli restò che farsi la pipì addosso. La denuncia arriva stavolta dal segretario generale della Fiom-Cgil di Chieti, Davide Labbrozzi: “Un addetto allo svolgimento delle attività di montaggio, ieri mattina presto, ha urtato violentemente la testa su un parter prelievo sedili (braccio meccanico per il sollevamento dei sedili). Questo incidente ha provocato la sua perdita di conoscenza e caduta a terra. I suoi colleghi hanno lanciato immediatamente l’allarme. Ma ancora prima dell’arrivo dei soccorsi, il responsabile del reparto Ute ha chiesto ai lavoratori presenti di ignorare l’accaduto, di far finta di non vedere il corpo a terra e di riprendere il lavoro” spiega Labbrozzi all’Espresso. E poi chiosa: “Far ripartire la linea con un lavoratore sdraiato a terra è un atto inaccettabile che la Fiom contesta duramente. Questo atteggiamento è sintomo di un’azienda che surclassa l’uomo a vantaggio della produzione”. Subito dopo il misfatto, gli operai hanno incrociato per protesta le braccia per un’ora e allo sciopero hanno partecipato pressoché tutti i venti addetti all’Ute (Unità tecnologica elementare). Secondo la Fiat Chrysler, da noi interpellata, “i soccorsi sono scattati immediatamente seguendo le procedure d’intervento interne. La linea è stata immediatamente bloccata per consentire di prestare la prima assistenza alla persona e, una volta attuate le manovre di primo soccorso e attivati i soccorsi attraverso l’infermeria dello stabilimento, è stata riavviata. La persona già in infermeria di stabilimento si era ripresa, ma in via precauzionale è stata inviata per accertamenti all’ospedale. Le è stato riscontrato un trauma cranico non commotivo, prescritto un periodo di dieci giorni di riposo e mandato a casa”. Ma il sindacato conferma. Nei giorni scorsi un’altra polemica aveva attraversato la Sevel, fiore all’occhiello del gruppo mondiale guidato da Sergio Marchionne. Sulle ali del successo del nuovo Ducato, lanciato verso quota 290 mila furgoni nell’anno solare 2017, quest’estate lo stabilimento di Atessa chiuderà solo per una settimana. Il resto delle ferie bisognerà scaglionarlo tra maggio e dicembre. Perché gli affari vanno a gonfie vele e sono troppe le commesse da rispettare. Non c’è più tempo da perdere, e pazienza se ciò comporta il diniego di un calendario tradizionale vecchio di un secolo. La produzione sempre più über alles, sostiene la Fiom Cgil per bocca di Labbrozzi: “La filosofia Sevel continua a non rispettare coloro che quotidianamente permettono all’azionista di intascare una ricchezza smisurata, quella che lo stabilimento atessano produce quotidianamente. La Fiom, ancora una volta, torna a chiedere l’avvio di un confronto che mai come oggi è necessario per ristabilire il giusto valore della qualità della vita in Sevel”.
«Psicofarmaci, depressione, attacchi di panico: la vita da operaio di Amazon per essere veloce». L'ossessione per la rapidità, il controllo costante sul rispetto dei tempi, l'aumento delle malattie. La denuncia di una sindacalista sul principale stabilimento europeo del colosso dell'eCommerce, scrive Maurizio Di Fazio il 04 aprile 2017 su "L'Espresso". Tutti compriamo su Internet, ma spesso poco sappiamo delle condizioni di lavoro al di là del pc e dello smartphone all’interno del colosso mondiale dell’eCommerce. Chi gestisce gli ordini a flusso incessante (milioni solo nel nostro Black Sunday) di Amazon? Chi lavora nei tre turni quotidiani del suo più grande stabilimento italiano ed europeo, a Castel San Giovanni in provincia di Piacenza? E qual è lo stato dell’arte dei loro diritti, a un anno dal timido ma storico ingresso dei sindacati nei suoi quasi 90 mila quadri di magazzini? Sappiamo che sono in tutto circa 1.600, tra assunti a tempo indeterminato (riconoscibili da un cartellino blu) e determinato (verde); che la loro età media supera di poco i trent’anni, e che alcuni di loro presenterebbero problemi di salute per la velocità del loro lavoro, specie gli addetti al reparto outbound (lo smistamento degli oggetti che poi arrivano materialmente nelle case). Ad Amazon si lavorerebbe di corsa, per ottimizzare il tempo e non deludere i consumatori. "Il 70-80 per cento, a Castel San Giovanni, ha ernie e problemi alla schiena e al collo" ha affermato Cesare Fucciolo della Ugl. L’Espresso ne ha parlato con Francesca Benedetti, segretario della Fisascat di Parma-Piacenza (la sigla per addetti ai servizi commerciali e del turismo della Cisl), di ritorno da un vertice internazionale in Polonia con l’azienda fondata e diretta da Jeff Bezos.
Nello stabilimento piacentino di Amazon, il lavoro è logorante?
«Sì, e Il livello delle malattie “normali” è elevatissimo: serve a mascherare gli infortuni e le malattie professionali. A volte è “colpa” del lavoratore, che per paura di ritorsioni non li dichiara; altre volte la responsabilità è invece dell’Inail, che fa fatica a riconoscere, nonostante i ricorsi, il livello abnorme di patologie, e l'incidenza epidemiologica al di sotto di ogni sospetto. Se nello stesso reparto ci sono decine di donne che hanno lo stesso tipo di problema alle mani (tunnel carpale), no, non può essere una coincidenza».
I lavoratori subiscono pressioni o attenzioni particolari?
«Un buon 80 per cento delle contestazioni disciplinari è relativo ai tempi di percorrenza, nonostante gli ambienti siano smisurati. E le pressioni, spesso stupide e pretestuose, rappresentano la norma. Purtroppo aumentano i casi di lavoratori che a furia di subire vessazioni e umiliazioni a un certo punto perdono la testa e mandano tutti al diavolo. Pentole a pressione che scoppiano. Molti sono sotto psicofarmaci: abbiamo messo a disposizione i nostri psicologi. Depressione e attacchi di panico non sono un’anomalia. Esistono figure pagate proprio per questo: per farti andare di matto. Agenti provocatori. Zelanti professionisti della prevaricazione psicologica. Cani da guardia, kapò che trascorrono la giornata a verificare che nessuno prenda un caffè, si faccia una passeggiata, vada in bagno per più di un minuto».
È vera la storia che gira dei bagni immacolati?
«Andare in bagno per espletare i propri sacrosanti bisogni fisiologici può diventare un problema per i capi. Capita che un operaio si trovi in bagno, impieghi qualche istante in più della media e fuori dalla porta si materializza un manager con le braccia conserte che lo sgrida e ammonisce».
Il totem di Amazon è la rapidità di esecuzione?
«A tirare la carretta sono gli operai generici. Chi non produce più al livello supremo diventa una mela marcia da cestinare subito, senza nessun riguardo. Perché fuori preme una fila infinita di disoccupati che muoiono dalla voglia di guadagnarsi qualche soldo».
Da un anno voi sindacati avete messo piede a Castel San Giovanni. Un traguardo che sembra elementare ma che invece suona epocale.
«Amazon sta vivendo oggi in Italia quelli che sono stati i nostri anni 50 in fabbrica. Non accettano rappresentanti e mediazioni sindacali. Ci vivono come un corpo estraneo. Pretendono che i lavoratori si relazionino direttamente con l'ufficio del personale. Ultimamente però un loro rappresentante ha preso parte alle nostre riunioni sindacali, una specie di miracolo. E in America, come mi hanno raccontato loro stessi durante il vertice polacco, va molto peggio. Noi invece, grazie alle leggi del nostro passato, dei primi anni settanta, stiamo riuscendo a smuovere qualcosa».
Come vive la classe operaia on line. Da Amazon a Zalando, da Esselunga a H&M, dietro i nostri clic ci sono migliaia di giovani. Che lavorano giorno e notte. Per raccogliere merci in magazzino, impacchettare e consegnare a casa. Ecco la gigantesca fabbrica della logistica nello shopping in Rete, scrive Francesca Sironi il 16 novembre 2016 su "L'Espresso". Nel tempo necessario per leggere il titolo e il sommario di questa pagina, sono stati completati 76 ordini di scarpe, libri o detersivi. On line. Per arrivare a questa riga sarà passato un minuto. E un minuto sono 228 consegne, che fanno 13.600 all’ora, 328 mila e 700 al giorno. Nel 2016 gli acquisti digitali di beni materiali, in Italia, sono stati più di 120 milioni: un inarrestabile pulsare di clic che crescono del 30 per cento all’anno, a 75 euro in media a scontrino. Ma dietro ognuna di queste comande, impartite senza attese o spostamenti, senza commessi o commercianti, c’è una lunga catena che si ingegna e si spreme «per minimizzare i percorsi e rispettare i tempi promessi» al cliente, come spiegano ad Amazon. Il cliente e le sue richieste. La sua fretta. I suoi orari. I nuovi padroni aspettano da casa. I nuovi operai corrono per loro. «Una delle prime cose che ti insegnano ad Amazon è il passo», racconta Daniele, 30 anni, impiegato durante il picco di Natale nel centro piacentino di Castel San Giovanni: «Un passo di marcia». Perché ci vuole ritmo, per l’eCommerce. E sorridere al citofono. È quello che raccontano le facchine e i fattorini, o meglio i “picker” e i “driver”, di H&M o di Esselunga, di Zalando o GLS che abbiamo incontrato per mostrare cosa significa stare dall’altra parte del computer nell’industria degli ordini on line: quella della catena di montaggio. Trovando entusiasti o pessimiste. E incubi comuni. Come l’imparare presto a temere ciò che per gli altri è festa: il Natale, i saldi, l’avvicinarsi del cenone, l’inizio dell’anno. Per i regali, la scuola e le offerte, aumentano le richieste. Quindi la pressione. Perché il bisogno di comodità dei clienti schiaccia i diritti degli altri. Per arrivare prima alla consegna, gli ingranaggi digitali, meccanici e umani dell’eCommerce non si possono fermare. Via Benigno Zaccagnini, Stradella, provincia di Pavia. Passato Dc, presente operaio. In questa zona un tempo famosa per la “casalinga di Voghera” adesso s’alzano alcuni mega-snodi logistici che dalla pianura padana riforniscono via eCommerce l’Europa. A destra, i cancelli della “città del libro”, hub internazionale dei volumi comprati on line. A sinistra trecento persone che scorrono scaffali per gestire gli ordini web di H&M, la catena di vestiti low cost. I camion per le spedizioni battono la Bassa. Il gestore del magazzino di H&M è una cooperativa di Como, Easycoop. A cui gli affari vanno alla grande. Il fatturato è raddoppiato negli ultimi due anni, i dipendenti sono saliti a 674, a luglio i soci hanno votato un aumento di stipendio al presidente (204 mila lordi). Serena Frontino ha 22 anni, un cappotto beige, un’infervorata militanza sindacale che l’ha portata più volte sui giornali negli ultimi mesi. Il suo contratto è part time, a 7,4 euro l’ora; ad aprile più della metà della sua busta paga non arrivava dall’ordinario, quanto da premi di produzione, extra e integrazioni. Perché il suo è un part-time elastico: sui contributi versati, sui diritti, sull’agenda. «Ci mandano l’orario del giorno dopo solo il pomeriggio o la sera prima, via sms», racconta: «Seguivo un corso di teatro, la mia passione, ma ho dovuto abbandonare. Perché non posso prevedere a che ora uscirò». Sul regolamento interno, depositato con il bilancio, è scritto chiaro che «la distribuzione e la durata dell’orario potranno variare nell’arco delle 24 ore, per tutti i giorni del calendario», e ogni socio lavoratore è «tenuto a prestare la propria attività oltre quanto stabilito, sia di giorno, sia di notte, sia in giorni feriali, sia in giorni festivi». La richiesta d’abiti non conosce notte.
SMISTARE. Il facchino è fra i mestieri non qualificati più richiesti del 2016: Unioncamere ha previsto 41.100 assunzioni in un anno; più della metà a tempo determinato, ma in crescita. «Fuori non c’è niente, qui è un’altra vita», dice Mirela Feodorov in un video girato da Amazon: «Anche se è pesante, hai la sicurezza». I gesti di Mirela sono martellanti. Scatta. Dietro, i colleghi camminano svelti. «Sono stata interinale per sei mesi, poi mi hanno assunta full time», racconta orgogliosa all’Espresso Clara Merli, 44 anni, anche lei dipendente Amazon a Castel San Giovanni: «È normale che esista un passo. Che si debba essere veloci. L’azienda cresce. Non so quali aspettative abbiano i giovani, ma qui si lavora. Se ce la faccio io che ho tre figli». Clara è una “picker”. Come Serena ad H&M: ogni mattina prende la sua prima “missione”, un rotolo di codici a barre che indicano i capi d’abbigliamento da recuperare negli scatoloni, tra le file sterminate degli scaffali. A Serena è richiesto di prelevarne quattro al minuto. «Se finisci sotto i 3,8 arriva un richiamo». Ogni missione è composta da 120, 160 pezzi. Il metronomo dell’azienda prevede due missioni come queste ogni ora. «I tempi diventano sempre più stretti, la tolleranza sugli errori è bassa. Ma in questi magazzini è molto difficile sostituire le persone con i robot», spiega Riccardo Mangiaracina, direttore dell’Osservatorio dedicato al Politecnico di Milano: «L’automazione è rigida. Mentre per l’eCommerce serve flessibilità: sia sul tipo di pacchi da prendere, sia sulla stagionalità». Software e robot possono sollevare i pesi più ingombranti. Possono comandare, indicando i percorsi ottimali. Ma a eseguire, servono facchini umani.
IMPACCHETTARE. Anche Anna ha 22 anni. In H&M è una “packer”, ovvero si occupa di piegare gli abiti e imbustarli. «Quando mi hanno assunta, due anni fa, bisognava passare 200 pezzi all’ora. Adesso hanno alzato la media a 250». Anna e le altre 57 ragazze che eseguono con lei questa mansione sta in piedi, fra i carrelli e il rullo. Riceve, controlla, smista, imbusta. «C’è la musica, nel magazzino, radio Kiss Kiss». Ma con le colleghe non può chiacchierare. «Mi hanno separata da un’amica perché non mi distraessi. Anche se restavo al passo». Nel regolamento di Easycoop si chiede di non lamentarsi: «è fatto divieto di discutere sui luoghi di lavoro, in particolare in presenza di terzi, di problematiche aziendali». Dopo due anni Anna è ancora inquadrata come “junior”, al minimo salariale. Nessuno scatto d’anzianità. Preavviso di sei giorni in caso di licenziamento. «Negli ultimi mesi alcuni aspetti sono migliorati», dice, «grazie soprattutto alle lotte sindacali». Anche lei, come le sue colleghe, si entusiasma a raccontare lo sbarco dei Cobas in magazzino, le trattative, i picchetti, i primi risultati. Poi torna a fumare. «Avrei voluto fare la nutrizionista. Ma ammetto che ho perso la voglia di impegnarmi, fuori da qui. Sono stanca, quando esco». E poi ci sono i climax, come le “capsule collection” firmate da stilisti di grido. Non dimenticherà mai, dice, quella di un designer francese: «Durava soltanto due giorni. Piacque tantissimo, e gli ordini si impennarono. Più velocemente del solito dovevamo trattare abiti non da 30, ma da 400 euro l’uno. C’era un cappotto con dei pendenti fragili. Hai paura a respirare sui vestiti, in quei casi. Le altre “packer” imbustavano e piangevano. Io ho avuto un attacco d’ansia».
CONFEZIONE REGALO. Per far fronte allo shopping compulsivo del Natale, Amazon - 900 dipendenti a Castel San Giovanni, di cui tre dirigenti, 67 milioni di euro di ricavi - chiama centinaia di interinali per alcuni mesi. Daniele è stato uno di quelli. «Mi occupavo dei pacchi voluminosi. Ogni mattina c’era il briefing. Il “team leader” mostrava faccine tristi, diceva che eravamo stati poco produttivi il giorno prima. A volte lanciava delle sfide. Diceva “ragazzi, dai, dobbiamo spingere. Anziché 3.500 pezzi in un’ora, facciamone 5 mila”». Se ci riuscivano veniva estratto un premio, racconta. «Sono rigidissimi sul rispetto delle norme di sicurezza», continua: «Ma anche sugli standard: ti dicono come eseguire ogni movimento per risparmiare secondi preziosi». Se sei sotto media, «si avvicina un ragazzo, col computer. Ti dice: non potresti andare più veloce?». Quant’è contemporaneo il passato: «Lulù, ma cosa mi combini? Il rendimento è bassissimo, ci devi dare dentro. Se no perdi il cottimo». «Amore, amore, va qui che exploit. Non è che non posso. È che non voglio», rispondeva Gian Maria Volonté in “La classe operaia va in Paradiso”.
SPEDIRE. Un collega di Roberto assomiglia da vicino al cottimista immortale di Petri. «Ha tre figli e due mutui, per questo accetta anche quattro doppie a settimana. Non vive. Ma guadagna più di me. Prima poteva superare anche duemila euro al mese. Ora arriva al massimo a 1.800». Dal 2008 Roberto è uno dei fattorini che portano a casa la spesa ordinata online su Esselunga. «Prima eravamo 60 autisti, per 14 consegne a servizio. Ora siamo 100 e ne facciamo 17». La “doppia” è il doppio turno: «Significa che inizi alle 5.43 e guidi fino a dopo cena. Con la pausa per il pranzo». Roberto accetta solo una volta a settimana. «Voglio continuare ad allenarmi a rugby», dice. Alcuni suoi colleghi, per bisogno, sostengono ritmi molto più pressanti. «Siamo pagati un fisso di 1.250 euro al mese per undici consegne al giorno», spiega: «Tutti gli extra sono a cottimo - uno, 2,5 euro a ordine». La mattina si presenta al magazzino di Milano Sud, «rinconcilia», spiega in gergo, «i freschi al resto della gastronomia» e inizia le tappe. «Preferisco andare a Quarto Oggiaro», un quartiere popolare: «Perché lì i clienti sono spesso manovali che non hanno il tempo per andare al supermercato. E scendono a darmi una mano. In altre zone ti trattano da schiavo. E devi pure sorridergli». Roberto lavorava all’inizio per il consorzio Alma, che ha perso l’appalto dopo i guai giudiziari del fondatore, a cui la Guardia di Finanza contesta decine di milioni d’Iva evasa. Ora la gestione è di una srl «molto più seria, nelle buste paga», spiega. «Ma fa fatica a trovare nuovi autisti. Molti scappano dopo la prova. Perché è faticoso: sei sempre da solo, devi portare la spesa fino al corridoio del cliente, a prescindere dal peso». Lui non se ne va, «perché fuori non ho trovato altro. Vivo con mia madre. Stiamo finendo di pagare i debiti di papà».
CONSEGNARE. Anche Alessandro è tornato a vivere con i genitori a 35 anni. Diplomato in ragioneria, è stato per 18 anni trasportatore a Latina. «Ero arrivato a guadagnare, con il mio mezzo, anche tremila euro netti al mese. Certo, stavo molto in furgone. Fino a 140 consegne in un giorno. Ma non potevo lamentarmi». Parla al passato perché l’anno scorso ha lasciato la sua vita da “corriere espresso”. Il suo ormai ex settore non conosce crisi: il fatturato delle consegne a domicilio ha superato i cinque miliardi e mezzo di euro l’anno, come mostrano i dati dell’osservatorio Logistica del Politecnico di Milano che pubblichiamo in anteprima: seicento milioni di euro in più rispetto a sei anni fa. L’eCommerce alza i volumi. Ma non la qualità di vita per i “driver”: «È diventato tutto più insostenibile. Io ho portato pacchi per Gls, Bartolini, Sda, Mtn. Pagato a ore oppure da un euro a 4,2 a ordine. Avevo il mio giro di negozi. Sapevo come ottimizzare i tempi, le strade. Come gestire le giornate. Poi sono cresciute le spedizioni a casa, e la mia attività è passata al 70 per cento sui privati. Ovvero persone che magari non rispondono subito al citofono perché non possono, o il portiere non c’è, o chiedono di tornare dopo. Con tutti gli imprevisti non riuscivo più ad assicurarmi un cottimo che mi permettesse di guadagnare bene». Così ha cambiato mestiere, e pur di continuare a seguire l’Inter («Sono di Latina, ma la mia casa è San Siro. Se ho dei soldi, li spendo per le trasferte») è tornato dai suoi.
RESTITUIRE. L’anno prossimo si sposa. «Poi il mio sogno è comprarmi l’auto, se riesco a risparmiare». Debora è l’operaia modello dell’eCommerce italiano. A 22 anni è al suo secondo impiego fra carrelli e scaffali. Da quattro mesi è dipendente a tempo pieno del consorzio Ucsa: si occupa dei “resi” nel magazzino di Zalando, la piattaforma online di vestiti griffati. «Siamo tutte donne, nel mio reparto. Dobbiamo assicurarci che gli abiti restituiti siano intatti, puliti, senza difetti». Lo fa otto ore al giorno, più mezz’ora di pausa pranzo. Anche per lei l’orario è confermato solo giorno per giorno. «Prendo 1.400 euro al mese. La paga è buona. Il sabato ci danno il doppio. Fuori trovavo solo offerte in nero come cameriera al bar». Deve controllare 40 pezzi l’ora. «Riesco senza problemi, ma che non aumentino». Una volta al mese arrivano dei controllori di Zalando, «ci intervistano per sapere come va. Hanno dato feedback positivi sulla mia attività. Come premio ho ricevuto un buono da 200 euro da spendere sul sito web. Avrei preferito un aumento. Ma penso di potermi prendere qualcosa di bello». L’affitto, la Bassa, il fidanzato. «Se dovesse rimanere così, penso di poter tenere questo posto per tutta la vita».
L'INFERNO DELLA GRANDE DISTRIBUZIONE ORGANIZZATA (GDO).
Centri commerciali, il buco nero. Commesse che lavorano dalle 6 di mattina alle dieci di sera. Paghe da fame. Nessun diritto sindacale e frequenti abusi. Dietro le luci delle vetrine, ci sono spesso condizioni di vero sfruttamento e di illegalità, scrive Antonio Sciotto il 12 febbraio 2013 su "L'Espresso". Nei centri commerciali abbondano punti vendita di marchi di grande successo. Che troppo spesso però, dietro la potente forza del brand nascondono la debolezza e lo sfruttamento dei commessi. Nella gran parte di queste catene i lavoratori non sono inquadrati con normali contratti da dipendenti - che garantirebbero equi compensi, contributi, ferie e malattia - ma attraverso l'"associazione in partecipazione", un rapporto in base al quale la busta paga viene legata esclusivamente agli utili dell'impresa. Come se un semplice addetto alle vendite potesse essere, cioè, socio alla pari di un colosso del mobile o del collant. La realtà, evidentemente, è molto più triste: le commesse vestono le divise, devono rispettare turni imposti dall'alto, fanno spesso orari più lunghi di quelli contrattuali, senza godere di tutti i diritti e le tutele del lavoro subordinato. Da quando la Cgil ha aperto il sito dissociati.it, gli "associati in partecipazione" hanno cominciato a venire allo scoperto, inviando testimonianze che rivelano anni di prepotenze, frustrazioni e abusi. "Orari che vanno dalle 6.30 del mattino fino alle 22, turni massacranti per un monte ore che supera in taluni casi le 40 ore settimanali, straordinari non pagati", scrive il commesso di una catena di librerie. "Io sono arrivata a guadagnare in un mese 295 euro - denuncia l'addetta di un negozio di biancheria per la casa - Pur essendo presente tutti i giorni nel punto vendita, otto ore al giorno che diventavano dodici, tredici o anche quattordici nei periodi dei saldi o sotto Natale". Un'altra testimonianza rende l'idea non solo dello sfruttamento delle commesse, ma anche della poca attenzione posta dalle catene di distribuzione rispetto ai prodotti messi in vendita: "L'azienda XYX cerca continuamente personale, fa solo contratti di associazione in partecipazione, stabilisce le ore delle ragazze che assume ma dice di non dire nulla all'Inps se passasse per i controlli - racconta a dissociati.it una lavoratrice - Gli stipendi sono questi: 470 euro per 25 ore; 560 euro per 30; 750 euro per 40 ore. Chiede l'impossibile alle ragazze, non ci sono misure di sicurezza antincendio (hanno affittato i negozi ma non hanno messo nulla a norma: estintori scaduti da anni, impianti non funzionanti, ecc...). C'è una signora che si occupa di creare terrore psicologico tra le ragazze ed è lei che mantiene i rapporti tra i vari negozi e le associate dando i vari compiti e/o ordini. La merce che arriva molte volte non è accompagnata da bolla di trasporto, quindi non se ne conosce la quantità ed è prodotta in Cina, Tailandia e Filippine. Sempre la 'signora' ordina alle ragazze di tagliare tutti i cartellini o etichette che arrechino la provenienza della merce e dice alle ragazze di spacciarla come prodotti di alta qualità italiana alla clientela. Lo stipendio, se così si può chiamare, viene consegnato in contanti dal rappresentante legale, ma mai in una data precisa. Le ore non sono segnate sul cedolino e quelle fatte in più vengono pagate in nero. Durante gli allestimenti che avvengono spesso (circa ogni mese e mezzo) la 'signora' fa rimanere le ragazze nei negozi anche per 12 ore o più. Ogni ragazza dovrebbe avere un giorno a settimana di riposo, ma lei vuole che siano tutte reperibili in qualsiasi momento, anche per commissioni esterne al negozio (poste, spese, ecc...)". In effetti per questi lavoratori il salario non è mai garantito: secondo i dati dell'Inps, i 52 mila associati registrati nel 2011 hanno percepito un lordo annuale di 8000 euro, pari a compensi netti di 600-700 euro. Quando un lavoratore contrattualizzato del commercio guadagna almeno 1100 euro netti, gode di tredicesima e quattordicesima, tfr, ferie, malattia, maternità. Ottomila euro è solo la "media del pollo", in realtà, perché se l'esercizio ha un andamento negativo - e in periodi di crisi può essere la regola - l'imprenditore può anche imporre un "conguaglio", ovvero decurtare il già magro compenso, o far pagare al cosiddetto "socio" l'uso del telefono e di altri mezzi aziendali. Ultimamente la riforma Fornero ha cercato di fare pulizia nel settore, disponendo che l'associazione in partecipazione possa riguardare soltanto le imprese con non più di 3 addetti: ma è una misura che può essere aggirata facilmente, frammentando i punti vendita in diversi rami di azienda o per mezzo del franchising; senza contare che i parenti del titolare sono esclusi dal conteggio, e quindi un negozio con due vetrine può essere gestito tranquillamente senza neanche un dipendente. Fatti salvi questi mezzi di "aggiramento", i soggetti più grossi dovranno applicare il contratto nazionale. Ma secondo le denunce giunte al sindacato sono ancora molti i grandi marchi, con centinaia di addetti, che non si sono adeguati alle nuove regole: "La mappa è molto variegata – spiega Roberto D'Andrea, del Nidil Cgil – Ci sono aziende come le erboristerie Isola Verde che hanno intrapreso un percorso di stabilizzazione. Altre, come Poltronesofà, mantengono i vecchi contratti, perché li hanno certificati prima dell'ultima scadenza imposta dalla legge. Da altre società invece continuano a giungerci segnalazioni di abusi: non siamo ancora riusciti ad aprire dei tavoli e abbiamo allertato gli ispettorati del lavoro". Discorso a parte per il noto brand di intimo femminile Golden Lady, che aveva firmato nel settembre scorso un accordo per la stabilizzazione di tutti i suoi 1200 associati in partecipazione, da realizzare entro questa estate: il sindacato denuncia che in alcuni singoli punti vendita, come a Siracusa, Roma, Firenze e Bologna, diverse commesse sono invece state messe alla porta. Brand di successo e aggressivi, allergici però al sindacato. Alcune imprese aggirano i nuovi obblighi di legge e il confronto con i rappresentanti dei lavoratori, affidando il marchio in franchising. Un nuovo uso che si è imposto nelle Grandi Stazioni è quello di creare piccoli negozi, da 20 a massimo 100 metri quadrati, utilizzati come vetrine di nomi celebri che delegano logistica, distribuzione, contrattualizzazione dei commessi a un'azienda che lavora dietro le quinte, ma che è già una potenza, la Retail group. Nelle gallerie centrali, di fronte ai cartelloni partenze, vengono montati i cosiddetti "pop-up store", "moderne strutture flessibili e modulari caratterizzate da pareti di cristallo", recita il sito della Retail. E "flessibili" devono essere anche i lavoratori: fino a ieri associati in partecipazione, oggi contrattisti a termine, ma solo se firmano in cambio una conciliazione tombale su tutto il pregresso. Conciliazione richiesta, ad esempio, anche dai franchiser della catena di abbigliamento 7camicie. La crisi non risparmia neanche i più garantiti: è il caso dei dipendenti della catena di librerie Fnac, tutti regolarmente contrattualizzati, ma a rischio di perdita del posto. Il colosso francese del lusso Ppr, proprietario non solo di Fnac, ma anche di importanti marchi come Gucci, Bottega Veneta, Balenciaga, ha deciso di liberarsi del ramo italiano degli store che distribuiscono libri, cd e dvd, da tempo in pesante perdita. Nel dicembre scorso è stato firmato un accordo preliminare per la cessione al fondo Orlando Italy Management, che ha sede in Lussemburgo e controlla già il brand di profumerie Limoni. Orlando, però, è interessato a rilevare solo cinque punti vendita degli otto complessivi, il che significa l'imminente chiusura delle tre location di Roma, Firenze e Torino Grugliasco, senza escludere comunque futuri tagli agli organici nell'intera filiera. Tanto che è stata già richiesta la cassa integrazione per 302 addetti su un totale di 600. Marco Beretta, della Filcams Cgil di Milano, conferma questi timori: "Le forbici potrebbero abbattersi sul deposito, i magazzini, Internet. Siamo contro lo 'spezzatino' annunciato, e dobbiamo restare uniti: l'obiettivo è salvare tutte le librerie e tutti i posti di lavoro". Filcams Cgil, Fisascat Cisl e Uiltucs Uil hanno indetto lo stato di agitazione.
Dipendenti dei centri commerciali costretti ad una schiavitù silenziosa, scrive il 31/05/2017 Rossana Nicolosi su News Sicilia. Quella che oggi vi raccontiamo è la storia di Francesca (nome di fantasia) e di Paolo, Andrea, Giulia, Maria. Ma potrebbe essere la storia di chiunque altro, potrebbe essere la tua di storia, di te che adesso stai leggendo, magari mentre ti prepari per andare ad affrontare 8 ore di lavoro (se sei fortunato/a) o 12. Questa è la storia dei dipendenti dei centri commerciali costretti, nel 2017, a subire una schiavitù silenziosa senza precedenti, senza diritti, senza voce in capitolo soltanto per poche centinaia di euro. Facciamo un passo indietro e cerchiamo di pensare, soltanto per pochi istanti, alle nostre passeggiate domenicali o ancor peggio, nei giorni segnati in rosso nel calendario, all’interno dei mega-store. In Sicilia, come nel resto d’Italia, sono molti. In particolar modo soffermiamoci su quelli presenti nell’hinterland catanese, da San Giovanni La Punta, a Gravina di Catania, a San Giorgio, a Paternò. Una comodità, per alcuni, quella di poter girovagare tra un caffè, un giro per i negozi e una chiacchierata tra amici all’interno dei centri commerciali, chiedendo magari, di tanto in tanto, informazione a qualche dipendente che, spesso, con toni poco gentili e tanto fastidio, cerca di rispondere ai numerosi clienti. Avete mai pensato qual è, in fondo, il motivo di tanta irritazione da parte degli impiegati dei centri commerciali? Vi siete mai soffermati sulla vita di questi uomini e queste donne? La risposta, sicuramente, è no. A meno che, all’interno, non vi sia qualche vostro familiare, parente o amico. Oggi vogliamo puntare i riflettori su questi poveri Cristi… per una volta vogliamo metterci nei panni di chi, ogni giorno, affronta 8 ore di lavoro o addirittura 12 ore con una pausa di un’ora dove, i protagonisti, cercano disperatamente 60 minuti di “stop” da quella che si prospetta una giornata, una settimana, un mese o, forse, una vita da “schiavi”. Sono esattamente loro le vittime di una schiavitù silenziosa che al giorno d’oggi non vede più una via d’uscita. Lavoratori costretti a vivere rinchiusi all’interno di grandi storie per poche centinaia di euro, per uno stipendio che non vale un decimo della fatica e della vita sprecata. Una vita, sì, che va a rotoli senza sabati né domeniche. Senza uscite e vita sociale. Senza spensieratezza e senza belle giornate. Senza amori, famiglie e amici. I dettagli di un contratto di un lavoratore di un centro commerciale sono agghiaccianti: vi portiamo, come esempio, quanto raccontatoci da un’ex dipendente. “Ho mandato il curriculum ad un noto mega-store di Catania grazie ad un annuncio visto su internet. Cercavano un commesso con impiego full-time. Pochi minuti dopo l’invio della mia email, ricevo una chiamata con cui mi veniva fissato un colloquio per il giorno dopo”. “Mi reco all’appuntamento e aspetto silenzioso il mio turno insieme ad altri miei coetanei – continua Francesca (nome di fantasia) -. Dopo un colloquio di circa un’ora, tra domande private e generiche, vengo assunta con un contratto di tre mesi per uno stipendio mensile di 600 euro. Le ore giornaliere dichiarate sono 8 ma, in realtà, subito dopo poche ore – dopo aver indossato la mia ‘divisa’ e iniziato a perlustrare il lavoro da fare – mi viene detto che per chissà quanto tempo saranno 12. Dunque, il tizio con cui avevo fatto il colloquio, mi ha mentito. Saltano fuori, inaspettatamente, quattro ore di lavoro in più”. Ma non è finita qui, continua Francesca. “Ho iniziato a lavorare subito dopo il colloquio, il tempo di consegnare tutto il necessario, contenta e felice per essere stata assunta dopo tanti curriculum ed email senza risposta. Intorno alle 15 mi viene data un’ora ‘d’aria’ per una breve pausa di relax, giusto il tempo di pranzare”. Le 12 ore di lavoro di Francesca proseguono insieme alla stanchezza, al mal di testa e al via vai di gente. Intanto, tra la sistemazione di uno scaffale, un salto in magazzino e la compilazione di una bolla, inizia a venir fuori il dramma dei “colleghi”. “Sei stanca? Ancora non hai visto nulla… devi vedere come ti sentirai dopo sabato e domenica, quando la gente arriverà a flotta, e non avrai il tempo nemmeno di andare in bagno a fare pipì”. “Io non vedo l’ora di trovare un lavoro migliore e andarmene, tra pochi mesi mi sposo, e sono qui da quattro anni soltanto per realizzare il nostro sogno”. Questi sono alcuni spezzoni di conversazione tra colleghi, mentre Francesca, attonita, pensa alla vita che l’aspetta. “Durante il colloquio mi è stato detto che avrei avuto un giorno libero alla settimana che in effetti – continua Francesca – dopo 12 ore di lavoro giornaliere per sei lunghi giorni, mi meritavo proprio. Penso, allora, a che giorno scegliere e opto per il sabato o la domenica ma la mia richiesta, sbem: viene rifiutata”. È vietato, infatti, a tutti i dipendenti dei centri commerciali, scegliere come giorno di riposo il sabato o la domenica. Tutti devono essere presenti in questi “due giorni di fuoco” all’interno dei mega-store pronti a soddisfare le richieste dei presenti. Francesca attende tre giorni ma nessuno le fa firmare il contratto di lavoro. Oggi, domani, dopo… uno scarica barile continuo di cui nessuno si fa carico. E intanto le ore passano, le giornate anche, e così anche il tempo andato perduto… Lucia (nome di fantasia), collega di Francesca, racconta di come “le ferie possono essere prese soltanto nei mesi di giugno e settembre. A luglio ed agosto si lavora, tutti i giorni, eccetto il 15 agosto dove – per chissà quale miracolo – chiudiamo”. I giorni di ferie che i dipendenti possono prendere sono soltanto sette. Una settimana, avete capito bene, e se per caso – tramite una richiesta scritta effettuata 15 giorni prima, mancate dal posto di lavoro per chissà quale evento straordinario durante l’anno – quel giorno verrà tolto da quella misera settimana di ferie. Secondo la legislazione italiana sul lavoro, “a ciascun lavoratore deve essere garantito un periodo annuale di ferie retribuite non inferiore a 4 settimane. Tale periodo va goduto per almeno due settimane, consecutive in caso di richiesta del lavoratore, entro il 31 dicembre dell’anno di maturazione e, per le restanti due settimane, nei 18 mesi successivi al termine dell’anno di maturazione, salvo periodi di differimento più ampi previsti dalla contrattazione collettiva”.
Dunque, chi dirige un centro commerciale, non tiene conto delle normative stabilite dalla legge italiana?
Francesca, dopo un breve periodo, decide di ritornare a spedire curriculum che chissà, magari, qualche buon datore di lavoro si fa avanti. Dopo diverso tempo aspetta ancora il compenso di quei giorni che, secondo quanto dichiaratogli dai “responsabili”, non è ancora certo vengano retribuiti perché “eri in prova”. Ma che Francesca era in prova, quando è stato detto? E perché nessuno le ha mai fatto firmare il suo contratto di lavoro? E, soprattutto, è tutto studiato a tavolino? Tanto, sono certi, che lei sarà uno dei tanti che non reggerà il ritmo distruttivo di 12 ore di lavoro. Che le mancheranno le uscite con il fidanzato, le giornate al mare, la libertà di una domenica e andrà via. E loro, che si credono “furbi dirigenti”, prendono tempo. Non fanno firmare il contratto così, una volta richiesto di abbandonare il posto di lavoro, non saranno tenuti a pagare quei giorni e quelle ore spese lì dentro. Gli altri colleghi, invece, hanno deciso di restare… sfruttati da un business diventato, ormai, un circolo vizioso senza via d’uscita a cui, anche volendo, nessun dipendente può ribellarsi. Che tanto, se ti ribelli, perdi il posto e se finisci a casa come fai a vivere? La colpa, come sempre, ricade sulla crisi e sul filo sottile che separa il bisogno di lavorare dallo sfruttamento. Perché sì, diciamocela tutta, tra la ricerca di occupazione e la schiavitù ci sta nel mezzo la dignità. Quella cosa che ogni uomo o donna non dovrebbe mai perdere, nemmeno per poche centinaia di euro.
Sfruttate, vessate, malpagate: un Natale da inferno per le lavoratrici dei centri commerciali. Umiliate dai capi maschi. Costrette a orari incompatibili con la famiglia. In un settore in cui gli uomini sono quasi sempre i soli a far carriera. Ecco le storie delle dipendenti dei mall, sotto le feste, scrivono Maurizio Franco e Maria Panariello il 21 dicembre 2018 su "L'Espresso". C. non sa ancora a chi lascerà suo figlio domenica prossima, quando alle 5.30 del mattino, uscirà di casa per andare a lavorare in un ipermercato. G. vorrebbe licenziarsi, dopo che l’addetto alla sicurezza del centro commerciale l’ha chiamata “animale”. M. può andare in bagno solo «quando ci sono le condizioni», altrimenti ricorre ad un secchio in magazzino. A T. è vietato parlare con la collega che lavora nel corner accanto al suo, per non disturbare la “shopping experience” dei clienti. D. è stata portata nel deposito dalla manager, che le ha dato uno “schiaffetto” per non aver seguito le sue istruzioni. Benvenuti nel mondo degli acquisti. Centri turistici, supermercati, boutique e gallerie commerciali dove le luci abbaglianti, lo scintillio fantasmagorico delle vetrine e la fragranza dei profumi sono tutto un cerimoniale. Ma dietro ai sorrisi accoglienti degli addetti alle vendite si possono nascondere stress e frustrazioni. E a pagarne le conseguenze sono soprattutto le donne. «Ce ne sono tante che non riescono a fare carriera, perché hanno molte più cose a cui pensare. Per questo, in un supermercato, ai vertici troverai sempre uomini», dice A., che lavora dal 1999 per uno dei più grandi gruppi della Grande Distribuzione Organizzata. In quasi vent’anni, non le è mai stato riconosciuto uno scatto di carriera. Secondo l’Osservatorio JobPricing, che ha aggiornato i dati del Global Gender Gap Index (World Economic Forum), in Italia «l’accesso delle donne alle posizioni di vertice resta ancora molto basso» nonostante dal 2007 al 2017 sia stato registrato un incremento di circa 4 punti. Ma anche a parità di inquadramento, «nel 79 per cento dei casi analizzati, gli uomini hanno retribuzioni superiori». Il differenziale salariale medio tra uomini e donne nel Paese è del 10,4 per cento, ma se si guarda al campo del commercio, dove la presenza delle donne è pari a quella degli uomini, il gap si riduce al 4.9 per cento. Anche dove le donne sono di più, quindi, gli stipendi restano più bassi di quelli dei loro colleghi uomini. Ma alla base del quadro retributivo c’è un discorso di opportunità, che in questo settore, sono molto diverse per gli uomini e per le donne, complice il fatto che sono sempre le seconde a dover colmare l’assenza di un welfare. «Figuriamoci se mi fanno avanzare con una 104. Io dal 2009 sono ancora al IV livello, sono una semplice commessa” A. usufruisce della legge 104, il congedo straordinario che possono richiedere i lavoratori che assistono i familiari disabili. Sua figlia è affetta dalla sindrome di Down, ma tutti i giorni, in casa con lei da 10 anni, c’è una ragazza che la segue, quando A. è a lavoro, domenica inclusa. Sono le donne, secondo precisi meccanismi di segregazione occupazionale, a farsi carico di tutti quei servizi che il pubblico ha smesso di erogare. E così, anche quelle che lavorano nel commercio subiscono l’inganno di credere di poter scegliere ritmi e contratti di impiego, finendo poi per svolgere un doppio lavoro, dentro e fuori casa. «Oggi mi è arrivata la notizia che farò due chiusure a settimana. Questo vuol dire arrivare a casa a mezzanotte. Ma io quando potrò stare con mio figlio?», è lo sfogo di M., che lavora in una boutique di lusso di un centro commerciale. Spesso il tempo è talmente poco, che si rinuncia anche ad avere relazioni affettive. «Io noto che in questo settore o siamo tutte single o divorziate, anche a causa del lavoro. Come fai a fare in modo che la tua vita non vada a rotoli?», racconta F. Oltre alla cura della famiglia, infatti, le donne impiegate nel settore riescono a malapena a concedersi una messa in piega a settimana e spesso, neppure quella. «Gli acquisti si sono spostati nel week end e non solo per la gente che lavora, anche per chi il tempo ce l’avrebbe. Durante la settimana si va dal parrucchiere o in palestra, poi quando ci si ricorda di far la spesa? Nel week end. Ma io non ho lo stesso diritto di andare dal parrucchiere o in palestra?». V. lavora da circa 20 anni in un negozio di un mall commerciale. «Dal gennaio 2012 ci siamo visti consegnare una circolare dalla direzione del centro che diceva che dalla domenica successiva saremmo stati aperti. Da allora il tempo per me stessa e per la mia famiglia si è dimezzato». Il lavoro domenicale è donna. Lo dice l’Istat, che ha calcolato al 61,1 per cento la componente femminile impiegata l’ultimo giorno della settimana. Il mondo del commercio è cambiato rapidamente negli ultimi anni. Al centro del recente dibattito, le norme prese a suo tempo dal governo Monti, che hanno completamente liberalizzato gli orari di apertura. Cinque sono le proposte attuali riguardanti le chiusure domenicali sul tavolo della Commissione Attività Produttive della Camera. Contrari o favorevoli, gli italiani si dividono sulla sacralità dei consumi e delle festività. Stando ai numeri di Federdistribuzione, le aziende spendono 400 milioni di euro per pagare il lavoro domenicale che - come recita il Ccnl del Commercio attualmente in vigore - è remunerato con una maggiorazione del 30 per cento. 400 milioni di euro che equivalgono a 16 mila occupati full time in più. L’ultimo giorno della settimana rappresenta il 10 per cento del fatturato delle grandi catene commerciali. Secondo l’associazione di categoria, le chiusure domenicali potrebbero produrre circa 40 mila esuberi. In un comunicato stampa, la Filcams Cgil - riferendosi alle liberalizzazioni degli ultimi anni - parla invece di «una riduzione dell’occupazione pari almeno al 20 per cento» nella grande distribuzione. A cui «si deve aggiungere il dato relativo alla diffusione di processi di terziarizzazione ed esternalizzazioni di parti rilevanti delle attività commerciali». A dirlo da anni è Francesco Iacovone, sindacalista dei Cobas lavoro privato, onnipresente nella difesa dei lavoratori. «Le liberalizzazioni del 2012 non hanno rappresentato uno sprone all’occupazione», dice il sindacalista. «Anzi, hanno peggiorato le condizioni di lavoro, rendendolo precario. Per coprire le domeniche sono stati utilizzati gli stessi lavoratori, i cui turni sono stati spalmati su tutta la settimana. C’è stata una proliferazione dei contratti a termine, del lavoro somministrato e a chiamata, degli stage e dei tirocini. Con questi ultimi, lo stipendio è ben al di sotto degli indici di povertà calcolati dall’Istat». Secondo le fonti sindacali, circa il 70 per cento dei lavoratori è costretto ad avere un impiego part time. «In questo quadro è soprattutto sulle donne che si è abbattuta la scure dello sfruttamento», dice Francesco Iacovone. «Tempo per me? Non so cosa sia! L’unico tempo libero che ho fuori dal negozio lo passo a casa o con la mia famiglia. Non potrei mai concedermi 2 ore per andare dall’estetista!» racconta E. «Io faccio parte di un ramo d’azienda quindi siamo in pochi. Siamo meno di 15 dipendenti, ma la domenica siamo in tre. C’è una turnazione, una domenica ogni 3, oppure ogni 4, ma non sempre viene rispettata. Io ad esempio questo mese ne ho fatte 3». E. ha scelto un contratto part time, pensando di poter trascorrere più tempo con la sua famiglia, ma i giorni di riposo sono un miraggio. «La domenica lavoro per 15 euro lordi in più. Non ne vale la pena». Dalle testimonianze raccolte emergono storie di pressioni e di discriminazioni sul posto di lavoro. Appare così un pezzo del mondo del commercio, con le corsie intasate da umiliazioni quotidiane, flaconi di ansiolitici ingurgitati come caramelle. Oltre che dallo sfruttamento. «Volti anonimi e sfoghi invisibili», come li definisce Francesco Iacovone. A E. la valutazione bimestrale è stata recapitata in uno sgabuzzino, perché si era permessa di difendere una sua collega. «A tutti era stata consegnata in ufficio, a me invece no. Mi è stato urlato: “Vai a fare la paladina della giustizia da un’altra parte! Qua dentro la legge sono io!”». «Per quattro mesi ho lavorato 40 ore alla settimana, guadagnando 600 euro come tirocinante». Solo dopo 3 anni, F. ha avuto il primo contratto da addetta alle vendite in un negozio di accessori, che è durato 10 giorni. Ha subito mobbing dal suo superiore e ha deciso di andarsene. «Dai, più veloce, non voglio giustificazioni, devi lavorare», le diceva. Oppure arrivavano le minacce. «Ti vedo appoggiata al muro a non far niente, io questi capelli te li strappo tutti!». Anche Z. non ce l’ha fatta più. «Sono stata malissimo. Ho iniziato a perdere i capelli e ad avere una gastrite cronica, che ho ancora adesso. Lo stress ti corrode lo stomaco». Z. spendeva tutto il suo tempo nel negozio di abbigliamento in cui lavorava. Sotto pressione, come se avesse dovuto tagliare un traguardo. Vendita e profitti erano le parole d’ordine. E le sue performance erano calcolate attraverso una serie di indicatori. Come il “convertion rate”, che associa il numero degli scontrini battuti agli ingressi nel negozio. Un parametro che influisce nel rapporto di lavoro. “«Se non portavi i risultati prefissati dal tuo superiore, non valevi niente. Dovevi sempre superare il tuo limite», racconta. N. invece ha firmato un regolamento comportamentale, emesso dal centro commerciale, non previsto dal contratto dell’azienda per cui lavora. Abbigliamento sobrio, trucco naturale e leggero, capelli pettinati e ordinati. N. non può mai - senza previa e giustificata autorizzazione del suo superiore - allontanarsi dalla propria postazione. Durante il turno di vendita non può mangiare o masticare una chewing gum nei corridoi e nelle sale, non può intrattenersi con parenti e amici, non può utilizzare il cellulare. Nel regolamento però, la perquisizione della borsa da parte degli addetti alla sicurezza all’uscita dal centro commerciale, non è prevista. N. lo sa, ma non può fare altrimenti. «A chiusura, mi hanno chiesto di aprire la borsa, perché dovevano controllare. Che cosa poi? Te lo dicono con il sorriso, perché sanno che non lo potrebbero fare». «Come si educano le pulci per non farle saltare?», dice Francesco Iacovone. «Si mettono dentro un vasetto con un coperchio. Saltano e sbattono, fino a quando non capiscono che non devono più farlo, ammaestrate dal dolore. In quel momento le puoi tenere sottomesse per tutta la loro vita». Da noi contattate, le associazioni di categoria del commercio hanno risposto.
L’Associazione Nazionale di rappresentanza della cooperazione di consumatori - che rappresenta 1.100 punti vendita con 57 mila dipendenti - dichiara che «oltre il 94 per cento dei lavoratori sono a tempo indeterminato, 68,8 per cento sono donne», con il 33,5 per cento delle posizioni direttive ricoperte. Sulle aperture domenicali l’Ancc è a favore di una loro regolamentazione e specifica che l’attuale contratto nazionale prevede maggiorazioni dal 35 al 100 per cento rispetto al lavoro feriale. «Inoltre, spiega l’Ancc, «esistono attenzioni particolari per limitare il lavoro domenicale in casi come personale dipendenti con bambini piccoli, oltre a casi di patologie documentate e a dipendenti che usufruiscono della 104».
Federdistribuzione, contraria alle chiusure domenicali, afferma che nelle sue associate l’83 per cento dei lavoratori impiegati l’ultimo giorno della settimana è a tempo indeterminato. I contratti integrativi concedono maggiorazioni che variano dal 30 all’80 per cento e non esiste l’obbligatorietà al lavoro domenicale per le donne con un bambino di età inferiore ai 3 anni. L’associazione sottolinea che nelle sue aziende sono state istituite commissioni paritetiche con il sindacato contro la violenza di genere e che il mobbing non è un fenomeno rilevante.
Confcommercio apre però al dialogo sulle aperture domenicali. «Ridiscutere con atteggiamento non ideologico il ruolo della distribuzione è un primo passo importante e condivisibile. L’obiettivo deve essere quello di evitare gli errori del passato e di valorizzare il nostro modello plurale fatto di piccole, medie e grandi imprese per assicurare il massimo del servizio e della qualità alle famiglie e ai consumatori».
"Hai figli? Stai per averne? Non sei una lavoratrice gradita". Il rapporto shock. Questo uno dei leit-motiv delle oltre seicento donne che si sono rivolte nel corso del tempo all'ufficio dell'ex consigliera di Parità della Regione Puglia, per denunciare le discriminazioni subite sul posto di lavoro. Dalle molestie alle mosse illegali, scrive Maurizio Di Fazio il 15 settembre 2017 su "L'Espresso". “Al tempo del mio insediamento, l’ufficio non era molto conosciuto sul territorio. E le risorse quasi azzerate per un maschilismo strisciante. Ho lavorato quasi da volontaria, consapevole che spesso le Consigliere sono l’ultimo baluardo di ascolto e difesa delle donne. E dire che la normativa europea (una direttiva del 2006 recepita con un decreto legislativo del 2010) ci ha reso ancor più protagoniste nella battaglia contro le discriminazioni di genere”. Per nove anni, fino al 2016, Serenella Molendini è stata la Consigliera di parità della Regione Puglia e ha deciso di cristallizzare la sua esperienza in un volume intitolato “Pari opportunità e diritto antidiscriminatorio”. Radiografia di una regione, e di una nazione, sensibilmente in ritardo in tema di eguaglianza tra i sessi sul posto di lavoro. E tutto questo nel quarantennale della legge Anselmi sulla Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro. La parità di partenza e di accesso resta un concetto astratto, così come la qualità delle condizioni e delle opportunità lungo il percorso. Anche il gap salariale di gender non accenna a diminuire, specialmente nel settore privato. Le donne italiane si laureano più degli uomini, compresi master e specializzazioni post-universitarie, ma guadagnano di meno e il numero di quelle che arrivano a posizioni di vertice non tocca il 20 per cento del totale. È quasi impossibile superare il cosiddetto “soffitto di cristallo”. L’ascensore è bloccato, il 40 per cento è assorbito da mansioni di segretariato, dilagano i contratti precari tra le ragazze dai trenta ai quarant’anni. Il fardello che inibisce la libertà di carriera e la tranquillità in ufficio o in fabbrica delle donne è sempre lo stesso: la maternità. La maggior parte delle seicento donne che hanno bussato alla porta della Molendini lamenta che sia stata proprio questa la causa della discriminazione o del licenziamento subito. Le aziende tendono a mettere subito le cose in chiaro: se hai dei figli, e soprattutto se stai per averne qualcuno, non sei una lavoratrice gradita. Così il colloquio non andrà a buon fine, o inizieranno rappresaglie programmatiche se già assunte. Molte neo-mamme non ce la fanno a sopportare un clima di terrorismo psicologico, e gettano la spugna: licenziamenti mascherati da “scelte autonome”. Nel 2008 le donne pugliesi che si dimettevano dal lavoro dopo la maternità erano 666. Adesso sono 1587. L’aut-aut tra lavoro e maternità è ancora un’usanza invalsa nel mezzogiorno, ma a soffrire di questa “superstizione” antimoderna è un po’ tutta la penisola. E si cerca perfino di ignorare il divieto di licenziamento, previsto per legge, durante la gravidanza e fino al compimento di un anno di età del bambino. Senza contare gli episodi di molestie sessuali, mobbing, trasferimenti forzati, maltrattamenti verbali, minacce e negazioni di orari flessibili, demansionamenti e riduzioni arbitrarie dello stipendio. “Attraverso il lavoro di questi anni si è avuta la piena consapevolezza che le denunce pervenute rappresentino solo la punta dell’iceberg di un sommerso impalpabile” scrive Serenella Molendini nel suo report. Istituite nel 1991, il ruolo delle Consigliere regionali di parità è decollato solo negli ultimi dieci-quindici anni: oggi sono delle pubbliche ufficiali a tutti gli effetti, e dopo una denuncia possono farsi mediatrici in sede di conciliazione, o adire le vie giudiziarie oltreché adoperarsi per un profondo mutamento culturale della propria comunità. “Si tollera che le donne si vedano precludere alcune tipologie di lavori e mansioni, o che al momento dell’assunzione si sentano richiedere se si è sposate o fidanzate, o se pensino di avere un figlio. Non desta nessuna meraviglia che una donna laureata, con master e specializzazioni, faccia carriera meno frequentemente e guadagni meno, o lavori in un call center – aggiunge l’ex Consigliera di parità -. Le lavoratrici conoscono bene le pressioni, più o meno sottili, di datori di lavoro e familiari per indurle a lasciare l’impiego, magari perché ritengono non ce la facciano a tenere il ritmo del doppio “carico”. Dunque atteggiamenti culturali, stereotipi duri a morire: non c’è da stupirsi che crolli il tasso di natalità, con un’Italia fanalino di coda in Europa”. La strada è ancora lunga, necessita di sentinelle in trincea, giorno dopo giorno, contro le discriminazioni di genere e il rapporto “Pari opportunità e diritto antidiscriminatorio”, costellato di casi concreti (e vertenze vinte), indica la via. Ti licenzio perché sei in età fertile. Una donna già vittima di mobbing, rientrando al lavoro dopo un periodo di assenza, è stata invitata ossessivamente a rassegnare le dimissioni “vista anche la sua età, rischiosa per l’azienda, perché avrebbe potuto sposarsi e avere dei figli”.
Una gravidanza non può fermare la macchina giudiziaria. Un’avvocata incinta aveva chiesto il rinvio di un’udienza per complicanze della gravidanza. Ma la sua domanda è stata rigettata perché “pervenuta tardivamente in cancelleria”. La legale è stata finanche accusata di negligenza professionale. “Una colica non si fa preannunciare” ha polemizzato la Molendini.
Stalking occupazionale. Al rifiuto delle lavoratrici di sopportare apprezzamenti del genere “hai un culo da sballo” e “ti faccio diventare donna”, strusciamenti e pacche sui glutei, fanno spesso seguito atti di ripicca, sopraffazione e vendetta. Uno stillicidio di persecuzioni in stile stalking che osserva sempre il medesimo copione e pare non presentare alternative all’auto-licenziamento, passando per la discesa negli inferi della depressione.
Non ci stai? E allora ti pago lo stipendio quando pare a me (e ti calunnio). Nel 2010 una donna, assistente in uno studio medico, si è rivolta a Serena Molendini raccontandole di essere stata molestata ripetutamente dal suo datore di lavoro. Angherie a sfondo sessuale cominciate due anni prima, quando si stava separando dal marito. La donna respinge al mittente gli approcci e il medico passa al contrattacco. Sa bene che la sua dipendente non naviga in buone acque e prende quindi a retribuirla non più il primo giorno del mese, ma con assegni fuori piazza, accreditati anche quindici giorni dopo. La donna trova però il coraggio di denunciare l’accaduto, e il dottore si vendica contestandole delle presunte inadempienze lavorative. Inoltre l’aggredisce, per futili motivi, di fronte ai pazienti dell’ambulatorio. La segretaria finisce nel gorgo delle strutture pubbliche di igiene mentale che le diagnosticano “uno stato ansioso depressivo reattivo in relazione a problematiche lavorative”, curabili con ansiolitici e psicoterapia. Ma l’azione della Consigliera di parità le garantisce una conciliazione stragiudiziale della querelle, e le restituisce la dignità perduta.
Non ci stai? E io ti perseguito fino a costringerti al licenziamento. Un risarcimento per le molestie subite sul luogo di lavoro, per l’avvilimento psichico, lo stato di disoccupazione subentrato e la conseguente perdita di chance di possibilità di conseguire vantaggi economici e morali dalla progressione di carriera. È riuscita a ottenerlo un’altra lavoratrice pugliese tormentata a lungo dal suo datore di lavoro, a colpi di mail e sms espliciti. Night and day. Blandizie e ricatti, profferte sessuali e ritorsioni. La donna, rischiando di impazzire, si era licenziata. L’ex Consigliera l’ha salvata.
Non fare figli non è una colpa, essere sottopagate sì. La situazione fotografata da un rapporto sul gender pay gap sui redditi dei professionisti italiani, dipendenti e freelance è desolante. Nel 2016 una donna ha guadagnato quasi la metà rispetto a un uomo. Ma ancora ci si stupisce che non tutte vogliano diventare madri, scrive Cristina Da Rold il 18 gennaio 2018 su "L'Espresso". In molti si sono indignati nei giorni scorsi all'uscita di alcuni dati Istat che hanno sottolineato un nuovo record per l'anno appena trascorso: quasi la metà delle donne fra i 18 e i 49 anni, cioè in età potenzialmente fertile, non ha dei figli. Non serve dirlo, il tono con il quale la notizia è stata diffusa sui media è stato ancora una volta di sgomento giudicante: troppe donne oggi preferiscono posticipare la maternità per poter consolidare la propria posizione lavorativa dopo anni di studio, di specializzazione. Un posticipare che “spesso si traduce in una rinuncia”, ha scritto qualche esperto. Senza considerare che i figli non li fanno solo le donne ma le coppie, nella maggior parte dei casi. Ancora una volta il messaggio fra le righe è che queste donne sono colpevoli di non aver fatto tutto ciò che avrebbero potuto fare, invece di cogliere l'occasione per parlare di lavoro e del fatto che oggi una donna con meno di 30 anni che inizia un percorso professionale da professionista guadagna il 10% in meno di un suo collega uomo. Gap che fra i 30 e i 40 anni – che per la donna non sono solo gli anni cruciali per la maternità ma anche per l'avviamento di una professione – diventa del 27%. Oggi in Italia una professionista di 35 anni guadagna un terzo in meno rispetto al suo collega di scrivania. Fra i 40 e i 50 anni il gap è ancora del 23%. Inoltre, anche tralasciando le differenze di genere e facendo un discorso più generale, dal momento che come si diceva i figli non li fanno le donne ma le coppie, oggi un giovane professionista (uomo o donna) fra i 30 e i 40 anni guadagna il 36% rispetto a un uomo fra i 50 e i 60 anni (la generazione dei cosiddetti Baby boomers, i nati negli anni Sessanta). Per gli under 30 la situazione è ancora più desolante, con stipendi pari a un quinto di quelli dei loro genitori. La situazione la fotografa l'ultimo rapporto di AdEPP (Associazione degli Enti di Previdenza Privati) che ogni anno raccoglie i dati sui redditi dei professionisti italiani, dipendenti e freelance, non solo di giovani medici, giovani avvocati, giovani giornalisti, ma di qualsiasi professione sia regolamentata oggi da un albo professionale e quindi abbia una cassa di previdenza di categoria. Va detto dunque che questi dati non comprendono i professionisti più sfortunati, quelli talmente atipici da non rientrare in alcuna professione riconosciuta, e che versano i loro contributi all'INPS Gestione Separata. Tornando al gender gap, il primo dato che salta all'occhio è appunto la differenza di reddito medio complessivo del 2016: 40 mila euro per gli uomini e 23,5 mila euro per le donne. Stiamo parlando di quasi la metà del guadagno rispetto a un uomo, e di un reddito pari a circa 2000 euro lordi al mese, che oggi in Italia significano tutt'altro che serena indipendenza. Non si può non pensare che una delle ragioni preponderanti di questo gap, in particolare fra le libere professioniste, possa essere la mancanza di strutture di sostegno alla maternità che fa sì che le donne semplicemente possano dedicare meno tempo alla loro libera professione. Una distinzione d'obbligo poi è quella fra professionisti dipendenti e liberi professionisti: i primi sono riusciti in qualche modo a tenere le redini negli anni della crisi, mentre i secondi sono andati impoverendosi. Fra le due categorie oggi c'è un abisso: un professionista assunto (un avvocato in uno studio, un giornalista in una redazione) guadagna in media il doppio rispetto ai colleghi liberi professionisti. Guardando le serie storiche degli ultimi anni notiamo che il reddito reale (cioè il potere d'acquisto considerato un dato paniere di beni e servizi) dei professionisti dipendenti nel 2016 è cresciuto dell'8% rispetto al 2005, mentre quello di un libero professionista è calato del 18%. Senza una svolta nelle politiche sul sostegno alla maternità che facilitino la prospettiva di vita di una donna fra i 30 e i 40 anni, non possiamo stupirci che molte donne scelgano di non diventare mamme. Ci rallegriamo per i dati che ci racconta ogni anno Almalaurea, che vedono sempre più donne laureate e specializzate, future professioniste, ma alle strette di mano troppe volte non seguono sostegni concreti. Così come – d'altro canto – dovremmo forse iniziare a considerare la possibilità che non tutte le donne desiderino diventare madri, al di là del gender pay gap. Che molte preferiscano vivere una vita diversa, e smettere di sottointendere che in qualche modo la scelta di essere fertile e non madre sia una rinuncia.
L’inferno della grande distribuzione. Una testimonianza di Cisimat del 17 dicembre 2015 su "Contropiano". Sono un lavoratore come tanti. Anzi, un ex lavoratore, visto che il mio contratto è scaduto a luglio. Per diverso tempo ho lavorato per una Cooperativa della Grande Distribuzione Organizzata. Per i non addetti, ero uno di quei lavoratori che spesso ignorate quando andate a fare la spesa al supermercato, o ai quali vi rivolgete solo se manca qualcosa o per lamentarvi. Il lavoro era impegnativo (grazie a Monti si lavora anche domeniche e festivi) ma tutto era fatto secondo le regole: gli straordinari venivano pagati, le norme sulla sicurezza seguite con attenzione, i diritti sindacali rispettati e si guadagnava anche un po’ meglio dei colleghi di altre catene. Purtroppo il contratto è scaduto appunto a luglio e da allora sto cercando una nuova occupazione. Il mondo della Grande Distribuzione Organizzata, insieme ai call center, è una giungla, in cui, come in tutte le giungle, vince il più forte. Cioè non il lavoratore, non io. Lo sapevo che sarebbe stata dura passare ad altre catene, che sarei passato dal paradiso al purgatorio. Ma l’inferno non me lo aspettavo proprio. E di certo non l’inferno che mi è stato prospettato. Qualche settimana fa un’agenzia del lavoro della mia città mi ha chiamato per un colloquio. Ovviamente queste chiamate accendono un mix di attesa e speranza, una luce che si accende, la possibilità di tornare a vivere e non limitarsi a sopravvivere: non avere problemi a uscire una volta con gli amici; non doversi vergognare di trovarsi alla cassa del pub senza soldi nel portafoglio per pagare; la soddisfazione di arrivare a sera avendo fatto qualcosa di utile insieme agli altri. Ma la realtà del colloquio è stata una doccia fredda. Uno dei tanti discount, di quei negozi che vendono prodotti di dubbia qualità a basso prezzo, apre nuovi negozi nella mia provincia. Ovviamente, come in ogni colloquio nelle agenzie di lavoro, non viene svelato il nome della catena. Chissà perché, forse per vergogna. L’esperienza ce l’ho, il settore lo conosco e dopo mezz’ora di colloquio hanno capito che il mio profilo può interessare al cliente. Ma io sono interessato alla posizione? Questa è la domanda. Ovviamente sì, qualsiasi cosa pur di non stare più a casa. Qualsiasi cosa piuttosto di passare le giornata a casa da solo a mandare decine di Cv al giorno. Quindi ci sarà un secondo colloquio con il responsabile della catena e nel mentre mi vengono prospettate le condizioni contrattuali. Prima qualche mese di prova come somministrazione (cioè un contratto con l’agenzia interinale) per poi essere assunto a tempo determinato dalla catena di supermercati. Se tutto va bene, il contratto a tempo indeterminato dopo questo periodo. Non è un lavoro e un contratto da sogno, ma me lo aspettavo. Purtroppo è la norma, ma l’avevo messo in conto. Benissimo, accetto soddisfatto. Ma il responsabile dell’agenzia mi avverte che il lavoro sarà impegnativo e vuol sapere se sono pronto. Ovviamente sì, ho già lavorato della Gdo, anche nei fine settimana. Nessun problema. Ma qui c’è dell’altro. Poiché il negozio apriva a Dicembre si andrà incontro al periodo natalizio. E mi chiede la disponibilità a lavorare sempre. E anche qui annuisco. E’ la norma purtroppo. Ma precisa che lavorare sempre a Dicembre, significa (parole sue) lavorare tutti i giorni del mese, domeniche e festivi compresi, senza alcun giorno di sosta. Rimango basito. Lui precisa che è normale e che anche l’anno precedente, negli altri negozi è stato così. Come lo definireste voi? Un inferno. Un intero mese senza soste, senza domeniche. Un gradino sopra gli schiavi. Il direttore dell’agenzia precisa che ovviamente gli straordinari saranno pagati tutti. Ma come? Come è possibile non far risultare alcun giorno di riposo? O saranno pagati in nero? Come si può proporre tutto questo in un lavoro molto fisico, dove si tratta di spostare pallet di decine di chili con i muletti o di andare in celle frigorifere a -18. la stanchezza crea gli infortuni e i morti sul lavoro. Sono diviso tra il disgusto e la necessità. Tra il non voler vendere la mia dignità di lavoratore a questi sfruttatori e la necessità di lavorare. Chinare la testa e vergognarsi di sé stessi, vergognarsi a pensare al nonno manovale di cantiere che mi ha insegnato a tenere la testa alta sempre, sentire di tradirlo con un sì, quasi dimenticare i suoi racconti della guerra e delle manifestazioni, degli scioperi e delle manganellate della polizia. Oppure rifiutare quasi dignitosamente, ma restare solo a casa, e continuare a sopravvivere. Ma sarebbe vita accettare? Ma la rabbia in ogni caso prevale. Ma il riposo settimanale non è un diritto costituzionale? e dove sono i principi etici enunciati all’entrata dell’agenzia interinale? Dov’è l’ispettorato del lavoro? Possibile che nessuno se ne sia accorto? Com’è possibile che tutto ciò accada? Dove sono i sindacati? Dove sono quei giovani incravattati che ci spiegano ogni giorno quanto sia bello e buon il Job Act? Ha proprio ragione Landini, da quando si usano i nomi inglesi, ai lavoratori sono arrivati solo guai. E dove sono Treu, Maroni, Monti, la Fornero e tutti quei ministri che hanno scritto leggi che permettono tutto ciò? La Fornero ci ha detto che non dobbiamo essere choosy (un altro termine inglese!), cioè schizzinosi. Ma lei ha mai dovuto scegliere tra la sopravvivenza e queste condizioni? Non so cosa farò. Non ho ancora deciso. Sento solo che vorrei fare qualcosa per tutti quei colleghi che già hanno dovuto accettare queste condizioni, che vivono a queste condizioni e che rischiano la vita ogni giorno a causa della propria stanchezza e della stanchezza degli altri. Ma non so cosa posso fare. A loro tutti va la mia solidarietà più sentita. Mentre questa agenzia e la catena di supermercati non si meritano altro che il mio disgusto più profondo. Il disgusto per chi sfrutta gli altri, per chi si approfitta di una situazione di difficoltà degli altri, il disgusto per chi gioca con le vite degli altri, il disgusto per chi (al primo infortunio) accollerà tutte le responsabilità al lavoratore. Tutto questo non avveniva quando i lavoratori erano organizzati. Quando i sindacati erano combattivi e presenti.
Viaggio nella Grande Distribuzione: intervista a due lavoratori dell’Auchan dell’Area Nord di Napoli di Clash City Workers (sito) di giovedì 27 febbraio 2014 pubblicato su agoravox.it. Le interviste che abbiamo raccolto hanno tante differenze (azienda per cui si lavora, ruolo che si ha in azienda, tipo di contratto), ma sicuramente c'è un aspetto che le accomuna: la percezione che il tempo del lavoro inondi sempre più completamente ogni parte della nostra quotidianità, senza per questo darci ciò di cui abbiamo bisogno per condurre una vita almeno dignitosa. Così come le accomuna la viva consapevolezza che lottando e connettendo la propria esperienza con le altre orizzontalmente, si possa provare a migliorare la propria condizione lavorativa; che poi "propria" lo è meno di quanto si immagini. Per la rubrica Viaggio nella Grande Distribuzione ripubblichiamo un'intervista doppia fatta dal Laboratorio Politico Kamo a due lavoratori dell'Auchan dell'area Nord di Napoli.
Intervista a due lavoratori dell’Auchan. Quest’intervista doppia sulle condizioni di lavoro nella G.D.O. (Grande Distribuzione Organizzata) segue quella ad un lavoratore di un fast food e fa parte di un lavoro di indagine e denuncia delle condizioni di lavoro che stiamo portando avanti con l’obiettivo di dare voce ai lavoratori e far sì che possano, attraverso la percezione di condivisione della situazione di sfruttamento, prendere atto della propria appartenenza di classe, in contrapposizione a coloro che di questa classe non fanno parte e che anzi lavorano per tenerla nelle attuali condizioni di subalternità, precarietà, sfruttamento e povertà. Questa volta abbiamo incontrato Teresa (pseudonimo), e Mario (pseudonimo): la prima ha lavorato, e il secondo lavora ancora, in uno dei più famosi centri commerciali: l’Auchan, uno dei tanti dell’area nord di Napoli, che spuntano un po’ ovunque e sono aperti nei giorni e negli orari più assurdi. Vediamo quali sono le loro condizioni di lavoro.
Quale ruolo hai e quali mansioni svolgi?
Teresa: Addetto vendita (cassiere, ricarico scaffali e verifica scadenze nel magazzino, apertura bancali merci nel deposito).
Mario: Addetto vendita.
Che tipo di orario (part-time, tempo pieno, turnista o straordinario) osservi?
T: Part time verticalizzato e flessibile, il che consentiva loro di lasciarmi a casa anche per tre giorni consecutivi durante una stessa settimana e poi farmi lavorare oltre le 8 ore in giorni particolari come il sabato e la domenica quando il flusso di clientela era maggiore.
M: Tempo pieno a cui è stato applicato il Contratto di Solidarietà (C.D.S.), riducendo le ore da quaranta a ventotto ore settimanali.
Le ore di lavoro effettivo sono quelle previste da contratto? Inoltre gli extra vengono pagati?
T: Le ore da contratto non venivano sempre rispettate e gli straordinari non venivano mai retribuiti, io personalmente ho lavorato anche durante il mio giorno di riposo senza ricevere alcun extra.
M: Personalmente sì, ma alcuni lavoratori quando hanno finito il proprio turno timbrano il cartellino, ma poi ritornano a lavorare e queste ore addizionali non vengono retribuite, e ciò al fine di ingraziarsi i responsabili del personale in caso di eventuali futuri licenziamenti. Le domeniche lavorative hanno una maggiorazione del 30% rispetto agli altri giorni; con modifiche imposte dal C.D.S. il lavoro nelle giornate di Natale, Capodanno, Ferragosto e altre festività non è più pagato con la maggiorazione prevista per le festività, ma solo come domenica lavorativa.
Quanti giorni a settimana e quante ore al giorno lavoravi/lavori?
T: Il mio contratto prevedeva venti ore settimanali ma ne facevo sempre qualcuna in più ed ovviamente non retribuita. In teoria dovevo lavorare cinque giorni su sette ma spesso lavoravo tre o quattro giorni su sette col doppio o il triplo dell’orario, in pratica anziché lavorare quattro ore al giorno per cinque giorni lavoravo tre giorni per circa otto o dieci ore al giorno!
M: ventotto ore a settimana; su sette giorni almeno sei di lavoro su cui spalmare le ventotto ore; se il mese ha cinque domeniche almeno quattro sono lavorative, se ne ha quattro, almeno tre; i turni sono stabiliti dai responsabili del personale, e sono comunicati ai lavoratori settimanalmente il giorno prima dell’inizio della settimana; la mattina il primo turno inizia alle 6:30, e la sera l’ultimo termina alle 21:30, ma a volte i responsabili chiedono di recarsi a lavoro alle cinque del mattino. Prima i lavoratori partecipavano alla stesura della turnazione, la quale veniva comunicata mensilmente, dando quindi ai lavoratori la possibilità di programmare maggiormente il proprio tempo libero.
Avevi\hai le ferie? Se sì, erano\sono pagate?
T: Le ferie venivano pagate, ma avendo un contratto a termine non potevo sceglierle in autonomia, in pratica mi dicevano loro quando e per quanti giorni.
M: Ventisei giorni di ferie all’anno, però ti impongono di prendere due settimane entro maggio e un po’ meno in estate. L’azienda spinge per ferie forzate nei periodi di scarsi volumi di vendita.
Sono previsti i permessi individuali?
T: Mai avuto un permesso.
M: Trenta ore di permessi annui retribuiti, ma ogni anno questa cifra diminuisce vertiginosamente.
Le assenze per malattia vengono retribuite?
T: Non mi sono mai ammalata durante il periodo in cui ho lavorato lì, ma mi è stato detto che le malattie venivano retribuite.
M: Un altro capitolo nero: ci sono gli eventi, ovvero ho a disposizione tre eventi all’anno, che sono periodi di uno o più giorni in cui per malattia non mi reco a lavoro; a partire dal quarto evento nello stesso anno i primi tre giorni di malattia non mi vengono retribuiti.
Che tipo di contratto avevi\hai?
T: Contratto a tempo determinato della durata di diciotto mesi. In realtà quando mi recai a firmare il contratto, mi dissero che il mio era un contratto di “inserimento” della durata di diciotto mesi che prevedeva poi l’assunzione diretta a tempo indeterminato. Dopo i diciotto mesi mi hanno buttata fuori senza motivo. Il consulente del lavoro che ho consultato mi ha indicato che in realtà il mio contratto prevedeva una durata di diciotto mesi, dopo i quali l’azienda si riservava la possibilità di non rinnovo senza giusta causa e senza essere tenuta a dare motivazione e che ero stata ingenua a firmare senza leggere.
M: Contratto a tempo indeterminato a cui è stato applicato recentemente il Contratto di Solidarietà.
Che stipendio percepivi\percepisci?
T: 650 euro netti al mese.
M: 900-1000 euro netti al mese, a seconda di quante domeniche ho lavorato.
A quanta fatica fisica e mentale si è sottoposti?
T: La fatica fisica è da non sottovalutare, in cassa non avevamo mai le sedie ergonomiche a posto e spesso eravamo costrette stare in piedi. La fatica mentale è chiaramente una conseguenza del lavoro, maneggiando grosse somme di denaro devi essere sempre attenta e concentrata.
M: Elevata richiesta di velocità nello svolgimento delle mansioni; per un periodo nel deposito c’erano persone alle spalle dei lavoratori addette al loro controllo con dei taccuini in mano su cui annotavano il tempo di disimballaggio dei bancali di merci per ogni singolo lavoratore.
Quanto è sicuro il luogo di lavoro?
T: Il luogo di lavoro non è mai sicuro, soprattutto se con una scarpa decolleté ti mettono a svuotare celle frigo con l’acqua a terra o ti sbattono nelle riserve senza scarpe antinfortunistiche.
M: I lavoratori che stanno da più tempo hanno condizioni migliori, frutto degli scioperi e delle lotte sindacali del passato; adesso le condizioni stanno peggiorando.
Com’è il rapporto con i superiori?
T: Il mio personale rapporto con i superiori è sempre stato ottimo, per andare d’accordo basta poco: lavorare il doppio senza pretendere soldi in più, fare spesso il loro lavoro sedendo a una scrivania a organizzare turni o fare corsi di formazione a nero senza timbrare la presenza in azienda. Se fai tutto ciò resti in buoni rapporti con tutti.
M: I superiori sono quelli che hanno stabilito l’eliminazione della pausa di venticinque minuti che prima spettava ad ogni lavoratore per ogni turno di sei ore e mezzo; adesso tale pausa non esiste più e si deve correre anche solo per andare in bagno.
Come sono le relazioni e i rapporti con i colleghi?
T: Con i colleghi spesso scatta un senso di solidarietà reciproco, ma nessuno rischierebbe il posto di lavoro in nome di questa solidarietà.
M: C’è molto timore tra i lavoratori, ognuno sta attento a qualsiasi comportamento possa pregiudicare la propria posizione lavorativa.
Il Contratto di Solidarietà è stato imposto l’anno scorso ai lavoratori dei punti vendita Auchan di Mugnano, Giugliano e via Argine sotto il ricatto del licenziamento di oltre cento lavoratori. Esso prevede una riduzione del 25% dell’orario di lavoro alla quale corrisponde una riduzione del 30% del salario (quindi nei fatti viene ridotta anche la retribuzione oraria), una riduzione dei permessi, delle ferie, della retribuzione in caso di malattia ed un notevole aumento dei ritmi lavorativi e delle pressioni sui lavoratori, ai quali con l’alternativa paventata dei licenziamenti collettivi e della chiusura delle unità locali viene imposto un atteggiamento di sottomissione e accettazione delle decisioni aziendali. Si dirà che la causa di tutto questo è la crisi, ma indagando in maniera più approfondita possiamo vedere che questo atteggiamento aziendale (del lamentarsi degli scarsi profitti e della minaccia della chiusura degli stabilimenti) esiste da decenni, addirittura per qualche punto vendita (via Argine) questa litania è iniziata il mese stesso della sua apertura! La conseguenza logica è che l’unico obiettivo dei padroni è quello di massimizzare i profitti riducendo al minimo i costi, tra cui i salari dei lavoratori.
Insomma, lavorare di più, a ritmi stressanti e alienanti e senza diritti, è la formula che viene imposta a tutti noi. Così tutto il nostro tempo viene scandito dalle esigenze del capitale.
Ogni volta che viene inaugurato un nuovo centro commerciale e ci viene detto che offre lavoro non possiamo fare altro che pensare ad un lavoro dove è costante il ricatto padronale, un lavoro fatto di precarietà, ritmi elevatissimi, assenza quasi totale dei più basilari diritti, mancanza di sicurezza e salari da fame!
Viaggio nella Grande Distribuzione: intervista a una lavoratrice Auchan di Milano, scrive il 6 Dicembre 2013 agoravox.it. In occasione della giornata di mobilitazione dell'8 dicembre contro le domeniche e i festivi lavorativi nella grande distribuzione, inauguriamo questa piccola rubrica "Viaggio nella Grande Distribuzione". Abbiamo pensato alcune domande per addentrarci nel mondo della grande distribuzione organizzata (GDO), in particolare per quanto concerne il reparto commercio, assieme ai lavoratori e le lavoratrici che hanno risposto e che decideranno di rispondere in seguito. Per cercare di capire meglio come la sfera lavorativa, le modifiche e peggioramenti a cui è sottoposta, vadano non solo a influire sulla nostra condizione lavorativa materiale, ma come modifichino la nostra stessa percezione e posizione sul luogo di lavoro. Non solo: ad essere modificata di riflesso è anche quella parte della nostra vita all'esterno del lavoro, quel "tempo libero" che ci viene sempre più derubato in "nome del profitto". È un tempo che ci viene estorto con il lavoro festivo e domenicale, ma anche con il ricatto di contratti precari che ci impongono di lavorare oltre l'orario ordinario e previsto, con dei contratti che prevedono turni che non lasciano spazio a tutto ciò che esiste fuori dal lavoro (hobby, passioni, talenti, famiglia). Le interviste che abbiamo raccolto hanno tante differenze (azienda per cui si lavora, ruolo che si ha in azienda, tipo di contratto), ma sicuramente c'è un aspetto che le accomuna: la percezione che il tempo del lavoro inondi sempre più completamente ogni parte della nostra quotidianità, senza per questo darci ciò di cui abbiamo bisogno per condurre una vita almeno dignitosa. Così come le accomuna la viva consapevolezza che lottando e connettendo la propria esperienza con le altre orizzontalmente, si possa provare a migliorare la propria condizione lavorativa; che poi "propria" lo è meno di quanto si immagini. A voi la parola.
Per chi lavori e dove?
Auchan, Milano.
Quanti dipendenti siete? In che proporzione sono impiegati uomini e donne sul tuo posto di lavoro?
Siamo un po' più di 400 dipendenti (prima 500). Direi che tra uffici e postazioni vendita siamo in prevalenza donne e ci sono per lo più uomini nei magazzini.
Che cosa conosci dell’assetto societario della tua azienda di lavoro?
Conosco ciò che nelle famose “assemblee plenarie”, convocate dal direttore, ci viene detto. Quindi, direi molto poco.
Che lavoro svolgi?
Sono addetta alla vendita nel settore tessile – abbigliamento intimo.
Che tipo di contratto hai?
Un contratto part-time con domeniche e festività lavorative annesse al contratto ordinario e con una clausola di flessibilità, che sono stata costretta a firmare per avere il lavoro!
Le mansioni che svolgi sono previste dal contratto?
Non sempre sono previste. Per esempio l’impiantazione di volantini fino a mezzanotte (per me e pochi altri che ci siamo imposti) o anche fino alle 2; compilazione di inventari con ingresso al lavoro alle 4, in fasce orarie non previste e ovviamente tutto deciso arbitrariamente, senza che il nostro contratto lo preveda. Ancora, per quanto concerne il lavoro di magazzino e deposito: uso di giraffe e muletti senza che i lavoratori, a cui viene richiesto, abbiano la necessaria formazione alla movimentazione di tali macchine (anche se ultimamente, almeno dove lavoro, l’aspetto della sicurezza è stato un po' più regolamentato).
Com'è il tuo contratto dal punto di vista delle ferie, della malattia, dei permessi?
Abbiamo ferie estive da concordare con altri lavoratori del reparto, solo 15 giorni consecutivi, anche se so che il contratto potrebbe preveder tre settimane. Per le altre ferie è un macello! Si lotta per fare le ferie solo quando ne hai veramente bisogno perché si è sotto il ricatto della perdita del posto di lavoro, con i capi reparto che, senza problemi, il lunedì possono dirti che dal giorno successivo sei a casa. I PIR (permessi individuali retribuiti) vengono usati come ferie senza avvertirti perché l’obbiettivo è quello di eliminarli. Infine, insistono col dire che le ferie e i PIR devono essere “a zero” per fine Dicembre quando si sa benissimo che non può essere sempre così. Per la malattia usufruiamo da un accordo fatto da CISL-UIL quindi non positivo.
Puoi indicarmi che tipo di persone è più facile incontrare come colleghi/e lavorando presso la GDO? A) Giovani o meno giovani; B) Sposati/e o single; C) con figli o senza; D) titolo di studio: licenza media, diploma o laurea. È possibile delineare un profilo più frequente di altri?
Direi che si trova un po' di tutto, molti giovani con scarsissima conoscenza e consapevolezza dei loro diritti minimi. I laureati sono per lo più capi-reparto.
Quali sono gli aspetti peggiori di questo lavoro, secondo te?
Pochissimo rispetto per chi lavora anche come individuo; non esiste un minimo riconoscimento per esperienze lavorative precedenti, anche più importanti. Preferibilmente non devi avere impegni familiari o comunque per loro sarebbe meglio che i lavoratori non abbiano alcun interesse al di fuori del lavoro, requisito per non mancare di “disponibilità collaborativa e di squadra” (che oltretutto è una farsa e non esiste). Direi comunque che gli orari e i ritmi che abbiamo sono incompatibili con un vivere in modo sereno …e per sereno intendo normale.
Come sai il decreto “salva Italia” varato dal Governo Monti ha di fatto sostanziato quello che i precedenti decreti avevano messo in cantiere: la liberalizzazione delle aperture per gli esercizi commerciali. Come Ë cambiato il vostro mese lavorativo dopo l’entrata in vigore di questo decreto?
Aperture selvagge. Cioè, sempre dalle 8:30 della mattina fino alle 22:00. Domeniche e giorni festivi sempre aperti (per il momento hanno salvato il Natale). Notti bianche inventate e non certo per creare più posti di lavoro, anzi!
Il vostro contratto è stato modificato dopo il decreto?
Nel mio caso non è stato modificato con nuove clausole; quello che è certo è che cercano sempre di fregarti. Per quanto riguarda contratti vecchi con festività e domeniche lavorative in ordinario, stanno cercando di rifare i contratti con la promessa di più ore lavorative, soprattutto per i lavoratori e le lavoratrici del settore casse.
Come influisce sulla vostra vita quotidiana il potere che le aziende hanno nel determinare orari di apertura e chiusura degli esercizi commerciali?
Dal mio punto di vista in maniera estremamente negativa: non è più vita.
Pensi che le donne ne risentano in misura maggiore in relazione a eventuali ripercussioni sulle relazioni familiari e sociali?
Direi proprio di sì. I problemi che tutte le donne lavoratrici di base hanno, vengono amplificati e creano tensione.
Esistono i sindacati nella tua azienda? Se sì, quali? Che rapporto hanno con voi, che funzione svolgono? Che posizione hanno assunto riguardo alla questione delle aperture domenicali?
CGIL e CISL con rappresentanti e poche assemblee convocate. Poi c’è stato l’accordo firmato dalle tre sigle (CGIL-CISL-UIL) e questo pone non poche perplessità, perché alla fine chi lavora oltre alle chiacchiere vorrebbe anche vedere i fatti e possibilmente dei passi in avanti.
L'otto dicembre ci sarà una giornata di mobilitazione contro le aperture domenicali e più in generale contro i turni di lavoro nei giorni festivi. Cosa ti aspetti da questa giornata? Qual è l'obiettivo che ti sei dato/a all'interno di questa lotta?
È una mobilitazione giusta, ma ci deve essere maggiore informazione, per riuscire ad avere una buona partecipazione, anche perché i lavoratori hanno paura di esporsi e seguire queste mobilitazioni: l'ultimo sciopero lo abbiamo fatto forse in 4!
La situazione della GDO (Grande Distribuzione Organizzata), seppur peculiare, è estremamente generalizzata: l’allungamento dell’orario di lavoro senza adeguamenti salariali o cambiamenti contrattuali è una costante a partire da quello che possiamo definire “l’apripista” Marchionne con la FIAT. Che risposta generale su questo piano i lavoratori e le lavoratrici possono dare?
La lotta, almeno per non perdere i pochi diritti acquisiti.
Se ti dicessimo “lavorare tutti/e, lavorare meno e a parità di salario e diritti”, cosa penseresti? Ritieni possano essere tra le parole d'ordine unificanti per tutte le lotte presenti sul territorio nazionale?
Io personalmente le condivido, sarebbero le basi per una società più equilibrata.
Speri di liberarti da questo lavoro? Se sì, quando pensi che possa realisticamente accaderti di trovare un lavoro migliore?
Lo spero da sempre, o meglio da quando lavoro in un posto del genere. Io ho avuto la fortuna di lavorare nel commercio per tanti anni ma come allestitrice di vetrine e corner di negozi. Vivo da otto anni questa esperienza lavorativa che, devo dire, mi ha depresso molto sul piano personale e creativo. Spero sempre di poter trovare altro ma Io purtroppo non ho molte speranze per il momento che viviamo e anche per la mia età che non definirei più così “appetibile” per chi assume.
Se ci fosse un supporto dall'esterno, che dimostrasse di essere determinato a sostenervi durante una vertenza, credi che la situazione cambierebbe in meglio? In quali condizioni, invece, ti sentiresti strumentalizzato/a?
Potrebbe essere un inizio avere un altro tipo di supporto esterno. Per quanto riguarda la seconda domanda, credo che se i lavoratori vengono informati e non si sentono trattati come merce di scambio per arrivare a traguardi diversi (magari solo politici) da quelli per cui si mettono in gioco, non penserebbero di essere strumentalizzati.
Paghe basse, riposi pochi e supermercati violenti: le cassiere sono sole. Il sindacato Usb denuncia le dure condizioni di lavoro nella grande distribuzione. E apre una pagina, contro la solitudine delle cassiere. Per sentirsi meno sole, su Facebook, scrive il 5 agosto 2014 Michele Azzu su "Fanpage". Un ambiente violento, dove le paghe sono basse e i riposi pochi. Dove la pressione psicologia porta la persona, in particolare una donna, ad isolarsi. E allora, ecco il gruppo facebook “L’Insostenibile solitudine della cassiera” per combattere questa condizione, per confrontarsi, per dare una mano. La realtà descritta in queste pagine virtuali è quella di chi lavora nei supermercati della grande distribuzione. L’idea è di Francesco Iacovone, sindacalista di base della sigla Usb, che questo mondo lo conosce bene perché ci ha lavorato 23 anni: “So cosa si nasconde dietro il sorriso che mostriamo ai clienti”, commenta. Di questo mondo e questo profilo facebook si è già parlato: nel novembre 2012, quando un gruppo di commesse scrisse una lettera al comico Luciana Littizzetto, allora testimonial del marchio Coop. Le commesse erano seguite proprio da Iacovone: “Ne parlarono tutti, e non ce lo aspettavamo”, commenta. “Capimmo che il nodo è molto sentito”. Così, ora, c’è chi si iscrive al gruppo, e si sfoga per uscire dalla solitudine. “Sono ex Coin e ancor prima Standa”, scrive Barbara che è andata all’estero. “Dopo 26 anni di lavoro ho accettato la mobilità da un’azienda che ormai mi considerava vecchia”. Scrive Maria Luisa: “Non siamo solo numeri di matricola o braccia che lavorano, dietro ognuna di noi c'è una moglie, una mamma, una nonna”.Non solo donne: “Non lavoro più alla Coop, ho accettato la mobilità”, scrive Antonio. “Ci entrai da ragazzo pieno di sogni e aspettative, mi sono ritrovato dopo 13 anni senza aver realizzato nulla”. Tuttavia la dimensione di questo mondo rimane principalmente femminile: “L’80% sono donne nel commercio. E la cassiera è una figura che fa parte dell’immaginario collettivo”, spiega il sindacalista. Ma cosa rende duro questo lavoro, qual è il problema? Le paghe basse, gli orari, il mobbing? “Il commercio è il laboratorio dello sfruttamento, con lavoratori che guadagnano 600-700 euro al mese, che non riposano mai, che stanno sempre a contatto col cliente”, spiega Iacovone. Una questione complessa, quindi. Su cui, però, il contratto pesa: “Il contratto commerciale è il peggiore di tutti, con l’ultimo rinnovo hanno tolto i primi 3 giorni di malattia”, spiega Iacovone. “C’è gente che va al lavoro con la febbre per non vedersi decurtare il salario”. Gli orari dei turni, anche, influiscono sulla qualità della vita: “Sono part-time, ma i turni della settimana vengono comunicati il venerdì precedente”, e organizzarsi diventa impossibile. “Finisce che il lavoro diventa la parte della vita da cui parte tutto il resto. Dovrebbe essere il contrario, no?”, si chiede Iacovone. Sugli orari si aggiunge la difficoltà ad ottenere dei riposi: “Mi ha scritto una commessa che non riusciva ad avere un riposo da tre settimane”, racconta il sindacalista. Ma è la cassa ad essere la mansione più dura. “Sarebbe quello che una volta potevano essere i reparti punitivi in Fiat”, spiega Iacovone. Perché? “Rimani 4, 5, 8 ore inchiodata con centinaia di clienti incazzati. In una posizione che sotto l’occhio vigile del capo. E se sbagli coi soldi, e prima poi succede, arrivano i provvedimenti disciplinari. Una situazione paranoica, che vivi sola con te stessa”. La frase più ricorrente, in questi casi é: “In cassa ti ci faccio morire”. Una condizione che potrebbe essere quella di una fabbrica dura. Con una differenza: al supermercato non c’è una catena di montaggio dove fare comunità e solidarizzare, il lavoro è parcellizzato. E si finisce soli: “Come nel tubo di una tac”, commenta Iacovone. E allora la pagina facebook. E la solidarietà arriva anche dai clienti. Qualche giorno fa, durante uno sciopero in un supermercato a rischio cessione – scrivono sulla pagina – si sono avvicinate al presidio tre donne e hanno chiesto: "Cosa possiamo fare per aiutarvi?” Una delle tre ha aggiunto: "Abbiamo appreso la cosa su facebook e non mi vergogno a dire che ho pianto". “In tv si vedono spesso i casi umani”, commenta Iacovone, “Ma è sbagliato perché il problema è sistemico. Mi spieghi come fai a fare un lavoro del genere fino a 60 anni?”, conclude. E a leggere i commenti sul gruppo facebook sono tante le persone che dopo 10, 20 anni abbandonano la professione, in cambio di magre liquidazioni. Per giunta le recenti liberalizzazioni del governo Monti, sul lavoro domenicale, hanno finito per esasperare una condizione già difficile. Per Iacovone si dovrebbe tornare indietro.
La dittatura della Shock Shopping, scrive Saverio Pipitone. Testo tratto da Shock Shopping, Arianna Editrice, 2009. Con il Natale alle porte le domande sulla Grande Distribuzione Organizzata (GDO) si impongono in modo pressante per tutti coloro che vorrebbero optare per un consumo critico e consapevole. Il libro Shock Shopping di Saverio Pipitone è dedicato proprio all’esplorazione fra reparti e scaffali della moderna distribuzione e si ispira all’esempio del Centro Meridiana di Casalecchio di Reno, a Bologna, una struttura commerciale che supera il vecchio modello distributivo del “tutto sotto lo stesso tetto”, proiettandosi verso la nuova logica del “tutto sotto lo stesso cielo”. L’ipermercato, i punti vendita (store), il cinema multisala, i ristoranti e i pub, la palestra e il centro benessere, sono tutti inglobati nello stesso complesso, situato strategicamente vicino all’uscita autostradale e alla stazione ferroviaria; al suo interno vi è un residence e a pochissimi chilometri - facilmente raggiungibili - ci sono altre grosse strutture commerciali come Carrefour, Ikea, Castorama, Comet: in questo contesto, il classico centro commerciale si evolve in un vero e proprio “distretto commerciale”. Molti esempi di questa nuova realtà riempiono l’Emilia-Romagna: da Savignano sul Rubicone ai Lidi ferraresi, da Rimini a Ravenna a Ferrara. E non solo. Madrid offre piscina e pista di sci dentro uno shopping village. A Vienna, una muraglia di insegne s’affaccia sull’autostrada formando un quartiere commerciale che attira il consumatore, proponendogli anche un museo e molti altri tipi di intrattenimento: concerti, arte di strada, lezioni di ballo, giochi per bambini, feste e mostre, per un totale coinvolgimento emotivo e culturale. Nei paesi dell’Europa dell’est, le scritte della propaganda comunista sono state sostituite da giganteschi cartelloni pubblicitari che indirizzano verso queste cittadelle del consumo fast, easy e low cost. La prima conseguenza di un siffatto fenomeno mercantilista è una trasformazione: il “cittadino del centro storico” diviene “consumatore del centro commerciale”; tale mutamento è stato colto, fra gli altri, anche dal settimanale Economist, che ha posto la questione se il carrello della spesa abbia preso il posto della cabina elettorale. L’esposizione prosegue poi con una descrizione delle diverse forme distributive utilizzate dal moderno commercio organizzato e una breve esposizione della storia, del pensiero e dei fatti che hanno caratterizzato - e caratterizzano tutt’ora - i principali marchi della GDO, quali Coop, Esselunga, Auchan, Carrefour, Mediaworld, Lidl, McDonalds, Wal-Mart, IKEA e tanti altri; procedendo fra gli shopping center, gli outlet, i mall, e i village retail che li ospitano, viene proposta un’analisi critica di questi templi del consumo, oggi assurti al ruolo di protagonisti egemoni del panorama commerciale nazionale. In Italia, infatti, si contano attualmente circa 850 centri commerciali, a cui se ne aggiungono altri 50 in corso di realizzazione o in fase di apertura nei prossimi cinque anni, con una forte concentrazione al centro e al sud, nelle periferie e nei centri storici. In questi luoghi, la grande distribuzione organizzata è conduttrice di rigide logiche capitalistiche, lavoro precario, soppressione delle piccole attività locali o di prossimità, danni ambientali e disintegrazione dei tradizionali legami comunitari. Al riguardo, il sociologo Renato Curcio, nei suoi tre libri Il consumatore lavorato, Il dominio flessibile e L’azienda totale, denuncia azioni di sfruttamento e licenziamento praticate dalla GDO, in particolare dalla catena Esselunga. Qualche anno fa quest’ultima insegna, per rilanciare la sua immagine sociale, stipulò un accordo commerciale con CTM-Altromercato per la fornitura di prodotti appartenenti al circuito del commercio equo e solidale, tra cui banane provenienti dall’Equador. L’intesa, tuttavia, durò solo pochi mesi, dato che Esselunga decise all’improvviso di tagliare gli ordini in quanto la logica della competitività, delle strategie aziendali di breve periodo e del profitto prevalsero aggressivamente sull’economia solidale. Ma la GDO non si limita ad assumere semplicemente le sembianze ingannatrici dell’azienda socialmente responsabile; una componente fondamentale della sua politica dell’immagine si basa sulle innumerevoli e incessanti iniziative volte a conquistare l’affezione dei clienti, per indurli ad acquistare sempre di più attraverso carte fedeltà, sconti, premi, raccolte punti, “paghi 1 prendi 2”, carrelli più grandi, merchandising, prezzi low cost, percorsi prestabiliti e molte altre trovate pubblicitarie inibitrici della capacità critica dei consumatori. Questi ultimi sono poi sorvegliati da telecamere onnipresenti, che hanno il compito di individuare eventuali ladruncoli – certo – ma soprattutto di spiare e analizzare il comportamento della clientela effettiva e potenziale. Inoltre, con il sistema del self-service - dal montaggio del mobile con brugola e cacciavite alla prezzatura in tempo reale degli acquisti tramite i dispositivi salvatempo – l’utente del supermarket è diventato un lavoratore non retribuito e produttore di plusvalore per l’azienda. Di sicuro, con la GDO è già pronto un futuro fatto di totalizzanti tecniche di controllo e di fidelizzazione. Ad esempio, Wal-Mart ha munito il suo impero di un sistema bancario proprio, utilizzato per i rapporti con i fornitori, e ha intenzione di aprire 2000 ambulatori low cost dove infermieri professionali saranno in grado di fornire assistenza medica per le piccole patologie e consigliare i farmaci da acquistare all’ipermercato. Coop dispone già di diverse farmacie all’interno dei punti vendita e di sportelli per gestire il risparmio e - mediante la Telecom - è entrata nel mercato della telefonia mobile con il marchio CoopVoce. Oggi all’Iper è possibile acquistare anche l’automobile SUV DrMotor all’imbattibile prezzo di 16.000 euro opp ure stipulare contratti per la fornitura di energia elettric! a o il pieno di benzina. Banca, petrolio, farmaci, telecomunicazioni ed energia sono i nuovi obiettivi della moderna distribuzione, che avanza puntando verso tutto quello che può diventare consumo di massa. In Italia, le liberalizzazioni sancite dalla legge Bersani agevolano decisamente queste tendenze che, se a una prima occhiata sembrano avvantaggiare il consumatore, in ultima analisi fanno spudoratamente il gioco delle lobby commerciali e dei gruppi di potere. Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, Karl Marx scriveva: «Ogni uomo s’ingegna a procurare all’altro uomo un nuovo bisogno, per costringerlo a un nuovo sacrificio, per ridurlo a una nuova dipendenza e spingerlo a un nuovo modo di godimento e quindi di rovina economica». Lo slogan “lavora, consuma, crepa” si adatta perfettamente alla situazione odierna di un consumatore che acquista beni indotti, di scarsa utilità e provenienti da paesi distanti migliaia di chilometri, come la Cina comunista - che paradossalmente è diventata la “classe operaia” dell’opulento occidente. Per rendere l’idea degli sprechi causati da questa catena, basti dire che un carrello con 26 prodotti alimentari percorre quasi 250.000 chilometri e produce 80 chili di gas serra prima di giungere al consumatore finale. Per evitare questo disastro ambientale e sociale è assolutamente necessario limitare i consumi recuperando il valore d’uso degli oggetti, anche a costo di diventare - come spiega il sociologo Zygmunt Bauman - dei “consumatori avariati”, esclusi dalla società dei consumi perché «non ragionano con la logica consumista del compralo, goditelo e buttalo via. […] La “sindrome consumista” è fatta tutta di velocità, eccesso e scarto». Contro questo sistema di consumo illimitato, i nuovi movimenti della “semplicità volontaria” e della “decrescita” sostengono la sobrietà: il primo ha una dimensione individuale e sociale, mentre il secondo si caratterizza per un’articolazione collettiva e politica, andando oltre le categorie destra-sinistra. Da un lato, Serge Latouche pensa che «organizzare la decrescita significa rinunciare all’immaginario economico, cioè alla credenza che “di più” significhi “meglio”»; dall’altro, Alain de Benoist considera «errato immaginare la decrescita come un ritorno al passato. Si tratta, invece, di fare decrescere l’idea che lo sviluppo degli scambi mercantili sia una legge naturale della vita». Infine, nella presente trattazione vengono descritte alcune pratiche di consumo critico che si rifanno in particolare alle logiche localiste - vendita diretta tra produttore e consumatore – finalizzate ad avviare una filiera corta e recuperare il legame comunitario. «Riacquistare un senso del luogo – afferma Helena Norberg-Hodge –, osservare con attenzione e partecipare all’ambiente che ci circonda: capire l’origine di quello che mangiamo, imparare a riconoscere i cicli stagionali, le piante, gli animali. Si deve riscoprire il senso della comunità e ricostruire un legame con il luogo nel quale si vive», distanziandosi così dalla deriva mercantilista, sapientemente descritta da James Ballard nel suo Regno a venire, in cui l’autore britannico racconta di un centro commerciale inglese, il Metro-Center, dove un consumismo sfrenato si trasforma in razzismo, violenza e autoritarismo.
“Grande Distribuzione Organizzata”, scrive il 27 marzo 2018 Marco Omizzolo su Articolo 21 e su "La Repubblica". Le agromafie agiscono nel sistema di produzione agricolo nazionale e internazionale grazie ad alcuni vuoti normativi, alle troppe complicità che in esso si manifestano e in virtà di una profonda e strutturale opacità della filiera agricola. Sfruttamento, caporalato, riciclo di denaro sporco, investimenti criminali e mafiosi trovano nella “Grande Distribuzione Organizzata” occasione per sedimentare affari e relazioni. Le logiche che ispirano questa ultima sono parte del problema, ancora però piuttosto sottovalutate, soprattutto dalla politica nazionale ed europea. Yvan Sagnet, che con la sua associazione “NoCap” cerca di combattere anche contro il sistema della Grande Distribuzione Organizzata, non ha dubbi: “Colpire i caporali e anche le aziende che se ne servono, per quanto necessario, incide solo sugli effetti e non sulle cause reali del caporalato. Le cause risiedono nel modello economico attuale, nei rapporti di forza fra grandi imprese multinazionali e lavoratori e consumatori. Anche le piccole e medie aziende agricole sono vittime di quella specie di “caporalato economico internazionale” che è la grande distribuzione organizzata, che mette l’asta alla gola ai produttori agricoli, stabilisce prezzi, condizioni di mercato insostenibili e concorre a determinare le condizioni del ricorso alla manodopera schiavistica. Oggi tutto si gioca sulle scelte consapevoli dei consumatori: dobbiamo informare e rendere possibile la scelta di prodotti provenienti da sistemi di produzione virtuosi”. D’altro canto non può che essere così. I grandi gruppi commerciali sono in grado di condizionare il prezzo d’acquisto dei prodotti agricoli in vendita che vengono poi promossi nei grandi supermercati del Paese come affari esclusivi. Agiscono in un regime di concorrenza costantemente violata grazie ad una posizione di dominio nel mercato che condiziona, in negativo, l’intera filiera. Un barattolo di pomodori a 0.55 centesimi di euro è forse un affare per l’acquirente, a patto di non indagare troppo sulla qualità del suo contenuto, ma di certo è una tragedia per chi produce (il bracciante) e trasforma e vende (l’azienda agricola) il pomodoro. Dietro la dittatura dei prezzi della GDO si nasconde, a volte, un mondo di sfruttamento e cancellazione dei diritti, con lavoratori e lavoratrici che non vengono retribuiti se non con poche centinaia di euro al mese, per lavorare anche 14 ore al giorno consecutive e aziende agricole, spesso di piccole dimensioni, che vengono “strozzate” e obbligate a vendere ai prezzi imposti dalla prima. Obbedire e tacere sembra la regole generale che ogni anno porta alla chiusura di decine di aziende agricole e alla perdita di migliaia di posti di lavoro. Stefano Liberti, giornalista e scrittore che da tempo si occupa di questo tema, afferma: “Il sistema agro-alimentare è caratterizzato da filiere lunghe e spesso poco trasparenti. Quando chiunque di noi va al supermercato, conduce i propri acquisti senza ricevere alcuna informazione sull’origine delle materie prime dei prodotti alimentari, su quali processi industriali queste abbiano subito e in quale parte del mondo. Introdurre normativamente una maggiore trasparenza sarebbe un passaggio utile per garantire maggiore responsabilità ed evitare quelle sacche di opacità in cui possono annidarsi forme di sfruttamento e di illegalità”. Dello stesso avviso Fabio Ciconte, dell’associazione “Terra!”: “Le catene della grande distribuzione organizzata (GDO) fanno sempre più dell’abbassamento dei prezzi al consumatore il principale elemento della propria strategia di marketing. Questo elemento determina che a pagarne le conseguenze siano però gli agricoltori, gli ultimi anelli della filiera, costretti a vendere al ribasso il loro prodotto pur di non sparire da un mercato, quello della GDO, attraverso cui passa circa il 70% degli acquisti alimentari”. Proprio l’associazione “Terra! Onlus” con “DaSud” e “terrelibere.org” ha dato vita a FilieraSporca con un’idea di fondo condivisibile: “Sul mercato internazionale vige la stessa legge della giungla, con grandi imprese commerciali e finanziarie che controllano a menadito produzioni di larga scala, spesso lasciandosi sfuggire il rispetto dei diritti e dell’ambiente. Le vittime sono – a diversi livelli – lavoratori meno qualificati e braccianti. Quello che è ormai un modo di produzione viene presentato come un’emergenza umanitaria. Ma dietro l’apparenza di miseria si nasconde una ricchezza mal distribuita”. FilieraSporca propone la trasparenza delle filiere agroalimentari dalla Grande distribuzione organizzata alle multinazionali, attraverso l’introduzione di una etichetta narrante e l’elenco pubblico dei fornitori, perché informazioni chiare permettono ai consumatori di scegliere prodotti “slavery free”. E proprio FilieraSporca ha denunciato la pratica delle aste al doppio ribasso della Gdo attraverso la quale riesce ad acquistare tonnellate di prodotti agricoli a prezzi bassissimi facendo precipitare sulle piccole aziende agricole e sui lavoratori le conseguenze di questo sistema. Una strategia di dominio del mercato che deve terminare. Non a caso FilieraSporca e la Flai Cgil hanno lanciato e con successo la campagna ASTEnetevi. Le aste “basate sul meccanismo del doppio ribasso – sostiene la campagna – si svolgono on line. La GDO fa sedere attorno a una piattaforma virtuale i propri fornitori, chiedendo loro di avanzare un’offerta per una grande quantità di un certo prodotto. Sulla base dell’offerta più bassa la GDO convoca successivamente una seconda asta on line, che in poche ore chiama i partecipanti a rilanciare, con un evidente paradosso, per ribassare ulteriormente il prezzo di vendita di quel prodotto”. Ancora Ciconte dichiara: “Con la campagna #Astenetevi lanciata da Terra! e dalla Flai abbiamo voluto denunciare la pratica distorsiva delle aste al doppio ribasso, un meccanismo perverso con cui la GDO costringe i propri fornitori a ribassare il prezzo pur di piazzare il proprio prodotto” dopo mesi di denunce siamo riusciti a fare in modo che il ministro Martina, Federdistribuzione e Conad, firmassero un protocollo che vieta le aste. Un passo significativo e un successo della campagna. Ora non ci resta che capire se davvero i supermercati abbandoneranno questa pratica iniqua”. Le mafie in questo sistema opaco riescono, ancora una volta, a fare grandi affari. La Corte dei Conti ha più volte affermato che “la grande distribuzione consente di investire in noti franchising grandissime quantità di denaro, che diventa difficilmente rintracciabile e riconducibile alle mafie; i proventi illecitamente accumulati non sono utilizzati solamente nel comparto strettamente commerciale della grande distribuzione ma, anche, nella costruzione di centri commerciali e strutture affini”. E mafie, prodotti sottocosto e caporalato sono costantemente in relazione. Si pensi, ad esempio, al mercato ittico, di cui si è occupato anche il rapporto Agromafie di Eurispes/Coldiretti del 2017. Il boss di Gela, Salvatore Rinzivillo, infatti, riusciva ad importare pesce dal Marocco facendolo transitare per la Sicilia per collocarlo, obtorto collo, nei mercati ittici italiani e tedeschi. Un business stroncato a novembre del 2017 dalla squadra mobile di Caltanissetta e dal Gico della Guardia di Finanza di Roma che hanno arrestato anche un imprenditorie coinvolto in questo sistema, Emanuele Catania, uno dei nomi più noti del settore ittico siciliano. E la GDO era pienamente inserita in questo sistema. Le mafie come i grandi centri di potere commerciale temono la trasparenza, l’informazione corretta, l’analisi accurata. La riforma di questo settore è quanto mai urgente. Servirebbe una politica autonoma e coraggiosa, capace di tenere insieme i diritti dei lavoratori, dei consumatori e dei produttori onesti, e obbligando tutti i protagonisti della filiera agricola ad agire nel rigoroso rispetto delle regole.
Supermercati, il grande inganno del sottocosto, scrive Fabio Ciconte, giornalista e Stefano Liberti, giornalista il 27 febbraio 2017 su internazionale.it. Prima puntata di un’inchiesta in tre parti sulla grande distribuzione organizzata. Seconda puntata, terza puntata. La scritta campeggia ben visibile all’entrata del supermercato: “Sottocosto”. Bottiglie di passata di pomodoro vendute a 0,49 euro, pacchi di pasta a 0,39, confezioni di tonno da quattro scatolette a 1,99 euro. Il locale è un supermercato di una grande catena, in una zona semicentrale di Roma. Ma la stessa promozione si può vedere nei suoi innumerevoli punti vendita. Simile a molte altre che si possono trovare in locali gestiti da aziende concorrenti in tutta Italia. Le catene della grande distribuzione organizzata (gdo) fanno sempre più dell’abbassamento dei prezzi al consumatore il principale elemento della propria strategia di marketing. “Qualità e convenienza”, recita lo slogan di Coop, primo gruppo in Italia. “Bassi e fissi”, risponde Conad, seconda azienda per fatturato nel paese. Carrefour ribatte con la promozione “sotto e freschi” su carni e pesci. Il basso prezzo è il grande imperativo categorico; il sottocosto l’ultima frontiera del marketing. Abbagliato dal risparmio, il cliente non s’interroga su come sia possibile acquistare qualcosa a un prezzo indicato come inferiore al costo di produzione. E così le promozioni impazzano: secondo uno studio condotto dalla società di consulenza Iri, oggi “32 euro di spesa su 100 vengono effettuati in presenza di un’offerta”.
Una mosca bianca. “Credo che rincorrere i discount sia una scelta sbagliata”, sostiene Mario Gasbarrino, amministratore delegato di Unes, un gruppo minoritario ma in crescita nel panorama nazionale. Sotto le insegne di U2 e U1, i suoi supermercati sono concentrati per lo più nel nord Italia. Nel suo ufficio accanto al magazzino a Vimodrone, periferia est di Milano, davanti a una mappa gigantesca su cui si accendono innumerevoli lucette che indicano i punti vendita, Gasbarrino analizza quelli che sono secondo lui i trend del mercato. “Noi proviamo a fare una politica diversa: facciamo poche promozioni, cercando al contempo di mantenere prezzi ragionevolmente bassi tutto l’anno. Così stringiamo un patto con i nostri clienti, che sanno di poter trovare da noi prodotti di qualità sempre a prezzi concorrenziali. Ma facciamo anche un accordo con i fornitori, con cui stabiliamo delle relazioni durature, basate sulla condivisione del rischio d’impresa. Loro ci vendono il prodotto a un prezzo che è costante, non è legato alle promozioni”. Mostrando la curva in ripida salita del fatturato e degli utili netti del suo gruppo da quando ne ha assunto la guida, questo manager di 63 anni non nasconde la soddisfazione di aver fatto delle scelte controcorrente che si sono dimostrate vincenti.
Attraverso la grande distribuzione organizzata passa circa il 70 per cento degli acquisti alimentari. Perché Gasbarrino sembra una mosca bianca. La gran parte degli altri supermercati insegue la strategia dello sconto o del sottocosto, ritenuto il metodo più efficace per non far diminuire le vendite in un periodo di crisi in cui il potere d’acquisto dei singoli e delle famiglie è calato sensibilmente. Ma con quali risultati duraturi? “La strategia della scontistica ha avuto un effetto boomerang, creando una categoria di consumatore opportunistico che si muove da un punto vendita all’altro cercando le offerte. Non stabilisce nessuna forma di legame tra il cliente e la catena di distribuzione. Ci sono ormai migliaia di acquirenti nomadi, che si spostano a seconda dei prezzi scontati”, analizza Sandro Castaldo, docente all’università Bocconi di Milano ed esperto di evoluzione del commercio. “Questo meccanismo ha poi avuto un altro effetto: ha provveduto a far sfumare la percezione del giusto valore di un prodotto alimentare. Il prezzo corretto sembra essere quello in sconto, che non è più un’eccezione, ma la regola”.
Partita ad armi impari. Ma chi sono gli attori principali nell’universo della distribuzione alimentare? Quando percorriamo la corsia di un supermercato siamo travolti da una vastità di colori, insegne, lattine, barattoli, confezioni risparmio. Per ognuno di questi prodotti esiste chi ha coltivato la materia prima (l’agricoltore), chi l’ha trasformata (l’industriale), chi la vende (la gdo) e chi la consuma (il cittadino). I fornitori cercano di vendere al prezzo migliore. I responsabili delle catene di supermercati spesso determinano i costi al ribasso. Ognuno di loro gioca una partita non sempre ad armi pari in cui ci rimette sempre chi ha meno potere contrattuale. La distribuzione organizzata in Italia è nata come risposta dei dettaglianti di piccola e media dimensione per contrapporsi alla concorrenza dei grandi gruppi francesi e tedeschi entrati nel mercato della distribuzione alimentare con superfici di grandissima dimensione e una presenza capillare. Oggi, attraverso la gdo passa circa il 70 per cento degli acquisti alimentari. Dal punto di vista di chi produce (gli agricoltori e gli industriali) è di conseguenza il canale di distribuzione più importante, spesso l’unico, per stare sul mercato. In questo 70 per cento, ci sono gli ipermercati, enormi punti vendita con una superficie di almeno 2.500 metri quadri; i supermercati classici, di dimensioni medie tra 400 e i 2.500 metri quadri; e le cosiddette superette, la cui estensione normalmente non supera i 400 metri quadri. Sommati tra loro, costituiscono un universo diffuso forte di 27mila punti vendita. Il primo gruppo in Italia per fatturato è Coop, seguito da Conad. Il primo per performance è Esselunga, che riesce a registrare la cifra record di 16mila euro di vendite per metro quadro. Ci sono poi i discount, guidati da Lidl ed Eurospin e i colossi francesi (Carrefour e Auchan). “Negli ultimi vent’anni”, sottolinea sempre Castaldo, “la gdo ha sostituito i piccoli commerci. Si tratta di un’evoluzione inarrestabile, segnata però sempre più da una forte guerra tra i vari operatori. La concorrenza si sviluppa tra i due estremi: il discount e la fascia gourmet, evidenziata dal successo di Eataly. Chi è in mezzo e vuole accontentare tutti rischia di non accontentare nessuno e di perdere la partita”. Ed è così che la principale strategia per catturare i consumatori è quelle delle offerte, dei volantini, del 3x2, fino all’aberrazione semantica del “sottocosto”. Ma chi paga veramente il prezzo delle offerte? In capo a chi vanno i costi degli sconti proposti ai consumatori finali?
“Un sistema che vive di tangenti più o meno occulte”. Districarsi nell’universo dei contratti tra gdo e fornitori non è un’impresa facile. “Ci vuole molta esperienza o almeno un master in marketing, ma soprattutto esperienza”, sottolinea un operatore del settore. “Ci sono vari livelli di lettura non sempre comprensibili ai non addetti ai lavori”. Molti contratti prevedono infatti diverse voci “fuori fattura”, contributi di vario genere che integrano i listini e corrispondono a servizi che le catene impongono di fatto ai fornitori. C’è innanzitutto la cosiddetta listing fee, cioè una somma da versare per ogni prodotto che viene messo sullo scaffale. In pratica, se vuoi stare sullo scaffale del supermercato ed essere visibile al consumatore, devi pagare la listing fee. Una partita di giro in cui la gdo compra dal fornitore, e il fornitore a sua volta deve pagare la gdo per stare sullo scaffale. C’è poi il contributo una tantum che le catene della gdo chiedono ai fornitori per l’apertura dei nuovi punti vendita. Il ragionamento è semplice: se un gruppo inaugura un nuovo punto vendita chiede al fornitore di accollarsi parte del suo rischio di impresa. L’incidenza di sconti e contributi è pari al 24,2 per cento del fatturato delle singole aziende fornitrici nei confronti della catena cliente. Ci sono gli “sconti di fine anno”, spesso imposti retroattivamente dopo la firma del contratto. O altri sconti che le catene decidono di far scattare e impongono a posteriori ai fornitori. Dario Dongo, avvocato esperto di diritto alimentare e fondatore del sito ilfattoalimentare.it, racconta un esempio concreto: “A un certo punto qualche anno fa il gruppo Carrefour Italia ha deciso di premiare la fedeltà dei suoi clienti con sconti sulla spesa applicati a tutti i possessori di Carta Spesamica. Il gruppo, al fine di remunerare questa iniziativa promozionale decisa unilateralmente, ha richiesto un contributo straordinario a tutti i fornitori delle merceologie fresche quali ortofrutta, carne, pesce, salumi e formaggi, gastronomia e panetteria, ovvero uno sconto pari al 20 per cento sul consegnato di una settimana”. Non si tratta di cifre da poco. Nel 2013, l’autorità antitrust ha condotto un’indagine conoscitiva del settore della gdo, con un focus particolare proprio sul rapporto con i fornitori. Un’indagine resa necessaria, come si legge nella stessa premessa, dalle segnalazioni dei fornitori della gdo su “presunti comportamenti vessatori” e “anti-concorrenziali” delle catene di distribuzione “in fase di contrattazione delle condizioni di acquisto dei prodotti”. Nel lungo documento sono elencate tutte le pratiche che i diversi attori della grande distribuzione mettono in atto nei complicati contratti con i fornitori. Sono stati identificati sei tipi di “sconti” (sconti incondizionati; sconti target; altri sconti condizionati; sconti logistici; sconti finanziari; recupero marginalità) e nove tipi di “contributi” (servizi di centrale; fee di accesso del fornitore; gestione e mantenimento dell’assortimento; inserimento nuovi prodotti; esposizione preferenziale; contributi promo-pubblicitari e di co-marketing; anniversari, ricorrenze ed eventi vari; nuove aperture/cambio insegna; altri vari, come controllo qualità, cessione dati). Attraverso un questionario inviato a 471 imprese agroalimentari, l’autorità per la concorrenza fa una vera e propria radiografia dei rapporti tra grande distribuzione e fornitori. E sancisce che sconti e contributi costano alle singole aziende fornitrici il 24,2 per cento del fatturato con la catena cliente. In pratica, un quarto del prezzo effettivo di listino.
Oggi i rapporti di forza tra industria e gdo si sono quindi rovesciati ed è quest’ultima a dettare le condizioni. Volendo semplificare, se il fornitore vende a 10 il suo prodotto, in realtà è come se lo stesse vendendo a 7,5, sacrificando il suo margine di guadagno. “L’effetto di distorsione della concorrenza collegato all’applicazione di oneri economici per il fornitore appare più probabile in presenza di contributi applicati unilateralmente dal distributore, a fronte di controprestazioni dalle quali il fornitore non ritiene di ricavare vantaggio, e comunque non richieste dal fornitore stesso”, conclude l’anti-trust. Se l’autorità per la concorrenza usa il linguaggio distaccato dell’analisi tecnica, altri operatori sono più drastici. In una lettera pubblicata l’anno scorso dal Corriere Ortofrutticolo, Luigi Asnaghi, che si definisce un buyer pentito della gdo (il buyer è chi è incaricato di selezionare e acquistare la merce per conto della catena di distribuzione), denuncia “un sistema che vive di tangenti più o meno occulte e che si illude di continuare a trarre ricavi e di conseguenza basa i propri conti economici su sconti di fine anno, contributi promozionali, contributi centralizzazione e mille altre gabelle spacciate con giustificativi che farebbero invidia al miglior Machiavelli”. La lettera ha girato molto, dal momento che racconta cose che pochi si avventurano a dire pubblicamente. Perché mettersi contro la grande distribuzione organizzata vuol dire pagare un prezzo davvero alto.
Se non mi abbassi, ti cancello. Lo sa bene Fortunato Peron, amministratore delegato della Celox, azienda produttrice di pere che, dopo 20 anni di forniture alla Coop Italia, ha protestato contro quella che considerava una richiesta eccessiva di sconto e si è visto dare il benservito. Peron, che aveva come fornitore unico Coop e ha come core business le pere, ha deciso di rivolgersi all’autorità per la concorrenza. Quest’ultima ha riconosciuto l’“abuso di posizione dominante” e condannato la Coop Italia a una multa di 49mila euro. La Coop si è giustificata dicendo che aveva dato al fornitore un notevole preavviso e ha fatto ricorso al Tar, che ancora non si è pronunciato. Inoltre, ha puntualizzato il gruppo alla nostra richiesta di spiegazioni, quello della Celox è un “caso isolato”: “Negli ultimi 30 anni, sono state 5 le controversie emerse a fronte di un parco di oltre 3.000 fornitori che si dichiarano soddisfatti della collaborazione tra le parti” (la vicenda di Peron-Coop italia è stata ricostruita nei dettagli nell’inchiesta “Le catene della distribuzione” di Leonardo Filippi, Maurizio Franco e Maria Panariello, vincitrice del premio Morrione 2016 e andata in onda su Rainews 24 il 21 gennaio 2017). Il direttore della Celox è l’unico a essere uscito allo scoperto, e a essersi ritrovato con le ossa rotte. Ma non è certo l’unico operatore dei settori ortofrutticolo e industriale a essere in affanno. Basta parlare con i fornitori per raccogliere un coro di lamentele diffuse – sempre rigorosamente anonime – sullo “strapotere della gdo”. Ma perché i produttori che, anonimamente, denunciano di sentirsi strozzati dalla gdo non lo fanno pubblicamente? Perché non si appellano all’articolo 62 della legge 27 del 2012 (più nota come “cresci Italia”), che sancisce il divieto di imporre condizioni gravose, extracontrattuali e retroattive? “Spesso non c’è scelta perché l’alternativa è il delisting”, racconta un fornitore, che prima di parlare si assicura mille volte che non sarà citato per nome. Il delisting equivale alla discesa agli inferi: i tuoi prodotti sono levati dallo scaffale, eliminati dai punti vendita. In un mondo in cui quasi i tre quarti degli acquisti passano per la gdo, essere tagliati fuori da quel canale equivale alla morte.
Supercentrali e piccoli burocrati. Si dirà allora: qual è il danno che riceve il grande pubblico? In fin dei conti, parliamo di relazioni commerciali tra distributori e fornitori, soggette alle dinamiche del libero commercio e della concorrenza. Ma a questo punto è utile fare un passo indietro e tornare alla domanda iniziale: chi ci rimette alla fine con le presunte pratiche vessatorie della gdo? Chi paga davvero le famose promozioni e il sottocosto? Secondo uno studio condotto dalla società di consulenza londinese Europe Economics, quelle “tangenti più o meno occulte” denunciate da Asnaghi ammontano al livello europeo a una cifra compresa fra i 30 e i 40 miliardi di euro. Si tratta di una cifra colossale, pari a più della metà dei sussidi che la Commissione europea garantisce agli agricoltori comunitari attraverso la politica agricola comune (pac). In un certo senso, il denaro pubblico alla fine non è utilizzato per innovare o migliore la qualità, ma per tenere in piedi un sistema economico iniquo, in cui il più grande mangia il più piccolo. Come conclude lo stesso studio, “le pratiche sleali nel commercio limitano la possibilità per i fornitori di reinvestire nelle loro imprese e creano un grado di incertezza (alcuni analisti la definiscono ‘paura’) che scoraggia impegni a lungo termine. Nel corso del tempo, questo ridurrà le possibilità di sopravvivenza di fornitori competenti e risulterà in una mancanza di innovazione e di miglioramento della qualità. Alla fine queste pratiche danneggiano il consumatore”. Negli ultimi trent’anni la grande distribuzione ha dovuto misurarsi con il potere contrattuale delle multinazionali, proprietarie di marchi conosciuti e apprezzati dal grande pubblico, che riuscivano a determinare i prezzi di vendita dei loro prodotti. È un ragionamento economico elementare: se il prodotto è rinomato e la domanda è alta, l’offerta è determinata dalla multinazionale che possiede il marchio, non dalla gdo. Da questa esigenza sono nate le centrali di acquisto della grande distribuzione, alleanze tra catene diverse per ottenere risparmi in fase di contrattazione. In pratica, tra gli anni ottanta e novanta, le imprese della grande distribuzione si sono messe insieme per contrastare lo strapotere delle multinazionali. Le centrali d’acquisto riuniscono più di un gruppo e stabiliscono accordi quadro con i fornitori. A livello europeo si creano poi delle supercentrali d’acquisto, che riuniscono catene di diversi paesi.
Una bolla estranea all’economia reale. In un continuo processo evolutivo in cui nascono nuove centrali e singoli gruppi si spostano da una centrale all’altra, negli anni il meccanismo di acquisto delle supercentrali non si è rivolto solo ai cosiddetti brand leader ma a tutti gli anelli della distribuzione, aumentando quindi la forbice di potere tra acquirente e fornitore. Oggi i rapporti di forza tra industria e gdo si sono rovesciati ed è la grande distribuzione a dettare le condizioni. Inoltre, gli accordi conclusi a livello di centrale o di supercentrale non sono vincolanti: sono degli accordi quadro, che possono essere ridiscussi al ribasso dai buyer locali. Insomma, una ragnatela complessa in cui è davvero difficile districarsi. Ma come si è arrivati a questo punto? Per capire cosa è successo è bene ridare la parola all’anonimo fornitore, che opera nel settore da più di vent’anni: “Il punto è che ormai gli acquisti sono affidati a buyer che non conoscono l’industria né i prodotti, ma sono tenuti solo a rispettare i cosiddetti obiettivi di crescita. Devono portare a casa ogni anno un aumento di qualche punto percentuale dei margini di guadagno. Quindi, badano solo a quella cifra lì nell’ultima casella del contratto. Tutte le discussioni sulle materie prime, lo stato dell’agricoltura, i costi industriali non li toccano minimamente. Quando ne parli con loro è come se ti esprimessi in sanscrito”. Lo stesso Asnaghi scrive nella sua lettera: “Il prezzo più basso è stabilito da personaggi (buyer) che nel tempo sono stati svuotati di professionalità ed esperienza (doti non più discriminanti) in luogo di una sterile teoria figlia di logiche commercial-estortive”.
I manager si rifanno sui dipendenti, attraverso contratti sempre più precari e meno garantiti. “È un sistema estremamente frammentato, di cui non beneficia nessuno. Perché i singoli buyer locali badano ai propri margini di guadagno. Nessuno si fida dell’altro e alla fine ci perdono tutti”, aggiunge Andrea Meneghini, esperto di commercio ed editorialista per il sito specializzato Gdonews. “I buyer locali spesso vogliono portare a casa margini più alti e vogliono dimostrare che sono più bravi di quelli nazionali e delle centrali”. Conferma l’anonimo operatore: “Il problema è che i vari livelli non si parlano tra loro: nel clima di sfiducia generale, il fornitore cerca solo di salvare la pelle. Tira in avanti i negoziati. Accetta gli sconti e i contributi e nel frattempo aumenta i prezzi di listino per recuperare. Così, alla fine si perde in qualità o in funzionalità”. In definitiva, si tratta di una specie di bolla che poco ha a che vedere con l’economia reale, il costo delle materie prime, le rese di un raccolto o quant’altro. Tutto ruota intorno alla “obiettivizzazione”, cioè agli “obiettivi” di crescita annuale che la grande catena impone ai suoi buyer e ai manager dei suoi punti vendita, e che devono essere raggiunti a ogni costo. Se i buyer si rifanno sui fornitori, che con una mano concedono i contributi e con l’altra aumentano i prezzi di listino (quando hanno abbastanza potere contrattuale), i manager si rifanno invece sui dipendenti, con una crescente contrazione delle condizioni di lavoro, che passa attraverso contratti sempre più precari e meno garantiti. Perché, anche se controlla il 70 per centro della distribuzione alimentare, la gdo classica non se la passa poi così bene. A leggere la relazione annuale che l’area studi di Mediobanca dedica alla gdo, si vede che, con l’importante eccezione dei discount e di Esselunga, le grandi catene stanno soffrendo parecchio. In particolare, i gruppi francesi hanno perso cifre mostruose in Italia: Carrefour, 2,47 miliardi di euro dal 2011 al 2015; Auchan, 560 milioni. La Coop è riuscita a non perdere solo grazie ai contributi della gestione finanziaria. Secondo la rivista di settore Food, per il 2016 “le prime stime lasciano poco spazio all’ottimismo. Il mondo del largo consumo deve accontentarsi nel migliore dei casi di incrementi di qualche decimo percentuale e soprattutto fa un passo indietro rispetto ai risultati del 2015”, come scrive Domenico Apicella in “Retail, la ripresa che non c’è” (Food speciale retail 2017, in collaborazione con Iri, gennaio 2017). In uno scenario economico volatile, i manager della gdo devono districarsi tra esigenze dei consumatori, tendenze di mercato, fluttuazioni dei costi, provando a immaginare il futuro della distribuzione. A pagarne le conseguenze sono in primo luogo i lavoratori, come nel caso di Carrefour che ha annunciato la chiusura di tre ipermercati, con il licenziamento di 500 dipendenti. La grande catena francese – secondo gruppo al mondo dopo lo statunitense WalMart – sta provando varie formule per far fronte al collasso italico: ha aperto diversi negozi di prossimità, che costano meno e rendono più degli ipermercati, e nei supermercati classici ha lanciato il modello ventiquattr’ore su ventiquattro, sette giorni su sette. Locali sempre aperti, in cui si punta sul taglio del costo del lavoro a fronte dell’aumento delle mansioni: i cassieri di notte svolgono molte funzioni e hanno contratti meno garantiti dei lavoratori diurni, come racconta un’inchiesta di Christian Raimo pubblicata da Internazionale.
La trappola della merce. In un universo estremamente competitivo, gran parte delle catene reagisce alle perdite tagliando sul costo del lavoro interno, tenendo sotto giogo i fornitori e abbassando il prezzo di vendita dei prodotti.
Gli articoli vengono così ceduti a un costo nettamente inferiore al loro valore. La conseguenza è che questo valore viene perso di vista dal consumatore finale. “È la cosiddetta trappola della merce (commodity)”, aggiunge il professor Sandro Castaldo, citando la fortunata formula coniata dall’esperto di marketing statunitense Richard A. D’Aveni. “Si è trasformato il cibo in una merce, prodotto uguale a se stesso in tutto il mondo, e lo si è distaccato dal modo in cui viene prodotto. Questa ‘trasformazione in commodity’ ha permesso alla grande distribuzione d’imporre prezzi più bassi ai fornitori. Ma alla fine non giova nemmeno a lei, perché ha di fatto scatenato una gara al ribasso, in cui perdono tutti”. La gdo vende sottocosto e impone listing fee e sconti vari ai fornitori. Questi sacrificano la qualità e tagliano il costo del lavoro, per non rimetterci. Andando giù per la filiera, c’è uno strozzamento che colpisce tutti gli anelli. Nei campi di pomodori o di arance, la raccolta è pagata a quattro soldi e gestita spesso dai caporali, intermediari illeciti tra i lavoratori e gli imprenditori agricoli. Nell’immaginario collettivo, il caporale è il grande colpevole, lo sfruttatore e schiavista nei campi. Ma forse è necessario allargare lo sguardo e analizzare i meccanismi che generano il caporalato e lo sfruttamento. Negli stessi giorni in cui partiva la raccolta delle arance in Calabria e centinaia di immigrati affluivano nella tendopoli di San Ferdinando per lavorare nei campi, all’uscita della stazione di Rosarno il viaggiatore era accolto con un cartellone della Coop di tre metri per due: “Arrivano prezzi sempre più bassi”. Il manifesto, in quel luogo simbolico dove nel 2009 c’è stata la rivolta dei braccianti, troneggiava come una contraddizione in termini. Il maggiore gruppo italiano della gdo, infatti, è impegnato con la campagna buoni e giusti a garantire legalità e assenza di sfruttamento e caporalato sui prodotti che vende. Ma in definitiva, per tenere i prezzi “sempre più bassi”, ci si può trovare obbligati a ricorrere proprio al lavoro sottopagato e al caporalato. E, in questa frenetica corsa al ribasso, il caporale rischia di essere metaforicamente e indirettamente la stessa gdo, insieme a ognuno di noi, che compriamo sottocosto senza chiederci chi pagherà davvero il prezzo del nostro effimero risparmio.
Come il supermercato è diventato un’industria, scrive Fabio Ciconte, giornalista e Stefano Liberti, giornalista il 6 marzo 2017 su internazionale.it. Seconda puntata di un’inchiesta in tre parti sulla grande distribuzione organizzata. Prima puntata, terza puntata. “Sei un pragmatico o un cacciatore?”. La domanda riecheggia per la sala conferenze. La grande stanza immersa nella luce artificiale del neon è affollata, quasi tutti uomini, età media sui 40. Il relatore ha un microfono in mano e un telecomando con cui fa scorrere infografiche e dati su una lavagna luminosa. Il pubblico guarda le slide e ascolta rapito. Non siamo a una seduta collettiva di life-coaching guidata da qualche guru di nuova tendenza, ma a Marca, la grande fiera dei prodotti a marchio della grande distribuzione organizzata (gdo) che si tiene ogni anno a Bologna, nel cuore dell’imponente e labirintico spazio fieristico. L’uomo in piedi accanto allo schermo sta presentando una ricerca condotta dall’istituto Gfk per conto dell’Associazione della distribuzione moderna (Adm) sui “nuovi processi d’acquisto”. Sono indicate le varie tipologie di clienti dei supermercati. La tassonomia è affascinante e ognuno è assorto nell’ascolto, impegnato senza dubbio a pensare a quale categoria appartenga. C’è il “pragmatico”, il consumatore che non perde tempo e va dritto verso quello che deve comprare guardando solo le caratteristiche del prodotto e il prezzo. Secondo i ricercatori ha un’istruzione medio-bassa e tende ad acquistare al prezzo minore. C’è il “cacciatore”, che si aggira tra gli scaffali anche lui alla ricerca del risparmio ed è pronto a cambiare marca, prodotto e perfino supermercato a seconda della convenienza. Nella corsia a fianco troviamo il “prudente”, pure lui orientato dal prezzo ma con un enorme bisogno di rassicurazione. Spostandosi nel nord Italia sarà più facile invece imbattersi nell’“esperto”, che legge le etichette, si informa, ha un’istruzione medio-alta. Infine il “brand fan”, che vuole il meglio, di marca, senza badare a spese perché l’importante è essere appagati.
Largo ai prodotti “della casa”. La fiera dura due giorni. Per gli operatori del settore è un’occasione per fare il punto del mercato, incontrarsi e stringere relazioni d’affari. Ma soprattutto per celebrare la crescita inarrestabile della grande protagonista della kermesse: la marca del distributore, ovvero il prodotto con il logo del supermercato. Pasta, pomodori, biscotti, gelati, detersivi, basta entrare in un qualunque punto vendita per toccare con mano questa evoluzione: i prodotti con il marchio del distributore (Coop, Conad, Carrefour, eccetera) sono sempre di più, in posizioni sempre migliori, e sempre più concorrenziali rispetto ai marchi più noti. Il volume d’affari della private label, si chiama così in gergo, ha raggiunto i 9,5 miliardi di euro, circa il 18 per cento dei prodotti di largo consumo confezionati (il cui fatturato totale è 52 miliardi). Percentuale che sale di molto se si considera il comparto discount. Cifre ancora ben lontane da quelle di altri paesi europei come il Regno Unito, dove la marca commerciale raggiunge il 45 per cento, che indicano però una chiara direzione di marcia. Secondo le previsioni dell’Adm, che rappresenta le aziende della distribuzione, la private label raggiungerà nel 2025 la quota del 50 per cento dei prodotti in vendita. Ma già la percezione nei supermercati è quella: perché, accanto al prodotto di marca tradizionale, quello a marchio del distributore è sempre più visibile. “Se consideriamo che le grandi catene italiane, Coop e Conad, hanno percentuali di private label maggiori del 25 per cento, possiamo dire che la gdo è diventata la più grande industria alimentare italiana”, sintetizza Corrado Giacomini, professore di marketing dei prodotti alimentari all’università di Parma.
Un elemento di rassicurazione. Quand’è che la grande distribuzione è diventata un’industria? Nata negli anni venti del novecento nel Regno Unito, la private label è sempre stata associata a prodotti di minor valore, poveri anche nella confezione, destinati a clienti con scarso potere d’acquisto. Negli ultimi anni questa impostazione è cambiata: le grandi catene curano la qualità, il packaging, cioè le confezioni, investono il loro “potenziale di fiducia” presso i consumatori. Quelli che un tempo erano per definizione prodotti non di marca, a buon mercato e alla portata di tutti, oggi si sono trasformati in brand, conquistando la fiducia dei consumatori che, sempre di più, vedono in quel marchio un elemento di rassicurazione. Accanto a Coca-Cola, Barilla, Ferrero, troviamo quindi ormai le marche di Coop, Conad, Esselunga, ognuna con la sua linea specifica e orientata alle esigenze del singolo consumatore. Stesso scaffale, prodotti diversi: ci sono le aziende leader, quelle che fanno prodotti unici conosciuti in tutta Italia e spesso nel mondo, come le bevande gassate e le creme da spalmare. Li trovi in bella vista, pronti per essere messi sul carrello dalle mani sicure del cosiddetto “brand fan”. Gli altri clienti invece mirano ad articoli diversi. I pragmatici si dirigono verso i cosiddetti prodotti primo prezzo, più economici. I prudenti vogliono risparmiare ma essere rassicurati sulla qualità. Puntano quindi a marche minori, i cosiddetti “follower”: quelli che, dietro ai leader, cercano di ritagliarsi uno spazio non sempre agevole tra gli scaffali. È proprio in quest’articolazione tra tipologie di consumatore e gerarchie di marchi che si è inserita ormai in modo sempre più preponderante la private label.
La grande distribuzione si è ormai sostituita all’alimentari sotto casa che ti garantiva la qualità del prodotto. La strategia della gdo è chiara: differenziare l’offerta e puntare sempre più verso l’alto. Se con i primi prezzi troviamo prodotti di gamma inferiore rispetto alle marche tradizionali, con la “premium” qualità e prezzo sono più elevati rispondendo alla richiesta di prodotti ricercati, tipici e regionali. Ed è così che negli ultimi anni c’è stato un fiorire di marchi commerciali che vogliono essere garanzia di qualità: Sapori e dintorni di Conad, Fior fiore di Coop, il Viaggiator goloso di Unes, Terre d’Italia di Carrefour. Per non parlare delle linee biologiche, del commercio equo, interi scaffali riservati ai vegani o ai celiaci. “La grande distribuzione si è ormai sostituita alla signora Maria dell’alimentari sotto casa, che ti garantiva la qualità del prodotto”, riassume efficacemente Giacomini. “Così oggi i prodotti a marca commerciale hanno varie categorie, ma puntano soprattutto sulla premium, quella di maggiore pregio, che mira a fare concorrenza ai grandi marchi industriali”. Rispetto all’industria classica, la distribuzione gode di alcuni vantaggi incomparabili: non deve fare pubblicità sui prodotti né preoccuparsi dell’accesso al mercato. A differenza dei prodotti industriali, quelli a marca commerciale hanno un canale di vendita dedicato, già pronto, ovvero lo scaffale dello stesso supermercato che mette il marchio sul prodotto. E così si spiega perché, in un mercato in cui il 70 per cento degli acquisti alimentari passa per i punti vendita della gdo, la private label è il nuovo Eldorado. E l’industria, che una volta dettava le leggi e i prezzi, oggi deve adeguarsi.
Concorrenza contraddittoria. Non c’è persona più indicata per parlare di questo tema di Francesco Pugliese. L’attuale direttore e amministratore delegato di Conad è uno dei pochi del settore ad aver fatto il salto della barricata: per anni attivo nell’industria, prima come direttore generale Europa di Barilla, poi come amministratore delegato e direttore generale del gruppo Yomo, dal 2004 ha preso le redini del secondo gruppo distributivo italiano. Conosce quindi sia il mondo del commercio sia quello dell’industria, con i loro rispettivi pregi, difetti, potenzialità. Con un fatturato di circa tre miliardi di euro la marca Conad è una delle più performanti: rappresenta il 27,4 per cento di un fatturato di poco più di 12 miliardi di euro. Un risultato che stacca di quasi dieci punti percentuali la media italiana. “Il che equivale a dire che nei nostri carrelli, un prodotto su tre è a marchio Conad”, esclama con una certa soddisfazione. Nella sede del gruppo nel quartiere fieristico di Bologna, questo manager di 58 anni analizza le tendenze di sviluppo della marca del distributore e i rapporti con gli industriali che la producono. Perché, per quanto ovvia, è bene fare una puntualizzazione: non è che i supermercati si siano messi direttamente a trasformare e inscatolare i prodotti. La marca del distributore è prodotta da fornitori in appalto, che spesso sono gli stessi che producono le marche industriali, con il risultato un po’ contraddittorio che i due articoli – che magari provengono dallo stesso stabilimento e sono prodotti con la stessa materia prima – si fanno concorrenza sul medesimo scaffale con marchi diversi. In un mercato con margini sempre più risicati e con un accesso stretto al consumatore finale, le industrie si trovano così davanti a un bivio: continuare a produrre con il proprio marchio, oppure diventare fornitrici della distribuzione, perdendo cioè la propria identità imprenditoriale ma mantenendo la speranza di non avere problemi nella commercializzazione dei prodotti.
Su un campione di 75 fornitori della gdo il 92 per cento produce sia un proprio marchio sia un marchio commerciale. Una scelta quasi obbligata, leggendo i numeri crescenti della private label, ma che presenta non poche criticità. Secondo una ricerca dell’associazione Industrie beni di consumo (Ibc) illustrata proprio alla fiera Marca, su un campione di 75 fornitori della gdo il 92 per cento produce sia un proprio marchio sia un marchio commerciale. Al contempo, il 42 per cento lamenta un enorme aumento della competizione con altri concorrenti. Perché se diventi un subappaltatore, è la gdo a monte e non più il consumatore a valle a promuovere o bocciare il tuo marchio. E i voti alti in pagella possono essere determinati anche da una richiesta di prezzi più bassi. Tra marchio industriale e marchio commerciale sugli scaffali non c’è partita. Non dovendo pagare spese di marketing né le varie tipologie di contributi e sconti che normalmente la grande distribuzione chiede all’industria per fare entrare i prodotti nei suoi punti vendita, la private label ha solitamente un migliore rapporto qualità/prezzo. E così, come sottolinea l’indagine conoscitiva sulla grande distribuzione dell’agenzia per la concorrenza, la gdo si trova a svolgere ruoli diversi: “Acquirente, concorrente (attraverso le private label), ‘venditore’ degli spazi a scaffale, controllore degli accessi (il cosiddetto gate keeper) al principale canale distributivo”.
La legge del mercato o quella del più forte? “È una questione di regole di mercato: se sei una marca conosciuta e affermata hai un posizionamento di primo piano e maggiore potere negoziale”, ribatte Pugliese. Il manager ha ben chiaro in mente dove si sta dirigendo il mercato: “La tendenza in atto vede l’affermazione delle marche leader e la crescita costante della marca del distributore, come avviene in tutta Europa”. Da questo punto di vista Conad persegue una strategia di sviluppo in questo senso molto ben definita: “La marca del distributore è un’opportunità per il produttore, piccolo o medio che sia, perché gli mette a disposizione un mercato molto ampio. Ma lo è anche per il consumatore, al quale garantisce prodotti di qualità a prezzi convenienti”. L’amministratore delegato difende la listing fee e gli altri contributi che la gdo chiede ai fornitori: “La presenza di prodotti sugli scaffali comporta un rischio di impresa che deve essere condiviso. La gdo ha costi di gestione come qualunque altro attore del commercio, ma margini molto ridotti, in media lo 0,4-0,5 per cento, mentre quelli dell’industria raggiungono il 5-6 per cento”. Proprio per incentivare la spinta verso il private, i contratti che Conad chiude con i fornitori delle sue marche non prevedono le listing fee che impongono invece ai marchi industriali, ma sono net-net: cioè il prezzo netto pulito, senza contributi o scontistiche. Così, il piccolo è spinto a produrre per il distributore e a non lanciarsi in rischi imprenditoriali eccessivi che potrebbero portarlo contro un muro.
Oggi è la grande distribuzione a farla da padrona rispetto a un universo di fornitori che appare poco coeso. Pugliese è molto diretto: “Lo scenario è cambiato in pochi anni. La piccola e media industria sono chiamate a misurarsi con la reale domanda di mercato”. Ed è così che sempre più si sta verificando un grande stravolgimento dei rapporti di forza: se i gruppi della gdo in Italia, in particolare Conad e Coop, sono nati come unione di dettaglianti per fronteggiare il potere della grande industria, oggi è la gdo a farla da padrona rispetto a un universo di fornitori che appare decisamente poco coeso. L’industria è quindi destinata a diventare una pura subappaltatrice, realizzatrice di processi dettati da altri attori della filiera? Il manager di Conad respinge quest’obiezione: “Si tratta di una dinamica di condivisione. Fare la marca del distributore è un lavoro specifico che richiede uno sforzo di progettazione e implementazione molto significativo unito a una visione strategica chiara. Noi con i nostri fornitori della private label abbiamo rapporti duraturi di mutua fiducia”. Salvo aggiungere, tanto per essere precisi: “Molte innovazioni, soprattutto in determinati ambiti, sono partite proprio da sollecitazioni della gdo, che interfacciandosi direttamente con i consumatori conosce meglio i loro orientamenti e le loro esigenze”. In effetti spesso le richieste di certificazione etica partono dalla grande distribuzione e sono recepite successivamente e a volte obtorto collo dagli altri anelli della filiera: è il caso per esempio della campagna “Buoni e giusti” di Coop Italia nata per garantire legalità e assenza di sfruttamento e caporalato sui prodotti in vendita. A sentire l’altra campana, cioè l’industria, le relazioni non sono però così rosee. Molti fornitori sostengono, sempre in forma anonima per non inimicarsi la gdo, che le condizioni dettate da quest’ultima sono spesso dure, al limite del vessatorio. Alcuni degli operatori interpellati per quest’inchiesta lamentano che i buyer spesso non conoscono le aree di produzione, i costi, il valore degli articoli. E badano prevalentemente a ottenere il prodotto a costi bassi. Insomma, è un cane che si morde la coda: i fornitori non possono più fare a meno della private label, ma produrre per la private label erode il loro potere negoziale.
Chi è causa del suo mal…Il punto critico del sistema è proprio questo: l’asimmetria contrattuale. In un paese fatto per lo più di piccole e medie imprese, la grande concentrazione della distribuzione nelle mani della gdo genera elementi di distorsione: da una parte c’è un attore potentissimo, che controlla l’accesso al mercato, dall’altra un mondo estremamente frastagliato, poco incline all’aggregazione e quindi incapace, con poche eccezioni, di avere una reale forza negoziale. Migliaia di piccoli e medi agricoltori che non si mettono insieme a fare sistema, una miriade di industrie di trasformazione con fatturati minuscoli se paragonati a quelli della gdo, con la conseguenza che in queste condizioni il rischio di esondare nel cosiddetto eccesso di potere contrattuale è sempre più alto. “Non bisogna demonizzare la gdo. Si tratta di una grande opportunità per tutta la filiera agroalimentare”, continua Giacomini. Certo, riconosce il professore: “C’è una sproporzione di forze tra i giganti delle catene dei supermercati e gli altri attori della filiera”. “Chi è causa del suo mal pianga se stesso”, taglia corto con i suoi toni un po’ caustici Pugliese. “Credo che sia necessario sempre più che gli altri attori definiscano un indirizzo di filiera per avere un rapporto meno sbilanciato con la gdo”, propone in modo più diplomatico Giacomini. “Se è vero che i gruppi della gdo hanno un fatturato enormemente superiore a quello di qualsiasi impresa agricola, è vero anche che se ognuna di queste si presenta da sola nella contrattazione, non ha alcuna possibilità di spuntare un prezzo congruo”. Perché negli anni la gdo si è aggregata nelle centrali e nelle super centrali, mentre non si può dire lo stesso per i fornitori che, salvo rare eccezioni, continuano ad andare in ordine sparso. In un certo senso, ha ragione Pugliese: le stesse organizzazioni di produttori, create in campo agricolo su impulso dell’Unione europea proprio per favorire l’aggregazione, in molti casi si sono rivelate unioni fittizie, determinate più dalla necessità di intercettare i fondi dei piani operativi europei che da un desiderio di fare sistema e di unirsi per essere più forti. Così, in un paese costituito da piccole e medie imprese e da aziende agricole con una superficie media di pochissimi ettari, è ovvio che il piccolo industriale o il piccolo agricoltore avranno potere contrattuale nullo di fronte ai giganti della gdo.
Come natura crea. Se gli agricoltori e gli industriali che non si aggregano dovrebbero solo “piangere se stessi”, che danno ne ricava il cittadino consumatore? In definitiva, ottiene prodotti alimentari a basso costo della cui qualità si fa garante la catena di distribuzione. Ma siamo sicuri che sia proprio così? In un approccio più sistemico, se i prodotti sono a basso costo, è tutta un’economia a risentirne. E alla fine la stessa qualità: perché l’industriale che vende al ribasso alla gdo, si rifarà sull’agricoltore e sul fornitore di materia prima. E quest’ultimo cercherà in tutti i modi di aumentare le rese, usando sementi più performanti, aumentando l’uso di pesticidi e riducendo al massimo le spese accessorie. Produrrà quindi sempre di più una merce, prodotto indistinguibile per qualità il cui valore si misura solo in quantità, perché il costo a cui la vende sarà legato sempre più unicamente a quest’ultima variabile. È questo quello che sta accadendo? I grandi attori della gdo giurano di no. “Il rapporto con i fornitori di prodotti della nostra marca è basato sulla reciproca soddisfazione, una soddisfazione che si stabilizza nel tempo, con rinnovi annuali per una durata media di oltre otto anni”, afferma Pugliese. “Nell’ortofrutta la media di durata delle relazioni è di 25 anni a evidente dimostrazione di rapporti proficui da entrambe le parti”, puntualizza Coop Italia. I responsabili della gdo sostengono che quella della marca commerciale è un’evoluzione naturale, che loro ci mettono la faccia e garantiscono prezzi più bassi, che stabiliscono relazioni solide e di mutua convenienza con i fornitori. E che nei supermercati ci sarà sempre una varietà di scelta per tutte le tipologie di clientela. Ma il rischio molto concreto è un altro: che alla fine i cittadini, siano essi clienti esperti, prudenti, cacciatori o pragmatici, si trovino a comprare prodotti diversificati solo nel marchio e nel marketing ma in realtà spesso identici, perché in un universo di grandi concentrazioni è facile imporre un’omologazione verso il basso. E perché gli orientamenti della produzione saranno in effetti sempre più dettati da attori che non necessariamente conoscono i problemi dell’agricoltura o dell’industria di trasformazione, ma avranno come orizzonte d’azione quello dell’acquisto della fornitura al più basso costo possibile.
Con le aste online i supermercati rovinano gli agricoltori, scrive Fabio Ciconte, giornalista e Stefano Liberti, giornalista il 13 marzo 2017 su internazionale.it. Terza puntata di un’inchiesta in tre parti sulla grande distribuzione organizzata. Prima puntata, seconda puntata. “Vedete, è come giocare alla slot machine”. Seduto di fronte al suo computer, Francesco Franzese digita freneticamente sui tasti simulando il gioco al quale si è trovato suo malgrado a partecipare in un giorno non troppo lontano. Questo manager di 37 anni, amministratore delegato del gruppo che produce i pelati e la passata La Fiammante, ha il dente avvelenato contro una prassi che si sta sempre più affermando tra gli operatori della grande distribuzione organizzata (gdo): quella delle aste online al doppio ribasso. “Funziona così: ti arriva una email in cui ti si chiede a quale prezzo sei disposto a vendere una partita di un tuo prodotto, per esempio un milione di scatole di passata. Tu fai un’offerta. Il committente raccoglie le offerte e poi convoca un nuovo tender. L’offerta più bassa diventa la base d’asta”. Nella sua fabbrica di Buccino, in provincia di Salerno, dove produce pelati, passate e peperoni arrosto, Franzese non risparmia i dettagli di quella che definisce “la pratica più scorretta in assoluto della grande distribuzione”. Una pratica che lui paragona né più né meno al gioco d’azzardo. “Ci mettono intorno a una piattaforma e dobbiamo rilanciare sull’offerta. Ma è la prima asta che ho visto in vita mia in cui i rilanci sono dei ribassi!”. Franzese racconta come alcuni altri imprenditori abbiano abbassato l’offerta al di sotto di ogni limite accettabile pur di aggiudicarsi la commessa. “Si sono fatti prendere dalla febbre del gioco e si sono fatti davvero male”.
Venditori senza tutele. Il meccanismo delle aste inverse, o al doppio ribasso, si sta diffondendo sempre di più come pratica di acquisto da parte di grandi gruppi – e anche della pubblica amministrazione – per diversi tipi merceologici. Sui prodotti alimentari, è molto in voga in vari paesi europei e in Nordamerica. Con un po’ di ritardo, sta sfondando anche in Italia. Oggi si svolge per parecchi prodotti confezionati: oltre al pomodoro, l’olio, il caffè, i legumi e le conserve di verdura. Portato inizialmente dai grandi gruppi esteri del discount, in primis Lidl, e dagli operatori francesi (Carrefour e Auchan), è oggi pratica comune di tutte le catene distributive, con poche eccezioni. “Tu ti trovi di fronte a una piattaforma digitale insieme ad altri fornitori. Entri con un tuo user name e una password e hai pochi minuti per aggiudicarti la partita. Non sai chi sono gli altri partecipanti. Sei solo davanti al tuo computer, costretto ad abbassare di volta in volta la tua offerta”. Nessun meccanismo legislativo regola questo strumento di vendita: essendo un passaggio business-to-business e non business-to-consumer, le tutele sono quasi inesistenti per il venditore. L’unico vincolo che quest’ultimo ha è che non può vendere al di sotto del prezzo di produzione, indicato in una colonnina all’inizio del foglio excel all’interno del quale si fanno le quotazioni. “Ma spesso accade che gli acquirenti ci chiedono semplicemente di modificare al ribasso quel numeretto in modo che tutto sia perfettamente legale”, continua Franzese. “Così in diversi casi miei colleghi hanno venduto la merce al di sotto del costo di produzione”.
L’industriale che vende sottocosto dovrà poi rivalersi sull’agricoltore che gli fornisce la materia prima. L’imprenditore confessa di aver partecipato più per capire come funziona che per reale volontà di vendere il prodotto. “La mia è un’azienda piccola, che non ha l’economia di scala per aggiudicarsi un’asta di questo tipo”. Ma non si stanca di denunciare la pratica, nonostante il suo uscire allo scoperto possa creargli qualche problema con gli operatori della grande distribuzione organizzata (gdo), che controllano il canale di vendita dei suoi prodotti. “È importante gettare luce su questo meccanismo perverso perché schiaccia tutta la filiera”. Sì, perché l’industriale che vende sotto costo dovrà poi rivalersi sull’agricoltore che gli fornisce la materia prima. Nel caso specifico del pomodoro, le aste si fanno in primavera, prima cioè che ci sia il prodotto e soprattutto prima che i rappresentanti dell’industria di trasformazione e quelli degli operatori agricoli abbiano chiuso il contratto che stabilisce il prezzo di vendita. Così, l’industriale vende al buio un prodotto che non ha e che non sa ancora quanto pagherà. A quel punto, cercherà di chiudere il contratto al prezzo che la gdo ha già stabilito in anticipo con le aste, senza tenere in alcun conto la situazione reale sul terreno. “In un certo senso con le aste online, l’industriale vende la pelle del contadino”.
“Siamo alla guerra tra poveri”. A circa 200 chilometri di distanza da Buccino, nelle campagne del Tavoliere della Puglia che d’estate si colorano di rosso del pomodoro da industria, Raffaele Ferrara ha parole altrettanto dure: “Vent’anni fa, quando c’era la lira, noi agricoltori ricevevamo 200 lire al chilo per il pomodoro. Oggi lo dobbiamo vendere all’equivalente di circa 150 lire. Perché la grande distribuzione vuole spuntare prezzi sempre più bassi”. Direttore dell’azienda agricola La Palma, che ha diverse decine di ettari coltivati a pomodoro a Lesina, nel basso Gargano, Ferrara è nel settore da almeno trent’anni. Ha visto l’evoluzione dei prezzi, il crollo del valore e, sia pure da un anello più a valle della filiera, lo sviluppo delle nuove pratiche d’acquisto della grande distribuzione. “Fanno delle aste su internet, in cui abbassano il prezzo a livelli insostenibili. Così, poi, gli industriali si rifanno su di noi”. Ferrara è sconsolato. Si dice pronto a smettere. “Ma che ne sarà di questa terra?”, si domanda. “La gdo fa questo per vendere una scatola di pelati a 70 centesimi invece che a 90. Intanto distrugge un’intera economia. Qui siamo alla guerra tra poveri”. Molto diffuso in altri paesi, il meccanismo delle aste è ormai prassi comune anche in Italia. Secondo uno studio presentato alla fiera Marca di Bologna nel gennaio scorso, il nostro paese si sta allineando alla media estera: in Italia si ha un’incidenza delle aste di circa il 50 per cento sui discount e poco meno sulle catene classiche della grande distribuzione.
Ci sono le diverse quantità di prodotti e il prezzo unitario a cui si devono vendere. Chi fa l’offerta più bassa, vince. “La diffusione delle aste è uno strumento utilizzato da alcune catene per velocizzare le transazioni e che parte da un dato oggettivo: la grande distribuzione ha maggiore forza negoziale dei fornitori. Questi si devono adeguare”, sostiene un ex operatore che ha lavorato per diversi gruppi e che non vuole essere citato per nome. “In generale”, continua, “è una prassi non molto equa, in cui la grande distribuzione organizzata esercita in modo eccessivo il suo potere”. Ma chi convoca queste aste? Spesso sono le cosiddette supercentrali europee, mega-alleanze tra grandi catene distributive di vari paesi, a guidare il negoziato. È il caso per esempio di Coopernic, la grande centrale con sede a Bruxelles di cui fa parte anche il gruppo Coop Italia. Il capitolato d’asta è molto complicato. “Si impiegano due o tre giorni a riempire tutte le carte”, racconta Franzese. Ma il principio è semplice: ci sono le diverse quantità di prodotti e il prezzo unitario a cui si devono vendere. Chi fa l’offerta più bassa, vince. “Ma spesso è una vittoria di Pirro. Perché subito dopo comincia la parte difficile: riuscire a garantire la consegna del prodotto a quei prezzi irrisori”.
In Francia è stato regolamentato. Tra i grandi gruppi presenti nel mercato della grande distribuzione organizzata in Italia, sono in molti a usare le aste. Ci sono i discount come Eurospin e Lidl, oltre ai gruppi francesi (Carrefour e Auchan) e, tra gli italiani, Coop Italia. Conad, Esselunga e Unes la ritengono una prassi non in linea con i loro princìpi. Abbiamo chiesto a tutti dettagli sulla pratica delle aste ma avere una risposta non è stato semplice. Molti hanno preferito non rispondere. Eurospin si è limitata a un laconico “non siamo interessati ad aderire all’iniziativa”. Lidl e Carrefour hanno lasciato inevase le domande dopo un primo contatto telefonico e diverse sollecitazioni. Unica eccezione in questo mare di silenzio, Coop Italia. Nella sua risposta, il primo gruppo italiano della gdo puntualizza che “l’asta online non è una pratica diffusa in Coop, è adottata in casi eccezionali, opportunamente selezionati, e solo per le forniture di prodotto da primo prezzo”, ovvero quei prodotti con il prezzo più basso di quella categoria. Tale pratica, sempre secondo Coop, permette “di avere uno stato delle quotazioni del mercato in breve tempo, grazie alla velocità di raccolta delle informazioni necessarie alla valutazione dell’offerta di prodotto, in termini qualitativi e di prezzo”. In conclusione, il gruppo ammette alcune criticità dello strumento e si impegna “a condividere tale tematica con altri partner europei della grande distribuzione”. Quali siano le dimensioni del fenomeno è difficile da dire, vista la totale assenza di trasparenza da parte della gdo a voler fornire risposte su questo. Per gli addetti del settore è una pratica in crescita che presenta notevoli criticità. Si tratta di “una modalità di approvvigionamento considerata molto negativamente non solo per il suo impatto sui margini, ma per le implicazioni che può avere quando i capitolati, mal definiti, lasciano aperte aree grigie in merito alla qualità dei prodotti”, analizza lo studio presentato a Marca. Ma è possibile porre un argine legale a questa pratica? In quanto meccanismo di scambio business-to-business, la regolamentazione è meno stringente di quella che riguarda i rapporti con i consumatori. Molti operatori del settore, anche quelli che più risentono di questo tipo di contrattazioni elettroniche, ritengono che una regolamentazione sarebbe bocciata dall’antitrust perché violerebbe le regole del libero mercato. Visto lo sconforto dei fornitori, e gli stessi dubbi di grandi operatori della gdo, forse un intervento legislativo sarebbe utile anche in Italia. Eppure, in Francia è stato fatto. In seguito a un dibattito che ha attraversato l’opinione pubblica subito dopo la comparsa di questo strumento, nell’agosto del 2005 l’assemblea nazionale ha approvato una legge (la legge Jacob) tesa a inquadrare le “enchères électroniques inversées” (aste elettroniche inverse). Nel testo si stabiliscono alcune norme che aumentano la trasparenza nelle contrattazioni, sanzionano la possibilità di introdurre partecipanti falsi per far abbassare i prezzi. E, soprattutto, stabiliscono che le aste online non possono essere uno strumento per trovare prezzi più concorrenziali rispetto ai fornitori storici, a cui deve essere dato un congruo preavviso per la rottura della relazione. Dopo questo intervento, l’incidenza delle aste nel settore alimentare è sensibilmente calata, insieme alle lamentele dei fornitori che avevano sollevato il caso. Visto lo sconforto dei fornitori, e gli stessi dubbi di grandi operatori della gdo, forse un intervento legislativo in questo senso sarebbe utile anche in Italia. In modo da restituire valore a una filiera e respiro a un’economia agricola che appare sempre più in affanno.
Non è lavoro, è sfruttamento. Il libro di Marta Fana venerdì a Laterzagorà, scrive Giuseppe D’Onofrio il 12 aprile 2018 napolimonitor.it. Sarà presentato venerdì 13 aprile, alle ore 17,30, alla libreria LaterzAgorà (Teatro Bellini / via Conte di Ruvo, 14) il libro di Marta Fana: Non è lavoro, è sfruttamento. Ne discuteranno con l’autrice Antonio Di Luca (operaio Fiat Pomigliano, delegato Fiom), Paolo Frascani (storico), Enrico Pugliese (sociologo). Disintegrazione della grande impresa verticalmente integrata, frammentazione e dispersione geografica delle attività produttive, subappalto organizzato e organizzazione reticolare della produzione, precarizzazione del lavoro, frammentazione della classe lavoratrice e delle sue forme associative. La ristrutturazione del capitalismo ha progressivamente allargato lo spazio di dominio delle imprese e assecondato la smania del capitale nel ricercare soluzioni spaziali e temporali profittevoli. Nella maggioranza dei paesi industriali avanzati, negli ultimi trent’anni, questa ristrutturazione economico-produttiva è andata di pari passo con lo smantellamento del complesso dei diritti dei lavoratori. Il lavoro ha subito profonde trasformazioni e i suoi rapporti di forza con il capitale sono stati ridisegnati dal continuo spostamento dell’asse delle tutele dai lavoratori alle imprese. I risultati sono sotto gli occhi di chiunque abbia voglia di vedere: sfruttamento, impoverimento, informalità, ritorno del cottimo. A consegnarci un ritratto della nuova classe operaia italiana senza fabbrica è Marta Fana nel volume Non è lavoro, è sfruttamento edito da Laterza. L’autrice analizza il duro attacco sferrato dal capitalismo alla classe lavoratrice italiana. Il campo di battaglia in cui si cala per raccontare scontri e feriti è un mercato del lavoro che a colpi di leggi e provvedimenti, dal pacchetto Treu al Jobs Act, è stato progressivamente deregolamentato, flessibilizzato e reso funzionale agli interessi economici delle imprese. La ridefinizione del complesso dei vincoli relativi ad assunzioni e licenziamenti e la liberalizzazione dei contratti a termine sono stati gli obiettivi principali di politica del lavoro perseguiti negli ultimi trent’anni da governi di diverso colore politico alla scopo di frammentare, disciplinare e impoverire la classe lavoratrice. Il volume contribuisce al dibattito sulle trasformazioni del lavoro contemporaneo tracciando profili e caratteristiche dei membri di una nuova formazione proletaria. Questi nuovi proletari d’Italia, quando non arruolati nell’esercito dei disoccupati, o costretti a emigrare e lavorare come lavapiatti e camerieri nei ristoranti di mezza Europa, vengono assunti dalle agenzie di somministrazione e affittati per poche ore dai colossi della grande distribuzione organizzata; lavorano a voucher come saldatori, a nero nei bar e nelle pizzerie, a rimborso spese nelle biblioteche comunali e a gratis nei fast-food dell’alternanza scuola-lavoro. Negli ospedali, nelle università, negli uffici pubblici e nelle scuole, i loro contratti e le loro retribuzioni sono legate alle offerte al ribasso delle cooperative a cui il settore pubblico appalta sempre più servizi e sfruttamento. Nell’edilizia lavorano come cottimisti a partita iva e sono pagati a “metro quadrato lavorato” dalle imprese che ottengono gli appalti. Nei call center, invece, la loro paga a cottimo viene calcolata da un contatore che misura solo ed esclusivamente il tempo effettivo di conversazione avuta con il cliente, il cosiddetto talking, tenendo fuori il tempo dello squillo e quello impiegato per contattarlo. Nei grandi cantieri, dove le lunghe catene di subappalti gestite da ex aziende a partecipazione statale hanno come anello terminale piccolissime imprese, la loro paga oraria si trasforma in “globale” e contiene al suo interno ferie, tredicesima, malattia, permessi. Nelle città i nuovi proletari girano su bici e motorini per tre euro a consegna e, quando non lo fanno in nero, lo fanno come lavoratori autonomi, senza comunque nessun diritto. Nei magazzini, sotto ricatto e con paghe da fame, sistemano e distribuiscono le merci prodotte da altri sfruttati nelle reti di subfornitura internazionale capeggiate dai grandi gruppi multinazionali. Se ricatto, sfruttamento, subalternità, precarietà, assenza di tutele, povertà, sono gli elementi che accomunano le nuove figure del lavoro contemporaneo, mai come ora emerge la necessità di un contrattacco organizzato da parte di tutte quelle forze politiche e sociali per le quali il lavoro rappresenta ancora uno strumento di emancipazione e non una mera variabile economica del costo d’impresa.
VOLONTARIATO ED IDEOLOGIA: CAPORALATO E LAVORO NERO. SFRUTTATI A FIN DI BENE.
Quegli sfruttati a fin di bene non indignano nessuno, scrive Giuseppe Marino, Martedì 5/09/2017, su "Il Giornale". «Ciao, posso farti una domanda?», esclamano i ragazzi con la pettorina colorata e la cartellina in mano. Chi non dubita che il fine giustifichi i mezzi, non troverà il fenomeno dei dialogatori scandaloso. Ma è difficile che tra i seguaci di Machiavelli si iscrivano dirigenti di organizzazioni come Unhcr e Unicef, di solito assai pronti a condannare i mezzi altrui. Nulla di nuovo sotto il cielo: è la classica trappola del moralista, che avvista ogni pagliuzza ma si fa sfuggire volentieri le travi nei propri occhi. Colpisce però il silenzio che accompagna la particolare forma di precariato raccontata in questa inchiesta del Giornale. Certo, i numeri sono inferiori a quelli dei call center, ma non sono poi così marginali. Ogni grande organizzazione solidale sguinzaglia in giro per piazze e aeroporti qualche centinaio di ragazzi. Per qualcuno è un modo come un altro per portare a casa qualche euro in mancanza di meglio. Altri credono davvero di entrare nello splendente mondo della solidarietà e invece si ritrovano sbattuti in strada a usare le stesse tecniche di marketing persuasivo di qualunque venditore, ma condite con una generosa spruzzata di senso di colpa, insinuato nel potenziale donatore con una domanda ben studiata: «Pensi che sia normale che nel 2017 ci siano ancora bambini che muoiono di fame?». Niente di illegale, ovviamente. Certo gli annunci che offrono contratti di «Co.Co.Co» che praticamente non esistono più, non sono il massimo della trasparenza. E, perlomeno, quando è direttamente la Ong a reclutare l'aspirante dialogatore, a fianco della forte spinta all'uso di tecniche di marketing pare si cerchi di mantenere vive anche motivazioni più genuine. Resta l'estrema precarietà di un lavoro che difficilmente porterà a sbocchi migliori. Ed è strano che l'ondata di indignazione per il lavoro alienante nei call center, di cui il regista Paolo Virzì si fece cantore con il suo retorico Tutta la vita davanti, non abbia nemmeno sfiorato il fenomeno dei dialogatori. Indice della benevolenza a prescindere di cui godono i giganti della beneficenza. Ma anche segno dei tempi (bui): oggi i call center si sono trasferiti in Albania. E noi rimpiangiamo quei posti di lavoro perduti.
Boldrini, capito quelli di Unicef e Uhncr? Pagano una miseria i loro giovani dipendenti, scrive il 6 Settembre 2017 "Libero Quotidiano". Raccolgono soldi, offerte e adesioni per dare un futuro ai più sfortunati del pianeta, ma intanto Uhncr e Unicef pagano una miseria i loro giovani collaboratori. Quelli, per intendersi, che invadono le città italiane con la pettorina blu e un bel pacchetto di depliant e fogli da far firmare ai passanti per ottenere un bonifico (meglio se stile abbonamento mensile) a supporto delle loro attività in Africa, Asia e zone di guerra. Come ha fatto notare il Giornale, nelle offerte di lavoro di questo tipo si richiede ai candidati un curriculum e soprattutto grandi motivazioni ideali ma non si fa cenno a compensi, rimborsi spese e modalità di lavoro. "La prima formazione preventiva - spiegano dai centralini - è a cura di Unchr ed è quella meno importante, perché ti parlano soltanto delle questioni etiche, e poi ce n'è una seconda più pratica a cura di OmGroup in cui ti istruiscono su cosa vendere ai clienti e in che modo, con quali modalità approcciare, che tonalità di voce e quali parole usare". Il no profit per quello che è: vendita porta a porta. Gli addetti alle vendite, "i dialogatori", una volta lasciato il posto sono i più critici riguardo alle "condizioni lavorative discutibili", visto che il "rimborso" ammonta a circa 500 euro, più eventuali bonus in base a quanti nuovi contratti si portano a casa e al loro "peso". Eppure, spiegano gli ex pentiti, ci sarebbe un trucchetto: "Le remunerazioni sono commisurate ai risultati raggiunti, che quasi mai vengono ritenuti sufficienti".
Otto ore al giorno a 500 euro. Vita da precari delle Onlus. Li chiamano "dialogatori": ecco cosa c'è dietro ai cacciatori di beneficenza con le pettorine colorate, scrive Antonio Borrelli, Martedì 5/09/2017 su "Il Giornale". «L'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), cerca un dialogatore nell'aeroporto bergamasco di Orio al Serio». È un annuncio invitante, a prima vista, quello che si presenta sul sito internet della «OmGroup», società che gestisce l'assunzione di collaboratori per alcune organizzazioni umanitarie curandone l'intero processo di selezione, formazione e inserimento dei collaboratori. «Un progetto esteso su tutto il territorio, che vanta 400 punti vendita e oltre 1000 tra venditori e promoter, per una rete di competenza e professionalità al servizio dei giovani e della produttività firmata Italia», è questo il messaggio di presentazione che si legge online. D'altronde, l'idea di lavorare per un ente prestigioso come Unicef spinge ogni anno centinaia di giovani a tentare di entrare nel mondo del terzo settore. La trafila è quella classica: è necessario rispondere all'annuncio di lavoro inviando un curriculum, all'interno del quale deve essere riservata particolare attenzione alle motivazioni della scelta, più che all'esperienza maturata. Tuttavia colpisce sin da subito la totale assenza di informazioni che possano agevolare la scelta: nessun cenno all'entità di compensi, rimborsi spese o modalità di lavoro, e perlopiù il risicato avviso fa nascere alcuni interrogativi sul tipo di contratto che eventualmente si andrebbe a sottoscrivere. Per avere maggiori informazioni sull'offerta di lavoro, entro perciò in contatto con l'ufficio «recruitment» dell'azienda, dal quale rispondono alle domande a metà tra lo stupore e il fastidio: in caso di avvenuta selezione, il candidato dovrà sottoporsi in un secondo momento a due colloqui conoscitivi e a due giornate di preparazione. «La prima formazione preventiva - riferiscono ai centralini - è a cura di Unchr ed è quella meno importante, perché ti parlano soltanto delle questioni etiche, e poi ce n'è una seconda più pratica a cura di OmGroup in cui ti istruiscono su cosa vendere ai clienti e in che modo, con quali modalità approcciare, che tonalità di voce e quali parole usare». E di fronte al silenzio basito proveniente da questa parte della cornetta, il telefonista prosegue: «Sai, è vero che parliamo di no-profit, ma sostanzialmente si tratta di vendere prodotti». Proprio così. In gergo, il tipo di mansione si chiama «fundraising face to face» e prevede un'opera di sensibilizzazione diretta in piazze, stazioni ferroviarie, aeroporti e nei pressi di eventi delle grandi città italiane, alla ricerca di potenziali sostenitori disposti a sottoscrivere un impegno a donare. Adornati di pettorine colorate e di cartelline, i dialogatori sono quelle figure incaricate di motivare persone a sostenere i progetti delle organizzazioni no-profit attraverso contributi (che loro non incassano direttamente). Negli anni lo strumento del face to face si è trasformato in una vera e propria àncora di salvezza per le Ong, le cui donazioni provengono - con differenze tra le singole organizzazioni - fino anche al 70-80% proprio dai contatti in strada. Ad esempio, soltanto nel 2014, su 14,4 milioni di euro raccolti dall'Unicef Italia, i due terzi provenivano da persone incontrate dai dialogatori. Proprio come nel caso di Unchr, spesso le Ong si affidano ad aziende specializzate per il reclutamento. Esiste un intero universo di società per la promozione degli enti umanitari; RcCompany, Xena Marketing, Ftdm, Pacificgroup, Luna Marketing, Jumbo sono solo alcuni nomi che più spesso circolano nell'ambiente. E non è difficile imbattersi in una marea di giudizi negativi denunciati da centinaia di ex dialogatori, che parlano di «condizioni lavorative discutibili». Intanto dal recruitment informano che «il rimborso (che non viene mai chiamato «compenso» ndr) ammonta a circa 500 euro, a cui vanno ad aggiungersi eventuali provvigioni». Si è meritevoli di bonus sulla base delle donazioni che si riesce a portare a casa, ma i «premi» sono proporzionati al tipo di abbonamento fatto sottoscrivere al donatore: più è alto il contributo, maggiore sarà il bonus. Eppure chi ha fatto questo lavoro è pronto a giurare che «non è mai così, le remunerazioni sono commisurate ai risultati raggiunti, che quasi mai vengono ritenuti sufficienti».
Ci dicevano: "Le piccole donazioni? Ridicole". L'esperienza di Martina: «Lavorare per queste agenzie è come vendere al mercato», scrive Martedì 5/09/2017, su "Il Giornale". «Sono rimasta molto delusa dal mondo del no-profit, dietro il quale si nascondono tante persone senza scrupoli, che non nutrono alcun interesse per i contenuti per cui raccolgono i fondi». A parlare è Martina, ex dialogatrice di Ong, che si dice profondamente disillusa da quella realtà. La giovane romana, che come altri ragazzi ha inseguito il sogno di iniziare una carriera nella cooperazione partendo dal gradino più basso scontrandosi con una realtà molto diversa da quella immaginata, è un fiume in piena e sembra quasi che aspettasse di poterne parlare e liberarsi. «Di solito i ragazzi non durano più di qualche mese, perché difficilmente si riesce a raggiungere il numero di contratti firmati richiesti, ma tanto poi c'è sempre qualcuno che prende il tuo posto, il ricambio è continuo. Così, ogni volta si ricomincia da capo con ragazzi nuovi e forse sempre meno coinvolti e appassionati alle tematiche della cooperazione. E questo lavoro, svuotato di contenuto, è un po' come vendere ad uno stand del mercato della frutta». La visione aziendale del face to face, poi, non sembra essere molto diversa da quella che viene inculcata nei call center, ennesimi tetri luoghi di lavoro in cui l'inventario dei riti motivazionali per garantire migliori prestazioni è variegato e stravagante. «In alcuni briefing quotidiani - continua la venticinquenne - i responsabili parlavano di quanto fosse bello fare soldi ed ottenere grosse donazioni, a dispetto delle più piccole definite ridicole». A dire il vero, il mondo dei telefonisti e quello dei dialogatori sembrano speculari varianti di una nuova concezione di lavoro, in cui è necessario l'utilizzo strumentale dell'empatia, richiesta come dote da affinare per convincere più che per sensibilizzare. «Sarebbe bello fare ciò in cui si crede coscientemente e farlo nel terzo settore - confessa Martina - Ho conosciuto anche altri ragazzi che fanno o hanno fatto il mio stesso lavoro e insieme ci siamo confrontati trovando alcune sostanziali differenze. La principale è che quando non c'è il contatto diretto con le agenzie, difficilmente qualcuno viene emarginato per scarsi risultati o spinto a migliorarli, rendendo così molto più autentico ed etico il lavoro che si svolge. In tutti gli altri casi, però, la situazione è molto diversa».
Benvenuti nell’era del lavoro senza stipendio (per i giovani, ovviamente). Secondo Accenture, 8 giovani laureati su 10 sono disposti ad accettare un lavoro gratis. Non sono incidenti di percorso, è una tendenza che le aziende conoscono bene. E usano senza fare troppi complimenti, scrive Flavia Perina il 15 Giugno 2017 su "L'Inkiesta". “Lavorare gratis, lavorare tutti” dice il sociologo Domenico De Masi, uno dei nuovi guru del Movimento Cinque Stelle, che su questa idea ci ha fatto pure un libro di 300 pagine, spiegandoci che l'improvvisa irruzione sul mercato di mano d'opera gratuita farebbe saltare il mercato e obbligherebbe a ridistribuire mansioni, orari, stipendi. Il fatto è che il lavoro gratis è già ampiamente diffuso, senza – pare – nessuna conseguenza rivoluzionaria. La società Accenture, multinazionale americana di consulenza alle imprese, il 14 giugno scorso ha diffuso una ricerca illuminante: l'83 per cento degli interpellati (tutti studenti universitari) «è disposto ad accettare un tirocinio non retribuito dopo la laurea in caso non sia disponibile un lavoro a pagamento». E una analoga percentuale questo lavoro gratis lo farebbe pure trasferendosi all'estero, cioè accollandosi spese non indifferenti per sopravvivere lontano dalla famiglia. Implicito il consiglio alle aziende: perché pagare i giovani italiani quando sono disposti a lavorare senza salario? L'analisi della multinazionale ci spiega come mai, da un paio di anni a questa parte, le offerte di lavoro gratuito anche per personale qualificatissimo si sono moltiplicate. Non è cialtroneria dei singoli, cinismo, vocazione allo sfruttamento, ma una tendenza di largo respiro, frutto di analisi molto precise sul livelli di «flessibilità» estrema – la definizione è di Accenture – raggiunto dai laureati del nostro Paese negli anni della crisi: pronti non solo a spostarsi, ad accettare formule contrattuali di fantasia, a rinunciare ai contributi, alla previdenza, alle ferie pagate, ma disponibili pure a cancellare almeno per un po' l'essenza stessa di ogni rapporto di lavoro: la retribuzione. Il lavoro a costo zero si fa strada ovunque: vedi il clamoroso caso della Biblioteca Nazionale con i dipendenti “a scontrino” ai centri estivi per bambini, dove il personale specializzato è via via sostituito da volenterosi ragazzi. Dunque, è perfettamente in linea con le nuove tendenze lo «studio tecnico con progetti attivi in Italia, Francia e Nuova Caledonia» che cerca un giovane bilingue che sappia fare praticamente tutto nel campo della comunicazione e dei social – video, testi, pubblicità, spot e pure gestione di campagne pubblicitarie e pianificazione – ma vuole pagarlo solo in un futuro indeterminato, quando «in base ai risultati raggiunti» sarà valutata la «possibilità di assunzione». E si giudicherà addirittura benemerita l'azienda di Grugliasco dileggiata sui social perchè proponeva 23 euro al giorno per sei mesi a un «ingegnere edile trilingue laureato col massimo dei voti e disposto a trasferte». A sentire Accenture quell'ingegnere poteva averlo gratis: che gli abbiano proposto il corrispettivo di due pasti da Mc Donald's ogni giorno è già grasso che cola. C'è un sindacato, l'Inarsind, che tempo fa provò a organizzare su Facebook un Osservatorio chiedendo a ingegneri e liberi professionisti di segnalare le loro storie di tecnici non pagati (contro l'articolo 36 della Costituzione che recita: «Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro»). Ne uscirono fuori storie spericolate. La più estrema è quella dello stadio di Pisa. Serviva il lavoro di molti geometri e si procedette così: ai giovani diplomati fu proposta l'iscrizione (a pagamento: 600 euro cadauno) a un corso di formazione, nel corso del quale avrebbero svolto il “lavoro di fatica” necessario alla progettazione. Oppure l'idea meravigliosa del Comune di Battipaglia, che per fare il nuovo Piano Regolatore arruolò con regolare bando un gruppo di volontari, «laureati in Ingegneria civile, edile, ambientale e informatica», disponibili a «partecipare e fornire gratuitamente» il proprio contributo. L'idea meravigliosa del Comune di Battipaglia, che per fare il nuovo Piano Regolatore arruolò con regolare bando un gruppo di volontari, «laureati in Ingegneria civile, edile, ambientale e informatica», disponibili a «partecipare e fornire gratuitamente» il proprio contributo. A Roma l'amministrazione Cinque Stelle ha affidato al volontariato gratuito persino gli spettacoli di piazza dell'ultimo Capodanno. E il lavoro a costo zero si fa strada ovunque: dal clamoroso caso della Biblioteca Nazionale con i dipendenti “a scontrino” ai centri estivi per bambini, dove il personale specializzato è via via sostituito da volenterosi ragazzi che si accontentano di una citazione per il curriculum o di vaghe promesse per il futuro («Quest'anno fai esperienza, poi magari il prossimo ti paghiamo»). Fino a un paio di anni fa contro questa tendenza c'era qualche segnale di rivolta. Una meritoria campagna intitolata «CoglioneNo» spopolò denunciando l'abuso del lavoro intellettuale – grafici, giornalisti, media manager, animatori – pagato in «visibilità». Uno sforzo inutile, visti i risultati: quando 8 laureati su 10 sono pronti a lavorare gratis, dopo percorsi di studio anche faticosi e spesso comprensivi di stage di formazione, perché qualcuno dovrebbe pagarli?
Abbiamo ricevuto e pubblichiamo, per dovere di cronaca, una rettifica da parte dell'avv. Simone Negro concernente i fatti riguardanti l'architetto Gino Zavanella.
Volontariato o sfruttamento? Si Chiede il 10 settembre 2016 "Ofelia". Dicono che la crisi del lavoro stia finendo.
Chi, i cugini di Nostradamus? No, gli esperti. Di cosa non si sa, però si dice che la crisi stia passando e che stiano nascendo nuovi posti di lavoro. Non voglio intavolare qui una discussione che risulterebbe eterna sul fatto che contratti come “a chiamata”, “garanzia giovani”, “lavoro in prova”, “co. co. co.” (coccodè) e altri non sono garanzia di lavoro: dispiace essere stronza, ma l’unica garanzia di lavoro è il caro, vecchio, noioso e rassicurante POSTO FISSO. Lo dice anche Checco Zalone: voglio fare il posto fisso. Come dargli torto? A dirla tutta però in Italia dilaga un fenomeno bello, nobile, che però può essere insidioso come una spada a doppio taglio. Il volontariato. Allora premetto che io pratico volontariato perché mi piace e mi fa stare bene, ma lo pratico compatibilmente con gli orari di lavoro, dal momento che naturalmente prima viene il lavoro. Invece coi giovani il discorso è diverso: al posto di un lavoro retribuito, si offrono posti da volontari che portano via lo stesso tempo e impegno di un lavoro a tutti gli effetti. I figli di una mia collega sono volontari di CRI, solo che come dice Caterina, non li vede più. A questi ragazzi si chiedono 8/10 ore di volontariato per volta, con corsi di aggiornamento e disponibilità totale a coprire turni che a volte sono davvero impossibili. E la CRI è solo una delle tantissime associazioni che fa questo discorso. A casa mia questo “volontariato” si chiama lavoro. Se fossimo all’estero i figli di Caterina sarebbero paramedici e verrebbero stipendiati, unendo così al piacere di aiutare il prossimo anche una giusta retribuzione. In Italia no. In Italia ci sono moltissime Associazioni (in genere no profit), volte alla produzione di beni e servizi a destinazione pubblica o collettiva, basate su persone che ad esse dedicano volontariamente e senza retribuzione tutto o parte del proprio tempo. Tali Associazioni vengono comunemente chiamate con il nome di “Terzo Settore”.
Considerate tutte insieme ed escludendo tutti i loro dipendenti stipendiati, è stata stimata nell’anno 2010 una base di circa 6,5 milioni di persone di età superiore ai 14 anni coinvolta in varia misura e con vario impegno temporale nelle attività di volontariato. Parallelamente è evidente come il Terzo settore e in generale il mondo del Volontariato, sia cresciuto in maniera massiccia, sia in termini numerici che economici, per compensare il continuo disimpegno da parte dello Stato. È giusto che il volontariato prenda il posto del lavoro? No, mi dispiace, e non si tratta di essere cattivi. Il volontariato è un’attività spontanea, che deve impegnare solo quanto del proprio tempo una persona si sente di dare, senza che diventi l’attività primaria. Altrimenti, caro Stato, bisogna parlare di lavoro. Bisogna mettersi in testa una cosa: ingannare i giovani con false speranze, ipotetiche retribuzioni che non arrivano mai e chiedere una prestazione gratuita della propria opera non nobilita l’animo dei ragazzi disoccupati, gli fa solo girare i santissimi. E provate a dare loro torto.
Meno welfare, l’Italia è una repubblica fondata sul volontariato, scrivono Franco Vespignani & Eleonora Farneti il 16 dicembre 2012 su "Il Fatto Quotidiano". Franco Vespignani & Eleonora Farneti Esperti di statistica. “Oggi in Italia le prestazioni dello Stato sociale sono assicurate dalla famiglia e dal Volontariato”. Questa affermazione si sente ormai in maniera sempre più insistente e frequente. Ma è vera o è solo una percezione diffusa non basata tuttavia su dati reali? Lasciamo da parte il primo termine del binomio perchè il tema della famiglia, del sostegno familiare, delle dinamiche tra giovani e anziani, tra redditi e rendite è molto articolato e arduo da dipanare e puntiamo, invece, la nostra attenzione sul mondo del Volontariato. Prima di tutto dobbiamo capire bene cosa intendiamo definire con questo termine. In Italia ci sono moltissime Associazioni (in genere no profit), volte alla produzione di beni e servizi a destinazione pubblica o collettiva, basate su persone che ad esse dedicano volontariamente e senza retribuzione tutto o parte del proprio tempo. Tali Associazioni vengono comunemente chiamate con il nome di “Terzo Settore”. Considerate tutte insieme ed escludendo tutti i loro dipendenti stipendiati, è stata stimata nell’anno 2010 una base di circa 6,5 milioni di persone di età superiore ai 14 anni coinvolta in varia misura e con vario impegno temporale nelle attività di volontariato. E’ interessante osservare come nel decennio 2001 – 2010 l’andamento del numero di Volontari (Tabella1) abbia registrato un incremento di circa 1,2 milioni di unità, pari al 17,9%, nonostante che in alcuni anni (2002, 2006, 2008) si sia verificato un lieve decremento rispetto all’anno precedente. La sensibilità verso il fenomeno del Volontariato rivela una diversa intensità in Italia e analizzando i dati delle tre aree geografiche, in cui si ripartisce il Paese, risulta in modo evidente che, per tutti i 10 anni considerati, essa è molto più diffusa nel Nord e decresce man mano che si passa dal Centro al Sud. In tali anni, difatti, l’incremento dell’Indice di penetrazione dei volontari rispetto alla popolazione oltre i 14 anni delle diverse grandi Ripartizioni geografiche italiane (Tabella 2) evidenzia, non solo, una partecipazione del Meridione all’incirca pari alla metà di quella che si manifesta nel Settentrione e un Centro baricentrico rispetto alle precedenti due aree, ma anche linee tendenziali di crescita che determinano una situazione di sviluppo generale del fenomeno a livello Italia nel periodo considerato (+ 1,6 punti), ma a ritmi differenziati tra Nord (2 punti), Centro ( 1,7 punti) e Sud (1 punto), senza una modificazione del gap tra aree, che rimane invariato nell’arco dei 10 anni di osservazione. Dall’ultimo Censimento Istat sul Terzo Settore del 2003 (è attualmente in corso un analogo Censimento per gli anni dal 2004 al 2012), risulta che l’età media dei Volontari tende a salire. Così, mentre il peso delle due classi di età comprese tra 30 e 54 anni e oltre i 54, dal 1995 al 2003 passa, rispettivamente, dal 39,3% al 41,1% e dal 30,4% al 36,8%, la fascia di coloro che si collocano al di sotto dei 30 anni scende dal 30,4% al 22,1%. Sempre nell’ambito di tale Censimento è anche interessante vedere (Tabella 3) come è distribuito il numero delle associazioni di volontariato in funzione delle specifiche finalità per le quali esse operano. Come si può osservare, la maggior parte delle Associazioni è concentrata nei settori della Sanità e dell’Assistenza sociale e, nell’arco di tempo esaminato, il peso di queste due categorie è in diminuzione rispetto alle altre che sono, invece, in crescita. Inoltre, il numero totale delle associazioni è cresciuto da 8.343 a 21.021 con un incremento di circa il 152%, in appena 8 anni, confermando come il Volontariato stia sempre più assumendo un ruolo significativo nel settore sociale. Parallelamente a quanto sta accadendo nel mondo del Volontariato, nella gestione dello Stato Sociale si sta, invece, verificando un progressivo e sempre più netto disimpegno da parte delle Istituzioni pubbliche, sia a livello centrale che periferico. Dall’esame della successiva Tabella 4 risulta evidente come nel periodo dal 2001 al 2012 il totale degli stanziamenti per i vari Fondi è in netto calo passando da 1.115 milioni a 193 milioni, con un decremento di circa l’83%. E’ interessante notare come tale tendenza a decrescere abbia subito una notevole inversione di segno solo negli anni dal 2006 al 2007. Un’ulteriore conferma di tale tendenza è possibile riscontrarla negli stanziamenti per le prestazioni di tutela contro la povertà (es. assegni sociali, bonus incapienti, fondo usura) che, negli anni dal 2007 al 2009, sono passati da 7.127 a 5.562 milioni con un decremento pari al 22% (fonte: Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali – nota sull’analisi della spesa sociale in Italia). In conclusione, come si evince dai dati disponibili e qui riportati, nell’ultimo decennio è iniziata una progressiva e sempre più accelerata tendenza ad un disimpegno da parte dello Stato nei confronti degli interventi a sostegno della parte più disagiata della popolazione e dei settori che fanno tradizionalmente parte del cosiddetto Stato sociale. Parallelamente è evidente come il Terzo settore e in generale il mondo del Volontariato, sia cresciuto in maniera massiccia, sia in termini numerici che economici, per compensare il continuo disimpegno da parte dello Stato. Ne consegue, quindi, che l’affermazione riportata all’inizio di questo Articolo non è solo una semplice percezione diffusa, ma un dato di fatto tangibile e reale che, con il passare degli anni, sta diventando sempre più vero. Tuttavia, è altresì evidente come l’assenza di un coordinamento nelle attività svolte dal Terzo Settore e l’estrema frammentazione delle associazioni che vi operano, faccia sì che il grande sforzo compiuto dal mondo del Volontariato possa sopperire solo in parte – e forse in modo meno efficiente e efficace di quanto potrebbe – alle carenze e alle lacune lasciate dal progressivo e sempre più veloce disimpegno dello Stato nel prendersi cura dei bisogni sociali degli Italiani. All’articolo ha collaborato Fabio Conte.
Posso parlare male del volontariato? Scrive da Aldo Giannuli l'11 luglio 2015. Sicuramente molti dei pochi che mi leggono staranno storcendo il naso già dal titolo: se c’è una cosa virtuosa, di cui non si può dire che bene, è il volontariato, espressione di altruismo, di senso civico, di dedizione agli ideali. Come si fa a parlare male di una cosa così nobile? Si può, si può…Intendiamoci, non biasimo affatto l’idea in sé di donare proprio tempo ed energie per migliorare la società e soccorrere chi ne ha bisogno. Anzi auspico che molti altri lo facciano, ma nelle forme giuste e non ideologiche, perché il volontariato non può e non deve essere una forma di ideologia del “bene comune”. Il problema è che fare “del bene” (usiamo questa espressione logora ma utile a capirci) non è affatto una cosa semplice e va fatta con il cervello, il “cuore” da solo non basta e spesso fa danni. La giovane cretina che, con la benedizione del Comune, invasata dal sacro fuoco di fare la “cosa giusta” ed armata di pennelli, inizia a ripulire le mura cittadine dagli scarabocchi degli imbrattatori, è capacissima di cancellare un murales che, invece, ha ragione di essere, è gradito dagli abitanti ed ha un suo valore estetico e magari artistico; una così è un pericolo pubblico a cui sarebbe bene proibire di uscir di casa. Il “volontario” che vola in zona di guerra senza nessuna cautela e si fa catturare, obbligando lo Stato a darsi da fare per la sua liberazione e sborsare un ingente riscatto, è un imbecille che andrebbe lasciato nelle mani dei suoi rapitori, così impara. Il soccorritore improvvisato può fare danni ancora peggiori all’infortunato e così via. Quindi, in primo luogo, attività del genere andrebbero sottratte all’improvvisazione, preparate, organizzate. Ma qui scatta una trappola molto più pericolosa: quella del falso volontariato. Nel mondo ci sono i truffatori perché ci sono gli stupidi e così il mondo è pieno di false società benefiche, enti morali, onlus e chi più ne ha più ne metta, che sono nidi di profittatori che lucrano sul lavoro di un branco di deficienti convinti di essere angeli. Ricordo che, nei primi anni novanta ci fu una indagine sulle associazioni di volontari che si occupavano di accoglienza agli immigrati, cosa nobilissima che non può che trovarmi d’accordo. Peccato che poi sia emerso che queste associazioni consumavano l’87% (ho detto ottantasette per cento) delle risorse raccolte fra contribuzioni pubbliche e sottoscrizioni private, per il mantenimento delle proprie strutture e personale, destinando solo il 13% alle attività di accoglienza. Poi, nel caso di volontariato in zone di guerra, la cosa si presta magnificamente ad infiltrare spie, contractors travestiti, contrabbandieri e trafficanti tutto ecc.: una cuccagna per i servizi di intelligence di tutto il mondo. Il che non vuol dire che non esistano organizzazioni che fanno più che dignitosamente il proprio lavoro (Medici senza frontiere, Emergency ecc.) il guaio è che ci sono una valanga di patacche, finte associazioni e simili che sono il veicolo delle peggiori porcherie ed anche le organizzazioni più serie devono guardarsi le spalle dai tentativi di infiltrazione. Esattamente come i missionari (lontani progenitori dell’attuale volontariato) che, durante il colonialismo, hanno edificato scuole, ospedali, centri di formazione professionale, ma sono stati anche l’alibi di copertura alle occupazioni militari, i primi agenti di penetrazione e, spesso, il veicolo di operazioni di spionaggio, di colonizzazione culturale, ecc. Si diceva che dietro il missionario veniva il mercante e, dietro tutti due, il soldato europeo con la sua artiglieria. Se andiamo a fare il calcolo di costi e benefici, siamo sicuri che i missionari abbiano fatto più bene che male? Mi direte che questi sono casi distorti e che non si può giudicare il volontariato dal fatto che c’è chi ne abusa. Il punto è che, al di là delle “sovrapposizioni batteriche” come quelle di affaristi, mafiosi e servizi segreti, ad essere sbagliata è l’idea di fondo del volontariato. Si tratta né più e né meno dell’idea cattolica (magari un po’ spruzzata di filantropia anglosassone) per la quale le sofferenze umane si risolvono attraverso l’impegno caritativo. L’umanità ci ha messo un po’ ma è arrivata alla conclusione che i problemi sociali non possono essere risolti in questo modo, ma attraverso misure politiche. Mi pare che stiamo tornando indietro. Questo non significa che non sia auspicabile prestare la propria attività a puro titolo di solidarietà a chi ne dovesse aver bisogno o per fini sociali, ma che questo deve avere carattere eccezionale, aggiuntivo e non ideologico, senza avere la pretesa di risolvere alcun problema sociale. Mi spiego meglio: se c’è un terremoto o una inondazione è giusto prestare la propria opera di soccorso e spalare fango, ma questo deve affiancare l’opera della protezione civile, non sostituirsi. Il compito principale deve restare alla protezione civile che deve essere efficiente, il lavoro volontario deve essere solo una aggiunta utile, ma non necessaria. Oppure, se c’è un incidente stradale è obbligo morale (e giuridico) di tutti soccorrere gli infortunati in attesa dell’arrivo dell’autoambulanza, ma questo non può diventare un mestiere ed è sbagliato che sulla autoambulanza ci siano volontari: quello deve essere un lavoro regolare e retribuito, per cui sostituirlo con il volontariato, che, per definizione è lavoro non retribuito, diventa una forma inconsapevole di crumiraggio sociale, perché l’amministrazione competente si abituerà all’idea di avere chi fa quel lavoro gratis e non assumerà chi dovrebbe pagare. Sostituire con volontari il personale paramedico di un ospedale o di assistenza agli anziani è un comportamento incivile (sia della direzione dell’ente che dei singoli volontari), perché il cittadino ha diritto all’assistenza e non deve dire grazie a qualcuno che gliela fornisce per buon cuore. Pericolosissimi sono poi i vari “angeli della città”, ronde e simili che pretendono di vigilare sulla sicurezza delle nostre strade: questo è compito delle forze di polizia e di nessun altro. Poi ci sono momenti e situazioni eccezionali, ad esempio l’assistenza medico-chirurgica in teatri di guerra, dove è bene che ci siano ospedali non governativi o comunque legati ad una delle parti in conflitto, che garantiscano, per quanto possibile, l’assistenza a tutti in condizioni di sicurezza. Ma queste sono situazioni, appunto, eccezionali. Il guaio è che molti fanno del volontariato per sentirsi buoni, anzi “i migliori”, per piacersi: una forma di narcisismo fra le più preoccupanti. E molti altri perché amano pensare che i problemi sociali possano risolversi con tanti piccoli gesti individuali. Mi ricordano quelle signore che, negli anni sessanta, si scofanavano di cioccolatini, convinte di risolvere il problema della fame in India, perché mettevano da parte la stagnola in cui erano avvolti, per darla a un qualche ente ecclesiastico che poi la rivendeva a qualche ditta produttrice di lampadine. Manco a dirlo, del ricavato di quelle vendite i poveri affamati indiani non hanno mai avuto notizia alcuna. Il volontariato ideologico? E’ una delle piaghe sociali del nostro tempo. Ci vorrebbe un organismo di volontari che rieducasse con la sufficiente energia questo tipo di volontari…Aldo Giannuli
Sfruttamento della protezione. «La Protezione Civile sei anche tu» (slogan del Dipartimento di Protezione Civile). [Da "Machete" n. 4, luglio 2009]. Di solito arrivano dopo le catastrofi. Il loro compito è quello di vagliare la situazione, di circoscriverne gli effetti, di affrontarne le conseguenze. All’inizio, devono portare soccorso a chi è rimasto vittima degli eventi. Poi, devono ripristinare il ritorno alla normalità, al quotidiano andamento delle cose. Sono i membri della Protezione Civile, di cui in questi giorni si fa un gran parlare. Li lodano in molti, e si capisce il perché. Li criticano in pochi, quasi sempre per la qualità dei loro servizi, e ciò sembra già di cattivo gusto. Il loro operato nei momenti più drammatici, più o meno gratuito e non privo di rischi, nonché i sacrifici cui vanno incontro in simili contesti, non dovrebbero bastare per assicurar loro applausi unanimi e metterli al riparo da ogni sospetto o contestazione? Sì, finché questo loro operato viene guardato con gli occhi dell’emotività, capace di far commuovere e genuflettere di fronte al coraggio e all’abnegazione quali che siano le cause che avallano, gli scopi che perseguono, gli interessi che difendono. Ma se mettiamo da parte il sentimentalismo non possiamo fare a meno di porci due semplici domande: proteggono da cosa? Servono chi? Secondo uno dei più banali e diffusi luoghi comuni in circolazione, a fare parte della Protezione Civile ci sarebbero solo i volontari. Si tratta di oltre un milione di “comuni cittadini”, 350.000 dei quali al verificarsi di una tragedia sono pronti a precipitarsi sul posto per fornire il loro aiuto. La mente va subito agli «angeli del fango» arrivati a Firenze dopo l’alluvione del 1966, o ai volontari giunti in Friuli o in Irpinia dopo i terremoti del 1976 e del 1980. Vale a dire a una mobilitazione spontanea di donne e uomini confluiti nelle zone devastate per prestare soccorso. Niente di più falso. Istituito nel 1992, il Dipartimento della Protezione Civile è un organismo statale posto dall’ottobre 2001 direttamente sotto la Presidenza del Consiglio dei Ministri e coinvolge tutti i livelli amministrativi, centrali e periferici — Stato, Regioni, Province, Comuni, enti pubblici nazionali e territoriali, tutte le organizzazioni pubbliche e private presenti sul territorio nazionale. Operativamente può disporre a proprio piacimento anche del Corpo dei Vigili del Fuoco, di tutte le Forze armate, delle forze di Polizia, del Corpo Forestale, dei servizi tecnici nazionali (Enel, Telecom, ANAS, Trenitalia, Rai), dei vari gruppi nazionali di ricerca scientifica (ISPRA, CNR, ENEA), della Croce Rossa Italiana, delle strutture del servizio sanitario nazionale, della Confraternita delle Misericordie, del Corpo nazionale di Soccorso Alpino. A differenza di molti altri paesi, dove la protezione civile è affidata a strutture pubbliche e ad istituzioni locali più o meno autonome che ricorrono a meccanismi collegiali e “orizzontali” di coordinamento basati su accordi prestabiliti, in Italia essa è in mano all’esecutivo dello Stato centrale e ne coinvolge l’intera organizzazione. Con la classica scusa di «meglio coordinare e distribuire», si può meglio controllare e accaparrare. Quanto ai volontari, devono possedere determinati requisiti, far parte di Associazioni o Gruppi comunali (le OOV, Organizzazioni per il Volontariato), iscritti in appositi albi e diffusi in tutto il territorio nazionale, ed aver seguito corsi specifici e standardizzati. Prima di essere chiamati, con il pretesto della necessità di un adeguato addestramento, vengono selezionati, inquadrati e irreggimentati. Ciò significa che la Protezione Civile non è propriamente l’espressione più o meno organizzata della solidarietà umana (strana solidarietà, quella che indossa le uniformi di chi massacra in guerra, di chi reprime per le strade, di chi gestisce lager per clandestini), bensì la sua gerarchizzazione, programmazione e sfruttamento da parte delle autorità centrali. Non è il risultato di una nobile coscienza sociale, ne è lo scaltro filtro istituzionale. È lo Stato che decide chi, come, dove e perché intervenire. Secondo quale logica, è fin troppo facile intuirlo. Politicamente, ogni situazione di emergenza viene sfruttata dal governo in carica per fare quadrato attorno a sé, per mettere a tacere ogni polemica e quindi ogni dissenso, per ricreare quella «unità nazionale» che è una delle più spudorate menzogne su cui basa il suo potere, per ribadire il monopolio delle sue funzioni, per imporre decisioni ed opere altrimenti inaccettabili. Non a caso le competenze della Protezione Civile sono state estese negli ultimi anni anche ai cosiddetti «grandi eventi», decisione che ha richiesto l’epurazione di chi riteneva che il sostegno alle vittime di tragedie non andasse confuso con il sostegno ad appuntamenti di propaganda — uno dei prossimi eventi di cui dovrà occuparsi, ad esempio, è l’Expo 2015, con tutto ciò che attiene al controllo del territorio. Economicamente, gli investimenti stanziati in queste circostanze rappresentano una miniera d’oro inesauribile da cui attingere con arbitrio assoluto, al di fuori di ogni verifica e controllo (secondo alcune stime, dal 2001 ad oggi la Protezione Civile avrebbe manovrato oltre 10 miliardi di euro). Il risultato di tutto ciò è che, per «cause di forza maggiore», chi gestisce i fondi per l’emergenza può agire in deroga a qualsiasi normativa in materia, così come emettere ordinanze straordinarie dall’applicazione immediata. Beate siano le emergenze, poiché danno mano libera su tutti i fronti. Per altro, non è nemmeno vero che lo scopo della Protezione Civile sia solo quello di intervenire per portare soccorso in caso di disastri e calamità, giacché fra le sue funzioni dichiarate vi è anche quella di prevedere e prevenire simili eventi. Si tratta di una pretesa a dir poco esilarante. Se il pianeta è in perenne balìa di fenomeni naturali, le loro drammatiche conseguenze sono quasi sempre catastrofi sociali. Gli stessi esperti in materia sono costretti ad ammettere che l’emergenza è data da «un evento determinato da un agente fisico che produce un impatto distruttivo sul territorio in cui si manifesta, l’entità del quale dipende sia dalle caratteristiche fisiche e fenomenologiche dell’evento stesso, sia dalla struttura socio-politica preesistente nel territorio di riferimento». Se la terra che trema fa crollare molti edifici costruiti con sabbia di mare, se il fiume che esonda dal suo letto cementato sommerge interi paesi, se il treno che trasporta gas infiammabile esplode e distrugge un quartiere, tutto ciò non avviene affatto per motivi naturali. Non siamo di fronte ad eventi frutto di un imperscrutabile caso, ma alle conseguenze di precise scelte. È il risultato di un modo di vita, di un sistema sociale in cui ogni preoccupazione viene assoggettata agli imperativi della politica e dell’economia. Prima vengono il potere e il denaro, poi la vita umana. Prima viene lo Stato, poi l’individuo. C’è da chiedersi come possa la Protezione Civile, ovvero un organo dello Stato, prevenire i progetti catastrofici del suo stesso datore di lavoro. Prendiamo l’esempio delle centrali nucleari che il governo si accinge a costruire. Prevedere che prima o poi si verificherà un incidente non è difficile, visti i numerosi precedenti. Errare è umano e le macchine non sono esenti da guasti e avarie. Prevenire un incidente è perciò impossibile, una volta che le centrali saranno costruite. Ci sarebbe un solo modo per impedire una nuova Chernobyl: rinunciare al nucleare. Ma ciò andrebbe contro le decisioni già prese dal governo, da cui dipende la Protezione Civile. Quindi? Quindi la Protezione Civile non prevede e previene un bel nulla, si limita a correre ai ripari a cose fatte. Può solo «gestire l’emergenza» allorquando questa si manifesta. Non potendo evitare i disastri che produce, allo Stato non resta che amministrarli, cercando di trarne il maggior beneficio possibile. Lenire le sofferenze, controllare il disagio, affinché il dolore non si trasformi in rabbia. Ripristinare il più in fretta possibile la normalità interrotta, per garantire la pace sociale. Impossessarsi del territorio, per neutralizzare ogni voce fuori dal coro. Da qui l’enfasi sulla «presenza dei volontari», sulle «forme di gestione associata», sulle modalità di «interventi integrati». Trovate verbali che vorrebbero renderci tutti partecipi alle responsabilità dei soliti pochi, riducendo in questo modo la distanza che divide vittime e carnefici. Le uniche calamità che la Protezione Civile deve prevenire sono le proteste e le critiche all’operato suo e del governo, soprattutto nel corso dell’opera di controllo e gestione di un territorio sotto la loro tutela. In questi giorni in Abruzzo si fa sempre più evidente la natura poliziesca della Protezione Civile, al cui interno c’è chi si candida come alternativa alle ronde in via di costituzione. Il riconoscimento della dedizione e della buona fede di molti volontari non può diventare una museruola. Ogni ricatto che esiga un tacito consenso in virtù dell’altrui sacrificio va respinto. Bisogna avere la forza di dichiararlo apertamente. Nel migliore dei casi la Protezione Civile è paragonabile al domestico che va a ripulire dove il padrone ha sporcato. Spesso con convinzione, talvolta con riluttanza, ma sempre con fedele obbedienza. Nel peggiore, ne è lo sgherro complice delle stesse nefandezze. Dietro la retorica umanitaria di cui si ammanta e si fa bandiera, è questa la realtà del Dipartimento della Protezione Civile. Finché i volontari accetteranno di marciare e marcire assieme ai soldati, agli sbirri e agli aguzzini oggi al loro fianco; finché la loro generosità verrà messa al servizio dell’ipocrisia e dell’inganno istituzionale; finché la solidarietà sarà considerata un affare di Stato.
LO SFRUTTAMENTO DEI VOLONTARI DELLA PROTEZIONE CIVILE DIVENTA UN CASO PARLAMENTARE. Scrive l'8 Agosto 2015 Nardino e Noi Caserta. M5S Interrogazione sull’impiego della Protezione Civile nei Comuni. Il M5S ha depositato presso il Senato della Repubblica un’interrogazione parlamentare, la n.3-01946, rivolta al Presidente del Consiglio, per chiedere chiarimenti su una consuetudine distorta che si sta consolidando nel nostro paese in merito all’impiego dei volontari delle associazioni della Protezione Civile in azioni diverse rispetto a quelle originali proprie. Anche questa volta il M5S è intervenuto accogliendo alcune preoccupazioni e perplessità espresse direttamente dai cittadini coinvolti nella vicenda. << Non è ammissibile che per sopperire alle carenze di personale ed in molti casi ai danni causati da alcune manovre finanziarie, si finisca per sfruttare i volontari delle associazioni di protezione civile, chiamandoli a svolgere mansioni analoghe ai vigili urbani in materia di sicurezza e ordine pubblico. >> Ha dichiarato la prima firmataria dell’interrogazione, la senatrice Vilma Moronese. La norma che regolamenta l’utilizzo della Protezione Civile recita quanto segue: “L’impiego dei volontari di protezione civile, stando alla legge istitutiva del servizio nazionale di protezione civile la 225/92, è consentito limitatamente al fine di tutelare la integrità della vita, i beni, gli insediamenti e l’ambiente dai danni o dal pericolo di danni derivanti da calamità naturali, da catastrofi e da altri eventi calamitosi.” Come si evince dalla stessa interrogazione parlamentare, in particolare l’art. 3, comma 1, della legge n. 225 del 1992 e successive modificazioni recita: “Sono attività di protezione civile quelle volte alla previsione e alla prevenzione dei rischi, al soccorso delle popolazioni sinistrate e ad ogni altra attività necessaria e indifferibile, diretta al contrasto e al superamento dell’emergenza e alla mitigazione del rischio, connessa agli eventi di cui all’articolo 2“. << Il fatto che moltissimi sindaci, invece, impieghino gli stessi volontari nell’ambito dei servizi per la sicurezza pubblica, tutela della incolumità, e gestione dell’ordine pubblico , è dovuto solo ad una erronea ed estensiva interpretazione della nozione di eventi definiti “a rilevante impatto locale >> conclude la Moronese << ai volontari di protezione civile vanno i nostri ringraziamenti per il loro contributo offerto, ed è proprio per tutelare loro ed i loro diritti che chiediamo al presidente del Consiglio di darci al più presto delle risposte. È necessario, che le mansioni e le funzioni dei Vigili Urbani e dei volontari della Protezione Civile restino ben distinte, così come previsto dalla legge
Atto a cui si riferisce: S.3/01946 MORONESE, PUGLIA, BERTOROTTA, NUGNES, SANTANGELO, DONNO, SCIBONA, MORRA, PAGLINI - Al Presidente del Consiglio dei ministri - Premesso che: con la legge n. 225 del 24 febbraio 1992,...
Atto Senato. Interrogazione a risposta orale 3-01946 presentata da VILMA MORONESE
mercoledì 20 maggio 2015, seduta n.454
MORONESE, PUGLIA, BERTOROTTA, NUGNES, SANTANGELO, DONNO, SCIBONA, MORRA, PAGLINI - Al Presidente del Consiglio dei ministri - Premesso che:
con la legge n. 225 del 24 febbraio 1992, istitutiva del Servizio nazionale della Protezione civile, le organizzazioni di volontariato hanno assunto il ruolo di "struttura operativa nazionale" e sono diventate parte integrante del sistema pubblico. I volontari, oltre 800.000 persone distribuite sul territorio nazionale, aderiscono a organizzazioni che operano in molteplici settori specialistici;
ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica n. 194 dell'8 febbraio 2001, recante nuova disciplina della partecipazione delle organizzazioni di volontariato alle attività di protezione civile, le suddette organizzazioni di volontariato intervengono in tutte quelle azioni in cui si esplica l'attività di protezione civile: pianificazione, previsione, prevenzione, soccorso, addestramento e simulazione di emergenza, attività di ricerca, recupero e salvataggio in acqua e formazione teorico-pratica;
considerato che:
il Dipartimento di Protezione civile, con diverse circolari (DPC/DIP/0007218 del 7 febbraio 2006; DPC/DIP/0008137 del 9 febbraio 2007; DPC/VRE/0016525 dell'11 marzo 2008), in particolare con la circolare del 10 marzo 2009 (DPC/CG/0018461), ha affermato "il principio secondo il quale l'azione del volontariato di protezione civile debba trovare il suo presupposto e la sua ragion d'essere, ma anche il suo limite, nelle finalità chiaramente espresse dalla legge";
sul punto, in particolare l'art. 3, comma 1, della legge n. 225 del 1992 e successive modificazioni recita: "Sono attività di protezione civile quelle volte alla previsione e alla prevenzione dei rischi, al soccorso delle popolazioni sinistrate e ad ogni altra attività necessaria e indifferibile, diretta al contrasto e al superamento dell'emergenza e alla mitigazione del rischio, connessa agli eventi di cui all'articolo 2";
l'articolo 2 della medesima legge rubricato "Tipologia degli eventi ed ambiti di competenze" sancisce: "Ai fini dell'attività di protezione civile gli eventi si distinguono in: a) eventi naturali o connessi con l'attività dell'uomo che possono essere fronteggiati mediante interventi attuabili dai singoli enti e amministrazioni competenti in via ordinaria; b) eventi naturali o connessi con l'attività dell'uomo che per loro natura ed estensione comportano l'intervento coordinato di più enti o amministrazioni competenti in via ordinaria; c) calamità naturali o connesse con l'attività dell'uomo che in ragione della loro intensità ed estensione debbono, con immediatezza d'intervento, essere fronteggiate con mezzi e poteri straordinari da impiegare durante limitati e predefiniti periodi di tempo";
nella circolare del Dipartimento della Protezione civile (DPC/CG/0018461) del 10 marzo 2009, relativa alle organizzazioni di volontariato nelle attività di protezione civile, si sottolinea, altresì, che la materia di protezione civile è chiaramente distinta e non sovrapponibile rispetto a quella dell'ordine pubblico e sicurezza (articolo 117, commi 2 e 3, della Costituzione);
l'eventuale svolgimento di attività volte a preservare la sicurezza urbana o situazioni di disagio sociale, sono svolte senza l'utilizzo di uniformi, segni distintivi, mezzi o attrezzature della Protezione civile. Il mancato rispetto di tale indicazione potrebbe comportare l'avvio della procedura di cancellazione delle organizzazioni dai registri o albi, con conseguente accertamento di responsabilità e, ancora peggio, in taluni casi con denuncia per violazione degli art. 316-bis codice penale (usurpazione e danno erariale) e/o art. 498 codice penale (usurpazione di titolo) come evidenziato dalle circolari prot. DPC/CG/008137 del 9 febbraio 2007 e prot. DPC/CG/0016525 dell'11 marzo 2008;
da quanto sin qui enunciato, si deduce che l'espletamento di attività quali la regolazione del traffico a seguito di incidenti stradali, la scorta a cortei o processioni, i servizi d'ordine durante manifestazioni sportive o culturali non sono da considerarsi tra le ipotesi di collaborazione a cui il settore del volontariato è chiamato, per assicurare i servizi di Protezione civile, salvo i casi in cui queste attività rientrino in una più generale gestione di emergenze;
considerato, inoltre, che:
la Presidenza del Consiglio dei ministri, Dipartimento della Protezione civile, con nota n. 5300 del 13 novembre 2012 ha emanato una direttiva (del 9 novembre 2012) concernente "Indirizzi operativi volti ad assicurare l'unitaria partecipazione delle organizzazioni di volontariato all'attività di protezione civile", nel cui paragrafo 2.3.1, con riferimento ad eventi a rilevante impatto locale, chiarisce che: "Eventi a rilevante impatto locale. La realizzazione di eventi che seppure circoscritti al territorio di un solo Comune, o di sue parti, possono comportare grave rischio per la pubblica e privata incolumità in ragione dell'eccezionale afflusso di persone ovvero della scarsità o insufficienza delle vie di fuga possono richiedere l'attivazione, a livello comunale, del piano di protezione civile, con l'attivazione di tutte o parte delle funzioni di supporto in esso previste e l'istituzione temporanea del Centro Operativo Comunale (C.O.C.). In tali circostanze è consentito l'impiego delle organizzazioni di volontariato di protezione civile, che potranno essere chiamate a svolgere i compiti ad esse affidati nella summenzionata pianificazione comunale, ovvero altre attività specifiche a supporto dell'ordinaria gestione dell'evento, su richiesta dell'Amministrazione Comunale (…) omissis (…) L'attivazione del piano comunale di protezione civile e l'istituzione del C.O.C. costituiscono il presupposto essenziale in base al quale l'Amministrazione Comunale può disporre l'attivazione delle organizzazioni iscritte nell'elenco territoriale ed afferenti al proprio comune nonché, ove necessario, avanzare richiesta nell'ambito regionale per l'autorizzazione di altre organizzazioni provenienti dall'ambito regionale (…) omissis (…)";
dunque, in caso di eventi locali, che possono comportare grave rischio, sarà possibile l'intervento dei volontari di Protezione civile solo laddove si ipotizzi un "eccezionale afflusso di persone" o si profili una "scarsità o insufficienza delle vie di fuga", a patto che sia attivato il piano comunale di protezione civile e sia istituito, anche temporaneamente, il COC (centro operativo comunale);
considerato altresì che, risulta agli interroganti:
i volontari appartenenti alle associazioni di Protezione civile vengono spesso chiamati, attraverso ordinanze sindacali, a collaborare con gli enti locali per la gestione di eventi che nulla hanno a che fare con gli interventi propri della Protezione civile, come ad esempio la regolazione del traffico, la scorta a cortei o processioni, il servizio d'ordine durante manifestazioni sportive o culturali;
a fronte di tali interventi, gli enti locali erogano contributi, imputati al rispettivo bilancio di riferimento, alle associazioni locali di Protezione civile;
nel Comune di San Giorgio del Sannio (Benevento), in particolare, sia per l'anno 2013 (delibera di Giunta comunale n. 121 dell'8 luglio 2013) sia per l'anno 2014 (delibera di Giunta comunale n. 76 del 24 aprile 2014), l'amministrazione comunale ha disposto un contributo di euro 1.000 alla locale associazione di Protezione civile con la seguente motivazione: "Considerato che tale nucleo svolge una preziosa e cospicua azione per la sicurezza e la vivibilità della cittadina sangiorgese (…) e tenuto presente che l'Associazione è impegnata nelle svariate iniziative che si tengono nella nostra comunità (dalle manifestazioni civili a quelle religiose, dalle iniziative socio-culturali a quelle sportive e di svago), fungendo da supporto al Corpo di Polizia Municipale e collaborando attivamente con l'Amministrazione Comunale, tramite l'Assessorato competente";
sulla questione del Comune di San Giorgio del Sannio è stata presentata, in data 10 agosto 2014, formale istanza, volta a segnalare l'illegittimo utilizzo dei volontari della locale associazione di Protezione civile per la regolazione del traffico e/o scorta a cortei o processioni e/o servizio d'ordine durante manifestazioni sportive o culturali nonché la relativa impropria motivazione per la concessione di un contributo comunale di euro 1.000 alla associazione stessa;
rispondendo alla suddetta istanza, il Dipartimento della Protezione civile ha confermato che "L'intervento delle organizzazioni di volontariato di protezione civile con funzioni di gestione 'diretta' del controllo della viabilità, ovvero -ancor di più- l'esercizio di poteri assimilabili a quelli della Polizia Stradale' o, più in generale, delle Forze di Polizia, anche locali, alla luce delle disposizioni contenute nella legge 24 febbraio 1992 n. 225 e s.m.i. (art. 18) e nel D.P.R. 8 febbraio 2001 n. 194, e dei provvedimenti specifici sopra richiamati è, quindi, del tutto escluso";
invece, in ottemperanza a quanto previsto dalla citata direttiva (punto 2.3.1) ha confermato che non v'è dubbio che volontari di Protezione civile appartenenti ad organizzazioni regolarmente iscritte nell'elenco regionale possano assicurare, su richiesta delle autorità preposte alla gestione della viabilità e sotto il coordinamento operativo degli operatori a ciò abilitati dalla legge, azioni di supporto all'assistenza alla popolazione svolgendo funzioni di incanalamento dei flussi di traffico (come avviene, ad esempio, a cura delle maestranze in caso di percorrenza alternata di tratti di viabilità interessati da cantieri). Tale intervento, per di più, se previsto nella specifica pianificazione locale dispone anche dei requisiti formali espressamente ribaditi dalla recente Direttiva presidenziale. Ciò non configura (e non può in alcun modo configurare), in capo ai medesimi, alcuna attribuzione di funzioni diverse da quelle proprie, che restano quelle, per intendersi, di volontario della protezione civile;
considerato, infine, che ad avviso degli interroganti, l'uso della locuzione "eventi a rilevante impatto locale" si presta ad interpretazione estensiva, che nei fatti, finisce per snaturare la funzione tipica dei volontari di Protezione civile,
si chiede di sapere:
se il Governo intenda adottare tutte le opportune iniziative al fine di verificare la legittimità dell'utilizzo dei volontari delle associazioni di Protezione civile locali in ruoli di sostegno e collaborazione con la Polizia locale per eventi di ordinaria amministrazione, come ad esempio la scorta a cortei-manifestazioni ed il servizio d'ordine in manifestazioni sportive;
se ritenga opportuno circoscrivere l'attività di supporto dei volontari alla Polizia locale ai soli eventi di cui all'articolo 2 della legge n. 225 del 1992 e successive modifiche e integrazioni;
se ritenga necessario intraprendere ogni iniziativa utile al fine di far cessare la distorta prassi descritta in premessa. (3-01946)
L’ITALIA DEGLI ONESTI. SANITA’ E VOLONTARIATO. AMBULANZE 118. LAVORO NERO CON SOLDI PUBBLICI. Scandalo 118, le Iene ricevono centinaia di segnalazioni su finte Onlus in tutta Italia. Il ministro della salute Beatrice Lorenzin chiede alla trasmissione di Italia1 tutta la documentazione per avviare una ispezione su tutto il territorio nazionale. L'ombra della Mafia dietro gli appalti dell'emergenza/urgenza, scrive Angelo Riky Del Vecchio su “Nurse 24” del 17 aprile 2016. Le Iene, la trasmissione d’inchiesta di Italia1, torna a parlare di finte Onlus e dei volontari pagati in nero (Infermieri, autisti e soccorritori a vario titolo), senza contributi, senza ferie e senza malattia. Nella puntata andata in onda poco fa sulla rete Mediaset è stata presa di petto anche il ministro della salute Beatrice Lorenzin che si è detta stupita di quanto scoperto dalle Iene e di essere pronta ad avviare in tutta Italia una indagine conoscitiva per scovare i finti volontari e chi li gestisce. La trasmissione di Italia1, che nei giorni scorsi aveva fatto emergere lo scandalo del 118 nel Lazio, ora torna sull’argomenti parlando di centinaia di segnalazioni piombate in redazione da tutta la nazione e avente come unico filo conduttore lo sfruttamento e il lavoro nero. Denunce alle Iene sono pervenute da tutta Italia: è uno sfruttamento diffuso e le finte Onlus del 118 sono tantissime in tutta la nazione. In pratica, con due servizi televisivi le Iene hanno dimostrato che vi è un sommerso (che poi tanto sommerso non è) dietro al servizio dell’emergenza/urgenza affidato al volontariato: lavoratori pagati con rimborsi spese fino a 1.500 euro al mese e operanti nella completa clandestinità indossando divise e firmando documenti in qualità di volontari. Volontari non lo sono e dietro il loro utilizzo si pensa che ci siano anche organizzazioni malavitose. In tutto lo Stivale è sempre la stessa melma: segnalazioni di sfruttamento sono pervenute dal Lazio, dalla Toscana, dalla Calabria, dalla Sicilia, dalla Liguria, dalla Sardegna, dalla Puglia, dall’Umbria e dal resto delle regioni italiane. Infermieri, autisti e soccorritori vengono pagati in Calabria addirittura 1 euro all’ora per 12 ore continue di attività. Nei casi più fortunati si arriva a 3,5/4,5 euro. Per questo le Iene hanno contattato ed incontrato la Lorenzin per chiederle di intervenire e mettere fine a queste situazioni scandalose che stanno distruggendo il volontariato e mortificando tantissimi neo-laureati in Infermieristica (va ricordato che lo sfruttamento continua ad avvenire sotto gli occhi di tutti e con fondi dello Stato Italiano).
Le Iene denunciano casi di lavoro nero nel 118, legati a finte Onlus, scrive il 18 aprile 2016 Michele Calabrese su “Nurse Times”. Il servizio lungo nove minuti, quello proposto dal programma televisivo in onda su Italia 1 in cui la “Iena” Gaetano Pecoraro parla dei volontari del servizio di soccorso territoriale 118. Una mera logica lucrativa da un lato ed una sinistra assenza di controlli dall’altro. Succede nel Sistema del 118 qualora il servizio venga “consegnato” nelle mani delle associazioni di volontariato: minorenni sulle ambulanze, professionisti sottopagati e/o costretti a turni massacranti, senza sorveglianza tanto garantista della propria incolumità quanto previdenziale. È quanto si evince dal servizio proposto dalle “Iene”. Può suonar strana l’equazione volontariato=contributi per fondo pensionistico. Ma non è così! In talune realtà, in barba ai turni estenuanti e alle logiche di corretta allocazione di personale idoneo al servizio, i “volontari” percepiscono gettoni di presenza, rigorosamente NON TASSSATI, mediante buoni pasto, buoni benzina e quant’altro… Ragionevole il pensiero secondo il quale il volontario che impiega il suo tempo per una associazione non deve rimetterci di spese, ma rimborsare forfettariamente di 5, 10, 30 o addirittura 40, 50 € a turno diviene tutto ampiamente distante dalla logica di una attività filantropica. Welcome nella forma legalizzata di lavoro nero! Al workshop dello scorso Febbraio 2015 sui servizi di Emergenza Territoriale 118 tenutosi presso il Ministero della salute si sosteneva di “garantire il riconoscimento del valore sociale del volontariato. Soprattutto in questa fase di riflessione sul ddl del terzo settore, bisogna dare segnali di garanzia sul sistema di accreditamento, certificazione e controllo del volontariato, per evitare le zone grigie in cui i nuovi soggetti del profit (o peggio ancora di qualche onlus), sfruttino il lavoro nero, abbassando gli standard qualitativi di un servizio “. La stima dei costi per sostenere il sistema del soccorso extra-ospedaliero è stata quantizzata, segnalando che il personale incide dal 75 all’89% sul totale dei costi. A ben vedere l’elevata spesa tenderebbe a lievitare per la mancanza del turnover del personale. Lo studio promosso dalla FIASO e con la collaborazione scientifica dell’Università di Trento, ha avuto come pionieri della ricerca i servizi di emergenza di quattro Regioni: Lazio, Lombardia, Basilicata (il cui sistema non è affidato ad Associazioni di Volontariato) ed Emilia-Romagna, per un totale di oltre 20 milioni di potenziali utenti. Ecco brevemente come funziona il sistema di pagamento del 118: si basa sulla remunerazione dei costi mediante una erogazione prospettica di denaro pubblico (Per gli altri insiemi di prestazioni le modalità di remunerazione attualmente adottate non corrispondono alla regola già definita nel D.Lgs 502/92, riconfermata nel successivo D.Lgs 229/99.). Per intenderci gli elementi caratterizzanti del sistema di pagamento prospettico sono: complessità assistenziale e costo standard. Delegare una associazione no profit alla gestione di mezzi e uomini da dedicare alla assistenza sanitaria extra-ospedaliera 118 non ha nulla di illegale, tant’è vero che la normativa quadro di istituzione del 118 avvenuta con il DPR 27 marzo 1992 prevede che “Le Regioni possono avvalersi del concorso di enti e di associazioni pubbliche e private, […] sulla base di uno schema di convenzione definito dalla Conferenza Stato-Regioni, su proposta del Ministro della Sanità”. Ciò che non quadra è che se la “Legge n. 266/1991 prevede che le Organizzazioni di Volontariato si avvalgano in modo determinante e prevalente delle prestazioni personali, volontarie e gratuite dei propri aderenti ai quali possono essere soltanto rimborsate le spese effettivamente sostenute per l’attività prestata. Tale requisito è correlato al mantenimento dell’iscrizione ai registri del volontariato”, come mai chi fornisce la propria attività filantropica percepisce rimborsi esorbitanti (RIGOROSAMENTE NON TASSATI), non ha tutele previdenziali (alcuni operatori lavorano oltre le 8 ore per turno) pur chiare e palesi le molteplicità di scenari ai quali i suddetti vanno incontro? Quanto di etico, morale e giuridicamente rilevante vi è assegnando una risorsa umana su un mezzo di soccorso sanitario senza tutelarne l’incolumità a 360 gradi e speculando sulle prestazioni di chi offre il suo tempo e le sue energie (vuoi per propensione al volontariato, vuoi per un tornaconto economico: disoccupato, cassaintegrato, depositario di salario insufficiente ecc. ecc.)? Nella mappa delle segnalazioni del “sommerso”, due arrivano dalla provincia di Arezzo, una particolarmente specifica. Una persona, finta volontaria, spiega di prestare servizio per 320 ore mensili con una paga da 2,77 euro all’ora. Il servizio delle Iene si chiude con l’inviato Pecoraro che informa delle presunte irregolarità il ministro della Sanità Beatrice Lorenzin. Quanti sono gli infermieri vittime di questa forma di sfruttamento professionale e che vista la contingenza del momento si trovano loro malgrado ad accettare proposte lavorative che hanno superato abbondantemente il limite della legge? Nurse Times si è occupata della problematica denunciando la situazione degli infermieri in partita Iva impiegati dalle cooperative anche nel servizio emergenziale 118 nella regione Lazio, producendo anche una interrogazione regionale che purtroppo non ha avuto un seguito.
Volontari e sfruttati sulle ambulanze, scrive Chiara Daina su "Il Fatto Quotidiano" del 15 maggio 2017. Crisi e precarietà ci rendono ricattabili. Il giovane che non trova lavoro o il cinquantenne che l’ha perso sono tra i principali candidati per un posto nelle associazioni di volontariato che oggi più che mai tengono in piedi la nostra sanità. C’è un sottobosco di onlus a cui le Regioni si affidando per garantire il servizio ambulanze. Ma gli abusi sul personale non sono più una rarità. Capita che il barelliere o l’autista con un contratto da 19 ore settimanali lavori fino a 200 ore al mese. O che faccia turni da 12 ore o le notti per tre mesi di fila. Se protesta viene minacciato di essere lasciato a casa. Lo sfruttamento è anche tra i volontari: c’è chi dopo aver finito il proprio lavoro guida l'ambulanza per tutta la notte, chi soccorre senza averne le competenze. E chi anziché ricevere un rimborso spese prende una paga in nero: così il volontariato diventa il surrogato di un lavoro. Il mondo delle onlus è un vaso di Pandora. Colpa di un sistema, fondato sulla legge 266/91 (quella sul volontariato), che non funziona: come può il Ssn sostenersi sulle onlus e alimentare il proliferarsi di un esercito di (finti) volontari? Questi sono lavoratori a tutti gli effetti e andrebbero regolarizzati.
Volontariato: dal significato sociale allo schiavo consensuale, scrive Fogliazza il 28 maggio 2015 su "Il Fatto Quotidiano". I volontari, come gli sfruttati, ci sono sempre stati. Certo è che Expo 2015 ha messo un sigillo di ufficialità a una certa idea di volontariato. Così, rotto l’argine dell’indugio moralista, arruolare volontari è più semplice, più bello, più conveniente, più trendy (meglio ancora se in epoca devastata dalla necessità di lavoro retribuito). Piccole expo crescono: da mercatini universali a eventi provinciali, dal festival di questo alla rassegna di quello. Dalle mie parti, per esempio Parma, un festival di cibo riporta con fierezza in home page, alla voce Volontariato: “Partecipa come volontario al successo del Festival, il tuo apporto è fondamentale ed occasione unica per socializzare e contribuire al rilancio del tuo territorio”. Per come la vedo io: o lavori gratis o sei un asociale.
Se prima volontariato era espressione di impegno sociale, ora il senso stesso della parola è distrutto a favore di una nuova e assolta interpretazione: sfruttamento di lavoro a costo zero; io ci guadagno, tu fai l’esperienza di socializzazione, mi dici anche grazie e se sei bravo ti chiamo pure l’anno prossimo, che forse ti rimborso la vaselina. Se non è un’occasione unica per socializzare questa…
L’INVOLONTARIO. Volontariato del futuro o sfruttamento medievale? Scrive Giulio Sensi il 26 ottobre 2016. Oggi a Milano CSVnet e Ciessevi presentano i risultati della ricerca sui quasi 6 mila volontari Expo. Contemporaneamente è annunciato un presidio di protesta: i contestatori sostengono che forme di impegno volontariato come queste non siano altro che "sfruttamento medievale". Intanto la ricerca. Parte dall'individuazione di una nuova categoria di volontari definiti "senza divisa", "episodici", "occasionali". Di quei 6.000, ad esempio, la maggioranza sono giovani -età media 27,5 anni-, e quasi metà non sarebbero riusciti a prestare volontariato in forme più continuative, ma la stragrande maggioranza, oltre il 96.5%, era disposta a svolgere un’attività di volontariato anche in futuro, soprattutto in forma episodica (64%). Emerge quindi la figura di un volontario "fluido", che non si affeziona ad una causa, che non presta tutto il suo tempo libero ad un'organizzazione, ma che comunque si mette in gioco per qualcuno o qualcosa. Se può. Chiamarlo "sfruttamento medievale", pensare che sia un modo di sostituire un lavoro che andrebbe pagato di diritto è, secondo l'umile opinione di chi scrive, off topic. Cioè: motivazioni serie, ma mal riposte. "Se il nostro impegno (anche quando dequalificato e demansionato) genera valore, e se il valore non è al servizio della comunità ma dell’impresa e della sua narrazione, vogliamo oggi ricordarvi un concetto limpido nella sua semplicità: il lavoro si paga, sempre". Questo sostengono i contestatori. Come dargli torto. Alberto Di Monte, rappresentante di Off topic, precisa a Redattore sociale che "il nostro non è un attacco violento al Ciessevi. Ma vogliamo dire con chiarezza che stanno prendendo una cantonata culturale pazzesca. Si sta modificando il concetto culturale di volontariato, che è servizio alla comunità, impegno etico. E si va verso un volontariato emozionale, a servizio magari di grandi imprese. Con Expo c'è chi ha guadagnato milioni di euro, non si capisce perché ai giovani sia chiesto di lavorare gratis". La cantonata culturale però rischiano di prenderla coloro che contestano queste forme. Perché il tema rilevante non è il lavoro non pagato. Queste forme di volontariato, per come si stanno affermando, non possono essere definite sostitutive del lavoro. O meglio, anche qualora lo fossero, sono difficilmente contestabili in quanto basate su scelte libere ed individuali, almeno quando riguardano i grandi eventi difficilmente arginabili. Il lavoro oggi è sfruttato, soprattutto quello dei giovani, più che mai. E' un grande, grandissimo, problema di chi non ha alternative, non di chi ha tempo libero e cerca di impiegarlo come più gli piace in un evento importante. Guardiamo il tema da un altro punto di vista. L'espressione "volontariato emozionale" usata dai contestatori è invece utile e appropriata: può essere definito volontariato? Oppure è una forma di impegno su base volontaria che non ha a che fare con i principi del volontariato largamente affermati? Facciamo un passo indietro. La legge 266 del 1991, la legge quadro sul volontariato, ci corre in soccorso. L'articolo 2, comma 1, recita: "Ai fini della presente legge per attivita' di volontariato deve intendersi quella prestata in modo personale, spontaneo e gratuito, tramite l'organizzazione di cui il volontario fa parte, senza fini di lucro anche indiretto ed esclusivamente per fini di solidarietà". Lasciamo perdere il tema dell'esercizio del volontariato dentro organizzazioni (la legge quadro non si riferiva certo ai volontari "senza divisa"), ma manteniamo il fine di solidarietà che è nel DNA di ogni azione volontaria insieme alla gratuità. Stiamo parlando di quelle che secondo Stefano Tabò, presidente di CSVnet, sono le "nuove forme di volontariato che non si possono né trattenere né circoscrivere". Tabò sostiene che "il volontariato episodico è una di queste e può diventare il volontariato del futuro: interessa una fetta sempre più ampia di cittadini, non è limitato solo ai grandi eventi, ma riguarda temi trasversali, dalla cura dei beni comuni alla gestione delle emergenze. E non è affatto in contrapposizione con il volontariato ‘tradizionale’ organizzato: al contrario rappresenta per le associazioni, se la sapranno cogliere, un’occasione di crescita e aggiornamento, una vera e propria nuova stagione”. Non stiamo parlando di una cantonata culturale quindi, bensì di una scelta culturale. Opinabile come tutte le scelte (come la scelta di non scegliere e lasciare l'arruolamento dei volontari al "crudele mercato"). Scorrendo la ricerca si svela un dato centrale: la motivazione dominante della partecipazione dei volontari all'Expo si è rivelata quella di "partecipare ad un grande evento". Ed è anche il dato di soddisfazione più importante. Senza riportare in questa sede i numeri della ricerca, emerge comunque che quasi tutti quelli che hanno fatto i volontari in Expo sono molto soddisfatti dell'esperienza e vorrebbero partecipare ad altri "eventi". Qua è il punto centrale: c'è scarsa traccia fra le motivazioni o le ragioni di soddisfazioni del principio solidaristico -aver aiutato l'altro-. La soddisfazione risiede nel fatto di essersi sentiti "al centro del mondo", di aver avuto un qualche tipo di ruolo dentro ad un evento di cui parlavano tutti. Questo è il tema di discussione più interessante: la necessità di prestare il proprio tempo per sentirsi "emozionalmente" al centro di qualcosa. Tutto questo ha a che fare con il volontariato? Secondo il coordinatore della ricerca, il prof. Maurizio Ambrosini, la risposta è affermativa: perché le forme di volontariato episodico non si pongono in contraddizione con quelle tradizionali. Anzi, il volontariato tradizionale può allargare l'impegno e la cittadinanza attiva a tante persone che non sarebbe facile raggiungere altrimenti. L'obiettivo deve essere quindi lavorare quindi sui volontari "emozionali" giovani per condurli ad una partecipazione più attiva e continuativa nel volontariato. "Sporcarsi le mani" insomma, "per nobili fini". Da questo punto di vista la scelta di CSVnet e Ciessevi di cercare di governare insieme a Expo questo processo si è rivelata corretta e opportuna, confermando ciò che scrivevamo prima di Expo. La ricerca che viene presentata oggi a Milano è importante perché ci dice molto sul valore delle esperienze "volontarie" nella crescita formativa e curriculare dei giovani in questo momento storico. E ci dice anche cose preoccupanti rispetto al contesto in cui i giovani si muovono. Saranno occasione presto per un'altra riflessione "involontaria".
Il sottile confine tra lavoro volontario e sfruttamento. Il caso dei circoli Arci a Torino. Scrive il 3 aprile 2017 Francesco Migliaccio su "Monitor". Sono tornato a Torino un giorno di settembre, dopo mesi trascorsi lontano. Quel pomeriggio camminavo per la città spaesato – ero vicino a Palazzo Nuovo – e d’un tratto ho notato il volto di Lenin apparire in manifesti colorati incollati su spazi pubblicitari. Era di profilo con il mento e il naso appuntiti, un volto essenziale dove spiccavano le linee arcuate dei baffi, delle sopracciglia e degli occhi allungati. In alto era sospeso il logo di Arci Torino e sotto si leggeva: “1917-2017. È un’altra rivoluzione”. Era la nuova campagna del tesseramento: per la prima volta una tessera Arci ha valore sin dal primo settembre – questa è la rivoluzione declamata all’ombra di Lenin. Durante l’inverno ho incontrato amici che lavorano o hanno lavorato in Arci. I loro racconti hanno risvegliato in me un certo interesse e ho iniziato a prendere appunti, a registrare le voci. Trovavo ci fosse una strana connessione, e poco chiara, tra le loro memorie e quel volto di rivoluzionario orientale. Sono passate le settimane e ho raccolto le storie di altri volontari. Così è nata questa antologia di testimonianze. In un bar vicino al cinema Massimo ho incontrato Clara, lei lavora in un circolo della città e ogni giorno sta in cucina a preparare l’aperitivo. «Io lavoro a nero. Devi sapere che nei circoli c’è un ambiente familiare. Ho lavorato in altri posti, ma in Arci sei più libero. Puoi arrivare tardi, puoi sederti, rilassarti. Puoi fare tutto questo, perché sei un compagno. Ma dietro a questa condizione c’è anche il ricatto. Io, insieme ad altri colleghi, adesso faccio sala: gestiamo il locale per cinque giorni durante l’aperitivo». Prendono meno di sette euro all’ora, tutto a nero. Quando racconta dimostra rabbia, ma anche un certo affetto per il posto: «Siamo amici dei gestori, abbiamo buoni rapporti. Per me è difficile chiedere i soldi, ti sembra di fare l’elemosina». A volte ci sono discussioni accese sulla retribuzione: «Il locale si regge su di noi. I gestori ti dicono: “Ma come, chiedi più soldi in questo posto, tra di noi?”». Una sera, era un giorno di festa, Clara ha chiesto una paga superiore, come avviene di norma per le festività. I gestori, tuttavia, hanno offerto solo un lieve aumento perché il lavoro è «una forma di militanza». Racconta Clara: «Dicono che questo è un posto sociale, non un locale come gli altri. Io ribatto che non ho reddito, non ho una laurea, a volte faccio gli straordinari senza chiedere soldi: ho diritto di chiedere di più almeno nei festivi. Loro ti fanno capire che ti stanno offrendo un’opportunità, e dunque devi ringraziare senza rompere i coglioni». Secondo Clara esiste una contraddizione tra la dimensione economica e quella politica di un circolo: «Come può esistere una forma di militanza in un locale? Ci dicono che anche pulire un tavolo è militanza. Lo è, se io ho occupato quel posto con il tavolo da pulire. In un circolo Arci non esiste più possibilità di militanza, sono solo prestazioni lavorative. A volte accade che il salario scende se il circolo ha problemi economici; altre volte, se ci sono serate con i concerti, prendi di più. In quelle sere un cocktail costa sette euro, la gente si sbronza e sbocca a caso. Dove sta la politica in queste serate? I lavoratori accettano per sopravvivere. Tutti accettiamo il nero, la nostra generazione accetta tutto, eh». Noto che la mia amica è amareggiata quanto me, in fondo parla del suo mondo, le sue sono critiche cariche di sofferenza. «Ti racconto questo. In un altro circolo c’era un festival sul precariato dove si parlava di lavoro, frammentazione di classe, sfruttamento. E poi tu paghi a nero le persone? Nello stesso momento in cui sul palco denunci le condizioni lavorative di una generazione, al bancone spillano le birre a nero. Questa è la contraddizione grossa per cui ti viene da dire: vaffanculo». Alcuni sono in Arci perché hanno aderito al servizio civile. Sono tenuti a svolgere trenta ore settimanali di servizio e ricevono un rimborso mensile di quattrocento euro. Al caffè del campus universitario ho incontrato Lucia, lei svolge il servizio civile presso un circolo Arci vicino al fiume. «Quest’anno il circolo ha scritto un progetto per avere volontari del servizio civile che si dedichino alle attività con i bambini del quartiere, così ho deciso di fare domanda per dedicare tempo a una cosa cui tenevo. Ho iniziato a settembre, faccio le mie trenta ore e mi occupo del progetto». Le chiedo cosa organizzano di preciso. «Facciamo il doposcuola dalle due alle cinque, sia compiti che attività varie, come i giochi sui diritti civili. Quest’anno abbiamo provato a fare lezioni di musica. Poi facciamo laboratori artistici creando i bigliettini di Natale, puntiamo al riciclo. Con il servizio civile vogliamo ampliare il doposcuola. Ci piacerebbe scrivere un nuovo progetto per avere altri soldi». Il progetto di quest’anno ha ottenuto nove volontari di servizio civile, ma «solo due, tre volontari sono sul progetto, gli altri fanno anche altro. Io sono a tempo pieno solo sul progetto». Le chiedo cosa facciano gli altri. «Aiutano nella programmazione culturale. Aiutano nella logistica». Qualcuno si dedica alla spillatura delle birre? «Sì, una di loro». Dal dialogo con Lucia intuisco che i fondi statali del servizio civile sono usati per rimborsare alcuni volontari che svolgono mansioni interne al circolo. «Si tratta dell’ordinaria gestione ed è un problema generale del servizio civile. Un conoscente fa servizio civile in Comune e ogni tanto fa le fotocopie, e questo non rientra nel progetto. È lo stesso che stare al banco delle tessere, o fare il caffè. Secondo me l’aiuto nella gestione del circolo ci sta, perché i circoli si reggono sul volontariato». Al tavolo del caffè, nel palazzo di vetro del campus, mi sono domandato quale sia il significato di “volontariato”, quale invece quello di “lavoro”, o di “lavoro sottopagato”. Chi spilla le birre in un circolo e riceve il rimborso spese del servizio civile è un lavoratore o un volontario? «Questa è la realtà di circoli che non hanno i soldi di un bar o di un’azienda o di una attività profit. Tutti agiscono con consapevolezza: fanno volontariato, accettano le regole del servizio civile. Lo sfruttamento è un’altra cosa, è quando non sai cosa vai a fare. Finché uno è cosciente e crede nel progetto, va bene. Poi è chiaro che il limite è labile». Un pomeriggio Davide mi ha accolto nel suo soggiorno in zona Campidoglio. Ci conosciamo da tempo, dagli anni in cui lavoravamo insieme in un circolo Arci. Facevamo i cuochi, io e Davide, e avevamo diritto a tre drink a fine serata. Era la nostra retribuzione. Poi, trascorsi alcuni mesi, ricevevamo venticinque euro a serata, a nero. Ricordo che eravamo consapevoli della nostra condizione, ci consideravamo dei volontari perché aderivamo al progetto politico del circolo. Anche i soldi intascati al tempo della chiusura ci facevano comodo. Il mio amico monda una zucca e io gli confido che la mia ricerca non deve sfociare in un’inchiesta sensazionalistica, piuttosto vorrei scrivere un’indagine introspettiva, scavare nel fondo di contraddizioni che sono anche mie, e che appartengono al mio mondo. «Decenni fa – riflette Davide – i circoli avevano uno scopo sociale, dovevano aggregare: c’erano cineforum e tante attività di quartiere. Poi negli anni Novanta c’è stato uno sfaldamento. Oggi spesso i circoli devono giustificare la propria valenza sociale, ricreativa, perché si sono trasformati in locali». Anche Davide è stato volontario del servizio civile preso il comitato cittadino di Arci. Secondo lui la contraddizione tra volontariato e lavoro retribuito deve essere letta alla luce della storia dei circoli in città: «Se ti occupi di un circolo, dovresti farlo gratuitamente. In origine si lavorava nel tempo libero per tenere in piedi il circolo. Ancora oggi, da un punto di vista formale, chi svolge delle mansioni in Arci è un volontario. Nel tempo, tuttavia, è avvenuta un’evoluzione: i circoli non sono soltanto spazi di aggregazione, ma locali che devono accumulare incassi. E così il concetto di lavoro cambia, sebbene le forme giuridiche rimangano le stesse. Nulla è netto, tutto mi sembra confuso, come torbido». I circoli sono cambiati insieme a Torino e la loro mutazione s’è adattata alla trasformazione della città industriale: ora abbiamo attorno uno spazio urbano di grandi eventi e spettacoli luminosi. Davide, tuttavia, mi avverte di non semplificare la storia dell’Arci, perché ancora oggi, in alcuni angoli, sussistono circoli che mantengono un legame con le origini: «Ci sono ancora circoli operai, luoghi aperti al quartiere con i tavoli dove bevi un bicchiere e giochi a carte». Nelle voci registrate noto che un senso di quieta consapevolezza prevale sul malessere. Siamo disposti a calcare la frontiera tra lavoro e volontariato perché crediamo di promuovere una giusta causa. In fondo non ci spinge ancora la folata di un lontano 1917? Con questi pensieri ho raggiunto Monicanella sede di Arci Servizio Civile di Torino, dove svolge da settembre il suo servizio civile. «L’Arci Servizio Civile di Torino (ASC Torino) è un ente accreditato presso il ministero. Tra i nostri soci c’è Arci Torino e quindi vari circoli che si sono associati. ASC consente ai soci di presentare il progetto affinché sia valutato; inoltre offre un servizio di accompagnamento e co-progettazione per gli enti soci che non hanno esperienza». Monica mi parla del suo ruolo: «Seguo la gestione formale dei progetti. Mi piace perché mi permette di conoscere i volontari dei vari enti. Poi siamo coinvolti nelle attività di comunicazione e promozione dell’ente». Monica è soddisfatta della sua esperienza: «Ho sempre frequentato l’associazionismo durante i miei studi, ma dopo la laurea ho lavorato un anno in un’azienda che si occupa di telecomunicazioni. Ho abbandonato quel lavoro che mi assicurava un buon salario per fare il servizio civile qui, perché volevo rientrare nel mondo delle associazioni. Mi attirava questa prospettiva di un anno e mi dava una formazione». Sono colpito quando mi dice che il lavoro, in Arci, è più vicino alla sua «passione». Secondo Monica la gestione del lavoro in ASC Torino è corretta e mi fa un esempio che la riguarda: «Dopo un paio di mesi si è presentata una novità. C’era una ragazza che collaborava con ASC, svolgeva una collaborazione a lavoro accessorio qui, ma doveva tornare a casa sua, lontano. Dato che io mi sono già occupata di amministrazione, mi hanno chiesto se volevo fare un’integrazione di dieci ore alle trenta normali di servizio civile. Dieci ore regolamentate diversamente, due o tre giorni a settimana. È stata un’attenzione che ho apprezzato, perché so che altrove con il servizio civile potresti svolgere qualsiasi compito senza retribuzione». Dunque queste ore sono retribuite in modo diverso? «Le dieci ore settimanali di lavoro accessorio sono regolamentate a voucher». Io giro tra le mani la mia tessera Arci del 2017, vedo il passo d’una ballerina e sotto la scritta “Arci. Cultura, Diritti, Partecipazione”. Chiedo a Monica se il pagamento in voucher non sia una contraddizione. «Ho partecipato all’assemblea nazionale di Arci Servizio Civile, è stata un’esperienza coinvolgente, uno dei temi trattati dall’amministratore di ASC è stato proprio questo: a livello normativo è difficile per un ente, magari piccolo, avere delle alternative. Secondo me non è plausibile di punto in bianco assumere dei dipendenti, perché collassi subito. Il voucher da questo punto di vista è un modo comodo per valorizzare anche economicamente qualcuno che lavora per te. Io qui la vivo così, riconosco lo sforzo in questi anni di ASC Torino nel tenere conto di queste spese. Se il voucher me lo fa la Telecom mi incazzo, però se me lo fa l’associazione che non ha altri dipendenti e non è arrivata ad avere un profilo di alto livello, lo accetto. L’importante è che il voucher non sia strumento di una grande azienda volto ad abbassare i costi del lavoro. In questo contesto, il voucher va inteso in una fase di transizione. Se un’associazione cresce può avere quella stabilità che consente altre modalità di retribuzione. Sono sicura che quando ASC Torino avrà una stabilità, farà un passo avanti in questo senso». Ma dove porta questa «fase di transizione»? E cosa siamo disposti ad accettare ancora in questo nostro presente? Osservo la copertina di un opuscolo recente di Arci Torino. Ci sono due foto: in alto vedo uno sterrato, forse un cortile, dove uomini e donne in bianco e nero siedono su sedie di legno e su panche, un uomo cammina con le mani in tasca e un altro in berretto si tira su la manica della giacca; sotto invece appare l’immagine a colori di una sala lunga con tavoli rotondi gremiti e le persone rivolte verso un palco dove un uomo parla al microfono, dalle vetrate intravedo il verde degli alberi. Una scritta accompagna le immagini: “Siamo nuovi ma siamo quelli di sempre”.
Quando il volontariato diventa lavoro nero, posta il 26/03/2017 Michelangelo Scali. Articolo di Alice Martina Garavaglia. Studentessa di Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Milano. “La Repubblica italiana riconosce il valore sociale e la funzione dell’attività di volontariato come espressione di partecipazione, solidarietà e pluralismo, ne promuove lo sviluppo salvaguardandone l’autonomia e ne favorisce l’apporto originale per il conseguimento delle finalità di carattere sociale, civile e culturale (…)”. Legge-quadro sul volontariato, art. 1.
I numeri del volontariato in Italia. Tutti rispettano e ammirano chi svolge un’attività di volontariato, di qualsiasi tipo. A volte ci si chiede se si può contribuire personalmente. Qualcuno lo farà, magari spinto da amici e conoscenti, incuriosito o semplicemente desideroso di “fare gruppo”. In Italia in effetti i numeri sono rilevanti: ci sono quasi 7 milioni di volontari, di cui 4 agiscono in entità organizzate, mentre 3 operano individualmente. Una realtà molto variegata, soprattutto quella delle varie associazioni di volontariato, tra cui spiccano per l’importanza cruciale della loro azione quelle che operano in ambito sanitario: queste sono al terzo posto in Italia per numero, il 16% del totale (dati ISTAT 2013). Al primo posto figurano le associazioni con finalità religiose (23%) e al secondo quelle con finalità ricreative e culturali (17%). Vi sono poi anche associazioni che si occupano di sport, ambiente, istruzione e dei più disparati settori.
Cosa dice la legge. In passato si è atteso a lungo che il mondo del volontariato ricevesse una disciplina normativa adeguata. La legge-quadro sul volontariato (legge n. 266 dell’11 Agosto 1991) ha dettato finalmente le norme da seguire nel settore e ha tentato di risolvere l’annosa questione del lavoro volontario che, in quanto fenomeno sociale di notevole portata, è sottoposto a un rischio serio di sfruttamento. Inoltre, è attualmente in attesa di attuazione una legge delega al Governo sul terzo settore (L. 106/2016) che interesserà perlopiù l’aspetto fiscale delle ONLUS. Tornando alla legge del 1991 l’art. 2, al primo comma, dà una definizione di “attività di volontariato”: si tratta di quella attività prestata “in modo personale, spontaneo e gratuito”. Si continua poi precisando che l’organizzazione di cui il volontario fa parte non deve avere fini di lucro, neanche indiretto, ma solo fini di solidarietà. Al comma 2, si legge che l’attività del volontario “non può essere retribuita in alcun modo nemmeno dal beneficiario”. Si apre però alla possibilità di un rimborso delle spese “effettivamente sostenute per l’attività prestata”, entro limiti stabiliti dalle associazioni stesse. Pensiamo ad esempio al viaggio del volontario da casa sua alla sede operativa, alla benzina, all’eventuale pedaggio autostradale. Ma non solo: possiamo aggiungere l’acquisto della divisa, degli scarponcini antinfortunistici e così via. Insomma, è ben possibile comprendere l’inserimento di una tale disposizione, considerata la gratuità del lavoro prestato e il tempo speso dal volontario. Si tratta tuttavia di una norma che si presta ad essere sfruttata da chi ha invece ben altre esigenze.
Uno scandalo nazionale. Su questo argomento ha fatto recentemente scalpore un servizio andato in onda il 10 aprile 2016 sul canale televisivo Italia1, per il noto programma Le Iene, che denunciava l’esistenza di intere organizzazioni di volontariato fittizie operanti in ambito sanitario, che perseguono indirettamente fini di lucro e occupano quasi del tutto lavoratori in nero, mascherati da volontari. Queste organizzazioni si occupano di soccorso, un settore che in Italia è quasi totalmente affidato al volontariato, ma per cui la legge non impedisce di assumere regolarmente dipendenti, nel caso ve ne sia necessità. L’articolo 3, comma 4, della legge-quadro infatti stabilisce che “le organizzazioni di volontariato possono assumere lavoratori dipendenti o avvalersi di prestazioni di lavoro autonomo esclusivamente nei limiti necessari al loro regolare funzionamento”. Tuttavia, per evitare i costi derivanti dal lavoro dipendente regolare, molte ONLUS hanno escogitato l’escamotage di reclutare e formare persone che risultano come volontari, salvo poi instaurare con essi un rapporto di lavoro de facto. Fanno infatti firmare a questi supposti volontari una dichiarazione scritta in cui attestano di ricevere un rimborso spese, ma poi li trattano come veri e propri dipendenti, e in alcuni casi assegnano loro turni giornalieri da 10 ore o più: con qualunque termine si definisca questo rapporto, certamente non è volontariato. Non lo è perché non è gratuito, non lo è perché viene fatto per fini molto lontani da quelli di solidarietà propugnati dalla legge-quadro del 1991, e non lo è anche perché una persona che svolge questa attività, con queste modalità, sarà sempre impossibilitata ad avere un “vero” lavoro, un lavoro regolare. Tanto più che i soldi utilizzati per pagare questi rimborsi spese sono pubblici, ossia sono quelli con cui le varie aziende regionali di emergenza-urgenza pagano le convenzioni 118 alle associazioni. Questi fondi dovrebbero essere destinati a coprire le spese sostenute dall’associazione per la benzina, per l’acquisto e la manutenzione delle ambulanze e degli altri mezzi utilizzati, per la gestione della sede operativa e per lo stipendio dei dipendenti regolari. Questa prassi, molto diffusa nella capitale ma sicuramente presente anche in altre regioni italiane, ha conseguenze di non poco conto: i finti volontari non hanno ferie, malattie, controlli sanitari stringenti. Si devono pagare personalmente la divisa, non vengono loro pagati i contributi e per lo Stato sono sostanzialmente disoccupati. Se non provvedono autonomamente, non avranno neanche una pensione. Si parla di persone non professionalmente qualificate, che hanno fatto il classico corso per diventare soccorritore 118, ma in alcuni casi anche di infermieri e altre figure qualificate, come gli operatori socio-sanitari (i cosiddetti OSS). La situazione allarmante raccontata nel servizio potrà forse essere, come alcuni hanno commentato, estremizzata. Una punta della degradazione del volontariato e delle figure connesse. Tuttavia, anche se la situazione generale fosse meno grave, saremmo comunque di fronte a un problema di grande portata non solo sociale, ma anche economica e giuridica. Le immediate conseguenze non vanno a colpire i soli lavoratori in nero di queste associazioni, ma anche i pazienti trasportati, i quali potrebbero trovarsi di fronte un soccorritore stremato da 12 ore di turno, o un autista talmente stanco da addormentarsi alla guida. Perché questi lavoratori non hanno nemmeno un’associazione di categoria che li protegga o che faccia valere i loro diritti su un piano se non nazionale, almeno regionale. È perciò fondamentale contrastare ed espellere dal sistema del soccorso queste realtà, e il compito in questo caso spetta non alle aziende regionali di emergenza-urgenza (ad esempio ARES nel Lazio, AREU in Lombardia ecc..) ma alla Polizia tributaria. Prima dell’inversione di rotta emersa nel mese di marzo 2017, che porterà alla loro completa abolizione, anche i buoni lavoro (i cosiddetti “voucher”) erano ampiamente utilizzati in questo settore. Infatti, grazie al rafforzamento della loro applicazione avvenuto nel 2015 con il Jobs Act, essi offrivano una buona occasione per retribuire volontari che svolgevano turni “in più” rispetto a quelli normalmente richiesti dall’associazione. Questo metodo aveva un tetto massimo di retribuzione raggiungibile (7.000 euro in un anno), che ne limitava le possibilità di sfruttamento. Con la loro abolizione, ci si chiede se i voucheristi torneranno a far parte dei lavoratori in nero o se si prospetteranno altre soluzioni per le associazioni.
Le cause. Il territorio italiano, si sa, è spesso ostico quando si parla di soccorsi. Ci sono moltissimi comuni, anche molto piccoli, per non parlare dei centri abitati più isolati e delle difficoltà di comunicazione causate dalla conformazione geografica. Bisogna però assicurare ad ogni singolo abitante, in caso di emergenza, l’arrivo di un mezzo idoneo in tempi ragionevoli. Quello che forse non tutti sanno è che per lo più la copertura del territorio è assicurata da associazioni di volontari. In alcuni casi nelle zone lasciate scoperte dalle ONLUS vere e proprie, oppure nelle grandi città, dove il numero giornaliero di chiamate al 118 è altissimo, sono nate anche associazioni come quelle denunciate dal servizio televisivo: queste sono delle vere e proprie associazioni a scopo di lucro, spesso non hanno un solo vero volontario al loro interno e sono gestite quasi come delle aziende. Però accade anche che alcune ONLUS “regolari” si trovino in difficoltà per la mancanza di volontari e che, pur di mantenere la convenzione stipulata con l’azienda regionale, arrivino ad attuare ogni espediente possibile. Tutto ciò spesso viene tollerato dallo Stato e dalle autorità perché sostanzialmente, allo stato attuale della legge, non c’è una vera alternativa. Assumere solo dipendenti sarebbe troppo costoso per le associazioni, e in Italia non esiste una professione riconosciuta di soccorritore o paramedico, a differenza di molti altri paesi. Questa è la dimostrazione che un sistema del soccorso totalmente (o quasi totalmente) basato sul volontariato oggigiorno non è più sostenibile, visto l’altissimo numero di interventi e la crescente necessità di copertura del territorio da parte delle ambulanze. Allora forse è giunto il momento di fermarsi a riflettere in modo più ampio, dal punto di vista economico-giuridico, sul metodo di gestione del mondo del soccorso che attualmente è adottato in Italia dal nostro sistema sanitario. Se non si stabiliscono regole chiare e definite si rischia di arrivare a storture che non dovrebbero avere spazio in nessun settore, men che meno nel volontariato. Ancor meno in quel settore del volontariato che si occupa della vita e della salute delle persone. Non solo, se le regole vengono stabilite ma se ne tollera la sistematica e aperta violazione, a favore del risparmio, si vanifica il lavoro di chi invece le rispetta.
Alice Martina Garavaglia. Studentessa di Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Milano.
SOTTOPAGATI E SENZA GARANZIE: L'ESERCITO INVISIBILE DOVE MENO TE LO ASPETTI...
Sottopagati e senza garanzie: l'esercito invisibile dei lavoratori nello sport. Lo studio Nidil-Cgil: su quasi 90 mila persone, la stragrande maggioranza lavora in nero o con contratti flessibili. Ma il giro di affari del settore arriva a 14 miliardi l'anno, scrive Barbara Ardù il 27 maggio 2017 su "La Repubblica". Ci sono 19 milioni di italiani che fanno sport. Ottimo, dicono i medici. Formativo, suggeriscono insegnanti e psicologi infantili. Un business che fattura ogni anno circa 14 miliardi, tra palestre, centri sportivi, piscine, anche spiagge dove in molti stabilimenti non manca l'istruttore di ginnastica in acqua. E che dire degli alberghi dove ti offrono massaggi, tecniche di rilassamento, tiro con l'arco, se vai in montagna. Un giro d'affari da 14 miliardi l'anno che genera 5 milioni di entrate. Forse gli unici un po' scontenti di questa tenace attività sono quelli che l'attività la fanno fare agli altri, i personal trainer gli insegnanti, i tecnici e quelli che stanno dietro questo grande muoversi. Sono 88.614 lavoratori dello sport, l'85% per cento dei quali ha un contratto flessibile, se non proprio in nero, secondo uno studio della Nidil Cgil, presentato oggi a Rimini. E invece nella maggior parte dei casi sono lavoratori che svolgono attività prevalente ed esclusiva. Un mondo, quello dello sport denuncia lo studio, dominato dal sommerso, sottopagato, precario, dove non ci sono diritti, né malattia né maternità e soprattutto nessuna assicurazione. Per chi insegna, ma anche per chi sta dietro le quinte, segretarie, autisti di pulmini e via dicendo. Ma lo sport ormai non si pratica solo nel chiuso delle palestre che negli ultimi anni sono spuntate come funghi in ogni angolo delle città. Nel 2015 si sono svolti in Italia 142mila eventi e spettacoli sportivi di cui 58mila nel Nord-ovest. E nonostante ciò anche in questo siamo indietro in casa Ue: gli occupati nel settore sono lo 0,54% contro una media Ue dello 0,72 sul totale dei lavoratori. Eppure tutta questa attività crea tantissimo lavoro, perché le imprese direttamente legate ad attività sportive sono quasi 35.000 ((nel commercio tra negozi e discount di abbigliamento), industria e servizi. Ma il lavoro di chi aiuta gli altri a fare sport (a parte commercio e industria) è basato su una legge che risale al 1981, che demanda alle singole Federazioni sportive la sua applicazione. Il che significa che esiste un popolo di invisibili (tantissime sono le onlus che se ne occupano) o le palestre le piscine, i campetti, i circoli sportivi, che il contratto non sanno nemmeno cosa sia. Ed è qui che la Cgil chiede un intervento legislativo per regolamentare un lavoro dove sono occupati ex agonisti, laureati in scienze motorie, personal trainer, tecnici di varie discipline pagati con contratti precari, flessibili, a ore. La proposta, che rientra nella Carta dei diritti del lavoro presentata dalla Cgil, prevede che vadano regolamentati prima di tutto i settori dilettantistico e professionale. Anche perché le Federazioni sportive che oggi riconoscono il professionismo sono quattro, golf, calcio, pallacanestro e ciclismo. E alle donne lo stato di professionismo non è riconosciuto. Il resto è tutto lasciato alla libera contrattazione. Un esercito di lavoratori in nero o sottopagati, cui ci affidiamo per rinvigorire corpo e mente, nostri e dei nostri figli.
Sottopagati e senza garanzie: anche nel turismo". Io, nuovo schiavo italiano: lavoro per 50 centesimi l'ora". Andrea Sciurti, 36 anni, si ritrova a lavorare per 50 euro a settimana in un Lido in Puglia. Dove lo fanno dormire in una "topaia", scrive Giuseppe De Lorenzo, Giovedì 17/08/2017, su "Il Giornale". "Questo per me si chiama sfruttamento. Anzi: schiavitù e sfruttamento. La mia non è più vita. Non posso andare avanti così". Le parole di Andrea sono rotte dalla fatica di un lavoro che immaginava duro ma che in poco tempo si è trasformato in un inferno. "Faccio il guardiano nel Lido Turrisi di San Cataldo, vicino Lecce. Lavoro 14-15 ore al dì, sette giorni su sette, per soli 50 euro a settimana". Appena 7 euro al giorno. Cioè la miseria di 50 centesimi l'ora. Ovviamente in nero. A 36 anni Andrea Sciurti continua a saltare da un mestiere all'altro. La crisi, la disoccupazione e le difficoltà del Sud lo hanno iscritto di diritto nell'elenco di chi si arrabatta quotidianamente per tirare a campare. "Accetto tutti i lavori - si ripete - la voglia ce l'ho". A mancare sono le opportunità. La madre incassa solo la pensione minima da 545 euro al mese, la sorella è disoccupata e vivono tutti insieme in una casa popolare in Salento. "Quando mamma morirà finiremo alla Caritas, oppure in mezzo a una strada", sussurra lui dolcemente. Nella sua vita ha imparato la maggior parte di quei lavori "che gli italiani non vogliono più fare": imbianchino, custode, magazziniere, badante, operatore ecologico e giardiniere. Tutto e il contrario di tutto, con l'unico scopo di sbarcare il lunario. L'ultimo inverno l'ha passato in Germania in un ristorante: "Anche all'estero ho trovato le fregature. Non ho mai superato i 400 euro di stipendio. Mi sfruttavano, ma almeno avevo una stanza decente e un letto comodo". Un lusso, vista l'esperienza vissuta in questi ultimi due mesi in Italia. "Sono tornato a casa a marzo. Un giorno ho preso la circolare per San Cataldo e ho chiesto agli stabilimenti se avessero un lavoro da offrirmi". Tutti pieni, tranne il "Lido Turrisi". "Loro mi hanno detto di sì: ero molto contento, ma non sapevo quale fregatura ci fosse sotto". Primo giorno di lavoro il 22 giugno. Quando ci racconta la sua esperienza, Andrea è regolarmente di turno: "Ero partito come guardiano notturno - spiega - e invece sono finito a fare di tutto: pitturo, apro e chiudo gli ombrelloni, pulisco la spiaggia, le cabine e butto la spazzatura". La paga è irrisoria: "Prendo 50 euro a settimana che mi consegna il bagnino". L'orario di lavoro massacrante: "Doveva essere dalle 22 alle 7 di mattina. Invece inizio alle sette di sera fino alle 9.30 dell'indomani mattina". Non ci credete? Ci fa leggere un sms ricevuto da Giacomo (il bagnino): "Ciao, ha detto Alessandra (la barista, NdR) se puoi venire alle 7" di sera. Ed ecco che un turno normale diventa di 14 ore. Senza aumenti in "busta paga". Andrea ci tiene a ribadirlo: "Questo è sfruttamento e schiavitù". Lo ripete più volte, come a voler cristallizzare il concetto sulla roccia. Teme che altri possano cadere nello stesso tranello. "All'inizio pensavo fosse tutto rosa e fiori, poi però mi hanno fatto vedere la stanza...". Ecco il punto dolente. L'accordo infatti prevede che il guardiano abbia a disposizione un alloggio notturno gratuito nel Lido. Nessun hotel 5 stelle, anzi: le foto (guarda) dello scantinato che gli spetta lasciano di stucco. "Fa schifo - lamenta il giovane - mi sembra una topaia: il letto è spaccato e il materasso rotto. Alla fine lo metto in terra e dormo lì, mentre le formiche e le zanzare mi mangiano". Una sudicia tana. I video (guarda) parlano chiaro: un tavolo di plastica, la branda appena sollevata da terra, il lavandino sporco e il water inagibile, pieno di escrementi rimasti lì a galleggiare. "Se devo fare i miei bisogni, vado nei bagni usati dai clienti durante il giorno. Nel mio neppure le bestie ci andrebbero". Un vero "inferno" durato due mesi: "La sporcizia me la sento sulla pelle, mi sveglio con dolori alla spalla. Vivo peggio dei barboni: sono arrivato qui che ero sano e ho paura di ripartire malato". Ma quei 50 euro a settimana sono sempre meglio di un pugno di mosche. Così fino ad oggi Andrea non ha mai osato protestare. Difficile capire cosa l'abbia spinto ad accettare un impiego a queste condizioni. "A casa arriviamo a fine mese mangiando pane, latte e pasta", spiega. La povertà abbatte le ambizioni e si finisce con l'accettare il peggio. Pure cinquanta centesimi l'ora. "Pensavo che col tempo le cose si sarebbero aggiustate. Mi ero detto: pian piano aumenterà (la paga, ndr). Ma ho visto sempre 50 euro". Nessun contratto, nessuna garanzia. E gli ispettori? "Una volta vennero a fare dei controlli, ma loro mi dissero di far finta di passeggiare come un villeggiante". Andrea a San Cataldo è una sorta di fantasma. Anche nello stabilimento. Antonio Conte, che al telefono si qualifica come proprietario del Lido Turrisi, nega infatti di aver mai assunto un custode. Eppure alcuni video mostrano il 36enne entrare di notte, aprire lucchetti e mostrare la sua "camera". "Ho le chiavi dei bagni, dello spogliatoio con gli attrezzi e quelle dell'entrata della struttura", dice passando di fronte al muro con la scritta "Lido Turrisi". Non solo. In una telefonata registrata si sente il "signor Antonio" parlare con Andrea: "Volevo avvertirla che i 50 euro della settimana me li ha dati ieri il bagnino", spiega il custode. "Va bene, d'accordo", risponde Antonio. E il contratto? I diritti? La giusta paga? Anche su questi punti il titolare glissa: "Da noi non lavora nessun guardiano - afferma al telefono - non sono al corrente di queste cose. Non so neppure di chi stiamo parlando". Poi chiude bruscamente la chiamata. Il giorno stesso in cui abbiamo chiesto delucidazioni al lido, era l'11 agosto, Andrea si è normalmente presentato al lavoro. Ma è stato respinto: "Mi hanno detto di aver avuto problemi e che non potevo più andare". Anche questa è l'Italia: "Sapevo già facesse schifo, ma ora mi fa pena. A volte mi vergogno di essere italiano".
Sottopagati e senza garanzie: non solo al Sud Italia. «In Riviera mancano stagionali? Tanto lavoro, pochi soldi. Meglio andare». «Se penso ai contratti farlocchi, straordinari non pagati, percentuali in nero, posso comprendere i ragazzi che preferiscono andare via dall’Italia», scrive il 19 giugno 2017 Enea Conti su “Il Corriere della Sera”. «Quest’anno ho cominciato a lavorare nei weekend in un locale sul lungomare di Riccione. Devo dire la verità sono perplesso. Sul contratto è scritta una cifra sopra i 1000 euro. A luglio e agosto farò tutta la settimana. Non avrò neanche il giorno libero, ma toccherà fare finta di nulla e dire che lo avrò, tanto funziona così» racconta Francesco, 19 anni appena compiuti. «In passato ho lavorato in zona Ceccarini — uno dei centri della movida riccionese, ndr — in due posti diversi. Una volta mi è andata male, orari impossibili e straordinari non pagati, per di più tutti i giorni. Dicevano “lavorare d’estate col giorno libero non ha senso in riviera!”, quasi scherzando, ma da scherzare c’era ben poco perché qui parliamo di un lavoro parecchio stancante. Due estati fa però ho lavorato in un locale che opera sul lungomare e devo dire che mi sono trovato bene. Orari decenti, ambiente tranquillo e soprattutto contratto regolare. Sarà perché erano amici di famiglia? A volte me lo chiedo ancora». Francesco evidenzia, del resto, una tendenza ben nota in riviera. L’agenzia del lavoro della Regione non si sbilancia ancora in merito al numero delle posizioni mancanti, ma ne è al corrente. «Apprendiamo di una mancanza di lavoratori stagionali che ancora non siamo in grado di quantificare, ma tanto alla fine gli operatori tireranno avanti con il classico passaparola», commenta un dirigente dell’agenzia. «Io fino all’anno scorso ho lavorato a Marina Centro di Rimini in condizioni che non sono state per nulla proibitive. 1000 euro al mese, 5 ore al giorno, giorno libero assicurato e contratto regolare». Certo erano amici di famiglia racconta e ci tiene a specificarlo, Alessandro, 19 anni, riminese. «Ho fatto la stagione da quando avevo 14 anni, e posso assicurare che quelle volte che la finanza ha usato la lente di ingrandimento ha sempre aperto un vaso di pandora», spiega Marco, 26 anni. Quest’anno lavora in uno stabilimento balneare di Marina Centro di Rimini. «È la mia sesta stagione qui ma è il primo anno che mi hanno proposto condizioni accettabili. Quest’anno prenderò 7500 euro netti a fine stagione, per 8 ore al giorno con giorno libero. Ma gli anni scorsi non era così. Prendevo 6500 netti per 10-12 ore al giorno senza giorno libero. E sempre con un 20-30% pagato in nero». Marco, che lavora ormai da anni sulle spiagge, commenta la situazione generale che vedrebbe molti suo «colleghi» non considerare più la stagione come un lavoro appetibile. «In generale posso raccontare la sensazione che ho in relazione alla mia esperienza e a quello che percepisco ascoltando altre storie. In questo settore i datori di lavoro fanno passare i diritti per favori e non come una tutela che rientra nell’ordine normale delle cose, come dovrebbe essere. Ma se faccio il paragone con tutto il sistema di contratti farlocchi, straordinari non pagati, percentuali pagate in nero, posso comprendere i ragazzi che preferiscono farsi una stagione all’estero». In queste settimane a fare notizia è stata anche la chiusura di alcuni ristoranti a causa dell’assenza di personale competente. «Io sono del settore e posso parlare in merito. I titolari pretendono di assumere personale con esperienza e di sottopagarli — sbotta il proprietario di un bar del centro di Rimini — e gli chiedono anche di fare gli straordinari. Se assumi un apprendista di una scuola alberghiera e gli insegni il lavoro, magari gli fai fare mezza giornata e allora può andar bene anche una paga “ridotta”, ma non puoi proporre lo stesso a chi ha già un curriculum di tutto rispetto, e magari non è neanche giovanissimo».
Lavoratori come schiavi, pagati un euro l'ora: blitz della guardia di finanza. Quattrocento euro al mese per dieci ore di lavoro al giorno. Sette giorni su sette. Nei guai un'azienda bresciana, scrive il 4 agosto 2017 "Today". Quattrocento euro al mese quando andava bene, per 10 ma anche 12 ore di lavoro ogni giorno, sette giorni su sette: a conti fatti, poco più di 1 euro all'ora. Sono almeno 26 i lavoratori irregolari, assunti in nero e sottopagati, che erano impegnati in un'azienda manifatturiera specializzata nella lavorazione della gomma, con sede legale a Sirmione. La Guardia di Finanza di Sarnico ha portato a termine il primo blitz in un capannone di Adrara San Martino, in provincia di Bergamo. Su 17 operai presenti erano 8 quelli sprovvisti sia del contratto di assunzione che della comunicazione preventiva agli enti preposti: tutti assunti in nero, uno di loro è risultato anche clandestino (già accompagnato in Questura, verrà espulso). Le indagini sono poi proseguite, anche grazie all'analisi dei documenti recuperati in azienda. Le Fiamme Gialle hanno così scoperto altre 18 persone che lavoravano totalmente in nero ma a domicilio, nelle loro abitazioni di Viadanica, Villongo e Adrara San Rocco in provincia di Bergamo, Capriolo, Coccaglio, Palazzolo e Rovato in provincia di Brescia. I lavoratori venivano pagati in base al numero di pezzi lavoratori, fino a 12 ore al giorno e sette giorni su sette. Non guadagnavano più di 400 euro al mese, circa 1 euro per ogni ora di lavoro. Il legale rappresentante dell'azienda abita a Moniga del Garda, ed è già stato denunciato. L'attività dell'azienda è stata momentaneamente sospesa, come la legge prevede quando l'impiego di personale in nero è superiore al 20% del totale dei lavoratori.
Sottopagati e senza garanzie: non solo in Italia. I migranti separati dalle opinioni, scrive il 3 luglio 2017 Rodolfo Casadei su "Tempi". Numeri, studi e fatti per smontare i luoghi comuni sui migranti. Perché la soluzione ai mali dell’Africa non è svuotarla. Partire dai fatti. Dal fatto che gli stranieri che arrivano in Italia con natanti di fortuna non sono rifugiati, ma quasi tutti migranti economici. Che dopo gli accordi fra l’Unione Europea e la Turchia l’Italia è diventata il collo di bottiglia e l’accampamento di tutti gli emigranti illegali che da Africa e Vicino Oriente vogliono passare in Europa. Che i migranti di oggi non emigrano perché muoiono di fame, ma perché vogliono stare meglio e vivere come gli europei. Che non ce la fa più nemmeno la accogliente, progressista e multiculturalista Svezia, altro che le egoiste Austria e Ungheria, perché l’immissione smodata di stranieri nel sistema alimenta il lavoro nero e prosciuga le entrate fiscali. Che abbiamo fatto un accordo per la gestione del problema con un governo libico che è tenuto al potere da milizie che si finanziano col commercio dei clandestini. Che la Chiesa cattolica africana è contraria all’emigrazione di massa, e chiede di rimuovere le cause che spingono tanti giovani ad abbandonare il continente. Che non si era mai vista un’emigrazione di massa verso un continente dove il tasso di crescita del Pil è penoso e il paese di primo approdo (l’Italia) presenta un tasso di disoccupazione del 40 per cento fra i suoi giovani fra i 15 e i 24 anni, proprio la categoria più rappresentata fra i migranti. Che tantissimi emigrati, vista la malaparata dei centri di accoglienza italiani nei quali vengono confinati e della mancanza di lavoro in regola che li costringe all’accattonaggio o al lavoro in nero, vorrebbero tornare in patria ma non possono per la vergogna di aver fallito la loro chance. Che i paesi della grande crescita economica oggi sono proprio quelli africani, per i quali quest’anno sono previsti aumenti del Pil a tassi superiori al 7 per cento, ma ciò non basta a frenare l’emigrazione a causa della corruzione locale che si mangia tutto, con la complicità di molti poteri dei nostri paesi.
Ingressi in aumento. Anna Bono è sempre partita dai fatti, sia quando lavorava come ricercatrice in Storia e istituzioni dell’Africa all’Università di Torino che quando si confrontava con la realtà del Kenya, dove ha vissuto nove anni. Per questo i suoi libri, saggi e articoli sui temi dello sviluppo e dell’Africa non sono la lettura preferita di chi ama i proclami e le marce affollate di belle bandiere, ma con la realtà intrattiene un rapporto selettivo. Migranti!? Migranti!? Migranti!?, suo ultimo libro che fa seguito a Migrazioni, emergenza del XXI secolo. I numeri, i problemi, le prospettive, uscito due anni fa, probabilmente conoscerà lo stesso destino: piacerà ai fautori degli approcci fattuali, farà alzare le spalle a chi si accontenta delle affermazioni di principio o vede solo l’aiuola che è solito curare. Il primo fatto di cui curarsi è che mentre gli ingressi di irregolari diminuiscono a livello europeo, in Italia continuano ad aumentare. In Europa nel 2015 sono entrate illegalmente, via mare e via terra, 1.012.275 persone; nel 2016 si sono dimezzate a 503.700; nei primi quattro mesi del 2017, secondo Frontex, gli arrivi in Europa sono diminuiti dell’84 per cento rispetto ai dati confrontabili dell’anno scorso. In Italia, invece, gli arrivi irregolari sono stati 153.842 nel 2015 e 181.045 nel 2016, dato che sarà certamente battuto alla fine di quest’anno, perché il primo quadrimestre segna già un più 33 per cento rispetto a quello dell’anno scorso. La posizione dell’Italia si fa sempre più gravosa perché la nostra frontiera di mare è l’unica frontiera europea che non è stata sigillata: è spesso letale (già 1.889 morti per naufragio quest’anno al 18 giugno, 2.449 l’anno scorso nello stesso periodo), ma è anche l’unica via attraverso cui si riesce ad arrivare in Europa. Se si guardano i dati della Iom (Organizzazione internazionale per i migranti, ente Onu) si scopre che al 18 giugno per via di mare sono arrivate in Italia 69.382 persone, ma solo 8.323 in Grecia e 3.314 in Spagna. Il secondo fatto che non si può ignorare è che i profughi rappresentano solo un’esigua fetta di quanti arrivano in Italia, anche se molti di loro fanno domanda per essere riconosciuti tali. L’anno scorso le domande sono state 123.482, quelle esaminate 90.473, quelle accolte solo 4.940. Altri però hanno ottenuto titoli per soggiornare in Italia attraverso il riconoscimento della protezione sussidiaria, che viene concessa a chi non può essere considerato profugo ma se torna da dove è venuto corre il rischio di subire un grave danno (11.200 persone), e attraverso il permesso per motivi umanitari, che ha la durata di un anno (18.801 persone). Tutti gli altri, e anche parte dei 35 mila circa delle tre categorie protette, vegetano all’interno del sistema di protezione e accoglienza italiano, una galassia di centri che di nome fanno Cara, Cpa, Cpsa, Cda, Cie, hotspot e hub regionali. Il terzo fatto che merita di essere preso in considerazione è che nemmeno i paesi più attrezzati sono in grado di evitare gli effetti socio-economici negativi delle migrazioni odierne. Il caso della Svezia è molto chiaro. «Nel 2016 – scrive Anna Bono – il governo svedese ha ammesso di esser del tutto incapace di mantenere gli standard di ospitalità finora offerti agli immigrati. (…) In Svezia masse di immigrati svolgono lavori in nero e sottopagati e già se ne avvertono i danni economici e sociali. Le retribuzioni medie diminuiscono perché gli stranieri percepiscono stipendi pari a un quinto della media svedese. Quindi si contrae anche il gettito fiscale. Nel 2015 lo Stato ha perso quasi 8 milioni di dollari. Inoltre le imprese che pagano regolarmente i dipendenti risentono della concorrenza di quelle che assumono in nero. Statistiche governative dicono che a sette anni dal loro ingresso in Svezia solo il 60 per cento circa degli immigrati svolgono lavori regolari. “Stiamo creando un nuovo sottoproletariato – spiega Sten-Erik Johansson, direttore del sindacato dei lavoratori stranieri irregolari – che vivrà ai margini della società senza avere diritto alla pensione, ai permessi per maternità, a niente”». In conseguenza di ciò la Svezia ha annunciato un anno fa una politica di rimpatri forzati che non ha veramente attuato, ma che ha prodotto l’effetto di un crollo delle domande di asilo. Il quarto fatto che ancora pochi conoscono è che la grande maggioranza dei migranti africani non rappresenta gli strati più poveri della popolazione, ma quelli entrati in contatto con il mondo globalizzato attraverso la vita delle realtà urbane africane e le nuove tecnologie della comunicazione disponibili anche ai piccoli redditi. Il miraggio dell’eldorado europeo li attira e li mette in viaggio come negli anni Novanta i programmi delle tv italiane spingevano decine di migliaia di albanesi all’emigrazione. Dice il ministro per i senegalesi all’estero Souleymane Jules Diop: «Qui la gente non parte perché non ha niente, se ne va perché vuole di meglio e di più». Parte anche Ibrahim Ba, morto nel canale di Sicilia insieme ad altri 700 migranti nell’aprile 2015 per il ribaltamento della barca su cui viaggiava. Grazie alle rimesse del padre dalla Francia, aveva potuto creare un’azienda con tori da monta, ma nonostante le più che buone condizioni economiche non aveva potuto resistere alla tentazione di emigrare in Francia.
Soldi ne arrivano, ma nulla cambia. «È nelle città, tra queste masse urbane, che chi emerge, chi ne ha i mezzi matura il progetto di emigrare, se necessario clandestinamente», si legge nel libro. «Lo sviluppo economico, seppure modesto, moltiplica le persone in grado e desiderose di farlo: come spiegano i ricercatori dell’Icmdp (ente per lo studio delle migrazioni creato dai governi di Svizzera ed Austria, ndr) sia perché aumentano le persone che dispongono dei mezzi per farlo sia perché cresce il desiderio di emigrare. “Un maggiore accesso all’informazione e gli accresciuti contatti con altri stili di vita (ricchi e/o occidentali) grazie all’educazione, ai mass media e alla pubblicità modificano la concezione della vita, aumentano la propensione al consumismo e ad acquistare beni materiali”». A ciò si aggiungano gli incontri coi turisti bianchi, che agli occhi degli africani appaiono tutti ricchissimi, e fanno immaginare un mondo dove il benessere è alla portata delle persone comuni. Di fronte a tutto ciò, le persone ragionevoli di ogni schieramento politico evidenziano la necessità di favorire lo sviluppo socio-economico dei paesi africani come via maestra per contenere un’emigrazione altrimenti deleteria sia per chi parte che per chi riceve. Gli uni propongono piani Marshall per l’Africa, gli altri chiedono che si metta fine allo «scambio ineguale», ma entrambi sembrano non avere coscienza di un altro fatto scomodo che Anna Bono non si esime di evidenziare: soldi in Africa ne arrivano, ma le cose a livello generale continuano a non cambiare. Nel 2014 (ultimo dato disponibile) sono entrati in Africa 662 miliardi di dollari di investimenti esteri diretti, 135 di aiuti internazionali e 443 di rimesse dei migranti. Ma nel febbraio scorso l’Onu ha lanciato l’allarme per una carestia dovuta alla siccità che quest’anno colpirà 20 milioni di africani, mentre un quarto dei 65,6 milioni di profughi e sfollati del mondo a causa di conflitti si trovano in Africa, e la corruzione continua ad avere la stessa incidenza di sempre: uno studio del 2002 dell’Unione Africana indica che la corruzione si porta via il 25 per cento di tutto il Pil africano. Tutti problemi da far tremare le vene ai polsi, e rispetto ai quali una solo cosa è certa: la soluzione dei mali africani non sta nell’emigrazione.
Un lavoratore italiano su dieci è pagato meno del minimo contrattuale. Le regole. Sicilia, Puglia, Calabria, Campania e Molise rispettano meno le regole; le più virtuose sono Emilia Romagna, Lombardia Val d’Aosta, Trentino Alto Adige e Veneto, scrive Fabio Ponte il 22/07/2017 su "La Stampa". La Stampa Un lavoratore su dieci guadagna il 20% in meno del minimo previsto dal contratto del suo settore. A lanciare l’allarme è Andrea Garnero, economista del dipartimento Lavoro e affari sociali dell’Ocse. Citando una serie di studi, dalle colonne del sito Lavoce.info snocciola diversi dati preoccupanti, ripartiti secondo la più prevedibile delle distribuzioni. A stare peggio sono i lavoratori delle piccole e piccolissime aziende, in particolare al Sud. È sottopagato il 18,8% del personale delle ditte sotto i 10 dipendenti; il 13,1% di quelle leggermente più grandi, fino a 15 dipendenti. La percentuale scende man mano che le dimensioni aumentano, fino alle società sopra i 250 dipendenti, nelle quali si arriva finalmente sotto il 4%.
Agricoltura più colpita. Il settore più colpito è quello dell’agricoltura, con quasi il 32% dei lavoratori sottopagati, seguito da quello di hotel e ristoranti, intorno al 21%. Il più virtuoso invece è quello della Pubblica amministrazione, nella quale si scende al 4,1%. Quanto alle regioni, a stare peggio sono Sicilia, Calabria, Campania, Puglia e Molise. Quelle dove le regole sono più rispettate invece sono Emilia Romagna, Lombardia, Val d’Aosta, Trentino Alto Adige e Veneto.
Le cifre. Ma quali sono le retribuzioni a cui stiamo facendo riferimento? In Italia ci sono 819 contratti di lavoro collettivi. Facendo una media tra tutti i settori, il minimo tabellare è di 9,41 euro l’ora (dato 2015). Si va dai 7,70 euro dell’agricoltura fino ai 12,95 della finanza. In mezzo ci sono gli 8,55 euro delle costruzioni, gli 8,95 dei trasporti, i 9,72 della Pubblica amministrazione. «Ci sono tanti modi - spiega l’economista - in cui un datore di lavoro può sottopagare i dipendenti. Alcuni illegali, a partire dal nero, oppure chiedendo ai dipendenti di lavorare ore extra non retribuite; oppure si possono sotto-inquadrare i lavoratori. Ma ci sono anche modi legali o quasi, come sostituire impiegati dipendenti con partite Iva. Oppure ancora firmando un accordo pirata con un sindacato poco rappresentativo».
Nel suo studio intitolato «The Dog That Barks Doesn’t Bite: Coverage and Compliance of Sectoral Minimum Wages in Italy» («Il cane che abbaia non morde: coperture e conformità dei salari minimi di settore in Italia»), Garnero scrive che le cause vanno ricercate, oltre che nella tipica attitudine italiana a uno scarso rispetto delle regole (nel confronto col resto d’Europa veniamo abbondantemente dopo anche i Paesi dell’Est), anche nel fatto che «le differenze in termini di sviluppo economico e costo della vita non sono prese in considerazione nel corso della contrattazione collettiva». In generale, poi, sottolinea, i minimi contrattuali sono alti. «È vero che abbiamo dei minimi non bassi rispetto a quelli europei, ma abbiamo anche bassi salari medi, a causa dei tanti part-time involontari e della tanta evasione», commenta Tania Sacchetti, segretaria nazionale Cgil con delega al mercato del lavoro. Perciò, sottolinea, «noi puntiamo all’innalzamento dei salari, perché molti restano sotto una soglia dignitosa». La questione, semmai, aggiunge, è che «bisogna rafforzare i controlli. Degli oltre 800 contratti nazionali censiti dal Cnel, il 44% è nato negli ultimi quattro anni e non è sottoscritto dalle organizzazioni maggiormente rappresentative. C’è una proliferazione di associazioni, bisogna dare efficacia generale ai contratti e ridurne il numero. Oggi è diventato una giungla».
IL MONDO DEI NEET.
La mancanza di ideali che impedisce la rivoluzione dei Neet, scrive Salvatore Carrubba il 21 luglio 2017 su “Il Sole 24 ore". "In Italia ci sono 2,2 milioni i giovani Neet (senza studio né lavoro), ma i giovani che svolgono attività precarie raggiungono livelli ancora più significativi. Infatti, non si può chiamare lavoro un’attività come quella di Paolo che ha ricevuto 200 euro dopo aver lavorato un mese come aiuto-cuoco in un ristorante, non è lavoro fare il bagnino per 4 euro all’ora come succede a Christian, né lavare ortaggi per 2 euro all’ora come accade a Matteo. Non c’è rappresentanza politica, sindacale e associativa per questi ragazzi che a forza di vivere flessibilmente hanno reso liquide le loro relazioni, i loro pensieri, le loro aspettative e speranze. Come racconta Luca: «Io sono sceso di livello, mi sono accontentato. Non posso farmi una casa tutta mia? Mi porto la tipa a casa, Non posso pagarmi le vacanze? Vado con i genitori della mia ragazza. Non posso uscire la sera? Vado nel bar degli amici dove non devo consumare». In mezzo a tutto questo restano ragionevoli, ponderati, misurati, e il fatto che l’ingiustizia subita non si trasforma in rancore e ribellione violenta è da considerare un fattore di successo, ma fino a quando durerà?" Fabrizio Floris
Il rapporto annuale sull’occupazione e sugli sviluppi sociali in Europa pubblicato pochi giorni fa dalla Commissione europea conferma le preoccupazioni del lettore (e non solo le sue) sui Neet, anche se la situazione, in tutta la Ue, appare in miglioramento. Il che aggrava il quadro italiano (che comunque mostra anch’esso qualche segnale positivo), soprattutto per le disparità territoriali che vi si manifestano: i dati dell’Istat, infatti, mettono in luce come la percentuale di giovani tra 15 e i 29 anni che non lavorano e non studiano varia dai minimi all’11,1% della provincia di Bolzano al massimo del 39,5% in Sicilia; nel Nord siamo al 17,4%; nel Sud e nelle Isole a circa il 35 per cento. Gli scarti territoriali e i segni di miglioramento (in Italia e in Europa) dimostrano che non sono necessariamente i tempi maledetti (una volta si sarebbe detto “il destino cinico e baro”) a far crescere fatalmente il fenomeno, ma un mix di fattori strutturali e di politiche sul quale si può e si deve intervenire, soprattutto alla luce della nuova rivoluzione industriale che di nuovo sconvolgerà, anzi sta sconvolgendo, il mercato del lavoro. In Italia, il dramma si chiama Mezzogiorno; perciò, nonostante i segni di miglioramento di cui abbiamo letto ieri a proposito dal check-up Confindustria-Srm, temi come la ripresa industriale, la disseminazione d’impresa, l’efficienza infrastrutturale, la formazione del capitale umano e la tutela dei diritti rimangono imprescindibili per fare in modo che il gap dei Neet si riduca. Queste dovrebbero essere le priorità; la politica invece, si esercita, con fervore trasversale, negli sforzi di depotenziare e annacquare la riforma Fornero delle pensioni, come se il nostro dramma fosse la condizione dei pensionati (e pensionandi), non quella dei giovani, in primis meridionali. Modificare le norme sull’età pensionabile e peggiorare in prospettiva le condizioni già difficili della finanza pubblica significherebbe infatti una cosa sola: ridurre drasticamente le chance, spesso già così problematiche, per i giovani. Qui torna utile l’ultima osservazione del lettore: come mai non scoppia la rivoluzione dei Neet, soprattutto quando essi si avvicinano a essere la metà della popolazione? Non vorrei che anch’essi fossero vittima dell’illusione che le pensioni di nonni e genitori siano la loro migliore polizza di sopravvivenza, da integrare quando serve con lavoretti in nero e sottopagati. Per scoppiare, le rivoluzioni hanno bisogno di ideali, oggi merce piuttosto rara: soprattutto quando il clima circostante induce alla rassegnazione e al fatalismo, al quale, fortunatamente, tanti giovani cercano di reagire investendo (spesso con successo) su se stessi.
Chi sono i NEET in Italia, gli under 30 senza lavoro, scrive Vincenzo Petraglia il 19 luglio 2017 su "Donna Moderna". Li chiamano Neet: sono i ragazzi che non studiano, non hanno un impiego e spesso non lo cercano neppure. Le ragioni? La crisi, certo. Ma anche la mancanza di fiducia in un Paese che li considera una merce da sfruttare, non una risorsa da valorizzare. Come raccontano 3 di loro. In Italia 7 giovani su 10 abitano ancora con la famiglia di origine, rivela l’Annuario 2017 dell’Istat. Sono 8,6 milioni di uomini e donne sotto i 35 anni che spesso vivono questa condizione non come una scelta, ma come una costrizione. La causa? La mancanza di un lavoro o di entrate sufficienti a garantire loro una casa propria. Fra questi ragazzi 2,2 milioni sono Neet: acronimo che sta per “Not in Education, Employment or Training” e indica i giovani nella fascia d’età 15-29 anni che non studiano, non hanno un impiego e non fanno formazione, spesso perché sfiduciati da una generalizzata mancanza di prospettive. Un’emergenza sociale che, seppure nel 2016 abbia fatto registrare un calo (l’incidenza sul totale dei giovani è passata al 24,3% dal 25,7% dell’anno precedente), rimane comunque un grosso ostacolo per la crescita del nostro Paese. L’Italia detiene la quota più elevata di under 30 inattivi all’interno dell’Unione europea (il 24,3% contro una media del 14%) ed è al secondo posto, dietro la Grecia, per disoccupazione giovanile (38,9%). Entrambi i dati, se si esclude una lieve frenata nella seconda parte del 2016, sono in crescita da 3 anni (fonte: Istat).
Il (semi) fallimento di Garanzia Giovani. Neppure strumenti come Garanzia Giovani, il programma lanciato nel 2014 e destinato proprio ai Neet, hanno fatto registrare risultati significativi. «Il vero problema» spiega Romano Benini, docente di Politiche del lavoro all’università La Sapienza di Roma, «è che tra il 2008 e il 2014 l’Italia ha disinvestito in servizi al lavoro, miglioramento delle competenze e affiancamento dei giovani. In Francia e Germania operano oltre 100.000 addetti all’orientamento, da noi appena 7.000. Una scelta che ha tolto ai figli per dare ai padri, preferendo gli ammortizzatori sociali all’investimento in politiche giovanili del lavoro in grado di accrescere le competenze dei ragazzi e renderli più appetibili sul mercato». Risultato: il nostro è un Paese dove la staffetta anagrafica e la mobilità sociale rimangono in molti casi una chimera.
Una questione di «egoismo generazionale». «L’ostacolo più grande resta l’egoismo generazionale» dice Michele Vaccari, autore del saggio Il tuo nemico (Sperling & Kupfer), dedicato ai giovani sfiduciati. «I ragazzi di oggi sono più istruiti e preparati dei propri padri, che occupano ancora quelle posizioni di potere cui avrebbero invece diritto i figli. Siamo pieni di baroni che non mollano le poltrone: non solo in politica, anche nelle università e nelle aziende. Perché, dunque, si dovrebbe puntare sul merito se spesso chi giudica non ha merito? Dipende anche da questo il forte scollamento dei giovani dal loro humus politico e sociale. E il nocciolo della questione non è solo la crisi, la mancanza di lavoro o l’indolenza dei ragazzi, quanto quel sistema consolidato che toglie la speranza di poter cambiare le cose e, con essa, l’autostima». Vite a metà, che non riescono a spiccare il volo in un mercato del lavoro che non di rado considera i giovani una merce da sfruttare e non una risorsa da valorizzare. Come dimostrano le storie che abbiamo raccolto in queste pagine, dove sono loro stessi a parlarci di sogni, paure, difficoltà.
Michele: «Sarò costretto a emigrare». Ha gli occhi vispi Michele Vista, quelli di un ragazzo vivace, sveglio. Abita a Pignola, un piccolo paese della Basilicata a 5 chilometri da Potenza. 34 anni, un diploma professionale da tecnico delle industrie elettroniche, è, come lo definirebbe la fredda statistica, un disoccupato di lunga durata. Suo malgrado e nonostante le premesse: dopo il diploma, un contratto a tempo determinato nel 2003 in un’azienda farmaceutica come addetto al confezionamento di sacche sanitarie, trasformatosi in posto fisso. Poi la crisi, la mancanza di commesse, la cassa integrazione, i tagli al personale, il licenziamento nel 2011 con l’impegno di essere riassorbito qualora la situazione fosse migliorata. Da quel momento Michele le ha provate tutte fino a quando, dopo una serie di porte sbattute in faccia e di false promesse, ha tirato un po’ i remi in barca. Ha fatto lavoretti saltuari, dal facchinaggio alle pompe funebri, mandato curricula e risposto ad annunci. «La migliore proposta ricevuta? Venditore porta a porta» osserva amaramente. Oggi spera che l’azienda per cui lavorava lo richiami, prima o poi. «Non è facile dover dipendere ancora da genitori, ma mi auguro sempre che qualcosa cambi, perché vorrei autonomia, una casa, una famiglia qui nella mia terra d’origine senza essere costretto a emigrare. Perché è un diritto poter lavorare e realizzarsi vicino ai propri affetti». Intanto, per mantenersi attivo, si è buttato a capofitto nel volontariato e con alcuni coetanei organizza eventi culturali in paese. «Il sociale, le persone, gli amici sono l’unico modo per non deprimersi e perdere l’interesse per le cose. Ho visto ragazzi abbattersi e smarrirsi per strada, ma nessuno lotta al posto tuo, per cui tanto vale rimboccarsi le maniche».
Diana: «Non chiedo la luna, ma una possibilità». Una serie di lavoretti sottopagati, perlopiù in nero, e tanta buona volontà, finora non premiata. Seppure sia giovanissima, Diana Fleli, 19enne di Treviglio (Bergamo), è battagliera. La sua voglia limpida di conquistare la propria autonomia fa quasi tenerezza. «Non chiediamo la luna, solo che ci sia data la possibilità di lavorare e dimostrare quanto valiamo. Io le sto provando tutte». Diana ha interrotto gli studi dopo la terza media, vive in famiglia e sogna di fare la barista. Per riuscirci avrebbe bisogno di un corso: ne aveva trovato uno gratis per non gravare sui genitori, ma ha dovuto rinunciare perché troppo lontano da casa. Qualche mese fa un tirocinio nell’assistenza agli anziani della Fondazione Cariplo NEETwork, rivolto agli iscritti a Garanzia Giovani, non ha avuto un seguito lavorativo. «Un’esperienza comunque formativa e grazie alla quale sono riuscita, almeno, a pagarmi la patente». Dopo, nulla se non qualche lavoretto come promoter o addetta alle pulizie. «È frustrante soprattutto quando ti imbatti nella mancanza di rispetto. È capitato che mi dicessero che mi avrebbero fatto sapere, ma poi nessuna risposta. Non lavorare, e osservare che agli altri non interessa nulla di te, ti fa sentire inutile».
Martina: «Ho mandato centinaia di c.v. invano». Esistono storie a lieto fine come quella di Martina Perrucci, 27enne di Napoli. Il web è la sua passione e grazie a un tirocinio nell’ambito del progetto “Crescere in digitale” di Google oggi ha un contratto a tempo indeterminato e si occupa di e-commerce e marketing digitale, mentre ha ripreso a studiare per laurearsi in Economia. «Sono stata fortunata ma anche determinata: ho tanti amici che si sono arresi dopo anni di delusioni, false promesse, stage che non ti lasciano niente. Non è facile, ci sono passata anch’io, ho mandato in giro centinaia di curricula senza ricevere risposta. Doversi adattare fa perdere autostima. Ma il conto non lo paghiamo solo noi, lo paga l’Italia in termini di innovazione e competitività nei confronti dei Paesi che lasciano più spazio alle nuove generazioni».
STUDIARE I CALL CENTER.
Studiare i call center in Calabria: la Cosenza Valley (a cura del Centro sociale Sparrow). Da Iacchite - 17 luglio 2017. Quando il ricatto si confonde con riscatto. Studiare i call center in Calabria. Il numero di operatori dei call center presenti in Calabria si aggira intorno alle 10.000 unità; stima, questa, approssimativa, visto l’elevato livello di turnover presente in questo settore. Il cuore principale – e l’area regionale originale – dei call center calabresi è Catanzaro, capitale amministrativa del lavoro in cuffia. Tuttavia, la città in cui il lavoro dei call center genera il maggior numero di profitti è Cosenza. Ad oggi, infatti, la Cosenza Valley risulta essere una vera e propria miniera d’oro per le ditte nazionali del settore, soprattutto per via del flusso di studenti-neo-laureati-precari che orbitano attorno all’Università degli studi della Calabria, situata sulla collina di Arcavacata di Rende. Attorno al centro cosentino e di Rende, più che altrove si trovano le condizioni ‘ideali’ per imporre contrattazioni atipiche in maniera totalmente selvaggia, pur di aumentare i profitti. Basti pensare che nell’ultimo periodo la scadenza media dei contratti di lavoro si è ulteriormente flessibilizzata e ristretta, riducendosi da 2 e mesi ad 1 settimana, con una conseguente diminuzione della retribuzione percepita per ogni ora lavorata. Quello che cercheremo di fare in questa breve e parziale analisi è proporre una serie di quesiti su cui avviare riflessioni situate e laboratori di studio, per comprendere la realtà oggetto di analisi critica e modificarla: come avviene che Cosenza si stia caratterizzando come un luogo di enorme concentrazione dei call center, anche rispetto al resto della superficie nazionale? Che cosa significa questo in termini di composizione sociale del precariato cognitivo e come si può pensare di agire nella dimensione politica e di conflitto, invisibilizzata e annientata attorno ai meccanismi di riproduzione delle attuali realtà dei call center calabresi? I punti proposti di seguito non hanno la pretesa di essere una bozza già compiuta di con ricerca ma, in ogni caso, essi esprimono un tentativo di narrazione prodotta da militanti politici che hanno incrociato il lavoro dei call center, sia per esperienze di vita (lavorandoci dentro) sia come soggettività che individuano in tale dimensione un potenziale piano di azione e di rivendicazione, in cui il conflitto è ancora quasi inesploso. Un punto di partenza: la composizione sociale del territorio. L’Unical e i suoi utenti: una “miniera umana”. Al fine di entrare nel merito dei quesiti proposti, è necessario porre lo sguardo sulla composizione sociale di quella che definiamo qui la Cosenza Valley, così come è stata denominata dai manager regionali e nazionali, identificando in questo modo il territorio intorno all’Università della Calabria e ai comuni di Rende, Cosenza e Montalto.
LA COSENZA VALLEY. Come ricorda Francesco Maria Pezzulli (in “La solitudine del telefonista”, il manifesto 05/07/2013) l’area tra le colline di Arcavacata di Rende e la città-provincia di Cosenza viene denominata Valley dal management dei call center, proprio in virtù della importante presenza di forza lavoro cognitivo, “immateriale”, a prezzi molto bassi. In questo senso, la tipologia di conurbazione, la struttura normativa predisposta dalle politiche regionali, nazionali ed europee, diventano cruciali su un territorio – la valley – che offre lavoro cognitivo a basso costo: tutto questo risponde perfettamente ad una domanda di lavoro che richiede massima flessibilità come quella attuale, e in particolare dei call center. In questa combinazione ‘viziosa’, i centri chiamate possono realizzare i loro profitti anche per via della quasi totale inesistenza di implicazioni giuridiche che possono derivare dal rapporto tra gli operatori e manager aziendali. In questo senso, anche nella valley cosentina dei call center, i profitti vengono fatti imponendo un regime disciplinare tra i lavoratori che impone di firmare un documento in cui si rinuncia a qualsiasi azione legale nei confronti dei titolari dell’impresa per cui si lavora. Questo è quanto emerge dal racconto di una ragazza di circa 30 anni, che lavora per un’azienda che si occupa di recupero crediti nella città di Cosenza. Da quanto ci ha detto, dei circa 86 operatori, tutti con un contratto a progetto annuale, in questa sede, nessuno si è rifiutato di firmare questo documento. L’altissima ricattabilità di questa forza lavoro fa sì che in un’altra azienda di call center, Almaviva, la valle cosentina rappresenti un posto dove investire, assumendo 250 unità, per, evidentemente, compensare con nuovi profitti le perdite generate dalla chiusura della sede di Roma, che ha comportato, invece, la Cassa Integrazione di 632 dipendenti. È evidente che la presenza dell’università caratterizza il nodo centrale intorno al quale si è costruita tutta la Cosenza Valley. Infatti, la presenza sul territorio di un elevato numero di giovani con alto livello di scolarizzazione, buone capacità relazionali e comunicative, ha consegnato ai manager dei call center, calabresi e non, una enorme quantità di forza lavoro cognitiva, estremante flessibile, ricattabile e poco incline al conflitto, tra le ragioni additabili si metta in evidenza il fatto che il lavoro nei call center rappresenti per molte e molti, la prima esperienza lavorativa o una fase transitoria; in generale, poi, l’alto livello di precarietà sul territorio e i meccanismi di competizione che si innestano di conseguenza, sono tra le ragioni funzionali tanto allo sviluppo del suddetto mercato quanto agli scarsi livelli di conflittualità registrati. Ciò sta rappresentando, praticamente, una miniera d’oro umana per tutto il settore del knowledge worker. Una più approfondita analisi circa i fattori che hanno concorso a creare questa enorme possibilità di profitto, oltre proprio a questa invisibilizzazione del conflitto e alla messa in opera di meccanismi di controllo interno ai call center che impongono una vera e propria disciplina di fabbrica tardo-capitalista.
Il dato numerico. L’ateneo cosentino risulta essere il più grande della Calabria e il terzo del meridione per numero di iscritti, contando attualmente circa 35.000 immatricolazioni; inoltre, a questi vanno aggiunti tutti quegli ex-studenti che permangono sul territorio, nella città-provincia, una volta terminati gli studi. fenomeno, questo, eterogeneo circa il panorama di soggetti coivolti ma in constante aumento. Infatti, a fronte della drastica riduzione degli sbocchi occupazionali prodotta dalla crisi la maggioranza, molto del precariato giovanile regionale prodotto dall’Unical, come azienda e insieme come luogo di formazione, o sceglie la strada della migrazione all’estero o al Nord Italia, oppure permane sul territorio cosentino andando così ad aumentare il numero di individui, idonei ad esseri inseriti all’interno del mercato del lavoro cognitivo precario. Nel boom dell’inbound e outbound telefonico tra vendite, servizi per le grandi aziende telefoniche, della cosmesi o di ogni tipo, assistenze tecniche di svariato genere e consumo, il business redditizio del recupero crediti; immerso tra programmi al computer e cuffie alle orecchie, un numero elevatissimo di studenti calabresi popola le postazioni nella Valley cosentina. Sia quando sono ancora studenti, per arrotondare la paga proveniente dalla rete familiare, sia subito dopo aver conseguito la laurea, lavorano nei centri di smistamento chiamate di ogni sorta del 2013. Nei call center non ci sono solo studenti o laureati, però l’ossatura della Cosenza Valley si regge in maniera predominante sul bacino di ‘utenti’ che orbitano attorno al baricentro economico dell’Università della Calabria: flotte di giovani che ogni anno aumentano e cambiano, permettendo la possibilità continua di turnover all’interno di queste aziende. Pur con qualche eccezione, negli ultimi dieci anni, l’industria dei call center calabresi ha avuto una crescita esponenziale, che non può non essere letta in maniera congiunta al fatto che sul territorio cosentino i lavoratori in questo settore hanno un’età compresa tra i 25 e i 35 anni, pur con le numerose eccezioni.
Studiare i call center in Calabria: l’Unical e il ri(s)catto occupazionale. Da Iacchite - 18 luglio 2017. Quando il ricatto si confonde con riscatto. Studiare i call center in Calabria, a cura del CENTRO SOCIALE SPARROW.
RIASSUNTO DELLA PUNTATA PRECEDENTE. Il numero di operatori dei call center presenti in Calabria si aggira intorno alle 10.000 unità; stima, questa, approssimativa, visto l’elevato livello di turnover presente in questo settore. Il cuore principale – e l’area regionale originale – dei call center calabresi è Catanzaro, capitale amministrativa del lavoro in cuffia. Tuttavia, la città in cui il lavoro dei call center genera il maggior numero di profitti è Cosenza. Ad oggi, infatti, la Cosenza Valley risulta essere una vera e propria miniera d’oro per le ditte nazionali del settore, soprattutto per via del flusso di studenti-neo-laureati-precari che orbitano attorno all’Università degli studi della Calabria, situata sulla collina di Arcavacata di Rende. Attorno al centro cosentino e di Rende, più che altrove si trovano le condizioni ‘ideali’ per imporre contrattazioni atipiche in maniera totalmente selvaggia, pur di aumentare i profitti. Come avviene che Cosenza si stia caratterizzando come un luogo di enorme concentrazione dei call center, anche rispetto al resto della superficie nazionale? Una delle chiavi di lettura più importanti è la presenza dell’Unical con i suoi 35mila studenti iscritti.
SECONDA PUNTATA. In un recente documentario intitolato “La storia che cambia”, su Rai Storia, dedicato all’Unical, è emerso uno spaccato confuso e grigio delle forme di vita che ruotano attorno a questa fabbrica di saperi: da diverse angolature e voci è emersa la relazione tra questa università e la proliferazione dei call center in quest’area, facendo riflettere su come l’una ingrossi l’altra e – in maniera forse meno visibile e diretta – viceversa. È stata messa in luce, inoltre, la figura dello studente-lavoratore contento e soddisfatto di percepire 2,50 lorde all’ora; tempo sottopagato e sottratto allo studio e allo sviluppo di altre capacità e competenze; tempo, impiegato a ripetere ritornelli – script – e réclame pubblicitari per aziende che si rivelano spesso essere nient’altro che imprese fantasma all’interno delle catene di appalti e subappalti che rendono operativo il settore. Come invisibile appare il conflitto tra il lavoratore-studente sottopagato e il capitalista, tanto che il giornalista che intervista lo studente-lavoratore chiede provocatoriamente e retoricamente all’intervistato malcapitato: “ma sei tu che parli, o è il call center che parla da dentro di te?”
La ri(s)cattabilità occupazionale. Con un tasso di disoccupazione giovanile reale che va ben oltre il 50%, ed un mercato del lavoro nel vortice della flessibilità, ma essenzialmente immobile, anche un impiego precario e sottopagato come quello all’interno del call center sembra essere una manna caduta dal cielo. In questo contesto, anche se i soldi sono pochi (il salario medio, dentro ad un call center outbound, non supera i 400 euro mensili), questa entrata rappresenta una emancipazione dal welfare familiare e una rottura, anche se minima, da una dipendenza che genera un senso di frustrazione generale, che accomuna lo studente-precario ai disoccupati e – mentre, per un verso, separa, per tanti altri unisce – i genitori ai figli, nella ‘scelta’ comune del male minore. Il ricatto occupazionale attorno a cui ruota la ‘fortuna’ dei call center, in particolare, nella Valley cosentina, diventa più stringente, subdolo e capace di invisibilizzare il conflitto, perché lo stesso ricatto occupazionale in molti casi non riesce ad essere individuato come tale, perché viene, piuttosto, ribaltato in riscatto sociale. In una regione dove i livelli di disoccupazione sono incalcolabili per l’informalità dell’economia, in cui i network familiari sono ancora al centro della dimensione individuale, soprattutto di giovani e studenti/esse, ottenere un contratto, anche se serve ‘essenzialmente’ a registrare una condizione di sfruttamento, significa riscatto dalla dimensione di dipendenza e subalternità famigliare, fuga dalla dimensione informale, forse individuata come dominata ancora dalla famiglia ed ingresso nel mondo ‘standard’ (fatto di stipendi a fine mese, mutui e debiti da contrarre e espiare, obbligazioni, realizzazioni, professionalizzazione, razionalizzazione, ecc. ecc.). Il call center nella Valley cosentina è anche questo una falsa emancipazione, un ricatto occupazionale mascherato in riscatto sociale, soprattutto per giovani e donne; questo, più incisivamente, se letto dentro la retorica del ‘fare un lavoro onesto al Sud’, a fronte del dominio del lavoro in ‘nero’, e quindi illegale di per sé. La realtà dei call center, in questo senso, sul territorio calabrese può aprire ad analisi molto profonde sulle forme di subalternità e di resistenza in questa regione, in chiave storica e critica. I centri chiamate, quindi, guardati dalla collina di Arcavacata, attraverso uno sguardo congiunto all’università e alla sua popolazione studentesca, pongono in evidenza come il modello di sviluppo/occupazione che si rincorre sia, per l’ennesima volta, deprimente, in particolar modo per i giovani calabresi: l’uscita dalla condizione ‘strutturale’ di subalternità tramite un’occupazione precaria e sottopagata.
La percezione del lavoro dei call center come “lavoro momentaneo”. Anche se in maniera meno incisiva che in passato, l’idea di istruzione universitaria come ascensore sociale risulta essere ancora molto presente. Nella Cosenza Valley, questa logica risulta essere dominante, il lavoro nei call center viene considerato da molti una parentesi occupazionale transitoria: una buona occasione di lavoro utile a contribuire a pagare le spese degli studi (tasse, trasporti, vitto e affitto). Il numero elevato e il ricambio continuo di soggetti che si rivolgono ai call center come lavoro di passaggio, determinano le maggiori possibilità per questo settore sul territorio di Cosenza di imporre condizioni contrattuali flessibilissime e turnover elevatissimi. Ciò induce a considerare come questo quadro possa determinare, almeno in parte, l’invisibilizzazione del conflitto, seppur in condizioni di sfruttamento. Alla luce di quanto messo in evidenza, risulta chiara la ragione per cui un ricatto occupazionale venga interpretato come un riscatto sociale da parte delle soggettività citate, nella fattispecie lo studente calabrese ancora fortemente dipendente dal network familiare. Individuare quel posto di lavoro come strumento di riscatto momentaneo per conseguire la laurea e/o per (darsi i mezzi materiali per permettersi di cercare e)‘trovare’ un impiego migliore, spiega in parte il disimpegno, l’indisponibilità, ad avviare anche minime battaglie di carattere vertenziale: nessuno ha intenzione di lottare e di mettersi in discussione per modificare qualcosa che vede come transitorio e distante anni luce da quello è l’immaginario della propria vita.
I fondi europei e la legge n. 488. La pioggia di finanziamenti che l’Unione europea ha elargito in Calabria nel periodo in cui la regione era considerata “obiettivo 1” e la legge n. 488 sul finanziamento delle imprese meridionali, sono stati i principali volani economici per la nascita dei call center su tutto il territorio regionale. Il rischio di impresa ridotto al minimo, la totale complicità dei sindacati confederali nell’annullare qualsiasi forma di rivendicazione sindacale sui contratti che si sarebbero andati a stipulare, e la possibilità da parte del ceto politico di creare nuovi bacini di clientela, hanno fatto sì che molte delle imprese presenti sul territorio nazionale, sul finire degli anni 90 e i primi anni del 2000 delocalizzassero le attività produttive del nord Italia (principalmente quelle che insistevano sul territorio milanese) in Calabria. Delocalizzare per intercettare soprattutto le soggettività introdotte sopra: manodopera altamente scolarizzata ma a bassissimo costo, capacità di imporre contratti precari e condizioni di piena flessibilità.
Studiare i call center in Calabria: il caso Phonemedia e la rassegnazione. Da Iacchite - 19 luglio 2017. Quando il ricatto si confonde con riscatto. Studiare i call center in Calabria, a cura del CENTRO SOCIALE SPARROW.
RIASSUNTO DELLE PUNTATE PRECEDENTI. Il numero di operatori dei call center presenti in Calabria si aggira intorno alle 10.000 unità; stima, questa, approssimativa, visto l’elevato livello di turnover presente in questo settore. Il cuore principale – e l’area regionale originale – dei call center calabresi è Catanzaro, capitale amministrativa del lavoro in cuffia. Tuttavia, la città in cui il lavoro dei call center genera il maggior numero di profitti è Cosenza. Ad oggi, infatti, la Cosenza Valley risulta essere una vera e propria miniera d’oro per le ditte nazionali del settore, soprattutto per via del flusso di studenti-neo-laureati-precari che orbitano attorno all’Università degli studi della Calabria, situata sulla collina di Arcavacata di Rende. Attorno al centro cosentino e di Rende, più che altrove si trovano le condizioni ‘ideali’ per imporre contrattazioni atipiche in maniera totalmente selvaggia, pur di aumentare i profitti. Come avviene che Cosenza si stia caratterizzando come un luogo di enorme concentrazione dei call center, anche rispetto al resto della superficie nazionale? Una delle chiavi di lettura più importanti è la presenza dell’Unical con i suoi 35mila studenti iscritti. La parola d’ordine sarebbe riscatto sociale ma in realtà si tratta solo e soltanto di un ricatto occupazionale, realizzato ovviamente attraverso la solita retorica: sottosviluppo- aiuti-finanziamenti pubblici.
Invisibilizzazione più che assenza di conflitto: il caso del call Center Phonemedia di Catanzaro. La vertenza Phonemedia di Catanzaro risulta essere sul piano nazionale (insieme all’esperienza del call center Atesia di Roma) tra le pochissime esperienze di lotta radicale che ha prodotto una lunga occupazione del luogo di lavoro, riuscendo di, fatto a “bloccare la fabbrica”. Parlare di tale esperienza ci permette di indagare più da vicino quali siano le ragioni, i bisogni e le modalità di conflitto che permettono alla lotta sia di espandersi che di generare mutamento e miglioramento di condizioni di lavoro e di vita. Al fine di proporre una riflessione più approfondita, è necessario sgombrare il campo da un errore analitico: questa lotta non è stata condotta in nome della “difesa del lavoro” né è stata individuata come lotta contro le “condizioni di sfruttamento”, bensì è stata una sacrosanta battaglia per il reddito sganciato dal lavoro! È questo quello che salta di più agli occhi, se si produce una analisi postuma della vicenda ed è questa la chiave che consente di identificare quella lotta come vincente, seppur si conclude con il risultato della cassa integrativa per tre anni per la maggioranza, neanche tutti, gli ex-operatori di quel call center. Inoltre, può essere utile chiarire che la parola d’ordine “reddito”, così come è declinata dalle diverse soggettività militanti, non è entrata direttamente nel lessico rivendicativo dei soggetti in conflitto; tuttavia, la lotta che autonomamente hanno prodotto è stata senza dubbio mirata al conseguimento di denaro più che a riavere il posto di lavoro. La battaglia degli operatori calabresi è iniziata nel gennaio 2010 quando, dopo mesi di arretrato nei pagamenti, questi hanno deciso di occupare il call center, pretendendo le mensilità in ritardo. Neanche un mese dopo, l’azienda, nata a Sud con i soldi della legge n. 488, dichiarerà fallimento, licenziando 1500 operatori nella sola Catanzaro e 5200 in tutt’Italia. Mentre sul piano nazionale stentano a partire gli ammortizzatori sociali, in Calabria grazie alla radicalità espressa nel conflitto e grazie all’uso che i lavoratori hanno fatto del sindacato, costringendolo alla lotta, la Regione si fa garante con il governo e gli ammortizzatori sociali vengono immediatamente erogati. La lotta condotta durante i 4 mesi di occupazione del call center pone subito al centro la questione del reddito, nessuno dei lavoratori, infatti, è disposto a chiedere una reintegrazione sul posto di lavoro e i sindacati sono costretti, loro malgrado, ad agire su questo piano rivendicativo, nonostante politicamente contrari. Va anche sottolineato come siano stati gli stessi operatori a dettare i termini e i tempi del conflitto, producendo manifestazioni non autorizzate e ripetuti blocchi del traffico in tutto il territorio di Catanzaro. Se, da un lato, si analizza il livello di radicalità che si è espresso nella lotta e, dall’altro, la rapidità con la quale la stessa è andata in riflusso, si può giungere alla conclusione che la vera partita per chi era coinvolto in prima persona non è mai stata quella di difendere un posto di lavoro detestato e sotto pagato, bensì quella di ottenere 3 anni di salario garantito e scappare via il prima possibile dal call center.
Vertenzialità sindacale. Nonostante l’internità che molti militanti hanno dentro tale situazione lavorativa, non si è mai riusciti a produrre esperienze significative di lotta all’interno della Cosenza Valley. Spesso, anche minime battaglie di carattere vertenziale hanno trovato un netto rifiuto e totale indisponibilità da parte dei lavoratori, dimostrando come il classico approccio di carattere sindacale non riesca in nessun modo a produrre una minima disponibilità alla lotta. I fattori che abbiamo esposto finora hanno di fatto pacificato quella che, in ogni caso, risulta essere attualmente una vera propria polveriera sociale pronta ad esplodere. Infatti se si ascoltano le voci che si intrecciano all’interno delle pause caffè, nei micro istanti che passano tra una telefonata e all’altra o all’uscita dei turni, ci si rende conte della presenza di una cospirazione invisibile costante contro la dirigenza, i team leader o chiunque altro venga percepito come parte della governance aziendale. Sembra evidente a chi ci lavora all’interno che tale malcontento e destinato a distruggere queste fabbriche tardocapitaliste, anche se, spesso, al meccanismo della lotta e della resistenza si preferisce quello dell’esodo.
Il reddito come strumento di rottura e ricomposizione. La produzione di conflitto intorno alla questione dal reddito, declinato come riappropriazione di case, di mobilità, di welfare, sottratto nell’indisponibilità attuale del ripianamento dal debito, unito ad una profonda lotta, capace di sottrare reddito diretto alla finanziarizzazione, risulta essere ad oggi, il piano politico su cui agire una ricomposizione capace di tenere insieme sia tutti i microcosmi che gravitano intorno al knowledge work sia tutti quei settori del proletariato (spesso migrante) impiegato nelle forme più tradizionali di lavoro. Per sgombrare il campo da qualsiasi ipotesi riformista (anche se radicale), le battute conclusive sono presentate come spunti di avvio di nuove analisi concernenti i punti finora sollecitati. Ribadiamo che il reddito, in quanto vertenza, non può che essere concepito solamente come un fine transitorio, una parte della lotta che ponga in essere le condizioni per riconoscere, rifiutare e porre resistenza davanti a qualsiasi regalia, di stampo caritatevole e paternalistico, che possa provenire dall’attuale governance europea e nazionale della crisi e dell’emergenza. Non vogliamo briciole per alleviare la miseria, per sedare il conflitto e il dissenso sociale attuale, calate dall’alto di qualche istituzione. In questo passaggio, con la messa in gioco di singolarità, non più intenzionate a delegare, è possibile la produzione, dentro e oltre le dinamiche di ricomposizione sociale, di meccanismi capaci di rompere quell’auto-narrarsi di un meridione “sottosviluppato”, utile soltanto a garantire forme di colonialismo tardo-moderno.
LA MAFIA DELLE RACCOMANDAZIONI. MARTONE, LE VITTIME, SFIGATI A PRESCINDERE.
Una generazione a perdere. «Possiamo anche passar oltre al fatto che ancora oggi vi siano leggi fasciste a regolare la nostra vita ed ai catto-comunisti vincitori della guerra civile dell'altro millennio questo va bene, ma il grado di civiltà di una nazione si misura in base al livello di uguaglianza che viene riconosciuto ai suoi cittadini. Ed in Italia quel livello è infimo. Eppure la Costituzione lo prevede all’art. 3. Ma tra liste bloccate per amici e parenti e boutade elettorali, ogni nuova tornata elettorale, come sempre, non promette niente di nuovo: ergo, niente di buono. I vecchi tromboni, nelle idee più che nell’età, minacciano il nostro futuro - dice il dr Antonio Giangrande, scrittore dissidente e presidente dell'Associazione Contro Tutte le Mafie. - Noi siamo figli di una generazione a perdere: senza passato, senza presente e, cosa più grave, senza futuro. Questa non è una notizia di cronaca, ma cronaca lo è. Chi scrive è definito intellettuale. Si scrive, per quanto mi riguarda, forse, perché non si ha di meglio da fare dopo una vita in cerca di lavoro e di partecipazione a concorsi pubblici truccati. Però una cosa la devo scrivere. Credo che sia tempo di dire basta con questi politicanti. Questi i problemi li creano, non li risolvono. Non si dia a loro visibilità e si parli, piuttosto, dei veri problemi della gente da lor signori causati. Gente in carcere o morta di fame. Eravamo ragazzi e ci dicevano: “Studiate, sennò non sarete nessuno nella vita”. Studiammo con i sacrifici nostri e dei nostri genitori. Dopo aver studiato ci dissero: “Ma non lo sapete che la laurea non serve più a niente? Avreste fatto meglio ad imparare un mestiere od a fare i commercianti!”. Imparammo il mestiere o diventammo commercianti. Dopo ci dissero: “Che peccato però, tutto quello studio per finire a fare un mestiere o ad aprire una bottega?”. Ci convinsero e lasciammo perdere, anche perché le tasse erano troppe ed alte e la burocrazia inefficiente ed oppressiva. Quando lasciammo perdere, rimanemmo senza soldi, a campare con le pensioni dei genitori. Poi diventammo disperati, senza futuro e con genitori senza pensione. Prima eravamo troppo giovani e senza esperienza. Dopo pochissimo tempo eravamo già troppo vecchi, con troppa esperienza e troppi titoli, con pochi posti di lavoro occupati da gente incapace, figli di una cultura corrotta. Non facemmo figli - per senso di responsabilità - e crescemmo. Così ci dissero, dall’alto dei loro concorsi truccati vinti o lavori trovati facilmente negli anni ’60, con uno straccio di diploma o la licenza media, quando si vinceva facile davvero: “Siete dei bamboccioni, non volete crescere e mettere su famiglia”. E intanto pagavamo le loro pensioni, mentre dicevamo per sempre addio alle nostre. Ci sposammo e facemmo dei figli per dare una discendenza ad una nazione fiera dei suoi trascorsi e ci dissero: “Ma come, senza una sicurezza nè un lavoro con un contratto sicuro fate i figli? Siete degli irresponsabili”. A quel punto non potevamo mica ucciderli. Così emigrammo. Andammo altrove, alla ricerca di un angolo sicuro nel mondo, lo trovammo, ci sentimmo bene. Ci sentimmo finalmente realizzati, ma a piangere la terra natia ed a maledire chi la governava ed anche chi li votava. Diventammo vecchi senza conoscere la felicità. Ma un giorno, quando meno ce lo aspettavamo, per il magna magna dei pochi il “Sistema Italia” fallì e tutti si ritrovarono col culo per terra. Allora ci dissero: “Ma perchè non avete fatto nulla per impedirlo?”. A quel punto non potemmo che rispondere: “Andatevene tutti affanculo, voi, la vostra claque in Parlamento ed i giornalisti foraggiati che vi danno spazio sui loro giornali e vi invitano in tv a dir cazzate!”.»
Siamo un Paese di figli e figliastri, scrive Michele Ainis su “L’Espresso”. Giustissimo prendersela con gli scandali della politica. Ma il problema è che l'Italia è divisa in due: chi è privilegiato (per conoscenze, relazioni familiari, corporazioni etc) e chi invece è abbandonato a se stesso. Scandali, sprechi, sciali. E privilegi di stampo feudale, come no. Dei politici, della loro dolce vita, ne abbiamo gli occhi pieni. E continuiamo a sgranarli ogni mattina, basta aprire un quotidiano. C'è un rischio però, anche se a enunciarlo rischi a tua volta i pomodori. Il rischio di trasformare le malefatte di Lusi o di Fiorito in un lavacro collettivo, che monda ogni peccato. I nostri, non i loro. Perché non è vero che da un lato c'è la casta, dall'altro la società dei casti. Non è vero che il furto di denaro pubblico avvenga unicamente per mano dei partiti: ce lo dicono i numeri dell'elusione fiscale, del lavoro nero, degli abusi edilizi. E soprattutto non è vero che i privilegiati siano soltanto loro. Nell'Italia delle corporazioni ormai lo siamo tutti. LE PROVE? Cominciamo dalla pappatoia delle regioni, dove i consiglieri pappano a spese dell'erario. Ma il personale burocratico non sta certo a digiuno. In Trentino i dirigenti ottengono mutui a tasso zero. In Emilia vanno in bus con uno sconto dell'85 per cento sul biglietto. In Sicilia hanno diritto a un sussidio per il matrimonio, alla colonia estiva per i figli, perfino al contributo per le pompe funebri. Senza dire dei benefit che toccano in sorte ai dipendenti delle assemblee parlamentari: quelli del Senato intascano pure la sedicesima, alla Camera uno stenografo può guadagnare più del capo dello Stato (259 mila euro lordi l'anno contro 239 mila). E gli altri? Ce n'è per tutti, anche per chi timbra il cartellino fuori dal Palazzo. I bancari lasciano il posto in eredità alla prole (almeno il 20 per cento del turnover nelle banche si svolge attraverso una staffetta tra padri e figli). Le mogli dei ferrovieri salgono in treno gratis. Gli assicuratori ci infliggono le polizze più salate d'Europa (il premio Rc auto costa il doppio rispetto alla Francia e alla Germania). I sindacalisti vengono esentati dai contributi pensionistici. I tassisti si proteggono con il numero chiuso. Al pari dei farmacisti e dei notai, che oltretutto sono creature anfibie: funzione pubblica, guadagni privati (il sigillo notarile vale 327 mila euro l'anno). Come i medici ospedalieri, ai quali s'applica l'intra moenia extramuraria: un pasticcio semantico, prima che giuridico. In pratica, devolvono il 6,5 per cento del loro fatturato all'ospedale e vanno ad operare nelle cliniche di lusso. D'altronde ciascuno ha il proprio lusso, e se lo tiene stretto. Ai dipendenti della Siae tocca un'"indennità di penna". Ai servizi segreti un' "indennità di silenzio". Agli avvocati dello Stato una "propina" (55 milioni nel 2011). I diplomatici all'estero incassano uno stipendio doppio. Come i giudici amministrativi distaccati presso i ministeri (in media 300 mila euro l'anno). I professori universitari hanno diritto alla vacanza permanente (l'impegno annuale è di 350 ore). I giornalisti entrano nei musei senza pagare. Chi è impiegato all'Enel fruisce d'uno sconto sulla bolletta della luce. I docenti di religione hanno una busta paga più pesante rispetto a chi insegna geografia. E c'è poi il santuario degli ordini professionali, lascito imperituro del fascismo. C'è una barriera all'accesso che protegge avvocati, architetti, commercialisti, veterinari, ingegneri. C'è il mantello dell'indipendenza che si traduce in irresponsabilità per i pm (le sanzioni disciplinari colpiscono lo 0,3 per cento della categoria). C'è una selva di privilegi processuali in favore delle banche (possono chiedere un decreto ingiuntivo in base al solo estratto conto), di privilegi fiscali per i petrolieri (pagano royalty del 4 per cento contro l'80 in Norvegia o in Russia). C'è la mammella degli aiuti di Stato (30 miliardi l'anno), da cui succhiano le imprese siderurgiche non meno di quelle cinematografiche (1,5 milioni a "L'allenatore nel pallone 2"). Sì, è esattamente questa la nostra condizione. Siamo un popolo di privilegiati e discriminati, di figli e figliastri. Senza eguaglianza, senza giustizia, senza libertà. E non basterà il faccione di Fiorito, non basterà quest'esorcismo collettivo che stiamo intonando a squarciagola, a farci ritrovare l'innocenza.
CERVELLI IN FUGA.
Poletti, il calcetto e tutte le gaffe su giovani e lavoro. Dai "bamboccioni" di Padoa Schioppa alla monotonia del posto fisso di Monti. Oltre Poletti, tutti i politici che sono scivolati sui giovani e il loro futuro, scrive Maria Franco il 29 marzo 2017 su "Panorama". Questa volta non si è trattato di un congiuntivo sbagliato, di un errore di geografia, di una citazione erroneamente attribuita e nemmeno di sviste sulla Costituzione. A scatenare la polemica che ha investito il ministro del Lavoro Giuliano Poletti è stata infatti una frase espressa in italiano corretto, secondo molti anche onesta nel contenuto ma per tutti tragicamente inopportuna.
Il calcetto. Incontrando gli studenti dell'istituto tecnico professionale Manfredi-Tanari di Bologna, Poletti ha infatti suggerito loro di coltivare il più possibile le relazioni sociali. Nulla di male se non avesse anche aggiunto che per trovare lavoro è “più utile giocare a calcetto che mandare in giro curricula”. Molte ricerche gli danno ragione: secondo i dati Isfol solo il 3% trova lavoro attraverso i centri per l'impiego mentre “l’Italia continua ad essere un paese – ha dichiarato il Commissario straordinario dell'ente pubblico di ricerca Stefano Sacchi - dove per trovare lavoro conta moltissimo la rete di conoscenze che un individuo può mettere in campo”. Eppure il ministro è stato travolto da critiche e attacchi e le opposizioni, Lega e Movimento 5 Stelle in testa, ne hanno chiesto le dimissioni.
I cervelli in fuga. D'altra parte il ministro del Lavoro non è nuovo a questo tipo di esternazioni scivolose. Qualche mese fa, a colloquio con dei giornalisti in difesa del Jobs Act, Poletti usò frasi piuttosto sprezzanti nei confronti di chi decide di lasciare l'Italia per cercare miglior fortuna all'Estero: “conosco gente che è andata via e che è bene che stia dove è andata, perché sicuramente questo Paese non soffrirà a non averli più fra i piedi”. Anche allora il ministro tentò di correggere il tiro e si scusò: “non mi sono mai sognato di pensare che è un bene per l'Italia il fatto che dei giovani se ne vadano all'estero. Penso, semplicemente, che non è giusto affermare che a lasciare il nostro Paese siano i migliori e che, di conseguenza, tutti gli altri che rimangono hanno meno competenze e qualità degli altri”. Un'altra polemica risale a circa un anno fa quando sempre Poletti dichiarò che “prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21”.
Fornero e i giovani “choosy”. Tra i ministri meno amati nella storia della Repubblica italiana, Elsa Fornero viene ancora oggi ricordata come la professoressa che ha sbagliato i conti sui cosiddetti “esodati” e che ha dato dei “choosy” (schizzinosi) ai giovani che non si accontentano di ciò che gli viene offerto quando si affacciano al mondo del lavoro. Per esattezza ciò che allora fece la ministra fu elargire loro il consiglio di “non essere troppo choosy, come dicono gli inglesi”. Ricordando ciò che ella era solita dire sempre ai suoi studenti, Fornero suggeriva che fosse opportuno prendere subito il primo lavoro che capitava per poi “da dentro” guardarsi intorno. Anche in questo caso sarebbe ipocrita negare che il 99% dei genitori italiani suggeriscano la stessa cosa ai loro figli. Ma da un ministro del Lavoro i giovani italiani si aspettano non consigli bensì soluzioni che li sottraggano a un futuro da precari a tempo indeterminato.
Monti e il posto fisso. Certo è che dentro il governo Monti, di cui Fornero ha fatto parte, il posto fisso non ha mai goduto di un particolare favore. “Che noia” dichiarò infatti l'allora premier Mario Monti a Matrix. “I giovani devono abituarsi all'idea che non avranno un posto fisso per tutta la vita. Del resto, diciamo la verità, che monotonia un posto fisso per tutta la vita. È più bello cambiare”. Peccato che in un Paese dove, secondo dati Istat, la disoccupazione giovanile si attestava a gennaio al 40,6%, il problema non è più nemmeno quello di trovare un posto fisso ma di trovarne uno qualsiasi.
Anna Maria Cancellieri e i mammoni. Quasi che denigrare i giovani fosse diventata l'ossessione di molti dei membri del governo Monti, anche l'allora ministro dell'Interno Anna Maria Cancellieri non si fece scappare l'occasione di lanciare la propria personale bombetta. Intervistata da Tgcom24, la ministra che fu costretta a dimettersi quando da Guardasigilli del governo Letta fu coinvolta nel caso Ligresti, in una sola frase Cancellieri rievocò la celebre etichetta di “bamboccioni” appiccicata addosso ai giovani dal Padoa Schioppa e ribadì il giudizio espresso da Monti sul posto fisso: “Siamo fermi al posto fisso nella stessa città – disse infatti – di fianco a mamma e papà...”.
Martone e gli sfigati. Sui giovani, il lavoro e il loro futuro anche l'allora viceministro al Welfare (sempre del governo Monti) volle consegnare alle cronache una perla di presunta saggezza ma di dubbia opportunità. Alla sua prima uscita pubblica, un convegno sull'apprendistato organizzato dalla Regione Lazio, Michel Martone bollò infatti come uno “sfigato” chi a 28 anni ancora non è riuscito a mettersi una laurea in tasca. “Dobbiamo dire ai nostri giovani - disse il vice della Fornero - che se a 28 anni non sei ancora laureato sei uno sfigato, se decidi di fare un istituto tecnico professionale sei bravo. Essere secchione è bello, almeno hai fatto qualcosa”. Anche in questo caso il consiglio dall'alto, paternalistico e secchione, di un “giovane” particolarmente fortunato, fu respinto al mittente con profluvio annesso di infuocate polemiche.
Padoa Schioppa e i bamboccioni. A conquistarsi il titolo di “madre di tutte le gaffe” fu quella scappata allo scomparso ministro dell'Economia nel secondo governo Prodi Tommaso Padoa Schioppa. Nel presentare la finanziaria del 2007, l'allora titolare di via XX Settembre disse infatti che le misure a favore delle famiglie sarebbero servite anche “a mandare i 'bamboccioni' fuori di casa". Cioé incentivare l'uscita di casa da parte dei giovani che adesso restano fino a età inverosimili con i genitori. Non crescono mai, non si sposano, non si rendono autonomi”. Ma quanti sono quelli che non si rendono autonomi per scelta? Una domanda che evidentemente il ministro non si pose o che non ritenne opportuno porsi per evitare di essere in futuro ricordato solo per questo episodio nonostante una prestigiosa e lunga carriera ai vertici sia della Commissione europea che della Banca d'Italia.
Brunetta e l'Italia peggiore. Anche perdere la pazienza in pubblico può giocare brutti scherzi a chi fa politica. È successo per esempio al capogruppo di Forza Italia Renato Brunetta all'epoca in cui era ministro della Funzione Pubblica. Al termine del suo intervento a un convegno sull'innovazione, un gruppo di precari chiede di prendere la parola. Il ministro chiamò sul palco due donne (precarie dell'agenzia tecnica del ministero del Lavoro) e appena quelle pronunciarono la parola “precarie”, Brunetta scese dal palco pronunciando uno stizzito “siete l'Italia peggiore”.
Poletti, Padoa-Schioppa, Berlusconi: dieci anni di battute contro i giovani precari. "Meglio il calcetto del curriculum" è stato solo l'ultimo sfottò di una lunga serie di uscite governative. Da Donne sposate mio figlio! agli sfigati senza ancora una laurea, scrive Wil Nonleggerlo il 28 marzo 2017 su "L'Espresso". Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti "Sfigati", "poco occupabili", "bamboccioni", "choosy"”. Insomma, "l'Italia peggiore". Dieci anni di crisi economica, dieci anni di battutine, sfottò, consigli imbarazzanti per studenti, precari e mondo del lavoro in generale. Ecco la risposta governativa ad una disoccupazione giovanile che veleggia stabile sul 40%, tra le più alte dell'Eurozona. L'ultimo caso riguarda il ministro del Lavoro Poletti: inviare curricula? Meglio il calcetto, crea più opportunità. Scivoloni di questo tipo non riguardano ovviamente solo i governi Renzi-Gentiloni, partono da Padoa-Schioppa e attraversano 10 anni di esecutivi, politici e tecnici. Li abbiamo raccolti per voi.
- Meglio il calcetto dei curricula (Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti agli studenti dell'istituto tecnico professionale Manfredi-Tanari di Bologna - 27 marzo 2017): Nella ricerca di un lavoro "il rapporto di fiducia è un tema sempre più essenziale", si creano più opportunità "a giocare a calcetto che a mandare in giro i curricula".
- Dopo lo scoppio delle polemiche il ministro Poletti prova a spiegare meglio il concetto (28 marzo 2017): "Critiche? È una stupidaggine sintetizzare in una riga due ore di dialogo con i ragazzi. Il calcetto, se volete, è la metafora della relazione sociale".
- Fuori dai piedi (Il ministro Poletti a colloquio con i giornalisti a Fano - 19 dicembre 2016): "Bene così: se 100mila giovani sono andati via non vuol dire che qui siano rimasti 60 milioni di pistola. Quelli che se ne sono andati è bene che stiano dove sono, il Paese non soffrirà sicuramente nel non averli più tra i piedi".
- Consigli per la laurea (Il ministro Poletti - non laureato - durante la convention di Veronafiere "Job&Orienta" - 26 novembre 2015): "Prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21".
- Italiani poco occupabili (Enrico Giovannini, ministro del Lavoro nel governo Letta - 9 ottobre 2013): "L'Italia esce con le ossa rotte dai dati dell'Ocse diffusi ieri: dati che ci mostrano come gli italiani siano poco 'occupabili', perché molti di loro non hanno le conoscenze minime per vivere nel mondo in cui viviamo e non costituiscono capitale umano su cui investire per il futuro".
- Choosy (Elsa Fornero, ministro del Lavoro del governo Monti, durante un convegno a Milano - 22 ottobre 2012): "I giovani escono dalla scuola e devono trovare un'occupazione. Devono anche non essere troppo choosy, come dicono gli inglesi".
- Sfigati (Michel Martone, viceministro del Lavoro del governo Monti, alla sua prima uscita pubblica, in un convegno sull’apprendistato organizzato dalla Regione Lazio - 24 gennaio 2012): "Dobbiamo iniziare a far passare messaggi culturali nuovi, dobbiamo dire ai nostri giovani che se non sei ancora laureato a 28 anni, sei uno sfigato".
- Precari, siete l'Italia peggiore! (Renato Brunetta, ministro per la Funzione Pubblica del governo Berlusconi, risponde così ad un gruppo di precari durante la terza edizione della “Giornata Nazionale dell’Innovazione” - 14 giugno 2011): Il ministro invita due donne che chiedono di fare una domanda sul palco, ma non appena pronunciano la parola "precari" Brunetta perde completamente la pazienza: "Grazie, arrivederci. Questa è la peggiore Italia!". Uscendo dalla sala strapperà pure il cartellone dei manifestanti.
- La ricetta di Berlusconi contro la precarietà: donne, sposate mio figlio! (L'allora premier risponde ad una studentessa che nel corso della rubrica del Tg2 Punto di vista gli chiede come sia possibile, per una giovane coppia, farsi una famiglia senza un lavoro stabile - 13 marzo 2008): "Intanto bisognerebbe che in questa giovane coppia - ed è un consiglio che da padre mi permetto di dare a lei - dovrebbe cercarsi magari il figlio di Berlusconi o di qualcun altro... Lei col sorriso che ha potrebbe anche permetterselo!".
- I bamboccioni (Tommaso Padoa-Schioppa, ministro delle Finanze del governo Prodi, promuovendo agevolazioni all'affitto per i più giovani - 6 ottobre 2007): "Mandiamo i bamboccioni fuori casa!".
“Sfigati”, disse il dottor Michel Martone, viceministro per un quarto di stagione. “Bamboccioni”, disse il ministro Tommaso Padoa Schioppa. “Choosy”, schifiltosi e pigri, così il ministro Elsa Fornero. “Giovani in fuga? Conosco gente che è meglio non averla tra i piedi”, dice il ministro Giuliano Poletti in carica al dicastero del Lavoro. In principio fu Tommaso Padoa Schioppa. Nel 2007 l'allora ministro dell'Economia, scomparso nel 2010, definì "bamboccioni" i giovani italiani. "Mandiamoli fuori di casa", disse all'epoca. E giù polemiche, con l'Italia spaccata tra bamboccioni sì e bamboccioni no. Da allora è stato un susseguirsi di sparate sui ragazzi del Belpaese. Fornero, Martone, Giovannini e il 26 novembre 2015 Giuliano Poletti secondo cui una laurea presa a 28 anni con 110 e lode non serve a un fico.
Basta! Ora siamo pure incompetenti. Da Padoa-Schioppa a Fornero, da Martone a Giovannini: i ministri se la prendono sempre con gli italiani in difficoltà. Bamboccioni, choosy e chi ne ha più ne metta. Ma perché non si guardano allo specchio? 9 ottobre 2013 da Libero quotidiano. Dopo “choosy”, “scansafatiche” e “bamboccioni”, ora gli italiani sono pure “incompetenti”. Il ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, dopo sei mesi a palazzo Chigi centra subito l’obiettivo: farsi odiare da chi lavora e soprattutto da chi un lavoro non ce l’ha. Intervenendo a un convengo sul Senato sui 10 anni della legge Biagi, Giovannini afferma: “L’Italia esce con le ossa rotte dai dati dell’Ocse diffusi ieri: dati che ci mostrano come gli italiani siano poco occupabili, perché molti di loro non hanno le conoscenze minime per vivere nel mondo in cui viviamo e non costituiscono capitale umano su cui investire per il futuro”. Affermazioni pesanti di per sé, ancora di più se a pronunciare è il ministro del Lavoro”. Ma il ministro non fa marcia indietro: “Quelle cifre – ha aggiunto – ci mostrano quanto siamo indietro in termini di capitale umano e di occupabilità. La responsabilità di questa situazione – ha concluso – è di tutti”. Il dato di ieri dell’organizzazione mostrava come l’Italia sia tra gli ultimi posti al mondo per le competenze fondamentali necessarie a muoversi nel mondo del lavoro e della vita sociale. Ma quei dati di certo non sono il passaporto per poter definire gli italiani come “incompetenti” e “inoccupabili”. Insomma Giovannini si accoda subito alla buona tradizione di offese che sono piovute sugli italiani negli ultimi anni. Giovannini come la Fornero – L’ex ministro del Lavoro Elsa Fornero qualche mese prima di lasciare il suo incarico disse chiaramente: “Gli italiani costano tanto e lavorano poco”. La bordata era arrivata subito dopo l’attacco ai giovani disoccupati che, sempre la Fornero, definì “choosy”, ovvero “stizzinosi, con poco spirito di adattamento”. Infine l’attacco di Giovannini è in linea con quello dell’ex ministro del Tesoro, Tommaso Padoa Schioppa che definì i giovani disoccupati come “bamboccioni”. Mentre l’ex sottosegretario al Lavoro, Martone disse che “laurearsi dopo i 28 anni, è roba da sfigati”.
Bamboccioni, choosy, pistola: quando i ministri fanno infuriare i giovani, scrive Ugo Barbàra su "Agi" il 20 dicembre 2016. Le scuse non bastano a fugare le nubi di tempesta che si addensano sul ministro del Lavoro, Giuliano Poletti. "Non mi sono mai sognato di pensare che è un bene per l'Italia il fatto che dei giovani se ne vadano all'estero" ha detto dopo che sul web si è diffusa alla velocità della luce una sua affermazione riportata dalla stampa su alcuni giovani andati all'estero, "questo Paese non soffrirà a non averli più tra i piedi". "Evidentemente mi sono espresso male e me ne scuso", si legge nella nota di precisazione. "Penso, semplicemente", aggiunge, "che non è giusto affermare che a lasciare il nostro Paese siano i migliori e che, di conseguenza, tutti gli altri che rimangono hanno meno competenze e qualità degli altri. Ritengo, invece, che è utile che i nostri giovani possano fare esperienze all'estero, ma che dobbiamo dare loro l'opportunità tornare nel nostro paese e di poter esprimere qui le loro capacità e le loro energie".
Il Fatto Quotidiano traccia un parallelismo tra le parole di Poletti e quelle di Claudio Scajola, che definì "rompicoglioni" Marco Biagi, il giuslavorista ucciso il 19 marzo del 2002 dalle nuove Brigate Rosse. Ricercatori, ma anche liberi professionisti di livello, imprenditori, inventori di start up: per Poletti meglio che se ne siano andati, ad arricchire con le loro conoscenze, la loro capacità di intuito e di analisi, la loro immaginazione e fantasia, altri paesi.
Non è la prima volta che Poletti attira su di sé le ire dei laureati. Poco più di un anno fa se ne uscì con un'altra frase destinata a scatenare ondate di polemiche: "rendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21". Ma non è l'unico, tra i vertici delle istituzioni, a primeggiare per impopolarità tra i giovani.
In ottobre è stato il ministero dello Sviluppo economico a fare una gaffe non da poco: la blogger Eleonora Voltolina aveva trovato in un opuscolo destinato agli investitori esteri un invito forse allettante per loro, ma non lusinghiero per i lavoratori italiani il cui senso era questo: costano poco anche quando hanno un elevato tasso di scolarizzazione.
Nell'ottobre del 2012 fu l'allora ministro del Lavoro, Elsa Fornero, a finire sotto il fuoco delle polemiche per una frase sui giovani che non devono essere troppo schizzinosi al momento dell'ingresso nel mercato del lavoro. “Non devono essere troppo choosy nella scelta del posto di lavoro. Meglio cogliere la prima occasione e poi guardarsi intorno”.
Dieci mesi prima, nel gennaio del 2012, era stato il viceministro del Lavoro, Michel Martone, a dare degli 'sfigati' ai giovani: "Se a 28 anni non sei ancora laureato - aveva detto partecipando a un incontro sull'apprendistato - sei uno sfigato. Bisogna dare messaggi chiari".
Nell'ottobre del 2007 era stato l'allora ministro dell'Economia, Tommaso Padoa-Schioppa a usare un termine destinato a diventare di uso comune nel dibattito politico. Le misure a favore delle famiglie, disse presentando la finanziaria, serviranno anche "a mandare i 'bamboccioni' fuori di casa. Cioé incentivare l'uscita di casa da parte dei giovani che adesso restano fino a età inverosimili con i genitori. Non crescono mai, non si sposano, non si rendono autonomi".
La guerra infame del potere contro i giovani di questo Paese. Da Poletti alla Fornero. Ma il suo capostipite fu il ministro Padoa Schioppa, passato alla storia con la sua invettiva contro "i giovani bamboccioni", scrive Luca Telese il 20 dicembre 2016. Dei pistola. Malagente. Persone indesiderate da tenere - addirittura - fuori dall'Italia. L'incredibile gaffe del ministro al Lavoro Giuliano Poletti questa volta va studiata nel dettaglio. E non per ridicola e flebile richiesta di scuse che ha seguito l'infelice sortita, ma perché - purtroppo - non rappresenta un caso isolato. "Se 100mila giovani se ne sono andati dall'Italia - ha detto il ministro con incomprensibile fare aggressivo - non è che qui sono rimasti 60 milioni di 'pistola'". Il ministro del Lavoro, conversava amabilmente con i giornalisti a Fano e pochi minuti prima aveva difeso il Jobs Act del governo e aperto alla possibilità di rivedere le norme sui voucher. Già questa, a ben vedere, era una manifestazione di stato confusionale, visto che solo tre giorni prima lo stesso ministro si augurava una crisi anticipata del suo governo, pur di impedire il referendum abrogativo sui voucher e sull'articolo 18. Ma evidentemente, mentre fingeva di aprire, Poletti sembrava anche interessato a punire, se non altro sul piano simbolico: "Intanto - osservava stilando il suo atto d'accusa - bisogna correggere un'opinione secondo cui quelli che se ne vanno sono sempre i migliori. Se ne vanno 100mila, ce ne sono 60 milioni qui: sarebbe a dire che i 100mila bravi e intelligenti se ne sono andati e quelli che sono rimasti qui sono tutti dei 'pistola'. Permettetemi di contestare questa tesi". E a questo punto che era arrivato il colpo di grazia, la mazzata sui reprobi. "Conosco gente che è andata via e che è bene che stia dove è andata, perché sicuramente questo Paese non soffrirà a non averli più fra i piedi". A chi si riferisse Poletti, non è dato di saperlo, resterà un mistero. Però ci sono almeno due indizi importanti da seguire. Il primo: le parole del ministro arrivano dopo un preferendo in cui le tesi del governo sono state bocciate a maggioranza quasi unanime, dagli elettori compresi nella fascia anagrafica fra i 18 e i 35 anni. La seconda, però, è molto più profonda, sottile, e merita una riflessione.
Denigrare i giovani è diventato uno sport nazionale. La guerra infame ed ideologica dei governi italiani contro i giovani in questo paese parte da lontano, e non è stata incominciata da Poletti. Ha il suo capostipite nelle parole scioccanti del ministro Padoa Schioppa che con il sorriso sulle labbra la sua celebre invettiva contro "i giovani bamboccioni". Italiani infantili e colpevoli perché incapaci di trovare una strada, mammoni, desiderosi di protezioni, pappe pronte e tutele. Non era che l'inizio. Quindi dopo il ministro dell'ulivo, fu la volta della ministra Fornero, la sacerdotessa del rigore con la lacrima facile, in uno dei suoi momenti di melodrammatica megalomania, si lanciò in una invettiva contro "i choosy", gli schizzinosi, contro i ragazzini che non hanno voglia di fare la propria parte. La faceva egregiamente lei, peraltro, massacrando i pensionati, battezzando con le sue lacrime di coccodrillo, battaglioni di esodati.
E che dire dell'allora sottosegretario al lavoro, Michel Martone? Anche lui ci era andato giù duro: "Hai 28 anni e non ti sei ancora laureato? Allora sei uno sfigato". A queste frasi, divenute ormai proverbiale, si sono aggiunte decine di dichiarazioni, di gaffe rivelatrici, di infortuni lessicali, seguiti da scuse più o meno maldestre in alcuni casi, e da nessuna scusa, nella maggior parte. Piuttosto che considerare questo florilegio una collezione di parole dal sen fuggite, o casi isolati, bisognerà rassegnarsi a prendere in considerazione questo repertorio di errori come una sorta di inconsapevole ma fluente manifesto ideologico. Come una dichiarazione di guerra a una classe sociale, anagrafica, che le classi dirigenti italiane considerano nemica. Mentre smantellavano diritti in tutte le leggi sul lavoro a partire dal pacchetto Treu, mentre colpivano la #buonascuola, mentre bastonavano, e non solo metaforicamente la precarietà, costruivano una apartheid di diritti, i governi italiani si sono dati la staffetta in un opera di demolizione psicologica delle loro vittime. Non sono loro ad avere colpa dell'esodo, non nel loro la responsabilità della fuga dei cervelli, non sono loro ad essere deficitari nelle loro risposte e iniqui nel loro operato. Con un geniale riflesso istintivo, hanno trasformando le loro vittime in carnefici, e viceversa.
Per alcuni i privilegi sono ormai una grazia dovuta. A sentire le sparate di Poletti e dei suoi epigoni, è chi paga il prezzo delle loro politiche che si deve vergognare e non viceversa. C'è dietro questa retorica cattiva, anche qualcosa di più, un istinto corporativo. La classe dirigente dei garantiti, che pensa a se stessa, ai propri figli e ai propri privilegi come ad una grazia dovuta. Come al biglietto di ingresso nel club dell'aristocrazia e delle elite. A tutti gli altri, invece, guarda come una masnada di usurpatori, disperati che si affollano bussando alle porte delle loro fortezze. I giovani che sono partiti, in verità, sono quelli che non rinunciano a muovere l’ascensore sociale. Sono quelli che non si mettono in fila di fronte ai nonni e ai baroni. Sono quelli che non accettano la geometria di potere delle vecchie e nuove caste, coloro che non vogliono pagare la tassa d'ingresso nelle corporazioni garantite. Fra qualche anno, quando tutto sarà più chiaro, le Fornero e i Poletti, che in questi anni la stampa e i media hanno trattato con i guanti di velluto, saranno ricordati come i razzisti americani degli anni ‘60, quelli che sorridevano con i colletti inamidati, mentre dormono coperture ideologica discorso lui, ai cappi, e ai roghi in cui si bruciavano i "negri" che non volevano piegarsi e accettare la parte dello zio Tom.
Se la Casta è dentro di noi, scrive Ignazio Marino su “L’Espresso”. «Io faccio il senatore e so per esperienza che quando le persone si rivolgono a uno di noi è sempre per chiedere un aiuto personale, una promozione, un favore. E' questa la cultura che alimenta i privilegi e uccide il merito». Non possiamo continuare a tollerare una situazione in cui il finanziamento della ricerca non è assegnato in modo concorrenziale, in cui i posti non sempre sono distribuiti in base al merito, in cui difficilmente i ricercatori possono accedere alle sovvenzioni o ai programmi di ricerca oltre confine e da cui ampie zone d'Europa restano escluse». Sono le parole di Máire Geoghegan-Quinn, commissaria europea alla ricerca e all'innovazione, che chiede di abbattere le barriere tra gli Stati per realizzare uno spazio europeo della ricerca. Uno spazio in cui l'unico giudice sia il merito e che sia misurabile, come sosteneva anche Michael Young, che nel 1958 coniò il neologismo "meritocrazia". Agli appelli pressanti, che arrivano anche dall'Europa, l'Italia continua a rispondere con la sua cultura anti-merito. Si inizia con la scuola, dove copiare il compito del compagno è tollerato e non è considerato un fatto riprovevole. Anzi, lo sciocco è chi non copia. E si continua per tutta la vita quando, nonostante l'odio contro la casta, ci si rivolge a un politico per chiedere una raccomandazione, un posto di lavoro, una promozione, un trasferimento, per saltare la lista d'attesa in ospedale. Lo dico per esperienza personale: purtroppo è raro che le persone mi cerchino per presentarmi un progetto in cui credono mentre è più comune la richiesta di un aiuto personale, e quando rispondo che l'unica raccomandazione che mi sento di fare è chiedere a ogni commissione di scegliere il migliore, leggo delusione negli occhi del mio interlocutore, non apprezzamento.
Questa mentalità è così diffusa che fa sì che la nostra società sia profondamente diseguale e soffra di una scarsissima mobilità sociale proprio per la mancanza di cultura del merito che non permette ai migliori di correre, e magari vincere, quella gara verso l'alto, qualunque sia la loro base sociale di partenza. La conseguenza è visibile anche nel fatto che l'Italia da anni ormai rimane saldamente ancorata agli ultimi posti nelle classifiche internazionali per efficienza, qualità dei servizi, stima nei dipendenti pubblici. Il merito, infatti, non serve solo al singolo individuo quale giusto e doveroso riconoscimento dell'impegno e delle sue capacità personali ma è fondamentale per fare funzionare meglio l'intero sistema. Il settore dell'aeronautica rappresenta un valido esempio: ogni pilota d'aereo possiede un log-book, un libretto sul quale vengono annotati i dettagli di ogni volo, gli errori, i rischi, le manovre giuste, in pratica tutta la storia professionale. Su quella base si valutano le qualità del singolo pilota ma si studiano anche i punti deboli e gli elementi di fragilità del sistema. E così non solo si correggono ma si prevengono gli errori. Perché non immaginare un sistema simile anche per la sanità? Se per esempio si potesse conoscere tutto ciò che un medico ha fatto dal suo primo giorno in ospedale, quelle informazioni diventerebbero un biglietto da visita importantissimo, ma anche un elemento di valutazione, trasparente e oggettivo, per la sua carriera e più in generale per l'efficienza e la sicurezza del servizio sanitario. La cultura del merito non si può imporre per decreto e quando il governo sostiene che la spending review servirà a rendere più efficiente l'amministrazione pubblica dice una bugia, perché servirà solo a fare cassa. Per incidere sull'efficienza e per premiare i migliori servono tempo e strategia, iniziando con la raccolta dei dati e con la loro analisi. E poi serve una motivazione intrinseca, che non è data dalla prospettiva di un aumento di stipendio o da uno scatto di carriera ma dalla convinzione che ogni sforzo personale possa avere un effetto positivo su tutti. E' così ambizioso iniziare a considerare la parola merito non come un insulto? O smettere di pensare che sia una prerogativa esclusiva del mondo anglosassone? E' vero, la cultura del merito non ce l'abbiamo nel sangue ma dobbiamo infonderla nelle nostre vene, soprattutto in quelle dei giovani affinché non si sentano predestinati a non cambiare mai.
Ecco perchè il cittadino, per egoismo personale, vende la sua anima al diavolo.
Parliamo di lavoro. A proposito del viceministro al Lavoro Martone e di Sfigati. Su “L’Espresso”, così come su tantissimi giornali nazionali o locali, vi è stata pubblicata una lettera aperta del Dr. Antonio Giangrande, scrittore, autore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”, e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS. Da 20 anni partecipa al concorso forense: i suoi compiti non sono corretti, ma dichiarati tali da commissioni composte e presiedute da chi è stato da lui denunciato perché trucca l’esame. Il Tar di Lecce respinge i suoi ricorsi, nonostante vi siano decine di motivi di nullità.
«Il viceministro Martone provoca i fuori corso universitari: "Se a quell'età sei ancora all'università sei uno sfigato". Ha ragione, eppure finisce alla gogna. Polemiche pretestuose sulla frase da chi ha la coda di paglia. Michel Martone, viceministro del Lavoro secondo il quale un 28enne non ancora laureato è spesso "uno sfigato". Ha ragione e lo dico io, Antonio Giangrande, uno che si è laureato a 36 anni, sì, ma come?
A 31 anni avevo ancora la terza media. Capita a chi non ha la fortuna di nascere nella famiglia giusta.
A 32 anni mi diplomo ragioniere e perito commerciale presso una scuola pubblica, 5 anni in uno (non gliene frega a nessuno dell’eccezionalità), presentandomi da deriso privatista alla maturità assieme ai giovincelli.
A Milano presso l’Università Statale, lavorando di notte perché padre di due bimbi, affronto tutti gli esami in meno di 2 anni (non gliene frega a nessuno dell’eccezionalità), laureandomi in Giurisprudenza.
Un genio, no, uno sfigato, sì, perché ho fatto sacrifici per nulla: fuori dall’università ti scontri con una cultura socio mafiosa che ti impedisce di lavorare.
Mio figlio Mirko a 25 anni ha due lauree ed è l’avvocato più giovane d’Italia (non gliene frega a nessuno dell’eccezionalità).
Primina a 5 anni; maturità commerciale pubblica al 4° anno e non al 5°, perché aveva in tutte le materie 10; 2 lauree nei termini; praticantato; abilitazione al primo anno di esame forense.
Un genio, no, uno sfigato, sì, perché ha fatto sacrifici per nulla: fuori dall’università ti scontri con una cultura socio mafiosa che ti impedisce di lavorare.
Alla fine si è sfigati comunque, a prescindere se hai talento o dote, se sei predisposto o con intelligenza superiore alla media. Sfigati sempre, perché basta essere italiani nati in famiglie sbagliate.»
Tale lettera è inserita in una inchiesta più larga su un malcostume ed illegalità noto ed utile a tutti. E si viene a sapere da Gianluca Di Feo su “L’Espresso” che l'amico del padre del viceministro (quello degli 'sfigati') andò dal potente senatore del Pdl, Dell'Utri, per far sistemare il giovane. Lo ha detto, a verbale, Arcangelo Martino, imprenditore al centro dell'inchiesta sulla P3. «Mi sono ricordato che Martone sosteneva che attraverso il partito voleva dare una risposta lavorativa al figlio». Arcangelo Martino ha uno stile spiccio, spesso approssimativo. Del figlio di Martone dice che «fa il commercialista, una cosa del genere». L'imprenditore è considerato uno dei pilastri della P3, la cricca che interveniva per pilotare le cause in Cassazione e in molti tribunali. Ma durante l'interrogatorio in carcere davanti ai pm romani ricostruisce in modo netto il principale interesse di Antonio Martone, all'epoca potente avvocato generale della Cassazione: sistemare il figlio, ossia Michel il giovane enfant prodige del governo Monti, pronto ad attaccare gli studenti fuori corso e le lauree tardive.
Il suo curriculum di professore ordinario a soli 29 anni era anche - stando ai verbali - nelle mani degli uomini della P3. Martino dichiara che assieme a Pasqualino Lombardi, l'altro protagonista dell'inchiesta P3, si sarebbero presentati a Marcello Dell'Utri chiedendo di intervenire in favore del ragazzo. Sarebbe stato Lombardi a sollecitare la raccomandazione, accompagnata dalla lista dei meriti accademici del giovane al senatore del Pdl. Ottenendo una risposta vaga: «Va be' vediamo». Tanta premura per il rampollo non nasceva da una solidarietà amicale. L'interesse della P3 era chiaro: volevano che il padre intervenisse per sistemare la causa sul Lodo Mondadori, ossia il processo contro l'azienda di Silvio Berlusconi a cui era contestata un'evasione fiscale da circa 300 milioni, e sollecitasse un voto positivo della Consulta sul Lodo Alfano che garantiva l'immunità al premier. Due questioni strategiche per il Cavaliere che Pasqualino Lombardi e i suoi sodali volevano mettere a posto grazie all'aiuto di Martone, come spiegano ai magistrati.
Antonio Martone ha dichiarato di non avere mai chiesto raccomandazioni per il figlio. L'uomo ha lasciato la suprema corte dopo la diffusione delle intercettazioni su suoi contatti con gli emissari della P3. Nunzia De Girolamo, parlamentare pdl, ha descritto la presenza dell'avvocato generale ai pranzi da Tullio dove ogni settimana Lombardi riuniva i suoi compagni di merende. «Ricordo che erano presenti il sottosegretario Caliendo e diversi magistrati. Tra loro Martone, Angelo Gargani e un magistrato del Tribunale dei ministri». Il geometra irpino Lombardi si mostra capace di grandi persuasioni, come ricostruisce la De Girolamo: «Ricordo anche che Martone diceva di volere andare via dalla Cassazione e che Lombardi non era d'accordo e cercava di convincerlo a restare. Diceva che stava bene lì, che era un punto di riferimento lì. Martone insisteva dicendo che voleva fare altre esperienze e che preferiva andare da Brunetta». Proprio da Brunetta era poi venuto il primo incarico di consulente da 40 mila euro l'anno per Michel Martone, mentre al padre andavano ruoli direttivi. Ma Lombardi e Martino si impegnavano per trovare «attraverso il partito una risposta lavorativa» migliore per il professore in erba. Che due anni esatti dopo l'incontro tra Lombardi e Dell'Utri per trovargli un posto «attraverso il partito» è arrivato al governo Monti.
Luogo comune vuole che l’Italia è il paese dei raccomandati. Si chiede la raccomandazione per tutto, anche violando la legge, quando per attuarla si truccano i concorsi pubblici. Ma chi se ne frega e poi, chi va ad indagare? Se lo si chiede in giro ti diranno che la raccomandazione esiste, ma l’interlocutore però ti dirà, anche, che lui non ha mai chiesto la raccomandazione, né è stato mai raccomandato.
Uno dei momenti clou della puntata del 2 febbraio 2010 di “Servizio Pubblico” è stato l’intervento di Marco Travaglio che ha scelto un obiettivo ben preciso per la sua invettiva. Il vice ministro Michel Martone e la sua infelice dichiarazioni sugli sfigati. A dire il vero Travaglio non ha iniziato subito incalzando l’incauto vice ministro. Prima ha fatto alcune considerazioni sulla possibilità di eliminare l’articolo 18 e sulla monotonia del posto fisso. Il primo affondo di Marco Travaglio è per Mario Monti, “Ha un posto da senatore a vita, più fisso di cosi si muore…Ma nel vero senso della parola”. Michel Martone viene presentato così, “Nonostante il nome e la faccia non è un parrucchiere per signora”. Travaglio si mette, con la consueta precisione ed ironia, a fare le pulci alla rapidissima carriera del vice ministro. Laureato giovanissimo, Martone, vede la sua carriera accademica e lavorativa accompagnata da una serie di esami e concorsi superati al primo colpo. Una particolarità, la commissione esaminante è presieduta sempre dalla stessa persona o da un amico stretto della stessa. In entrambi i casi persone molto vicine al padre di Martone, un “Potentissimo magistrato romano” che ha frequentato molto l’ufficio dell’avvocato Previti. Il curriculum del vice ministro Michel Martone è una lunga risata amara, soprattutto per chi, invece, non ha avuto una strada così liscia.
Ciò non basta. Qualcos'altro serve a dimostrare l'inaffidabilità dei TAR per la tutela dei diritti e degli interessi legittimi. A Tal proposito su LA7 il programma “Piazza Pulita” manda in onda il servizio sui fratelli Martone: il prof. Michel e l’avv. Thomas.
Dopo aver sviluppato la solita litania su Michel si passa al fratello. Thomas nel 2004 partecipa all’esame per diventare avvocato e viene bocciato alla prova scritta. Lui, però, non si perde d’animo, a differenza di tanti altri, e fa ricorso al Tar. L’intervistatore chiede agli avvocati amministrativisti: «se vengo bocciato all’esame di avvocato e faccio ricorso al Tar quante possibilità si hanno di vincere il ricorso»: “non moltissime” rispondono questi.
Thomas Martone lamentava al Tar che alla sua prova scritta fosse stato attribuito solo una votazione numerica senza alcun giudizio. L’avvocato amministrativista spiega che bisogna dimostrare che il punteggio attribuito è ai limiti dell’irragionevolezza manifesta. L’intervistatore chiede «e se mi lamento per il fatto che mi sia stato attribuito soltanto un voto numerico?» L’avvocato spiega che il voto numerico, secondo la giurisprudenza, va bene se la procedura ha previsto che c’era il voto numerico e che se i criteri per il voto numerico sono stati esplicitati preventivamente. Un altro avvocato spiega che qualche ricorso è stato accolto, ma hanno detto che è molto difficile.
Invece Thomas Martone c’è riuscito. Ce l’ha fatta. La prima sezione del Tar del Lazio ha deciso che la sua prova scritta andava giudicata da un’altra commissione che questa volta lo ha promosso.
L'intervistatore cerca Thomas Martone nel suo studio, che si trova a due passi da Piazza San Pietro, in via della Conciliazione in un palazzo di proprietà della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli. In altre parole Propaganda Fide.
L’intervistatore chiede a Thomas: «non è vero che va tutto bene ai figli dei Martone, perché io ho scoperto che lei fu bocciato allo scritto dell’esame per diventare avvocato.»
Martone: «io non vedo che cosa possa interessarvi e perché vi debba rispondere. Mi dispiace.»
L’intervistatore: «non è vero che i Martone sono tutti raccomandati, perché se lei fosse stato raccomandato non l’avrebbero bocciato allo scritto all’esame per avvocato.»
Martone: «lasciate perdere.»
L’intervistatore: «come ha fatto lei a vincere il ricorso, che peraltro non lo passa praticamente nessuno questo ricorso? Si ritiene fortunato per questo. Poi mi risulta che questo palazzo sia di Propaganda Fide. Come ha fatto ad essere inquilino di Propaganda Fide?»
Martone: «Si paga, anche profumatamente. Tutto qua.»
L’intervistatore: «come fa a sapere che ci c’è una disponibilità di immobili in locazione?»
Martone: «si informi non è esattamente così.»
Intervistatore: «e come è stato, mi dica lei. Cosa le costa. E’ una domanda semplice.»
Martone: «non so dove volete arrivare, mi dispiace.»
Intervistatore: «siccome uno dice “gli altri sono sfigati” se fanno ritardi con gli studi, però i Martone hanno un po’ di fortuna.»
Martone: «non è così. Se lei va a vedere su internet cosa intendeva dire mio fratello, capirà che è il contrario.»
Intervistatore: «ho capito, però guarda caso, il fratello di Martone bocciato allo scritto non è così fortunato. I Martone non sono così super raccomandati. E’ vero no. Questo ce lo può confermare?»
Dopo l’intervista Martone ha scritto alla redazione per precisare che lo studio in via della Conciliazione lo condivide con un collega più anziano titolare del contratto con Propaganda Fide da 40 anni. Quanto al ricorso al Tar contro la bocciatura all’esame di avvocato sottolinea che la Commissione che giudicò la sua prova era composta da 4 avvocati ed un solo magistrato, anziché 2 come previsto dalla legge, e che sui suoi elaborati mancava ogni segno grafico che dimostrasse l’effettiva correzione. Che ha sostenuto regolarmente la prova orale diventando così uno dei 250.000 avvocati italiani.
Italiani: raccomandati e pure bugiardi.
Tre italiani su dieci trovano un'occupazione grazie alla "spintarella" di parenti e amici. La crisi non fa diminuire quindi le raccomandazioni. L'ultima indagine dell'Isfol (Istituto per la formazione professionale dei lavoratori), riferita al 2010, sottolinea che la "buona parola" è il canale privilegiato per accedere al mondo del lavoro: il 38% dei giovani ha infatti ottenuto un posto grazie a familiari o conoscenti.
A tutto questo persino il Presidente della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano, ha detto: Stop! "Basta con le raccomandazioni".
Al Quirinale il 15 novembre 2011, per il rilancio dell'occupazione il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, fa un invito. «L'Italia deve diventare il più rapidamente possibile un Paese aperto ai giovani, deve offrire opportunità non viziate da favoritismi e creare per il lavoro sistemi di assunzione trasparenti che creino un vero ascensore sociale, smentendo così la convinzione che le raccomandazioni servano più dell’impegno personale. Bisogna - ha concluso - smontare la convinzione secondo cui le occasioni siano riservate a certi ambienti”.
Affermazione inane se si pensa che proprio un'altra istituzione, La Corte Costituzionale, in riferimento ai giudizi dati agli esami di Stato, smentisce queste buone intenzioni. Corte Costituzionale: sentenza 8 giugno 2011, n. 175 in riferimento al concorso pubblico di avvocato: “Il voto numerico è una motivazione sintetica e costituisce legittima tecnica di motivazione delle motivazioni amministrative”. Siamo in Italia, il voto non va motivato e le commissioni sono arbitrarie ed insindacabili negli abusi. Qui si rileva che la Corte Costituzionale legittima per tutti i concorsi pubblici la violazione del principio della trasparenza. Trasparenza, da cui dedurre l’inosservanza delle norme sulla legalità, imparzialità ed efficienza.
Un documentario realizzato da Ugo Gregoretti nei primi anni ’60 narrava la esilarante vicenda di un deputato calabrese. Al suo ufficio romano pervenivano centinaia di lettere da parte dei propri elettori, tutte contenenti pressanti richieste di raccomandazione. Quel deputato aveva perfino creato un’apposita struttura – composta di solerti impiegati - che si premurava di rispondere a tutti i questuanti. Per tutti, il deputato avanzava accorate richieste di assunzione, che indirizzava alle varie amministrazioni pubbliche. Questo sistema industrializzato, venne documentato da Gregoretti senza che il deputato avesse nulla da ridire. Anzi, come potete immaginare, la pubblicizzazione di quel sistema era per l’uomo politico un elemento di vanto. L’unica cosa su cui ebbe da ridire, peraltro, fu il fatto che nel documentario si vedeva il suo staff sedersi sulle buste, per garantirne la perfetta stiratura. Non era decoroso, infatti, che i questuanti venissero a sapere che le lettere di risposta, che essi trattavano come una reliquia, fossero state a contatto con i pachidermici deretani dei componenti il suo staff. Che pudore: roba di altri tempi!!!
In Italia, oggi invece, si è costruito intorno alla raccomandazione non solo un sistema di potere a fini clientelari. Si potrebbe dire, anzi, che la raccomandazione abbia assunto un ruolo antropologico-culturale, che affonda le proprie radici in un sistema valoriale sempre più decadente. In passato, il raccomandato acquisiva la possibilità di essere avvantaggiato perché garantiva - con tutto il suo parentado esteso – che avrebbe poi votato in eterno per il suo benefattore. Oggi, invece, si è imposta una ben più eterogenea serie di motivi (compreso la soddisfazione erotica del politico) che producono una degenerazione estrema di un sistema, di per sé anche in passato poco equo e corretto, ma ora addirittura devastante. Se nel recente passato, infatti, la raccomandazione era pur sempre odiosa e non giustificabile, oggi essa è palesemente distruttiva del buon funzionamento della macchina amministrativa pubblica. Oggi, non ci si limita ad avvantaggiare un competente sugli altri concorrenti, altrettanto competenti. Attraverso l’inserimento nei posti chiave di uomini pronti ad eseguire qualsiasi ordine, si creano i presupposti per il funzionamento del sistema corruttivo. È intuibile, infatti, che se a ricoprire un ruolo determinante viene chiamato qualcuno che non ne ha neanche lontanamente le capacità, costui sarà sempre pronto, da perfetto yesman, a rispondere positivamente a qualsiasi richiesta di chi lo ha favorito.
In sostanza, il raccomandato non è più un privilegiato che usurpa un diritto altrui (sempre gravissimo come fatto, ben inteso), ma molto più banalmente si è trasformato in un fortunato, che si presta ad essere accondiscendente strumento del sistema della corruzione. Quando so di non avere le competenze per occupare il ruolo che generosamente mi è stato affidato, sarò poco propenso ad opporre resistenza al malaffare, di cui finirò per essere pedissequo esecutore. Il Potere, quindi, non dispensa più prebende a fini clientelari, scegliendo un candidato fra i tanti che ne hanno le competenze, ma, anzi, sceglie quasi sempre il più incapace perché così si garantisce la sua cieca ed affidabilissima riconoscenza.
Art. 18 dello Statuto dei lavoratori e licenziamento libero. Quello che nessuno dirà mai.
Che i sindacati fossero una casta come i boiardi di Stato o come i partiti politici, di cui sono spesso spalla, si sa.
Che i sindacati, come i partiti, siano considerati parassiti foraggiati dai contribuenti ed esentati fiscalmente, per questo interessati alle entrate fiscali per non perdere il loro sostentamento, tanto da far divenire l’Italia uno Stato di polizia fiscale, è poco pubblicizzato, ma tant’è nessuno fa niente.
Che i sindacati difendano a spada tratta l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, è, anche, ampiamente risaputo.
Il Dr Antonio Giangrande, autore della Collana editoriale “L’Italia del Trucco”, ne spiega il perché.
«Il fatto di discriminare i lavoratori soggetti a due regimi differenti è uno scandalo. E’ che ciò sia avallato dai sindacati e dai partiti di sinistra è vergognoso. L'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori afferma che il licenziamento è valido se avviene per giusta causa o giustificato motivo.
In assenza di questi presupposti, il giudice dichiara l'illegittimità dell'atto e ordina la reintegrazione del ricorrente nel posto di lavoro. In alternativa, il dipendente può accettare un'indennità pari a 15 mensilità dell'ultimo stipendio, o un'indennità crescente con l'anzianità di servizio.
Il lavoratore può presentare ricorso d'urgenza e ottenere la sospensione del provvedimento del datore fino alla conclusione del procedimento, della durata media di 3 anni.
Nelle aziende che hanno fino a 15 dipendenti, se il giudice dichiara illegittimo il licenziamento, il datore può scegliere se riassumere il dipendente o pagargli un risarcimento. Può quindi rifiutare l'ordine di riassunzione conseguente alla nullità del licenziamento. La differenza fra riassunzione e reintegrazione è che, nel primo caso, il dipendente perde l'anzianità di servizio ed i diritti acquisiti col precedente contratto (tutela obbligatoria).
In sostanza, i lavoratori delle aziende con meno 15 dipendenti che hanno subito un licenziamento illegittimo non hanno la possibilità di essere reintegrati.
Guarda caso, proprio queste aziende non sono sindacalizzate ed i lavoratori sono più fidelizzati e produttivi, con l’interesse economico dell’imprenditore a non licenziarli.
Al contrario le aziende con più di 15 dipendenti sono quelle con strutture sindacali ben radicate, spesso riconducibili a più sigle, i cui molteplici rappresentanti sono quelli che, per un motivo o per l’altro, apportano meno utilità all’impresa o non le sono utili affatto. Per logica economica, l’imprenditore, se fosse abolito l’art. 18, prima di tutto metterebbe alla porta questi sindacalisti, che nuocciono all’azienda e, oltretutto, allo stato dei fatti, non tutelano i lavoratori.
L’imprenditore, a costo di pagare le 15 mensilità, si toglierebbe ben volentieri di mezzo i sindacalisti dannosi all’impresa ed ai lavoratori. Ed i sindacati questo lo sanno.
Ecco perché si difende tanto l’art. 18: per difendere gli interessi economici e politici dei sindacati e non certo dei lavoratori, o per dirla meglio, si difende l’art. 18 per danneggiare coloro i quali il lavoro non lo hanno o non lo hanno mai avuto.»
PARLIAMO DI RACCOMANDAZIONE: FAMILISMO, NEPOTISMO, CLIENTELISMO.
Rapporto Eurostat: altro che centro per l'impiego o ufficio di collocamento, in Italia, il lavoro si cerca tramite un intermediario. Il 76,9 % chiede aiuto a amici, parenti o sindacati. In Europa la media è del 68,9 %. La diffusione di curriculum invece è tra le più basse (63,9 %). Solo il 31,4 % infine, fa affidamento sugli annunci che compaiono sulla stampa o sul Web.
In Italia oltre due persone su tre in cerca di lavoro si affidano a un intermediario che può essere un parente o anche un sindacato. Ricorrere a chi si conosce già è, così, la prima strada che si percorre per trovare un posto.
A certificare le "usanze" degli italiani a caccia di un impiego è Eurostat nel rapporto Methods used for seeking work, secondo dati aggiornati al secondo trimestre del 2011. Nella Penisola chi bussa alle porte di amici, parenti o sindacati è, infatti, pari al 76,9%, una quota superiore alla media dell'area euro (68,9%), a quella dell'Unione europea nel complesso (69,1%) e soprattutto circa doppia a confronto con quella di Paesi come Germania (40,2%), Belgio (36,8%), Finlandia (34,8%). Anche se nel Vecchio continente c'è chi fa peggio, è il caso della Grecia (92,2%), ma pure di Irlanda e Spagna. Nell'Unione europea, inoltre, si fa molta pubblicità del proprio curriculum, del proprio percorso di studi, (68,8% Ue 17 e 71,5% Ue 27), una modalità che viene anche seguita in Italia, ma con una percentuale inferiore (63,9%), tra le più basse, in particolare a confronto con Irlanda e Slovenia, dove quello che Eurostat definisce come lo Study advertisement è praticato da più di nove persone su dieci in cerca di lavoro. L'Italia risulta anche tra i Paesi che meno fanno affidamento agli annunci di lavoro che compaiono sulla stampa o sul web, con solo il 31,4% che si rende disponibile a una precisa prestazione o risponde a un'offerta di impiego. Insomma, gli italiani credono poco nei contatti a distanza e privilegiano di gran lunga gli approcci diretti e informali. Non a caso è anche al di sotto dei valori medi europei la quota di coloro che si rivolgono ad operatori istituzionali, come i centri pubblici per l'impiego (31,9%), addirittura l'Italia è penultima nell'eurozona, alle spalle solo di Cipro, con una forte distanza dalla Germania (82,8%). Un discorso simile vale per i centri privati di impiego, come possono essere le agenzie del lavoro. In generale, in tutta Europa chi contatta soggetti privati per essere assunto è una minoranza, ma in Italia la fetta è ancora più risicata (18,0%). Tornando alle preferenze degli italiani, la seconda via scelta per trovare un'occupazione consiste nel chiedere direttamente al datore di lavoro; sempre secondo le tabelle di Eurostat oltre sei persone su dieci in cerca si rivolge al principale. Molto probabilmente si tratta di una modalità favorita dalla struttura produttiva del Paese, con tantissime piccole e medie aziende, dove, quindi, è più facile entrare in rapporto con i 'capi'.
Il sospetto già lo avevamo, ma ora arriva anche la certificazione dell'Eurostat. Nel Belpaese tre persone su quattro, quando devono cercare un posto di lavoro, bussano alla porta di amici, parenti o sindacati: qualcuno che possa dargli una mano. Insomma, qualcosa di molto simile al nepotismo, almeno nei casi in cui ci si rivolge ad amici e parenti nella speranza, magari, di avere accesso a una corsi preferenziale, una spintarella che possa lubrificare gli ingranaggi del mercato del lavoro. Il 76,9% degli italiani sceglie questa strada, una quota superiore alla media del continente (68,9%) e doppia rispetto a Germania (40,2%), Belgio (36,8%), Finlandia (34,8%). Tanti ma, secondo i dati diffusi dell'istituto di statistiche, non siamo neppure sul podio. Fanno peggio di noi Irlanda e Spagna e sul primo gradino del podio troneggia la Grecia. Atene stravince: il 92,2 per cento di chi cerca un posto di lavoro non prova nemmeno a seguire i metodi tradizionali.
Ufficio di collocamento, annunci su giornali e siti web o invio a raffica di curriculum? Neanche per sogno: si suona il campanello di amici e parenti già sistemati. Tutta una questione di metodo e di curriculum. In Europa si presta molta attenzione alla diffusione delle proprie conoscenze e del percorso di studi, in Italia no. Emerge anche questo dai dati dell'Eurostat: solo il 63,9 per cento dei nostri connazionali pubblicizza le proprie credenziali. Perché? Per sfiducia nei confronti degli annunci, innanzitutto, ma anche perché molto spesso non si è disposti ad accettare lavori che richiedano una precisa prestazione. E anche in questa abitudine siamo nella parte bassa della classifica europea.
Non solo chi cerca lavoro, ma anche chi offre lavoro si affida alla conoscenza diretta.
Altro che curriculum 6 aziende su 10 assumono in base alle conoscenze. Secondo l'ultima indagine Excelsior di Unioncamere e ministero del Lavoro, nel 2010 6 aziende su 10 hanno usato il canale della "conoscenza diretta e segnalazioni personali". Infatti, per assumere, le imprese preferiscono affidarsi a conoscenze personali piuttosto che a curriculum, società di lavoro interinale o centri per l'impiego. Secondo l'indagine, nel 2010 oltre sei imprese su dieci per la selezione del personale hanno fatto ricorso al cosiddetto canale informale, "conoscenza diretta in primo luogo e segnalazioni personali", attraverso conoscenti o fornitori. Soprattutto, rispetto all'anno precedente l'utilizzo del canale informale ha registrato un forte aumento, passando al 61,1% dal 49,7% del 2009. "Il clima economico ancora incerto spinge evidentemente le imprese alla massima cautela nella selezione di nuovi candidati: la conoscenza diretta, magari avvenuta nell'ambito di un precedente periodo di lavoro o di stage, e il rapporto di fiducia da essa scaturito diventano quindi premianti ai fini dell'assunzione", si legge nel rapporto. Nel 2010 è anche cresciuto il ricorso da parte delle imprese a strumenti interni, ovvero alle banche dati costruite dalle stesse aziende sulla base dei curriculum raccolti nel tempo (al 24,6% dal 21,5%), ma la quota resta limitata a poco più di due imprese su dieci. Perdono invece terreno le modalità di reclutamento "tradizionali" (annunci su quotidiani e riviste specializzate), preferite solo nel 2,3% dei casi. Sono pochissime e in diminuzione anche le aziende che utilizzano intermediatori istituzionali, come società di lavoro interinale, di selezione (5,7%) e quelle che si affidano a operatori istituzionali, ovvero ai centri per l'impiego (2,9%). Ma se si guarda alla dimensione d'impresa il quadro cambia, dopo i 50 dipendenti le aziende iniziano a fare più affidamento sulle loro banche dati interne e a basarsi sul curriculum. Ecco che, quindi, al crescere della dimensione d'impresa il rapporto diretto del candidato con il datore di lavoro o tramite conoscenti perde importanza. Basti pensare che nelle realtà con più di 500 dipendenti il ricorso al canale informale scende al 10,2%, mentre l'utilizzo di strumenti interni sale al 48,9%.
Il dato più preoccupante, che emerge dal monitoraggio delle politiche occupazionali e del lavoro da parte del Ministero del Welfare, è quello relativo alla qualità del servizio offerto, che mostra come solo il 24 % di chi cerca lavoro si rivolge ai centri provinciali per l'impiego e di questi solo il 4% dell'utenza che si rivolge ai servizi pubblici per trovare un'occupazione, vede soddisfatta la propria richiesta, contro il 30% di coloro che si rivolgono ai privati. La riflessione più interessante che esce dal monitoraggio è, però, un'altra. Non si tratta di stabilire se vinca il pubblico o il privato, bensì di capire di che tipo di servizio ha bisogno l'utenza. In Italia è proprio il sistema dell'intermediazione a non essere decollato, perché quello che funziona è il metodo fai da te. E questo sia a causa delle caratteristiche del tessuto imprenditoriale, sia per questioni di cultura. Le azioni più diffuse sono, infatti, quelle "private": colloqui di lavoro o selezioni spontanee, annunci o inserzioni su giornali o internet, invio domande di lavoro o curriculum, contatti tramite parenti, amici, conoscenti o sindacati. Nell'eccesso di offerta e in presenza di scarsità di domanda lì emerge l'adattabilità italica con lo scavalco furbesco del concorrente: attraverso l'uso della "Raccomandazione".
Wikipedia dà una definizione di “Raccomandazione”, fenomeno sociale impossibile da debellare in periodi di crisi economica e morale. Si sceglie di adottare questo rimedio per superare illegalmente tutti i candidati a ricoprire un impiego, o un incarico, o un appalto a numero limitato, pubblico o privato, professionale o istituzionale.
La raccomandazione proposta in ambito privato, se adottata, danneggia l’azienda quando la selezione non sceglie il migliore tra i candidati possibili. Vi può essere reato.
Si concretizza il reato di concussione nel caso in cui un amministratore comunale, anche se non ha direttamente un potere gestionale, invita un imprenditore ad effettuare assunzioni di dipendenti da lui segnalati in una iniziativa commerciale che si sta realizzando e minaccia ripercussioni negative sulle autorizzazioni che il comune deve rilasciare alla nuova attività nel caso negativo. Il reato matura anche nel caso in cui venga assolto il coimputato cui è attribuito un ruolo amministrativo importante e che è direttamente dotato del potere di rilasciare o meno tali assunzioni, cioè in presenza di una assoluzione del sindaco o di un assessore. Ed infine non osta alla maturazione del reato il fatto che l’amministratore condannato non sia dotato in via diretta ed immediata del potere di rilasciare l’autorizzazione, ad esempio perché presidente del consiglio comunale: risulta essere sufficiente il fatto che le minacce di ripercussioni negative sulla iniziativa commerciale risultino essere concretamente credibili e quindi tali da determinare un condizionamento concreto nelle scelte dell’imprenditore. Possono essere così riassunti i più importanti principi fissati dalla Corte di Cassazione, sesta sezione penale, nella sentenza n. 38617 del 5 ottobre 2009. Si deve soprattutto sottolineare che la pronuncia assume un notevole rilievo, perché stabilisce che per la maturazione del reato non è necessario che le minacce provengano personalmente da un amministratore, cui sono attribuiti compiti amministrativi diretti ed immediati sulla materia oggetto della autorizzazione da parte del comune, ma è sufficiente che queste minacce abbiano una rilevante probabilità di essere concretamente realizzate.
Per quanto detto, la Cassazione, sesta sezione penale, con sentenza nr. 38617 del 5 ottobre 2009, ha affermato che, fare pressioni su qualcuno, sfruttando la propria posizione o la propria autorevolezza, per agevolare l’assunzione di terze persone, può integrare gli estremi del reato di concussione. Il caso ha riguardato un Signore di Afragola (NA) che, in primo grado è stato condannato alla pena (condizionalmente sospesa) di due anni di reclusione per tentata concussione, perché, approfittando della sua qualità di presidente del consiglio comunale di Afragola, aveva esercitato ripetute pressioni sui responsabili di un ipermercato di prossima apertura, per “agevolare” l’assunzione di 250 persone nominativamente segnalate, prospettando in caso contrario, la frapposizione di ostacoli all’avvio del centro commerciale. Successivamente, la corte di Appello di Napoli, lo assolveva dal reato. La Procura ricorreva in cassazione. La Suprema corte ha affermato che per aversi il reato di concussione è necessario che “il comportamento abusivo sia idoneo a creare nel soggetto passivo uno stato intimidatorio”. Aggiunge la Corte che questo illecito si configura anche nel caso in cui il pubblico ufficiale si attribuisca poteri estranei alla sua competenza. In pratica, “è sufficiente che la qualità soggettiva dell’agente renda credibile l’esistenza di una specifica competenza di fatto.
La raccomandazione in ambito pubblico, è proposta da un soggetto privato o istituzionale, ma per avere conseguenza giuridica deve essere percepita ed adottata da un Pubblico Ufficiale, che pone in essere atti illegali al fine di produrre gli effetti sperati nella Pubblica Amministrazione. Ciò si concretizza nell’avvantaggiare qualcuno in pubblici incanti o in pubblici concorsi, ma il vero danneggiato è il sistema pubblico: non vi è cooptazione dei suoi elementi secondo imparzialità e meritocrazia, inficiandone la sua efficienza. Molti sono i reati commessi.
Vi è il “Falso”, perché nei verbali pubblici si attesta una valutazione non veritiera o fatti inesistenti.
Vi è l’ “Abuso di ufficio”, perché si adotta un atto illegale con violazione di norme di legge, con cui si avvantaggiano soggetti non meritevoli, danneggiandone altri.
Vi è la “Corruzione” e la “Concussione”, perché vi è sempre un interesse e un vantaggio economico, spesso reciproco.
Vi è l’ “Associazione a delinquere”, perché si è in tanti ad essere partecipi. Ecc. ecc.
Insomma, dovrebbe essere equiparata alla turbativa d'asta, in quanto mi si dovrebbe spiegare qual'è la differenza tra un concorso truccato ed un appalto truccato.
Si soprassiede sul fatto, non marginale, sul perché non si ravvisi il reato di associazione di stampo mafioso istituzionale, per il sol fatto che vi è sopraffazione ed omertà in atti pubblici, con il vincolo associativo dei Pubblici Ufficiali.
Per RACCOMANDAZIONE si intende, comunemente, un'azione o una condizione che favorisce un soggetto, detto raccomandato, nell'ambito di una procedura di valutazione o selezione, a prescindere dalle finalità apparenti della procedura, cioè indicare i più meritevoli e capaci. Per essere tale, la raccomandazione deve coinvolgere un altro soggetto, detto raccomandante o sponsor, il quale esercita un'influenza sulla procedura di valutazione, indipendentemente dalle qualità del soggetto raccomandato. Le procedure di valutazione o selezione più frequentemente distorte dalle raccomandazioni sono i concorsi pubblici, le procedure di selezione del personale, i procedimenti di valutazione scolastica o di accesso a un corso di studi, gli esami universitari o di abilitazione professionale, o qualsiasi procedura dove si valuta l'idoneità o la competenza di un soggetto in un determinato ambito professionale o culturale.
Caratteristica fondamentale della raccomandazione, dunque, è che agisce su queste procedure introducendo un criterio di valutazione estraneo ai loro criteri logici ordinari, che dovrebbero puntare a scegliere i più preparati e i più idonei. Questa caratteristica la distingue da altre pratiche apparentemente simili, ma eticamente legittime e socialmente funzionali, come la presentazione di un allievo, da parte di uno scienziato a un altro scienziato, affinché l'allievo prosegua con il secondo scienziato il percorso di ricerca già intrapreso con il primo. In questo caso, infatti, l'azione dello scienziato "raccomandante" non prescinde affatto dalla qualità del "raccomandato", testata appropriatamente attraverso l'esperienza di ricerca. Per sincerare l'esistenza di una vera "raccomandazione", occorre dunque comprendere la natura dei rapporti tra i soggetti coinvolti, e chiarire se la natura di questi rapporti sono tali da introdurre, nel processo di valutazione, criteri estranei a quelli del merito e della capacità del valutando.
Nella raccomandazione esplicita (o raccomandazione propriamente detta) lo sponsor o raccomandante è sempre formalmente estraneo alla procedura di valutazione, e può indirizzare una semplice segnalazione a uno o più decisori coinvolti nella procedura di valutazione (raccomandatari). In tal caso si può anche parlare di menzione raccomandativa, che spesso viene descritta dal raccomandante con l'espressione "ho fatto il nome di....". Se invece il raccomandante esprime una schietta richiesta di favore o di aiuto, indirizzata ai raccomandatari, allora si può parlare di raccomandazione esortativa.
La raccomandazione implicita (o raccomandazione impropriamente detta) è invece una proprietà del soggetto valutato, che lo lega a un soggetto terzo o a un decisore (rapporto di amicizia, parentela, appartenenza politica, esperienze pregresse) e che può influenzare il processo di valutazione anche senza che un'azione vera e propria venga compiuta per distorcerlo.
Nel caso della raccomandazione esplicita, o anche nel caso della raccomandazione implicita se il raccomandante e il raccomandatario non coincidono, è frequente ravvisare un legame tra raccomandante e raccomandatario che espone il secondo all'influenza del primo, per meriti acquisiti dal raccomandante presso il raccomanadatario, per un rapporto di potere che il raccomandante può esercitare sul raccomandatario, per il prestigio e la reputazione del raccomandante, o per una qualsiasi proprietà del raccomandante da cui il raccomandatario attende vantaggi. Dello stesso tipo possono essere inoltre i legami tra raccomandato e raccomandante: se sussiste un rapporto di parentela tra i due, la raccomandazione è un aspetto del nepotismo. Se invece sussiste un rapporto politico, che spesso si traduce in consenso elettorale a favore del raccomandante, la raccomandazione rientra nella fenomenologia del clientelismo.
Dunque nella "pratica di raccomandazione" si ravvisano almeno tre soggetti. Nel caso della raccomandazione implicita, il raccomandatario non ha un ruolo attivo, ma nondimeno esercita la sua influenza.
Il raccomandante: colui che, sfruttando la propria posizione sociale e il proprio potere, compie l'azione del raccomandare.
Il raccomandato: colui che gode della raccomandazione e della posizione di vantaggio che ne consegue.
Il raccomandatario: colui che riceve la raccomandazione e, dunque, la segnalazione del soggetto da favorire.
La raccomandazione, anche detta informalmente "spintarella", può essere ulteriormente distinta in raccomandazione a spinta e raccomandazione a scavalco.
Nel caso della raccomandazione a spinta, la procedura di valutazione non è di tipo competitivo. I valutandi, in altre parole, non competono per l'accesso a un bene scarso, quindi non si forma una graduatoria con i partecipanti alla procedura di valutazione. E' il caso, ad esempio, degli esami scolastici o universitari. In questo caso, la raccomandazione danneggia il sistema sociale nel suo insieme, ma non presenta "controinteressati" specifici i cui diritti sono lesi.
Nel caso della raccomandazione a scavalco, i valutandi vengono inseriti in una graduatoria, in quanto competono per l'accesso a opportunità di numero limitato (ad esempio l'assunzione in un ente pubblico). In questo caso, la raccomandazione, oltre a danneggiare il sistema sociale sfavorendo la selezione dei più meritevoli e capaci, danneggia direttamente i valutandi non raccomandati.
La distinzione tra raccomandazione a spinta e raccomandazione a scavalco è spesso sfumata, in quanto gli esiti di procedure di valutazione non competitiva possono essere utilizzati per procedure di selezione: ad esempio, l'assegnazione di borse di studio può dipendere dai voti d'esame, la graduatoria di un concorso pubblico può dipendere dal voto di laurea. In questo senso, pressoché ogni raccomandazione a spinta ha il potenziale per sostanziarsi in una raccomandazione a scavalco, sebbene gli effetti siano in prima battuta meno prevedibili e specifici. Nel caso della raccomandazione a scavalco, invece, i danni di natura morale e patrimoniale inflitti ai valutandi non raccomandati sono immediatamente tangibili.
La raccomandazione è in Italia una pratica molto diffusa, soprattutto per l'accesso al pubblico impiego, come segnalano molte vicende di cronaca. La trasmissione "Mi Manda Raitre" segnalò molti casi di raccomandazioni a vantaggio di candidati del concorso per titoli e per esami del 2000, rivolto ad aspiranti insegnanti, supplenti in attesa di cattedra e neolaureati. Caso che rimbalzò sui primi titoli del Times e fece il giro del mondo. In quel caso, si parlò soprattutto di regali da parte dei raccomandati a membri delle commissioni esaminatrici, spesso consistenti in pellicce e gioielli. Non da meno sono gli scandali esplosi sui concorsi a numero chiuso per accedere alle università, ovvero le forme di baronie accademiche. Meno note alla pubblica opinione sono le questioni attinenti ai concorsi pubblici che attengono l'abilitazione professionale dell'avvocatura e del notariato o dell'università, oltre che quella più scabrosa per accedere in Magistratura. Investiti delle denunce sui concorsi farsa sono i Magistrati, che con gli avvocati e i professori universitari fanno parte, come componenti necessari, di tutte le commissioni di esame per l'accesso ai rispettivi ordini professionale. Invalidare un concorso pubblico significa invalidarli tutti, in quanto il sistema concorsuale è marcio dal punto di vista oggettivo, così come molteplici interrogazioni parlamentari e sentenze amministrative hanno dimostrato. Ammettere ciò significa palesare il degrado morale di una società civile la cui classe dirigente non merita di essere tale. Ma muoversi dal punto di vista penale significa inficiare la credibilità delle categorie nominare. Per questo non si può, nonostante la riforma dell'esame forense del 2003 ha attestato quanto si cerca di censurare: fuori i consiglieri dell'ordine degli avvocati dalle commissioni esaminatrici e gli scritti corretti da avvocati, magistrati e professori universitari di altro distretto di Corte d'Appello, sorteggiato, questo perché si raccomandava a iosa. In seguito nulla è cambiato. A questo punto per il sistema è più facile tacitare e perseguitare il dr Antonio Giangrande, presidente dell'Associazione Contro Tutte le Mafie, autore del libro "L'Italia del trucco, l'Italia che siamo" ed autore di centinaia di articoli-denuncia pubblicati da moltissime testate nazionali ed estere. Egli da anni denuncia al mondo il sistema illegale di accesso e di abilitazione alla classe dirigente italiana, non assicurandole la meritocrazia, foriera di inefficienza. Per questo per decenni non gli è stata resa un'abilitazione forense, chiaramente meritata, oltre che essere perseguito per reati inesistenti.
Il meccanismo della raccomandazione "va a buon fine" quando tutti i soggetti coinvolti agiscono di concerto. Spesso le relazioni tra i soggetti qui descritti sono sostenute da trasferimenti di denaro e/o altre prestazioni. Quando la raccomandazione ha buon esito e il candidato è insediato nel posto di lavoro da lui richiesto, può succedere che gli venga segnalato dall'ex raccomandatario un nuovo candidato da favorire, aprendo così una catena che è molto difficile interrompere, ma che finisce spesso per premiare candidati impreparati o inadatti a quella mansione a danno di altre persone che avrebbero i titoli e la preparazione ottimale per accedere, ma che si vedono esclusi a priori dall'accesso. La raccomandazione viaggia spesso attraverso circuiti familiari (nepotismo): un parente può essere favorito da un membro della stessa famiglia che occupa una posizione importante in seno a un istituto della pubblica amministrazione, un ente privato o una struttura confessionale, se in tali istituzioni esistono soggetti in grado e propensi a favorire dei loro protetti e manchi la vigilanza delle istituzioni.
Questa pratica danneggia quindi meritocrazia e efficienza, che dovrebbero essere sempre alla base delle assunzioni e della gestione: l'accesso di nuovi assunti non in grado di assolvere ai requisiti richiesti può causare una diminuzione o un danno alla produttività e all'efficienza di una struttura, mentre in molti casi la macchina burocratica della stessa diventa più lenta per la presenza di personale assunto ad hoc in numero eccedente rispetto alle necessità effettive. Talvolta il raccomandatario, se in una posizione molto influente, può addirittura indire un concorso o una serie di colloqui per posizioni per esaudire le necessità del raccomandato.
Nel caso della raccomandazione clientelistica nel settore pubblico, ulteriore danno alla pubblica amministrazione proviene dal rapporto di riconoscenza che lega il raccomandato al raccomandante: se la Costituzione della Repubblica Italiana pone i dipendenti pubblici "al servizio della Nazione", il raccomandato potrebbe invece servire l'interesse particolare del raccomandante politico-clientelare, venendo talvolta a configurare un rapporto di lavoro subordinato, di fatto, non più con l'ente pubblico che eroga la retribuzione (e quindi con la comunità di cittadini che finanzia l'ente pubblico), ma con il raccomandante o con la parte politica del raccomandante. I raccomandanti, in alcuni casi, potrebbero contare sul dipendente pubblico come su una propria risorsa privata da utilizzare per le attività di partito o addirittura personali o familiari dei raccomandanti, sebbene a spese dei contribuenti.
A sua volta, laddove si manifesta, l'inefficienza della macchina burocratica (personale eccedente assunto senza effettive necessità, leggi errate, conflitti tra leggi regionali e statali ecc.) può rendere molto difficile l'accesso al posto di lavoro da parte del candidato avente i requisiti necessari. I cavilli legali, la lunghezza delle pratiche da espletare, possono creare così una competizione al ribasso che spinga un dirigente poco onesto a risolvere i problemi occupazionali di un candidato particolare piuttosto che di un altro in possesso di titoli uguali o maggiori del favorito.
La domanda di posti di lavoro aumenta con l'incertezza istituzionale: leggi e decreti che scadono al cadere di una legislatura, o concorsi istituiti una tantum per volontà di un singolo governo o di una singola amministrazione, non ripetuti a scadenze precise di tempo possono aggiungersi ai problemi già elencati. Le vessazioni burocratiche illegali (ad es. richiesta di documenti o certificati di identità o idoneità laddove la legge prescrive l'autocertificazione personale), la complicazione delle procedure burocratiche (eccessiva documentazione da compilare, difficoltà dei moduli di iscrizione e mancanza di personale, insufficienza delle strutture addette ad assistere i candidati nell'espletamento delle pratiche, la mancanza o insufficienza di informazioni atte alla preparazione del candidato possono scoraggiare ulteriormente chi non goda di sostegni particolari all'interno dell'istituzione in questione.
Per tutti questi aspetti, le raccomandazioni sono da considerare una vera e propria piaga sociale, che danneggia alle fondamenta il sistema sociale ed economico, incentivando la "fuga dei cervelli", minando la competitività del sistema produttivo, incentivando l'inefficienza, gli sprechi e l'illegalità nella pubblica amministrazione e contribuendo a diffondere un'atmosfera di sfiducia e scarsa propensione al lavoro e allo studio.
Dorothy Louise Zinn, con il suo libro, “La raccomandazione, Clientelismo vecchio e nuovo”, parla di un tema sempre attuale.
Secondo una radicata tradizione di studi antropologici, ormai largamente acquisita anche dal senso comune, il clientelismo è uno dei caratteri costitutivi della realtà del nostro Mezzogiorno. Ad esso viene strettamente connessa l'idea della raccomandazione, cioè di una qualche forma di relazione sociale tesa a «forzare le regole», e che va dalle più piccole e innocue richieste di favori, fino alle forme più gravi di sopraffazione e stravolgimento delle regole. Ma la raccomandazione è davvero, e soltanto, un fatto meridionale? Tutta la vicenda di Tangentopoli in Italia, così come le crisi economiche dell'Asia e della Russia, o lo scandalo che ha investito in Germania il partito dell'ex cancelliere Kohl, indicano che i tempi sono maturi per una riconsiderazione del clientelismo.
Sarà pure spregevole, ma è quanto mai necessaria. La raccomandazione è una pratica così diffusa nel malcostume nostrano da essere elevata a sistema, a ideologia pura. Il 58% degli italiani, infatti, secondo la rivista Focus, approva la spintarella come strumento di promozione senza differenze tra maschi e femmine. L'Italia si conferma paese dove il nepotismo e la "segnalazione" hanno basi abbastanza solide e così la percentuale si alza di molto quando si tratta di chiedere una raccomandazione per parenti o amici. Secondo l'indagine della rivista si arriva al 72% per gli uomini e addirittura all'80 per le donne. La meritocrazia non gode di ottima salute in Italia. E ormai la credenza che la raccomandazione sia un atto dovuto sta egemonizzando l'opinione pubblica e la gente comune. Nel familismo all'italiana sembra non si possa proprio negare un favore a nessuno. I centri di potere che creano clientele sono molteplici (politica, magistrati, avvocati, mondo ecclesiastico) ciascuno in grado di assicurare un posto al sole. Sono in pochi a credere nella mobilità sociale, così meglio affidarsi a prassi consolidate. Così all'intervistatore che chiede: “Raccomandereste il figlio, inetto, di un amico che vi ha fatto un grosso favore?”, il 41% ha risposto in modo affermativo aggiungendo, “senza insistere”. Ma solo il 10% degli intervistati ne sconsiglierebbe l'assunzione.
Sarà cambiata lei, ma i raccomandati no, quelli ci sono sempre. Almeno uno su due, è la conclusione di una ricerca dell’Isfol. E per un’indagine dell’Eures quasi il 60% dei ragazzi con meno di 20 anni hanno le idee chiare sul loro futuro, convinti come sono che il fenomeno della raccomandazione sia in aumento.
Anche chi è sempre stato diffidente verso la Confindustria farebbe bene a leggere il rapporto "Generare classe dirigente" della Luiss, l’università dell’associazione degli industriali. Quel rapporto è composto essenzialmente da due parti. La prima è stata elaborata sulla base di 2080 questionari rivolti a soggetti scelti fra tutta la popolazione italiana messi a punto dall’associazione laureati Luiss, dall’Università politecnica delle Marche, dell’Università di Bologna e dalla società Ermeneia del sociologo Nadio Delai. Il risultato è per certi versi sconcertanti. Alla domanda se in Italia le raccomandazioni contino più del merito, le risposte "molto" e "abbastanza" hanno raggiunto l’80,6% del totale. E questo nonostante il 79,9% sia d’accordo sul fatto che la valorizzazione del merito possa "migliorare le condizioni del Paese". E se secondo gli intervistati il riconoscimento del merito esiste sia pur moderatamente nella piccola e media impresa (51,2%) e nelle professioni (49,9%), nella classe dirigente (34,4%) è molto più basso, per non parlare dei sindacati (27,9%), delle associazioni imprenditoriali (24,5%), della pubblica amministrazione (24%) e della politica, dove i giudizi sul riconoscimento del merito sono i più bassi in assoluto: 22,9%. Da sottolineare che sia per la pubblica amministrazione che per la politica il peso delle risposte "poco" e "per nulla apprezzato" relativamente al merito, raggiungono i livelli massimi, rispettivamente pari al 56,3% e al 54,2%.
La raccomandazione non tramonta mai. Il male italiano resta radicato con forza nella nostra realtà lavorativa e non accenna a indebolirsi. E' quanto risulta da un sondaggio realizzato dall'istituto ricerca Swg e diffuso durante un convegno a Lamezia Terme sul tema "La nuova politica del quadro strategico nazionale: l'istruzione motore dello sviluppo". Secondo l'indagine 9 italiani su 10 credono che per trovare lavoro serve conoscere la persona giusta. Sono l'89% degli interpellati a dire dunque che la vecchia raccomandazione serve ancora, eccome, per trovare un'occupazione in Italia.
Al Sud solo un laureato su quattro trova lavoro e solo grazie alle "conoscenze". Lo rivela uno studio della «Rivista Economica del Mezzogiorno», trimestrale della Svimez. Nonostante il conseguimento di un titolo di studio superiore, nella ricerca di un posto di lavoro al Sud, a farla da padrona restano la conoscenza diretta, la segnalazione da parte di parenti e conoscenti o la prosecuzione di un'attività familiare già esistente. Nel Sud infatti, laurearsi è importante, si legge nello studio, ma solo «se si proviene dalla famiglia "giusta", non solo perché ricca, ma pure perché inserita in un reticolo di rapporti sociali». Per le famiglie dei ceti sociali più bassi l'investimento negli studi universitari è rischioso: «La laurea riduce il rischio che lo studente resti disoccupato, ma non riduce il rischio di trovare un'occupazione mal retribuita».
Recenti inchieste giudiziarie hanno smascherato centinaia di casi di privilegio e favoritismi, costruiti scientemente. La raccomandazione è il metodo più rapido per ottenere risultati. Che denoti una scarsa cultura della legalità, o un impatto sociale devastante non sembra interessare più di tanto. Del resto in situazioni di ristrettezza e di vacche magre, la spintarella rimane un valido appiglio per andare avanti con la proverbiale arte dell'arrangiarsi, del tirare a campare, del machiavellismo specioso. Come dire: ognuno usa i mezzi di cui dispone. Con buona pace dei sociologi che lanciano strali contro le sponsorizzazioni gonfiate e pontificano sul declino dell'etica, sul clientelismo, sul familismo amorale.
I PARENTI ECCELLENTI DELLA POLITICA: DALLE DINASTIE PERPETUE A CHI SISTEMA I FIGLI NEGLI UFFICI O LE MOGLI IN PARLAMENTO.
Un fenomeno davvero curioso, che in politica si verifica con una frequenza strabiliante, è quello dell’ereditarietà. E’ curioso perché nello sport, per esempio, non accade con eguale sistematicità. Quanti grandi calciatori o sciatori o automobilisti hanno generato eredi capaci di eguagliarli e magari superarli? I casi si possono contare sulle dita di una mano. In politica, al contrario, non è così. Evidentemente, i geni si tramandano meglio quando si sta seduti su una comoda poltrona in Palamento, che quando occorre correre dietro una sfera di cuoio o su un bolide di Formula1. Chi di voi, infatti, sapeva che l’ex premier Massimo D’Alema è figlio di un ex deputato del Partito comunista italiano, Giuseppe D'Alema?
L’ex primo ministro – l’unico della storia italiana a provenire dalla sinistra – non è tuttavia l’unico prototipo del darwinismo applicato alla politica. Particolarmente articolata, infatti, è la dinastia dei Veltroni.
Walter è figlio di Vittorio Veltroni, radiocronista Eiar e poi dirigente della Rai, scomparso quando lui aveva appena un anno. Sua madre, Ivanka Kotnik, era figlia dello sloveno Ciril Kotnik, ambasciatore del Regno di Jugoslavia presso la Santa Sede, che dopo l'armistizio del 1943 aiutò numerosi ebrei romani a scappare dalla persecuzione nazifascista. Walter, bocciato in prima superiore – quasi un precursore rispetto a Renzo Bossi - nel 1973 ha ottenuto il diploma in cinematografia e televisione. In particolare, si è distinto per avere sfasciato il centrosinistra, defenestrando Romano Prodi – l’unico capace di battere sempre il Cavaliere - e guidando il Pd alla disfatta nelle politiche del 2008.
Proprio Romano Prodi, due volte presidente del Consiglio, ex ministro dell’era Andreotti e presidente storico dell’Iri, ha un fratello maggiore, Vittorio, che siede all’Europarlamento. La loro dinastia impera anche all’Università di Bologna. Vittorio è stato docente di fisica, Romano vi insegna ancora economia.
Giorgio Franceschini, padre del ferrarese Dario - anche lui leader per nulla indimenticabile del Pd, dopo il fallimento di Veltroni - fu partigiano bianco e deputato per la Democrazia cristiana durante la II Legislatura, dal 1953 al 1958.
Rosa Russo Jervolino, ex ministro dell’Interno e sindaco di Napoli, è figlia di Angelo Raffaele Jervolino, ex esponente del Partito popolare e della Dc, firmatario della costituzione, deputato, senatore e ministro di Alcide De Gasperi, Amintore Fanfani e Aldo Moro.
Il deputato messinese del Pd ed ex sindaco di Messina, Francantonio Genovese, è nipote dello storico numero uno della Dc siciliana, Nino Gullotti, a suo tempo pluriministro della Repubblica, e figlio dell’ex senatore della Balena Bianca, Luigi genovese. Altro figlio d’arte messinese è il senatore Gianpiero D’Alia, coordinatore siciliano dell’Udc e capogruppo a palazzo Madama. Suo padre, Totò, è stato per anni un pezzo da novanta della Dc.
“Circondato” da politici o comunque da militanti è Piero Fassino, altro esponente di spicco del Pd, più volte ministro e segretario dei Ds dal 2001 al 2007. È sposato dal 1993 con Anna Maria Serafini, deputata del suo stesso partito dal 1987 al 2001 e senatrice dal 2006. Nel 2008, stranamente, è stata eletta in un collegio della Sicilia, sebbene lei sia nata - il 4 marzo 1953 - a Piancastagnaio (provincia di Siena) e sia residente a Roma. Probabilmente avrà trovato nell’isola un posto disponibile sul treno per palazzo Madama. Il nonno materno di Piero Fassino, Cesare Grisa, fu uno dei fondatori del Partito socialista italiano. Quello paterno venne ucciso dai fascisti nel 1944, mentre il padre, Eugenio Fassino, è stato comandante della 41ma brigata Garibaldi nel corso della resistenza.
Si sono separati come le acque al cospetto di Mosè i figli di Bettino Craxi, padre a dir poco discusso del socialismo liberale italiano. Stefania, sottosegretaria agli Esteri, ha sposato – sebbene con atteggiamento recentemente critico – la causa di Silvio Berlusconi. Bobo, fratello minore, è stato anch’egli sottosegretario agli Esteri, ma nel Governo Prodi. E ora tenta l’impresa con il riesumato Partito socialista.
Un nome decisamente altisonante e ancora più “scomodo” di quello dei Craxi è quello di Alessandra Mussolini, ex attrice e cantante e da una vita in Parlamento. L’attuale deputata del Pdl si potrebbe definire una predestinata, configurando una sorta di “incrocio” tra due famiglie di assoluto richiamo. E’ infatti figlia di Anna Maria Scicolone, sorella minore dell'attrice Sophia Loren, e di Romano Mussolini, quarto figlio di Benito.
Parenti eccellenti anche nelle forze cosiddette autonomiste. Come per esempio in Sicilia. L’ex europarlamentare e attuale governatore Raffaele Lombardo, un tempo democristiano di ferro e ora leader del Mpa, nel 2008 ha spedito a Montecitorio il fratello Angelo Salvatore, da una vita nella sua segreteria politica. Angelo, nel 2006, era stato eletto all’Assemblea regionale siciliana, salvo poi perdere la poltrona a causa dello scioglimento del governo in virtù delle dimissioni dell’allora presidente Salvatore Cuffaro.
Ma quando si parla di autonomismo non si può tralasciare l’epopea dei Bossi. Renzo, secondogenito di Umberto, dopo essere stato bocciato per ben 3 volte all’esame di Stato, nel 2009 è stato eletto in Consiglio regionale lombardo. Il primogenito Riccardo, all’inizio del nuovo millennio, è stato il portaborse – in Europarlamento – del leghista Francesco Speroni. Lo stesso è accaduto per Franco Bossi, fratello del Senatùr, che nello stesso periodo ha servito a Bruxelles un altro esponente del Carroccio, Matteo Salvini. Nessuno dei due portaborse aveva titoli giustificativi dell’incarico ma guadagnavano entrambi 12.750 euro. Mensili.
Sempre in quegli anni, il sottosegretario Maria Elisabetta Alberti Casellati, in quota a Forza Italia prima e al Pdl poi, ha assunto a capo della propria segreteria, al ministero della Salute, la figlia Ludovica. E ancora in consiglio regionale Lombardo, oltre al Trota, siede un altro parente eccellente: Romano Maria La Russa, fratello minore del ministro della Difesa, Ignazio.
E questa è solo la punta dell’iceberg. Del resto, si sa, buon sangue non mente. Anche se verrebbe tanto da chiedersi dove è finito, dopo la morte della Prima Repubblica, il “nuovo che avanza”.
"Onorevoli figli di. I parenti, i portaborse, le lobby: istantanea del nuovo Parlamento" Rinascita edizioni di Danilo Chirico e Raffaele Lupoli.
"Non possiamo avere un Paese che, quando andiamo a vedere le liste elettorali, sono tutti figli di". Luca Cordero di Montezemolo era ancora presidente di Confindustria quando, da buon manager legato alle famiglie più influenti del capitalismo italiano, prima del voto ha voluto ribadire l'importanza della meritocrazia e della concorrenza in tutti i campi, anche nella politica. "Sin dalla prima elementare - ha spiegato - chiunque deve poter andare avanti se è capace, indipendentemente da come si chiama". Gli si potrebbe replicare che dipende anche da dove uno frequenta le elementari. E se ci va accompagnato dall'autista di papà o a piedi con la mamma disoccupata assieme agli altri tre fratelli. (...) Essere figli di non è reato e non è per forza sinonimo di incapacità e privilegio: per fortuna c'è anche chi eredita passione e competenza. Anche se non sempre è possibile distinguere se e quanto il successo, nella professione o nella politica, dipenda dal saperci fare o dal peso del genitore di turno.
Maria Paola Merloni, ad esempio, è laureata in Scienze politiche ed è un'imprenditrice. A 45 anni ha al suo attivo già due anni da deputato della Margherita, poi Pd. Prima di arrivare in politica è stata presidente di Confindustria nelle Marche e le sue parole d'ordine sono "innovazione e competitività". Nonostante abbia mostrato sul campo le sue doti, il suo nome lo si trova per forza di cose associato a quello del padre Vittorio, fabrianese patron della Indesit elettrodomestici e presidente di Confindustria dal 1980 al 1984. Durante la scorsa legislatura sulla prima dei quattro figli dell'industriale, membro peraltro della commissione Attività produttive, si è abbattuto un sospetto di conflitto d'interesse quando si è trattato di votare sugli incentivi all'acquisto degli elettrodomestici ecologici. (...)
Per rimanere nel ramo (figli e rottamazioni) passiamo a Matteo Colaninno, esordiente in Parlamento ma alle spalle una carriera da manager che fa spavento se rapportata ai suoi 38 anni. Prima di annunciare il suo sì a Veltroni (era capolista in Lombardia 1) si è dimesso dalla carica di presidente nazionale dei Giovani imprenditori, di vicepresidente di Confindustria e di membro del consiglio d'amministrazione del Sole 24 Ore. (...) Matteo è il numero due dell'impresa guidata da Roberto Colaninno, il gruppo Piaggio: 7.200 dipendenti, 7 stabilimenti e attività commerciali in oltre 50 paesi. La sua visione sul ruolo di operai e imprenditori nel paese è la stessa più volte espressa da Walter Veltroni: "Oggi anche le imprese non sono necessariamente soggetti forti - ha detto Colaninno all'apertura della campagna elettorale -. Bisogna capire che azienda e lavoratori devono fare parte dello stesso progetto perché il mercato non è più l'orto di casa o il confine domestico ma il mondo". (...)
Tanti imprenditori è vero, ma qualche rampollo della politica non se lo è fatto sfuggire neanche Silvio Berlusconi, nonostante un solenne annuncio dallo studio di Porta a porta, quando in apertura di campagna elettorale disse: "Nel Pd hanno messo dentro le segretarie, i portaborse e anche i figli e le figlie di. Una cosa che, posso assicurare, noi non faremo".
Fra i banchi di Montecitorio però siede anche stavolta Giuseppe Cossiga, figlio di Francesco. L'ex presidente picconatore che l'8 aprile, dopo aver confermato i buoni rapporti con il Cavaliere ("non l'ho mai votato, ma sono amico suo e delle sua famiglia"), ha regalato uno "scoop" alla giornalista del Piccolo che lo intervistava: "Sarò il testimone di nozze della figlia di Berlusconi, Barbara - ha detto - E sa chi mi ha scelto? Barbara". Amicizie di famiglia a parte, l'onorevole Cossiga figlio, 44enne ingegnere aeronautico, era vice-coordinatore sardo di Forza Italia e la scorsa legislatura faceva parte della commissione Difesa di Montecitorio. (...)
Per restare ai politici figli di politici, torna in Parlamento anche Enrico Costa, figlio dell'ex ministro Raffaele, liberale finito nel Pdl, autore dei libri "L'Italia degli sprechi" e "L'Italia dei privilegi" e propugnatore della fine dei poteri speciali a regioni e province autonome. Il padre presiede la provincia di Cuneo, mentre il figlio, deputato con il Pdl, ne segue le orme a Roma.
Meno noto, ma altrettanto "figlio" il teramano Paolo Tancredi, 42 anni: suo padre è l'ex parlamentare della Dc Antonio Tancredi. Eletto al Senato nelle truppe berlusconiane ha lasciato la carica di consigliere regionale nel suo Abruzzo.
Stessa eredità e stesso partito per Mauro Pili, figlio di Domenico, socialista di Iglesias che abbandonò la politica dopo una condanna per tangenti. Il giornalista ed ex (giovanissimo) presidente della Regione Sardegna (famoso il suo discorso d'insediamento in cui citava cifre e dati relativi alla Lombardia), in campagna elettorale ha attraversato la sua regione a bordo del "treno della libertà".
Alla stazione Montecitorio Pili si è ritrovato seduto qualche posto più in là un altro figlio riconfermato, il responsabile Mezzogiorno di Forza Italia ed ex presidente della Regione Puglia Raffaele Fitto da Maglie, Lecce. Anche suo padre Totò, democristiano di razza e concittadino (ma avversario nel partito) di Aldo Moro, è stato alla guida della Regione. Purtroppo è morto in un incidente stradale nel 1998, prima di coronare il suo sogno di candidarsi all'Europarlamento l'anno successivo, ma il giovane Raffaele, oggi 38enne, ne ha raccolto bacino di voti e voglia di gettarsi nell'agone.
A 33 anni (è nata il 23 ottobre del 1974) è al suo terzo mandato anche Chiara Moroni, figlia del parlamentare socialista Sergio, che si tolse la vita dopo che fu coinvolto nello scandalo di Tangentopoli. Dopo la morte del padre Chiara ha militato nella Federazione giovanile socialista e, aderendo al Nuovo Psi, si è candidata con la Casa delle Libertà alle politiche del 2001. Nel 2004 è stata al centro di roventi polemiche, scaturite dalle esternazioni dei deputati leghisti Alessandro Cè e Dario Galli, che avevano dichiarato: "Ci sono persone abbastanza giovani, che stanno qui non si capisce per quali meriti", alludendo chiaramente alla Moroni e ai partiti della Prima Repubblica (fra cui quello socialista), che la Lega ha spesso criticato.
L'avvocato e poi magistrato militare Daniela Melchiorre, classe 1970, il 18 maggio 2006 è stata nominata sottosegretario alla Giustizia del governo Prodi. "Il governo di centrosinistra sarà fondamentale nel portare un miglioramento nella giustizia in generale. Si lavorerà in tutte le direzioni indicate da presidente del Consiglio", aveva dichiarato subito dopo la nomina. Prima di allora affiancava alla professione l'attività di vicesegretario regionale della Margherita in Lombardia. Gianni Barbacetto nel libro "Compagni che sbagliano" racconta che nel curriculum scritto da lei stessa, tra i meriti di studio e professionali, compare anche un'altra utile indicazione: "Figlia del generale della Guardia di finanza Melchiorre e nipote del cardinale Bovone". Una voce quantomeno originale, ma facile da valutare. (...)
Insospettabili le origini familiari di Maria Eugenia Roccella, neo-deputata del Pdl. Giornalista e saggista con una laurea in lettere e un dottorato di ricerca alla Sapienza, Eugenia è figlia di Franco, uno dei fondatori del Partito radicale e anima dell'Ugi, Unione goliardica italiana. A lui si deve il motto dell'associazione che annoverava fra i suoi adepti Marco Pannella e Lino Jannuzzi: "Goliardia è cultura e intelligenza, è amore per la libertà e coscienza della propria responsabilità". (...)
Se, insomma, il Popolo delle libertà non può scagliare la prima pietra, è vero anche che il Partito democratico è stato il più criticato in campagna elettorale per la sua eccessiva attenzione alla genealogia. La medaglia d'oro per la specialità va senz'altro a Daniela Cardinale, giovane figlia dell'ex ministro delle Poste e telecomunicazioni Salvatore. (...)
Sul banco degli imputati con l'accusa di essere "figlia di" è finita anche Marianna Madia, che rivendica con fierezza un'affermazione per la quale era stata criticata da più parti: "Porto in dote tutta la mia straordinaria inesperienza". E spiega che la sua candidatura "dimostra che c'è una rivoluzione in corso". Ma di lei in campagna elettorale si è detto soprattutto che è sveglia e amica dei potenti. Per sua stessa ammissione la parlamentare romana, classe 1980 "secchionissima" laureata con il massimo dei voti, deve dire grazie a chi le ha consentito di arrivare al posto di capolista nel Lazio: dal "maestro di vita" Giovanni Minoli a Enrico Letta, "che ad una ragazzina non ancora laureata ha dato la possibilità di entrare all'Arel", il Centro studi economici promosso dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio. E ovviamente a Walter Veltroni, a cui è bastato un colloquio dopo la segnalazione degli altri due padrini per decidere. "L'ho visto due volte in vita mia - si schermisce Marianna - Venne al funerale di mio padre. Tre anni e mezzo dopo mi ha telefonato per propormi la candidatura. Il padre di Marianna, Stefano Madia, era giornalista professionista. Poi decise di iscriversi a un corso di recitazione e Dino Risi lo scritturò per il film Caro papà che gli fruttò un premio come miglior attore non protagonista a Cannes. "Poi torna al suo lavoro - racconta la figlia - Ma da precario: programmista-regista in Rai. Lavora a Porta a porta, poi a Mixer, quindi fa causa alla Rai. Dopo dieci anni, due mesi fa ho ricevuto la sentenza: il giudice ordina assunzione e reintegro con giusta mansione. Perciò, in Parlamento, lo giuro: di due cose, certamente, mi occuperò. La lentezza della Giustizia e il dramma del precariato".
"La candidatura come capolista di Marianna Madia mi convince come donna e come democratica. E le parole di Marianna mi convincono ancor più che la strada del rinnovamento è davvero iniziata". Sarà solidarietà filiale, dato che Franca Chiaromonte, senatrice eletta in Campania, è figlia di Gerardo, parlamentare e dirigente comunista, numero due del partito ai tempi di Berlinguer. (...)
Ritrova il suo posto al Senato anche Sabina Rossa, 45 anni, insegnante e sindacalista: eletta nel 2006 nelle file dell'Ulivo torna a Palazzo Madama dopo l'elezione in Liguria, dove era sesta in lista. Suo padre Guido nel '79 è stato giustiziato da un commando delle Brigate Rosse in un'esecuzione che segnò l'inizio della loro fine. L'attentato era stato deciso per punire il sindacalista della Fiom-Cgil che aveva voluto denunciare l'infiltrazione in fabbrica di un brigatista sorpreso a sistemare volantini terroristici. (...)
Con Sabina Rossa, Giovanni Bachelet ha in comune il tragico destino del padre. E anche lui è stato eletto con il Partito democratico alla Camera. Le sue ricerche come fisico della materia hanno ottenuto il prestigioso traguardo di circa quattromila citazioni: ora lo scienziato arriva in un Parlamento che nella sua storia ne ha annoverati davvero pochi. (...)
Segno Pd ascendente Dc anche per Francantonio Genovese, messinese avvocato figlio del senatore Luigi e nipote del pluriministro Nino Gullotti, entrambi dello scudo crociato. L'ex deputato regionale e sindaco di Messina "decaduto" è segretario siciliano del partito ed è stato eletto alla Camera nel collegio Sicilia II (terzo in lista). Da primo cittadino della sua città, nel 2007 il neo parlamentare è stato travolto, assieme all'intero consiglio comunale, dall'annullamento delle elezioni che lo avevano eletto nel novembre 2005. Il Consiglio di giustizia amministrativa ha accolto il ricorso di un suo contendente alla poltrona di sindaco, Antonio Di Trapani, e della lista del Nuovo Psi di De Michelis, esclusi dalla competizione.
Esordio in Parlamento anche per Roberto Della Seta, romano classe 1959, responsabile Ambiente del Pd eletto al Senato in Piemonte. (...) Prima del "salto" era presidente nazionale di Legambiente, dove era entrato da obiettore di coscienza e ha lavorato per oltre dieci anni. Laureato in Storia dei partiti politici, giornalista, è autore di saggi su vari temi di storia contemporanea: l'ultimo è il Dizionario del pensiero ecologico, il primo è I suoli di Roma, scritto a quattro mani con suo padre Piero, urbanista, saggista ed ex assessore nella capitale dal 1976 al 1983 nelle gloriose giunte Petroselli e Argan. (...)
Giuseppe Berretta, eletto in testa alla lista Pd nel collegio della Sicilia orientale, ha ereditato dal padre due carriere: quella accademica e quella politica. Prima di arrivare a Montecitorio il 37enne avvocato e docente di Diritto del lavoro all'università Kore di Enna, è stato consigliere comunale all'opposizione di Scapagnini, che ora ritroverà in Parlamento, e segretario dei Ds a Catania. Il padre è Paolo Berretta, vicesindaco ai tempi di Enzo Bianco, docente universitario da sempre impegnato in politica, scomparso nel 2006.
Candidata numero 18 al Senato per il Pd in Lombardia c'era anche Ludina Barzini, giornalista, nipote di Luigi Barzini senior, figlia di Luigi Barzini jr, ha raccontato alcune vicende della sua famiglia in Barzini, Barzini, Barzini (Rizzoli 1986). E' è stata anche assessore alla cultura al Comune di Milano. Assieme a candidature di bandiera come quella della Barzini, Pd e Pdl hanno candidato anche alcuni giovani dai natali parlamentari verso il fondo delle liste. Sono ragazzi che sulla scorta dell'esperienza paterna intraprendono la formazione alla dura scuola della campagna elettorale.
Per sostenere Veltroni, ad esempio, ha cominciato a farsi le ossa Gennaro Diana figlio di Lorenzo, ex senatore proveniente dalle difficili terre di Casal di Principe, in provincia di Caserta, in Parlamento dal 1994 al 2006. Dopo tre legislature nelle fila dei Ds e in commissione Antimafia, oggi è membro dell'assemblea nazionale del Pd. Il giovane figlio era numero 26 in Campania 2. Candidatura di servizio, si dice in gergo.
Nelle truppe berlusconiane è stato invece eletto Antonino Salvatore Germanà, nato a Messina nel 1976 e piazzato al decimo posto in Sicilia 2. Conquistando quel seggio che tra Camera e Senato il padre Basilio occupava per Forza Italia dal '94 (fu lui nel 2002 a proporre una provincia autonoma per le isole minori: 53 in tutto). Per la candidatura è perfino entrato in competizione con l'assessore regionale uscente alla Cooperazione Nino Beninati. Per volare a Roma il 32enne deputato ha lasciato ben volentieri la poltrona alla Provincia di Messina, dove era assessore alla Pubblica istruzione. Le sedie che occuperà nella capitale hanno tutto un altro fascino.
Invece è un capitolo a sé l'eterno match tutto interno alla famiglia Craxi. Il botta e risposta a distanza ha toccato il punto più caldo a metà marzo, quando Michele Vittorio detto Bobo Craxi si è armato di carta e penna e ha scritto a sua sorella: "Cara Stefania, stai nel posto sbagliato". Il capolista per il Partito Socialista in Lombardia 1 e 3 ha reagito così all'iniziativa dal titolo "I riformisti craxiani e il Partito popolare europeo", svoltasi a Milano ad opera del movimento Giovane Italia di Stefania Gabriella Anastasia, meglio conosciuta come Stefania Craxi. L'operazione è chiara: la sorella maggiore era candidata del Popolo delle libertà (è stata eletta nella circoscrizione Lombardia 1). E nella formazione guidata da Silvio Berlusconi ha voluto portare con sé l'ingombrante bagaglio del craxismo, quello che fa riferimento a suo padre Bettino. Le urne hanno dato ragione a lei.
Tra non eletti anche il senatore Alessandro Forlani, figlio dell'Arnaldo del famigerato Caf (il trio Craxi Andreotti Forlani), sul quale l'Unione di centro riponeva le speranze di ottenere un seggio al Senato nelle Marche. Alessandro Forlani ha seguito fin dai tempi del Ccd le vicende politiche di Pier Ferdinando Casini, ritenuto unanimemente l'erede politico più diretto di Forlani padre. Il quale però avrebbe preferito che Berlusconi e Casini non fossero arrivati alla separazione. Poi si è rassegnato, visto che il dissenso tra Pier e Silvio è precipitato in lite. "Dico la verità, non mi aspettavo che, dopo aver fatto il patto con Fini, Berlusconi fosse così drastico con Casini". Una chiusura che a pochi giorni dal voto ha portato papà Arnaldo a dichiarare la sua preferenza: "Credo che le suggestioni e la retorica di un certo presidenzialismo abbiano reso la politica italiana meno democratica" e dunque va incoraggiata "la scelta dell'Udc di presentarsi da sola". Sarà mica perché era in gioco la rielezione del figlio? (...)
Rimane invece al Parlamento europeo Claudio Fava, 51enne figlio del direttore de I Siciliani Giuseppe, ucciso dagli uomini del clan Santapaola nel 1984. Dal padre Claudio ha ereditato molte passioni, a cominciare dal mestiere. Nel nuovo Parlamento poteva sedere con tutta tranquillità tra i banchi del Partito democratico, ma ha preferito fare il capolista con poche speranze per la Sinistra arcobaleno. Il motivo? "Mi sarei ritenuto pazzo a candidarmi capolista al Senato per il Partito democratico, avendo alle mie spalle, nella stessa lista, Mirello Crisafulli" ha detto Fava. Che all'affermazione di Casini sul fatto che "non è giusto che le liste le faccia la magistratura" ha replicato: "Infatti le liste dell'Udc le ha fatte Casini. Solo lui poteva ricandidare capolista al Senato un signore, Cuffaro, condannato all'interdizione perpetua dai pubblici uffici". E non ha risparmiato neanche Lombardo: "È un Cuffaro fresco di lavanderia".
BERRETTA, Giuseppe (1970)
Figlio di Paolo Berretta, vicesindaco di Catania negli anni '90, è avvocato e professore universitario. Nel 2005 viene eletto consigliere comunale di Catania, e nel 2008 entra alla Camera nelle liste del Partito Democratico.
BOSSI, Renzo (1988)
Figlio del leader della Lega Nord Umberto Bossi e soprannominato "il trota", noto alle cronache per essere riuscito a conseguire il diploma di maturità solo al terzo tentativo nel 2009, l'anno successivo viene eletto consigliere regionale della Lombardia risultando il più votato nella provincia di Brescia.
CARDINALE, Daniela (1982)
Figlia dell'ex ministro Salvatore Cardinale, è laureata in scienze della comunicazione. Nel 2008 viene eletta alla Camera con il Partito Democratico, dopo la decisione del padre di non candidarsi con la promessa che sarebbe stata candidata al suo posto la figlia.
CHIAROMONTE, Franca (1957)
Figlia di Gerardo Chiaromonte, parlamentare e dirigente comunista, è giornalista. Nel 1994 viene eletta deputata con il Partito Democratico della Sinistra, nel 2001 e nel 2006 viene riconfermata alla Camera con l'Ulivo, nel 2008 viene eletta al Senato con il Partito Democratico.
COSSIGA, Giuseppe (1963)
Figlio del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, è laureato in ingegneria aeronautica. E' stato deputato di Forza Italia per due legislature e nel 2008 è stato rieletto alla Camera con il Popolo della Libertà. E' Sottosegretario alla Difesa.
COSSUTTA, Maura (1951)
Figlia di Armando Cossutta, dopo aver esercitato a lungo la professione di medico ematologo aderisce al Partito della Rifondazione Comunista, con cui viene eletta deputata nel 1996. Nel 1998 segue il padre nella formazione del Partito dei Comunisti Italiani, con i quali viene eletta alla Camera nel 2001.
COSTA, Enrico (1969)
Figlio dell'ex ministro liberale Raffaele Costa, avvocato, viene eletto deputato nel 2006 ed è rieletto nel 2008 nelle fila del Popolo della Libertà.
CRAXI, Bobo (1964)
Figlio di Bettino Craxi, è consigliere comunale a Milano fino al 1991. Nel 2000 fonda la Lega Socialista, che poi confluisce nel Nuovo PSI. Nel 2001 viene eletto deputato nella Casa delle Libertà. Nel 2006 viene candidato nella lista dell'Ulivo alla Camera senza essere eletto, ma viene nominato sottosegretario agli Affari Esteri del Governo Prodi. Nel 2007 aderisce alla "costituente" che porta alla nascita del Partito Socialista. Nel 2010 partecipa alle elezioni regionali nel Lazio guidando una lista socialista sostiene Emma Bonino.
CRAXI, Stefania Gabriella Anastasia (1960)
Figlia di Bettino Craxi, ha fatto parte prima del Partito Socialista Italiano, poi di Forza Italia, e infine del Popolo delle Libertà. E' Sottosegretaria di Stato agli Esteri dal 2008.
D'ALEMA, Massimo (1949)
Figlio di Giuseppe D'Alema, parlamentare del PCI, è deputato dal 1987. Nel 1994 viene eletto segretario del Partito Democratico della Sinistra, è Presidente del Consiglio dal 1998 al 2000, dal 2004 al 2006 è europarlamentare, nel 2006 viene nominato ministro degli Affari Esteri e vicepresidente del Consiglio nel governo Prodi. Nel 2010 viene eletto all'unanimità presidente del COPASIR.
DI PIETRO, Cristiano (1973)
Figlio di Antonio Di Pietro, nel 2006 viene eletto consigliere provinciale a Campobasso nelle fila dell'Italia dei Valori. Nel settembre del 2011 viene candidato al consiglio regionale del Molise.
FITTO, Raffaele (1969)
Figlio democristiano Salvatore Fitto, presidente della Regione Puglia dal 1985 fino alla morte nel 1988, è laureato in giurisprudenza. Nel 1995 viene eletto consigliere regionale della Puglia con Forza Italia. Nel 1999 viene eletto eurodeputato, dal 2000 è presidente della Regione Puglia e nel 2006 viene eletto alla Camera. Nel 2008 viene eletto deputato con il Popolo della Libertà e viene nominato Ministro degli Affari Regionali e le Autonomie Locali.
FRANCESCHINI, Dario (1958)
Figlio di Giorgio Franceschini, partigiano e deputato democristiano, è avvocato. Nel 1980 diventa consigliere comunale di Ferrara con la Democrazia Cristiana. Dal 1999 al 2001 è Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega alle Riforme Istituzionali. Nel 2001 viene eletto deputato con la Margherita e nel 2008 viene rieletto con il Partito Democratico, di cui è segretario nel 2009.
GENOVESE, Francantonio (1968)
Figlio del senatore Luigi Genovese e nipote del ministro Nino Gullotti, entrambi democristiani, è avvocato e imprenditore. Nel 1998 viene nominato assessore all'agricoltura nella giunta provinciale di centrodestra di Messina di centrodestra. Nel 2001 viene eletto all'Assemblea Regionale Siciliana con la Margherita, nel 2005 diventa sindaco di Messina con l'Unione, ma le elezioni vengono annullate due anni più tardi. Nel 2008 viene eletto alla Camera nella lista del Partito Democratico.
GERMANA', Antonino Salvatore (1976)
Figlio del parlamentare di Forza Italia Basilio Germanà, imprenditore, nel 2008 viene eletto alla Camera con il Popolo della Libertà.
MORONI, Chiara (1974)
Figlia del parlamentare socialista Sergio Moroni, che si suicidò dopo essere stato coinvolto nell'inchiesta Mani pulite, è laureata in farmacia. Aderisce al progetto del nuovo PSI e nel 2001 viene eletta deputata con la Casa delle Libertà. Nel 2006 si candida con Forza Italia e viene ripescata alla Camera. Nel 2008 viene eletta deputata con il Popolo della Libertà.
PILI, Mauro (1966)
Figlio del socialista Domenico Pili, nel 1993 diventa sindaco di Iglesias con una lista civica e viene riconfermato alla scadenza del mandato. Nel 1999 e nel 2001 viene eletto presidente della Regione Sardegna, ma entrambe le volte è costretto a dimettersi per il venir meno della fiducia. Nel 2001 viene eletto deputato con Forza Italia, e nel 2008 viene di nuovo eletto alla Camera con il Popolo della Libertà.
ROCCELLA, Maria Eugenia (1953)
Figlia di Franco Roccella, fondatore del Partito Radicale, è giornalista. Negli anni '80 lascia il partito radicale. Nel 2008 viene eletta alla Camera con il Popolo della Libertà e diventa Sottosegretaria al Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali.
ROSSA, Sabina (1962)
Figlia del sindacalista Guido Rossa, ucciso dalla BR nel 1979, è insegnante di educazione fisica. Nel 2006 viene eletta al Senato con l'Ulivo, e nel 2008 viene eletta deputata con il Partito Democratico.
SCAJOLA, Antonio Claudio (1948)
Figlio del sindaco democristiano di Imperia Ferdinando Scajola, viene eletto consigliere comunale di Imperia nel 1980 con la Democrazia Cristiana e diventa sindaco nel 1982 e nel 1990. Nel 1996 viene eletto deputato con il Polo per le Libertà e nel 2001 è riconfermato con Forza Italia. Nello stesso anno viene nominato Ministro dell'Interno, nel 2003 Ministro per l'attuazione del programma di Governo, nel 2005 Ministro delle Attività Produttive. Nel 2008 viene eletto alla Camera con il Popolo della Libertà e viene nominato Ministro dello Sviluppo Economico, carica dalla quale si dimette due anni dopo.
SEGNI, Mariotto (1939)
Figlio di Antonio Segni, Presidente della Repubblica, è stato docente universitario. Dal 1976 è consigliere regionale, parlamentare nazionale, parlamentare europeo e Sottosegretario all'Agricoltura. Nel 1992 fonda Alleanza Democratica, nel 1994 fonda il Patto Segni, nel 1999 fonda l'Elefantino.
TANCREDI, Paolo (1966)
Figlio del parlamentare democristiano Antonio Tancredi, ingegnere elettronico, nel 1999 viene eletto consigliere comunale a Teramo con una coalizione di centrodestra, nel 2001 diventa consigliere regionale dell'Abruzzo con Forza Italia e viene rieletto nel 2005. Nel 2008 viene eletto senatore con il Popolo della Libertà.
E poi….
Alemanno Gianni: genero di Pino Rauti (ha sposato la figlia Isabella), Gianni divenne segretario nazionale del Fronte della Gioventù quando Rauti era segretario del partito MSI (Movimento Sociale Italiano).
Bocciardo Mariella: ex moglie di Paolo Berlusconi.
Carloni Anna Maria: moglie di Antonio Bassolino. Prima consigliera comunale a Bologna, poi a Roma nella direzione nazionale PCI-PDS. Varie le collaborazioni con ministeri e le diverse realtà istituzionali. Assessore al bilancio del comune di Castellammare di Stabia, oggi nei Palazzi che contano.
Cossiga Giuseppe: figlio di Francesco Cossiga, ex Presidente della Repubblica. Giuseppe, ingegnere aeronautico, era vice coordinatore sardo di Forza Italia e la scorsa legislatura faceva parte della commissione Difesa della Camera. Cossiga padre ha sempre tenuto a precisare di non essersi mai occupato della carriera politica del figlio, ha fatto tutto da se.
Costa Enrico: figlio dell’ex ministro Raffaele Costa PLI (Partito Liberale Italiano) passato poi al PDL. Costa padre, Presidente della Provincia di Cuneo, è stato in particolare, autore di due libri: “L’Italia degli sprechi” e “L’Italia dei privilegi”.
De Feo Diana: moglie di Emilio Fede.
Fitto Raffaele: figlio di Totò Fitto democristiano ed ex Presidente della Regione Puglia.
La Malfa Giorgio: figlio di Ugo La Malfa, fondatore e leader del PRI (Partito Repubblicano Italiano). Ugo La Malfa è stato deputato della costituente e ministro della ricostruzione nel dopo guerra. Giorgio è entrato in parlamento nel 1972 a 33 anni. Partito Repubblicano, Partito per l’Italia di Segni (1994), centrosinistra con L’Ulivo nella lista “Per Prodi” (1996), poi il passaggio nel PDL (Casa della Libertà).
Lanzillotta Linda: moglie di Franco Bassanini. Ministro degli Affari regionali del governo Prodi lei, ex Ministro a sua volta lui. Linda ha avuto un passato socialista, ha aderito alla Margherita e ora PD, è stata assessore al comune di Roma, funzionario del Ministero del Bilancio, Capo di gabinetto del Ministero del Tesoro e Segretario Generale della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Franco, Ds e PD, al suo nome è legata la riforma della pubblica amministrazione. Consulente del governo francese.
Melchiorre Daniela: figlia del Generale della Guardia di Finanza Melchiorre e nipote del Cardinale Bovone. Prima avvocato e dopo magistrato militare, ha ricoperto la carica di vicesegretario regionale della Margherita in Lombardia. Nel 2006 è stata nominata sottosegretario alla Giustizia del governo Prodi. Nel 2007 è passata con Lamberto Dini (Movimento dei Liberaldemocratici), per poi andare nel PDL (Partito della Libertà).
Pili Mauro: figlio di Domenico Pili, socialista sardo che si allontanò dalla politica dopo qualche incidente di percorso. Giornalista, ex presidente della Regione Sardegna (famoso il suo discorso d’insediamento in cui citava cifre e dati relativi alla Lombardia).
Serafini Anna: moglie di Piero Fassino, ha sempre dichiarato di aver avuto solo svantaggi dal fatto di essere la moglie di Fassino. S’è iscritta al partito prima di Piero e prima di lui è entrata in parlamento (lei nel 1987 lui nel 1994).
Testoni Pietro: nipote di Francesco Cossiga. Giornalista, responsabile editoria di Forza Italia e uomo dello staff comunicazione di Silvio. L’Onorevole Cossiga così spiegò la parentela con Testoni: “…è mio nipote in quanto la nonna era cugina in secondo grado di mio padre…”
Veltroni Walter: figlio di Vittorio Veltroni, primo direttore di telegiornale in Italia e cronista di tutti i viaggi del Duce.
Ebbene sia. Diamo per scontato che il nostro Presidente del Consiglio abbia una vigorosa ed inesausta passione per le donne e che la soddisfi ampiamente. Quel che è certo è che non sarebbe né il primo né l’ultimo dei grandi protagonisti della storia d’Italia ad esserne felicemente afflitto.
A cominciare da tutti e quattro i “Padri della Patria”, ossia dal quartetto Vittorio Emanuele II, Cavour, Garibaldi e Mazzini dei nostri remoti studi scolastici. Vittorio Emanuele II, apprezzava, in particolare, le procaci contadinotte del suo Piemonte e non se ne faceva comunque sfuggire una, purché respirasse. Cavour era un impenitente libertino che passava spietatamente da un’amante sofisticata all’altra fino ad indurne una al suicidio e ad infilarne un’altra, la nota Contessa di Castiglione (che era anche sua nipote e che condivideva con il Re), nel letto di Napoleone III, propiziandovi la II e determinante Guerra di Indipendenza. Mazzini non gli era da meno, avendo disseminato nel corso dei suoi esìli nell’intera Europa, cuori infranti e figli abbandonati. E chi sa che l’eroica Anita era originariamente la moglie di un altro, e che l’”Eroe dei due mondi” seppe molto ben consolarsi della sua tragica scomparsa?
Nell’Italietta umbertina, nonostante gli ufficiali rigori vittoriani, il primo a correre entusiasticamente “la cavallina” era Umberto I in persona. Nel pieno dello scandalo della Banca Romana, Giovanni Giolitti consegnò platealmente al Presidente della Camera un “piego” in cui - tra altri documenti che lo discolpavano, inguaiando il suo avversario Francesco Crispi - c’era una lettera della moglie di questi che intimava al padrone della casa romana in cui Crispi dimorava, di “non portare più puttane a Don Ciccio”. Né Giolitti aveva a tal riguardo molte lezioni da dare, essendo anch’egli un assiduo frequentatore di bordelli, secondo peraltro un costume che soltanto l’infausta legge Merlin ha infranto.
Su Mussolini è perfino inutile soffermarsi, era quasi certamente bigamo mentre l’elenco delle sue amanti note, ed anche dei suoi figli più o meno occulti, continua ad allungarsi all’infinito. Nelle brevi pause della sua attività di governo si concedeva, con signore di passaggio, rapidissimi amplessi, nei quali, si dice, non si sfilasse nemmeno gli stivali... L’ultima e più innamorata delle delle sue amanti gli morì anche eroicamente accanto.
Delle distrazioni sessuali della prima parte della Prima Repubblica, soggetta ad una forte censura clericale, è filtrato poco, ma non tanto da nascondere – per esempio - le frequenti scappatelle di un Presidente della Repubblica come Giovanni Gronchi (mentre anche il suo futuro successore Sandro Pertini non se la passava male), o l’omosessualità di due Presidenti del Consiglio, uno dei quali pare anche legato ad un vicino Ministro e l’altro addirittura dedito in privato ai trasferimenti, prima di essere in tarda età beccato in una storia di coca. L’omosessualità era poi ampiamente diffusa tra le virago del movimento femminile della “Balena bianca”.
Né potevano prodursi in lezioni di moralità i vertici del PCI, che le loro donne ed in genere i loro cari li facevano parlamentari, alternando al riguardo mogli ed amanti, e stabilizzando negli scranni di Montecitorio e di Palazzo Madama fratelle et similia.
L’amante e futura moglie di Togliatti, è diventata addirittura Presidente della Camera, passando per grande donna senza che nessuno abbia mai spiegato perché. In Parlamento l’aveva preceduta la prima moglie del Migliore, poi liquidata senza troppi scrupoli insieme ad un figlio dispersosi misteriosamente in qualche casa di cura. Anche il suo successore, Luigi Longo, fece deputate prima la moglie Teresa Noce e poi la più piacente compagna; Pajetta la moglie, la compagna Miriam Mafai ed il fratello Giancarlo.
Berlinguer, più morigerato, preferì sistemare il fratello Giavanni e i due cugini Luigi e Sergio. La moglie di Occhetto, Aureliana Alberici, era inevitabilmente senatrice com’è deputata la moglie di Fassino, Anna Serafini. Anche l’un tempo bellissima Luciana Castellina era in realtà la moglie di Alfredo Reichlin, come D’Alema è il figlio della potentissima segretaria di Togliatti e di un autorevole parlamentare togliattiano, mentre nel Parlamento siede la compagna di Bassolino. E poi si scandalizzano di fronte a qualche bella euro-parlamentare altrui.
I favolosi “anni ‘80” furono segnati dai noti appetiti sessuali di Craxi e dei suoi collaboratori, mentre Cicciolina entrava trionfalmente a Montecitorio sull’onda della filosofia libertina bisex di Marco Pannella, di cui si narrano legami con splendidi dirigenti del suo Partito, uno dei quali destinato ad una luminosa carriera politica. In quegli anni conquistava per la prima volta il proscenio, un giovane poeta barese che sulla omosessualità avrebbe costruito una carriera, e che inneggiava alla libertà sessuale assoluta, senza nemmeno troppi scrupoli sull’età dei liberandi.
Nella Seconda Repubblica, Antonio Di Pietro, assegnatario a titolo gratuito negli anni gloriosi di “Mani Pulite” di una bollente garconniere al centro di Milano, è stato fotografato con una esplosiva donna dello spettacolo. Pare invece che l’unico condannato alla castità, in un mondo in cui quelli che un tempo erano “vizi privati” sono diventati costume diffuso alla luce del sole, debba essere Silvio Berlusconi, le cui debolezze verso le donne, secondo i novelli bacchettoni di una sinistra sempre più bigotta, addirittura squalificherebbero l’Italia nel mondo.
Lo svariato numero delle amanti di Kennedy ivi compresa la povera Marilyn, o la sotto-scrivania di Clinton, o le distrazioni di Re Juan Carlos e dei principi e delle principesse inglesi, o le quattro mogli ecc. di Shroeder e la lunga storia del “première dame” di Francia sono irreprensibili esempi di senso dello Stato.
Mogli, ex cognate, fratelli, figlie: il voto del 9 aprile 2006 rischia di passare alla storia come quello «dei parenti». Quasi tutti i partiti hanno presentato una valanga di candidati «di famiglia», con elezione garantita perché hanno abolito anche le preferenze, con l’annesso rischio-trombatura. Se n’è accorta perfino la Cnn: «La famiglia resta l’istituzione italiana più solida», ironizzano i giornalisti americani. Il caso più clamoroso: la moglie del segretario Ds Piero Fassino, Anna Serafini, ripresentata per la quinta volta nonostante il massimo di due legislature imposto dal partito a (quasi) tutti i propri parlamentari. Oppure Anna Maria Carloni, aspirante senatrice in Campania, regione della quale il marito Antonio Bassolino è presidente. Napoli vanta peraltro una tradizione consolidata di coniugi in politica: la presidente del Consiglio regionale Sandra Lonardo è infatti moglie di Clemente Mastella (Udeur). In Piemonte la diessina Magda Negri sta con il senatore Enrico Morando. E in Lombardia per la Margherita si presenta Linda Lanzillotta, coniugata con Franco Bassanini. «Lo scrittore Leo Longanesi sessant’anni fa propose di adottare come slogan ufficiale della Repubblica italiana il motto “Tengo famiglia”», scherza Goffredo Locatelli, autore con Daniele Martini del libro omonimo, pubblicato nel ’97. È lui il massimo esperto italiano di nepotismo, anche perchè sei anni prima aveva esordito con un altro volume, "Mi manda papà", che esaminava i legami familiari della Prima repubblica e vendette 25 mila copie. Non hanno scherzato però tutti quelli che lo hanno querelato, in primis la famiglia Necci, chiedendo un totale di dieci miliardi di lire in danni. Risultato: l’editore Longanesi ha tolto Tengo famiglia dalla circolazione, intimorito nonostante le diecimila copie già vendute. È un argomento scottante, quindi, quello del familismo in politica. Anche perché riguarda tutti gli schieramenti. Silvio Berlusconi, per esempio, candida alla Camera nella circoscrizione Lombardia 1 l’ex cognata Mariella Bocciardo, già coniugata col fratello Paolo. In Sicilia il parlamentare di An Enzo Trantino fa correre la figlia Maria Novella, così come il collega di partito Orazio Santagati, che mette in pista la figlia Carmencita. I figli di Bettino Craxi si dividono equamente: Stefania a destra, Bobo a sinistra. Infine ci sono i fratelli, come Marco Pecoraro Scanio, ex calciatore e poi assessore ad Ancona e Salerno, il quale condivide con Alfonso la fede verde. L’unico sfortunato sembra essere Umberto Bossi: sua sorella Angela è sì candidata, ma contro di lui, in una lista lombarda concorrente della Lega. Sembrano lontani, insomma, i tempi del povero Paolo Pillitteri, crocifisso come «sindaco cognato» quando governava Milano per conto di Craxi. «Non è cambiato nulla dai tempi della famigerata Prima repubblica», commenta sconsolato Locatelli, «anche perché ormai la politica si è degradata a mestiere, non è più un fatto onorifico». Fra l’altro, abolito il voto di preferenza, noi elettori non possiamo neppure vendicarci bocciando il parente eccellente. Insomma, assistiamo impotenti al trionfo della nomenklatura burocratica, che si appropria in ogni modo di compensi molto alti (un parlamentare guadagna 120 mila euro annui). Occorre precisare però che, almeno nel caso delle mogli di Fassino, Bassolino e Bassanini, si tratta di signore in politica da molto tempo, le quali probabilmente avrebbero fatto carriera indipendentemente dai mariti. In altri casi, invece, la «vocazione» sembra essere maturata all’improvviso...
E pensare che fino a pochi anni fa i consiglieri comunali e provinciali percepivano soltanto qualche gettone di presenza. Oggi invece tutti, perfino gli eletti in quartieri e circoscrizioni, incassano uno stipendio fisso. L’unica consolazione viene guardando gli Stati Uniti: anche lì le dinastie familiari sembrano eterne, con cariche che passano di padre in figlio (George Bush senior e junior), tra fratelli (John, Robert e Ted Kennedy) e fra marito e moglie (Bill e Hillary Clinton).
Alle regionali del 2010, nel Lazio l’Udc schiera il broker Pietro Sbardella, figlio di Vittorio, passato alla storia della Dc come «lo Squalo». Sempre nel listino della candidata del Pdl Renata Polverini entra, tra le polemiche, la moglie del sindaco Gianni Alemanno, Isabella Rauti: capo del dipartimento Pari opportunità presso la presidenza del Consiglio, la figlia del fondatore del Msi, Pino Rauti. E c’è anche una giovane coppia in corsa nel Lazio con la Polverini: Francesco Pasquali e Veronica Cappellari, insieme nella vita e nel listino. Nelle Marche scende in pista, con Sinistra ecologia e libertà, Iside Cagnoni, moglie dell’onorevole Luigi Giacco, figura storica della sinistra di Osimo. E si parla anche del vicesindaco di Bari Alfonso Pisicchio, fratello dell’onorevole Pino, passato dall’Idv all’Api. Sempre in Puglia corre Mario Cito, figlio dell’ex deputato e sindaco di Taranto Giancarlo (già condannato a quattro anni per concorso esterno in associazione mafiosa), con la lista «I pugliesi per Palese presidente», depositata a Taranto. Con il candidato governatore del Pd Claudio Burlando, a Genova, corre la nipote di Don Baget Bozzo, Francesca Tedeschi, impiegata turistica. Nella lista del Pdl di Napoli e provincia per il rinnovo del Consiglio regionale della Campania c’è anche Angelo Gava, dirigente d’azienda, figlio dell’ex ministro Antonio, leader dei dorotei, e nipote di Silvio, patriarca della Democrazia Cristiana. Infine in Calabria, col Pd, si ricandida l’uscente Stefania Covello, figlia dell’ex parlamentare Franco.
Umberto Bossi, l’intransigente leader del Carroccio, poi colloca i parenti stretti in impieghi tali da poter allattare alle mammelle della scrofa politica. Prima manda in Europa il fratello Franco e figlio primogenito Riccardo, assunti al Parlamento Europeo, al seguito dei deputati leghisti Speroni e Salvini (già direttore di quella Radio Padania Libera che per anni ha cannoneggiato contro il clientelismo e le assunzioni in Terronia di amici, cognati e parenti), per 12.750 euro al mese. Poi è la volta del figlio Renzo. Il nepotismo padano quindi segue il suo corso ed il giovane Renzo, maturo o no, è ormai riconosciuto come il delfino dell’Umberto, lo ha accompagnato in tutte le manifestazioni di partito e compare su centinaia di foto. Il ministro Calderoli lo riconosce come erede affermando che lui e Maroni sono già troppo vecchi e poi Renzo “È la fotocopia del papà”. L’Umberto dichiara: “Quando passerò la mano, non certo adesso, qualcosa di me resterà”, una vera investitura. “Dopo Bossi ci sarà ancora Bossi”. Tanto per onor di cronaca ricordiamo alcune parole gridate da Sua Maestà Umberto Bossi contro clientele e “familismo amorale”: “La Lega assicura assoluta trasparenza contro ogni forma di clientelismo”. “Il nostro programma? Incrementare i posti di lavoro, eliminare i favoritismi clientelari e restituire il voto ai cittadini”. “Non si barattano i valori-guida con una poltrona!”. “Questo deve fare un segretario di sezione: far crescere la gente e non dare spazio agli arrivisti. Dobbiamo essere in primo luogo inflessibili medici di noi stessi se vogliamo cambiare la società!”.
Non ci dobbiamo dimenticare anche il caso ripreso da Striscia la Notizia”: "Cara Renata, non ti dimenticare delle mie figlie", così il finiano Zaccheo, sindaco di Latina, alla finiana Polverini, Presidente della Regione Lazio.
Con il discorso ufficiale del Magnifico Rettore, Prof. Ing. Domenico Laforgia, è stato inaugurato a Brindisi il 3/12/2009 l'anno accademico 2009-2010 dell'Università del Salento. Presenti alla cerimonia Gianfranco Fini, Presidente della Camera dei Deputati e diverse altre insigne personalità del mondo politico, economico e culturale della penisola salentina. In quella sede ha palesato una realtà, che molti cercano di ignorare o tacitare. “…..Questo è un altro dato che si presta ottimamente ad una lettura politica. Il familismo non è la ferita pruriginosa di questa o quella Università, ma di tutto il sistema occupazionale italiano. È una malattia endemica del Paese che ha contagiato tutti i campi, dalla politica alle libere professioni, dal giornalismo al mondo dello spettacolo, dall’industria a tutto il comparto pubblico. Familismo, nepotismo e clientelismo non sono le conseguenze di un sistema malato, come spesso si dice, ma sono il segno più evidente di una mancanza effettiva di alternative possibili. Ed è questa povertà di occasioni che mette in moto il meccanismo, che diventa perverso e nocente alla comunità quando non è neppure compensato dal merito."
Anche lei, poverina, non è più quella di una volta. E c’è chi, pur di tenerla alla giusta distanza, le cambia l’identità: un freddo «segnalazione», un burocratico «indicazione», un elegante «gestione combinata». I partiti non ci sono quasi più, la legge elettorale ha abolito i collegi, i parlamentari che non si perdono un battesimo sono eccezioni, però lei, anche se si deve scontrare con la modernità, con le lobbies e i lobbisti, resiste e lotta insieme e per noi: la vecchia e cara Raccomandazione, italianissima come la pizza e le romanze di Verdi. Raccomandazione di governo o di opposizione, ce n’è (sempre) per tutti. E cosa non si fa per lei, perfino un premier che scippa il mestiere a Lele Mora. Però, appunto, non è più quella di una volta. C’è, ma non si vede. E non ci sono più i Remo Gaspari, il ministro dc che aveva assunto postini a vagonate. «O personaggi come Franco Evangelisti, l’ombra di Giulio Andreotti - ricorda Alfredo Biondi, avvocato, liberale e genovese, 9 legislature prima del prepensionamento non voluto -. Quando lo incontravi in Transatlantico ti appariva la Raccomandazione». Ecco, fine di quella storia: «Ora che la politica è cooptazione - dice Biondi - la Raccomandazione passa da lobbies potenti e clandestine».
Raccomandato e parente, il massimo. Categoria sdoganata a fine Anni 80 al Festival di Sanremo, nientemeno. Quando, a presentare canzonette, erano stati chiamati gli eredi di Adriano Celentano, Johnny Dorelli, Anthony Queen e Ugo Tognazzi, e l’allor giovane Gigi Marzullo, in odor di raccomandazione dc, li sfotteva in diretta: «I figli di ...». Però erano bravini, e qui si passa alla raccomandazione a fin di bene, a sua volta differente dalla «raccomandazione per necessità», quella applicabile ai poveracci. E’ a fin di bene, come per la verità dicon tutti, perché segnala qualcuno che non delude, che se la cava o addirittura lo merita.
Di solito il raccomandato non ha buona memoria ed è facile alla smentita, a volte rabbiosa. Intervenuto in difesa di chi si è visto pubblicare raccomandabili intercettazioni, Francesco Cossiga aveva raccontato le sue telefonate in favore di due telegiornaliste, Bianca Berlinguer e Federica Sciarelli, peraltro amiche. L’avesse mai fatto, a momenti se lo mangiano. Perché a nessuno fa piacere l’abbraccio della Raccomandazione, anche se capita nell’ambiente Rai, dove è chiamata più brutalmente lottizzazione, e ad ogni cambio di governo le carriere interne si misurano con il bilancino del chi è sponsorizzato da chi.
Favore, spintarella, aiutino, pratica nota, diffusa e trasversale. «Medialab» ha fissato le quote dei concittadini che negli ultimi tre mesi hanno chiesto o ottenuto qualcosa: il 66,1% da un parente, il 60,9% da un amico, il 33,9% da un collega di lavoro. Quanto basta per stabilire che nessuno, proprio nessuno, può dirsi immune. Non è reato, per carità. E’, appunto, malcostume. Lo stesso che poi intasa ad esempio i Laboratori diagnostici del Lazio. «Perché - spiega Gianni Fontana, il responsabile - ci sono pazienti che accedono al servizio senza prenotazione». I soliti raccomandati... Ma queste sono le storie di tutti i giorni, dei soliti italiani che cercano la scorciatoia e avranno sempre un buon motivo per non sentirsi in colpa. Altra e più complessa è la storia della Raccomandazione da lobby, dove politica e interessi si abbracciano e colpiscono pesante. La sanità, per dire, con gli intrecci tra baronie e lottizzazioni. «E qui il gioco si fa molto più sottile», spiega Paolo Cherubino, 60 anni, primario ortopedico, preside della facoltà di medicina a Varese. «Perché le lobbies della politica con le assegnazioni di posti si affermano, si rafforzano e ne ricavano un potere di compensazione con altre lobbies». Ecco, Varese che passa per città leghista. Su dieci primari solo uno non è dell’area di Comunione e Liberazione, il movimento caro al governatore Roberto Formigoni. Un caso? «Mi sono sentito dire che non è lottizzazione - dice Cherubino - ma il dato oggettivo resta». Ma il lobbismo non si ferma qui, e il preside Cherubino, per cautela, ricorre all’esempio. «Mettiamo che si decida un Piano di Ristrutturazione Ospedaliera. Bisogna tener conto dell’interesse dell’area interessata, dei cittadini, e questo è giusto. Poi si prevedono reparti e personale sulla base degli individui da sistemare...». La Raccomandazione pilotata.
La lobby non rivendica, non si vanta, basta che chi deve sapere sappia. Non è più come ai tempi di Gaspari e Evangelisti. Non è più come nella Milano dove per essere assunti in banca bisognava frequentare gli oratori, per una licenza da tassista i socialdemocratici, per una casa i socialisti. E nemmeno e non solo come nella Sicilia dell’ex governatore Totò Cuffaro, che per lenire il bruciore di un calo di voti per la sua Udc se n’è uscito con questa spiegazione: «Per forza, in quella zona non avevamo l’assessore regionale!». E magari non sarebbe manco bastato, magari si sarebbe scontrato con una lobby. Trovare la lobby giusta, dunque, il mix tra politica e affari, perché il resto è robetta. «Se mi chiama un politico - racconta Paolo Sassi, presidente dell’Inps - è solo per sapere la posizione contributiva di un elettore, non sanno che è tutto su Internet».
Puoi darmi una mano...? Comincia sempre così. «Lo so bene - dice Pierluigi Bersani,-. La mia mamma diceva che bisogna aiutare tutti, ma aiutando tutti si finisce sempre con il fregare qualcuno. La mia regola? Aiutare solo i malati, gli handicappati, i disperati, per loro sì che sono pronto a dare una mano. Per gli altri niente, grazie». Antonio Marano, direttore di Rai2 intercettato al telefono con Agostino Saccà, la mano la dà per chi vale. «E’ normale per noi, i personaggi del mondo dello spettacolo li conosciamo bene». E’ normale, come il titolo di una trasmissione Rai di successo. «I Raccomandati».
Assumi, assumi: qualcosa resterà. Più che la parafrasi del motto di Oscar Wilde (diffama, diffama: qualcosa resterà), a Palazzo Chigi sembra in voga la tattica, tipica della prima Repubblica, di assunzioni nel pubblico impiego. Tattica che veniva rafforzata in vista di un ciclo elettorale. All’epoca, però, non c’erano vincoli di bilancio da rispettare, e il debito volava rapido fino alle vette attuali. Con la legge finanziaria 2007 il governo Prodi sembra aver provato nostalgia per quelle pratiche. Tant’è che per il triennio successivo ha previsto di spendere un miliardo e 161 milioni di euro per ampliare gli organici della pubblica amministrazione (Forze di sicurezza, ma non solo). Risultato: potranno essere assunte più di 41mila persone. Esattamente gli abitanti di Macerata. Al tempo stesso, però, con un blitz lessicale, introduce in uno dei maxi-emendamenti approvati con la fiducia alla Camera, una profonda modifica al regime di sanatoria per i precari. Cambiando qualche avverbio, rende possibile l’assunzione di circa 50mila precari; soprattutto quelli con contratti a termine presenti nelle amministrazioni regionali. Una popolazione pari a quella di Pordenone. I costi di queste nuove assunzioni, che arrivano a un totale virtuale di 91mila (ma potrebbero essere anche di più, fino a sfiorare le 100mila unità), sono garantite dal maggior gettito fiscale. Dai dati sulle entrate tributarie, è evidente come l’andamento del gettito sia estremamente legato alla dinamica del prodotto interno lordo. Ma se la congiuntura dovesse peggiorare (come prevede lo stesso governo), le assunzioni restano assunzioni: contabilizzate come spese certe; mentre le entrate che le garantiscono, inevitabilmente, sono destinate a scendere. E per finanziare gli aumenti di organico, dovranno essere sostituite da nuove tasse. Lamberto Dini non ha votato per la stabilizzazione dei precari della Pubblica amministrazione, da lui definiti “amici degli amici”. Dini parla chiaro. Secondo lui la sanatoria “vuol dire che si assumono gli amici degli amici nei comuni e altrove. E poi si fa la sanatoria per passarli di ruolo. Vi sembra questa – conclude - una cosa seria?”. Insomma, i cittadini pagheranno i raccomandati assunti a tempo determinato nella Pubblica Amministrazione, che, con falsa contrapposizione delle parti politiche, hanno visto sanare la loro posizione in tempo indeterminato senza concorso. Con una grande presa per i fondelli la sinistra e i sindacati hanno paragonato i lor signori, amici e parenti, ai veri precari del lavoro, loro sì sfruttati e malpagati.
Ma ci sono altri gravi precedenti. L’INPS, il giorno 23 luglio 1999, ha pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il bando di un concorso per 1940 posti di collaboratore amministrativo, per la 7a qualifica funzionale. L' On. Michielon, da sempre in prima linea contro le truffe, il giorno 3 maggio 2000 ha presentato un'interrogazione nella quale chiede se corrisponde a verità il fatto che tutti i candidati del concorso Inps, hanno brillantemente superato le prove scritte e se corrispondono al vero le varie voci che narrano di strani episodi relativi a questo concorso “virtuale”. L'On. Michielon l’anno prima aveva presentato un'analoga interrogazione al Governo, la risposta che ricevette fu che "non esisteva alcuna addomesticatura del Concorso". L'onorevole Michielon, per nulla soddisfatto della risposta governativa emise un comunicato stampa. “La farsa continua" "Confermate le mie accuse sul concorso truffa a 1.940 posti presso l'INPS, bandito per sistemare i lavoratori socialmente utili già operanti presso l'Ente”. “Con una replica imbarazzata - continua Michielon – il Governo, confermando un comportamento connivente, che ricorda molto i regimi totalitari con suffragi pari al 100 per 100 degli aventi diritto, ha ammesso che dei 1790 partecipanti alla selezione scritta del concorso, tutti hanno superato la prova”. ”Fin dal giugno 1997 - spiega Michielon - l'INPS aveva individuato una carenza di personale quantificata in circa 3.650 unità, per la copertura della quale si riteneva necessario reperire risorse dall'esterno. Incredibilmente nel 1998 veniva bandito un concorso per soli 394 posti di collaboratore della VII qualifica funzionale, mentre l'anno successivo, nel luglio 1999, veniva indetto un "concorso" per titoli ed esami per 1940 posti nella medesima qualifica funzionale." “Già in una precedente interrogazione - prosegue il deputato del carroccio - cercavo di far luce su questo concorso-truffa, bandito ad hoc per sistemare quelle circa duemila unità di lavoratori impiegati in LSU presso l'INPS ed il cui bando richiedeva, come requisito essenziale per l'ammissione, l'aver partecipato a progetti di LSU per un periodo temporale che, guarda caso, coincideva esattamente con la durata di impiego dei LSU presso l'INPS.” “Alla luce del fatto che su 1790 partecipanti effettivi, 1790 risultano essere i candidati ammessi alle prove orali - prosegue il parlamentare leghista - ho presentato una nuova interrogazione contro questo concorso-truffa, che altro non è che la conferma di un posto di lavoro”. “Resta strabiliante il criterio di selezione - conclude Michielon - che ha fatto sì che per il concorso a 394 posti siano stati ammessi 11 mila candidati, mentre per il concorso a 1940 posti sono stati ammessi solo 1790 concorrenti, tutti risultati idonei dopo gli scritti. Ed inoltre, se i vincitori del concorso a 394 posti non sono stati ancora assunti in attesa della determinazione del Consiglio dei Ministri in relazione al numero massimo di assunzioni autorizzate per l'Istituto, il Governo deve ancora spiegare come si sia potuto bandire un concorso per ben 1.940 posti, peraltro a così breve distanza dal precedente”.
PARLIAMO DI RACCOMANDAZIONE IN TV.
Della “conigliera RAI”, ossia i raccomandati assunti nell’azienda di Stato si è già parlato in altre sedi, ma nessuno avrebbe pensato che sia pilotato anche il voto da casa per i concorrenti in gare e concorsi televisivi.
Lo scandalo del televoto pilotato si allarga a macchia d'olio. E inquina anche l'Isola dei Famosi. E' Lele Mora a gettare altra benzina sul fuoco: Queste le parole di Lele Mora, prossimo concorrente della Fattoria 4, rilasciate a Striscia: "Mi ricordo il primo anno con Walter Nudo, che era un’artista che lavorava con me. Ho suggerito agli amici e parenti di prendere tante schede telefoniche, tante posizioni sul call-center per arrivare alla valutazione finale e farlo vincere. Credo che tra amici e parenti abbiamo investito circa 25.000 euro». Lo scoop del "Foglio" e di "Striscia": «Un euro a voto, 5.000 voti sicuri per 5.000 euro»: è la denuncia lanciata da Striscia la notizia, riportando una notizia già pubblicata su Il Foglio, secondo cui la gara al festival di Sanremo rischia il doping telefonico. Secondo l'articolo «attraverso i call center oggi è possibile comprare voti per il proprio artista. Versando l'assegno e poi sedersi, in attesa che il doping telefonico sortisca il suo effetto sulla classifica, se si è ultimi non si vince, ma se si è ottavi magari si arriva secondi». In base al regolamento del Festival 2009, nelle serate di venerdì e sabato, col televoto è possibile dare fino a un massimo di 7 voti con la stessa utenza fissa o mobile nell'arco delle 24 ore. Secondo il quotidiano, in questo modo si lasciano così agli operatori dei call center il tempo di generare più di 10 mila voti al giorno sull'artista indicato. «Quello che anni fa si fece comprando le schedine del Totip - sottolinea Il Foglio - oggi si fa in modo più equo, dando lavoro ai precari del call center. La Rai poi non si sogna certo di ridurre il tempo del televoto: finirebbero gli introiti previsti dalle percentuali su ogni chiamata all'operatore».
Secondo l'articolo de Il Foglio, «attraverso i call center oggi è possibile comprare voti per il proprio artista. Versando l'assegno e poi sedersi, in attesa che il doping telefonico sortisca il suo effetto sulla classifica, se si è ultimi non si vince, ma se si è ottavi magari si arriva secondi».
IL FASCINO DEL CONCORSO PUBBLICO E DEGLI ESAMI DI STATO (TRUCCATI).
L’eterno fascino del concorso. Palasport, sale da cinema, hangar, hotel, palestre, saloni delle fiere. Così migliaia di giovani inseguono il sogno di un impiego. Diecimila giovani per 14 posti da poliziotto a Milano, 1099 ragazze per un posto da infermiera a Cremona, scrive Dario Di Vico il 25 febbraio 2017 su “Il Corriere della Sera”. Un giovane fotografo, Michele Borzoni, ha investito una buona quota del suo tempo per girare e ritrarre l’Italia dei concorsi. Le sue istantanee sono state pubblicate a Parigi nell’ambito del Festival de Circulation(s), una manifestazione che ospita il meglio della giovane fotografia europea. Dobbiamo essergli grati perché ci ha regalato uno spaccato di quell’Italia che, volente o nolente, insegue l’impiego nella funzione pubblica. Borzoni ci dice che in qualche maniera quello che era il sogno dei padri oggi si ripropone anche per i figli. Gli hotel, i palasport, i saloni delle fiere, le palestre, le sale spettacoli e persino gli hangar che Michele ha fotografato sono gremiti di ragazzi e ragazze — rigorosamente distanziati per evitare che possano copiare — che aspettano di staccare il loro biglietto della lotteria. Diecimila giovani per 14 posti da poliziotto a Milano, 2.813 concorrenti per 12 posti nelle scuole materne a Firenze, 238 ragazzi per un posto in un laboratorio medicale a Palermo. Con una calcolatrice si può stilare una classifica delle (scarse) probabilità di farcela e in testa nella graduatoria del miraggio c’è il posto da infermiera a Cremona per il quale si sono mobilitate 1.099 ragazze. Borzoni sostiene che questi esami sono «il tempio della burocrazia italiana» ed è difficile dargli torto. Non solo assomigliano alla più classica delle lotterie ma iscriversi non è nemmeno facile, e capita anche che chi va a sostenere la prova d’esame in realtà sia solo una quota parte di quanti, fiduciosi, prima si erano iscritti e poi hanno lasciato perdere. Si potrà obiettare che le foto di Borzoni non ci rivelano niente che già non sapessimo ma oggi non deve essere il tempo del cinismo. Lo zoccolo duro della disuguaglianza italiana sta lì, nei numeri di una disoccupazione giovanile tra le più alte d’Europa. Si tenta di aggredirla ma purtroppo la sproporzione tra i posti che si generano e quelli che sarebbero necessari è clamorosa. Le istantanee di Borzoni, dunque, ci invitano a non desistere. È una battaglia che dobbiamo continuare a combattere e non è concesso di arrendersi.
LA REPUBBLICA DEI BROCCHI NEL REGNO DELL'OMERTA' E DEL PRIVILEGIO.
Una buona parola per tutti. Da Andreotti a Giolitti le suppliche per posti e case, scrive Matteo Pucciareli il 20 marzo 2017 su "La Repubblica". "Il signor Paolo M., da Latina, ha in corso presso codesto ente una domanda di assunzione. È possibile accontentarlo?". Firmato, Giulio Andreotti. Oppure: "Mi consenta di segnalarle, per quanto riguarda le Istituzioni di diritto romano, il professor Emilio B.". Firmato, Aldo Moro. Ancora: "Ti unisco l'appunto relativo al signor Ignazio S. e ti prego di un particolare interessamento in suo favore". Firmato, Oscar Luigi Scalfaro. Linguaggio semplice, asciutto, diretto: le lettere su carta intestata e protocollate sono decine, alcune scritte a mano, tutte datate fra i primi anni '50 e metà degli anni '60. I mittenti sono deputati della Democrazia cristiana, dirigenti della Cisl, monsignori; i destinatari sono ministri, sottosegretari e dirigenti di aziende parastatali. Un ufficio di collocamento parallelo, la Prima Repubblica in tutta la sua "ingenuità", per certi versi: si chiedeva un alloggio popolare per tal famiglia, un aumento di stipendio per l'invalido di guerra, la revoca di un trasferimento per un padre di famiglia e così via. Tutti scrivono, chiedono "ogni possibile benevolenza" e i "possibili consentiti riguardi" ai propri interlocutori, affinché intercedano: Emilio Colombo, Francesco Cossiga, Ciriaco De Mita, Arnaldo Forlani, Antonio Gava, Giorgio La Pira, Giovanni Leone, Antonio Segni, don Luigi Sturzo, Paolo Emilio Taviani, Benigno Zaccagnini. Dc in maggioranza assoluta, come si vede. Tra i documenti una sola firma extra-scudocrociato: quella del socialista Antonio Giolitti. Le missive erano tutte tra i faldoni dell'Archivio di Stato e come siano arrivate fin qui, su queste pagine, è una storia nella storia: l'impiegato Dante S. venne dislocato agli uffici archivistici dell'Eur a inizio anni '80. Persona mite, politicamente moderata - figlio di emigranti emiliani che prima si trasferirono in Inghilterra, poi in Libia e solo dopo la guerra rientrarono in Italia, a Roma - e senza particolari fervori rivoluzionari, alla visione di quelle centinaia e centinaia di lettere di raccomandazione non la prese bene. Le trafugò, una dopo l'altra, con l'idea di farne dono al figlio, allora militante della sinistra extraparlamentare. Sperando che fosse lui, in qualche modo, a "vendicare" quell'ingiustizia. Quello spaccato di storia contemporanea è rimasto per 35 anni dentro uno sgabuzzino, gelosamente custodito.
Ogni comunicazione è una storia a sé. Il deputato fiorentino della sinistra dc Renato Cappugi scrive al collega Pietro Germani: "Ti unisco un promemoria riguardante un nostro carissimo amico dell'Azione cattolica, Dc, Acli, Sindacati liberi. Desidera essere riassunto presso l'Intendenza di Finanza di Firenze. Ti prego, con eccezionale interesse, di voler fare tutto quanto è in tuo potere a tal fine". Ma le cose evidentemente vanno male e due mesi dopo Cappugi riscrive a Germani, gli spiega che il suo elettore è amareggiato: "Rileva la fortuna, diciamo così, che purtroppo hanno quasi sempre i "compagni" ogni qual volta si trovano a competere con i nostri". Cappugi continua: "Si tratta di uno dei nostri a prova di bomba e, credi, fa male al cuore pensare che non sia possibile trovare il modo di metterlo a posto. Vedi, caro Germani, se mi dai un buon consiglio e se mi aiuti...".
La Cisl nel 1954 chiede a un deputato della Dc, commissario governativo all'Ente economico zootecnia, di non far pagare al sindacato le spese processuali di una causa intentata in passato (e persa) contro lo stesso ente: "Fu intentata a nostra insaputa dal vecchio segretario provinciale di Perugia. Sono certo che non mancherà il tuo interessamento", scrive il segretario generale aggiunto Bruno Storti. Un altro onorevole ancora, prega lo stesso destinatario che venga pagata con celerità la liquidazione "di un nostro bravo attivista che si è tanto adoperato nella campagna elettorale. Mi faresti cosa gradita se potessi assecondare il suo desiderio".
Nel 1962 il sottosegretario sardo Salvatore Mannironi scrive al presidente delle case degli impiegati statali Umberto Ortolani (poi diventano uomo della P2): "L'appuntato dei carabinieri Sebastiano R., domiciliato a Tempio Pausania, deve eseguire alcuni lavori indispensabili ai servizi igienici per una spesa prevista di 77mila lire. Le sarò grato se vorrà esaminare la possibilità di autorizzare detti lavori con spese a carico dell'istituto, trattandosi di una somma molto elevata per le limitate possibilità economiche del R.". Un altro ras della Dc calabrese, Riccardo Misasi, sottosegretario anche lui, comunica che "Francesco Z. ha avanzato domanda per ottenere in affitto un locale, possibilmente nel lotto II° delle scuole elementari, nella borgata di Torrespaccata, da adibire a bar".
Ci si interessa anche per motivazioni in apparenza minori. Il ministro Bernardo Mattarella, padre dell'attuale presidente della Repubblica, interpella Heros Cuzari, presidente dell'Ente zolfi italiani: "Con la tua cortese lettera mi hai comunicato la concessione di un sussidio straordinario di 15mila lire a favore del signor Ignazio A. ma l'Ufficio regionale di Palermo trasmetteva un vaglia cambiario di 10mila lire. Ti sarò grato se vorrai gentilmente chiarirmi i motivi della discordanza ". Talvolta le richieste sono pressanti. L'arcivescovo di Bologna Giacomo Lercaro si rivolge all'"illustrissimo commendatore" commissario dell'Ente zootecnia: perora la causa di Giorgio G., che vorrebbe essere assunto. Viene descritto come una persona di "ineccepibile moralità, di fini sentimenti, attivo, capace e laborioso, da me ben conosciuto perché da un anno dà la sua opera, animata di spirito caritatevole, volontariamente, presso la mia segreteria. Il poter vedere sistemato questo giovane sarebbe per me causa di molto contento". Il monsignore viene accontentato, ma con un impiego di soli tre mesi. Allora Lercaro riscrive: "Abuso della sua gentilezza se le chiedo che il G. sia trattenuto e riconfermato?". La sponsorizzazione non sortisce effetto, allora insiste con una ulteriore lettera: "Le sarò grato se vorrà benevolmente accogliere questa mia ulteriore umile richiesta e dar consistenza alle aspirazioni del G.". Allora finalmente G. viene assunto a tempo indeterminato alla Gestione centri latti di Bologna: "La prego di gradire il mio più devoto e profondo ossequio", ringrazia il cardinale.
Non è facile fare contenti tutti. Nel 1958 il senatore liberale Edoardo Battaglia quasi si sfoga con il principe Franco Lanza di Scalea, presidente dell'Ente zolfi: "Tu sai che io di richieste ne ho infinitamente assai e sono in grado di fornirti dall'usciere al segretario particolare più abile. Allora gradirei sapere quali dovrebbero essere le qualità della persona (almeno una) che potresti assumere".
La piaggeria trasuda dalle formule di saluto: "carissimo", "devoti saluti", "distintamente ossequio", "vivi ringraziamenti", "devotissimo", "obbligatissimo". Una tra tante suona perlomeno più originale: "tante affettuosità".
Il regno dell’omertà e del privilegio. Perché in Italia vincono i mediocri. Il nuovo libro di Sergio Rizzo, «La Repubblica dei Brocchi», denuncia i comportamenti senza vergogna della classe dirigente pubblica e privata, scrive Ferruccio De Bortoli l'1 novembre 2016 su "Il Corriere della Sera". Il dominio esercitato dal ceto dirigente burocratico su un’Italia bendata che non è in grado di controllarlo. La Repubblica dei Brocchi di Sergio Rizzo (Feltrinelli) è un tagliente atto d’accusa nei confronti della classe dirigente italiana. Spietato. Non risparmia nessuno. Nemmeno i giornalisti. Nel leggerlo mi è venuto in mente, non solo per assonanza, un pamphlet pubblicato nella Francia d’inizio secolo scorso. La République des Camarades, ovvero dei compari, di Robert de Jouvenel, riproposto in Italia, qualche anno fa, a cura di Emanuele Bruzzone. Quando la democrazia deperisce nella ragnatela delle amicizie compiacenti, gli interessi particolari e le relazioni oscure. Ma il racconto giornalistico di Rizzo è così ricco di episodi di malcostume o di semplice incoerenza o stupidità da ridurre, nel confronto, lo scritto sui mali della Terza Repubblica francese alla mera fisiologia del potere. Nel caso italiano di normale c’è molto, troppo. La furbizia elevata a dote ostentata della vita sociale, la facilità con cui si violano le norme senza pagarne mai un dazio in termini di minore reputazione, la tendenza a sentirsi sempre vittime, imputando agli altri i mali del Paese. Al punto che lo straordinario saggio di Rizzo sul declino della classe dirigente (pubblica e privata, sia ben chiaro) italiana, poteva benissimo avere un altro titolo. I brocchi hanno talento. Sono inaffondabili. Sono esempi di successo. E a volte abbiamo la netta sensazione che, alla fine, vincano loro. Rizzo ha la freddezza del giornalista e commentatore d’inchiesta, attento al dettaglio, che non fa sconti, ma non è privo di speranza. Riconosce le tante qualità del Paese, le molte eccellenze, il capitale sociale della solidarietà e termina il suo libro con quelli che lui chiama piccoli consigli. Codici etici, per esempio, che non siano solo foglie di fico stese sul miope corporativismo italiano. Quello che fa dire ai tanti che si comportano bene: siamo tutti colleghi, dunque diamoci una mano. E chiudiamo un occhio, non si sa mai, prima o poi potrebbe accadere anche a noi. Un impegno autentico nel moralizzare la politica, magari attuando quell’articolo 49 della Costituzione sulla trasparenza e la democraticità della vita dei partiti. Oppure accogliendo, quando si formano le liste per le elezioni di qualsiasi natura, il «piccolo consiglio» di Gustavo Ghidini, storico fondatore del Movimento consumatori: dichiarare pendenze penali, situazione patrimoniale, interessi in conflitto. Proposta tanto semplice da essere caduta sempre nel vuoto. Del resto l’articolo 54 della Costituzione recita: «I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore». Sia l’articolo 49 sia il 54 della Costituzione del 1948 sono rimasti largamente inattuati. È giusto riformare, ma forse è anche doveroso attuare. Senza vergogna. Ecco il filo conduttore delle tante storie raccontate da Rizzo. A volte si rimane senza parole, potremmo persino dire ammirati, nel costatare l’immensa fantasia giuridica degli italiani. Che cosa non si fa per mantenere un vitalizio, per giustificare un privilegio, e persino per aggirare i risultati di un concorso. Come quello della Asl (oggi si chiamano Ats) di Pavia, vinto da un’unica candidata, evidentemente sgradita, e annullato perché le domande sono state ritenute «troppo difficili». Un’eccezione si trova sempre. Per far sì, ad esempio, che i dirigenti statali chiamati a ricoprire incarichi negli organi collegiali delle società pubbliche, siano pagati a dispetto della gratuità inizialmente prevista per legge. O consentire a un prefetto di assumere la carica di sindaco della sua città. La burocrazia è refrattaria ad essere giudicata (le resistenze alla pur lieve riforma Madia ne sono una prova). Rizzo ricorda un’indagine del 2014, secondo la quale tutti i dirigenti pubblici di prima fascia hanno avuto una valutazione non inferiore a nove su dieci. Tutti geni o tutti, in qualche modo, complici. Il sindacato non è da meno, specie quello nel pubblico impiego e nelle municipalizzate. All’Azienda trasporti di Roma è prevista la concessione, nel 2016, di 131 mila ore di agibilità sindacale, corrispondenti al lavoro di 82 persone, per un costo di 4,3 milioni. Il dopolavoro, cioè il sindacato, gestisce mense ed altri servizi. A costi d’affezione. Chi ha proposto di sostituire la mensa, costosa come un ristorante stellato, con i buoni pasto si è visto tagliare le gomme della sua auto. A proposito di gomme, quelle dei mezzi circolanti in città sono fornite da una società esterna gestita da un funzionario Atac in aspettativa. C’è posto per tutti, parenti e amici, meglio se di sindacalisti importanti. Il servizio, o quello che resta, per gli utenti, può aspettare. Non stupisce nessuno che un ex giudice della Corte costituzionale difenda contro lo Stato un condannato per truffa. Né che membri dell’Avvocatura si rivolgano al Tar contro la decisione del governo di mandarli in pensione a 70 (settanta!) anni, o che magistrati si rivolgano alla Corte costituzionale per contestare un taglio in busta paga. Certo, sono cittadini come gli altri. L’esempio, come servitori dello Stato, censurabile. La classe dirigente privata non è migliore di quella pubblica. Spesso persino peggiore. «Burocrazia, concorrenza inesistente, incarichi affidati sulla base di relazioni personali. Eccole qui — scrive Rizzo — le cause del degrado generale di certe professioni». Le vicende dei dopo terremoto sono assai significative per giudicare il ruolo, non sempre professionale, dei tecnici chiamati a fare le perizie. Rizzo ricorda che il cratere del sisma che colpì, nel 2002, il Molise riguardava 14 comuni. Aumentati in seguito a 83, ovvero tutti quelli della provincia di Campobasso. Tranne uno. Guardiaregia, il cui sindaco non aveva denunciato danni. E probabilmente non è passato come un custode della legalità. I troppi scandali bancari pongono un interrogativo sulla qualità e la moralità di diversi manager, consiglieri d’amministrazione, sindaci, revisori e sulla loro incapacità di vedere o denunciare pratiche sospette. E aprono uno squarcio — che Rizzo indaga in profondità — su una certa omertà territoriale, sull’orgoglio delle appartenenze che sconfina spesso in complicità. Anche la Confindustria, nel suo gigantismo rappresentativo, fa parte della Repubblica dei Brocchi. Emergono le figure dei professionisti delle associazioni, collezionisti d’incarichi. Un mondo che riproduce al proprio interno difetti che denuncia come inaccettabili per la politica e per il resto della società.
LA FINE DI UNA VITA FATTA DI BOCCIATURE.
La lettera di Michele che si è ucciso a trent'anni perchè stanco del precariato e di una vita fatta di rifiuti. La denuncia dei genitori: "Nostro figlio ucciso dal precariato, il suo grido simile ad altri che migliaia di giovani probabilmente pensano ogni giorno di fronte a una realtà che distrugge i sogni". Michele ha scritto: "Non posso passare il tempo a cercare di sopravvivere". Ecco il suo scritto-denuncia, scrive il 7 febbraio 2017 "Il Messaggero Veneto". Con questa lettera un trentenne friulano ha detto addio alla vita. Si è ucciso stanco del precariato professionale e accusa chi ha tradito la sua generazione, lasciandola senza prospettive. La lettera viene pubblicata per volontà dei genitori, perché questa denuncia non cada nel vuoto: «Di Michele - dice la madre - ricorderemo il suo gesto di ribellione estrema e il suo grido, simile ad altri che migliaia di altri giovani probabilmente pensano ogni giorno di fronte ad una realtà che distrugge i sogni».
“Ho vissuto (male) per trent’anni, qualcuno dirà che è troppo poco. Quel qualcuno non è in grado di stabilire quali sono i limiti di sopportazione, perché sono soggettivi, non oggettivi. Ho cercato di essere una brava persona, ho commesso molti errori, ho fatto molti tentativi, ho cercato di darmi un senso e uno scopo usando le mie risorse, di fare del malessere un’arte. Ma le domande non finiscono mai, e io di sentirne sono stufo. E sono stufo anche di pormene. Sono stufo di fare sforzi senza ottenere risultati, stufo di critiche, stufo di colloqui di lavoro come grafico inutili, stufo di sprecare sentimenti e desideri per l’altro genere (che evidentemente non ha bisogno di me), stufo di invidiare, stufo di chiedermi cosa si prova a vincere, di dover giustificare la mia esistenza senza averla determinata, stufo di dover rispondere alle aspettative di tutti senza aver mai visto soddisfatte le mie, stufo di fare buon viso a pessima sorte, di fingere interesse, di illudermi, di essere preso in giro, di essere messo da parte e di sentirmi dire che la sensibilità è una grande qualità. Tutte balle. Se la sensibilità fosse davvero una grande qualità, sarebbe oggetto di ricerca. Non lo è mai stata e mai lo sarà, perché questa è la realtà sbagliata, è una dimensione dove conta la praticità che non premia i talenti, le alternative, sbeffeggia le ambizioni, insulta i sogni e qualunque cosa non si possa inquadrare nella cosiddetta normalità. Non la posso riconoscere come mia. Da questa realtà non si può pretendere niente. Non si può pretendere un lavoro, non si può pretendere di essere amati, non si possono pretendere riconoscimenti, non si può pretendere di pretendere la sicurezza, non si può pretendere un ambiente stabile. A quest’ultimo proposito, le cose per voi si metteranno talmente male che tra un po’ non potrete pretendere nemmeno cibo, elettricità o acqua corrente, ma ovviamente non è più un mio problema. Il futuro sarà un disastro a cui non voglio assistere, e nemmeno partecipare. Buona fortuna a chi se la sente di affrontarlo. Non è assolutamente questo il mondo che mi doveva essere consegnato, e nessuno mi può costringere a continuare a farne parte. È un incubo di problemi, privo di identità, privo di garanzie, privo di punti di riferimento, e privo ormai anche di prospettive. Non ci sono le condizioni per impormi, e io non ho i poteri o i mezzi per crearle. Non sono rappresentato da niente di ciò che vedo e non gli attribuisco nessun senso: io non c’entro nulla con tutto questo. Non posso passare la vita a combattere solo per sopravvivere, per avere lo spazio che sarebbe dovuto, o quello che spetta di diritto, cercando di cavare il meglio dal peggio che si sia mai visto per avere il minimo possibile. Io non me ne faccio niente del minimo, volevo il massimo, ma il massimo non è a mia disposizione. Di no come risposta non si vive, di no si muore, e non c’è mai stato posto qui per ciò che volevo, quindi in realtà, non sono mai esistito. Io non ho tradito, io mi sento tradito, da un’epoca che si permette di accantonarmi, invece di accogliermi come sarebbe suo dovere fare. Lo stato generale delle cose per me è inaccettabile, non intendo più farmene carico e penso che sia giusto che ogni tanto qualcuno ricordi a tutti che siamo liberi, che esiste l’alternativa al soffrire: smettere. Se vivere non può essere un piacere, allora non può nemmeno diventare un obbligo, e io l’ho dimostrato. Mi rendo conto di fare del male e di darvi un enorme dolore, ma la mia rabbia ormai è tale che se non faccio questo, finirà ancora peggio, e di altro odio non c’è davvero bisogno. Sono entrato in questo mondo da persona libera, e da persona libera ne sono uscito, perché non mi piaceva nemmeno un po’. Basta con le ipocrisie. Non mi faccio ricattare dal fatto che è l’unico possibile, io modello unico non funziona. Siete voi che fate i conti con me, non io con voi. Io sono un anticonformista, da sempre, e ho il diritto di dire ciò che penso, di fare la mia scelta, a qualsiasi costo. Non esiste niente che non si possa separare, la morte è solo lo strumento. Il libero arbitrio obbedisce all’individuo, non ai comodi degli altri. Io lo so che questa cosa vi sembra una follia, ma non lo è. È solo delusione. Mi è passata la voglia: non qui e non ora. Non posso imporre la mia essenza, ma la mia assenza sì, e il nulla assoluto è sempre meglio di un tutto dove non puoi essere felice facendo il tuo destino. Perdonatemi, mamma e papà, se potete, ma ora sono di nuovo a casa. Sto bene. Dentro di me non c’era caos. Dentro di me c’era ordine. Questa generazione si vendica di un furto, il furto della felicità. Chiedo scusa a tutti i miei amici. Non odiatemi. Grazie per i bei momenti insieme, siete tutti migliori di me. Questo non è un insulto alle mie origini, ma un’accusa di alto tradimento. P.S. Complimenti al ministro Poletti. Lui sì che ci valorizza a noi stronzi. Ho resistito finché ho potuto”. Michele
VERONICA PADOAN ED IL RIBELLISMO DEI FIGLI DI PAPA’.
Il bamboccione antifascista di Giampaolo Rossi su “Il Giornale” il 9 febbraio 2017. “Mamma, io esco a fare la rivoluzione!!” “Va bene, ma hai messo la maglia di lana?” Pensate sia un dialogo surreale? Non lo è. Nei giorni in cui in Italia scoppia la polemica per la figlia del ministro Padoan a capo dei cortei di clandestini e in America i nipotini di Soros mettono a ferro e fuoco Università e quartieri, picchiando, distruggendo e impedendo ai “fascisti trumpisti” di parlare “per difendere la democrazia” da un Presidente eletto democraticamente, in Germania il settimanale Bild pubblica i dati di una ricerca realizzata dal BfV (l’Ufficio Federale per la Protezione della Costituzione) uno degli organi dell’intelligence tedesca. La ricerca riguarda i reati a sfondo politico commessi a Berlino nel periodo 2009-2013, città dove la violenza politica negli ultimi anni è salita vertiginosamente; in tutto 1523 reati, la maggior parte dei quali compiuti dall’estrema sinistra.
“Papà scusa, mi dai la paghetta che devo comprarmi una molotov?” “Tieni ma non spenderti tutto come tuo solito!”. La ricerca del BfV traccia un identikit socio-antropologico dell’estremista di sinistra colpevole di reati politici; e il dato più eclatante (e più divertente) è che il 92% di loro vive ancora con mamma e papà. Si, avete capito bene: i campioni della rivoluzione, gli eroici antifascisti, i nuovi partigiani rimangono inguaribili mammoni. Sembrano cattivi, spietati, ideologicamente motivati, ma sotto le loro tute nere, i cappucci e la kefiah, batte “nu piezz’ ‘e core”; perché loro, tra un sampietrino e una spranga, uno slogan e una bandiera rossa, non schiodano dall’uscio domestico e si divertono a fare la rivoluzione con i soldi di papà. Predicano di abbattere le frontiere delle nazioni (retaggi borghesi e imperialisti) per accogliere immigrati e clandestini ma si tengono bene alzate quelle di casa propria. Secondo la ricerca, l’identikit del bamboccione antifascista germanico colpevole di reati politici è questo: maschio (84%), di età compresa tra i 18 e 29 anni (72%), studente o disoccupato (uno su tre), con istruzione bassa (34% scuola media, 29% diploma). I reati commessi dal bamboccione antifascista sono violenza, aggressione, incendio doloso, resistenza a Pubblico ufficiale; più raro il tentato omicidio. Il suo obiettivo sono per lo più persone fisiche (60%), prevalentemente poliziotti ma anche un 15% di avversari di destra.
“Mamma esco, vado a spaccare la testa ad un nemico del proletariato”. “Va bene, ma ricordati di prendere il latte quando rientri, sennò domani niente colazione!” Il bamboccione antifascista è una figura ancora più ridicola del radical-chic; è la sua involuzione antropologica. È il prodotto narrativo di una società che trasferisce la noia nella politica. Il bamboccione è carico di odio per il mondo perché incolpa il mondo del proprio fallimento; è un walking dead che si muove in gruppo perché da solo non ha alcuna consapevolezza di sé: in pratica è solo un nickname. Se il fighetto radical chic è un dandy ideologico, ricco e ipocrita e cattivo che copre con l’odio ideologico il senso di colpa per il suo benessere (di cui spesso non ha alcun merito), il bamboccione antifascista è il sottoprodotto di una modernità neanche liquida ma liquefatta. Mamma e papà non rappresentano il valore della famiglia, il legame fondante di un ordine naturale, ma solo l’area di parcheggio tra la Play Station e la rivoluzione. Tra il bamboccione di Berlino, lo studentello intollerante dell’Università liberal americana, il “rivoluzionario al cachemire” del Mamiani e la figlia di un ministro che guida i cortei di clandestini, si trova le stesse ridicola contraddizione: “Ci chiamano banditi, ci chiamano teppisti, ieri partigiani, oggi antifascisti”. E figli di papà…
La Veronica di Padoan, scrive il 24/08/2016 Massimo Gramellini su "La Stampa”. Tra gli indignati di professione c’è chi si è molto stupito che la figlia del ministro Padoan sia scesa in piazza armata di megafono contro la pigrizia del governo nella lotta al caporalato. Dove andremo a finire con questi ragazzi ribelli, signora mia. Che se poi hai il privilegio di avere un padre ministro, non faresti prima a protestargli addosso mentre addenta il cornetto della colazione? Senza contare che è tipico dei bambocci viziati della borghesia di sinistra abbracciare la causa esotica dei migranti sfruttati nelle campagne anziché solidarizzare con la nonnina di razza bianca che non arriva a fine mese. Queste le gocce di saggezza che grondavano dal web e da certe prime pagine vergate da campioni della coerenza intellettuale sempre pronti a eccitarsi appena scorgono un sospetto di contraddizione. A noi del reparto Ingenui ha invece colpito che come luogo di villeggiatura ferragostana la figlia di un ministro abbia preferito il cortile della prefettura di Foggia alle spiagge di Ibiza (o di Capalbio, dai). E che ci sia ancora qualcuno disposto a battersi per difendere relitti di un’antica civiltà come il rispetto dei contratti di lavoro. Se fossi Padoan, sarei orgoglioso di averle trasmesso certi valori. Qualcuno si scandalizzerà che la figlia di un ministro sia di sinistra. Ma a vent’anni succede e nel caso di Padoan pare lo sia stato persino lui, addirittura fino a non molto tempo fa.
La figlia di Padoan in piazza per i profughi con i centri sociali. L'agitatrice di immigrati è Veronica, pupilla di quel ministro dell'Economia che ha sempre difeso a spada tratta quei circa 4 miliardi di spesa pubblica che l'Italia dedica all'accoglienza dei richiedenti asilo, scrive l'8/02/2017 "Diario del web". Sembra assurdo, ma c'è una figlia di un ministro che è scesa in piazza a fianco dei centri sociali per manifestare contro le politiche sull'immigrazione del governo Gentiloni, considerate troppo restrittive. La cosa si fa ancora più assurda quando si scopre che l'agitatrice di profughi è Veronica Padoan, pupilla di quel Pier Carlo che ha sempre difeso a spada tratta quei circa 4 miliardi di spesa pubblica che l'Italia dedica all'accoglienza dei richiedenti asilo. Veronica è stata immortalata in un video che documenta la protesta dei clandestini che vivono nella tendopoli abusiva di San Ferdinando a Rosarno: lei è lì fra i promotori di quel corteo organizzato senza preavvisi fra le vie del paese, che con Rosarno, ospita il maggior numero di immigrati della provincia di Reggio Calabria. E' stata proprio la figlia di Padoan a guidare una delegazione che ha incontrato le istituzioni locali per avanzare le solite richieste retoriche: «Documenti subito», «Una casa e un lavoro per tutti», «Via le frontiere». Schiaffi in faccia ai residenti di quella sfortunata provincia che devono affrontare oltre a una cronica mancanza di lavoro anche servizi allo sbando, dalla sanità ai trasporti passando per l'assistenza sociale. La tendopoli di San Fernandino poi ha aggravato la situazione, portando in quel lembo di Calabria spaccio, prostituzione, degrado, il campo è un ammasso di baracche di fortuna dove l'immondizia viene smaltita con roghi in mezzo ai giacigli, e ha abbassato i diritti dei lavoratori più umili, con il racket del caporalato che si è sempre più ingrassato.
La figlia di Padoan guida la rivolta dei clandestini (insieme ai centri sociali). Le condizioni delle tendopoli sono al limite del disumano. E monta la rabbia degli italiani, scrive Michel Dessì, Martedì 7/02/2017, su "Il Giornale". È Veronica Padoan, figlia del Ministro dell'Economia, che guida il corteo di protesta organizzato assieme agli immigrati «sans papier» della tendopoli abusiva di San Ferdinando, il Comune della provincia di Reggio Calabria che, con Rosarno, ospita il maggior numero di africani e mediorientali, quasi tutti clandestini e senza documenti, fra quelli arrivati in gommone fino alle scalette delle navi della nostra Marina Militare. In molti si sono chiesti cosa ci facesse, fra tanti irregolari, la rampolla di un rappresentante del governo italiano, ma la domanda è rimasta senza risposta. Veronica Padoan, la giovane accanita manifestante, protetta dai suoi commilitoni del collettivo «Campagna in Lotta», era quasi irriconoscibile, nascosta dal cappuccio del suo giaccone. Una cosa è certa: è assieme a lei che un gruppo di immigrati è entrato a Palazzo per incontrare le istituzioni. Il tutto è accaduto nelle prime ore del giorno: i cittadini del piccolo comune pianigiano, usciti di casa per le quotidiane necessità, si sono trovati davanti un corteo di protesta organizzato, come spesso accade, senza alcun preavviso, dai centri sociali e dai più facinorosi tra gli ospiti della tendopoli. A preoccupare i sanferdinandesi, i toni sostenuti delle ormai arcinote richieste: «Documenti subito», «migliori trattamenti», «case e lavoro». Considerando le condizioni precarie di vita (sanità al collasso, trasporti scadenti, servizi sociali inesistenti) e la mancanza di lavoro anche per i lavoratori calabresi (non bisogna dimenticare che San Ferdinando è, assieme a Gioia Tauro e Rosarno, uno dei tre Comuni sul cui territorio insiste il porto. Così come non si deve dimenticare che proprio in quel porto si potrebbe consumare, a breve, una delle più gravi tragedie del lavoro degli ultimi anni: il licenziamento di oltre 400 lavoratori, paventato già parecchie volte negli ultimi mesi, le richieste degli stranieri risultano essere quasi fuori luogo. In realtà, la condizione di vita degli immigrati nelle tendopoli di San Ferdinando, è al limite del disumano. Capanne costruite con pali e legni di fortuna, coperte con teli di plastica, cartoni e cartelloni stradali, senza servizi igienici, immerse in dune di spazzatura che viene, ciclicamente, bruciata, sprigionando gas mefitici e dannosi alla salute di tutti. Promiscuità, uso e spaccio di sostanze stupefacenti, prostituzione e sfruttamento, caporalato e continui atti di violenza. A volte sedati dall'intervento delle Forze dell'Ordine, invitate ad intervenire dagli stessi immigrati; ma, molto spesso, finiti male, perché risolti senza l'intervento della Legge e regolamentati da patti tribali incomprensibili dalla Società Civile. La convivenza coi locali sta diventando, di giorno in giorno, sempre più difficile. E non solo per i problemi legati all'igiene e al malaffare: la rabbia delle famiglie italiane poggia su critiche pesanti anche alle istituzioni che non sono riuscite, in questi anni di immigrazione incontrollata, a difendere decenni di lotte sociali a tutela dei diritti dei lavoratori. In queste contrade, c'è chi, come Giuseppe Lavorato, è morto nel difendere i braccianti e le loro fatiche. E, dunque, sembra un ritorno ad un medioevo economico, la paga quotidiana a 25 euro per tutti, bianchi e neri, considerando l'eccessiva richiesta di lavoro anche sottopagato. La polveriera Piana di Gioia Tauro potrebbe esplodere da un momento all'altro. Come avvenne nel 2010. Anche per colpa di qualche «studentello» fricchettone che pensa di poter raccattare qualche minuto di celebrità a danno di tanti, italiani e non, che combattono ogni giorno contro il mostro della sopravvivenza.
La polizia contro la figlia di Padoan: "Il ministro prenda le distanze da questa vergogna". "E’ dannosissimo cavalcare l'emergenza immigrazione con il populismo di piazza. La figlia del ministro dovrebbe saperlo bene", scrive Michel Dessì, Martedì 7/02/2017, su "Il Giornale". Dopo le immagini da noi pubblicate, che ritraggono la figlia del Ministro dell’Economia al fianco degli extracomunitari in protesta, scoppia la polemica. “Sarebbe bello vedere una donna così vicina al mondo istituzionale e partitico fare un corteo pro forze dell'ordine. Soprattutto in una regione come la Calabria, dove lo Stato è in guerra contro l'anti stato.” Dichiara al Giornale.it Giuseppe Brugnano, segretario regionale del Coisp Calabria. Mentre i carabinieri e la polizia sono impegnati quotidianamente a mantenere l’ordine e, soprattutto, la calma all’interno della grande tendopoli c’è chi fomenta l’odio organizzando manifestazioni di piazza. “E’ inaccettabile che i corrispondenti di Radio Onda Rossa, “fratelli” del collettivo “Campagna in lotta”, di cui fa parte proprio Veronica Padoan, apostrofino in diretta radiofonica gli agenti di polizia in servizio per mantenere l’ordine pubblico come “sbirri”. E’ dannosissimo cavalcare l'emergenza immigrazione con il populismo di piazza. La figlia del ministro dovrebbe saperlo bene. Ogni volta che gli agenti entrano in quel campo abusivo rischiano la vita. Le risse sono all’ordine del giorno. Come dimenticare i tragici fatti di qualche mese fa dove, un carabiniere, intervenuto per sedare una rissa fra immigrati, è stato ferito al viso e, per legittima difesa, ha sparato uccidendo un migrante. Dobbiamo evitare che si ripeta una tragedia del genere. Veronica Padoan si vergogni! Auspichiamo che il padre, il ministro Padoan, prenda ufficialmente le distanze da questo mondo in cui gravita la figlia.” Conclude Brugnano. Gli oltre duemila immigrati che vivono nel ghetto di San Ferdinando chiedono documenti e, soprattutto, una nuova tendopoli. Già promessa mesi fa dalla regione Calabria, la quale ha stanziato 300 mila euro. Ma tutto è fermo.
Veronica Padoan: "Questa non è giustizia". E la figlia del ministro attacca: "Se il governo non ci ascolta porteremo la nostra protesta fino a Roma. La nuova legge aiuta l'illegalità", scrive Giuliano Foschini su "La Repubblica" il 23 agosto 2016. Scusi, ma davvero lei è la figlia del ministro Padoan? "Se permettete, non dovrebbe essere importante chi sono, ma quello che dico". Fuori dalla Prefettura di Foggia una decina di ragazzi e ragazze, italiani e migranti, protestano contro il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, i parlamentari, i rappresentanti della Prefettura e dei sindacati, che stanno discutendo della nuova legge sul caporalato. Con il megafono in mano c'è Veronica Padoan, figlia del ministro dell'Economia, Piercarlo. "Caro ministro dell'ingiustizia... ", comincia così, megafono in mano, uno dei messaggi che lancia a Orlando mentre, insieme ai compagni, grida: "Assassini in giacca e cravatta, assassini con la divisa".
Sono anni che chiedete una nuova legge sui braccianti. Ora quella legge è pronta, voluta da questo governo. Perché siete qui a protestare?
"Perché non è certo quello che serve. L'unico strumento reale per cambiare le cose sono i contratti nazionali di lavoro e gli accordi provinciali: sono l'unica maniera, seppur minima, per eliminare lo sfruttamento o parte di esso".
Che significa?
"Non inserire la questione del trasporto e dell'abitazione all'interno dei contratti significa regalare l'illegalità ai caporali. E questi signori lo sanno bene. Sanno che gli strumenti per cambiare le cose sono proprio quei contratti che loro hanno firmato. Sanno che la legalità del territorio e del lavoro in agricoltura passa attraverso la legalità di chi ci lavora. È una storia così banale, così triste, così vera".
Ma davvero lei è la figlia del ministro dell'Economia? Ne ha parlato con suo padre?
Veronica prende in mano il megafono. "Ministro Orlando, ci vediamo a Roma, perché se non ci ascoltate dobbiamo andare da un'altra parte". Poi, mano verso la Prefettura, il coro: "Questo palazzo non serve a un ca...".
Veronica Padoan e gli eredi ribelli dei politici, scrive Francesca Buonfiglioli il 23 agosto 2016. Da Marco Donat-Cattin fino alla figlia di Padoan. Passando per Delrio junior. Quando l'erede del politico è scomodo. O si schiera contro le istituzioni. «Se permettete, non dovrebbe essere importante chi sono ma quello che dico», ha detto secca Veronica Padoan, figlia del ministro dell'Economia, intercettata durante una manifestazione contro il caporalato e le condizioni subumane dei lavoratori del ghetto di Rignano garganico. Megafono alla mano ha minacciato: «Ministro Orlando, ci vediamo a Roma, perché se non ci ascoltate dobbiamo andare da un’altra parte». E poi, indicando il Palazzo della Prefettura, si è unita al coro in rima baciata: «Questo palazzo non serve a un ca...». Veronica Padoan è ricercatrice presso l'Ires, l'istituto di ricerche economico-sociali della Cgil, e da anni si occupa di tematiche legate all'immigrazione e al mercato del lavoro. «Ha collaborato con numerosi istituti di ricerca e istituzioni», si legge in un suo stringatissimo cv pubblicato anni fa da Social Europe, una casa editrice digitale londinese, «tra cui l'Anci, l'ufficio statistico del Comune di Roma, l'Iprs (Istituto psicoanalitico per le ricerche sociali) e l'Osservatorio sull'immigrazione dell'Ires».
Decisamente una strada diversa da quella intrapresa dalla sorella Eleonora che dal primo luglio 2015 è dipendente a tempo indeterminato di Cassa depositi e prestiti. Contratto arrivato senza concorso perché la Cdp non rientra nella Pa, ma «a seguito di una procedura di job posting iniziata nel novembre del 2014» e «volta a valorizzare professionalità interne al gruppo». E infatti Eleonora lavorava come economista alla Sace, controllata dalla Cassa depositi e prestiti.
Veronica Padoan, però, non è certo la prima né l'unica figlia ribelle di un politico o di un rappresentante delle istituzioni.
Donat-Cattin e Prima Linea. A metà degli Anni 70 Marco Donat-Cattin, figlio del noto Carlo esponente della sinistra sociale della Dc, tra i fondatori della Cisl e pluriministro, prese parte alla costituzione di Prima Linea. Con il nome di Comandante Alberto divenne uno dei leader dell'organizzazione terroristica. Identificato dalla polizia nel 1980 grazie alla testimonianza dell'ex compagno Roberto Sandalo, riuscì a riparare in Francia, ma venne estradato in Italia l'anno dopo. Lo scandalo travolse il padre che si dimise da ogni incarico di partito prendendosi una pausa dalla vita politica e pure l'allora presidente del Consiglio Francesco Cossiga accusato in un primo momento di aver agevolato la fuga del terrorista avvertendo il padre Carlo che il figlio era ricercato. Dissociatosi da Prima Linea, Donat-Cattin jr beneficiò della riduzione della pena ottenendo gli arresti domiciliari nel 1985. Tre anni dopo morì in un incidente stradale.
Tommaso Cacciari. Tra le calli di Venezia, invece, si consuma da anni la querelle dei Cacciari. A dare grattacapi a Massimo, ex sindaco della Serenissima, è stato il nipote Tommaso no global e tra i leader dei centri sociali veneziani e figlio di Paolo, fratello del filosofo ed ex deputato di Rifondazione. I sabotaggi al Mose e alcuni atti dimostrativi tra Venezia e Milano sono costati a «Cacciari il Giovane» (copyright Giancarlo Galan) grane giudiziarie. Nonché le reprimende dello zio che a più riprese aveva condannato le modalità di lotta del nipote. Ex «portiere di notte», su Twitter oggi si definisce «attivista del laboratorio occupato Morion e del Comitato NoGrandiNavi - NoMose, antifascista». Insomma, le barricate, nonostante gli anni che passano, stanno ancora in piedi.
Michele Delrio. Tornando ai figli di ministri, pure in quel di Reggio Emilia Michele Delrio, detto Billo, uno dei nove figli dell'ex sindaco e ministro, decise di abbandonare il politically correct e attaccare su Facebook il governo Letta di cui suo padre era stato responsabile delle Autonomie regionali. «Sfido chiunque a dirmi un provvedimento a lungo termine che abbia approvato questo governo», aveva tuonato il giovane arbitro di calcio nel febbraio 2014, pochi giorni prima della caduta dell'esecutivo. «In 10 mesi nulla è stato fatto in tema di lavoro, oltre a rifinanziamento a cassa integrati. Pasticcio sull’Imu, pasticcio su Bankitalia, pasticcio su decreto carceri. Al Paese non serve un eroe ma un governo, che possibilmente governi e non punti a sopravvivere». Un'uscita da cartellino giallo per alcuni, ma che Michele non rinnegò: «Dico quel che penso indipendentemente da mio padre», commentò chiudendo la questione. A dirla tutta, però, Delrio jr un suo eroe lo aveva già e da tempo visto che nel 2012, appena 20enne, aveva creato un coordinamento cittadino per appoggiare Matteo Renzi alla primarie. Annunciando la nascita del gruppo, spiegò sempre sul social con entusiasmo: «Siamo un gruppo di amici, di ragazzi che non si rassegnano all’idea di dover consegnare la politica ai disonesti. Il nostro gruppo si chiama “Adesso!! Kairos” e vogliamo dare voce a chi non ha più la forza di alzarla e dare dignità a coloro che l'hanno persa. Matteo Renzi rappresenta una ventata di cambiamento, di politica fatta dal basso, di quella politica che si sporca le mani lavorando e sudando la fiducia del popolo. Abbiamo voglia prima di tutto di ricominciare a sognare, di tornare ad impegnarci, a credere in qualcosa e non in qualcuno». Endorsement che anticipò addirittura quello del padre.
Figli ribelli, contro il sistema, contro lo Stato o contro il governo. Ma nulla in confronto a chi il parricidio lo organizzò per davvero. O almeno così racconta la storia. Nel 2 a.C., Giulia Maggiore, unica figlia naturale di Augusto e moglie di Tiberio, fu arrestata con l'accusa di adulterio e tradimento per aver congiurato contro suo padre. Dopo l'esilio a Ventotene, morì forse di stenti a Reggio Calabria. Il rimorso non abbandonò mai Augusto, che parlando della figlia si narra prendesse a prestito le parole dell'Iliade: «Vorrei essere senza moglie, o essere morto senza figli».
La politica sfasciafamiglie. Dalla figlia di Padoan, occhiali da sole e megafono, che protesta contro i "giochini del governo", al figlio diciottenne di Yoram Gutgeld (consigliere economico di Matteo Renzi) in piazza contro il Jobs Act mentre suo padre elogia le riforme in un’intervista sul Financial Times. Il privato è dibattito, scrive Annalena Benini il 24 Agosto 2016 su “Il Foglio”. Veronica Padoan, figlia del ministro dell’Economia, ha protestato contro “i giochini” del governo. Occhiali da sole, capelli sciolti e megafono, ha manifestato pacificamente con il suo gruppo di attivisti davanti alla prefettura di Foggia, in occasione della visita del ministro della Giustizia Andrea Orlando (“bene, abbiamo l’interlocutore adatto”, ha detto con sarcasmo al megafono Veronica Padoan quando il ministro è arrivato). La questione è quella del lavoro nelle campagne dei braccianti stagionali, non solo extracomunitari, con le baraccopoli fatiscenti e abusive, il caporalato, migliaia di persone sfruttate e sottopagate, niente docce, niente tutele. E’ una battaglia che Veronica Padoan combatte da molto prima che suo padre diventasse ministro del governo Renzi, è qualcosa che attraversa la famiglia, i legami personali, il sangue, e ha bisogno di affermarsi anche controvento, come (ma in modo più evidente e serio) nei pranzi della domenica in cui non siamo mai d’accordo con nostra madre, nostro padre, i figli, sui destini del mondo, sui modi per salvarlo, e anche su chi è meglio votare. Veronica Padoan parla, accesa e severa, dei “signori del palazzo” e dei giochini del governo, anche se in questo governo c’è suo padre, e rivela l’umanissima, vitale tradizione del dissidio politico famigliare, anche doloroso, anche difficile da sopportare, che non viene pacificato da un ruolo importante né dalla fiducia personale. Si diventa adulti anche per contrarietà, si cerca la differenza, il conflitto, l’autonomia. Mai come mio padre, penserà forse il figlio di Yoram Gutgeld (consigliere economico di Matteo Renzi) che a diciotto anni, da presidente del Movimento studentesco milanese, ha protestato in piazza contro il Jobs Act e contro l’ingresso dei privati nella scuola pubblica, mentre suo padre elogiava le riforme in un’intervista al Financial Times. Padri e figli, mariti e mogli, litigano per la politica da sempre (la compagna di Matteo Orfini, madre dei suoi figli, ha raccontato lui stesso, “dà ragione a chi fa opposizione a noi, lei è oltre il Pd”) e in queste discussioni, in questi contrasti, in questo darsi torto, c’è anche il gusto di non essere mai d’accordo, di cercare di convincere l’altro, senza riuscirci quasi mai, perfino divertendosi a battere i pugni sul tavolo, a rincorrersi in bagno per continuare a litigare agitando fogli di giornale, citando a memoria stralci di talk-show notturni, anche negando il like all’ultimo severissimo giudizio politico postato su Facebook. Ci sono storie più dolorose: Giovanni Amendola e suo figlio Giorgio discutevano perché il padre era antifascista ma liberale e il figlio antifascista ma attratto dal comunismo (aderì al Pci dopo la morte del padre), ma non è immaginabile una riunione di famiglia, una cena di Natale in cui, al primo accenno alla politica, alla Costituzione, alle riforme, alla scuola, nessun parente cominci ad agitarsi sulla sedia, a sbuffare, a diventare rosso per la rabbia, a scuotere la testa con aria sarcastica. Ci si calma, di solito, quando qualcuno di molto saggio grida, dalla cucina: chi vuole un caffè?
Quella lunga lista di figli di papà che giocano a rinnegare i genitori. Veronica Padoan non è sola, scrive il 24 Agosto 2016 “Il Tempo”. Dall’altro ieri Veronica Padoan ha aggiunto un’altra pagina all’eterno diario dello scontro figli-genitori. Ordinario e fisiologico in tutte le famiglie, diventa suggestivo, e vagamente retorico, quando tra le parti opposte della barricata si piazzano uomini politici - e di governo- con la relativa progenie. Così la rampolla di Piercarlo, ministro dell’economia, è scesa in piazza a Foggia con tanto di megafono manifestando contro la visita di un collega di suo padre, il Guardasigilli Andrea Orlando, perorando la causa dei braccianti extracomunitari stagionali. Non vi è traccia, al momento, di reazioni pubbliche dell’augusto genitore. Al contrario di quanto fece, nel 2014, l’allora vice ministro agli Esteri Lapo Pistelli, quando il figlio liceale scese in piazza in una di quelle tradizionali manifestazioni contro le politiche del governo (tocca un po’ a tutti) sulla scuola. Pistelli senior la prese con ironia: «La prossima volta parliamone a cena a casa», scrisse sul suo profilo Facebook. Crisi familiare sventata dunque. Più complessa fu invece l’esperienza di Paolo Guzzanti, quando oltre ad essere editorialista del Giornale, nel 2001 fu eletto senatore con Forza Italia. Erano gli anni di girotondi, dell’«editto bulgaro», del mondo della cultura di sinistra lancia in resta contro Berlusconi. In prima linea si distingueva Sabina Guzzanti, regista e attrice figlia di Paolo. Suo padre le scrisse una lettera aperta, cercando di spiegarle la vera natura del berlusconismo. Lei le rispose con una mail privata in cui lo accusava, rivelò lui con comprensibile amarezza, di far parte «di un’accolita di delinquenti», perchè «Forza Italia e la Casa delle Libertà sono sinonimo di mafia, razzismo, fascismo, antidemocrazia». Può capitare, poi, che tra il padre politico e il figlio si incunei un certo ribellismo tipico dell’età, foriero di imbarazzi per il ruolo del genitore. Pare che, negli ultimi tempi, Barack Obama sia alle prese con le intemperanze festaiole della figlia Malia, ormai maggiorenne, paparazzata a fumare quel che ha tutta l’idea di essere uno spinello. Agli annali sono anche i rapporti burrascosi che ci furono tra George H. Bush e suo figlio, il discolo George W. Entrambi sarebbero diventati rispettivamente il 41esimo e il 43 esimo presidente degli Stati Uniti d’America. Ma nel 1973 non lo sapevano e così ecco un adirato George senior, allora presidente del Partito Repubblicano, accogliere sulla porta di casa il figlio ubriaco dopo una notte brava che lo voleva prendere a pugni. Ben più drammatiche furono alcune vicende di casa nostra. Carlo Donatt Cattin, esponente e uomo di governo diccì a cavallo tra i ’70 e gli anni ’80, ebbe la propria carriera politica compromessa dalla scelta compiuta da suo figlio Marco di abbracciare la lotta armata, nella schiera di Prima Linea, il gruppo guidato da Sergio Segio. Marco, negli anni, si dissociò dal percorso terroristico, ma poco dopo la vita gli presentò il conto più amaro, e morì investito dopo che si era fermato a soccorrere alcuni automobilisti coinvolti in un tamponamento. Prima di Donatt Cattin, anche Attilio Piccioni, ministro democristiano negli anni ’50, ebbe guai per via del figlio. Piero, compositore, fu infatti coinvolto nello scandalo Wilma Montesi, una ragazza trovata morta sul litorale di Tor Vajanica; dietro quel cadavere si delineava uno scenario di scandali nella Roma post bellica, in una mondanità sfrenata ribollente di orge e droga a fiumi. Piccioni Jr alla fine fu scagionato, ma suo padre nel frattempo si era dovuto dimettere da ministro degli Esteri. Ai giorni nostri, poi, ci sono alcuni casi più o meno noti di ribellismi elettorali. Due anni fa, a San Giorgio di Piano, in provincia di Bologna, il figlio del locale segretario Pd si è candidato al Comune con i Cinque Stelle, risultando eletto. Poi c’è anche il caso contrario, quando è il padre a ribellarsi al figlio. È il caso di Giambattista Borgonzoni, padre di Lucia, candidata leghista a sindaco di Bologna che è riuscita ad arrivare al secondo turno. Lui, moderato di sinistra, tessé pubblicamente le lodi alla figlia ma annunciò che no, la Lega non l’avrebbe mai votata. Perché i figli, quando ci si mettono sono spietati. Ma anche i genitori…
Di padre in figlia: italiani ultimo pensiero. Veronica Padoan, ricercatrice Cgil e pargola del ministro, alla testa di una protesta dei migranti, scrive “Il Giornale d’Italia” il 23/08/2016. C’era una pasionaria, ad attendere il ministro Andrea Orlando ieri a Foggia. Arrabbiata, per dire un eufemismo, nera: nera come gli occhiali da sole e come la quindicina di manifestanti dietro alle sue spalle. Capeggia la rivolta di “Campagna in lotta”, vorrebbe veder chiuso il “ghetto” di Rignano Garganico dove migranti economici (quelli che una volta sarebbero stati definiti semplicemente clandestini: ma si ha la sensazione che dirlo oggi siamo ormai vietato) vivono nelle baracche in attesa di lavorare nei campi e si chiama Veronica Padoan. Già, come il ministro dell’Economia. Di cui è, d’altronde, figlia. “È dal 2014 che la Giunta Vendola aveva millantato di smantellare il ghetto. Il problema non sono queste micro-comunità – il suo grido – il problema è che non si organizza effettivamente il lavoro nei campi”. E sfoggia, nelle interviste sotto la Prefettura, grande cognizione del tema. D’altronde è una ricercatrice dell’Ires, l’istituto di ricerca sociale fondato dalla Cgil e oggi sotto l’egida della Fondazione Di Vittorio. È anche convincente, quanto meno per chi ancora è succube di certe suggestioni assistenzialistiche che nell’Italia di oggi hanno ben poco senso. Per accorgersi di questa verità, la pasionaria Veronica, dovrebbe semplicemente cercare nella rubrica del suo smartphone il nome “papà”, e chiedere soldi. Oppure, potrebbe rivolgersi alla voce “Eleonora”. È sua sorella, anch’ella Padoan, da poco assunta alla Cassa Depositi e Prestiti con contratto a tempo indeterminato. La Cdp è considerata il bancomat preferito dal governo: chissà che non si trovi qualche “risorsa” per abbattere il ghetto e dare casa, diritti e lavoro alla quindicina di cui Veronica s’è messa a capo. D’altronde, da poche settimane, Eleonora Padoan si occupa all’interno della Cassa (ossia il gruppo pubblico che gestisce il risparmio postale degli italiani ed è controllato proprio dal Tesoro, cioè da papà…) del settore cooperazione e sviluppo internazionale. Che con la Cgil da un lato e i migranti nei campi dall’altro, guarda un po’, pare avere una competenza diretta. Li troverà, la protettrice dei migranti, i soldi, per un progettino già pronto e firmato Cgil? C’è da ritenersene certi. Poi ci penserà Pier Carlo, a spiegare agli italiani che per loro risorse non ce ne sono, per il patto di stabilità, la richiesta di flessibilità, il Pil col fiato corto e i segnali di ripresa.
Dall'asilo nido ai posti di prestigio Cosa fanno gli eredi dei ministri. Eleonora Padoan assunta alla Cassa depositi e prestiti, la sorella è alla Cgil, Delrio jr fa l'arbitro di calcio. Molti bimbi e under 18, scrive Paolo Bracalini, Giovedì 22/12/2016, su "Il Giornale". Se Manuel Poletti ha una carriera già brillante nel mondo coop coi fondi pubblici di Palazzo Chigi, altri rampolli di governo non sono ancora sistemati a dovere. Sarà che avendo meno di 10 anni, alcuni ancora neonati, è un po' prestino per fare i dirigenti o i dipendenti di una coop rossa. Si faranno, bisogna avere pazienza. C'è poi che diversi ministri non hanno proprio figli (condizione che, in politica, può risparmiare svariate occasioni di imbarazzo), a iniziare dal primo ministro, Paolo Gentiloni, sposato senza eredi, come pure il Guardasigilli Andrea Orlando («45 anni ma eterno Peter Pan» dicono di lui gli amici), o la ministra dell'Istruzione Valeria Fedeli, che non ha la laurea ma un marito sì (e pure lui sindacalista e senatore Pd, Achille Passoni), e non risulta avere figli. Senza contare la sottosegretaria Maria Elena Boschi, che è addirittura single. Mentre altri giovani titolari di ministeri hanno pargoli in età da asilo nido (il renziano Luca Lotti, Marianna Madia, Beatrice Lorenzin), o under 18 (come i ministri Angelino Alfano e Carlo Calenda, quarantenne già padre di quattro figli, o il trentenne Maurizio Martina). Con i ministri più anziani però, tipo il titolare del Tesoro Pier Carlo Padoan, si rintracciano curriculum di rampolli già in carriera. La figlia Eleonora Padoan, dopo aver ricoperto il ruolo di senior economist alla Sace, società pubblica di prodotti assicurativi e finanziari, nel 2015, cioè quando il padre era già da oltre un anno ministro dell'Economia, è stata assunta dalla Cassa depositi e prestiti, società controllata all'82% proprio dal ministero del padre. Posto di lavoro ottenuto dalla figlia di Padoan «a seguito di una procedura di job posting iniziata nel novembre del 2014», spiegò la Cdp proprio al Giornale. Non un concorso vero e proprio, ma «una procedura volta a valorizzare professionalità interne al gruppo». Anche l'altra figlia, Veronica Padoan, ricercatrice all'Inca-Cgil, si può incontrare nei pressi di qualche ministero. Fuori, però, a protestare contro il governo in qualche corteo. Questa estate era a Foggia, megafono in mano, insieme ad una quindicina di attivisti e lavoratori africani della rete «Campagna in lotta» a contestare il ministro della Giustizia sulle condizioni di lavoro dei braccianti extracomunitari. Il ministro Graziano Delrio (Infrastrutture) di figli ne ha nove, cinque femmine e quattro maschi («Dopo il nono, abbiamo detto basta»). Anche solo per il calcolo della probabilità, qualche Delrio jr attivo in politica c'è. Renziano, ovviamente, ma senza incarichi di prestigio per ora. Trattasi di Michele Delrio, ventenne, talmente renziano che su Facebook stroncò il governo Letta («Non ha fatto nulla») di cui il padre era ministro. Le cronache locali riportano poi l'hobby di arbitro di calcio di Michele Delrio. Con côté di polemiche incluse, come quando arbitrò un Barletta-Casarano, e fu accusato di faziosità: «Non vorrei che il risultato maturato ieri, sia il frutto di una macchinazione politica a nostro danno...» si infuriò il presidente del Casarano, eliminato dal Barletta calcio. Il ministro all'Ambiente Gian Luca Galletti (Udc), da cattolico, tiene molto all'educazione, e vieta ai figli la visione di cartoni animati volgari, e non solo quelli. «Ho vietato ai miei figli più piccoli di vedere i Simpson e Beppe Grillo - twittò Galletti - Violenza e parolacce non fanno bene ai piccoli. E neanche ai grandi». Mentre Angelino Alfano, da ministro dell'Interno, assicurò che il rischio terrorismo non avrebbe modificato le sue scelte da padre: «Io sono papà di due bambini di 14 e 9 anni, anche loro andranno in gita scolastica e io li autorizzerò. E segnalo che loro non godono della tutela di cui gode suo padre». Per la ministra della Difesa Roberta Pinotti, si era vociferato di un importante destinato alle figlie dopo una missione in Kuwait, oltre ad un Rolex. Ma la Pinotti ha smentito: «Non mi occupo dei regali, c'è una stanza al ministero dove sono custoditi». Poi c'è la neoministra, ma con lunga esperienza politica, Anna Finocchiaro, sposata con Melchiorre Fidelbo. La Finocchiaro ha due figlie, Miranda e Costanza. E su Linkedin c'è il profilo di una Miranda Fidelbo, giovane avvocatessa che dopo un tirocinio al Parlamento Europeo, ora lavora nello studio Severino di Roma. Quello dell'ex ministro Paola Severino.
Poletti jr e gli altri figli dei ministri col lavoro assicurato. Dai banchi del governo hanno attaccato precari, bamboccioni, choosy. E ora pure gli expat. Ma a casa loro..., scrive "Lettera 43” il 21 dicembre 2016. Prima furono i bamboccioni, poi i choosy, gli sfigati e, ancora, i nostalgici della «monotonia» del posto fisso. Poteva Giuliano Poletti non dare il suo contributo alla lista di offese governative ai giovani disoccupati, non ancora laureati o desiderosi di un tempo indeterminato che non arriva mai? Certo che no. E così il ministro del Lavoro davanti alla fuga di 100 mila giovani all'estero ha commentato in modo sprezzante che «questo Paese non soffrirà a non averli più tra i piedi». Inutili le scuse per l'espressione un po' troppo colorita, soprattutto davanti a una disoccupazione giovanile al 36,4% (anche se è il valore più basso degli ultimi quattro anni, sic), al neo schiavismo dei voucheristi e all'aumento della precarietà effetto del Jobs Act. Il primogenito di Poletti, invece, è uno di quei giovani (nel senso italico del termine visto che di anni ne ha 42) «non pistola» che hanno deciso di restare in patria. E dire che l'ex sottosegretario Michel Martone lo avrebbe definito uno «sfigato» visto che è sensibilmente fuoricorso («Se non sei ancora laureato a 28 anni, sei uno sfigato», a essere precisi). Chissà poi cosa ne pensa il padre, visto che nel 2015 il ministro cadde in un'altra boutade impopolare sui fuori corso. «Prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21», disse agli studenti all'inaugurazione di Job&Orienta. Una giustificazione, però, Poletti jr ce l'ha: in questi anni si è dedicato al lavoro e alla famiglia, ha raccontato al Fatto quotidiano. Già il lavoro. Manuel dirige il settimanale Sette Sere Qui diffuso tra Faenza, Lugo Ravenna e Cervia. L'editore è la Coop Media Romagna di cui il figlio del ministro è presidente. Il giornale nel 2015 ha ottenuto 190 mila euro di contributi pubblici, 521.598 in tre anni. Ma lui, ha assicurato, guadagna 1.800 euro al mese. Il solito welfare cooperativo. Come si diceva, Poletti non è certo il solo ad avere preso di mira i giovani, salvo poi poter vantare prole sistemata, stipendiata e soddisfatta. E molto probabilmente pure meritevole e talentuosa, ma questo è un altro discorso. Si prenda per esempio l'ex premier Mario Monti che definì monotono il posto fisso. «I giovani devono abituarsi all'idea di non avere più il posto fisso a vita: che monotonia», disse a febbraio 2012. «È bello cambiare e accettare delle sfide». E, infatti, suo figlio Giovanni Monti di lavori ne ha cambiati parecchi, sempre fissi però. L'enfant prodige bocconiano, classe '73, dopo un po' di "gavetta" come consulente alla Bain and Co, è passato dalla vicepresidenza di Citigroup a quella di Morgan Stanley. Nel 2009 entrò in Parmalat chiamato dall'allora commissario straordinario Enrico Bondi per occuparsi di business development. Esperienza che finì con dimissioni ctinte di giallo. Presso quali lidi sia approdato Monti jr difficile dirlo oggi, anche perché ai tempi della bufera cancellò il suo profilo da Linkedin. Invece, come ha ricordato Il Giornale, qualcosa in più si sa di Federica Monti, la secondogenita, che ha lavorato presso lo studio Ambrosetti, quelli dell'omonimo forum di Cernobbio. Alla faccia della monotonia, Federica ha pure sposato Antonio Ambrosetti: tutta casa e lavoro, insomma. Dai monotoni ai choosy, il passo è breve. Anche Elsa Fornero, che di Monti era ministro del Lavoro, invitò a smettere di cercare un posto a tempo indeterminato. «Il lavoro fisso?», disse, «Un'illusione». Insomma, aggiunse materna, «non bisogna mai essere troppo "choosy" (schizzinosi, ndr), meglio prendere la prima offerta e poi vedere da dentro e non aspettare il posto ideale». Sua figlia Silvia Deagliodeve essere stata fortunata. Nata nel 1974, sposata con un dirigente Unicredit, Deaglio è professore associato alla facoltà di Medicina e chirurgia dell'Università di Torino, lo stesso in cui insegnano i genitori. Per sconfiggere la monotonia montiana, la professoressa ricoprì anche un ruolo come «responsabile dell'unità di ricerca» della fondazione HuGeF, attiva nel campo della genetica. Un cervello non in fuga il suo. Anche perché, come scrisse il Fq, la fondazione riuscì a ottenere dai ministeri della Salute e della Ricerca «quasi 1 milione di euro in due anni, 500 mila nel 2008, 373.400 e 69 mila nel 2009». Ma i tecnici non sono stati gli unici ad aver dispensato consigli (non richiesti) alla popolazione di giovani precari italiani. Nel 2008 pure Silvio Berlusconi propose la sua ricetta. Durante la trasmissione Tg2 Punto di vista, a una ragazza che chiedeva come fosse possibile mettere su famiglia senza un'occupazione stabile rispose: «Da padre il consiglio che le do è quello di ricercarsi il figlio di Berlusconi o di qualcun altro che non avesse di questi problemi. Con il sorriso che ha potrebbe anche permetterselo». Dopo nove anni, quello del Cav resta - purtroppo e al netto delle comprensibili polemiche - l'unico bagliore di realtà. A sua insaputa.
IL FAMILISMO AMORALE ED IL COOPTISMO AMORALE.
Ripubblichiamo un pezzo di Bruno Trentin intitolato "A proposito del merito" uscito sull’Unità nel 2006. "La meritocrazia come criterio di selezione degli individui al lavoro ritorna alla moda nel linguaggio della sinistra e del centrosinistra, dopo il 1989; ma prima ancora con la scoperta fatta da Claudio Martelli a un Congresso del Psi sulla validità di una società «dei meriti e dei bisogni». In realtà, sin dall’illuminismo, la meritocrazia che presupponeva la legittimazione della decisione discrezionale di un «governante», sia esso un caporeparto, un capo ufficio, un barone universitario o, naturalmente un politico inserito nella macchina di governo, era stata respinta. Era stata respinta come una sostituzione della formazione e dell’educazione, che solo possono essere assunte come criterio di riconoscimento dell’attitudine di qualsiasi lavoratore di svolgere la funzione alla quale era candidato. Già Rousseau e, con lui, Condorcet respingevano con rigore qualsiasi criterio, diverso dalla conoscenza e dalla qualificazione specializzata, di valutazione del «valore» della persona e lo riconoscevano come una mera espressione di un potere autoritario e discriminatorio. Ma da allora, con il sopravvento nel mondo delle imprese di una cultura del potere e dell’autorità il ricorso al «merito» (e non solo e non tanto alla qualificazione e alla competenza accertata) ha sempre avuto il ruolo di sancire, dalla prima rivoluzione industriale al fordismo, il potere indivisibile del padrone o del governante; e il significato di ridimensionare ogni valutazione fondata sulla conoscenza e il «sapere fare», valorizzando invece, come fattori determinanti, criteri come quelli della fedeltà, della lealtà nei confronti del superiore, di obbedienza e, in quel contesto, negli anni del fordismo, dell’anzianità aziendale. Nella mia storia di sindacalista ho dovuto fare ogni giorno i conti la meritocrazia, e cioè con il ricorso al concetto di «merito», utilizzato (anche in termini salariali) come correttivo di riconoscimento della qualificazione e della competenza dei lavoratori. E, soprattutto negli anni 60 del secolo passato, quando mi sono confrontato con la struttura della retribuzione, alla Fiat e in altre grandi fabbriche e ho scoperto la funzione antisindacale degli «assegni» o «premi» di merito; quando questi, oltre a dividere i lavoratori della stessa qualifica o della stessa mansione, finirono per rappresentare un modo diverso di inquadramento, di promozione e di comando della persona, sanzionato, per gli impiegati, da una divisione normativa, che nulla aveva a che fare con l’efficienza e la funzionalità, ma che sancivano fino agli anni 70 la garanzia del posto di lavoro e quindi la fedeltà all’impresa. Un sistema di inquadramento e di organizzazione del lavoro apertamente alternativo alla qualifica definita dalla contrattazione nazionale e aziendale. Ma molto presto questa utilizzazione dei premi di merito o dei premi tout court giunse alla penalizzazione degli scioperi e delle assenze individuali (anche per malattia), quando di fronte a poche ore di sciopero o alla conseguenza di un infortunio sul lavoro (mi ricordo bene una vertenza all’Italcementi a questo proposito), le imprese sopprimevano anche 6 mesi di premio. È questa concezione del merito, della meritocrazia, della promozione sulla base di una decisione inappellabile di un’autorità «superiore» che è stato cancellato con la lotta dei metalmeccanici nel ‘69 e con lo Statuto dei diritti del lavoro che nel 1970 dava corpo alla grande idea di Di Vittorio di dieci anni prima. Purtroppo una parte della sinistra, i parlamentari del Pci, si astennero al momento della sua approvazione, solo perché esclusa dalla partecipazione al Governo. Ma quello che è più interessante osservare è come, alla crisi successiva del Fordismo e alla trasformazione della filosofia dell’impresa, con la flessibilità ma anche con la responsabilità che incombe sul lavoratore sui risultati quantitativi e qualitativi delle sue opere, si sia accompagnato in Italia a una risorgenza delle forme più autoritarie del Taylorismo, particolarmente nei servizi, santificata non solo dal mito del manager che si fa strada con le gomitate e le stock options, ma dalla ideologia del liberismo autoritario. Con gli «yuppies» che privilegiano l’investimento finanziario a breve termine, ritorna così per gli strati più fragili (in termini di conoscenza) l’impero della meritocrazia.
A questa nuova trasformazione (e qualche volta degrado) del sistema industriale italiano ha però contribuito, bisogna riconoscerlo, l’egualitarismo salariale di una parte del movimento sindacale, a partire dall’accordo sul punto unico di scala mobile, che ha offerto, in un mercato del lavoro in cui prevale la diversità (anche di conoscenze) e nel quale diventa necessario ricostruire una solidarietà fra persone e fra diversi, una sostanziale legittimazione alle imprese che hanno saputo ricostruire un rapporto diverso (autoritario ma compassionevole) con la persona sulla base di una incomprensibile meritocrazia. Non è casuale, del resto, che, di questi tempi, il concetto di merito, sinonimo di obbedienza e di dovere, abbia ritrovato un punto di riferimento nel sistema di promozione e di riconoscimento delle organizzazioni militari nel confronto del comportamento dei loro sottoposti. Le stesse osservazioni si possono fare per i «bisogni», contrapposti negli anni 60 del secolo scorso, alle domande che prevalgono nel vissuto dei cittadini nella società dei consumi. Era questa anche la convinzione di un grande studioso marxista come Paul Sweezy. Sweezy opponeva i «needs» (i bisogni reali, le necessità) ai «wants» (le domande, i desideri), attribuendo implicitamente ad uno stato illuminato e autoritario la selezione, «nell’interesse dei cittadini» fra gli uni e gli altri. Come se non fossero giunti i tempi in cui le domande e i desideri, pur influenzati dalla pubblicità, di fronte alle dure scelte e alle priorità imposte dalla condizione del lavoro e dalle lotte dei lavoratori si trasformano gradualmente in diritti universali, attraverso i quali, i cittadini, i lavoratori (non un padrone o uno stato illuminato), con il conflitto sociale, riuscirono a far progredire la stessa nazione di democrazia. Meriti e bisogni o capacità e diritti? Può sembrare una questione di vocabolario ma in realtà la meritocrazia nasconde il grande problema dell’affermazione dei diritti individuali di una società moderna. E quello che sorprende è che la cultura della meritocrazia (magari come antidoto alla burocrazia, quando la meritocrazia è il pilastro della burocrazia) sia riapparsa nel linguaggio corrente del centrosinistra e della stessa sinistra, e con il predominio culturale del liberismo neoconservatore e autoritario, come un valore da riscoprire. Mentre in Europa e nel mondo oltre che nel nostro paese, i più noti giuristi, i più noti studiosi di economia e di sociologia, da Bertrand Swartz a Amartya Sen, a Alain Supiot si sono affannati ad individuare e a riscoprire dei criteri di selezione e di opportunità del lavoro qualificato, capaci di riconciliare – non per pochi ma per tutti- libertà e conoscenza; di immaginare una crescita dei saperi come un fattore essenziale, da incoraggiare e da prescrivere, introducendo così un elemento dinamico nella stessa crescita culturale della società contemporanea. La «capability» di Amartya Sen non comporta soltanto la garanzia di una incessante mobilità professionale e sociale che deve ispirare un governo della flessibilità che non si traduca in precarietà e regressione. Ma essa rappresenta anche l’unica opportunità (solo questo, ma non è poco) di ricostruire sempre nella persona le condizioni di realizzare se stessa, «governando» il proprio lavoro. Perché questa sordità? Forse perché con una scelta acritica per la «modernizzazione», ci pieghiamo alla riesumazione – in piena rivoluzione della tecnologia e dei saperi – dei più vecchi dettami di una ideologia autoritaria. Forse qui si trova la spiegazione (ma mi auguro di sbagliare) della ragione per cui malgrado importanti scelte programmatiche del centrosinistra in Italia, per affermare una società della conoscenza come condizione non solo di «dare occupazione» ma anche per affermare nuovi spazi di libertà alle giovani generazioni, la classe dirigente, anche di sinistra, finisce per fermarsi, in definitiva, di fronte alla scelta, certo molto costosa, di praticare nella scuola e nell’Università ma anche nelle imprese e nei territori, un sistema di formazione lungo tutto l’arco della vita, aperto, per tutta la durata della vita lavorativa, come sosteneva il patto di Lisbona, a tutti i cittadini di ogni sesso di ogni età e di ogni origine etnica (e non solo per una ristretta elite di tecnici o di ricercatori, dalla quale è pur giusto partire). Speriamo che Romano Prodi che così bene ha iniziato questo mandato, sia capace di superare questa confusione di linguaggi, e di rompere questo handicap della cultura meritocratica del centro sinistra. Anche un auspicabile convegno sui valori, le scelte di civiltà di un nuovo partito aperto alle varie identità e alla storia dei partiti come della società civile, dovrebbe, a mio parere, assumere il governo e la socializzazione della conoscenza come insostituibile fattore di inclusione sociale.
Psicologia sociale: il familismo amorale nell’Italia di oggi, scrive Andrea Bellelli il 4 marzo 2014 su "Il Fatto Quotidiano". Andrea Bellelli Professore Ordinario di Biochimica, Università di Roma La Sapienza. La qualità dei servizi pubblici in Italia, soprattutto nel meridione, è da sempre oggetto di lamentele e proteste. Se in alcuni casi gli italiani hanno piena ragione (la giustizia italiana è stata spesso condannata per la sua lentezza nelle sedi internazionali), in altri casi il loro giudizio è ingeneroso e contrasta con le valutazioni internazionali (questo accade ad esempio per la ricerca o per la sanità). Una marcata discrepanza tra il giudizio popolare e quello oggettivo costituisce un problema di studio per la psicologia sociale. Molti spunti di riflessione possono essere tratti da un’importante ricerca di Edward C. Banfield pubblicata nel libro The moral basis of a backward society (Free Press, Usa). Lo studio fu condotto sessant’anni fa in un paese della Basilicata, nascosto sotto il nome fittizio di Montegrano, usando metodiche avanzate (per l’epoca) che includevano il test di appercezione tematica (TAT), e interviste strutturate e non strutturate. Banfield, con la moglie (italiana) e i due figli, rimase a Montegrano per quasi un anno. Lo studio di Banfield costituisce certamente uno dei più interessanti e originali contributi alla questione meridionale, almeno pari, se non superiore, a quelli di Giustino Fortunato, Gaetano Salvemini, Antonio Gramsci e Carlo Levi (autori che Banfield conosceva bene). La tesi centrale dello studio è che, accanto alle problematiche precedentemente individuate, ne esiste una socio-culturale, non individuata in precedenza, che Banfield chiama familismo amorale: “… i montegranesi si comportano come se seguissero la seguente regola: massimizza il guadagno materiale, a breve termine, della tua famiglia ristretta; assumi che tutti gli altri facciano lo stesso” (p. 83). Le regole del familismo amorale, come si vede, sono in effetti due: la prima indica all’individuo cosa fare; la seconda gli offre un facile modo per interpretare il comportamento altrui e relazionarsi con la società. Sebbene entrambe siano deleterie per il progresso socio-economico a medio o lungo termine, la seconda è particolarmente dannosa, perché inquina i rapporti sociali ed impedisce che si formi un rapporto di collaborazione e fiducia con il governo e le istituzioni locali o nazionali: “… la dichiarazione di una persona o di una istituzione, di essere ispirata dall’interesse per la cosa pubblica, anziché per il proprio, è vista come una frode” (p. 95); “in una società di familisti amorali sarà opinione comune che chi esercita il potere sia egoista e corrotto… il votante userà il voto … per punire” (p. 99). Non è in discussione, evidentemente, l’esistenza di funzionari pubblici corrotti e di servizi inefficienti (ampiamente analizzati da Banfield), ma l’idea che tutti i funzionari siano necessariamente corrotti e tutti i servizi necessariamente inefficienti e meritevoli di punizione; e non di rado i paesani intervistati da Banfield esprimevano ammirazione per il regime fascista (al potere fino a dieci anni prima dello studio) ritenuto capace di controllare e punire i suoi funzionari. In effetti, la collaborazione tra gli operatori e gli utenti del servizio è essenziale ai fini della qualità del risultato e nessun servizio può funzionare correttamente se è disprezzato dagli utenti. Banfield riteneva che due fattori causali fossero specialmente importanti nel determinare questo atteggiamento: la povertà e l’elevato tasso di mortalità, che cooperano nel produrre una condizione psicologica di perenne apprensione e inducono l’individuo a privilegiare scelte a breve termine. Poiché oggi le condizioni economiche sono migliorate, e l’aspettativa di vita è aumentata, la forma culturale del familismo amorale dovrebbe pian piano scomparire. Ma la cultura popolare cambia lentamente e non è difficile riconoscere i modi di pensare descritti nel libro di Banfield nella società contemporanea. Non si può non notare, ad esempio il desiderio di punizione nei confronti dei dipendenti pubblici che anima tanti cittadini, al punto di fargli apprezzare dei nemici dei lavoratori come gli ex ministri Brunetta e Gelmini; o la diffusa opinione che, se esistono realtà di eccellenza in questo paese, esse siano tutte concentrate in pochissime istituzioni tutte rigorosamente localizzate a nord del Po.
Il familismo amorale e il potere degli stupidi. L'intera società italiana ha adottato da tempo quello che nel 1958 il sociologico Edward C. Banfield definì “familismo amorale” che, unito alla cooptazione, porta gli "stupidi" ai posti di comando. Ne deriva una profonda arretratezza culturale evidente nel settore della ricerca dove sempre di più i buoni risultati si ottengono all’estero, scrive Rodolfo Guzzi il 24 gennaio 2015 su “La Voce di New York". Negli ultimi vent'anni la società italiana è regredita non solo dal punto di vista economico, ma soprattutto dal punto di vista culturale. La mancanza di un programma culturale e di un programma economico conseguente hanno portato la società italiana al livello in cui è: fanalino di coda di ogni classifica. Anzi no, qualche primato lo detiene, ma tutti in negativo: la libertà di stampa, la corruzione e via dicendo. Ma da dove viene questo degrado? In un controverso saggio sociologico Edward C. Banfield nel suo libro The Moral Basis of a Backward Society del 1958 (in traduzione italiana Le basi morali di una società arretrata, 1976, Il Mulino) studiando il Borgo di Chiaromonte, un paese della Basilicata, e comparando i dati in suo possesso con quelli delle comunità rurali della provincia di Rovigo e del Kansas giunse alla conclusione che “massimizzare unicamente i vantaggi materiali di breve termine della propria famiglia nucleare, supponendo che tutti gli altri si comportino allo stesso modo" porta inevitabilmente all’arretratezza. Egli chiamò questo comportamento: familismo amorale. Altri autori hanno ripreso in tempi recenti questo concetto e basta guardare alla società italiana per capire che essa è fortemente permeata di familismo amorale. È di pochi giorni fa un articolo di Sergio Rizzo sul Corriere della Sera che fa un elenco dei figli e parenti che stanno in Parlamento, non come parlamentari ma con cariche operative. Basta guardare ai figli e parenti dei baroni universitari e in particolar modo di quelli di Medicina per rendersi conto che tutta la nostra società ha adottato da tempo il metodo del familismo amorale: lo sguardo si può estendere all'intero sistema fino ai più piccoli anfratti della struttura pubblica italiana. Finanche il primo ministro oramai viene cooptato, non eletto: ne abbiamo avuti tre negli ultimi anni, alla faccia del popolo sovrano. Nel 1976 Carlo M. Cipolla scrisse The Basic Laws of Human Stupidity (poi pubblicato in italiano nel 1988 come Allegro ma non troppo, Il Mulino) in cui si divertì ad approfondire il tema della stupidità umana. Cipolla vede negli stupidi un gruppo che riesce ad operare con incredibile coordinazione ed efficacia, di gran lunga più potente delle maggiori organizzazioni siano esse mafie o lobby industriali. Chi è lo stupido? È uno che danneggia se stesso e gli altri. Gli altri non se ne accorgono subito, ma nel frattempo il danno è fatto irrimediabilmente. Insomma l’aver adottato il metodo del familismo amorale unito alla forma di cooptazione alla fine porta inevitabilmente ad assurgere ai posti di comando degli “stupidi” con le conseguenze che abbiamo detto: l’arretratezza culturale da cui non si riesce ad uscire e i danni che diventano sempre più profondi. Questo vale per ogni settore ed in particolare per il settore della ricerca dove sempre di più i buoni risultati si ottengono stando all’estero. Basti pensare ai nostri ultimi premi Nobel: tutti hanno ottenuto all’estero i risultati che hanno portato all’onorificenza. Non proprio tutti: uno di questi è stato Daniele Bouvet, uno svizzero naturalizzato italiano, che vinse il premio Nobel per la Medicina. Tuttavia il suo nome è caduto nell’oblio e pochi lo ricordano. E poi i recenti assegni di ricerca dell’European Research Council (ERC), vinti per lo più da italiani che operano all’estero. Il 2014 è stato l’anno in cui c’è stata la più alta emigrazione degli ultimi anni, complice la crisi economica, la discriminazione per aree di interesse funzionali al potere, ma anche per mancanza di un progetto culturale a largo spettro che coinvolga la nostra società verso una sua rinascita in primo luogo del miglior vivere utilizzando le potenzialità della ricerca, dell’impresa, del turismo e dei beni culturali. Nel frattempo speriamo che chi è emigrato utilizzi il potenziale di conoscenza che ha acquisito per rinnovare profondamente questo paese, uscendo finalmente dal familismo amorale che permea la società italiana.
Dal familismo amorale al familismo immorale. Famiglie italiane e società civile, scrive Francesco Benigno l'1 Luglio 2010 su “Italiani Europei”. In un’Italia in cui abbondano i “bamboccioni” e in cui emerge una tendenza ad “ereditare” anche gli incarichi pubblici tornano in auge le riflessioni sull’eccessivo potere assegnato alla famiglia nella sfera pubblica. Ad un familismo che avrebbe ormai assunto i caratteri dell’amoralità – se non dell’immoralità – viene imputato il mancato radicamento dell’etica pubblica nel nostro paese. Quanta realtà e quanta mistificazione vi sono nel delineare questa presunta antitesi fra familismo e civismo? Periodicamente la famiglia torna sotto i riflettori dell’opinione pubblica, indagata come possibile matrice dei mali del “bel Paese”, scrutata come depositaria e riproduttrice delle virtù e, più spesso, dei vizi del carattere nazionale. In una recente intervista a “La Repubblica”, in cui vengono sintetizzati i risultati di una ricerca storica collettiva dedicata alle famiglie italiane nel Novecento, Paul Ginsborg ha riproposto nuovamente il tema del familismo come una possibile chiave di lettura della realtà italiana contemporanea. In un’Italia ripiegata su se stessa, in cui le giovani generazioni faticano a staccarsi dalle mura domestiche per progettare un futuro autonomo (i bamboccioni del ministro Brunetta), in cui ruoli politici e candidature passano disinvoltamente di generazione in generazione come fossero ereditarie (il figlio del ministro Bossi), e in cui recenti scandali coinvolgono responsabilità genitoriali (la «casa per la figlia» del ministro Scajola), conviene interrogarsi ancora – sostiene lo storico inglese naturalizzato italiano – sul concetto di familismo. Familismo è un’espressione famosa nel lessico delle scienze sociali, soprattutto dopo che nel 1958 lo studioso statunitense Edward Banfield ebbe coniato il concetto di «familismo amorale» per designare i comportamenti, descritti come angustamente individualistici, della gente di Montegrano (in realtà Chiaromonte, un isolato villaggio lucano). Lo studio di Banfield ha avuto una larga eco nel dibattito pubblico sulla questione meridionale, divenendo per alcuni (ma in modo assai contestato) una delle possibili spiegazioni delle carenze dello spirito pubblico nel Sud del paese. Successivamente, da Carlo Tullio Altan a Robert Putnam, è stato una ricorrente fonte di ispirazione per tutti coloro che si sono impegnati in schemi dualistici di raffigurazione della storia italiana. Ora Ginsborg lo recupera e, pur criticandolo, ne allarga la portata, fino ad usarlo per descrivere l’intero atteggiamento del “paese Italia”: anzi, richiamando il ben noto detto del «tengo famiglia» – e definito sorprendentemente non uno stereotipo ma la sintesi di «una filosofia antica e tipicamente italiana» – egli attribuisce al familismo, non più solo amorale ma ormai scopertamente immorale, il mancato radicamento di un’etica pubblica, di quel senso della collettività che è invalso nelle scienze sociali chiamare civicness. La tesi di Ginsborg, modellata sugli schemi dicotomici cari a tanta sociologia classica, è a prima vista suadente, e sembra anzi farsi forza di una sorta di riconoscimento immediato, un asseverarsi intuitivo che si nutre di evidenze: in Italia oggi saremmo di fronte alla ricorrente tendenza al tradimento della fedeltà allo Stato per arricchire parenti e consanguinei. Il familismo amorale, tracimando, si mescolerebbe così con l’uso delle risorse pubbliche per interessi privati, con il clientelismo. Può essere interessante rilevare – osserva Ginsborg – come nell’Europa mediterranea «questi fenomeni antichi non muoiano mai, ma si reinventino continuamente in forme nuove. Quel che fa impressione nell’Italia di oggi è il prevalere dell’organizzazione verticale tra patrono e cliente su quella orizzontale tra cittadini. Nella precarietà del mercato del lavoro diventa fondamentale la relazione con il potente che garantisce determinati accessi per te e per i tuoi figli, da qui un legame di gratitudine e asservimento. Tutto questo non ha niente a che vedere con cittadinanza, diritti e democrazia». Al fondo starebbe dunque una verità nascosta: insieme alla tardiva formazione dello Stato democratico, la chiave di volta dell’eccezione italiana, quel qualcosa che impedisce alla nazione di essere un paese normale, sarebbe il familismo, e cioè l’eccessivo potere assegnato alla famiglia nella società e nella sfera pubblica italiane. Il familismo svolge così nella visione di Ginsborg quel ruolo che un tempo era assegnato dalla retorica nazionalista al «particolarismo», un principio distruttivo e disgregatore di più ampie e morali solidarietà. La contrapposizione non potrebbe essere più netta: da una parte l’individualismo egoista nutrito nella culla familista e dall’altra l’etica pubblica solidaristica, cresciuta nell’alveo della società civile; da un lato una ricorrente tentazione alla gretta chiusura familistica e dall’altro una società civile colta, indipendente, reattiva, pronta ad organizzarsi e ad esprimere valori universalistici di partecipazione e di associazione; e ancora, per un verso un assetto sociale in cui il rapporto dominante è quello tra l’individuo e la famiglia, per l’altro compagini in cui al centro della vita individuale sta la relazione, variamente disposta, con lo Stato. A questa contrapposizione idealtipica corrisponde puntualmente una distribuzione geografica, o meglio una geopolitica dei valori. Secondo Ginsborg sarebbe familista l’Europa mediterranea: un insieme variegato e composito formato in buona sostanza dall’area dei cosiddetti PIGS (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna) più i paesi mediorientali di tradizione islamica, descritti – questi ultimi – come comunità endogamiche, use al frequente matrimonio tra cugini primi e alla coabitazione delle coppie sposate coi genitori del maschio: tratti familiari che, uniti alla strutturazione clanica, avrebbe condizionato in senso negativo la crescita della società civile. In buona sostanza, l’accostamento di regioni così diverse funziona solo in negativo: esse sarebbero tutte segnate da una debole civicness a causa di strutture familiari troppo forti; sorta di controprova del successo del core nordeuropeo dello sviluppo economico (e insieme morale). In questa parte privilegiata del mondo (Inghilterra, Olanda e Scandinavia, più alcune aree della Germania e degli Stati Uniti) l’esistenza di famiglie più deboli e meno gerarchiche avrebbe permesso agli individui la libertà, gli spazi e i tempi per la partecipazione alla vita pubblica, da Ginsborg identificata con «la possibilità di sperimentare ed esplorare liberamente il variopinto mondo dell’associazionismo». La tesi della contrapposizione tra famiglie forti e famiglie deboli si può dimostrare, sostiene Ginsborg – che riprende qui tesi avanzate dal demografo David Reher – grazie all’analisi di tre piani distinti: quello delle strutture di coresidenza, dei sistemi demografici familiari e dei valori casalinghi. L’analisi comparativa delle strutture familiari di coresidenza è stata introdotta nel dibattito delle scienze sociali da Peter Laslett, uno dei padri della moderna storia della famiglia. Nella sua visione le famiglie inglesi (ma non irlandesi o scozzesi) e più in generale nordeuropeo-occidentali sarebbero state caratterizzate dal Cinquecento in poi da alcune caratteristiche specifiche: struttura nucleare, età tardiva della sposa, residenza neolocale. Grazie a queste caratteristiche, la famiglia inglese, portatrice di comportamenti virtuosi secondo l’etica maltusiana (con un’età tardiva al matrimonio cui corrispondeva un minor numero di figli) sarebbe stata il vero motore occulto della marxiana «accumulazione originaria», prodromo della rivoluzione industriale. A questo idealtipo dello sviluppo corrisponde, nella tipologia di Laslett, un idealtipo dell’arretratezza, costituito da famiglie variamente allargate, patriarcali, conviventi per più generazioni sotto lo stesso tetto, ordinate da strutture gerarchiche e costrittive, modellate sulle descrizioni fornite da antropologi anglosassoni dell’Europa meridionale e orientale: famiglie di pastori berberi o balcanici, di mezzadri toscani, di contadini calabri, di pescatori cantabrici. Va da sé che questi due modelli risultano – in quella visione – inscritti in un percorso evolutivo, un processo che prevede il passaggio da forme ritenute tradizionali o primitive ad altre reputate moderne. Questo schema semplificato e riduttivo è stato da tempo criticato e in gran parte abbandonato, ma la sua influenza continua ad avvertirsi nel discorso delle scienze sociali e nel dibattito pubblico. Malgrado l’evidenza, ad esempio, che in gran parte del Mezzogiorno la famiglia nucleare sia stata storicamente prevalente e le strutture di famiglie estese e complesse siano state invece minoritarie, l’idea che si possa trovare nella composizione familiare la chiave dell’arretratezza, il santo Graal della backwardness, non è stata mai abbandonata. È accaduto così che, scoperta negli anni Ottanta la cosiddetta Terza Italia, l’area valligiana centrosettentrionale a piccola impresa industriale diffusa, ci si è chiesti se non fosse da cercare nella struttura complessa, gerarchica e patriarcale della famiglia estesa mezzadrile, nella sua abitudine alla cooperazione nell’uso delle risorse comuni (il podere) il segreto del successo economico di questa parte del paese; laddove alla famiglia nucleare meridionale, descritta “alla Banfield” sarebbe venuta a mancare questa fondamentale risorsa cooperativa. In breve, patriarcale o nucleare che sia la famiglia, il risultato non cambia mai, se si continua inutilmente a porre la struttura familiare come pietra filosofale nell’eterna ricerca alchemica delle ragioni del sottosviluppo economico (o civico). Il secondo piano chiamato in causa da Ginsborg è quello dei sistemi demografici familiari. Si tratta di uno schema interpretativo elaborato a suo tempo dal demografo John Hajnal, che aveva prospettato l’esistenza nell’Europa moderna (dal XVI secolo in poi) di due sistemi familiari prevalenti e opposti fra loro: il primo, quello nordoccidentale, contraddistinto da una elevata età al matrimonio (soprattutto femminile) e strutture di residenza neolocali, e caratterizzato dall’abitudine di abbandonare presto la casa paterna per andare a servizio; il secondo, mediterraneo e orientale, a bassa età al matrimonio, segnato dalla preferenza per la convivenza di più generazioni nella stessa casa e dalla riluttanza a lasciare la famiglia d’origine. Questo schema, fuso in vari modi col precedente e formulato ancora una volta per spiegare le ragioni (virtuose) del primato economico nordoccidentale, divideva l’Europa secondo un’immaginaria linea disposta tra San Pietroburgo a Trieste, sì da isolare l’Europa nordoccidentale, vincente, e separarla dalla meno corretta, attardata e perdente “altra Europa” meridionale e orientale. Anche in questo caso le critiche all’impostazione di Hajnal non sono mancate, e hanno toccato sia l’inesistenza di una correlazione tra strutture neolocali ed età al matrimonio, sia l’inefficacia di isolare l’età al matrimonio come unica variabile indipendente e cioè senza considerare il regime demografico (soprattutto i tassi di mortalità) in cui è inscritta. Ma se l’applicabilità dello schema di Hajnal all’Europa preindustriale è assai dubbia, l’opportunità di isolarne solo un tratto (come l’età di abbandono della casa dei genitori) per determinare l’esistenza di famiglie “forti” o “deboli” oggi, a “rivoluzione demografica” da tempo conclusasi (con la conseguente completa equiparazione di tutti gli indicatori demografici fondamentali), appare alquanto controversa. Il dubbio grava specialmente sull’intento di inferire dalla comparazione delle diverse età nella fuoriuscita dalla famiglia di origine non un diverso livello delle opportunità, una differente struttura delle chances di mobilità, una variabile disposizione del mercato delle abitazioni, dei servizi e così via (tutte carenze rispetto a cui le strutture familiari possono funzionare da “ammortizzatori”) ma argomenti a sostegno di una tendenza culturale, riassumibile nello stereotipo indimostrato dell’italiano “mammone”, ovvero la predisposizione italica (ma poi, a seconda dei casi, meridionale, mediterranea oppure orientale) a convivere fino all’età adulta sotto lo stesso tetto dei propri genitori, una specie di tara insita nel carattere nazionale. Viceversa, la tendenza inglese di mandare presto i figli fuori di casa, un tempo a servizio, oggi a studiare, non viene collegata ad un sistema ereditario, quello dello one sole heir, che prevede la possibilità per i genitori di concentrare l’asse ereditario su un unico figlio a scelta, con la conseguente necessità di far sì che gli altri si costruissero una propria strada fuori dalle mura domestiche; e v’è da chiedersi se tale plurisecolare tradizione giuridica, decisamente volta alla conservazione del patrimonio familiare in barba a principi di elementare equità non possa con qualche ragione essere qualificata, essa sì, come “familista”. Infine, Paul Ginsborg, sulla scorta dei suoi studi precedenti, propone di dividere le famiglie in “aperte” e “chiuse”. Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad una polarità. Da una parte ci sono le famiglie che «sviluppano al loro interno, nelle loro conversazioni e tradizioni, un’apertura nei confronti della società e dei suoi problemi, una disponibilità dei componenti ad impegnarsi in associazioni e movimenti, un concetto della casa come spazio domestico poroso e accogliente»; mentre dall’altra «quelle che considerano la famiglia come una fortezza e vivono la vita familiare come un bene prezioso in costante pericolo»: queste ultime famiglie sono autoreferenziali e non aperte, come è evidente dalle loro case, che rifletterebbero questi atteggiamenti «sia nell’architettura sia nei sistemi di protezione». Anche in questo caso nessuna relazione è ipotizzata tra architettura e sistemi di protezione abitativa e livelli di reddito e di criminalità (reali o percepiti) del contesto sociale. Quest’ultima polarità si affiancherebbe così alle prime due, anche se con modalità piuttosto oscure, sicché non è chiaro se sia lecito aspettarsi una relazione positiva tra una certa struttura familiare, un dato sistema familiare e determinati valori casalinghi. È interessante notare come questa ripresa della chiave interpretativa familistica avvenga tuttavia in un clima intellettuale profondamente diverso da quello in cui essa fu forgiata: durante il mezzo secolo di storia del concetto di familismo amorale il tema cardine verso cui si è indirizzata l’analisi è stato quello dello sviluppo economico – verso il quale esso finiva per svolgere in negativo più o meno lo stesso ruolo che l’etica protestante svolge nella celeberrima tesi di Max Weber relativa allo sviluppo del capitalismo. Oggi, tuttavia, tale prospettiva appare per molti aspetti usurata. È significativo che sia stato proprio Ginsborg a rigettare l’avventurosa affermazione formulata da Francis Fukuyama in un suo libro intitolato “Trust” secondo la quale il familismo andrebbe in sostanza considerato un freno al dispiegarsi della fiducia collettiva e dunque alla qualità dello sviluppo economico capitalistico, con la conseguente classificazione delle liberaldemocrazie in più moderne e sviluppate (Germania, Giappone, Stati Uniti) e meno moderne (Cina, Corea del Sud, Francia e Italia). Nello stroncare tali elucubrazioni, fondate sulla ripresa di un concetto carico di «insensato determinismo antropologico», Ginsborg ricordava giustamente come tutta l’industria più avanzata e attiva sia in Italia, e non solo in Italia, a base familiare. È interessante in questa discussione il ruolo che finiva per giocare il Meridione come antitipo della modernità. Fukuyama infatti – basandosi ancora una volta su Banfield – indicava il Sud dell’Italia come un caso estremo, come l’area limite dell’Europa progredita, quella in cui la fiducia collettiva non poteva dispiegare i suoi benefici effetti sull’economia a causa di un tratto culturale familista che egli qualificava in modo assai bizzarro come «confucianesimo»: affermazione che oggi nessuno si sentirebbe di ripetere, non perché il confucianesimo non sia stato un credo che abbia privilegiato il ruolo della famiglia, ma perché, nel frattempo, lo straordinario successo industriale cinese ha insinuato più di qualche dubbio non solo sulla veridicità ma anche sulla semplice sensatezza di queste contrapposizioni. Vi è in queste tesi un tratto evidentemente paradossale: il comportamento degli abitanti di Montegrano, così scopertamente orientato a massimizzare l’utile, diviene il prototipo di un’etica in fondo anticapitalistica; e ciò dopo che – com’è stato acutamente notato – sin dai filosofi morali scozzesi del Settecento la retorica liberista ha teorizzato l’ostinato e angusto perseguimento di fini personali come necessaria premessa al dispiegarsi del bene collettivo, secondo la celebre palingenesi dei vizi privati in pubbliche virtù. Il familismo resuscitato da Ginsborg non è più dunque quello di una volta; non costituisce più una chiave per spiegare il maggiore o minore successo economico: egli ne opera una vistosa revisione, torcendo il concetto in senso culturalista ed etico. Opponendosi a quelle concezioni del capitale sociale che da un lato puntano a sganciarlo dal sistema dei valori, e dall’altro a farne una base per nuove tassonomie economiche, questa visione tende a qualificare il capitale sociale come impegno civico, e a ribadire un nesso tra civismo e alcune pratiche associative, distinte sul piano valoriale e, verrebbe da dire, politico. La società civile viene infatti descritta come un essere fragile e in pericolo, assediata da mali antichi e nuovi, che hanno il nome di clientelismo, corruzione, familismo, nepotismo, monopolio mediatico. Si tratta, in altre parole, di un malato, per il quale Ginsborg propone la cura della democrazia partecipativa economica, citando l’esempio dei soviet ma sostituendo il soggetto portatore delle speranze di rinnovamento: non più evidentemente la classe operaia ma «la popolazione urbana istruita del Nord del mondo», solo provvisoriamente (anche se alquanto volontariamente) «assoggettata al capitalismo consumista e all’arricchimento personale». Evidentemente non tutti i modi di partecipare alla vita sociale risultano, in questa prospettiva, «civici» allo stesso modo: non lo sono i rapporti di vicinato, una partecipazione che «non equivale al vero impegno civico», non l’appartenenza alle associazioni di categoria, inficiate da evidenti interessi particolaristici, non i legami comunitari e l’affiliazione a movimenti di rivendicazione locale a base identitaria, sospetti di razzismo e xenofobia, e non (si suppone) quel vasto mondo, alquanto elitario, di club e associazioni di ex allievi, sorta di compagnonnage delle professioni liberali così diffuso in quella cultura anglosassone che affida al college una parte importante della formazione dei giovani. Ma soprattutto sembra esservi in questa concezione del civismo uno spazio limitato per la partecipazione basata su schemi ideologici o ideologico-religiosi: dovendosi in questo caso prendere in considerazione non solo i dimostranti di Teheran e di Bangkok e i partecipanti all’universo del volontariato ma evidentemente anche i membri dei movimenti del risveglio religioso cristiano, i fanatici antisionisti, gli iscritti a partiti che propugnano l’ineguaglianza sociale o l’esaltazione di figure di leader telegenici dal senso civico alquanto incerto. E dire che nella raccolta di saggi contenuti in “Famiglie del Novecento” vi erano esempi molto diversi, in grado di allargare la visione a famiglie cattoliche familiste ma disobbedienti ai precetti dell’enciclica “Humanae Vitae” del 1968 o a famiglie comuniste fortemente coese (entro quelle reti di vicinato e di comunità intessute di tradizione politica costitutive delle cosiddette Regioni rosse) ma al contempo devote al partito, controfigura e promessa dello stato socialista che verrà, e in un modo così assoluto da fare esclamare a Marina Sereni: «Il Partito si è fuso per me con la mia vita privata così strettamente e completamente da darmi sempre la certezza di essere una particella di quella immensa forza che porta il mondo in avanti». Solo una visione fortemente limitata della società civile permette di opporla specularmente al familismo, un’attitudine di cui non viene spiegato sulla base di quali parametri possa essere indagata. Gli studi condotti in questo senso dai sociologi mediante interviste qualitative volte a comprendere cosa la gente pensi della propria famiglia e della società che la circonda offrono migliori spunti di riflessione. Loredana Sciolla, ad esempio, ha argomentato con forza che, scomponendo il concetto di cultura civica nelle sue componenti diverse (valoriale, fiduciaria, identitaria) la supposta antitesi tra familismo (l’atteggiamento di chi ha fiducia esclusivamente nella famiglia) e civismo risulta falsa, che gli italiani non mostrano un abnorme attaccamento alla famiglia ma simile o anche inferiore a quello di popoli di radicata cultura civica, che le regioni meridionali sono meno familiste della media nazionale e più inclini ad avere fiducia nelle istituzioni. Sicché non resta che concludere con Giulio Bollati che «ogni discorso sull’indole, la natura, il carattere di un popolo appare come un’equivoca combinazione di conoscenza e di prescrizione, di scienza e di comando. Quello che un popolo è (o si crede che sia) non si distingue se non per gradi di dosaggio da ciò che si vuole debba essere».
Il paese degli egoisti con il record di donatori d'organi. Chiaromonte, sui monti lucani, fu descritto dal sociologo Banfield come culla dell'anti solidarietà. Ma è una bufala, scrive Nino Materi, Lunedì 23/01/2017, su "Il Giornale". A Chiaromonte, 1.933 abitanti in provincia di Potenza, due avventori del bar-ristorante-affittacamere La porta del Pollino discutono. E nell'aria echeggiano frasi un po' surreali, del tipo: «Amorali noi? Amorale sarà lui. Certo lui non era un donatore di organi come noi». Ma chi è il deprecato «lui»? Si tratta del professor Edward C. Banfield (Bloomfield, 1916 - Vermont, 1999) politologo e sociologo statunitense, autore del saggio The moral basis of a backward society del 1958 (tradotto per Il Mulino come Basi morali di una società arretrata), in cui introdusse la nozione di «familismo amorale», attribuendone l'«infamia» proprio al modo di «relazionarsi tipico dei chiaromontesi».
«A Banfield, se fosse ancora vivo, dovremmo far leggere la ricerca della nostra amica» riprende la coppia del bar. L'«amica» in questione è la giovane sociologa Antonietta Di Lorenzo, autrice dello studio «Arcipelago donazioni», in cui si dimostra come Chiaromonte sia «la capitale italiana delle donazioni di organi», con una percentuale doppia rispetto alla media nazionale. E così i chiaromontesi si interrogano su un quesito che li assilla non poco: «Ma noi siamo il paese amorale descritto da Banfield o il paese virtuoso descritto dalla Di Lorenzo?». Disonore o onore di Chiaromonte dipendono da questi due «opposti estremismi». «Avere una reputazione in bilico tra bene e male è la nostra condanna - ci racconta Vito Telesca, emigrato al nord ma con Chiaromonte nel cuore -. Quando ero studente lessi il saggio di Banfield ne soffrii tantissimo. Questa ricerca è una rivincita». Ma in cosa consiste tecnicamente il «familismo amorale»? Nel «massimizzare solo i vantaggi della propria famiglia ristretta, e pensare che tutti gli altri si comportino alla stessa maniera». Tradotto: farsi gli affari propri senza uscire dall'area ristretta del proprio clan. Ma probabilmente Banfield non aveva mai letto l'aforisma di Leo Longanesi che nel '45 scrisse: «La bandiera nazionale italiana dovrebbe recare una grande scritta: tengo famiglia». E di aforismi è pratico anche Angelomauro Calza, animatore del sito giornalistico-satirico TiGiuro cui la «maldicenza» di Banfield su Chiaromonte non va proprio giù: «La società italiana (e non solo quella italiana) è intrisa di nepotismo e raccomandazioni. Il mondo della politica è lo specchio di una parentopoli nazionale che abiura la meritocrazia premiando invece i furbetti dell'opportunismo. E Banfield che fa? Fa affondare le radici di questo diffuso malcostume solo nel terreno di Chiaromonte?». Allora Banfield si è inventato tutto? «Io penso - ci spiega Calza, figlio del poeta Carlo Calza - che Banfield abbia ipotizzato a tavolino la sua teoria, individuando in Chiaromonte il posto giusto per ambientarla. Magari anche raccogliendo suggerimenti che giovavano a opportunità di politiche internazionali degli Usa in quel periodo, Banfield mise piede su terra di Chiaromonte, per dimostrare, non per studiare e poi elaborare, come da decenni si millanta». Una difesa d'ufficio che però trova concreti riscontri di una ricerca della sociologa potentina, Antonietta Di Lorenzo. Mi sono concentrata sulla donazione degli organi a livello sia europeo che nazionale - spiega Di Lorenzo -. Poi, restringendo il mio campo d'azione, sono andata a cercarmi i dati riguardanti la Basilicata: l'elemento clamoroso che ho riscontrato è stato il dato registrato a Chiaromonte, che ha fatto registrare il più alto numero di donazioni per milioni di persone». Una prova di grande altruismo e solidarietà, con tanti saluti per il Banfield-pensiero. Ma da cosa nasce la «conversione» virtuosa? A venirci in soccorso è l'archivio storico del Comune di Chiaromonte dove si conserva memoria di una tragedia emblematica: nel 1995 Rosella Popia, una ragazza di Valsinni (paese limitrofo a Chiaromonte) morì a seguito di un incidente stradale e i suoi genitori decisero di donare gli organi. Una scelta che provocò un effetto-domino che venne ribattezzato «fenomeno Rosella»: a Chiaromonte, dove la madre di Rosella era ostetrica, la popolazione iniziò a sottoscrivere disponibilità alle donazioni. Un trend di generosità che da allora non si è mai fermato. Il tutto mentre a Valsinni si registrava, sempre grazie al «fenomeno Rosella», un altro piccolo record positivo: la fondazione della prima sede Aido (Associazione italiana donatori di organi) della Basilicata. La tesi di Banfield è quindi completamente da smontare? «Probabilmente sì - sostiene Di Lorenzo -. Nel '50 uscivamo da due guerre mondiali, è normale che si cercasse di racimolare quel che era possibile in primis per se stessi e per i propri cari». Peccato che Banfield parlasse essenzialmente di «profondi atteggiamenti e convinzioni interiori» che di materiale avevano ben poco. Ma ormai sono in molti i sociologi moderni che ritengono quella di Banfield una teoria superata. Tra loro spicca, ad esempio, Alessio Colombis: «Parlare ancora oggi del familismo amorale, senza prenderne le distanze, significa continuare a diffondere un grave pregiudizio nei confronti della popolazione chiaromontese e lucana in genere, che, rispetto alle altre del Mezzogiorno, era - ed ancora oggi in gran parte rimane - non solo priva di criminalità organizzata ma anche più genuina e più vicina allo spirito comunitario». Ma c'è anche chi vede nel familismo qualcosa non di non necessariamente amorale, anzi il suo opposto. Come Isaia Sales che scrive: «Collocare nella propria scala di affetti e di interessi i familiari prima degli estranei non è una cosa moralmente sanzionabile, né tanto meno chi lo fa è (agli occhi della pubblica opinione, ndr) necessariamente un pessimo cittadino. I Bush padre e figli sono stati presidenti degli Stati Uniti, la famiglia Kennedy è stata una specie di dinastia politica, Clinton e la moglie hanno occupato per anni la scena politica americana, in Italia gli Agnelli hanno trasmesso il potere sulla Fiat da quattro generazioni». Conclude sarcastico Angelomauro Calza, autore tra l'altro di un pamphlet su Giovanni Passannate, l'anarchico lucano autore nel 1878 di un attentato fallito alla vita del re Umberto I: «Perfino il nostro ex premier Renzi non è stato eletto dal popolo sovrano, ma cooptato nelle stanze del potere». Quando si dice il «cooptismo amorale».
La cooptazione è nella Costituzione, scrive il 2 ottobre 2012 "Wittgenstein.it". Alessandra Moretti – portavoce della campagna Bersani per le primarie e vicesindaco di Vicenza – ha saggiamente smontato un luogo comune e motivo di indignazione a comando: quello che vede il male dei mali nella “cooptazione” in quanto tale, a prescindere dai suoi criteri. Ne avevo scritto così in Un grande paese. Negli anni passati in Italia si è molto criticata la cooptazione. Abbiamo chiamato così il sistema per cui qualcuno accede a posti di più o meno grande responsabilità o rispettabilità, in quanto scelto da qualcun altro che abbia il potere di promuoverlo. E pensando che questo generico procedimento fosse responsabile di ogni mancato apprezzamento del merito, abbiamo stabilito che il problema fosse la cooptazione. Abbiamo associato un significato fortemente negativo a una parola che si riferisce genericamente alla scelta di qualcuno, senza farci domande sui criteri effettivi di quella scelta. Ogni promozione è diventata cooptazione, ogni cooptazione scandalo. Abbiamo convenuto che la radice da estirpare fosse la cooptazione, senza riflettere sul fatto che sistemi di cooptazione rendono efficaci istituzioni, comunità e aziende da sempre, e che persino la Costituzione prevede la cooptazione rispetto a diversi poteri dello Stato: indicando che si diventi ministri, o assessori, per cooptazione. Abbiamo discusso di: cooptazione. Abbiamo discusso di una parola. E tutto quel che abbiamo concluso è: la-cooptazione-è-sbagliata. E oggi Moretti condivide, con ragioni personali ma ben fondate. Meritocrazia e cooptazione (o nomina) non sono concetti necessariamente in conflitto tra loro. All’interno di un’organizzazione, sia economica che sociale, alcuni incarichi sono assegnati per via elettiva altri per via concorsuale e altri ancora tramite nomina o cooptazione. I meriti, le qualità, le doti per cui viene nominato un dirigente sono sempre oggettivi? Si può parlare di meritocrazia? Credo che buon capo, come un buon dirigente si possano valutare anche sulla base della qualità dei collaboratori di cui scelgono di avvalersi, ma rimane pur sempre un metodo discrezionale. Anche il nostro attuale Premier ed i Ministri della nostra Repubblica sono dei cooptati.
Se la classe dirigente rappresenta solo se stessa e i suoi amici, scrive Daniele Marini su “L’Inkiesta” il 29 Maggio 2012. L’Italia soffre di un sistema di rappresentanza a circuito chiuso. Che si genera e alimenta tutta al suo interno. L’attenzione dei media e dell’opinione pubblica è focalizzata sul ceto politico, sulla casta. Giustamente. Sono quelli che portano la responsabilità maggiore delle scelte che ricadono su cittadini, famiglie e imprese. Ma se i politici sono lo specchio del Paese, allora dobbiamo porci qualche interrogativo in più. A maggior ragione dopo giorni di discussione sugli esiti delle recenti amministrative, sulla (presunta) antipolitica di una parte consistente della popolazione, sul fenomeno del Movimento 5 stelle. In questo senso, bene ha fatto Luca Ricolfi sulle colonne de La Stampa (27.5.2012) a sollevare il tema spinoso della classe dirigente. Che non è soltanto quella politica, appunto. Ma quella che alberga nei mondi associativi e della rappresentanza organizzata, nelle organizzazioni sindacali così come nelle banche, nelle sue fondazioni e negli enti intermedi. Con diverse gradazioni, i leader dei partiti politici, soprattutto di quelli personali e carismatici (come la Lega, Forza Italia prima e il PdL poi. Ma anche il centrosinistra non ne è esente), hanno realizzato un meccanismo di selezione della classe dirigente dove il criterio della fedeltà e dell’adesione ha fatto aggio su quello del merito, della professionalità e della critica. In una sorta di “familismo amorale”, rafforzato da un “con me o contro di me”, si è inverata una selezione per esclusione progressiva. Dove le voci critiche e riflessive sono diventate, poco alla volta, eretici da marginalizzare. Il problema è che un meccanismo analogo ha intessuto anche gli altri ambiti dei mondi della rappresentanza. Inverando – per riformulare la locuzione di Ricolfi – un meccanismo di “cooptazione a ripetere”. Senza voler fare tutto di un’erba un fascio, tuttavia è sufficiente, per esempio, fare un’esplorazione all’interno delle organizzazioni sindacali, dove i gruppi dirigenti cambiano sì, ma spostandosi da una categoria all’altra, limitando al massimo così l’ingresso di nuove forze. Oppure nell’ambito delle associazioni imprenditoriali. In questo caso, i ruoli di vertice hanno meccanismi di rinnovo più celeri (fatto salvo che negli anni recenti non sono pochi i casi in cui modifiche statutarie tendono a prolungare la durata degli incarichi), ma poi si assiste alla chiamata a incarichi di rappresentanza nei mondi collaterali, come quello bancario o assicurativo. Da qui, a loro volta, risulta facile cooptare all’interno di questi ambiti altre persone considerate vicine, che condividono i medesimi interessi e partecipano dei medesimi gruppi di potere. L’esito finale è lo sviluppo di un insieme di relazioni e regole vischioso che rende praticamente impossibile, se non in modo estremamente lento e complesso, un ricambio effettivo della classe dirigente. E rende questi gruppi dirigenti impermeabili alle sollecitazioni che vengono dall’esterno. Impermeabili perché la reciprocità delle loro relazioni le spinge ad auto-sostenersi e proteggersi. Tutto ciò spiega perché questi sistemi di rappresentanza sono incapaci: 1) di riformare le proprie organizzazioni; 2) di guardare al futuro e fare scelte strategiche, perché ripiegate sulla propria conservazione; 3) di percepire il distacco che si è generato nei confronti dei cittadini, degli aderenti, dei soci. È l’esito del meccanismo della “cooptazione a ripetere”. Un meccanismo che, a mio avviso, prende avvio negli anni ’70, quando i mondi dell’associazionismo e della rappresentanza non costituiscono più il canale privilegiato della formazione per l’approdo all’esperienza politica. Quando gli stessi partiti hanno via via smesso di formare nelle apposite scuole la loro classe dirigente. La “cooptazione a ripetere” si può rompe per un evento traumatico proveniente dall’esterno, com’è stato nel caso di Tangentopoli o, più di recente, com’è nel caso del PdL e della Lega. O perché emerge una leadership culturale in grado di esprimere e imporre una vision, nuovi valori dell’azione della rappresentanza. Una nuova leadership non può che venire dalle giovani generazioni. Finora, quelle che hanno tentano di approcciare questi percorsi più spesso hanno abbandonato sfiduciati e si sono dedicati ad altro. Esprimono il loro essere classe dirigente in altre forme: nell’imprenditoria, nella cooperazione, nell’associazionismo volontario. Una leadership per diventare tale necessita comunque di incubatori, di contenitori dove si realizzino percorsi di formazione e di educazione alla politica. Ciò non significa tornare alle forme del passato. Sarebbe impossibile. Ma offrire luoghi strutturati dove lo spazio della riflessione e dell’esercizio della critica sia la materia d’insegnamento quotidiana. Là dove ciò si realizza, i giovani non si sottraggono. La sfida della creazione di una classe dirigente del futuro si gioca nella sua formazione.
Merito e cooptazione, scrive Matteo su "tidiverticompany.com". Non mi piacciono le citazioni, sono un fare sfoggio della propria ignoranza, per dirla alla Nino Frassica. Però a volte capita che qualcuno, molto prima di noi, abbia espresso certi concetti meglio di tutti quelli che sono venuti dopo quindi ho bisogno di menzionare due aforismi. Uno é di la Rochefocauld che diceva che tutti sembriamo degni delle cariche che non ricopriamo. Il secondo appartiene al Saggio Confucio che raccomandava di non dolersi se non si vedono riconosciuti i propri meriti. La vera fonte di rammarico deve essere nel non saper riconoscere quelli altrui. Cito queste due massime per parlare riguardo la cooptazione che consiste nell’aggregare ad un organo collegiale candidati scelti da uno o piú membri del collegio stesso, in genere i più anziani o potenti. Questa maniera di fare é tipica delle corporazioni e delle associazioni di categoria. É molto diffusa anche nelle università, in politica e in tutti i centri da cui si sviluppa una qualsivoglia forma di potere. É una delle ragioni principali per cui si parla di casta riferendosi ad alcuni settori della società particolarmente chiusi, autoreferenziali che appaiono formati da persone occupate esclusivamente nel mantenere i privilegi acquisiti ( la casta dei notai, la casta della politica etc..). In maniera impropria si potrebbe utilizzare la parola “raccomandare” per descrivere alcune azioni insite nel termine cooptazione. Il più grosso dei danni compiuti da questa pratica non é quello di aver messo incapaci in posizioni di responsabilità, spesso ai più alti livelli decisionali. Non é neanche quello di aver, per proprietà transitiva, lasciato nel dimenticatoio gente di talento che per virtù varie avrebbe meritato soddisfazioni e compiti maggiori. Il danno consiste in due aspetti complementari: primo, l’aver fornito a un esercito di mediocri la giustificazione migliore ai propri insuccessi. Così, dopo anni di brutti voti perché” il professore non sa spiegare” o “perché al professore sto antipatico”, il mediocre potrà continuare a giustificarsi dicendo: “non mi assumono perché se non sei raccomandato non vai da nessuna parte”. Io chiamo questo ragionamento sindrome del tennista pensando a quei giocatori che se la prendono con la racchetta perché hanno sbagliato il passante. Il secondo aspetto é il senso di delegittimazione che circonda tutti quelli che sono riusciti a raggiungere una carica ambita da altri: sei diventata la conduttrice di un programma RAI? Tutti pensano che te la fai con il direttore di rete dimenticando le lunghe ore di lezioni di dizione, recitazione, sceneggiatura, danza canto che hai preso. Diventi assistente di un noto barone universitario? Questo perché qualcuno ti ha raccomandato e non perché il professore in te ha visto qualità superiori o una maggiore passione rispetto agli altri studenti. Fai strada in azienda? Sei uno yes man prono e sottomesso al capo. Fai carriera in politica? Sei un individuo squallido, pronto a ricattare, malversare, colluso, sceso chissà a quali inconfessabili compromessi. É ovvio che qualcuno che ha una opinione del genere dei suoi superiori non ci lavorerà che male, con crescente frustrazione e acredine di tutte le persone coinvolte.
Le raccomandazioni diventano così la scusa principale che molti mediocri utilizzano per consolarsi dei propri insuccessi e sentirsi migliori di quello che in realtà sono. Diffidate di chi fa della guerra contro il “familismo amorale”, il nepotismo, la cooptazione la propria principale ragione d’essere. La vera persona intelligente queste cose le mette in conto come parte delle difficoltà che si incontrano normalmente nell’ambito lavorativo. Magari cerca di utilizzarle a suo vantaggio. Sicuramente cerca di adattarsi e sviluppare meccanismi di compensazione che gli permettano di continuare a progettare, pensare. Vivere. Con questo non sto difendendo una prassi che ostacola pesantemente lo sviluppo del Paese e che crea migliaia di persone frustrate e insoddisfatte. Però, ho voluto portare all’attenzione un altro aspetto spesso trascurato: il giustificazionismo di molti che si sentono esclusi da vere e presunte spartizioni di incarichi.
IMPIEGO PUBBLICO: LA TRUFFA DEL DOPPIO LAVORO.
Professori e ricercatori universitari che accettano consulenze oppure ottengono incarichi in società private, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Alti funzionari di enti pubblici che svolgono attività in concorrenza o in conflitto con i compiti assegnati loro dallo Stato. Enti locali, Motorizzazione civile, Agenzia delle Entrate, Asl: sono migliaia i dipendenti con il «doppio lavoro». Dirigenti o semplici impiegati che, spesso in orario d’ufficio, sono altrove e percepiscono compensi «in nero». È uno dei capitoli del rapporto annuale della Guardia di Finanza sugli sprechi della «spesa pubblica» a destare maggior allarme. Perché si tratta di un fenomeno in crescita che drena le casse dell’Erario. Grave, come quello relativo al settore degli appalti che ha ormai raggiunto livelli da record: le gare «truccate» hanno causato nell’ultimo anno un danno economico di oltre un miliardo e 300mila euro.
«Baroni» e doppio lavoro. Sono decine i professori universitari già accusati di aver ottenuto incarichi in collegi sindacali e commissioni collaudi, ma anche consulenze per la realizzazione di progetti per aziende e addirittura docenze in strutture private. Una grave incompatibilità che - secondo le prime stime - ha provocato un danno di circa otto milioni di euro. Ma nuove indagini sono tuttora in corso su un fenomeno che ha dimensioni ben più ampie e non riguarda soltanto questo settore. Su 1.346 verifiche effettuate negli enti pubblici sono stati scoperti ben 1.704 impiegati con un secondo lavoro, nella maggior parte dei casi retribuito «in nero» e le sanzioni amministrative hanno superato i 21 milioni di euro. Nella lista c’è un dirigente tecnico di svariati Comuni che faceva l’ingegnere per alcune imprese edili percependo oltre 200mila euro, esattamente come un suo collega impiegato in una Regione che però di euro ne ha presi 600mila. E poi un funzionario della Motorizzazione che effettuava perizie per i privati e un dirigente dell’Agenzia delle Entrate che aveva aperto uno studio da commercialista assistendo clienti che spesso avevano bisogno proprio per le contestazione di evasione fiscale, infermieri delle Asl che in realtà lavoravano in cliniche private.
I «cartelli» di imprese. Grave è la situazione per quel che riguarda gli appalti pubblici. Aumentano i controlli e migliorano i risultati ottenuti con interventi di prevenzione, ma il livello di corruzione dei funzionari che gestiscono settori strategici per l’economia del Paese si mantiene su livelli altissimi. Quello dei lavori Pubblici è certamente uno dei settori di maggiore interesse per chi deve garantire la legalità visto che il volume d’affari stimato dall’Autorità di Vigilanza del 2012 è stato di circa 95 miliardi di euro, equivalente al 5,9 per cento del prodotto interno lordo. Ebbene, nell’ultimo anno sono stati arrestati o denunciati «657 soggetti responsabili di turbata libertà degli incanti e frode belle pubbliche forniture». Dato ancora più eclatante emerge dall’attività svolta dai finanzieri su delega della Corte dei Conti perché «i soggetti segnalati alla magistratura contabile sono 1.186 soggetti e i danni erariali connessi a procedure di appalto un miliardo e 300 milioni di euro». L’illecito più grave, secondo quanto emerge dalla relazione, riguarda la costituzione di «cartelli preventivi tra imprese» che riescono in questo modo a pilotare le gare, oltre naturalmente all’erogazione di mazzette a chi deve materialmente gestire le procedure di assegnazione. «Altre forme di illegalità - sottolineano gli analisti della Finanza - attengono alla materiale esecuzione dei contratti. In tale fase si annidano frodi nelle pubbliche forniture, inadempienze dannose per la regolare erogazione dei servizi pubblici, indebiti abbattimenti dei costi dell’opera tramite il ricorso al lavoro nero e ingiustificati rialzi dei valori delle commesse durante l’esecuzione, volti unicamente a drenare denaro pubblico in misura superiore a quella originariamente stabilita. Una realtà che si somma ai fenomeni di ingerenza della criminalità organizzata che sfociano in condotte violente o in comportamenti più subdoli di condizionamento dei mercati, con il riciclaggio e il reimpiego di cospicue masse di denaro provento di reato». Da nord a sud, le modalità per truccare le gare mostrano spesso grande creatività. A Brindisi gli investigatori della Finanza hanno scoperto un’organizzazione formata da imprenditori e funzionari di una Asl che si spartivano i lavori riuscendo a eliminare la concorrenza. «Il meccanismo - è specificato nel dossier - consisteva nell’apertura fraudolenta e successiva chiusura delle buste contenenti le offerte economiche delle ditte, da parte dei componenti delle commissioni di seggio, tutte presiedute dal medesimo dirigente dell’Ufficio Tecnico, prima della procedura finale e nella comunicazione alla ditta “amica” delle informazioni acquisite per consentirle di formulare l’offerta più idonea». Molto più sofisticato il sistema utilizzato a Monza dai titolari di alcune imprese che sono riusciti a ottenere commesse per 260 milioni di euro: la mazzetta veniva pagata «ai funzionari incaricati di redigere i capitolati di appalto dei vari bandi». I requisiti inseriti erano talmente stringenti da far risultare vincitrice sempre la stessa impresa. Un meccanismo simile a quello utilizzato a Milano da un ex dirigente del Comune che ha «venduto» a un imprenditore disposto a versare tangenti quattro appalti relativi ai servizi per la gestione delle «Case vacanza extraurbane», strutture che generalmente vengono utilizzate per l’accoglienza dei bambini durante il periodo estivo. In questi casi di cattiva gestione dei fondi pubblici rientrano certamente le frodi su risorse nazionali e all’Unione europea, che possono causare gravi danni all’Italia soprattutto per quanto riguarda l’immagine internazionale. Perché anche nel 2013 si conferma altissima l’entità dei finanziamenti ottenuti per realizzare progetti in realtà inesistenti o comunque dal valore molto inferiore rispetto a quello dichiarato. Il bilancio finale parla di «indebite percezioni o richieste di fondi pubblici destinate al sostegno delle imprese pari a un miliardo e 400 milioni di euro». Di questi, quasi un terzo provengono dall’Ue. «L’attività ispettiva della Guardia di Finanza - è scritto nella relazione annuale - ha consentito di individuare oltre 433 milioni di euro di provvidenze comunitarie indebitamente percepite o richieste riferibili a due settori di contribuzione: le Politiche agricole e i Fondi strutturali, nonché di segnalare all’autorità giudiziaria 793 soggetti per il reato di truffa aggravata ai danni dello Stato».
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!
PARLIAMO DI POVERI. COSA E' LA POVERTA'.
La povertà è fame: sei impossibilitato a sfamare te e la tua famiglia.
La povertà è solitudine: non puoi avere una famiglia.
La povertà è emarginazione: non puoi avere amici.
La povertà è sporcizia: sei impossibilitato a lavarti e ad adottare le più elementari forme di igiene.
La povertà è vivere senza un tetto o in abitazioni insalubri.
La povertà è vivere con vestiti logori e sporchi.
La povertà è malattia: sei impossibilitato a curare te e la tua famiglia.
La povertà è ignoranza: non puoi far studiare te e i tuoi figli per migliorare il futuro.
La povertà è sopraffazione: non puoi difenderti da accuse penali infamanti.
La povertà è staticità: non puoi viaggiare per fuggire.
La povertà è non avere potere e non essere rappresentati adeguatamente.
La povertà è mancanza di libertà e di dignità.
La povertà è silenzio: nessuno ti scolta, anche se hai tanto da insegnare.
La povertà assume volti diversi, volti che cambiano nei luoghi e nel tempo, ed è stata descritta in molti modi.
La povertà è una situazione da cui la gente vuole evadere con qualsiasi mezzo e compromesso.
La povertà è essere indifeso, quindi vittima di sopraffazione ed ingiustizie altrui.
Per capire come si può ridurre la povertà, per capire ciò che contribuisce o meno ad alleviarla e per capire come cambia nel tempo, bisogna vivere la povertà. Dato che la povertà ha tante dimensioni, deve essere osservata mediante una serie di indicatori; indicatori dei livelli di reddito e di consumo, indicatori sociali ed anche indicatori della vulnerabilità e del livello di accesso alla società e alla vita politica. Una forte incidenza della povertà si associa al basso titolo di studio o al basso profilo professionale e, come è naturale, anche, per i casi di disoccupazione.
La disoccupazione è la condizione di mancanza di un lavoro per una persona in età da lavoro (da 15 a 74 anni) che lo cerchi attivamente, sia perché ha perso il lavoro che svolgeva (disoccupato in senso stretto), sia perché è in cerca della prima occupazione (inoccupato).
Molti provvedimenti di politica economica sono finalizzati a far diminuire il tasso naturale di disoccupazione: gli uffici di collocamento, politiche pubbliche di riqualificazione professionale.
In caso di cessazione del rapporto di lavoro per scadenza del termine, per licenziamento e per alcuni casi di dimissioni, al lavoratore spetta un sostegno economico: l'indennità di disoccupazione ordinaria. Al disoccupato viene corrisposta l’indennità per un periodo di 8 mesi che diventano 12 per i lavoratori che hanno superato i 50 anni. Ai lavoratori che sono stati sospesi, spetta invece il contributo per un massimo di 65 giorni. L’indennità è pari al 40% della retribuzione media percepita nei 3 mesi precedenti l'inizio della disoccupazione.
La Cassa integrazione guadagni (CIG) è un istituto previsto dalla legge, consistente in una prestazione economica (erogata dall’Inps) in favore dei lavoratori sospesi dall'obbligo di eseguire la prestazione lavorativa o che lavorano a orario ridotto.
L'art. 1 della legge 20 maggio 1975, n. 164, aggiorna i presupposti applicativi della CIG alla precaria situazione socio-economica degli anni 70, prevedendo interventi di integrazione salariale in favore degli operai dipendenti da imprese industriali che siano sospesi dal lavoro o effettuino prestazioni di lavoro a orario ridotto, e precisamente:
integrazione salariale ordinaria per contrazione o sospensione dell'attività produttiva; per situazioni aziendali dovute ad eventi transitori e non imputabili all'imprenditore o agli operai; ovvero determinate da situazioni temporanee di mercato. Durata tre mesi prorogabili trimestralmente. Il trattamento a carico dell'INPS, è corrisposto nella misura dell'80% della retribuzione globale di fatto, entro i limiti di un massimale.
integrazione salariale straordinaria per crisi economiche settoriali o locali; per ristrutturazioni, riorganizzazioni o conversioni aziendali. Possono avere accesso alla CIG straordinaria soltanto le imprese che abbiano occupato più di 15 lavoratori nel semestre precedente la richiesta.
COME SI VEDE, GLI INOCCUPATI NON HANNO ASSOLUTAMENTE ALCUNA TUTELA, MENTRE I DISOCCUPATI O I SOSPESI HANNO TUTELE RIDOTTE E TEMPORALI.
In questo stato di cose si è disposti a tutto per superare le difficoltà.
Non ci si deve stupire se, in situazioni disperate permanenti, sia usuale la prostituzione morale (a volte fisica) e l’assoggettamento e la prostrazione schiavizzante nei confronti dei centri di potere, che riconoscono discrezionalmente i diritti solo per alcuni, come se elargissero favori.
Secondo l’ISTAT il 5% delle famiglie italiane, non ha soldi per cibo. Per l’Istituto di statistica peggiorano le condizioni di reddito e di vita degli italiani: il 15,4% delle famiglie ha dichiarato di arrivare con molta difficoltà a fine mese e il 32,9% di non essere in grado di far fronte a una spesa imprevista di 700 euro. Il 5,3% delle famiglie ha avuto momenti di insufficienti risorse per l'acquisto di cibo, l'11,1% per le spese mediche e il 16,9% per l'acquisto di abiti necessari. Non solo, ben il 50% delle famiglie del Belpaese vive con meno di 2mila euro al mese.
Tutti gli indicatori rilevati dall'istituto di statistica, nell'indagine annuale su un campione di ventottomila famiglie, mostrano un peggioramento delle condizioni di vita delle famiglie. Già prima, quindi, della crisi economica, per gli esperti dell'Istituto di statistica, le famiglie hanno iniziato a vivere una ''fase particolarmente critica''. Condizioni di difficoltà che riguardano in particolare i nuclei familiari con tre o più figli, gli anziani soli soprattutto se donne, e le famiglie mono-genitore in particolare per le donne sole divorziate o vedove. Il 32,9% delle famiglie ha dichiarato di non essere in grado di far fronte ad una spesa imprevista di 700 euro. Sale al 10,7% la quota di famiglie che ha avuto difficoltà nel riscaldare adeguatamente la propria abitazione.
L'Istat giudica ''non trascurabili'' le percentuali di famiglie che hanno registrato difficoltà relative a beni di prima necessità: oltre al dato sugli alimentari, è salito all'11,1% la quota di famiglie che ha avuto momenti con insufficienti risorse per le spese mediche, mentre sale al 16,9% il numero di famiglie che ha avuto difficoltà per l'acquisto di abiti necessari.
Al sud e nelle isole l'Istat registra ''segnali di disagio particolarmente marcati rispetto al resto del paese'', con il 22% delle famiglie che ''arriva con grande difficoltà alla fine del mese'' ed il 46,4% che ''dichiara di non poter far fronte ad una spesa imprevista di 700 euro''.
I disagi maggiori in Sicilia, Campania, Calabria e Puglia. Al Nord la regione fanalino di coda è il Piemonte mentre al centro è il Lazio.
PARLIAMO DELLO SFRUTTAMENTO MAFIOSO E LEGALIZZATO.
Gli schiavi sono tra noi, l’inchiesta di Marco Ratti su “L’Espresso”. In Italia nell'ultimo anno sono arrivate decine di migliaia di vittime del traffico di esseri umani. Che nel nostro Paese fattura tre miliardi di euro l'anno. E costringe a prostituirsi o a farsi sfruttare sul lavoro anche moltissimi bambini. Che poi a volte spariscono nel nulla. Una realtà agghiacciante, di cui però si sa ancora pochissimo. Uomini, donne e bambini sono solo dollari che camminano per i trafficanti di esseri umani. Basta organizzarsi bene e il gioco è fatto. Lavorando d'astuzia si può ridurre in schiavitù chiunque abbia bisogno d'aiuto. O, almeno, lo si può spremere fino all'ultimo centesimo. Di storie così ce ne sono a bizzeffe: vengono da tutto il mondo e arrivano anche in Italia. C'è Goodluck, ad esempio, 23 anni, che è scappato dal Ghana dopo avere visto genitori e quattro fratelli ammazzati a fucilate per una faida familiare. Ha attraversato il deserto, consegnando tutti i risparmi ad autisti e poliziotti incontrati di frontiera in frontiera, fino a raggiungere la Libia. Lì ha trovato un lavoro, ma la guerra lo ha costretto presto a infilarsi in un barcone strapieno di migranti diretto a Lampedusa. E a dare all'aguzzino tutti i soldi guadagnati. Maria, romena di appena 16 anni che studiava in un liceo linguistico di Bucarest, invece, è stata abbindolata dal vicino di casa. «Vieni con me in Italia», le aveva detto, «ho un posto da interprete che fa al caso tuo: entro qualche anno avrai abbastanza soldi da non doverti più preoccupare di nulla». Poi Maria è stata venduta all'asta in un albergo di Tirana e oggi si prostituisce a Roma e Milano. Goodluck e Maria hanno qualcosa in comune: tutti e due sono rimasti impigliati nella rete dei trafficanti di esseri umani. Una miriade di gruppi specializzati in grado di trasformare una persona in difficoltà in carne da macello. In qualunque parte del mondo si trovi. Secondo l'Organizzazione internazionale del lavoro, si contano ogni anno 2,7 milioni di vittime di tratta. Un traffico tra i più redditizi, secondo solo a quello delle armi e della droga. Il fatturato annuo di questa organizzazione criminale, infatti, è stimato in 32 miliardi di dollari (dati Terre des Hommes-Ecpat 2010). Il traffico degli esseri umani viene raggruppato di solito in due macro-categorie. Da una parte c'è lo "smuggling of migrants", o traffico di migranti. «Si tratta di un'attività criminale che consiste nel trasportare e introdurre illegalmente persone in un Paese straniero facendosi pagare per il servizio», spiega Andrea Di Nicola, professore aggregato di Criminologia della facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Trento e autore del capitolo su devianza e criminalità degli stranieri dell'ultimo rapporto Ismu sulle migrazioni in Italia. Lo smuggling non prevede l'abuso dei migranti una volta a destinazione. Quando esiste uno sfruttamento anche nel Paese d'arrivo, sia esso sessuale o lavorativo, invece, si parla di "trafficking in persons", o tratta di persone a scopo di sfruttamento. Secondo una stima fatta in esclusiva per 'l'Espresso' dal professore di Trento insieme ad Andrea Cauduro, assegnista di ricerca del dipartimento di Scienze giuridiche dello stesso ateneo, questo mercato vale in tutto fino a 3,2 miliardi di euro l'anno nel nostro Paese (dato 2011). Per arrivare a questa cifra gli studiosi hanno considerato tariffario e numero di vittime. Con gli smugglers mediterranei, scrivono Di Nicola e Cauduro, «si pagano 7-10 mila euro per arrivare in Italia dall'Africa subsahariana, contro 1-2 mila per il solo passaggio tra Tunisia o Egitto o Libia e Italia». E il migrante deve consegnare altri quattrini ai trafficanti che incontra nel percorso. Si è ipotizzato dunque un costo medio di 4-8 mila euro a persona. Quanto al numero di immigrati entrati nel nostro Paese con queste organizzazioni, sia via mare sia via terra, i ricercatori hanno stimato quasi 180 mila persone nel 2011. A conti fatti, dunque, il fatturato del traffico di migranti in Italia vale tra i 711,5 e 1.423 milioni di euro. Il trafficking è ancora più redditizio. La stima delle persone intrappolate in questa rete nell'ultimo anno è tra gli otto e i 16 mila, di cui circa il 70 per cento sfruttate per fini sessuali e il 30 per cento in attività lavorative. Considerando che in media la prostituzione rende 500 euro al giorno, mentre il lavoro nero 100 euro, il fatturato annuo va da 912 a 1.824 milioni di euro. Sommando smuggling e trafficking, e limitando l'analisi a chi è entrato in Italia l'anno scorso, si arriva dunque a un fatturato compreso tra 1,6 a 3,2 miliardi di euro. Una montagna di soldi che viene fatta sparire con meccanismi rodati nel tempo da una miriade di associazioni capaci di spostare e sfruttare gli indifesi in ogni parte del Pianeta. Dietro a tutti questi numeri ci stanno volti e storie di chi è caduto in trappola per i motivi più svariati. «Nello sfruttamento lavorativo ci sono in particolare giovani uomini dai 20 ai 40 anni, celibi e coniugati ma comunque senza famiglia al seguito», scrive Mirta Da Pra Pocchiesa in 'Un metodo in continuo divenire' (Gruppo Abele, 2011). In generale, si tratta di persone con scolarità medio-alta arrivate da diverse nazioni e distribuite in Italia in base all'occupazione. «I rumeni sono presenti più al Nord, impiegati nell'edilizia, e al Centro, nel lavoro domestico; i cinesi sono impiegati in laboratori artigianali, soprattutto al Centro, mentre al Sud sono presenti gli indiani e i pakistani, occupati nella pastorizia e nella ristorazione», puntualizza Da Pra Pocchiesa. In generale, i Paesi di provenienza più rappresentati sono: Romania, Moldavia, Ucraina, Bulgaria, Polonia, Russia, Marocco, Tunisia, Egitto, Ghana, Brasile, Perù, Ecuador, India, Pakistan, Cina. Chi entra in Italia attraverso le organizzazioni criminali si porta sulle spalle un debito che va dai 2 ai 13 mila euro. E il caporale, che fa da intermediario tra lavoratore e azienda (leggi l'approfondimento de 'l'Espresso'), «trattiene per sé dal 50 al 60 per cento del compenso giornaliero del lavoratore», dice la responsabile del progetto Prostituzione e tratta delle persone del Gruppo Abele. Le condizioni di vita, inoltre, possono essere peggiori persino di quelle dei Paesi d'origine. Come testimonia Jacopo Storni nel suo 'Sparategli!' (Editori Internazionali Riuniti, 2011), dove racconta anche l'incontro con alcuni raccoglitori di pomodori di Borgo Rignano (Foggia): «Nel ghetto non ci sono servizi igienici. Tutto avviene all'aria aperta, tra l'erba bruciata e la terra polverosa. Gli uomini diventano bestie». Insomma, nonostante il viaggio e i soldi pagati alle organizzazioni - confessa un migrante a Storni - «senza un lavoro qui è peggio che vivere in Africa». Oltre ad avere messo le mani sullo sfruttamento dei lavoratori migranti, queste multinazionali del crimine si sono accaparrate gran parte del mercato della prostituzione. Secondo il recente rapporto della fondazione Scelles, nel mondo si prostituiscono 40-42 milioni di persone, di cui tre quarti di età compresa tra i 13 e i 25 anni. E nella sola Europa occidentale la cifra è di 1-2 milioni di persone coinvolte, di cui nove su dieci alle dipendenze di un protettore. Nel nostro Paese si prostituiscono donne, uomini, minori di 60 diverse nazionalità e le italiane rappresentano circa il 10 per cento del totale. Un esercito di 19-70 mila vittime, a seconda della fonte (vedi anche l'inchiesta 'La fabbrica della lucciole'). E nell'80 per cento dei casi si tratta di migranti legati a qualche forma di tratta o sfruttamento. A proporsi ai clienti sulle strade italiane sono soprattutto nigeriane e donne dell'Est Europa, mentre al chiuso sono più numerose rumene, cinesi, sudamericane, marocchine e italiane. La prostituzione "indoor" rappresenta dal 30 al 70 per cento del totale e si consuma in saune, sale massaggio, discoteche, sale bingo e pub, che attrezzano sale riservate. Di solito le vittime vengono abbindolate da conoscenti nei Paesi d'origine. Oppure possono essere avvicinate da organizzazioni mascherate da agenzie di lavoro. In ogni caso, «il vero legame che lega la persona ai suoi sfruttatori è il debito molto alto che le donne contraggono quando decidono di partire (per una giovane nigeriana può arrivare fino a 50-70 mila euro) e che dovranno restituire pena la rivalsa sui parenti nel Paese di origine», scrive Da Pra Pocchiesa in Prostituzione, un mondo che attraversa il mondo (Cittadella Editrice, 2011). Per assicurarsi che il debito sarà saldato, i trafficanti fanno leva su tutto ciò che possono. E così le sudamericane e alcune rumene devono mettere un'ipoteca sulla casa, mentre le cinesi fanno garantire i genitori. Altre, soprattutto le nigeriane, sono sottoposte a riti vudù, capaci di creare «la convinzione che, se non manterranno le promesse fatte accadrà qualcosa di grave ai loro cari rimasti in patria o anche a loro stesse». In cambio dei soldi, l'organizzazione criminale offre una sorta di "pacchetto all inclusive". Questo, spiega Da Pra Pocchiesa, prevede «il viaggio con un trasporto aereo oppure misto con pullman, traghetto, treno e tanti spostamenti a piedi, con accompagnatori che hanno il compito di far superare i posti di frontiera; l'ospitalità nei posti-tappa e i documenti ottenuti quasi sempre corrompendo funzionari di ambasciate e forze di polizia. All'arrivo, un posto dove andare, un telefono cellulare in dotazione, qualche vestito per "lavorare" e l'indirizzo di un avvocato». In realtà, chi arriva dall'Africa spesso è costretto a percorrere molti chilometri nel deserto e a subire violenze di ogni tipo. E non è raro che queste donne finiscano per attraversare il mare su pericolosi gommoni. Le ragazze dell'Est, invece, sono vendute più e più volte durante il tragitto. «E l'ultima transazione avviene di solito in cantine di alberghi di Tirana o Valona, in Albania, dove si svolge una vera e propria tratta delle bianche, con le donne che vengono fatte sfilare per essere scelte e smistate verso luoghi sicuri e redditizi», spiega Da Pra Pocchiesa. Una volta portate le vittime a destinazione, ai trafficanti interessa solo che siano il più "produttive" possibile, che obbediscano, che non creino problemi. Per ottenere questi risultati, innanzi tutto, vengono sequestrati i documenti. «L'obiettivo dell'organizzazione è far sì che non si fidino di nessuno e che pensino di essere in una situazione di illegalità insanabile», chiarisce la ricercatrice. Anche se i trafficanti sono meno efferati di un tempo, perché vogliono che le donne continuino a ubbidire, sono previste ancora dure punizioni. Chi non lavora, chi non consegna i soldi o, peggio, chi cerca di fuggire, deve affrontare botte, cinghiate, immersioni in acqua gelida. Oltre alle frequenti minacce di ritorsioni sulla famiglia d'origine. Chi si prostituisce in strada deve pagare anche il posto in cui stare. «Un pezzo di marciapiede, chiamato in gergo "joint", può costare alla donna fino a 500 euro al mese», dice Da Pra Pocchiesa. E «alcune vengono guardate a vista e sono impaurite al punto tale che sul posto di lavoro non parlano con nessuno, se non con i clienti, e quando tornano a casa non possono più uscire», mentre altre «hanno più libertà di movimento e si sentono quasi indipendenti perché in cambio di una percentuale più alta di guadagno l'organizzazione riesce a tenerle legate a sé senza temere denunce». Un capitolo a parte riguarda i minori. Un bambino può essere usato per spacciare, per chiedere la carità o per soddisfare le perversioni di qualche ricco cliente. E accade persino che questi ragazzini, una volta arrivati in Italia, spariscano nel nulla nel giro di pochi giorni. Insomma, «sembra consolidarsi lo sfruttamento dei minori a scopo sessuale, ma anche di accattonaggio, in attività illegali o nel lavoro», come si legge nel dossier di Save the Children I piccoli schiavi invisibili. Secondo le Nazioni Unite, i minori vittime di tratta interna e internazionale nel mondo sono 1,2 milioni. E in Italia quelli sfruttati sessualmente sono 1.600-2.000. In particolare le vittime sono soprattutto «ragazzine provenienti dalla Romania (46 per cento) e dalla Nigeria (36 per cento), seguite da giovanissime albanesi (11 per cento) e del Nord Africa (7per cento)». In questo mercato del sesso sono stati trascinati anche rom fra i 15 e i 18 anni di età, soprattutto a Roma e Napoli. «Alcuni di essi lavorano come lavavetri di giorno ai semafori, per poi prostituirsi durante la notte», scrivono i curatori del report. Che sottolineano pure che «accanto ai minori rom sono coinvolti nella prostituzione anche minori maghrebini e rumeni». E lo sfruttamento sessuale al chiuso è addirittura tre volte quello su strada. Un sistema studiato dalle organizzazioni criminali per rendere ancora più difficile l'individuazione delle vittime a chi prova ad aiutarle a uscire dal giro. Ma i trafficanti di esseri umani hanno imparato a sfruttare questi ragazzini anche per lavorare. Oltre all'accattonaggio, imposto soprattutto ad adolescenti rom e provenienti per lo più dalla ex Jugoslavia e dalla Romania, ci sono altre attività molto richieste. «I ragazzi egiziani sono tra i più a rischio di sfruttamento lavorativo, in particolare nel settore orto-frutticolo, o di cadere vittime di organizzazioni criminali per essere sfruttati nello spaccio di sostanze stupefacenti», scrivono Save the Children e On the Road. Un altro inquietante aspetto della tratta dei minori è che molti ragazzini, una volta entrati in Italia e dopo essere stati inseriti nelle strutture d'accoglienza, spariscono letteralmente nel nulla. E da ogni forma di possibile protezione. Non si tratta di voci di corridoio: la notizia, infatti, arriva direttamente dal soggetto attuatore per l'accoglienza dei minori non accompagnati del Nord Africa, Natale Forlani, che lo scorso 25 ottobre ha parlato alla bicamerale per l'Infanzia e l'adolescenza. Riferendosi al periodo 1° gennaio-25 ottobre 2011 Forlani diceva che, dei 3.863 minori non accompagnati arrivati fino a quel momento, «835 si sono resi irreperibili». Spariti, appunto. Alessandra Ballerini, avvocato specializzato in diritti umani e immigrazione, punta il dito contro le "strutture ponte", 24 centri aperti nel 2011 dove sono accolti ancora oggi molti minori non accompagnati. «Sono soluzioni provvisorie, dove i ragazzi non possono fare nulla: basti pensare che qui non viene neppure nominato un tutore e, di conseguenza, non è possibile chiedere per loro un permesso di soggiorno», dice. Inoltre, «in alcuni casi c'è il rischio che gli approfittatori si appostino nelle vicinanze di questi centri e non serve una grande organizzazione per portarsi via i minori o per sfruttarli». La Ballerini spiega che ci sono mille complicazioni burocratiche per questi ragazzi. E così tanti rischiano di diventare maggiorenni prima di avere avuto la nomina del tutore, che è poi il solo a poter chiedere un permesso di soggiorno per loro. E in questo modo si ritrovano irregolari al compimento dei 18 anni. Anche chi ottiene un permesso per minore età, del resto, rischia di non vederselo rinnovato, anche se ne avrebbe diritto. Capita spesso, infatti, che la struttura non faccia richiesta di un apposito parere al comitato per i minori, come invece impone di fare la legge. Una complicazione in più, che sembra fatta apposta per consegnare i giovani alla clandestinità. Con tutto quello che questo può significare, ancora una volta, per il ricco mercato del traffico degli esseri umani.
Che business gli schiavi invisibili, di Fabrizio Gatti. Sfruttati dagli enti e dalle aziende. Costretti a nascondersi per il pacchetto sicurezza. Privi di assistenza medica. Ecco le Rosarno del Nord. 'Non c'è soltanto Rosarno. Esiste un volto della schiavitù tutto milanese, tutto lombardo. Con tentacoli nell'agricoltura meccanizzata del Veneto, nella sanità in Piemonte, perfino dentro la grande industria. Operai messi a lavorare senza stipendio. Padri di famiglia minacciati e picchiati dal capo. Solo che al Nord gli sfruttatori non sono agricoltori in bilico tra la 'ndrangheta e i prezzi bassi della grande distribuzione. Ecco Milano, capitale del modello sicurezza del centrodestra, dove i committenti di queste opere macchiate di sangue o di illegalità sono spesso gli enti pubblici: il Comune, la Regione, l'Azienda trasporti municipale. Trovi storie di schiavi perfino dentro la nuova sede regionale in via Gioia, il grattacielo più alto della città voluto da Roberto Formigoni: il 1 luglio 2009 un gessista di 38 anni protesta per il mancato pagamento di tutti i mesi arretrati, il capo lo prende a pugni e gli morde l'occhio destro. Denunce anche negli appalti di Poste Italiane, di Banca Intesa, dell'Aler di Lecco, l'azienda per l'edilizia pubblica. Non si sottraggono nemmeno le metropoli governate dal centrosinistra: a Torino la Asl 4 ha dovuto usare soldi dei contribuenti per sanare la situazione di sei operai in servizio in un ospedale. Ovviamente si tratta sempre di lavoratori stranieri, a volte clandestini. Perché sono più ricattabili. Perché se non accettano il contratto capestro perdono la possibilità di rinnovare il permesso di soggiorno. Perché tanto non votano. Perché la caccia all'uomo scatenata a Milano dal sindaco Letizia Moratti e dal vicesindaco Riccardo De Corato ha spinto un esercito di muratori, operai, colf, badanti a rifugiarsi come cani nei ruderi della periferia. Vivono senza acqua, senza luce, senza riscaldamento. Solo a Milano sarebbero 8 mila le persone costrette a nascondersi perché le condizioni di lavoro non hanno consentito loro di avere o di rinnovare il permesso. Una città invisibile: quattro volte il numero di stranieri ridotti alla fame, spinti alla rivolta e cacciati da Rosarno. Non è solo una questione tra immigrati: "In gioco ci sono le garanzie che regolano la vita di tutti i cittadini. A cominciare dall'articolo 1 della Costituzione", dice Francesca Terzoni, tra le organizzatrici dello sciopero e delle manifestazioni nelle città italiane lunedì primo marzo. E' la prima volta, dopo anni di propaganda xenofoba, in cui stranieri e italiani si ritrovano uniti con un obiettivo comune. Per questo la giornata, che avrà come simbolo il colore giallo, ha ricevuto il sostegno delle principali organizzazioni sindacali e delle associazioni in tutte le regioni. La trasformazione in reato della permanenza in Italia senza documenti in regola, voluta dal centrodestra, ha ulteriormente peggiorato la vita di migliaia di stranieri. Anche di quelli che hanno il permesso di soggiorno in scadenza e che per rinnovarlo sono costretti ad accettare qualsiasi tipo di contratto. Per incontrarli, bisogna andare nell'ambulatorio dell'associazione Naga dove medici volontari garantiscono l'assistenza non d'urgenza che la sanità pubblica nega agli irregolari. Oppure bisogna camminare ore in periferia. Vivono mimetizzati nei campi. Per loro anche gli appartamenti sovraffollati di via Padova sono un lusso. Eccone quattro dentro una cabina elettrica dismessa. Due in una baracca. Altri in qualche casa abbandonata. Questi sono albanesi e moldavi. Di giorno si spostano nei cantieri. Le donne si ripuliscono le scarpe dal fango e vanno a lavorare come cameriere o baby-sitter per famiglie che non conoscono nulla di loro. La sera ricompaiono qui. "L'impatto del pacchetto sicurezza sul tessuto cittadino è devastante", sostiene Pietro Massarotto, presidente del Naga, "la gente si nasconde, si rompono i legami sociali". In mezzo ai terreni di Ligresti, alcune ditte selezionano e riciclano rifiuti. Operai tutti stranieri. Perfino i cani da guardia che 12 anni fa abbaiavano sempre hanno perso il posto. Sono stati sostituiti da immigrati, qualcuno senza documenti. Un pastore tedesco o un rottweiler lo devi lavare, curare. Devi portargli da mangiare due volte al giorno compresi Natale e Ferragosto. Un immigrato no: anche se guadagna pochi soldi, si procura i pasti da solo. E lo puoi sempre cacciare. La legge punisce l'abbandono dei cani, non degli stranieri. In 12 anni i loro padroni hanno guadagnato. Il risultato si vede all'ingresso: i container e le baracche di lamiera sono stati sostituiti da uffici in muratura con finestre a specchio e telecamere. "Il sistema produttivo italiano aumenta profitti e rendite, ma scarica i costi sui lavoratori autonomi delle microimprese", osserva Marco Rovelli nel suo libro 'Servi' (Feltrinelli, 15 euro): "Opposte a questa nebulosa ci sono le vere imprese, quelle mediograndi. Le quali, secondo un'indagine di Mediobanca del 2006, nel decennio 1996/2005 hanno ridotto ininterrottamente gli occupati, accumulando nello stesso tempo profitti in misura mai così alta nella storia del Paese, determinando lo scarto di reddito tra gli strati più ricchi e quelli meno abbienti: il più grande dell'Ue". Questa trasformazione economica è ben descritta nelle cause raccolte a Milano dall'associazione Tribunale dell'immigrato. "I lavoratori stranieri", spiega l'avvocato Domenico Tambasco, "sono diventati ammortizzatori societari: si ammazzano di fatica e non vengono pagati. In questo modo le società scaricano i costi che non riescono a sopportare". Magari sono costi insopportabili proprio perché la gara è stata vinta con un ribasso impossibile da rispettare. Secondo dati Istat del 2006, su un campione di 16 milioni e mezzo di lavoratori, sono circa otto milioni e mezzo quelli impiegati in aziende con meno di 15 persone e oltre 6 milioni quelli che lavorano in imprese che non superano in media i 2,7 dipendenti. E' il frazionamento della manodopera. Consente di ridurne il potere contrattuale e concentrare i guadagni tra le grandi imprese che gestiscono l'appalto. La costruzione dell'Altra sede, nome del progetto del nuovo grattacielo della Regione Lombardia, che qualche milanese chiama ora il Formigone, è finita in due cause avviate dal Tribunale dell'immigrato. L'incarico per l'opera simbolo di Milano l'ha vinto il Consorzio Torre, guidato da Impregilo e altre grosse società. La denuncia presentata alla direzione provinciale del Lavoro riguarda un subappalto affidato a una piccola ditta di proprietà di un imprenditore egiziano, che ingaggia operai tra i connazionali. Uno dei muratori specializzati, il gessista di 38 anni, dichiara di essere stato assunto come manovale generico con contratto fittizio per un mese, di aver lavorato due mesi a 60 ore a settimana e di essere stato cacciato con licenziamento orale, senza un soldo. Il primo luglio il muratore egiziano rintraccia l'imprenditore e chiede di essere pagato. L'operaio finisce al pronto soccorso del Policlinico con un morso all'occhio. Nelle stesse condizioni, un mese di lavoro senza paga, è un altro operaio della stessa impresa. Nella citazione viene chiamata in causa la filiera degli appalti: la Ana service che avrebbe ingaggiato i due operai, la Coiver Contract, il Consorzio Torre e i committenti pubblici della grande opera, Infrastrutture lombarde spa e Regione Lombardia. "Di solito il committente, in questo caso l'ente pubblico, dichiara di non sapere nulla", spiega Tambasco: "Non appena ha notizia della causa, blocca i pagamenti e la ditta citata preferisce conciliare". L'accordo tra l'imprenditore egiziano e l'operaio aggredito viene firmato in un ufficio della Uil il 25 settembre: una somma omnicomprensiva per mesi e straordinari di 4.524 euro. In cambio il muratore deve ritirare la querela per il morso all'occhio. E così avviene. L'altro operaio ottiene 2.524 euro. Soldi con cui sopravvivere per chissà quanto. Perché i due restano senza lavoro. La conciliazione non è comunque un'ammissione di responsabilità. Il 17 luglio 2009 l'Asl Torino 4 davanti al Tribunale di Monza accetta di pagare 8.050 euro come compenso e arretrati a sei operai egiziani. La squadra ha lavorato a 65 ore la settimana, domeniche comprese, alla ristrutturazione dell'ospedale di Ciriè. E, raggiunti gli obiettivi, è stata allontanata dal cantiere con licenziamento orale. Uno degli operai, 41 anni, in sette mesi di lavoro ha ricevuto dall'impresa che si è aggiudicata il subappalto soltanto 2.506 euro: 358 euro al mese. Per il resto è stato pagato con assegni scoperti. Secondo i calcoli, vanta arretrati per 23.425 euro. Ma, essendo da mesi senza stipendio, non può permettersi di attendere la fine di una lunga causa: così si accontenta di 4.500 euro, anticipati metà dall'impresa che lo aveva ingaggiato e metà dalla Asl di Torino, con diritto di rivalersi poi sulle ditte. Un risparmio sul costo del lavoro di 18.925 euro. Sfruttare gli immigrati conviene comunque. Chi protesta rischia di rimanere disoccupato e di perdere il permesso di soggiorno. In un'altra causa, contro la Coteco service, una cooperativa italiana che ha vinto l'appalto per la pulizia e il rifornimento degli autobus dell'Atm a Milano, la sezione Lavoro del Tribunale descrive gravi episodi di razzismo. Nella sentenza, che un anno fa sospende il trasferimento forzato di un operaio egiziano dal deposito Atm di via Leoncavallo, si riportano gli insulti del capoturno: "Sta' zitto e lavora, animale". Scrive il giudice Renata Peragallo: "E' risultato accertato un clima distorto e intimidatorio presso il posto di lavoro", dove gli operai subiscono minacce perché dichiarino il falso al processo. Un'altra causa per arretrati non pagati da quattro mesi riguarda i cantieri per 160 appartamenti di edilizia popolare a Milano, Bollate e Legnano appaltati dall'Aler. L'impresa sotto accusa cede il ramo d'azienda e all'improvviso dichiara fallimento. I lavoratori vedranno i loro soldi soltanto alla fine della procedura fallimentare. E se non ci saranno più spiccioli, pagherà l'Inps. In un altro cantiere per sette alloggi popolari appaltati dall'Aler di Lecco, vengono arruolati quattro egiziani senza permesso di soggiorno. Lavorano dal settembre 2006 al gennaio 2007 e non vedono mai un soldo. Scattata la denuncia, l'Aler blocca i pagamenti e l'impresa accetta di conciliare. Ma i quattro restano senza lavoro: ora, con il pacchetto sicurezza, non potrebbero nemmeno presentarsi ai giudici perché rischierebbero l'arresto. Ancora una causa davanti al Tribunale di Monza e questa volta si tratta di varie opere commissionate da Poste Italiane a Sondrio e da Banca Intesa in provincia di Pavia. Secondo la denuncia, l'impresa ingaggiata fa lavorare un operaio egiziano dal lunedì alla domenica per 81 ore la settimana. Gli schiavi li incontri anche nel ricco Nord-est. "L'impiego di stranieri è fondamentale nell'agricoltura veneta", spiega Alessandra Stivali, responsabile dell'ufficio immigrazione della Cgil a Padova: "Con i ritardi burocratici ci ritroviamo con lavoratori stagionali che entrano in Italia quando la raccolta è terminata. Gli agricoltori si rivolgono così a chi trovano, regolari e non. Abbiamo casi di donne impiegate nella raccolta invernale del radicchio e ammassate a dormire in tuguri". Pure al Nord sanno essere spietati. Come quell'imprenditore milanese che a Paderno Dugnano produce cosmetici per marche famose. Pretende che un suo operaio tunisino gli porti subito il permesso di soggiorno rinnovato. Una pratica che richiede fino a due anni, contro i 20 giorni imposti dalla legge. Non è colpa dell'operaio se l'Italia funziona così. Eppure l'imprenditore gli spedisce un'ammonizione scritta. Con un avviso: "Voglia prendere nota che le addebiteremo euro 3,40 dallo stipendio quale rimborso spese postali per la raccomandata n.".
E in Trentino gli schiavi del porfido, di Paolo Tessadri. E' una regione ricca e accogliente. Ma tra le montagne c'è anche il Far West del lavoro: manovali italiani, macedoni, arabi, cinesi, marocchini non hanno altra scelta che il cottimo puro. Era la pietra degli imperatori, rossa come la porpora per testimoniare nei secoli il potere assoluto. Oggi quel potere sa di sfruttamento. E il rosso ricorda il sangue dei lavoratori, spesso costretti a convivere con l'insicurezza. La Val di Cembra in Trentino ha una crepa lunga dieci chilometri, costeggiata da cento cave dove si estrae il porfido migliore: una miniera d'oro che frutta ai concessionari 220 milioni di euro l'anno. Ci sono mille dipendenti, di cui 600 stranieri che sudano in questi buchi di pietra e polvere, con un indotto che coinvolge altre 1.500 persone. Nelle cavità di queste montagne sbrecciate si spacca la roccia dieci ore al giorno, sei giorni la settimana, con la schiena piegata e la mazza in mano per rompere le lastre di porfido. Ma nel ricco e accogliente Trentino, c'è anche il Far West del lavoro: manovali italiani, macedoni, arabi, cinesi, marocchini non hanno altra scelta che il cottimo puro. Sollevano più di 200 quintali di pietra al giorno, mentre chi sta alle macchine deve produrre fra i 35 e i 50 quintali di cubetti, piastrelle o lastre. Chi non raggiunge il quantitativo viene messo in ferie; chi si ammala non viene pagato; chi s'infortuna sul lavoro viene considerato assente ingiustificato e può venire licenziato: si va avanti quando piove, in inverno col ghiaccio, in mezzo alla polvere che mina i polmoni. Le buste paga le decidono i gestori in una contrattazione individuale con immigrati che non parlano italiano. Ma anche per chi da sempre lavora qui la situazione non è ottimale: "Sono in cava dal 1974, a quel tempo si stava meglio, quando era brutto tempo ti mandavano a casa. Oggi ti trattano da schiavi. Ho visto gente che si è bloccata ed è stata portata all'ospedale". Joussef Marras, marocchino, ha protestato perché l'aspiratore della polvere non funzionava da tre anni: è stato licenziato. Kamber Mazllami, macedone, dopo 15 anni di cava ha avuto problemi di cuore: licenziato. Pure il trentinissimo Walter Ferrari, che aveva protestato per il rinnovo del contratto collettivo, è stato costretto ad andarsene: ora alleva capre e ha costituito insieme ad altri 150 il Comitato dignità per i lavoratori del porfido. Con la crisi, poi, si è creata una catena al ribasso: padroncini che affittano una parete di roccia, acquistano i vecchi macchinari- dismessi dalle grandi aziende perché meno sicuri - e con dipendenti extracomunitari cercano di ritagliarsi il loro guadagno di pietra. Spesso sono immigrati che assumo altri immigrati ma succede che questi artigiani al momento di pagare i dipendenti spariscono. Spiega l'avvocato Lorenza Cescatti: "I lavoratori che ho assistito non sanno parlare italiano. Subiscono continue contestazioni per fatti inesistenti o insignificanti. E spesso vengono lasciati senza stipendio".
Noi, costretti a lavorare gratis: inchiesta di Roberta Carlini su “L’Espresso”. Stagisti, praticantati, crowdsourcing: mezzo milione di giovani italiani, qualificati e creativi, non viene pagato per quello che fa. Ma questo ricatto al mondo sommerso potrebbe far esplodere la protesta da un momento all'altro.
C'è il grafico che ironizza sul suo mestiere: "Faccio il gratis designer". L'attrice che ha coniato una nuova formula, "sto nel racket del lavoro bianco: mi pagano i contributi, ma non lo stipendio". Il praticante avvocato che difende i diritti degli altri e trascura i suoi. La free lance che lancia un avviso ai naviganti: basta volontariato, d'ora in poi non lavoro più senza paga.
Gli stagisti d'ogni tipo ed età: mezzo milione come minimo, nel privato e nel pubblico, per la maggior parte non retribuiti e neanche rimborsati. E il mondo nuovo del Web, con il crowdsourcing trasformato da officina creativa di massa a reclutamento di opera a costo zero. Il 65 per cento dei giovani con meno di 35 anni ha lavorato almeno una volta senza essere retribuito, dimostra un sondaggio di Demopolis realizzato per "l'Espresso". Tutti lavoratori e lavoratrici, in gran parte giovani, ben qualificati, spesso alle prese con lavori interessanti, creativi, belli. Ma non pagati. Gratis. Non per scelta, ma per ricatto o necessità. Un mondo sommerso, che può esplodere da un momento all'altro.
In prima fila, nell'universo del lavoro gratis, ci sono loro: gli stagisti, esercito che si è stratificato negli anni e con la crisi si è cronicizzato. "Lo stage non è più il primo passo di un percorso lineare, in crescendo: si può andare avanti, ma si può anche passare da uno stage all'altro senza migliorare in niente o addirittura tornare indietro, da un lavoretto retribuito a un nuovo stage", racconta Eleonora Voltolina, fondatrice di un sito molto popolare nel mondo dei forzati della stage (repubblicadeglistagisti.it) e autrice dell'omonimo libro (Laterza). Da porta d'ingresso nel mercato del lavoro, ormai da tempo lo stage è diventata una condizione esistenziale: non retribuita, nella maggior parte dei casi. "Secondo un sondaggio tra i nostri utenti, il 52 per cento degli stagisti non prende un euro, e un altro 15 ha un rimborso spese inferiore ai 250 euro al mese".
Non stiamo parlando di un gruppetto di poche persone: secondo i dati Unioncamere, nel settore privato gli stagisti sono 322 mila. E nel pubblico? "Abbiamo chiesto al ministro Brunetta di dare le cifre, non ci ha risposto", dice Voltolina. La stima, non ufficiale, è sui 200 mila: e siamo già sopra il mezzo milione. Ai quali poi vanno aggiunti almeno 200 mila aspiranti professionisti (avvocati, commercialisti, notai) costretti a fare la pratica per poi accedere con un esame di Stato ai mitici ordini professionali. E la loro pratica, di norma, è a prezzo zero. Anche laddove i codici deontologici prescrivono che il praticante vada pagato, dopo un po' di mesi di addestramento. Una regola inapplicata dalla maggior parte degli studi italiani, e ignorata persino dallo Stato, che da un pezzo ricorre al lavoro gratis dei giovani avvocati: succede nell'Avvocatura di Stato e succede persino all'Inps.
Non che siano i soli. Ci sono stagisti che mandano avanti i tribunali in crisi di organico e quelli che tengono aperte le biblioteche delle università. Lo stagismo dilaga nei Comuni come nei ministeri, in tutto lo Stato e il parastato. E fa da biglietto da visita dell'Italia anche nelle ambasciate. Sono stati 1.800 l'anno scorso e 580 quest'anno i neolaureati che hanno vinto i posti messi in palio dal ministero degli Esteri per fare stage presso le ambasciate. Una bella opportunità, per chi studia nel campo della politica e diplomazia. Ma a caro prezzo: nessun rimborso spese, neanche se ti mandano a Bangkok o in Australia. "Io sono stata fortunata, ho avuto come destinazione Lisbona: il viaggio non costa molto e tutto qui è abbastanza economico per effetto della crisi", racconta Noemi De Lorenzo, 24 anni, appena laureata in Scienze internazionali e diplomatiche all'università di Trieste. Viaggio, affitto, cibo ("devo dire che i funzionari dell'ambasciata spesso mi offrono il pranzo..."), tutto per tre mesi prorogabili di uno: "Di più non potrei, però finora è stata una esperienza utile, so che non sempre è così, a volte ti tengono solo a fare le fotocopie", racconta Noemi, che si tiene in rete con i suoi colleghi che in tutto il mondo stanno apprendendo l'abc della diplomazia e insieme i rudimenti del lavoro gratuito. Che prosegue spesso anche quando il pretesto della formazione non c'è più, incanalandosi su mille altre strade.
"Diciamo no al volontariato: perché non si deve mai lavorare gratis". A un certo punto Silvia Bencivelli, giornalista scientifica free lance, non ce l'ha fatta più e si è sfogata sul suo blog: basta al volontariato, basta alle telefonate di chi ti chiede di contribuire a un libro, moderare una tavola rotonda, scrivere, intervenire a un convegno, dimenticandosi sempre di citare l'argomento "soldi". Oppure promettendo, al massimo, un rimborso del biglietto del treno: magari per un fine settimana, magari per andare in un posto bello. Basta. "No. Per me, perché anche se è vero che il mio lavoro assomiglia a un hobby, e a volte si tratta di fare cose divertenti che farei anche per niente, non posso svendere quel che faccio. E poi no, per tutti gli altri. Perché chi lavora gratis rovina il mercato". Uno sfogo cliccatissimo, che è stato rilanciato e commentato in Rete alla grande. Segno che Bencivelli ha messo il dito in una piaga diffusa, che colpisce soprattutto il lavoro intellettuale e creativo: "Quel che tutti pensano è: siccome fai un bel lavoro, puoi anche farlo gratis", riassume Silvia. Che aggiunge: "Per carità, il dono, l'attività volontaria, ci possono sempre stare, per gli amici o per una causa. Ma qui sta diventando un sistema, un modo per svalutare il lavoro. Me lo dice sempre mio padre: non è che siccome fai un lavoro bello, ti possono pagare in bellezza".
Se il "lavoro bello" è il primo dei ricatti, quello che viene subito dopo è il mito della visibilità: "Non ti pago, ma così fai vedere il tuo lavoro, la tua firma, la tua faccia". Ne soffrono professionisti affermati e ancor più giovani che vogliono emergere, ragazzi pagati 3 euro ad articolo per vedere la propria firma su quotidiani blasonati. Figuriamoci se non ne soffre il mondo dello spettacolo. "Da noi non c'è solo il lavoro nero, c'è di peggio: il lavoro bianco", dice Manuela Cherubini, regista e attrice. Che racconta, seduta a un tavolino di fronte al teatro Valle occupato, cos'è questo trucco del lavoro bianco: "Ti pagano i contributi, ma non lo stipendio". Questo per colpa dei meccanismi perversi del finanziamento pubblico alle compagnie: commisurati appunto a quanti cedolini hanno, quanti contributi pagano. E allora, "firmi la busta paga, ma la paga non arriva. Poi magari arrivano l'anno dopo le tasse da pagare sulla paga che non hai avuto".
Il tavolino si affolla, e attrici, attori, scenografi, registi, raccontano tutti episodi di "lavoro bianco". Che prima veniva accettato perché, cedolino dopo cedolino, magari arrivava il diritto al trattamento di disoccupazione. Adesso questa possibilità non c'è più e chi lavora gratis lo fa solo per esserci. "Perché ci sono tanti attori a spasso che pur di sentirsi vivi accettano". Poi c'è il lavoro gratis venduto come grande opportunità, il privilegio di recitare per cinque minuti accanto a un grande della scena. O il trucco della formazione, nel dilagare dei "laboratori". Fino all'organizzazione di festival ed eventi con scambio di compagnie, senza remunerazione ma con garanzia di poter riempire così i rispettivi cartelloni. "Siamo noi per primi a dover cambiare mentalità, a dover dire no, se continuiamo a essere disposti a tutto pur di andare in scena non saremo mai considerati, a tutti gli effetti, lavoratori".
"Può il governo federale americano chiederci di lavorare gratis?", stanno chiedendo a gran voce un migliaio di graphic designer americani. Sono protagonisti di una rivolta contro il bando appena lanciato dal dipartimento agli interni a stelle e strisce, che ha messo in crowdsourcing il rifacimento del logo. Il vecchio bisonte quasi centenario non va più bene, così il ministero si è rivolto alla Rete: mandateci una proposta, sceglieremo la più bella. Sul mercato professionale, quel lavoro è valutato dai 20 mila ai 50 mila dollari: con il crowdsourcing di Stato, protestano i designer americani in rivolta, chi vince ne guadagna appena 1.000, tutti gli altri hanno lavorato gratis.
Il fenomeno è mondiale e interessa designer, grafici, copyrighter e altri professionisti che hanno visto rapidamente il Web trasformarsi da delizia in croce. "Il crowdsourcing dilaga, è un modo per raccogliere risorse a basso costo, o del tutto gratis", dice Dario Banfi, giornalista, copywriter e consulente milanese, autore con Sergio Bologna del libro "Vita da free lance" (da poco uscito per Feltrinelli), nel quale dedica ampio spazio al problema, in un capitolo che si apre con la seguente domanda: "Il lavoro gratuito, meglio di nessun lavoro?". Banfi pensa di no, ovviamente, e mostra una mail da lui stesso ricevuta qualche giorno fa: "Caro copy, eccoci a proporti una nuova ricerca nome...". Si trattava, in sostanza, di inventare il nome per un nuovo prodotto assicurativo per automobilisti. Premio: mille euro per il nome vincente, zero compensi per tutti gli altri.
Anche in Italia sono fiorenti agenzie che fanno brokeraggio tra i clienti e i creativi, cercando sulla Rete le idee migliori a prezzi ridicoli. "Negli Stati Uniti, dove i free lance si sono coalizzati, comincia una reazione molto forte contro queste pratiche. Così come è partita la rivolta dei giornalisti-blogger che hanno scritto gratis per l'Huffington Post e adesso hanno avviato una class action per avere una parte del bottino ricavato da Arianna Huffington dalla vendita".
La class action dei blogger di Arianna porta argomenti a quanti sostengono che il magico mondo "gratis" del Web è il regno dello sfruttamento di massa, come sostiene nel suo libro "Felici e sfruttati" (Egea) Carlo Formenti; e alimenta il dibattito, molto fitto nella blogosfera, sui confini tra spontaneità e gratuità della Rete e un business economico che si fa sempre più aggressivo ma non distribuisce i suoi "jackpot" a chi ha donato idee e scritti all'impresa nascente che poi è diventata di successo. Le nuove frontiere del crowdsourcing vanno a peggiorare una situazione già poco rosea, per un mondo di professionisti non sempre riconosciuti come tali, soprattutto in Italia.
"Tra noi circola una battuta, autoironica: non voglio fare il gratis designer", racconta Mario Rullo, graphic designer, fondatore di una piccola agenzia romana. "Faccio questo lavoro da vent'anni e ho vissuto tutti i cambiamenti tecnologici, la rivoluzione che ha reso accessibili alcune operazioni a tutti". Una bella cosa, ovviamente: però diventa preoccupante "se il mercato poi pensa che alcuni servizi si possono non pagare: le fotografie, il design, la scrittura. Colpa del fatto che in molte imprese non ci sono le competenze per riconoscere un lavoro professionale, ma anche della voglia di pagare poco, risparmiare. E così il crowdsourcing diventa una mistificazione, non è una specie di concorso per giovani o per emergenti - cosa in sé molto bella e utile -ma vuol dire una sola cosa: non voglio spendere". E quindi non ti pago.
Così fan tutti, anche lo Stato. I giovani avvocati lavorano senza retribuzione. E succede persino all'Inps. La testimonianza di una praticante.
"All'inizio abbiamo fatto un po' di pratica in ufficio, poi abbiamo cominciato a scrivere gli atti, fare ricerche di giurisprudenza e andare in udienza". La pratica da avvocato Francesca Esposito, leccese di 30 anni, l'ha fatta presso l'Inps della sua città. Tutto bene, finché non ha cominciato a fare domande inconsuete, del tipo: "Ma ci darete un rimborso spese, a un certo punto? Almeno per pagarci la benzina, il parcheggio, il biglietto dell'autobus?".
Neanche l'Inps paga i praticanti avvocati?
"No, non li paga. Ma questo sul bando a cui io ho partecipato non c'era scritto, in quelli successivi lo hanno messo nero su bianco. Però il codice deontologico degli avvocati dice il contrario".
Quand'è che ha cominciato la sua ribellione?
"Prima non rispondevano in modo chiaro alle mie domande, poi ho trovato la circolare con la quale l'Inps aveva aperto all'uso dei praticanti: lì c'era scritto esplicitamente che lo si faceva per far fronte alla mole di contenzioso e alla carenza di organico, senza oneri finanziari aggiuntivi. Dunque, per avere lavoro gratis".
Una pratica diffusa, anche negli studi privati.
"Sì, ma in questo caso siamo noi, avvocati che dovremo in futuro occuparci dei diritti previdenziali dei lavoratori, a subire un torto proprio dallo Stato. Quando l'ho fatto presente mi hanno risposto che fa così anche l'Avvocatura di Stato. E' anche la risposta che ha dato il ministro Sacconi quando c'è stata un'interrogazione parlamentare sul caso che io avevo sollevato attraverso il sito "La repubblica degli stagisti": bisognava smaltire il contenzioso arretrato, ha detto il ministro".
Lei ha fatto altri stage?
"Prima di andare all'Inps, stavo alla Corte di Giustizia di Strasburgo, con un mensile di 1.500 euro. E anche adesso sono stagista, di nuovo all'estero. Sono tornata in Italia perché volevo fare la pratica per l'esame di Stato. Secondo me ci può anche stare uno stage senza rimborso spese, purché lo stagista non sia preso per sostituire un dipendente, ma per ricevere una formazione. Una volta che sei in grado di lavorare, devono pagarti. Invece miei colleghi sono rimasti a lavorare anche dopo aver finito il periodo obbligatorio di praticantato. Dicono che è meglio stare lì gratis che essere disoccupati".
PARLIAMO DI FORMAZIONE PROFESSIONALE.
Tangenti, truffe, poco lavoro. La formazione è una fabbrica di precari, così come risulta da un’inchiesta di “Repubblica”. Ci sono 2,3 milioni di persone in cerca di un posto, un mercato enorme per i professionisti dei corsi. Gli unici a godere dei fondi stanziati sono gli organizzatori e negli ultimi anni i casi di raggiro si sono quintuplicati. Centinaia di iniziative ma senza reali sbocchi.
Ogni uomo che perde il lavoro per loro è una straordinaria opportunità. Ogni donna che non riesce a trovarlo per loro è una risorsa. I precari sono il loro target, gli operai in esubero il loro pane quotidiano. Sono i professionisti della disoccupazione. Organizzano corsi di formazione, a volte finti, spesso inutili. E mai come ora fanno affari: con la crisi, secondo le ultime rilevazioni Istat, il numero degli italiani in cerca di lavoro è salito alla cifra record di 2,3 milioni, e altri 230mila posti si bruceranno, secondo Confindustria: per loro è una manna dal cielo. Quanti sono gli enti che utilizzano i fondi per la ricollocazione dei lavoratori solo per giustificare la loro esistenza? Quali risultati hanno prodotto finora, quante persone hanno reinserito?
Per rispondere a queste domande bisogna prima descrivere un sistema che attira ogni anno - oltre agli investimenti privati delle famiglie per corsi di avviamento al lavoro - finanziamenti pubblici per quasi 20 miliardi di euro. Alla cifra si arriva sommando la metà dei "32 miliardi di euro nel biennio" che secondo il ministro del Welfare sono a disposizione, tra fondi nazionali e comunitari, per gli ammortizzatori sociali e i 2,5 miliardi destinati alla formazione professionale. Di quest'ultima somma, una parte consistente viene destinata ai corsi per disoccupati, apprendisti, giovani alla prima esperienza o lavoratori a rischio di esclusione: a tutte queste attività, secondo l'ultimo rapporto Isfol, hanno partecipato 360mila persone. La Lombardia, tra le regioni più colpite dalla crisi, ha stanziato in un anno 112 milioni di euro per le "doti formative". Sicilia e Campania, afflitte da disoccupazione cronica, spendono 500 milioni di euro all'anno. Tutto questo fiume di denaro alimenta gli appetiti degli speculatori?
"Development enterprise tourism", "cooperazione internazionale", "business administration & finance": leggendo l'elenco delle materie che s'insegnavano ai corsi formativi organizzati a Padova da alcune cooperative della Compagnia delle Opere sembrava di essere ad Harvard. Ma per la procura era una gigantesca montatura, così come erano gonfiate le ore di lezione e di lavoro svolte e il numero dei docenti impegnati: tutto per arrivare a rendicontare 561mila euro, la cifra intascata dal ministero, dall'Unione europea e dalla Regione Veneto. Pensava in grande anche Tonino Tidu, un tempo assessore Dc sardo e presidente dell'Enaip, poi nel consiglio nazionale delle Acli, imputato in un processo a Cagliari: avrebbe gestito, secondo l'accusa, 358mila euro di finanziamenti regionali per corsi per "operatore su pc", "addetto alle piante aromatiche e officinali" e "orticoltore" senza produrre un posto. Di inchieste così se ne trovano in tutti i palazzi di giustizia italiani. A Roma il processo al deputato Pdl Giorgio Simeoni, accusato di aver ricevuto, da assessore regionale alla Scuola, nel 2005, una tangente da 100mila euro dai titolari della Euro Consulting group per chiudere un occhio sui corsi di formazione inesistenti, ma regolarmente finanziati con contributi comunitari, da loro organizzati. In Liguria ogni partito aveva il suo consorzio da spingere, come ha dimostrato un'inchiesta della procura di Genova che vede coinvolti, tra gli altri, l'assessore regionale alla Pesca Giancarlo Cassini e il consigliere Vito Vattuone, del Pd, e Nicola Abbundo, del Pdl, teorico, nei tempi in cui era assessore, del "modello ligure dell'eccellenza formativa". E se in Campania gli stage dei mille partecipanti al progetto "Isola" avvenivano solo sulla carta, in Puglia i fondi per l'inserimento dei disabili finivano in tasca ad assessori, funzionari regionali e imprenditori: così sono spariti cinque milioni di euro, assicurano i magistrati nel processo. Dopo gli scandali, in Puglia, hanno cercato di far pulizia tra i cosiddetti enti storici della formazione. Sono stati sospesi gli accreditamenti per quattro agenzie. Come il Cefop, il centro europeo per la formazione ed orientamento professionale, che era stato ammesso a finanziamenti per 4,2 milioni di euro per corsi come "operatore audiovisivo" e "animatore di villaggi turistici". Per la Corte dei conti siciliana per ogni corso di formazione solo un disoccupato e mezzo trova effettivamente lavoro. I costi della collettività per ogni occupato, secondo i calcoli dei magistrati contabili, ammontano a 72mila euro. Soldi che in Sicilia vanno a 400 enti privati i quali danno lavoro a 7300 persone, ai quali andrebbero aggiunti i 1800 impiegati agli sportelli multifunzionali affidati ai privati dalla Regione, che nel frattempo spende altri 60 milioni di euro per finanziare i centri per l'impiego pubblici. L'isola è tra la regioni con il più alto tasso di disoccupazione, il doppio rispetto alla media italiana. E così l'Europa attraverso il Fondo sociale dal 2003 al 2010 ha fatto piovere in Sicilia 1,5 miliardi di euro per finanziare i corsi. Il risultato? Un boom di enti che fanno capo a politici targati Mpa, Pdl, Pd e Udc, sindacati (Cisl e Uil ricevono la gran parte dei finanziamenti) e associazioni cattoliche (dai salesiani alle Acli). Tutti enti accreditati dalla Regione per far diventare i disoccupati siciliani marinai, artigiani, parrucchieri, esperti informatici, colf o badanti. La maggior parte dei formatori sono stati assunti tra il 2006 e il 2008, a ridosso delle grandi tornate elettorali che hanno portato sul trono della Regione prima Salvatore Cuffaro e poi Raffaele Lombardo. Un ginepraio che garantisce un sussidio che va dai 400 ai 1.000 euro al mese per oltre quarantamila corsisti che ogni anno si siedono sui banchi d'oro pagati dalla Regione. Gli assessori che hanno guidato la Formazione, da Francesco Scoma a Santi Formica entrambi del Pdl, sono diventati i re dei consensi. Nella formazione la politica la fa da padrone: i nomi di Francantonio Genovese e Gaspare Vitrano del Pd, oppure quelli di Lino Leanza, numero due dell'Mpa di Lombardo, o Nino Dina dell'Udc sono a dir poco conosciuti in decine di enti di formazione. Ma anche i sindacati la fanno da padrone, in questo settore, dove si trovano a difendere i lavoratori ma anche i padroni, che sono loro stessi. Lo IAL della Cisl e l'ENFA della Uil ricevono ogni anno oltre 30 milioni di euro. Poi ci sono le associazioni cattoliche: i salesiani gestiscono ad esempio il Cnos Fap, mentre tra gli enti finanziati c'è l'EFAL, che fa capo al Movimento cristiano lavoratori finito nell'occhio del ciclone per l'arresto di uno dei suoi dirigenti, l'architetto Giuseppe Liga, accusato dai pm di Palermo di essere l'erede dei boss Lo Piccolo. I magistrati hanno scoperto che nel 2010 l'Efal, l'ente di formazione del movimento, ha ricevuto dalla Regione un sostegno di sei milioni e 336 mila euro. Fino a pochi giorni fa l'architetto era un insospettabile, ma è stata un'anticipazione dell'inchiesta finita sui giornali che aveva indotto l'Mcl a sospendere il professionista. Anche la Corte dei conti e la Guardia di finanza da tempo indagano sul business della formazione siciliana. I magistrati contabili hanno contestato a diversi enti corsi fantasma e somme non rendicontate. E ci sino stati i primi arresti, come quello di un insospettabile professore di Palermo, condannato in primo grado a 8 anni per aver intascato, attraverso conti all'estero, 9 milioni di euro dai 20 milioni ricevuti per corsi di formazione con i fondi europei. La montagna ha partorito un topolino anche nell'efficiente Lombardia, dove 64mila persone hanno beneficiato, nel 2010, della "dote lavoro", per un totale di 45,8 milioni di euro impegnati. La metà dei fondi tuttavia, sono stati gestiti da dieci operatori. Chi sono? I soliti noti, enti di area Cl - o più in generale cattolica - come l'Enaip, lo Ial-Cisl, Obiettivo Lavoro. La maggior parte dei servizi svolti riguarda il colloquio di accoglienza di primo livello, il bilancio di competenze, il coaching e i corsi di formazione: le cifre dei destinatari, per queste voci, oscillano tra i 34mila e i 62mila. Ma se poi si passa dall'orientamento all'accompagnamento concreto al lavoro i numeri si abbassano penosamente: solo 168 allievi hanno avuto un supporto per l'autoimprenditorialità, in 94 sono stati accompagnati agli stage, 22 al tirocinio e appena 5 al "training on the job".
Ma lo storico paradosso dei formatori - che non riescono a lenire la disoccupazione altrui, ma intanto trovano un posto a sé stessi - non regge più come una volta. Gigi Rossi, della Cgil, segnala il fenomeno del "precariato nei sistemi regionali della formazione professionale. E soprattutto al Nord, con la crisi - aggiunge - è diffuso l'uso, da parte degli enti, di invitare caldamente i collaboratori a trasformarsi in finti imprenditori con partita Iva". Gli enti di formazione servono davvero a qualcosa o hanno finito per creare una "sovrastruttura" - come scrive l'Isfol nel suo ultimo rapporto - sganciata dalle esigenze reali del mercato del lavoro? Armando Rinaldi, dell'Atdal over 40, un'associazione che cerca di tutelare i diritti di chi perde il lavoro in età matura, assicura che "se ci fossero dati disponibili si scoprirebbe che la media dei disoccupati ha un bagaglio di ore di formazione triplo rispetto a quello di un lavoratore. Invece di un'occupazione ha trovato sulla sua strada decine di proposte formative". La Regione Lombardia ha commissionato un'indagine a un istituto di ricerca. Trenta disoccupati ultraquarantenni hanno tenuto un diario nel quale raccontavano le loro esperienze. È emerso che nelle rare occasioni in cui riuscivano a trovare lavoro i corsi di formazione non c'entravano nulla: era tutto merito delle loro conoscenze personali. Lo studio non è stato mai pubblicato. Secondo Rinaldi per ogni corso organizzato in Lombardia 3000 euro vanno (nell'arco di sei-nove mesi) al candidato, mentre gli altri 7000 vanno agli organizzatori. "Si comincino a ribaltare le modalità di distribuzione dei fondi, erogando ai destinatari il 60-70 per cento dei finanziamenti sotto forma di reddito di sostegno".
Si potrebbe trovare un utilizzo diverso dei capitali in modo da sostenere direttamente il reddito delle persone in difficoltà? Per ottenere i contributi oggi basta - oltre a una buona capacità di lobby - compilare un formulario in cui, tra l'altro, si dimostra il fabbisogno nel territorio di competenza della figura professionale che s'intende formare. "Per esempio - scrive l'Atdal - se si propone di formare addetti al check-in aeroportuale si ricercano i dati sul traffico aereo della regione e si dice che data la crescita del traffico aereo occorre formare nuovi operatori". Angela, diplomata, ha 47 anni e da dodici frequenta corsi di formazione professionale in Lombardia. Non è mai riuscita a ottenere altro che qualche lavoretto di poche settimane all'anno in fabbrica. "Nell'ultimo corso che ho seguito, per lavorare in un asilo privato, il colloquio orientativo si è svolto tre giorni prima della fine dei corsi. Un'altra volta mi hanno costretto a scrivere un sacco di bugie sulla relazione finale. Ad esempio che avevo trovato lavoro in una fabbrica. In realtà era la mia vecchia azienda che mi richiamava". L'importante, insomma, è giustificare le spese. I risultati non contano.
PARLIAMO DI ALTERNANZA SCUOLA-LAVORO.
Alternanza scuola-lavoro, lo sfruttamento continua: “Mandati a pulire i bagni”, scrive il 6 Mar 2017 "Cultora". Siamo alle solite. Ne abbiamo già discusso in altre occasioni, ma sembra proprio che lo tsunami “alternanza scuola-sfruttamento” non abbia intenzione di arrestare il suo violento impatto nei confronti dei giovani, costretti ancora una volta a vivere esperienze al limite della sopportazione. Dopo la recente inchiesta del settimanale l’Espresso, in cui sono venuti alla luce tutti i limiti del sistema imposto dalla “Buona scuola” voluta dal Governo Renzi e confermata dall’attuale Governo Gentiloni, la cosiddetta “alternanza scuola-lavoro” torna al centro dei riflettori grazie al Fatto quotidiano, che gli dedica oggi la prima pagina. Nel report emerge l’ennesima situazione disarmante: tra chi è stato costretto a fare volantinaggio per dodici ore al giorno e, addirittura, chi si è trovato a pulire bagni e tavoli al ristorante la condizione degli studenti partecipanti non sembra mostrare nessun margine di miglioramento per un progetto che sulla carta dovrebbe essere “un’esperienza formativa innovativa per unire sapere e saper fare”. A lanciare l’allarme, questa volta, è l’Unione degli Studenti della Puglia con la campagna “A scuola io non faccio l’operaio”, portando alla luce i casi di “uso distorto” del percorso formativo. «Lì facevo solo volantinaggio e davo indicazioni al pubblico che mi chiedeva informazioni sulle toilette o su dove trovare uno stand. E spesso mi è capitato di fare dieci, dodici ore continuative con una pausa di quindici minuti al massimo», ha raccontato sulle pagine del Fatto Nadia, studentessa al quarto anno di un professionale alberghiero della provincia di Bari, che prosegue: «Per il resto delle ore ho pulito tavoli e bagni. L’alternanza dovrebbe essere un’opportunità e un percorso di crescita professionale ma le aziende ci usano come manovalanza gratuita». Come porre rimedio, dunque, a una situazione surreale alla quale nessuno sembra prestarci la giusta attenzione? Al ministero assicurano che sono al lavoro per migliorare la situazione: «Abbiamo firmato cinquanta protocolli nazionali con Unioncamere – spiegano – dove al registro nazionale in cinque mesi si sono iscritte duemila aziende che hanno garantito sessantamila posti di alternanza. Oggi c’è un comitato nazionale al lavoro dove siedono tutte le associazioni sindacali e gli enti locali che sono delle antenne sul territorio. Stiamo facendo nascere una cabina di regia con il ministero del Lavoro per aiutare le scuole ad individuare le imprese ma non solo. Stiamo elaborando una carta dei diritti e doveri dello studente in alternanza. Resta il problema che in Italia non esiste la figura dello studente lavoratore e in alcune realtà viene equiparato solo a quest’ultimo con tutte le conseguenze del caso: certificati medici, formazione sulla sicurezza e altro ancora». Ai posteri l’ardua sentenza, ma le premesse rimangono piuttosto deboli.
Tirocini per servire caffé e friggere patatine. Alternanza scuola-lavoro o libero sfruttamento? Un post pubblicato su Facebook e divenuto virale nel giro di poche ore ha riaperto il dibattito sull'alternanza scuola lavoro. Il progetto prevede centinaia di ore di stage obbligatorie per gli studenti delle scuole superiori, ma ciclicamente si scopre che i ragazzi vengono in alcuni casi utilizzati in sostituzione del personale regolarmente assunto, una sorta di manovalanza a costo zero offerta direttamente dal ministero della Pubblica Istruzione, scrive il 10 marzo 2017 Charlotte Matteini su "Fanpage". L'alternanza scuola-lavoro, divenuta obbligatoria con l'approvazione della riforma "Buona scuola" varata dall'esecutivo guidato da Matteo Renzi, torna al centro delle polemiche. Un post pubblicato su Facebook da Luca Barbieri, attivista dell'Unione degli Studenti, è infatti diventato virale nel giro di poche ore, scatenando un acceso dibattito sul tema. "In viaggio verso Roma ci siamo fermati ad un Autogrill per una breve sosta. Avvicinandomi al bancone ho notato che la ragazza che mi stava per servire un caffè aveva sulla divisa il logo dell'alternanza scuola-lavoro. La cosa mi incuriosisce, inizio a parlarle ed a farle tante domande su come funzionasse l'alternanza e mi racconta delle 150 ore da dover svolgere quest'anno, delle 8 settimane e delle 4 ore pomeridiane che passa in quell'autogrill. La ringrazio per la chiacchierata e mi avvio all'uscita ed una volta giunto alla cassa non riesco a fare a meno di chiedere alla cassiera, una donna sui 40, un parere sulla studentessa al bar di poco prima. Lei mi spiega la sua disapprovazione e le sue ragioni, mi racconta che c'è stato un taglio al monte orario dipendenti grazie alle ore-lavoro gratuite della buona scuola e che questo comporta una diminuzione degli stipendi. Esco dall'autogrill perplesso e contrariato, penso a quanto sia folle e falso questo paese, penso alla studentessa che sacrifica le sue passioni per quest'alternanza, penso ai lavoratori colpiti dalle conseguenze del lavoro gratuito. Confido negli studenti e nelle loro energie, nei giovani, nella loro voglia di ribellarsi e rompere gli schemi di questa società!", scrive Barbieri, riportando la testimonianza di una dipendente della società, la quale avrebbe confidato all'uomo che l'alternanza scuola lavoro verrebbe utilizzata dalle aziende per diminuire il monte-ore dei dipendenti e di conseguenza il costo del lavoro.
Già in passato, quando il progetto relativo all'alternanza scuola lavoro venne ufficialmente presentato insieme alle aziende aderenti all'iniziativa lanciata dal ministero dell'Istruzione, si scatenò una grossa polemica per la presenza, in maniera molto rilevante, di McDonald's tra i papabili futuri datori di lavoro degli studenti: su 27.000 posti totali messi a disposizione inizialmente da 16 grandi aziende, il colosso americano, stando ai documenti pubblicati sul sito del Miur, si era detto disponibile ad accogliere ben 10.000 studenti. Le legittime perplessità che scaturirono dalla diffusione della notizia si concentrarono soprattutto su una questione: in che modo un tirocinio gratuito al McDonald's può aiutare dei giovani studenti a inserirsi in futuro nel mondo del lavoro? Il punto focale della questione è soprattutto questo, il fatto che le centinaia di ore lavorate non saranno retribuite in alcun modo, come prevede la normativa.
I ragazzi che parteciperanno ai tirocini di McDonald's, quindi, impareranno a "relazionarsi con il cliente, lavorare in team, a soddisfare al meglio le esigenze dei clienti e, in particolare, acquisiranno competenze relative alla sicurezza alimentare, ai processi di approvvigionamento e preparazione degli alimenti, ai contratti di lavoro e alla supply chain in ambito alimentare", ma in che modo? Lavorando dietro il bancone del fast food, questo è sicuro. Rilevante è chiedersi in quale maniera potranno godere di questi benefici descritti dal progetto formativo del percorso. Lavorando come dipendenti part-time, friggendo patatine e servendo panini? Le criticità dell'alternanza scuola lavoro sono le stesse dei famigerati stage post-diploma e post-laurea, che molto spesso vengono utilizzati dalle aziende per avere a disposizione personale a basso o nullo costo e di formazione reale lo studente ne vede ben poca. Recentemente, inoltre, sono stati pubblicamente denunciati alcuni abusi avvenuti proprio in piccole aziende locali aderenti al progetto alternanza scuola lavoro: l'Unione degli Studenti della regione Puglia ha raccontato numerosi casi di studenti utilizzati per pulire bagni e tavoli in ristoranti, attaccare locandine, volantinare per dodici ore consecutive. Nessuna traccia di formazione, ma solo sfruttamento.
Allontanandosi dal caso di McDonald's e tornando alla polemica su Autogrill, azienda che offre un progetto formativo molto simile a quello del colosso americano di fast food, i dubbi sollevati rimangono i medesimi: i tirocini offerti dal gruppo sono veri tirocini o una maniera per ottenere bassa manovalanza a costo zero e cercare di abbassare il monte-orario dei dipendenti regolarmente assunti, come sostenuto dalla cassiera protagonista del post? Il ministero della Pubblica Istruzione vigila sul rispetto della normativa e sul regolare svolgimento di questi tirocini obbligatori?
Alternanza scuola lavoro, in Puglia il provveditorato indaga sugli studenti sfruttati nelle aziende. La denuncia: ragazzi costretti a spillare birra a Bari, la notte di Capodanno, in una festa alla Fiera del Levante. Studenti usati per lavare i bagni, nel posto in cui dovrebbero imparare il mestiere di cuoco e cameriere, scrive Silvia Dipinto il 29 marzo 2017 su "La Repubblica". Un'indagine per verificare le anomalie. E un incontro con i ragazzi per raccogliere le testimonianze delle esperienze in azienda. Alla direttrice dell'Ufficio scolastico regionale, Anna Cammalleri, non passa inosservato l'allarme dell'Unione degli studenti, che dalle pagine di Repubblica ha denunciato le cattive pratiche dell'alternanza scuola lavoro in Puglia. Un caso su tutti: quello di Nadia, che da un istituto alberghiero di Bari è finita a lavare i bagni e fare volantinaggio per 12 ore (senza pausa). E mentre l'Ufficio scolastico vuole vederci chiaro, a Taranto scoppia la polemica sull'istituto industriale Pacinotti. "Studenti mandati a fare alternanza nell'Ilva, la fabbrica dei tumori", scrive in una nota il sindacato studentesco, che dopo Pasqua presenterà il report dettagliato su tutte le irregolarità segnalate dai ragazzi. Ragazzi costretti a spillare birra a Bari, la notte di Capodanno, in una festa alla Fiera del Levante. Studenti usati per lavare i bagni, nel posto in cui dovrebbero imparare il mestiere di cuoco e cameriere. E - ultima denuncia - ragazzi del liceo artistico di Taranto spediti a "scartavetrare le barche della Lega navale - come racconta il coordinatore Uds del capoluogo ionico, Michael Tortorella - mentre noi ci chiediamo cosa c'entri questa manovalanza gratuita con la passione verso l'arte". A raccogliere le storie degli adolescenti pugliesi in alternanza ci prova da un mese l'Uds Puglia, che ha distribuito questionari in 50 scuole e promosso una mobilitazione che ora è diventata nazionale. Lo slogan scelto dall'associazione parafrasa i versi del rapper Bello Figo, per ribadire la volontà degli studenti "di non fare operaio". L'elenco delle stranezze non lascia indifferente la direttrice generale del provveditorato pugliese, Anna Cammalleri, che promette approfondimenti immediati. "Chiamarla ispezione è prematuro - spiega Cammalleri, a Roma proprio per discutere di alternanza - ma ho intenzione di incontrare gli studenti perché voglio vederci chiaro e capire cosa sia successo". La direttrice non è nuova a questo tipo di indagini: nei mesi più volte ha convocato dirigenti e professori per confrontarsi sulla qualità dei percorsi di formazione in azienda, obbligatori dallo scorso anno per 400 ore nei professionali e 200 nei licei nell'ultimo triennio. Contro lo sfruttamento l'Uds ha lanciato la campagna “Diritti non piegàti”, che si concluderà il prossimo 9 maggio con una mobilitazione di piazza. Dura è la presa di posizione contro lo stabilimento siderurgico, che "ha rovinato le prossime tre generazioni - la nota del sindacato - ecco perché chi inquina, chi distrugge deve essere condannato dal mondo dei saperi e non aiutato". Stupito dalle polemiche, il preside del Pacinotti, Vito Giuseppe Leopardo. "L'Ilva è uno dei più grandi stabilimenti d'Europa, in cui i nostri ragazzi sono accolti per fare visite guidate, come previsto dalla legge - precisa il dirigente - Abbiamo chiesto noi di potere fare questa esperienza, perché gli studenti guardino da vicino come funziona lo stabilimento, cosa è stato fatto per ridurre l'impatto ambientale e cosa resta ancora da fare. E magari diventino loro stessi cittadini partecipi e sentinelle del cambiamento". Ai dirigenti d'altronde viene chiesto di fare di necessità, virtù. "Non possiamo scegliere sulla base delle opinioni - insiste Leopardo - ma dobbiamo cogliere le opportunità che il nostro tessuto produttivo ci offre: l'Ilva è una realtà utile da conoscere per chi si specializza in informatica, chimica ed elettronica".
Scuola-lavoro, anche al Nord l’opportunità diventa sfruttamento: Accoglienza turisti? Pulire bagni in hotel. Dopo le denunce degli studenti meridionali, anche dal resto d'Italia arrivano testimonianze di disservizi. A questi, poi, vanno aggiunti problemi seri con i fondi pubblici messi a disposizione per il progetto: sono insufficienti e così non tutti gli istituti riescono a garantire rimborsi spesa per i viaggi o per i costi medici degli stage dei ragazzi. Che, sempre più spesso, sono costretti a vivere esperienze controproducenti, scrive Alex Corlazzoli il 20 marzo 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Un’alternanza scuola-lavoro giusta, senza sfruttamento, senza spese per le famiglie, capace di offrire un’opportunità e non un senso di frustrazione: così dovrebbe essere, ma la realtà è ben diversa. E dopo la denuncia degli studenti pugliesi, ora anche al Nord vengono a galla storie di ragazzi messi a fare fotocopie per settimane in hotel o costretti a fare pulizie e cocktail al posto di imparare un mestiere. Studenti del ricco e produttivo Settentrione che si devono cercare da soli l’azienda dove svolgere l’esperienza prevista dalla Legge 107, la cosiddetta “Buona Scuola”, perché gli istituti non riescono a trovare per tutti un posto coerente al corso di studi di ognuno. Storie di presidi che devono provvedere ad acquistare scarpe anti-infortunistiche e caschetti protettivi oltre a pagare le visite mediche richieste dalle aziende e trovare qualche soldo per riconoscere agli insegnanti tutor il lavoro fatto in giro per il territorio a visitare realtà industriali o enti. E ora la Rete degli Studenti Medi, che raggruppa le associazioni delle scuole superiori attive in ogni città italiana, ha lanciato, sulla piattaforma un questionario per monitorare l’alternanza scuola-lavoro e un numero verde, 800 194 952, a cui possono rivolgersi gli studenti. Edoardo Roncon, al quarto anno di un istituto alberghiero di Pavia, referente degli Studenti medi della sua città e rappresentante d’istituto è tra coloro che hanno lavorato alla piattaforma perché ha compreso sulla sua pelle le difficoltà di questo percorso: “Sono stato in un hotel a Milano dove mi sarei dovuto occupare dell’accoglienza, delle chiamate in coerenza con il mio indirizzo di studi ma l’unica cosa che ho fatto per tre settimane sono state fotocopie. Lavoravo sei ore al giorno per cinque giorni la settimana come è previsto. Non mi hanno mai lasciato usare il sistema per l’accettazione degli ospiti, non ho potuto parlare l’inglese con i clienti. Se all’esame di Stato mi chiederanno cosa ho fatto durante lo stage, risponderò: le fotocopie”. Edoardo ha fatto presente alla scuola com’è andata la sua esperienza e l’hotel in questione è finito nella lista nera dell’istituto. Ma non basta. Roncon solleva un altro problema senza puntare il dito sui docenti: “Spesso tocca a noi cercare delle realtà perché la scuola non trova le aziende e si affida alle conoscenze dei ragazzi. Altre volte i professori ti offrono delle esperienze che non soddisfano le proprie esigenze formative e non ti resta che far da te”. Lo sa bene Aleksandra del liceo artistico Volta di Pavia, che dopo un’esperienza negativa, lo scorso anno, a far disegni per i bambini all’interno di un museo ora sta cercando una possibilità che sia utile: “Ho parlato con il dirigente scolastico e il vice, con il tutor e i professori ma finora nulla. Mi hanno detto di provare a cercare qualcosa che mi piace ma non è facile. Loro fanno quello che possono, io pure: ci siamo trovati tra le mani una cosa che è difficile da organizzare”. Peggio è andata a Sabrina Congiu dell’alberghiero di Sannazaro de Burgondi, in provincia di Pavia: “Avrei dovuto occuparmi della reception in un hotel ma ho fatto tutt’altro: mi hanno messo a fare le pulizie, ho servito al ristorante, sono stata in sala bar. Tutte attività che non riguardano il mio indirizzo, accoglienza turistica. Lavoravo dalle 17 alle 23 con una breve pausa per cenare. Quando non c’era nulla da fare mi davano in mano la scopa: mi sono sentita una dipendente un po’ sfruttata. Quando sono tornata a scuola ho detto ai miei professori che non avevo imparato proprio nulla”. Sabrina denuncia anche i rapporti con la titolare dell’hotel: “Il tutor aziendale era una brava persona ma doveva seguire una ragazza in prova per lavoro e non aveva tempo per me. La proprietaria, invece, è arrivata al punto di prendermi a parole, se fossi stata una sua dipendente mi sarei licenziata”. A fare i conti con le difficoltà di scuola alternanza-lavoro sono anche i dirigenti scolastici che al Nord trovano le stesse difficoltà di quelli del Sud ad individuare le realtà ma anche a gestire tutta la burocrazia legata a questa attività. Roberta Mozzi è a capo dell’istituto tecnico e del liceo Torriani di Cremona, uno dei più grandi della città. Quest’anno ha dovuto trovare una società, un ente o un’azienda per circa 450 studenti. Una fatica anche a Cremona: “Cerchiamo di indirizzarli in luoghi che siano pertinenti al loro indirizzo di studi: i meccanici nella loro filiera così come gli elettronici, ma per gli informatici abbiamo trovato difficoltà anche nel cremonese. Un’impresa non prende una classe intera ma ne accoglie due, tre. Non solo. Ogni scuola è alla ricerca di aziende perciò diventa una guerra tra istituti. Stiamo parlando di 200 ore in un anno moltiplicate per migliaia di studenti che vanno sempre nelle stesse aziende. Certo esistono anche esperienze positive: abbiamo un progetto pilota con l’Associazione piccoli industriali che ha messo a disposizione un’azienda che li guiderà per tutto il percorso formativo facendosi carico anche delle spese di viaggio dei ragazzi”. I costi appunto. Al Torriani provano a rimborsare le spese di viaggio dei ragazzi ma non tutti lo fanno. Alla scuola, soprattutto se si tratta di un istituto tecnico che ha a che fare anche con mansioni a rischio, restano le spese per il medico competente perché sono poco le industrie che si assumono anche questo onere. “Le ditte meccaniche e chimiche – spiega la dirigente cremonese – oltre alla formazione sulla sicurezza base esigono ore di formazione per l’alto rischio che secondo la legge dovrebbe fare l’impresa, ma sono poche quelle che svolgono questo compito. Poi c’è l’assicurazione che spesso è a carico dei ragazzi. Infine, la scuola deve acquistare tutti i dispositivi per la sicurezza dal momento che non ci devono essere spese per le famiglie. Il fondo che ci è dato dal Miur dovrebbe andare in toto su questo capitolo ma dobbiamo anche riconoscere il lavoro degli insegnanti tutor che d’estate vanno a visitare le aziende con i propri mezzi senza ricevere alcun rimborso”. Non ultimo un lavoro per nulla riconosciuto: “Ogni ragazzo chiede un investimento di tempo dell’insegnante, della segreteria, del responsabile della sicurezza”. Tutto dovuto, secondo la Legge 107.
PARLIAMO DI RISCATTO IMPOSSIBILE.
In Italia è impossibile cambiare vita. Il riscatto dei più poveri è un miraggio. L’Italia è un paese dove i poveri restano poveri e i ricchi restano ricchi. Quella che tecnicamente si chiama «mobilità sociale» è più bassa che altrove. Risultava già da parecchie analisi; ma l’ultima, dovuta a un economista della Banca d’Italia, Andrea Neri, fa sospettare che questo difetto stia peggiorando. Nel confronto tra due decenni parzialmente sovrapposti «emerge una diminuzione nel livello di mobilità osservata». Dividendo le famiglie italiane in quattro classi di reddito, solo il 13% sono riuscite a passare alla classe superiore; l’11% sono precipitate indietro, l’87% delle famiglie che erano nella prima classe, la più povera, vi sono rimaste; e addirittura il 98% di chi era nella seconda non si è mosso. Lo scarso rimescolamento è avvenuto quasi tutto tra le due classi più alte. Lungo tutto il decennio tre quarti dei più poveri (prima classe) sono rimasti poveri, e tre quarti esatti dei più ricchi (quarta classe) sono rimasti ricchi. La scarsa mobilità sociale - effetto e causa insieme di un cattivo funzionamento dell’economia - compare spesso nelle analisi dei dirigenti della Banca. Uno degli strumenti principali per farsi avanti in una società moderna è lo studio. E’ normale che i laureati guadagnino più dei diplomati e questi più di chi ha solo fatto la scuola inferiore. Una stranezza del nostro paese, ha notato di recente il vicedirettore generale della Banca d’Italia Ignazio Visco, è che la sua struttura produttiva «assorbe laureati con fatica e li remunera peggio che in altri paesi».
C’è poco incentivo a studiare; inoltre la cattiva qualità media degli studi forse spinge le imprese, quando assumono, a guardare più alla famiglia di origine che ai voti. La speranza di salire nella scala sociale è un grande motore per l’economia. Un paese cresce meno dove contano solo la famiglia, le raccomandazioni, o la politica. Secondo uno studio recentissimo dell’Ilo, l’Ufficio internazionale del lavoro (branca dell’Onu) durante gli ultimi 15 anni le disuguaglianze tra ricchi e poveri nel nostro paese sono cresciute più che negli altri principali paesi d’Europa.
IL CAPORALATO.
Caporalato. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il caporalato, nell'accezione originaria del termine, era un sistema informale di organizzazione del lavoro agricolo temporaneo, svolto da braccianti inseriti in gruppi di lavoro (squadre) di dimensione variabile (da pochi individui a diverse centinaia). Questo si fondava sulla capacità del "caporale" di reperire la manodopera a basso costo, per le prestazioni agricole presso i proprietari terrieri e società agricole. Il caporale agisce come mediatore illegale di manodopera e gestore dei lavori secondo le richieste dell'imprenditore agricolo. Il caporale ingaggia per conto del proprietario i braccianti e stabilisce il loro compenso del quale tiene per sé una parte che gli viene corrisposta sia dal proprietario che dai braccianti reclutati. Dalla seconda metà del '900, con lo sviluppo del diritto del lavoro, la pratica del caporalato è progressivamente emersa come attività della criminalità organizzata volta all'elusione della disciplina sul lavoro, mirante allo sfruttamento illegale e a basso costo di manodopera agricola. I salari elargiti ai lavoratori ('giornate') sono notevolmente inferiori rispetto a quelli del tariffario regolamentare e spesso privi di versamento dei contributi previdenziali. Il caporalato è spesso collegato ad organizzazioni malavitose. Esso generalmente trova grande riscontro nelle fasce più deboli e disagiate della popolazione, ad esempio tra i lavoratori immigrati (come gli extracomunitari). Il fenomeno del caporalato si è ancor più diffuso con i recenti movimenti migratori provenienti dall'Africa, dalla Penisola Balcanica, dall'Europa orientale e dall'Asia: infatti chi emigra clandestinamente nella speranza di migliorare la propria condizione finisce facilmente nelle mani di queste persone, che li riducono in condizioni di schiavitù e dipendenza. Inchieste giornalistiche del 2015 mostrano che il fenomeno continua ad aver diffusione anche nei confronti di donne italiane durante le campagne di raccolta dell'uva e delle fragole. I media hanno riportato, in un caso tragico che ha fatto scalpore che l'azienda pagava regolarmente l'agenzia di lavoro interinale, mentre alla lavoratrice arrivava una retribuzione enormemente inferiore. Il fenomeno di intermediazione illegale è diffuso in tutta la penisola, compresa l'Italia settentrionale, ogni anno infatti a Milano con l'avvicinarsi del Salone del Mobile, Rho diventa la maggior piazza del caporalato in città. Lo sfruttamento della manodopera a basso costo in agricoltura è prassi diffusa non solo nelle regioni del Sud, ma anche in Toscana, Emilia-Romagna, Piemonte, Lombardia. Il caporalato è apparso nelle cronache giornalistiche nel maggio del 1980: tre ragazze di Ceglie Messapica in Puglia persero la vita in un autobus dei caporali. Il 17 luglio alcuni caporali tentano di investire dei lavoratori e dei sindacalisti di Villa Castelli durante una manifestazione contro il fenomeno, dopo aver rivolto nei loro confronti ripetute minacce di morte. Il 21 luglio sempre a Villa Castelli otto caporali armati di pistola aggredirono i sindacalisti della CGIL e assaltarono la sede locale del sindacato. Nel 1982 un caporale prima di suicidarsi piazzò 11 ordigni a Villa Castelli nei pressi delle residenze esponenti del movimento anti-caporalato. Il fenomeno non fu sradicato interamente e il 5 giugno 2011 nell'ambito dell'operazione Little Castle dalla Guardia di Finanza sono sequestrati beni per un totale di un milione e mezzo di euro. Nel gennaio 2010 i lavoratori extracomunitari di Rosarno in Calabria organizzarono una serie di manifestazioni contro i caporali, la tensione sfociò in una escalation di violenza tra braccianti e abitanti del piccolo centro calabrese. Il 26 aprile 2010 furono arrestati a Rosarno 30 caporali, i quali sfruttavano lavoratori extracomunitari costretti a lavorare in condizioni disumane nei campi, raccogliendo agrumi coltivati nel rosarnese, con turni di lavoro pari a 15 ore al giorno. L'inchiesta consentì inoltre di fare luce su un sistema di truffe perpetrate ai danni degli enti previdenziali. Sul piano patrimoniale, sono stati sequestrati duecento terreni e venti aziende agricole per un valore complessivo di 10 milioni di euro.
L'art. 12 del D.L. 13 agosto 2011, n. 138, convertito con modificazioni dalla legge 14 settembre 2011, n. 148 ha introdotto nel codice penale italiano il nuovo reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. Le pene previste per i cosiddetti "caporali" sono la reclusione da cinque a otto anni e una multa da 1.000 a 2.000 € per ogni lavoratore coinvolto. Il governo ha annunciato il ricorso a strumenti normativi per punire gravemente, fino alla confisca dei beni, le aziende che utilizzano manodopera tramite il caporalato, mentre sui media si è sottolineato che il problema risiede principalmente nell'intermediazione, mascherata da forme solo in apparenza con una rispettabilità legale (false cooperative, filiali inquinate di agenzie di lavoro interinale). Il 18 ottobre 2016 la Camera approva il disegno di legge per il contrasto al caporalato e al lavoro nero.
"Il caporalato è la nostra fortuna!". L’affermazione shock dell’imprenditore pugliese, scrive il 05/04/2017 La7.it. "I caporali sono come le agenzie interinali ma più efficienti e puntuali di quelle legali" la testimonianza raccolta nelle campagne pugliesi su un fenomeno che è funzionale per gli imprenditori agricoli, in protesta a Bari contro la legge anticaporalato divenuta necessaria dopo la morte per fatica della bracciante Paola Clemente (video di Danilo Lupo con Nicola Corrado).
Lavoro: Grillo, stop caporalato agenzie interinali, scrive l'8 Marzo 2015 Libero Quotidiano. "Non abbiamo bisogno di agenzie interinali, sono caporalato, questo sono. Si prendevano anche il 40 o il 50% degli stipendi, lo so per certo". Lo dice Beppe Grillo intervenendo in conferenza stampa al Senato.
"Agenzie di somministrazione lavoro fanno caporalato". Così ha detto il Ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico, Luigi Di Maio, durante il discorso per la chiusura della campagna elettorale per le comunali ad Avellino il 22 giugno 2018.
Caporalato, bracciante morì dopo ore di lavoro sotto tendone rovente: sei arresti in Puglia. “30 euro per 12 ore nei campi”. Le sei persone raggiunte dall'ordinanza di custodia in carceri sono accusate di reati riconducibili al fenomeno del caporalato. I provvedimenti sono stati emessi dalla Procura di Trani in un filone di indagine aperto dopo la morte di Paola Clemente, avvenuta nelle campagne di Andria il 13 luglio 2015. Una bracciante racconta: "Accettiamo perché il lavoro qui non c'è e perderlo è una tragedia", scrive "Il Fatto Quotidiano" il 23 febbraio 2017. Sei persone sono finite in manette ad Andria con l’accusa di aver commesso reati riconducibili al fenomeno del caporalato. I provvedimenti sono un effetto delle indagini avviate dalla Procura di Trani all’indomani della morte della bracciante Paola Clemente. Il 13 luglio 2015 la donna, 49enne di San Giorgio Jonico (Taranto), fu colpita da un malore dopo due ore di lavoro sotto un tendone rovente. Stava compiendo l’acinellatura dell’uva, un’operazione che consiste nel togliere i chicchi più piccoli dai grappoli. La bracciante accusava dolori al collo già da un paio di giorni, ma non ci diede molta importanza. Dopo le denunce del marito sulle condizioni di lavoro, fu aperta un’inchiesta. Ad uccidere Paola Clemente fu la sua cardiopatia. L’autopsia e gli esami tossicologici, eseguiti rispettivamente dal medico legale Alessandro Dell’Erba e dal tossicologo Roberto Gagliano Candela, svelarono che la donna era affetta da una “sindrome coronarica acuta in paziente affetta da riferita ipertensione (in trattamento) e da riferita familiarità per cardiopatia”. Ma gli arresti di questi giorni scaturiscono dal filone di indagine sulle agenzie interinali, che assumono le braccianti per conto delle aziende. Il marito riferì, anche pubblicamente e ai giornalisti, del misero guadagno della moglie, pochi euro l’ora, per molte ore di lavoro al giorno. Le braccianti sfruttate nei campi – secondo la Procura di Trani – percepivano ogni giorno 30 euro per essere al servizio dei ‘caporali’ per 12 ore: dalle 3.30 del mattino, quando si ritrovavano per percorrere in furgone 300 chilometri ed essere portate nei campi, fino alle 15.30, quando ritornavano a casa dopo essere state al lavoro tra Taranto, Brindisi e Andria. Il loro compenso, in base ai contratti di lavori, avrebbe dovuto essere di 86 euro, circa tre volte di più. Ovviamente nelle buste paga non solo non venivano calcolati – secondo le indagini della Guardia di Finanza e della Polizia – tutte le giornate di lavoro effettive, ma neppure gli straordinari. In soli tre mesi l’agenzia interinale che aveva reclutato le braccianti ha così evaso 48mila euro di contributi. Il provvedimento restrittivo, disposto dal giudice per le indagini preliminari del tribunale di Trani Angela Schiralli, su richiesta della Procura, è l’epilogo di una inchiesta che ha permesso di accertare come un’apparente e lecita fornitura di braccianti agricoli mediante agenzie di lavoro interinali mascherasse, in realtà, una vera e propria forma di moderno ‘caporalato’. Non è stato semplice superare “il muro di omertà frapposto dalla grandissima maggioranza delle braccianti agricole”, raccontano gli inquirenti, e ricostruire così “la morsa in cui era intrappolata anche Paola Clemente”, definita “una vittima di tale meccanismo”. Omertà che secondo la Procura è rafforzata dalla realtà socio-economica tarantina in cui vivevano le braccianti vittime dei caporali, come emerge dalla confessione di una di loro. Una volta sul pullman, nel momento in cui venivano distribuite le buste paga, “alcune donne – dice a verbale la testimone – si sono lamentate dei giorni mancanti, G. ha detto che noi lo sapevamo, quindi, non dovevamo lamentarci. Nessuna ha più parlato, anche perché si ha paura di perdere il lavoro, anche io adesso ho paura di perdere il lavoro e di essere chiamata infame. Ho un mutuo da pagare, mio marito lavora da poco, mentre prima stava in Cassa integrazione. Dovete capire che il lavoro qui non c’è e perderlo è una tragedia. Quindi, se molte di noi hanno paura di parlare è comprensibile”. “Il caporalato è sempre esistito, ci sono forme nuove che sono quelle delle agenzie interinali che si sono sostituite ai caporali”, spiega il segretario generale della Cgil provinciale, Giuseppe De Leonardi. “Il caporalato – aggiunge – è fortemente presente e si alimenta di un sistema in cui non c’è alcun incontro tra domanda e offerta di lavoro e, quindi, i lavoratori sono vittime e obbligati, perché se vogliono lavorare devono accettare condizioni di ricatto”. “Se la gente per lavorare – conclude – deve ricorrere al caporale è chiaro che non ha fiducia nello Stato. La legislazione negli ultimi anni è sempre stata permissiva, ha legittimato questi strumenti”.
Siamo uomini o caporali?, scrive RK Montanari il 7 agosto 2018 su "Lavocedelpatriota.it". La Legge 29 ottobre 2016, n.199, ribattezzata “Legge contro il caporalato” recita: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da 500 a 1.000 euro per ciascun lavoratore reclutato, chiunque:
1) recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori;
2) utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione di cui al numero 1), sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno. Se i fatti sono commessi mediante violenza o minaccia, si applica la pena della reclusione da cinque a otto anni e la multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato. Ecc. ecc.
Dunque la legge esiste e, scorrendola tutta cosa che qui non possiamo fare, si può affermare che sia esaustiva. Purtroppo, però, come avviene il più delle volte in Italia, è disattesa, applicata infatti solo raramente e non sembra proprio che dalla sua approvazione le condizioni di chi è soggetto al caporalato o comunque a lavori che assomigliano molto alla schiavitù, ne abbia tratto vero beneficio. Andiamo però con ordine e vediamo tutto dal principio. Per quei pochi che non lo sapessero, cominciamo col dire che il caporalato è quell’indegno fenomeno di sfruttamento della manodopera a basso o bassissimo consto, molto diffuso nei settori dell’agricoltura e dell’edilizia. A organizzarlo ci vuole poco. Il “caporale”, che di solito è persona vicina a ambienti delinquenziali, mafiosi in alcune regioni, è munito un fatiscente mezzo di trasporto in cui stipa lavoratori che raccoglie per la strada, e che poi conduce a faticare presso campi o cantieri per cifre ridicole, con orari lunghissimi, senza che vi siano garanzie di sorta. Per entrare nel merito con un esempio chiarificatore, nei grandi campi pugliesi e campani dove si raccolgono i pomodori, un lavoratore “schiavo” viene pagato a “cassone”, cioè a contenitore da 4,5 quintali, 4€ e 50 centesimi. Su ogni cassone, il caporale prende a sua volta 0,50 centesimi oltre a 5 € di base che prende per trasportare il lavoratore al posto di lavoro. In questo modo, il suddetto lavoratore riesce al massimo a guadagnare 30€ per 12 ore di lavoro, mentre un’azienda in regola dovrebbe corrispondere a un lavoratore con questo rendimento 54€ per 7 ore di lavoro, più eventuali straordinari per le ore in eccedenza. Il caporale, per suo conto, invece può guadagnare cifre notevolissime, tutto sta nel numero di poveretti che gestisce. Occorre aggiungere altro? Sì, perché c’è davvero molto altro da dire, non ultimo infatti che leggi o non leggi a protezione del lavoro, i caporali si rivolgono per lo più a gente disperata, il 90% delle volte a extracomunitari privi di documenti, permessi di soggiorno e permessi di lavoro. In queste condizioni, secondo voi, ce ne sta anche soltanto uno pronto a rivolgersi alle forze dell’ordine per far valere diritti che non ha? Ed ecco che su tutto ciò si innescano gli ampi interessi della malavita, non solo locale, ma anche d’importazione. Toglietevi infatti dalla testa che gli attuali caporali siano tutti come quelli di un tempo, mafiosi di basso lignaggio, camorristi, ndranghetisti o simili. Oggi abbiamo caporali di tutte le nazionalità presenti sul territorio, nigeriani, senegalesi, ivoriani, magrebini fino a rumeni e bulgari se vogliamo ricercarli anche tra i cittadini europei. Ed ecco che appare chiaro perché tanta gente è pronta a strapparsi vesti e capelli per fare in modo che l’invasione di immigrati clandestini senza né arte né parte continui senza soluzione di continuità: in troppi ci guadagnano sopra. Attenzione, però, non tutte le azienda agricole, ad esempio, sono gestite da infami che vogliono far quattrini sulla pelle dei poveri disgraziati. E qui facciamo un passo indietro e andiamo a guardare il “meraviglioso mondo del globalismo”, prima e della UE dopo. A forza di penalizzare i nostri agricoltori, per moltissimi di loro è diventato praticamente impossibile contendere il mercato a merce di qualità ampiamente più scadente ma prodotta a prezzi decisamente più contenuti, che poi la grossa distribuzione provvede con gran battage pubblicitario di offerte e offertone a far arrivare nelle nostre case. Così, perché mangiare gli splendidi tarocchi di Sicilia, coltivati senza pesticidi, curati con amore da maestranze pagate regolarmente quando non arrivano nemmeno nei supermercati o se ci arrivano costano mediamente il 40% degli agrumi coltivati in Marocco a botte di pesticidi per tenere i campi al sicuro? Perciò, ecco che alla fine tanti onesti agricoltori italiani si sono trovati costretti a contenere il più possibile i costi solo per non dover bruciare i campi e distruggere il coltivato come accaduto tante volte. Risultato: qualità inferiori coltivate perché magari più resistenti delle varietà pregiate, uso dei pesticidi anche da noi, ricorso al caporalato per abbassare i costi del lavoro, nascita di bidonville come quella di Rosarno, dove migliaia di uomini vivono in situazione di tale degrado difficili anche da descrivere, quando in realtà dovrebbe essere il datore di lavoro a fornire di vitto e alloggio gli stagionali. E badate, noi abbiamo fatto l’esempio delle arance, ma sono decine e decine i nostri prodotti d’eccellenza che stanno scadendo, e che non riusciamo più a produrre per via di accordi suicidi portati avanti negli anni da governi di anti-italiani, in combutta con governi stranieri. Grazie anche a quella che chiamano Europa Unita…
Siamo uomini o caporali? Scrive l'1 novembre 2017 Sara Riboldi su "Informazionesenzafiltro.it". Viaggio nel caporalato moderno con intervista esclusiva a Leonardo Palmisano, scrittore e Presidente della Cooperativa Radici Future. Padri o padroni? Ma forse sarebbe più corretto chiedersi, ricordando un celebre discorso di Totò, uomini o caporali? Perché quando si parla di caporalato si entra in un mondo oscuro, fatto spesso di truffe e condizioni disumane. “I caporali sono coloro che sfruttano, che tiranneggiano, che maltrattano, che umiliano – diceva Totò – questi esseri invasati dalla loro bramosia di guadagno li troviamo sempre a galla. Caporale si nasce non si diventa; a qualunque ceto essi appartengano, di qualunque nazione essi siano hanno tutti la stessa faccia, le stesse espressioni, gli stessi modi, pensano tutti alla stessa maniera”. Di tipi di caporali ce ne sono tanti, arrivano a guadagnare cifre mensili astronomiche sulla pelle dei braccianti che gestiscono; ma bisogna tenere presente che il caporale c’è perché un imprenditore lo ingaggia. “E lo ingaggia – scrivono gli autori del terzo rapporto Agromafie e caporalato (a cura dell’Osservatorio Placido Rizzotto) poiché l’incontro della domanda e dell’offerta nei diversi contesti territoriali non avviene pubblicamente, all’interno di un collocamento trasparente e controllabile”. Centri per l’impiego e agenzie interinali non sono spesso in grado di soddisfare al meglio la domanda di lavoro proveniente dall’agroalimentare nei periodi di raccolta e si ricorre quindi al caporale. Ma si ricorre al caporale anche per avere, da parte dell’imprenditore che si rivolge ai caporali, un costo del lavoro minore. Non solo. Spesso c’è anche la mano della criminalità organizzata.
Il caporalato moderno, tra padroni e speranze. Il dato comune è uno: il caporalato moderno fa leva sulle speranze di una vita migliore e sulla necessità di avere un lavoro per potersi mantenere. Ecco allora che i caporali – quelli al grado più altro della gerarchia – diventano spesso veri e propri padroni della vita di altri: decidono chi far lavorare, per quanto tempo, con quale retribuzione, imponendosi sulla loro fragilità. “La privatizzazione della mediazione sul mercato del lavoro ha svuotato il senso alla ricerca di lavoro come fatto sociale”, spiega Leonardo Palmisano – scrittore e presidente della Cooperativa Radici Future, autore di molte inchieste sul tema caporalato – rispondendo alle nostre domande. “Ci si accredita presso un caporale o un’agenzia – spesso le cose coincidono – e si dipende da questo rapporto personale. Questo priva di valore i contratti e aumenta il potere ricattatorio dei soggetti privati”. E allora, per impedire i ricatti e il controllo dei caporali padroni, cosa si può fare? “Il ritorno al collocamento pubblico può essere una soluzione. Del resto, quando c’era e funzionava i braccianti erano più tutelati. L’altra soluzione è aumentare i contratti a tempo indeterminato in agricoltura, che sono pochissimi”.
Viaggio tra le operazioni contro il caporalato. Il fenomeno del caporalato è ancora purtroppo ben presente. Sono tanti, troppi, i fatti di cronaca che irrompono nella realtà quotidiana lasciando intravedere un’altra realtà, sommersa, che si riesce a percepire come se si guardasse da un buco della serratura. Proprio ai giorni scorsi risale l’arresto di due fratelli in provincia di Cosenza con l’accusa di sfruttamento del lavoro e intermediazione illecita aggravati dalla discriminazione razziale. Secondo le indagini, infatti, i bianchi avrebbero ricevuto una paga più alta rispetto ai neri. Secondo anche quanto riportato dai principali organi di stampa, le condizioni dei lavoratori erano disumane, sotto la morsa della sorveglianza dei due fratelli, i lavoratori in nero erano costretti a mangiare a terra e a vivere in baracche. Ma basta tornare allo scorso luglio, quando la Corte d’Assise di Lecce ha chiuso il primo grado del processo Sabr, che ha visto la condanna di imprenditori e caporali per aver sfruttato e ridotto in schiavitù migranti impegnati nella raccolta di angurie nelle campagne attorno a Nardò. L’inchiesta è partita dopo la rivolta dei braccianti stranieri della masseria Boncuri, guidati da Yvan Sagnet. Condizioni di lavoro disumane, 12 ore di lavoro al giorno sotto il caldo, per una retribuzione tra i 20 e i 25 euro al giorno, 30 per i più ‘fortunati’, controllati da una struttura gerarchica dei caporali, che si trattenevano tra l’atro parte del salario. Sempre dello scorso luglio è l’operazione della Polizia di Stato contro il caporalato denominata ‘Alto impatto – Freedom’, che aveva visto impegnate le Squadre Mobili di Agrigento, Forlì – Cesena, Latina, Lecce, Matera, Ragusa, Salerno, Siracusa, Taranto, Verona e Vibo Valentia, coordinate dal Servizio Centrale Operativo della Direzione Centrale Anticrimine. Erano state identificate 632 persone e controllate una cinquantina di aziende, arrivando a scoprire l’inosservanza delle norme di contribuzione e di sicurezza, oltre a casi di caporalato. In provincia di Ragusa, per esempio, alcuni braccianti venivano retribuiti con 30 euro al giorno lavorando per dodici ore giornaliere; in provincia di Latina i braccianti venivano costretti a vivere in container metallici dalle pessime condizioni igieniche. Questi sono solo alcuni esempi a fronte di casi che stanno diventando sempre di più un triste ordine del giorno.
Le condizioni di lavoro dei braccianti. Il quadro denunciato dai sindacati è agghiacciante: un lavoro nei campi che dura tutto il giorno, sebbene in alcuni casi – per esempio a Nardò – sia in vigore l’ordinanza anti caldo che vieta di lavorare nei campi negli orari più caldi (a Nardò l’ordinanza è uscita indenne dai vari ricorsi sulla legittimità presentati dalle imprese agricole); una retribuzione che prevede pochi euro all’ora o che addirittura è a cottimo o a cassone riempito; viaggi estenuanti per raggiungere i campi o abitare in provvisorie tendopoli allestite per le raccolte o in casolari fatiscenti. Il problema della presenza dei ghetti non è da sottovalutare: “Il ghetto è un fenomeno sociale determinato dal settore produttivo – spiega Palmisano – Si risolve soltanto con un sistema di accoglienza costruito da imprese, sindacati e enti locali. Non con gli sgomberi, che producono altri ghetti in altri territori. In Spagna ci sono riusciti, in Italia si preferisce non ammettere l’esistenza del fenomeno”. I vari sindacati sono impegnati nella lotta sul campo: da una parte cercano di far prendere coscienza ai braccianti dei loro diritti e dall’altro sono impegnati in costante dialogo con le istituzioni per rivendicare qualcosa che già dovrebbe essere un diritto: la dignità.
I dati. Basta guardare i dati resi disponibili dall’Ispettorato nazionale del lavoro per farsi un’idea delle condizioni dei braccianti in agricoltura. In Italia dal 1 gennaio al 30 giugno 2017 nel settore agricoltura, silvicoltura e pesca, sono state accertate violazioni a 2.217 lavoratori, di cui 78 extra comunitari clandestini. Sono 1.472 i casi di lavoro nero, 234 i fenomeni interpositori di esternalizzazioni fittizie usate per aggirare la normativa in materia di lavoro; 134 gli illeciti individuati in materia di lavoro, 218 le violazioni in merito alla salute e sicurezza lavorativa. E il fenomeno dello sfruttamento nei campi e del caporalato spazia da Nord al Sud dell’Italia: “Al Nord il fenomeno è meno evidente – spiega Palmisano rispondendo a una domanda sulle differenze del fenomeno tra Nord e Sud – perché si ha difficoltà a riconoscere la presenza di fenomenologie criminali e mafiose. Differenze enormi non ci sono, salvo che per i ghetti, tipici del centro Sud”.
Ma chi è il caporale? Il fenomeno del caporalato solo recentemente è stato riconosciuto come reato, prima con l’art. 12 del Ddl. n.138 del 13 agosto 2011 – che ha introdotto l’art. 603 bis nel codice penale, il quale prevede il delitto di “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro” – e poi con la legge n.199 del 2016, che riconosce la responsabilità anche al datore di lavoro e che – fra le altre cose – prevede l’istituzione della Rete del lavoro agricolo di qualità, l’organismo nato per rafforzare il contrasto ai fenomeni di irregolarità a cui possono accedere tutte le imprese che ne fanno richiesta e che corrispondono a determinati requisiti. Ma, rispetto alla seconda metà del ‘900, la figura del caporale cambia radicalmente e non in meglio. Secondo le testimonianze raccolte nella tesi di laurea – disponibile on line – ‘Braccianti e caporali, ieri e oggi. Caporalato e lotte bracciantili nella Sicilia Sud orientale nella seconda metà del ‘900’, di Rosario Lupo, il caporale fino alla seconda metà del ‘900 era un bracciante che lavorava insieme agli altri e che grazie alla sua esperienza aveva un rapporto privilegiato con il proprietario o il mezzadro. Il caporale di allora – secondo quanto documentato – poteva guadagnare qualcosa in più rispetto agli altri, che dovevano imitarlo nei lavori. Ora, invece, i caporali sono passati da figura intermediaria dei padroni a essere padroni loro stessi. “Il passaggio è cruciale – spiega Leonardo Palmisano – perché rivela la grande debolezza culturale e morale del sistema agricolo italiano. I caporali diventano fornitori di servizi, dal trasporto alla mediazione sulle pratiche, tanto che le imprese – impigrite da un certo parassitismo, perché dipendono da fondi pubblici europei – si affidano a loro praticamente per tutto quello che serve. Le mafie investono in agricoltura, finanziano gli agricoltori, dunque collaborano con le imprese e i caporali. In territori come la Capitanata e la provincia di Bari e Brindisi questo è evidente”. Non è questa la sede per parlare di criminalità organizzata ma è interessante notare le varie figure del caporalato moderno.
I caporali moderni, tra controllo e profitto. I caporali, in generale, sono figure di intermediazione tra la proprietà agricola e i braccianti lavoratori. Quando si pensa a un caporale nel senso stretto del termine, viene in mente una figura che controlla la gestione della vita quotidiana dei lavoratori (soprattutto stranieri ma anche italiani): ne gestiscono gli spostamenti, l’alloggio, la paga e i contatti sociali. Il controllo sul bracciante che lavora è pressoché totale. Alcuni sottopongono i lavoratori a veri e propri ricatti e si fanno pagare per il servizio di intermediazione o per quello di trasporto, qualcuno vende anche generi di prima necessità a un prezzo più alto. Di solito c’è una gerarchia precisa: il capo vero e proprio, il vice, i caporali intermedi, magari che lavorano con la squadra e il caporale che si occupa del trasporto. Il guadagno dei caporali varia in base a vari fattori, il posto nella gerarchia – per esempio – o il numero di braccianti che gestisce e controlla. “Un caporale con una squadra di 50 braccianti – specifica Palmisano – arriva a toccare una cifra quotidiana che si aggira attorno ai cinquecento euro. Per una stagione di sei, sette mesi, è una cifra enorme, che spiega il loro arricchimento e conseguente investimento nella terra, che ora costa molto poco”. Poi ci sono i caporali stranieri, magari diventati tali dopo una condizione di bracciante. Il motivo per cui si trova anche questa figura è da ricercare in vari fattori: “Un rapporto linguistico, innanzitutto, tra stranieri. Poi di fiducia tra padrone e caporale. Il caporale assicura che la raccolta avvenga in tempo adeguato. Il padrone è contento e si disinteressa delle condizioni di lavoro e di vita dei braccianti”. Ma fra le nuove forme di caporali ci sono anche i tour operator fittizi: coloro che formalmente sono trasportatori ma che nella realtà trasportano solo braccianti, per lo più in pulmini stracarichi.
La maschera della legalità e il caso di Paola Clemente. Le nuove figure di caporalato però mettono in atto i meccanismi più svariati, spesso dietro una parvenza di legalità che però è solo una maschera, dando vita al fenomeno del cosiddetto ‘lavoro grigio’, cioè quando il lavoratore è formalmente assunto in modo regolare ma in realtà i contratti non sono rispettati. Questo è purtroppo un fenomeno in crescita e ben spiegato nel rapporto “Agromafie e caporalato”. Ci sono per esempio in alcune aree le cooperative fittizie, quelle che di mutualistico hanno ben poco e che spesso sono gestite da una sorta di caporalato collettivo. L’imprenditore si rivolge loro pagandole di solito una cifra minore rispetto a quella che pagherebbe se ingaggiasse i braccianti in modo diretto. In questo quadro compaiono anche le agenzie interinali (non tutte, sia chiaro) che entrano in un giro dove tutto sembra lecito ma ben poco lo è e che campa sulla pelle dei braccianti, indipendentemente dalla nazionalità.
Come non richiamare alla mente il caso di Paola Clemente, morta nei campi di Andria (Bari) il 13 luglio 2015? Risalgono al febbraio scorso i sei arresti eseguiti dalla Compagnia della Guardia di Finanza di Trani e dal Commissariato della Polizia di Stato di Andria a seguito delle indagini avviate dopo il decesso della bracciante e che hanno smascherato una moderna forma di caporalato dietro un’apparente e lecita fornitura di braccianti agricoli a mezzo di agenzie di lavoro interinali. Paola Clemente allora è divenuta la vittima eroina di un meccanismo venuto alla luce dopo la sua morte: un sistema di sotto pagamento basato su un riconoscimento di minori giornate lavorate, senza le indennità previste dalla legge. Secondo le indagini, ai braccianti sarebbe spettata una retribuzione giornaliera di 86 euro mentre sarebbe stata loro corrisposta una paga di circa 30 euro. Sulla vicenda ancora non sono stati resi noti gli sviluppi: i sindacati attendono il processo. Ecco allora la maschera della legalità nei contratti: il riconoscimento di un numero di giornate lavorative inferiore rispetto a quelle effettivamente lavorate, le differenze tra l’ammontare della busta paga che il lavoratore firma (prima) e la cifra reale che percepisce (meccanismo questo che porta in sostanza a far pagare i contributi di fatto al lavoratore stesso) o l’occupazione in più aziende in modo che si possano gestire facilmente le giornate lavorative da riconoscere al bracciante. Senza contare la condizione delle donne, che in genere ricevono un salario ancora più basso rispetto a quello degli uomini e che spesso sono ricattate a livello sessuale.
Il caporale pentito. Il mondo dei caporali è ben spiegato da un caporale pentito (non fa più il caporale dal 2015) la cui storia è inserita proprio come testimonianza diretta nel rapporto agromafie. L’uomo è arrivato in Italia nel 2009, ha la patente e ha fatto le superiori. In Italia all’inizio ha lavorato come bracciante e dopo un anno un caporale gli ha chiesto di aiutarlo. “Io appartengo al gruppo di caporali lavoratori – spiega il caporale pentito nel rapporto – nel senso che stiamo con la squadra, ma ci sono caporali che trasportano solo le persone e poi svolgono altre attività illegali. Questo è il motivo che mi ha spinto a uscire dal giro (…). Vendono anche droghe, portano a prostituirsi le donne, hanno rapporti con la criminalità locale (…) e chiedono soldi ai lavoratori dicendo che non lavoreranno più se non accettano le loro condizioni”. E ancora: “Quando il capo è un italiano vuol dire che è davvero un boss, poiché gestisce anche 10/15 furgoni (…) Di questi boss tutti hanno paura (…) caporali che truffano i braccianti non sono rari, così come non sono rari gli imprenditori che promettono una cifra e poi non la rispettano”.
La Commissione parlamentare d’inchiesta: “Taluni imprenditori agricoli preferiscono l’illecito”. Anche il tema del caporalato è oggetto della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, con particolare riguardo al sistema della tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, nel resoconto degli inizi di agosto di quest’anno. “Si è potuto accertare che la reale (e non apparente) retribuzione oraria media di un bracciante agricolo da sud a nord varia da 2,5 a 4 euro all’ora per lavori di certo usuranti, spesso con esposizione alle intemperie, senza nessuna garanzia sindacale, contrattuale, di tutela della salute e della sicurezza – si legge nella relazione – (…) con specifico riferimento al settore agricolo la medesima legge 199 del 2016 prevede anche forme positive per aiutare le imprese nel mercato e nella commercializzazione dei prodotti mediante l’istituto della rete del lavoro agricolo di qualità. Ma una mera consultazione del numero di domande giunte soprattutto da quelle province in cui è maggiormente diffuso lo sfruttamento e il caporalato dimostra che taluni imprenditori agricoli preferiscono giacere nella loro attività nell’ambito dell’illecito sfruttamento del lavoro anziché regolarizzare e incentivare la propria azienda attraverso la rete lavoro agricolo di qualità. Rimane sullo sfondo il tema dei controlli. Senza controlli non si potrà mai applicare alcuna legge che tuteli effettivamente il lavoro nella dignità, nell’uguaglianza, nelle garanzie di diritti che il nostro paese ha conquistato ormai da molti decenni. La considerazione che l’Ispettorato Nazionale del Lavoro debba ancora completamente decollare, e che comunque nel campo dell’agricoltura abbia ridotte possibilità di intervento in materia di sicurezza, dimostra che ancora bisogna insistere sulla competenza e sul coordinamento degli ispettori del lavoro e degli ispettori delle aziende sanitarie locali che rimangono l’organo di vigilanza per definizione nell’ambito della sicurezza del lavoro”. Ecco allora i paradossi: ci sono gli strumenti ma in pochi li osservano. Il problema è che la poca attenzione o la poca informazione può portare a gravi condizioni di lavoro che possono avere ripercussioni sulla salute del singolo se non sulla vita.
I sindacati: “C’è la legge ma non sempre corrisponde a realtà”. La sicurezza e la dignità del lavoro agricolo sono temi prioritari anche per i sindacati. Tuttavia, si apre un nuovo paradosso: quello che la legge scrive in modo chiaro e netto non sempre corrisponde alla realtà. “Nel foggiano la legge 199 non è ancora arrivata – spiega Giovanni Minnini, Segretario nazionale Flai Cgil, che insieme ad altri durante questi mesi si è recato nelle zone tra Lecce e Foggia a parlare con i braccianti. “Si è lavorato alla raccolta del pomodoro e adesso si sta cominciando a lavorare alla raccolta dell’uva da tavola. Tranne qualche piccolo cambiamento, qualche denuncia in più di giornate lavorative, sono le stesse condizioni dell’anno scorso. Sembra che ci siano due livelli: uno teorico – con una legge ben scritta, che oltretutto fornisce tutti gli strumenti e le opportunità alle imprese che vogliono essere nella legalità – e dall’altro lato un mondo reale, che è fatto di campi nei quali le persone continuano a essere pagate ancora 25 euro al giorno, lavorando più ore di quello che il contratto consente”. In ogni caso “c’è la necessità di far partire la rete di lavoro agricolo di qualità. Questa cosa non può essere lasciata cadere nel nulla perché altrimenti si continua a lasciare l’alibi alle imprese che hanno bisogno del caporale per continuare a lavorare. Se non partono queste cose non si può contrastare il fenomeno con trasparenza”. Anche l’Unione Sindacale di Base è andata direttamente sui campi. Ne parla Aboubakar Soumahoro, dell’esecutivo nazionale USB: “Sono gli stessi braccianti a portare avanti il lavoro sindacale, in questo senso abbiamo un buon riscontro”. La posizione è chiara: “Siamo contrari alle intermediazioni. Basta vedere il caso di Paola Clemente”. Anche riguardo i proprietari la posizione è netta: ricevono i contributi e dunque deve esserci il rispetto dei contratti: “Le aziende ricevono parte dei finanziamenti europei tramite le Regioni, ma perché devono ricevere di fatto soldi dai contribuenti se manca il rispetto contrattuale?”. Non manca una riflessione sulle abitazioni: “Proponiamo l’inserimento abitativo in unità abitative dignitose: con l’integrazione di azienda e finanziamenti europei si possono prendere appartamenti e i soldi risparmiati si possono usare per la formazione rivolta a tutti”. Aboubakar ha anche rilasciato recentemente un’intervista al giornale svizzero “Le Matin” (24 agosto 2017) in cui parla proprio del mancato rispetto dei contratti: “Ci sono più controlli contro il lavoro sommerso, per cui ora molti lavoratori hanno contratti. Ma questi non sono rispettati. Quello che dobbiamo fare prima di tutto è cercare di tornare ad una forma di normalità in cui le regole sono rispettate. Per cambiare la situazione, abbiamo bisogno di un’alleanza tra lavoratori, consumatori e, se possibile, una parte degli agricoltori. Perché, se quest’ultimo guadagna meno, il lavoratore sarà necessariamente pagato meno. I lavoratori agricoli devono essere sindacati, a prescindere da dove provengano”.
La strada da seguire: “Ribaltare l’immoralità”. Qui si parla, insomma, di una dignità calpestata, sia che ci riferisca agli italiani sia che ci si riferisca agli stranieri. Nel 2017 i diritti dovrebbero essere garantiti a tutti ma non lo sono, dando spazio a figure come i caporali padroni, che di certo di paterno non hanno alcunché. La strada da seguire? Semplice quanto ovvia, la traccia Leonardo Palmisano: “Per gli stranieri deve valere la regola del “sono come gli italiani”. Quindi contratti simili e certi, giornate registrate, documenti non sequestrati, alloggi sicuri e non di fortuna, integrazione lavorativo, sindacalizzazione e accesso alla sanità pubblica e gratuita, come alle scuole per i figli dei braccianti. Si tratta di diritti sanciti dalla Costituzione, semplicemente”. Ma l’ovvietà dei diritti è calpestata dalla corsa sfrenata al profitto. E allora tutti noi dobbiamo fare fronte comune per – come sottolinea Palmisano – “Ribaltare l’immoralità di un pezzo importante del sistema produttivo nazionale. Le imprese sono responsabili insieme alle multinazionali di questa nuova schiavitù. Una democrazia non lo deve più tollerare, altrimenti ci rimettiamo tutti”.
Il bubbone del caporalato: come si diventa caporali? Scrive l'8 agosto 2018 Laura Bonani su "Il Corriere della Sera".
La 1° differenza è tra caporale bianco e caporale nero. Una bella differenza. Quello bianco è una specie di mediatore che può (o non può) essere pagato dall’imprenditore agricolo. Spesso, infatti, è legato a giri mafiosi/malavitosi. E’ quello che ha le conoscenze giuste per trovare mano d’opera per il raccolto del momento. Meglio se extracomunitaria. Africani, magari. Del Ghana/Senegal/Mali… così l’imprenditore si sente autorizzato a pagarli ancora meno. E lui viene gratificato… Sempre lui, 4 parole in croce per dialogare con il ‘caporale nero’ deve conoscerle. Quest’ultimo, infatti, è l’anello successivo di questa strana catena di stakeholder. E’ quello che lucra direttamente su un esercito di sventurati di sua conoscenza che recluta per 10-12 ore di lavoro sui campi…e sotto il sole di Puglia (per parlare di attualità) per raccogliere pomodori. O uva. O olive. Dipende dal momento.
Ma come si diventa caporale? In primo luogo, ci vuole esperienza sul campo: qualche anno di training alle spalle; poi, bisogna essere patentati… nonché, disporre di un furgoncino (qualsiasi): omologato al trasporto di merci va bene…ed essere anche in grado di assicurare un alloggio (?) ai braccianti; terzo e ultimo requisito, avere un minimo di familiarità con la lingua italiana per parlare sia con italiani (appunto) che con i paesani. E questa ‘qualità’ non è da tutti. Parliamo di una specie di poliglotta (!!!) che, in sostanza, ha avuto un pizzico di ‘spirito imprenditoriale’ e si è permesso il lusso di spendere 1000,-1500, euro per comprare un automezzo. E’ quello il potere del caporale. E’ quello lo start. In questo modo, lui, si limita a fare soltanto l’autista. Non si sporca più le mani del rosso appiccicoso del pomodoro. Alle 5 di mattina, a un punto di ritrovo, preleva 15-20 bestie da soma e le scarica a Carapelle…o a Lesina (nella fattispecie). In provincia di Foggia. Siamo quasi al confine col Molise. La sera, sempre lui, va a riprendere i disgraziati: li aspetta seduto al volante. All’ombra. Le conseguenze di questo tipo di lavoro che mixa una vera e propria filiera produttiva insana & mortale, oggi, sono di massima attualità. In 3 giorni, ci sono stati 16 morti. Tutti stranieri sotto i 30 anni. Africani. Il 4 agosto, un furgone si è scontrato con un camion al bivio tra Ascoli Satriano e Castelluccio dei Sauri: 4 morti e 4 feriti. Il 6 agosto, sempre in provincia di Foggia sulla statale 106, un altro impatto frontale con un Tir: 12 morti. Africani. Il bubbone del caporalato è esploso, insomma. I caporali, da anni, decidono di testa loro ‘il salario di piazza’. E se ne infischiano di quello contrattuale che è di 6,30 euro al giorno. Anche della nuova legge…se ne infischiano. “La 199 è operativa dal 2016 – nota Ivana Galli, segretaria generale Flai Cgil – ma non viene applicata. I “famosi bandi” istituiti per il trasporto-collocamento pubblico dei lavoratori non sono mai stati emanati: perchè? La norma va applicata fino in fondo. E sarebbe l’unico modo pulito per consentire ai braccianti di raggiungere i campi. E non è vero che sono tutti stranieri – sottolinea Galli -. No. Qui nel foggiano, su 10-15 mila impiegati, soltanto 5 mila sono extracomunitari. Gli altri sono italiani. La scandalosa paga di 3, euro l’ora riguarda tutti. Nei periodi di punta, però, la richiesta di braccia s’impenna: c’è gente pronta a farsi sfruttare per molto meno”. “I furgoni dei caporali-driver cascano a pezzi – dice la gente del luogo – e i poveracci che ci salgono su pagano 5, euro a testa. Scorrazzano avanti e indietro a decine…e decine. E questo business in piena regola è sotto gli occhi di tutti dalla notte dei tempi. E Giuseppe Di Vittorio era nato proprio da queste parti…a Cerignola…”
Braccianti ancora stipati nei furgoni. Il giorno dopo non è cambiato nulla. Il ministro: «Colpa anche degli imprenditori», scrive il 7 agosto 2018 "Il Corriere della Sera". Non lo chiamano più Gran Ghetto. Solo Ghetto, che volendo è anche peggio. Ai piedi del Gargano, il promontorio che divide i campi del Tavoliere delle Puglie — popolato da braccianti — dalle spiagge estive — affollate di turisti —, vivono in mille. Quando il Ghetto era grande, erano il doppio, 2 mila schiavi dei campi. Ma dopo il devastante incendio del 2017, durante il quale morirono due migranti, fu sgombrato. Pochi mesi dopo è riapparso a qualche centinaio di metri di distanza, sempre a ridosso della Statale 16 che collega Foggia a San Severo. Stesse baracche, stesse roulotte. E stessi furgoncini bianchi che vanno e vengono. «Non sono dei caporali, sono di amici», raccontano quei pochi che parlano. Non dicono la verità, perché i veri amici non pretendono 5 euro per accompagnarti sul luogo di lavoro. Nel Ghetto tornavano, dopo una giornata di lavoro, i 12 braccianti africani morti nell’incidente stradale di lunedì.
L’inferno del Ghetto. Il Ghetto è popolato soprattutto da giovani centroafricani: 20 anni, massimo 30, devono essere giovani e forti. Provengono dal Senegal, dal Mali, dal Ghana. Nei furgoni — nel caldo della provincia più torrida d’Italia (fino a 47 gradi in estate, soltanto Siviglia e l’Andalusia, in Europa, raggiungono quelle temperature) — si stipano anche in venti, sulle panche di legno, in spazi che potrebbero contenere al massimo 8 persone. «Ma oggi, dopo l’incidente, siamo tutti qui, non siamo andati a lavorare». E anche questa non è la verità.
Il giorno dopo la strage. Lo sfruttamento nei campi non si ferma, neanche dopo che 12 amici di sventura sono morti sulle strade infuocate del Tavoliere. Lo testimonia il blitz fatto ieri mattina, nella prima alba dopo la strage sull’asfalto, dai carabinieri del comando di Foggia nelle campagne di Trinitapoli: erano in 15 in un furgoncino, con targa bulgara, forse rubato, che ne poteva trasportare al massimo 8. Originari del Mali e del Ghana, avevano già percorso un centinaio di chilometri quando, accortisi dei carabinieri, hanno cominciato a scappare nei campi, impauriti. In 6 sono stati fermati, gli altri sono fuggiti tra le vigne. «Ieri — spiega Marco Aquilio, comandante provinciale dei carabinieri di Foggia — è stato un giorno come un altro, non si fermano mai. E percorrono tanti chilometri su furgoncini senza sedili, con panche in legno, senza aria condizionata. Per questo, al ritorno, dopo una giornata di fatica, sono stanchissimi e rischiano malori e colpi di sonno». Al tramonto, infatti, c’è lavoro anche per i poliziotti dell’Anticrimine di San Severo (istituita due mesi fa per contrastare la mafia foggiana), sulla stessa Statale, la 16, dell’incidente di lunedì: «Abbiamo effettuato il sequestro di un mezzo — spiega Daniela Di Fonzo, dirigente del reparto Anticrimine della questura di Foggia — che viaggiava senza assicurazione. E anche la patente del conducente non era valida».
I caporali arrestati. Da ottobre a oggi, negli ultimi 10 mesi, sono state effettuate, in Capitanata, 75 operazioni straordinarie interforze di prevenzione sulla circolazione dei mezzi: sono stati controllati 1.742 veicoli, 1.678 persone, sequestrati 147 automezzi con 20 denunce e 4 caporali arrestati, tutti stranieri. «Positivo il fatto che aumentino i controlli sui mezzi — spiega Daniele Iacovelli, segretario generale della Cgil di Foggia — ma adesso anche le aziende che utilizzano quei furgoncini devono uscire allo scoperto. Se hanno bisogno di aiuti economici per sostenere il trasporto dei braccianti, lo dicano. Ma non si affidino ai caporali». Sulla rete delle aziende per le quali lavoravano i 12 braccianti morti sta indagando il procuratore di Foggia, Ludovico Vaccaro, con due inchieste in parallelo, una per accertare la dinamica del terribile incidente stradale, l’altra per capire se c’è stata una intermediazione illecita nel lavoro, ovvero se c’è stato sfruttamento dei lavoratori: «Ne ho viste tante nella mia vita, però vedere 12 corpi più due feriti, stipati all’interno di un furgone, con mani e braccia spezzate, mi ha sconvolto». E pensare che il loro sogno, spezzato, era solo ritornare in un Ghetto.
Pomodori e schiavi in Puglia, un reportage di Panorama di 14 anni fa. Un nostro giornalista raccontò nel 2004, in questo articolo che riproponiamo oggi, l'esperienza "sulla propria pelle" in balia dei caporali a Cerignola, scrive Giorgio Sturlese Tosi l'8 agosto 2018 su "Panorama". Sbagliato ricondurre alla mafia la morte dei 12 braccianti a Foggia. Utopistico, come ha annunciato il ministro dell’Interno Matteo Salvini, svuotare i ghetti. Il premier Conte fa bene a visitare quei campi di lavoro ma sarà soltanto una visita di solidarietà alle vittime, con le solite promesse vacue. Perché a governare la tratta degli schiavi dell’oro rosso, come viene chiamato in Puglia il pomodoro, è il mercato; e contro il mercato lo Stato nulla può. Provate a immaginare le nostre tavole senza frutta né verdura, scomparsi i pomodori e le passate, gli ortaggi di stagione, olio d’oliva e vini. Se si tratta di prodotti italiani, possiamo star certi che dietro c’è il caporalato. Che sfrutta migliaia di disperati dal Tavoliere delle Puglie, alle blasonate cantine del Chianti, fino alle vigne del Franciacorta, e poi su ancora fino alle mele del Trentino. Panorama lo ha documentato nell’estate di 14 anni fa, con un *reportage sotto copertura proprio su quelle strade dove lavoravano braccianti uccisi. Le foto di Massimo Sestini aiutarono a prendere conoscenza del fenomeno. Sindacati e istituzioni annunciarono, condannarono, promisero. Negli anni in molti hanno raccontato il mercato nero degli schiavi. Fino a ieri. Fino alla prossima raccolta. Tra poco si comincia a vendemmiare. Riproduciamo qui l’articolo, uscito sul numero di “Panorama” del 9 settembre 2004.
Tra gli schiavi dell’oro rosso di Giorgio Sturlese Tosi. A Cerignola, provincia di Foggia, se vuoi raccogliere i pomodori devi metterti tra l’edicola e il bar. Se vuoi farti assumere per la vendemmia, invece, devi andare tra la fontana e le poste. In ogni caso, si è in balia dei caporali che all’alba decidono chi prendere e chi no. Pagando 4 euro per ogni cassa da 2 quintali. Come ha provato, sulla sua pelle, il cronista di “Panorama”.
Il palmo delle mani è rivolto in avanti, sempre. Anni di lavoro nei campi hanno deformato i muscoli degli avambracci. Così si riconoscono i caporali, perché sono loro stessi ex braccianti. Ora tra le zolle ci vanno solo per accompagnare chi li ha sostituiti. L’ufficio di collocamento è la piazza del paese, i colloqui si fanno con gli sguardi, silenziosi ma significativi, e l’accordo è siglato da una pacca sulle spalle. Di soldi, in genere, si parla a lavoro finito.
Cerignola, provincia di Foggia, capoluogo della raccolta di pomodori nel basso Tavoliere delle Puglie: in questa stagione l’aria è impregnata dall’odo- re dei pomodori che essiccano al sole e la statale che porta a Foggia è affollata di camion che sfrecciano carichi della ricchezza di queste terre, l’oro rosso, il pomodoro. È una striscia di asfalto che corre lungo campi coltivati e oliveti. Dal finestrino si scorgono le schiene curve di chi lavora; solo avvicinandosi si scopre che sono tutti stranieri. Dai paesi dell’Est e dal continente africano arrivano ogni anno migliaia di clandestini che seguono le stagioni produttive: ad agosto i pomodori, poi le vendemmie e infine la raccolta delle olive. E chi non torna a casa per l’inverno si fa anche i broccoli. Braccia di cui la Puglia non può fare a meno, che le macchine non possono sostituire perché se piove si impantanano. Manodopera gestita da caporali, da sempre. Una figura che si è evoluta negli anni. Spesso i caporali han- no la pelle dello stesso colore dei braccianti, anche se, per sentirsi più autorevoli, urlano gli ordini in italiano, nel- la lingua dei padroni. Quelli italiani invece si adeguano ai tempi e alle leggi, per infrangerle. Qualche astuto commercialista ha suggerito ad agricoltori con la terza elementare un trucco da sofisti della legge: l’appalto di servizi. In pratica, un proprietario terriero pugliese stipula un contratto con una società di servizi romena costituita ad hoc. Questa invia in Italia braccianti stranieri, utilizzando la formula del distacco di operai specializzati aggirando, così, le leggi sull’immigrazione. Oppure può capitare che un caporale ottenga da qualche comune, con funzionari distratti o compiacenti, la licenza per l’autonoleggio. E che questa venga trasformata in un secondo momento in «autorizzazione al trasporto di manodopera agricola», evitando così il rischio di una pena da tre mesi a un anno di carcere. La concorrenza aguzza l’ingegno e anche gli stranieri si sono organizzati. La squadra mobile di Foggia nel 2003 ha arrestato un algerino che pubblicava offerte di lavoro sui giornali romeni, con tanto di nu- mero di cellulare. Chi rispondeva e accettava di venire in Puglia, aveva la stagione assicurata. Come ce l’ha chi si conquista la fiducia del padrone che di anno in anno riconferma l’arruolamento, eliminando l’onerosa intermediazione del caporale. Gli immigrati più sprovveduti invece si mettono in mostra sperando di essere comprati come schiavi part time.
A Cerignola il mercato degli uomini è in piazza del Duomo, accanto alla cattedrale. Le contrattazioni iniziano alle 18 e terminano un paio di ore dopo. All’angolo del bar siedono sulle panchine romeni, polacchi, ucraini e albanesi. A pochi metri i caporali italiani, che parlano fra loro. Inutile proporsi, sono i capi che ti chiamano con un’occhiata e che ti dicono dove e quando trovarti per lavorare il giorno dopo. Se vuoi raccogliere pomodori o zappare i campi devi stare fra l’edicola e il bar. Se invece ti vuoi prenotare per la vendemmia devi andare tra la fontana e le poste e chiedere a Michele, un tipo grosso e alto, che non ama essere disturbato mentre parla con gli amici. Inutile chiedergli lavoro, non sa di cosa parli. I suoi uomini lavorano per lui e riescono a piazzare anche cento braccianti al giorno, ovviamente a nero e sotto- pagati. Se sei conosciuto e lavori bene la paga è di 30 centesimi a cassetta e 3 o 4 euro per un cassone da 2 quintali di pomo- dori. Ma devono essere colti bene dalla pianta, senza foglie o terra, sennò il padrone si arrabbia. «Oggi non c’è lavoro» dice sconsolato Daniel, romeno di 19 anni. Alto, pulito, faccia da adolescente, è arrivato a Cerignola da tre mesi e da un’ora sta sulla panchina. Con i suoi connazionali è in cerca di lavoro ma da due giorni nessuno lo chiama, «forse domani» dice speranzoso. Non esita un attimo a offrire il suo aiuto e a ospitare chi non ha un posto dove dormire. E infatti, chiusa la «borsa» del bracciante, il suo gruppetto si incammina verso «casa».
Quaranta minuti a piedi per uscire dalla città e raggiungere un campo di olivi dove la notte trovano rifugio in un cubo di mattoni di cemento cotto dal sole. Alla luce di una candela fioca riesco- no a prepararsi una cena con tonno e fagioli in scatola, si lavano i denti con l’acqua che conservano nelle taniche e con la stessa lavano i calzini. La candela si spegne. Rimane la musica gitana di un mangianastri a pile che li accompagna nel sonno. Dentro il cubo la puzza è forte anche per loro e la porta rimane aperta. E infatti in breve si riempie di topi di campagna che scorrazzano sotto le brande. Daniel e Cristi non se ne curano. Raccontano delle loro famiglie rimaste a casa e giurano che piuttosto che andare a rubare salterebbero la cena per una settimana. Cristi pensa di tornarsene a casa presto. È arrivato in Puglia da dieci giorni, non par- la una parola di italiano (Daniel ormai conosce anche il dialetto pugliese) e non ha mai trovato lavoro. È fuori dal giro e non ha la pazienza di aspettare. E, forse, al suo paese, per quanto sia povero, non deve dormire con i topi. Quando si svegliano è ancora notte, sono le 3.30: devono rifarsi 40 minuti a piedi fino alla piazza dei caporali e sperare in una chiamata all’ultimo tuffo. Quando arrivano c’è già una donna polacca, con i due figli di 16 e 15 anni, un maschio e una femmina. Passa una macchina, dal finestrino qualcuno chiede un uomo per zappare i campi. Si precipita la madre che raccomanda il figlio ma si accerta che il lavoro non sia troppo duro. «È una zappa piccola» rassicura l’uomo alla guida. La madre ottiene anche che il figlio venga riportato direttamente alla loro casa per il tramonto.
Di soldi non si parla ma lei torna alla panchina soddisfatta, uno dei figli oggi lavorerà. Tutto sommato se la passano meglio gli africani che lavorano i campi attorno a Stornara, un borgo di poche case non lontano da Cerignola. In 300 han- no occupato uno stabile in costruzione. I caporali vanno direttamente a trattare lì dentro e quasi tutti vengono scelti, giorno per giorno. Fra pareti pericolanti e scale senza ringhiera che salgono per quattro piani hanno attrezzato la cucina, i letti, l’angolo per pregare verso la Mecca. In paese so- no mal tollerati forse perché nella zona sono più i neri degli abitanti, ma non possono fare a meno di loro, altri- menti i campi rimarrebbero incoltivati.
Ci sono anche molti sudanesi che neanche sanno di poter chiedere lo stato di rifugiato. La polizia cerca di controllarli ma per le operazioni a largo raggio sono necessari centinaia di uomini. Ogni settimana ci sono controlli a campione ma è come vuotare una piscina con un bicchiere. Può capitare che, una mattina, al- l’alba, mentre aspettano i furgoni dei caporali che li portano al lavoro, arrivino i gipponi della polizia e le camionette dei carabinieri. Pochi tentano la fuga, nessuno parlerà. I caporali sanno di poter contare sul- la loro copertura. Così qualcuno sarà espulso e reimpatriato mentre altre braccia prenderanno i posti la- sciati vuoti. Magari Daniel, che da tre giorni non lavora. Perché, alla fine, quei camion che sfrecciano verso Foggia qualcuno dovrà pur riempirli.
Caporalato: rilevante lo stato di bisogno dei lavoratori e non il perseguimento del fine di lucro, scrive l'Avv. Amilcare Mancusi il 20 febbraio 2018. Punita la condotta distorsiva del mercato del lavoro con l’approfittamento dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori. In punto di diritto ai fini della integrazione del reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (Caporalato) non è necessario che il reclutamento di manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento persegua una finalità di lucro, essendo sufficiente il solo presupposto dello stato di bisogno dei lavoratori. Il principio è stato enunciato dalla Corte di Cassazione, Sezione V Penale, con la sentenza del 19 febbraio 2018, n. 7981, mediante la quale ha rigettato il ricorso e confermato quanto già deciso, nel caso de quo, dal Tribunale del Riesame di Potenza.
La vicenda. La pronuncia in esame ha avuto origine dal fatto che il Tribunale del Riesame di Potenza pronunciandosi sulla richiesta di riesame proposta nell’interesse di CAIO, ha confermato l’ordinanza del GIP del Tribunale di Potenza che aveva disposto l’applicazione, nei confronti dello stesso, della misura cautelare dell’obbligo di presentazione alla Polizia Giudiziaria, in quanto gravemente indiziato del delitto di cui all’art.603 bis commi 1, 3 e 4 c.p. Avverso detta pronuncia Tizio propone ricorso sulla base di tre motivi.
I motivi di ricorso. Per quanto è qui di interesse, il ricorrente con il secondo motivo lamenta violazione di legge e vizi motivazionali quanto alla replica data dal Tribunale agli argomenti difensivi relativi alla incertezza della contestazione, non tanto in relazione ad una compressione del diritto di difesa, quanto piuttosto in considerazione dell’effettiva rilevanza penale della condotta. Sostiene, infatti, che la condotta attribuita all’indagato non rientra fra quelle sanzionate dall’art.603 bis c.p. dal momento che egli non ha tratto alcun vantaggio dall’asserito sfruttamento dei braccianti agricoli ed erroneamente il GIP ha ritenuto irrilevante stabilire se egli abbia agito a fine di lucro o semplicemente per aiutare i propri connazionali.
La decisione. La Corte di Cassazione, mediante la menzionata ordinanza n. 7981/2018 ha ritenuto i motivi non fondati ed ha rigettato il ricorso. Sul punto controverso la Suprema Corte precisa, a giustificazione della ritenuta infondatezza del motivo, che ⇒ l’art.603 bis c.p., come modificato dalla legge n. 199/2016, punisce chiunque recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, sul solo presupposto dello stato di bisogno dei lavoratori e senza che sia richiesta, per l’integrazione della fattispecie, una finalità di lucro. Diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, la collocazione della norma, nel libro II del codice penale riguardante i delitti contro la persona e la libertà individuale, avvalora e non certo smentisce tale conclusione. In coerenza con quanto innanzi deciso in tema di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, ⇒ si segnala quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, Sezione V Penale, con la sentenza del 27.03.2014, n. 14591, secondo cui “il reato di cui all’art. 603 bis, cod. pen., punisce tutte quelle condotte distorsive del mercato del lavoro, che, in quanto caratterizzate dallo sfruttamento mediante violenza, minaccia o intimidazione, approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori, non si risolvono nella mera violazione delle regole relative all’avviamento al lavoro sanzionate dall’art. 18 del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276”.
Esclusivo: la nuova Gomorra è a Foggia. La Società: è il nome della quarta mafia, dimenticata. Che controlla tutto in modo feroce. Nella terra del premier Conte e dei braccianti morti di caporalato, scrive Fabrizio Gatti il 13 agosto 2018 su "L'Espresso". Nell’anima degli affamati i semi del furore sono diventati acini e gli acini grappoli, ormai pronti alla vendemmia. Le parole di John Steinbeck, scritte nell’immortale romanzo del 1939 sui braccianti immigrati in California, riaffiorano anche quest’anno dalla sterminata piana agricola di Foggia. È agosto e come ogni estate è tempo di pellegrinaggi. Arriva il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte che qui, nella provincia foggiana dell’Altra Gomorra, la quarta mafia, è nato e cresciuto. Lo segue il suo vice Matteo Salvini, ministro dell’Interno. Parole indignate, foto di circostanza in prefettura. Due incidenti stradali hanno ucciso in poche ore sedici operai della terra: quattro sulla provinciale tra Ascoli Satriano e Castelluccio dei Sauri, dodici sulla statale 16 vicino a Lesina. La geografia del caporalato è sempre la stessa. E anche i riti istituzionali. Poi tutti a casa. Vedremo tra dodici mesi chi tornerà. E cosa farà nel frattempo il governo del cambiamento, che solo poche settimane fa ha insultato gli schiavi delle campagne italiane, definendo la loro sofferenza una pacchia. La società da queste parti non è soltanto una comunità di persone sottomesse a un modello di vita spietato. La “Società foggiana” è anche il nome che la quarta mafia si è data e che quel modello impone e domina. L’Altra Gomorra è un’organizzazione ermetica, economica e militare, molto poco raccontata. «In taluni contesti il radicamento socio-culturale del sistema mafioso è così forte da produrre una generalizzata e assoluta omertà che, talvolta, trasmoda nella connivenza se non addirittura nel consenso», scrive il Consiglio superiore della magistratura nella sua analisi sulla situazione a Foggia deliberata il 18 ottobre 2017: «A riprova di questo, deve evidenziarsi che dal 2007 non si hanno collaboratori di giustizia interni ai circuiti associativi. Dall’inizio degli anni Ottanta a oggi, su circa trecento delitti di sangue ascrivibili al contesto mafioso foggiano, l’80 per cento sono ancora irrisolti». L’ultima strage è di un anno fa: il 9 agosto nei campi di San Marco in Lamis i colpi calibro 7,62 di un Kalashnikov e calibro 12 di un fucile da caccia uccidono il boss del Gargano Mario Luciano Romito, 50 anni, suo cognato che gli faceva da autista, Matteo De Palma, 44 anni, e due agricoltori, Luigi e Aurelio Luciani, 47 e 43 anni. I fratelli Luciani non c’entravano nulla con gli affari di Romito: li hanno assassinati solo perché, incolpevoli testimoni, passavano di lì. Ecco, se si vuole davvero salvare la provincia che produce gran parte degli alimenti per le nostre tavole e liberare la sua gente dall’oppressione dell’Altra Gomorra bisogna continuare da lì: da quel venti per cento di casi invece risolti, di sentenze importanti passate in giudicato, di relazioni e patti tra batterie di killer e famiglie pazientemente scoperti grazie alla collaborazione tra la Procura del capoluogo e il pool della Procura distrettuale antimafia di Bari. Collaborazione che ha trasformato in processi il faticoso lavoro di carabinieri, polizia e guardia di finanza. Altrimenti vince l’omertà. E quella nasconde tutto, non solo i crimini di mafia. Lungo la statale 16 da Cerignola a San Severo maturano i grappoli sempre più vicini alla vendemmia. Schiene nere di polvere e sudore si piegano da ore sulle distese basse di pomodori. A ridosso dei campi, la fila di Tir attende che i cassoni siano pieni, i camionisti dormono al fresco climatizzato delle loro cabine e i furgoni dei caporali cuociono al sole. Dai rottami dell’incidente di Lesina esce la globalizzazione della manodopera: targa bulgara, autista marocchino, vittime ventenni dell’Africa subsahariana, raccolto italiano, otto posti a sedere, quattordici passeggeri a bordo, due sopravvissuti. Salvini può anche urlare «prima gli italiani»: ma nei paesi svuotati dal crollo demografico, dall’emigrazione e dalla legittima ambizione di non sporcarsi più le mani, chi lavorerebbe nei campi?
L’andata e il ritorno sono i momenti più pericolosi della giornata. Nell’inchiesta sotto copertura con cui L’Espresso aveva raccontato dal di dentro la schiavitù dei nuovi braccianti, eravamo più volte saliti su uno di quei mezzi. È il resoconto di quanto accade a migliaia di lavoratori ogni giorno, prima dell’alba e dopo il tramonto. Si parte in nove su una Volkswagen Golf: «Tre davanti. Cinque sul sedile dietro. E un ragazzo raggomitolato come un peluche sul pianale posteriore. Solo per questo trasporto il caporale al volante si prenderà quaranta euro dalle nostre paghe. La Golf stracarica corre e sbanda sulla strada stretta dove due auto si affiancano a malapena. Il contachilometri segna cento all’ora. Una follia». Stornara, provincia di Foggia, agosto 2006. Come per ogni traffico illegale, il trasporto dei braccianti è il tratto scoperto da cui qualunque buon investigatore non farebbe fatica a risalire alla rete che li sfrutta. Ma d’estate i ministeri riducono al minimo il loro personale. E nelle altre stagioni foggiane i campi non hanno bisogno di molta manodopera. Aboubakar Soumahoro, il sindacalista di base ivoriano che con la sua voce riempie il vuoto confederale, invita a Foggia il ministro del Lavoro, Luigi Di Maio, perché si renda conto di persona. Il ministro risponde promettendo un concorso straordinario per assumere nuovi ispettori. Servirebbero, eccome. Purché, per la loro incolumità, non siano della zona. In mezzo a tanti funzionari integerrimi e ai risultati ottenuti, l’analisi del Consiglio superiore della magistratura denuncia una situazione spaventosa: «Si legge nella relazione trasmessa dal Procuratore di Bari che, in alcune indagini, è stato accertato che l’organizzazione criminale, effettuando una preventiva selezione tra le giovani donne ridotte in schiavitù, individua quelle da destinare alla prostituzione, con il ruolo precipuo di adescare i “pubblici ufficiali” cui rendere prestazioni sessuali non retribuite economicamente, ma con la prestazione di favori, in particolare l’omissione di controlli nei campi in cui si attua lo sfruttamento lavorativo dei braccianti». Il 3 maggio di quest’anno, in un’altra indagine, la Guardia di finanza di Foggia arresta tre ispettori dell’Ufficio territoriale del lavoro, tra cui un dirigente: sono accusati di aver addolcito i loro verbali e di aver violato l’obbligo di comunicare all’autorità giudiziaria le notizie di reato accertate nei confronti di imprenditori del settore agricolo, edilizio e alimentare. Tra gli indagati, secondo gli atti della Procura di Foggia, anche un sottufficiale dei carabinieri, a capo del locale nucleo investigativo del ministero del Lavoro. Nella terra della buona tavola affacciata sul mare ci si rovina per poco: le mazzette sarebbero state incassate sotto forma di mozzarelle, caciocavallo, vino e la raccomandazione di un figlio perché superasse il concorso in Marina militare. Nella primavera 2017 sempre la Guardia di finanza di Foggia indaga per falso, abuso d’ufficio e rivelazione di segreti un funzionario del Servizio prevenzione sicurezza ambienti di lavoro della Asl e altri dodici pubblici ufficiali. In questo contesto non stupisce l’omertà che protegge l’Altra Gomorra. Non siamo però all’anno zero. La storia della “Società foggiana” è ormai scritta in varie sentenze di condanna che hanno premiato la collaborazione nello scambio di informazioni tra la Procura locale e la Direzione distrettuale antimafia di Bari. E le sue geografie familiari, da Foggia alle spiagge del Gargano, fanno oggi parte dell’ “Enciclopedia delle mafie”, l’opera in sei volumi sulle associazioni criminali italiane curata dal maresciallo dei carabinieri Fabio Iadeluca e pubblicata da Curcio Editore. Una storia tenuta a battesimo quarant’anni fa dalla Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo. E, dopo ondate di omicidi e regolamenti di conti interni, accolta nella costellazione dei clan di Gomorra raccontati da Roberto Saviano. Proprio vicino a Rodi Garganico le teste di legno di Sandokan, il boss Francesco Schiavone, 64 anni, avevano investito nella costruzione di residenze per turisti. E proprio agli alleati foggiani i camorristi casalesi avevano affidato la loro stamperia di banconote: un affare di milioni di euro in tagli da venti, prodotti su carta filigranata rubata alle Cartiere di Fabriano, che ancora oggi obbligano commercianti e benzinai a passare l’incasso ai raggi ultravioletti. Una joint-venture mafiosa per produrre quantitativi industriali di denaro falso, scoperta nel 2012 dai magistrati antimafia di Bari con l’operazione Filigrana. «Il salto di qualità la mafia foggiana lo ha compiuto potenziando significativamente la vocazione affaristico-imprenditoriale e la capacità di infiltrazione», spiega il magistrato della Direzione distrettuale barese, Giuseppe Gatti, autore con Giovanni Bianco del libro “Alle mafie diciamo NOi”. E il nuovo fronte è proprio quello delle agromafie. Seguendo le tracce di una precedente indagine pugliese del 2012, otto mesi fa la Procura di Ravenna sequestra beni per venti milioni. La rete lavava con il vino gli incassi di estorsioni e usura inviati da Foggia: secondo l’accusa, fatturavano spedizioni fittizie di mosto dalla Puglia. In realtà, al Nord arrivavano i soldi. Al centro della presunta rete di riciclaggio, un imprenditore romagnolo che produce mosto concentrato rettificato, già processato per gli stessi reati. Sei anni fa gli trovarono 23 milioni depositati nelle banche di San Marino: nove sono ancora sotto sequestro, quattordici sono invece rientrati regolarmente in Italia grazie allo scudo fiscale. Le famiglie Sinesi-Francavilla e Moretti-Pellegrino non si occupano di caporalato. Troppo faticoso fronteggiare gli affamati. Ma nell’estate 2015 la “Società foggiana” prende di mira anche la raccolta del pomodoro. Gli sgherri mandati allo scoperto puntano direttamente ai trasporti: l’immagine di un Tir danneggiato rende molto di più del pestaggio di una squadra di braccianti. «Ha suscitato estremo allarme sociale», è scritto nelle note della Procura antimafia di Bari, «il fatto che l’attività delittuosa sia avvenuta all’interno dell’area di parcheggio di una delle più importanti e moderne strutture di lavorazione del pomodoro in Italia». La squadra mobile di Foggia arresta sei esattori del clan Sinesi-Francavilla, tra cui il presunto capo, Roberto Sinesi. Ai camionisti chiedevano cinquanta euro a camion. La fama dell’Altra Gomorra è così radicata che con trasportatori, commercianti, imprenditori le riscossioni avvengono senza violenze. Basta pronunciare il nome. «Le denunce sono rare e, nel giudizio, spesso sono seguite da ritrattazioni», ammette il Consiglio superiore della magistratura. «Lei quanto guadagna al mese?», chiede il magistrato alla vittima, durante un processo per estorsione. «Guadagno duemila euro», risponde il commerciante: per paura sostiene che i mille euro consegnati al boss non siano il pizzo, ma un amichevole prestito. Poi cambia versione e dichiara di aver comprato da lui un motorino che non esiste. «Ha persone da mantenere?», domanda il pubblico ministero. «Ho tre figli». «Sua moglie è a carico?». «Certo». «Ha una casa di sua proprietà?». «No, in fitto. Pago 600 euro». «Senta, è solito concedere prestiti a terzi con cui non ha legami?». «No, non ho la finanziaria», risponde il commerciante. E rischia a sua volta un’incriminazione. Chi in città si sente ancora libero, si aggrappa alla memoria di un eroe: Giovanni Panunzio, imprenditore edile e padre, ucciso a 51 anni il 6 novembre 1992 perché, come Libero Grassi un anno prima a Palermo, non si è arreso ai mafiosi locali e li ha denunciati. Un caso risolto quasi subito. Gli assassini vengono condannati grazie a un testimone coraggioso, un commerciante di cani. Il processo si conclude in Cassazione nel 1999 con il primo riconoscimento sulla natura mafiosa della “Società foggiana”. Ed è proprio da quel coraggio che questa terra spaccata dal sole, attraverso le associazioni antiracket, le manifestazioni di Libera, la solidarietà della Caritas, cerca oggi di rompere il silenzio della paura: quella legge criminale che non fa differenze tra vittime italiane e braccianti stranieri.
Sette giorni all'inferno: diario di un finto rifugiato nel ghetto di Stato. Dormitori stracolmi. Dove la legge non esiste. Fabrizio Gatti è entrato, clandestino, nel Cara di Foggia. Dove oltre mille esseri umani sono tenuti come bestie. E per ciascuno le coop prendono 22 euro al giorno, scrive Fabrizio Gatti il 12 settembre 2016 su "L'Espresso". La quinta notte apro la porta sull’inferno. Dal buio dello stanzone esce un alito di aria intensa e arroventata che impasta la gola. Si accende un lumino e rischiara una distesa di decine di persone, ammassate come stracci su tranci di gommapiuma. Niente lenzuola, a volte solo un asciugamano fradicio di sudore sotto le coperte di lana. Nemmeno un armadietto hanno messo a disposizione: ciabatte e scarpe sono sparse sul pavimento, i vestiti di ricambio dentro sacchetti di carta. Rischio di calpestare una serpentina incandescente, collegata alla presa elettrica da due fili volanti. Qualcuno sta preparando la colazione per poi andare a lavorare nei campi. Cucinano per terra. Se scoppia un incendio, è una strage. Fabrizio Gatti è entrato clandestinamente nel Centro di accoglienza per richiedenti asilo di Borgo Mezzanone. Dove la legge non esiste. Ecco il suo diario.
No, questa non è una bidonville. È un ghetto di Stato: il Cara di Borgo Mezzanone vicino a Foggia, il Centro d’accoglienza per richiedenti asilo, il terzo per dimensioni in Italia. Ce ne sono molti altri di stanzoni ricoperti di corpi. I ragazzi africani vengono sfruttati anche quando dormono. Per trattarli così, il consorzio “Sisifo” della Lega delle cooperative rosse, e la sua consorziata bianca “Senis Hospes”, amministrata da manager cresciuti sotto l’ombrello di Comunione e liberazione, incassano dal governo una fortuna: ventidue euro al giorno a persona, quattordicimila euro ogni ventiquattro ore, oltre quindici milioni d’appalto in tre anni. Più eventuali compensi straordinari, secondo le emergenze del momento. La quinta notte rinchiuso qui dentro ho già visto i gangster nigeriani entrare nel Cara a prelevare le ragazzine da far prostituire. I cani randagi urinare sulle scarpe degli ospiti messe all’aria ad asciugare. E perfino i trafficanti afghani offrire viaggi nei camion per l’Inghilterra. Mi hanno anche interrogato. Un picciotto dei nigeriani, non la polizia. Agenti e soldati di guardia non si muovono dal piazzale asettico del cancello di ingresso. In una settimana, mai incontrati. Nessuno protegge i 636 ospiti dichiarati nel contratto d’appalto. Ma siamo sicuramente più di mille. Contando gli abusivi, forse millecinquecento. Perché da quattro buchi nella recinzione, chiunque può passare. E da lì sono entrato anch’io. Un nome falso, una storia personale inventata. Da lunedì 15 a domenica 21 agosto. Una settimana come tante. Nulla è cambiato, nemmeno oggi. Quello che segue è il mio diario da finto rifugiato nel Ghetto di Stato.
TELECAMERE E BUCHI NELLA RETE. Dentro il Cara di Borgo Mezzanone il giorno non tramonta mai. Una costellazione di fari abbaglianti splende non appena fa buio sul Tavoliere, la grande pianura ai piedi del Gargano. La cupola di luce appare a chilometri di distanza. Bisogna arrivare alla rete arrugginita di un aeroporto militare dismesso. C’è un varco a est, dopo una lunga camminata nei campi. Ma a ovest entrano addirittura le macchine e i furgoni dei caporali, carichi di schiavi di ritorno dalla giornata di lavoro. Sono quasi le dieci di sera. Le prime casupole lungo la pista di decollo formano la baraccopoli abitata da quanti negli anni sono usciti dal centro d’accoglienza, con o senza permesso di soggiorno. Una stratificazione di sbarchi dal Mediterraneo e di sfruttamento da parte degli agricoltori foggiani. Da qualche mese però la bidonville si sta allargando. Da Napoli è arrivata la mafia nigeriana e si è presa metà pista: nelle baracche hanno aperto bar, due ristoranti, una discoteca che con la musica assorda ogni notte il riposo dei braccianti. Da Bari sono venuti alcuni afghani piuttosto integralisti e ora controllano l’altra metà: hanno allestito un negozio che vende di tutto e una misteriosa moschea. Questa è la zona chiamata Pista, appunto. Ancora qualche centinaio di metri e si può toccare la recinzione del Ghetto di Stato. I fari sono puntati a terra e le telecamere inquadrano tutto il perimetro. Il Cara è diviso in due settori. Il primo, proprio qui davanti, è composto da diciotto moduli prefabbricati. Quattro abitazioni per modulo. Ogni abitazione ha tre stanzette: due metri per due, una finestra, lo spazio per due brande, raramente quattro a castello. Ciascun modulo ospita così tra le 24 e le 48 persone. Oppure, per dirla brutalmente, rende ai gestori tra i 528 e i 1.056 euro al giorno. La piazza centrale è un campetto di calcio, davanti al capannone con la mensa, la moschea e i pavimenti di tre camerate ricoperti di materassi. Anche il secondo capannone accanto è un dormitorio stracolmo. I bagni sono distribuiti in una dozzina di casupole: sei rubinetti ciascuno, sei turche, sei docce malridotte, alcune con l’acqua calda. Il secondo settore è invece rinchiuso dietro cancellate alte cinque metri: due fabbricati illuminati a giorno sotto un’altra schiera di telecamere. È il vecchio Cie per le espulsioni, una prigione. Lo usano per l’accoglienza. I rapporti sulle visite ufficiali sostengono che il secondo settore sia la parte dove si sta meglio. Oltre non bisogna andare. Lì vigila, si fa per dire, il personale di guardia. I buchi nella recinzione del Cara sono quattro, proprio sotto le telecamere. Dopo una nottata e una giornata di sopralluoghi, il fotografo Carlos Folgoso sa cosa deve fare. Adesso posso entrare.
I FANTASMI RESPINTI. Una voce sguaiata al megafono della moschea ricorda all’improvviso che Allah è il più grande. È l’ora della preghiera che precede l’aurora. Sono le quattro e diciannove. Addio sonno. Fino alle tre e mezzo avevamo il tormento della musica afro dalla baracca appena fuori il recinto, lì dove i gangster nigeriani fanno prostituire le ragazzine. Poi due auto si sono sfidate con frenate e sgommate lungo la Pista. Quindi un ragazzo ha telefonato al fratello in Africa e parlava così forte che sembrava volesse farsi sentire direttamente. Adesso chiamano alla preghiera anche dalla misteriosa moschea degli afghani. Le voci dei muezzin erano scomparse da questo cielo il 15 agosto del 1300, giorno d’inizio del massacro dei musulmani a Lucera. Migliaia di morti, i sopravvissuti venduti come schiavi: le radici europee del cristianesimo non sono più pacifiche di certi fanatici islamisti di oggi. Ogni angolo protetto dalla luce dei fari è occupato da qualcuno che prova a dormire all’aperto. Un po’ per il caldo asfissiante. Un po’ perché dentro non c’è posto. Lo sanno anche le zanzare. Quando il sole è ormai a picco, Suleman, 24 anni, nel Cara da tre mesi, esce a raccogliere babbaluci, le lumache aggrappate agli arbusti. «Al mercato di Foggia», spiega, «gli italiani le comprano a tre euro al chilo». Già. E le rivendono su Internet a sette. Ma servono ore a mettere insieme un chilo. Da dove vieni? «Dal Ghana, ho chiesto asilo», rivela Suleman. Il Ghana è una Repubblica. Forse è un oppositore perseguitato. Alla domanda, lui guarda stupito: «No, spero di ottenere i documenti e trovare un lavoro qualsiasi in Italia o in Europa. Dove non lo so. E tu?». Meglio non dire la verità, l’inchiesta è ancora lunga. È il momento di collaudare il nome preso in prestito da Steve Biko, l’eroe sudafricano della lotta contro l’apartheid: «Sono senza documenti e voglio raggiungere mia sorella a Londra». Lui non capisce subito. «Sono un sudafricano bianco. La terra di Mandela. Conosci Nelson Mandela?». «No Steve, who is this man, chi è quest’uomo? Ma hai il tesserino da rifugiato?», vuol sapere Suleman. No. «Allora non hai mangiato Steve, hai fame?», chiede con apprensione. No, grazie. «Però non dormire qui fuori. È pericoloso. Dentro nessuno controlla. Puoi anche mangiare. Stasera mi trovi dopo la preghiera quando distribuiscono la cena. Tu vieni in moschea?». Sotto il caldo del pomeriggio ci si va a riparare nei pochi metri d’ombra. Quanti attraversano il Sahara e il mare per sfuggire alla povertà meritano totale rispetto. Ma il diritto internazionale protegge soltanto chi scappa da dittature e guerre, come accade per eritrei, somali e maliani che dormono nei due grandi capannoni. La domanda di asilo di Suleman verrà comprensibilmente respinta. E anche lui si aggiungerà alle migliaia di fantasmi che riempiono le bidonville. Come la Pista, là fuori.
GLI SCHIAVI IN BICICLETTA. Un altro giorno è passato. È la seconda notte qui dentro. I gangster nigeriani hanno appena spento il loro tormento musicale. Sono le tre e alla fontanella della piazza centrale c’è già la coda. Prima di partire i braccianti devono rifornire i loro zaini con le bottigliette di plastica piene. I padroni italiani non regalano più nemmeno l’acqua. I quattro varchi nella recinzione sono una manna per l’agricoltura pugliese. Forse è per questo che non li chiudono. Centinaia di richiedenti asilo escono che è ancora buio. E ritornano che è già buio. I caporali nigeriani li aspettano su furgoni e auto sgangherate all’inizio della Pista: per il trasporto ai campi di ortaggi e pomodori, incassano cinque euro al giorno a passeggero e li trattengono dalla paga. I capibianchi, gli sgherri italiani, li prendono invece a bordo lungo la strada che porta a Foggia. Così molti ragazzi per evitare il costo del passaggio partono in bici da soli. Le biciclette nel Cara sono grovigli di manubri e fatica parcheggiati a centinaia davanti alle casupole. Qualcuno nelle camerate si è portato la sua in mezzo ai materassi dove dorme. Farsi rubare la bici significa dover consegnare ai caporali 35 euro a settimana, il guadagno di due giornate di lavoro. I braccianti che vivono nel Ghetto di Stato vengono pagati meno dei loro colleghi di fuori: anche 15 euro a giornata, piuttosto che 25. I padroni foggiani decurtano il corrispondente di vitto e alloggio. Tanto sono garantiti dalla prefettura. Uno squilibrio che crea tensione tra la generazione ormai uscita dal centro d’accoglienza e gli ultimi arrivati, disposti a lavorare a meno. Il muezzin ancora non ha chiamato alla preghiera. E i primi ragazzi venuti a rifornirsi d’acqua alla fontanella sono già in viaggio. Erano tornati ieri sera quasi alle dieci. Si sono fatti la doccia. Hanno lavato e steso gli abiti da lavoro. Poi hanno mangiato la pasta della mensa, tenuta da parte da qualche compagno di stanza. Era mezzanotte passata quando sono andati finalmente a dormire. Dopo appena tre ore di sonno già pedalano silenziosi, uno dietro l’altro, che sembra il via di una tappa a cronometro. Scavalcano bici in spalla il muretto sotto i fari e le telecamere. Poi si dissolvono nel buio come bersaglieri del lavoro, chiamati in prima linea a riempire i nostri piatti. Lo stesso periodo, subito dopo la richiesta d’asilo, in Germania è dedicato ai corsi obbligatori di tedesco. Chi non frequenta è respinto. Qui dopo un anno di sfruttamento sanno al massimo dire “cumpà”. Compare, in foggiano. E quando li trasferiscono sono spaesati, impreparati, analfabeti. Come appena sbarcati. Nonostante quello che lo Stato versa alla cooperativa di gestione, nessuno ha insegnato loro nulla dell’Italia. E magari, una volta in città, passano la notte a gridare al telefonino. Così dal vicinato si aggiungono nuovi voti alla destra xenofoba.
LE SPIE DEI GANGSTER NIGERIANI. «Ehi Steve, South Africa, come stai?», chiede in inglese Nazim. Ha 17 anni anche se sul tesserino magnetico gli hanno scritto che è nato nel 1997. Viene da Dacca, Bangladesh, via Libia. Martedì sera ha saputo che non mangiavo dalla notte prima. È tornato con un piatto di plastica sigillato con la pasta della mensa, una scatola di carne, una mela, due panini. «Steve, prendi», ha insistito: «Sono piatti avanzati oggi». Vuole raggiungere l’Inghilterra o la Germania. Sa molto poco delle conseguenze di Brexit, delle frontiere europee chiuse. «Adesso vado dai nigeriani là fuori alla festa di un amico di Dacca. Gli hanno riconosciuto l’asilo. Domani parte per Milano. Ha invitato gli amici a bere birra. Portano anche le ragazze. Vieni, Steve?». È l’una di notte. Meglio non esporsi troppo. Precauzione inutile. La polizia non si è mai fatta vedere. Ma le spie dei nigeriani mi hanno già notato. Sono l’unico bianco con la faccia europea. Sono qui da quattro giorni. Non rispetto gli invisibili confini interni. E ho il doppio dell’età media degli ospiti. Così nel corso della notte provano a sapere di me. Prima con un africano del Mali. Poi con due pakistani. Alla fine con Cumpà, un senegalese alto e grosso. Sono marcato a zona. Non appena mi sdraio a dormire sulla solita piattaforma di cemento, arriva lui. «Cumpà, che succede?», chiede il picciotto in italiano. Puzza di birra. «Cumpà, di dove sei?». Rispondo in inglese che non capisco. E Cumpà si arrabbia: «Cumpà, vieni a dormire da me perché se arrivano i miei amici nigeriani da fuori, tu passi dei guai». Entra nel suo loculo. Riappare con un materasso sporco. «Cumpà, tu ti sdrai qui e non te ne vai». Ora si sistema sul suo materasso. Siamo sdraiati uno accanto all’altro, sotto il cielo nuvoloso. Lui si gira su un fianco. Cerca di fare l’amicone. «Cumpà, allora mi dici che cosa fai qui?». I suoi amici nigeriani non scherzano. La notte del 18 aprile hanno rapinato un ospite del Cara e lo hanno trascinato fuori. Lì lo hanno accecato con una latta di gasolio rovesciata negli occhi e bastonato fino a farlo svenire. Qualche giorno prima avevano ferito un connazionale con un machete. A giugno la polizia ha poi arrestato cinque appartenenti agli Arobaga, il clan che controlla caporalato e prostituzione lungo la Pista. «Io non parlo inglese», torna ad arrabbiarsi Cumpà: «Ho capito: tu sei un poliziotto. Adesso chiamo gli altri». Si alza e se ne va. Un messaggio parte subito per il telefonino di Carlos, il fotografo nascosto da qualche parte là fuori: “Vai via” seguito da una raffica di punti esclamativi. Steve resta sdraiato sul materasso, con le pulci che gli pizzicano le caviglie. È più sicuro rimanere nel Cara e vedere cosa succede. Cumpà riappare dopo mezz’ora. Solo. Si sdraia. Ronfa come un diesel. Anche i suoi amici saranno ubriachi. Al richiamo del muezzin, un connazionale viene a scuoterlo: «Madou, la preghiera». Non si muove. Al risveglio religioso, stamattina Cumpà preferisce il sonno di Bacco.
L’ASSALTO DEI CANI RANDAGI. Qualche riga oggi bisogna dedicarla alla pet therapy. È quella prassi secondo cui l’interazione uomo-animale rafforza le terapie tradizionali. Alla prefettura di Foggia, responsabile della fisica e della metafisica di questo Ghetto di Stato, devono crederci profondamente: perché il Cara è infestato di cani, ovunque, perfino dentro le docce. Nessuno fa nulla per tenerli fuori. Quando è ancora buio, subito dopo la preghiera, tre braccianti escono in bicicletta dal buco a Ovest, dove la recinzione è stata smontata. Le loro sagome sfilano nel chiarore della luna. Un cane abbaia e la sua voce richiama un’intera muta che si lancia all’inseguimento dei tre poveretti. Sono una decina di grossi randagi. Corrono. Ringhiano e si mordono. Poi diligentemente tornano a sdraiarsi tra gli ospiti del centro. Nasrin, 27 anni, afghano di Tora Bora, si tiene alla larga dai cani. Una sera parliamo davanti alla partita di cricket improvvisata dai pakistani, sul piazzale vicino ai rifiuti. Nasrin dice che se ne intende di viaggi fino in Inghilterra. È andato e tornato, rinchiuso nei camion. Un suo conoscente, che dorme alla Pista, conferma più tardi che può trovare i contatti. Deve solo verificare i prezzi. Dopo Brexit sono aumentati. «In Inghilterra i caporali pakistani pagano bene con la raccolta di spinaci e ortaggi: 340 sterline a settimana», spiega Nasrin. Con i documenti? «No, senza. Però si lavora 18 ore al giorno. In sei anni ho messo via ottantamila euro. E in Afghanistan mi sono costruito una bella casa». Allora perché sei qui? «Perché per avere i documenti avevo chiesto asilo in Italia». Stasera è meglio stare lontani dalla piazza. Una macchina dei carabinieri è ferma lì da un po’. Dicono siano venuti per una notifica. Poco più tardi tre nigeriani entrano a prendere le prostitute. Le ragazzine sono a malapena maggiorenni. Due in particolare. Nessuno sa se siano ospiti o abusive. Dormono nella sezione femminile, dice qualcuno, ricavata nell’ex centro di espulsione. Le portano dalle parti della discoteca, la causa dell’insonnia di molti di noi. Entrano nell’anticamera illuminata a giorno. E scompaiono oltre il separé, nella sala con la musica al massimo, le luci colorate, la palla di specchi al centro del soffitto. La corrente la rubano dalla rete di illuminazione pubblica. La Pista, anni fa, era un centro d’accoglienza. E molti braccianti, a loro volta ostaggi del caos, abitano là da allora. Bisogna stare molto attenti ai cavi elettrici. Per collegare le nuove baracche appena costruite e in costruzione, li hanno stesi ovunque nell’erba secca del campo tra la bidonville e il Cara. Sono semplici cavi doppi da interni, collegati tra loro da banalissimo nastro adesivo. Quando piove c’è il rischio di prendersi una bella scarica.
BENVENUTI ALL’INFERNO. Adesso è più difficile girare indisturbati. Trovarsi davanti Cumpà potrebbe essere pericoloso. Un angolo controluce del grande piazzale è il nuovo nascondiglio. I fari puntati negli occhi di chi passa sono lo schermo più sicuro dietro cui proteggersi. Il sottofondo musicale stanotte è dedicato al reggae. Il volume aumenta via via che scorrono le ore. E durante la preghiera sfuma in un fruscio assordante. Una mano sta cambiando canale alla radio. Si ricomincia con la voce di Malika Ayane. Le parole piovono direttamente dal buio: «La prima cosa bella che ho avuto dalla vita...». Parte una fila di braccianti in bicicletta. Attacca un vecchio successo di Luis Miguel: «Viviamo nel sogno di poi...». Se ne vanno a lavorare altre schiene sui pedali. Vengono tutti dall’ex Cie. Bisogna sfidare le telecamere per avvicinarsi e vedere. Anche lì hanno aperto un buco nella recinzione. Si salta sopra un fossato di fogna putrida a cielo aperto. E si scende agli inferi. Le camerate sono al buio. Hanno appeso stracci e teli alle finestre per tenere fuori la luce dei fari. Non c’è spazio nemmeno per la porta. Si apre a fatica. L’aria è densa, ma ancora non è chiaro cosa ci sia oltre. Sono quasi le quattro e mezzo. Un ragazzo si sta vestendo e adesso accende la pila. Una scritta incollata alla colonna al centro del salone saluta beffarda: «Benvenuti». Un orsacchiotto sotto il cuscino di un adulto sporge la testa e fissa il soffitto. La vita è tutta raccolta nei sacchetti e nelle scatole sotto le brande. Un vecchio televisore trasmette il replay delle Olimpiadi. E rischiara di un poco il suo orizzonte di corpi ammassati. Impossibile contarli tutti. Quattro sedie separano dall’angolo cottura i tranci di gommapiuma, usati come materassi. Per terra la serpentina elettrica incandescente sta riscaldando due uova, la pasta avanzata ieri sera, una teiera. Un sacchetto di plastica e un rotolo di carta igienica sono pericolosamente vicini al calore. Pentole, un piatto, due bicchieri. Tutto per terra. Non c’è lo spazio per un tavolo. Nel cortile al centro del Cie, per terra ci dormono pure. Il piccolo loculo di Cumpà al confronto è un lusso. Almeno ha un po’ di riservatezza, l’aria intorno, i vasi con gli oleandri. Perfino l’architettura qui dentro è oscena. È stata progettata e costruita in modo che si possa vedere soltanto uno spicchio di cielo. La mente che l’ha pensata voleva probabilmente umiliare le donne e gli uomini da rinchiudervi. L’effetto è questo, anche ora che è un centro di accoglienza. Stesse condizioni nelle altre stanze. Non ci sono uscite di sicurezza. Nemmeno maniglioni antipanico. Molte porte si incastrano prima di aprirsi. E il loro movimento va verso l’interno. Dovevano servire a non far scappare i reclusi, non ad agevolarne la fuga. Se scoppia un incendio, questa è una trappola.
LO SCONTO SULLA DIGNITA'. I bagni e le docce non profumano mai di disinfettante. Hanno perfino sloggiato dei profughi per trasformare le loro stanzette in privatissimi negozi. Ce ne sono cinque tra le casupole statali. Vendono bibite, riso, farina, pane, accessori per telefonini direttamente dalle finestre. Quattro li controllano gli afghani della Pista. Il quinto due ragazzi africani. Non ci sono cestini per i rifiuti, solo sacchi neri appesi qua e là. Stanotte i cani li hanno strappati e hanno disperso avanzi della cena ovunque. Un favore alla catena alimentare, sì. Perché alla fine anche i ratti hanno un motivo per uscire allo scoperto. Quello che colpisce è la rinuncia totale a spiegare, insegnare, preparare i richiedenti asilo a quello che sarà. Se i gestori lo fanno nei loro uffici, i risultati non si vedono. Qui fuori sembriamo tutti pazienti di un reparto oncologico. In attesa permanente di conoscere la diagnosi: vivremo da cittadini o moriremo da clandestini? Forse non ci sono abbastanza soldi per seguire il modello tedesco. Oppure noi italiani siamo troppo furbi, oggi. E contemporaneamente troppo stolti per pensare al domani. Non c’è soltanto la crisi umanitaria internazionale a rendere precario qualsiasi intervento. La ragione del fallimento si trova già nella gara d’appalto per gestire il Cara: premiava il «maggior ribasso percentuale sul prezzo a base d’asta, pari a euro 20.892.600». Un cifra di partenza che equivaleva a 30 euro al giorno a persona. E il consorzio “Sisifo” di Palermo si è aggiudicato il contratto con uno sconto di 8 euro. Ha abbassato la diaria a 22 euro e rinunciato a quasi cinque milioni e mezzo in tre anni. La logica matematica ci suggerisce una sola cosa: o i funzionari della prefettura di Foggia hanno sbagliato a formulare i prezzi, o il consorzio della Lega Coop sapeva di non starci nelle spese. Anche se è davvero difficile pensare che 22 euro al giorno a persona non bastino a fornire il minimo di dignità. Comunque il ministero dell’Interno chiede sempre di aumentare il numero di ospiti di qualche centinaio. E l’emergenza è pagata bene: i soliti 30 euro, ma senza gara. Così perfino lo sconto è rimborsato. La cooperativa cattolica “Senis Hospes”, che per conto di “Sisifo” gestisce Borgo Mezzanone e altri centri, corre al galoppo. Fatturato in crescita del 400 per cento in due anni: dai 3 milioni del 2012 a 15,2 milioni del 2014, ultimo bilancio disponibile. Dipendenti dichiarati: dai 109 del 2014 ai 518 di quest’anno. «Tali attività...», scrive nella relazione annuale Camillo Aceto, 52 anni, presidente di “Senis Hospes”, «rispondono alla missione che la cooperativa si prefigge dedicando l’attenzione alle categorie più bisognose». Ma qui dentro, nel grande stanzone degli inferi, oggi la luce è accesa alle quattro. È domenica. Alcuni richiedenti asilo sono già partiti per i campi. Altri preparano lo zaino. Sempre sotto quella scritta sulla colonna centrale, che martella la vista: «Benvenuti».
IL CAPORALATO DEL TRASPORTO.
Esiste il fenomeno del caporalato nelle campagne (assunzione di manodopera sfruttata da parte degli imprenditori agricoli.
Esiste anche il fenomeno del caporalato dell'intermediazione tra domanda ed offerta.
Esiste anche il fenomeno del caporalato del trasposto.
Il fenomeno del caporalato dell'intermediazione e del trasporto è in mano, spesso, agli stessi sfruttati.
Un furgone, spesso vetusto o rubato, ti fa passare da schiavo a caporale.
Ed i controlli sulle strade come nelle campagne...latitano.
Foggia, il caporalato dei furgoncini stipati: «Il viaggio della morte costa 5 euro». Il trasporto dalle baracche ai campi viene pagato dagli stessi lavoratori, scrive Michelangelo Borrillo il 6 agosto 2018 su "Il Corriere della Sera". «Se non si crepa nei campi, lo si fa per strada. E bisogna pagare anche 5 euro per frasi trasportare dai furgoncini della morte». Yvan Sagnet, il camerunense di 33 anni che nel 2011, a Nardò, si ribellò ai caporali, conosce bene le campagne di Puglia. E il lungo filo rosso che le unisce, dal Salento alla Capitanata. Il rosso non è solo quello delle angurie e dei pomodori che in estate si raccolgono nell’entroterra della regione più conosciuta per le spiagge del Salento e del Gargano che per la piaga del caporalato. Il rosso è anche quello del sangue.
Il bilancio. Una lunga striscia che negli ultimi tre anni ha un punto di partenza e un punto di arrivo. Entrambi tragici. Il 13 luglio del 2015 è il giorno in cui, nelle campagne di Andria, muore la 49enne Paola Clemente, la bracciante agricola tarantina stroncata nei vigneti dove lavorava per 27 euro al giorno. Dopo la morte di Paola inizia l’iter della normativa anti caporalato, che diventa legge nel 2016. A due anni da allora, però, si continua a morire per il lavoro nei campi. «Perché anche i 16 morti sulle strade di Capitanata di questi giorni — ed eccolo il punto di arrivo della striscia — sono conseguenza di un sistema marcio che si fonda sull’illegalità e lo sfruttamento». Sagnet, che in questi 3 anni ha seguito le battaglie del Gran Ghetto di Rignano dopo aver fondato l’associazione internazionale anti caporalato No-Cap, ne è convinto. Prima ancora che lo stabiliscano i giudici, per lui i 16 giovani africani arrivati in Italia per morire nel Tavoliere delle Puglie, sono vittime del caporalato: lo scontro frontale sull’asfalto rovente dell’estate 2018 è solo una conseguenza. «Viaggiano su mezzi di trasporto insicuri, di terza e a volte anche di quarta mano, spesso non assicurati, difettosi e su strade pericolose, soprattutto in questo periodo in cui i Tir sono dappertutto». Proprio per trasportare i pomodori che gli immigrati raccolgono nelle campagne svegliandosi alle 3 del mattino. Per raggiungere quei campi, i braccianti africani pagano anche un «biglietto» di 5 euro. «E così non dovrebbe essere, perché il trasporto andrebbe regolamentato e cofinanziato dalle aziende e dallo Stato», denuncia Sagnet.
Le tariffe. Nel Tavoliere delle Puglie, il caporalato parte proprio dai furgoncini. Il listino prezzi, per braccianti africani e neo-comunitari (20 mila nella provincia di Foggia, 400 mila a livello nazionale) è identico: il trasporto con il furgone costa, appunto, 5 euro a testa e per ogni cassone da tre quintali di pomodori — pagato quattro euro e mezzo — il caporale trattiene 50 centesimi. E visto che nei furgoni si stipano anche in venti e che ogni bracciante riesce a riempire fino a quindici cassoni, il caporale incassa per ogni trasporto 250 euro al giorno. Spesso riesce a farne due e arriva a 500 euro. E se il lavoro abbonda, paga un autista 50 euro e per ogni viaggio aggiuntivo incassa altri 200 euro.
Il contratto (violato). Fin qui le falle del sistema di trasporto. «Il contratto nazionale, inoltre, prevederebbe vitto e alloggio a carico del datore di lavoro», aggiunge Sagnet. Ma invece i braccianti continuano a vivere nei ghetti e nei casolari di campagna, con l’unica eccezione di Casa Sankara, una struttura che può ospitare fino a 250 braccianti, a San Severo. Per il resto, il Gran Ghetto di Rignano, non appena chiuso dopo un devastante incendio nel 2017 (nel quale morirono due migranti), è stato sostituito da un altro adiacente, con meno braccianti (dai precedenti 2 mila si è passati a mille) ma in continua crescita. E a sud di Foggia continua a prosperare il ghetto di Borgo Mezzanone, dove lungo una vecchia pista di atterraggio abitano altri 1.500 immigrati. Dall’approvazione della legge anti caporalato, quindi, poco è cambiato, almeno nella prevenzione, nei trasporti e nell’accoglienza dei migranti. «Passi avanti sono stati fatti nella repressione del fenomeno — spiega Pino Gesmundo, segretario generale della Cgil Puglia — ma senza un deciso intervento pubblico per i servizi di accoglienza e trasporto pubblico, continueremo a contare vittime mentre le economie criminali ingrasseranno i loro portafogli».
La Lega contro la legge sul caporalato. La Cgil: "Il vero business dell'immigrazione è proprio quello". Secondo la Flai il fenomeno costa 3,5 miliardi di euro l'anno di gettito in meno per lo Stato. Ma Salvini vuole allentare i controlli contro gli sfruttatori: "Invece di semplificare, complica", scrive Matteo Pucciarelli il 14 giugno 2018 su "La Repubblica". Sia Matteo Salvini che il ministro della Politiche agricole Gian Marco Centinaio, anche lui leghista, hanno detto che vogliono "cambiare" la legge contro il caporalato in vigore dal 3 novembre 2016. "Invece di semplificare complica", è stato il ragionamento del ministro dell'Interno. Ivana Galli, 61 anni, è la segretaria generale della Flai, la categoria dei lavoratori agro-industriali iscritti alla Cgil: "Li invito entrambi a venire con noi a vedere di cosa stiamo parlando. Il vero sfruttamento e il vero business dell'immigrazione avviene lì".
Innanzitutto, cosa prevede questa legge?
"La legge era partita da un principio, cioè che per contrastare il fenomeno del caporalato bisognava intervenire sul trasporto e sul collocamento dei lavoratori".
Ovvero?
"A seconda dei periodi di raccolta nei territori delle coltivazioni c’è più bisogno di manodopera. L’alibi del caporale e dei committenti era che per le raccolte occorre avere tante persone in tempi brevi ma non c’era nessun luogo dove reperire queste persone, perché gli uffici di collocamento classici non erano funzionali in tal senso. Il caporale riforniva uomini e mezzi in tempi rapidissimi, andando a prendere la mattina decine di lavoratori la mattina presto per poi riportarli a casa la sera. Questo ha ingenerato un fenomeno di economia parallela con dietro un business incredibile. Anche perché in molti casi anche l’azienda committente pagava il caporale, il quale quindi prendeva soldi sia dall'impresa che dal singolo lavoratore".
Chi è il caporale?
"Un caporale è un parassita che vive del lavoro degli altri, ed è questo il vero business dell'immigrazione. Sono centinaia e migliaia di persone senza diritti che vivono a ridosso delle campagne, nelle bidonville, che si muovono di provincia in provincia seguendo le campagne di raccolta, nell’indifferenza generale perché fa comodo a tutti, anche all'economia del territorio. La cosa vergognosa è che il minor costo del prodotto alla fine lo paga la parte più debole della catena".
Conviene a tutti tranne a chi si spezza la schiena nei campi per il 20 euro al giorno, insomma.
"Questa invisibilità fa un danno anche alle aziende sane, che non competono sul costo del lavoro. Perché, va detto, esiste una agricoltura onesta".
Quanto guadagna un caporale?
"Due rapidi conti: hanno dei pullmini da 15-30 posti, fanno 4 o 5 viaggi al giorno tra andata e ritorno, 15 euro a persona trasportata, per tre mesi. Quindi, 15 per 15 per 5 per 90: 100mila euro in tre mesi".
E sono italiani?
"Anche ma non solo, molti sono italiani ma pure stranieri, hanno copiato gli esempi negativi. E quando sono stranieri è ancora più difficile penetrare in questo sistema. Noi è dal 2008 che stiamo sul pezzo, e stavamo lì nei luoghi caldi - Puglia, Campania, Sicilia - non per creare problemi ma per trovare soluzioni di dignità. Eppure i lavoratori stessi ci guardavano con sospetto, come se con la nostra presenza fossimo colpevoli di fargli perdere il lavoro. 'Con questa legge rischiate di non lavorare più', hanno detto molti imprenditori ai braccianti italiani".
Per quale motivo?
"Perché la legge prevede anche una parte repressiva, in caso di sfruttamento grave è prevista una pena detentiva per i caporali e per il committente. In più la legge prevedeva l'istituzione di una rete di lavoro agricolo di qualità presso l’Inps, cioè forme di collocamento e trasporto pubblico. Legge che poi spesso viene anche aggirata in modi fantasiosi. Ad esempio si rilasciano buste paga regolari e poi si fanno restituire parte di quei soldi, esistono agenzie di viaggio regolari che si occupano del trasporto però in realtà c’è una somministrazione irregolare di manodopera nascosta".
Secondo lei perché la Lega ha puntato il dito contro questa legge allora?
"Evidentemente danno voce a richieste che vengono da certi settori imprenditoriali alle quali questa legge non è mai andata giù. Le loro sono le stesse argomentazioni ascoltate da alcuni imprenditori in fase di trattativa. Ma è una legge di civiltà, non la demonizzerei ma anzi la porterei a completa applicazione. Il danno economico del caporalato sa quanto è? Tra i 3,4 e i 3,6 miliardi".
Ma a fare questa legge chi vi diede una mano?
"Il Pd, la sinistra ma anche i Cinque Stelle. Li portammo tutti a vedere il fenomeno. E abbiamo lavorato bene insieme. Peccato sentire toni così trancianti e brutali. Se uno non vede coi propri occhi non può capire. Tempo fa incontrai un bracciante di colore che aveva ancora il segno dell’anello col quale era stato incatenato. Questo avviene in Italia, nel 2018".
Caporali, strage bis di braccia nere. Targa bulgara, nessun controllo, triplo di morti, scrive Riccardo Galli il 7 agosto 2018 su "Blitz Quotidiano". Caporali, strage bis di braccia nere. Nel foggiano una replica esatta il lunedì di quanto era successo il sabato. Sabato un furgoncino bianco trasporta dai campi di lavoro ai campi dormitorio braccianti neri che vanno a raccogliere i pomodori. Il furgoncino è a regola di niente. Panche al posto dei sedili, passeggeri in sovra numero. Il furgoncino bianco del sabato è a norma solo con l’illegalità che trasporta e l’illegalità che lo circonda, e l’illegalità in quasi tutte le campagne del Sud fortemente tollerata. Neri sono quelli che vengono arruolati per un lavoro a nero. Nere sono le paghe: di fatto 2/3 euro l’ora una volta detratto il pizzo che l’arruolatore esige per il trasporto (appunto il furgoncino, biglietto, si fa per dire, 5 euro andata e ritorno) e una volta detratto l’altro pizzo, quello dell’acquisto obbligato di acqua e cibo sempre dalle mani del caporale. Nere sono le condizioni di lavoro, nero l’orario di lavoro, nere le paghe…insomma a misura di neri. Non a caso i giornali il giorno dopo li chiamano gli schiavi del pomodoro. Il furgoncino bianco del sabato di schiavi neri del pomodoro ne ha a bordo otto, il furgoncino illegale viaggia sulle strade di Puglia, si scontra con un Tir carico di pomodori (la morte sa essere a volte beffarda) e di neri a bordo ne muoiono quattro. Subito ci si affretta nei notiziari a precisare che i primi due identificati erano neri “regolari”. Inconscia ma evidente auto confessione nazionale che, se erano clandestini…insomma se l’erano voluta. Il furgoncino del lunedì è bianco, come quello del sabato. Ne trasporta 14 invece di otto. Ha le panche di legno invece dei sedili, panche senza cinture di sicurezza ovviamente. Quattordici ammassati. Il furgoncino del lunedì ha targa bulgara. Appena due giorni prima nelle stesse strade i quattro morti del furgoncino del sabato. Appena due giorni dopo un altro furgoncino rimpinzato di braccia nere, targa bulgara. Sarebbe ovvio fermarlo per controlli. Sarebbe ovvio quasi in ogni parte d’Europa. Ma non qui, non qui in Puglia, Italia. Perché ad evitare la mattanza di braccai nere sarebbe bastata una pattuglia della Polizia Stradale. Ma non c’è. E sull’autostrada. Ci sono priorità. Sull’autostrada i bianchi stanno andando in vacanza. Ci sono priorità. Ad evitare la mattanza sarebbe bastato anche un controllo alla partenza dei furgoncini. Ma non si può: qui la polizia urbana non comincia a lavorare prima delle sette del mattino e alle sette del mattino l’imbarcata dei caporali è già fatta. E c’è un altro motivo di fondo, quello vero e profondo, per cui nessuno controlla. E il motivo è che gente che lavora a raccogliere nei campi a 2/3 euro l’ora ce n’è in Italia a decine, centinaia di migliaia. Raccolgono e tengono in piedi un’economia che senza il lavoro nero dei neri crollerebbe. O meglio, dovrebbe stare in piedi con altri costi e prezzi. L’industria alimentare e la grande distribuzione pagano poco ai contadini e padroni dei campi, questi stanno nei costi con il lavoro semi schiavile dei neri. In Puglia, Campania, Calabria, Sicilia. E anche al Nord quando c’è da raccogliere nei campi. Quindi c’è tolleranza, grande tolleranza. C’è un grande e nazionale e che ci vuoi fare? Sono circa quattrocentomila i braccianti a nero, trasformarli in lavoratori con normali diritti sarebbe un disastro economico. Discende da qui, per li rami, la tolleranza prima di società civile e poi di Stato per cui si arriva a non fermare un furgoncino con 14 a bordo, targa bulgara, praticamente che issa e batte bandiera “caporali”. Che è come avesse segnale: trasporto schiavi. Ora ovviamente è tutto un promettere (Di Maio-Salvini) controlli a tappeto. Durerà un giorno, neanche. La tolleranza riprenderà già domani, la tolleranza che non si era scomposta né aveva fatto una piega tra sabato quattro morti e il lunedì dei 12 morti. La tolleranza che non si batte e non si abbatte. L’unica cosa infatti che la gente, la brava gente d’Italia troverebbe intollerabile è che, portando un po’ di legalità nei campi, aumentasse il prezzo dei pomodori. Lavoro, la strage dei braccianti stipati nei furgoni: “È l’inferno del caporalato, è alla luce del sole ma nessuno lo combatte”.
Sedici morti in 3 giorni in incidenti stradali nel foggiano: tornavano dal lavoro nei campi di pomodori. Marco Omizzolo, sociologo, su quei furgoni saliva per studiare il fenomeno nell'Agro Pontino: "I caporali ammassano i lavoratori nei cassoni come bestie per portarne il più possibile. E' un sistema noto a forze di polizia e autorità politiche. La legge non viene applicata, mancano i controlli sulle strade e nelle aziende", scrive Marco Pasciuti il 7 agosto 2018 su "Il Fatto Quotidiano". “In quei cassoni il caporale monta delle panchine improvvisate, spesso di legno, e i lavoratori li stipa come bestie per portarne il più possibile al campo”. Quando il telefono squilla all’altro capo delle linea, il furgoncino bianco è ancora capovolto, sulla strada statale 16, all’altezza di Ripalta, nel Gargano. I corpi sono a terra e ci rimarranno fino a sera. Marco Omizzolo, sociologo, responsabile scientifico della coop In Migrazione, su quei furgoni saliva fingendosi bracciante per studiare i meccanismi del caporalato nell’Agro Pontino. “Basta prendere una curva ad alta velocità – racconta – e chi c’è dentro viene scaraventato sul lato opposto, insieme all’eventuale carico. E’ chiaro che quando nel cassone hai anche solo quattro persone che dal lato destro del veicolo si spostano all’improvviso sul lato sinistro, il mezzo si sbilancia e cambia direzione”. Spesso finendo nell’altra corsia. Sul camioncino che ieri si è sbriciolato contro un tir nel territorio di Lesina, nel foggiano, sono morti in 12. Tutti migranti, 7 erano regolari. Invece in quello che il 4 agosto si era schiantato sulla provinciale 105 tra Ascoli Satriano e Castelluccio dei Sauri, qualche decina di km più a sud, viaggiavano in 8 e a perdere la vita erano stati in 4. Tornavano tutti dal lavoro nelle piantagioni di pomodori. “Ricordo che in uno dei furgoni su cui avevo lavorato, nelle campagne di Latina – prosegue Omizzolo – avevano tolto le due ruote di scorta e nel loro alloggiamento avevano montato una sedia, saldata malamente e legata con del filo di ferro, per ospitare una persona in più”. Il caporale lo fa per mestiere, perché i braccianti pagano per farsi portare sul campo: “Quando va bene il viaggio costa 5 euro, per il panino ne servono 3,50 e un euro e 50 per la bottiglietta d’acqua. Più ne portano e più guadagnano”. Il caporale viene pagato anche dall’azienda: “Se le fornisce 4 persone ha un profitto, se ne porta 8 l’incasso raddoppia”. I camioncini diventano così carri per il trasporto bestiame. La cronaca parla di 16 morti in 3 giorni. Fanno notizia perché sono molti e concentrati in così poco tempo. Ma la prassi è antica. E nota: “Noi registriamo continuamente casi di questo tipo – prosegue Omizzolo, che è anche ricercatore dell’Eurispes – morti sul lavoro legati a un sistema fondato sullo sfruttamento e sul caporalato. Si continua a non voler applicare la legge 199/2016 (per il contrasto al caporalato, ndr), non si fanno controlli e c’è una responsabilità politica enorme di chi fa retorica elettorale sulle migrazioni, vuole cancellare la legge 199 e non decide di affrontare seriamente il problema”. Gian Marco Centinaio, ministro dell’Agricoltura in quota Lega, da giugno ripete che la legge va cambiata. “Non va cambiata, ma applicata – ribadisce Omizzolo – dovrebbe essere organizzato un sistema di controlli adeguato che comprenda non solo le aziende, ma anche le strade che portano ai campi. I caporali vanno a reclutare queste persone nei ghetti. La domanda da porsi è: perché esistono ancora questi ghetti? Ancora: portare a lavorare nelle aziende 12 persone dentro un furgoncino, trattate come merce, impiegate 10 o 12 ore nella raccolta dei pomodori girando in tutta tranquillità per le nostre strade significa che si tratta di un sistema che è diventato sociale”. E socialmente accettato: “Tutti a Latina sanno dove vanno gli indiani in bicicletta la mattina presto o da quali campi tornano la sera i braccianti a bordo di questi furgoncini nelle campagne di Foggia. Lo sanno tutti, lo vedono tutti: la popolazione, le forze di polizia, le forze politiche. E’ tutto alla luce del sole”. Per questo fenomeno Omizzolo utilizza un termine preciso “Secondo dati dell’Osservatorio “Placido Rizzotto” della Flai Cgil presentati due settimane fa, in Italia circa 430mila persone sono vittime di sfruttamento lavorativo, in molti casi di caporalato. Di queste, circa 130mila vivono in condizioni paraschiavistiche. Ogni anno, e soltanto in agricoltura”. Tradotto: riduzione in schiavitù. “Sono sottoposte a umiliazione, negazione dei diritti, da individui diventano un oggetti utili solo a creare profitto a vantaggio di alcuni. E spesso questi ‘alcuni’ sono mafiosi – prosegue Omizzolo – la nuova legge sul caporalato non serve sono a combattere lo sfruttamento, ma anche a liberare il lavoro dalle mafie”. Le organizzazioni non sono le sole a lucrarci: “Ci guadagnano anche un sistema produttivo che non necessariamente è mafioso, e anche una parte della politica che con la retorica del ‘migrante uguale deviante‘ criminalizza il bracciante straniero e lo obbliga a restare nella condizione di schiavo in cui si trova”. La piaga affligge soprattutto il Centro-Sud, in primis la Puglia, la Calabria, la Sicilia, il Lazio e la Campania. Un esempio: qualche giorno fa Caserta un bracciante indiano è stato abbandonato davanti alla stazione ferroviaria. “Era in fin di vita, probabilmente aveva lavorato per oltre 10 ore sotto il sole, questo sole. Dopo due giorni di agonia in ospedale, è morto”. Si chiava Singh, aveva 38 anni, i giornali locali raccontano che lavorava nei campi di pomodori tra Castelvolturno e Villa Literno: “Ma abbiamo casi gravi e in aumento anche nel Nord, in Emilia, in Lombardia e in Veneto”. Sono passati sette anni dal primo sciopero dei braccianti stranieri mai avvenuto in Italia, proprio in Puglia, organizzato dal camerunense Yvan Sagnet nel 2011. Cosa è cambiato? “Quello sciopero fu fondamentale perché portò la questione all’attenzione dell’opinione pubblica nazionale e perché determinò la nascita di una legge, la 603 bis, che prevedeva la responsabilità penale per il caporale e iniziava a riconoscere il caporalato come un reato di mafia. Da quella contestazione scaturì nel 2016 lo sciopero di braccianti indiani, che ha contribuito alla creazione di una legge ancora più restrittiva, la 199. Gli scioperi servono, ma se poi il loro messaggio non viene raccolto dalla politica lasciano il tempo che trovano”. Il premier Giuseppe Conte e il ministro dell’Interno Matteo Salvini hanno annunciato la lor presenza, oggi a Foggia. La speranza degli operatori è che si inverta il trend osservato finora: “Una delle ragioni per cui non lo si vuole affrontare concretamente – osserva Omizzolo – è che questo tema unisce la questione migratoria e quella del lavoro alla questione della grande distribuzione: a me piacerebbe sapere dove andavano quei pomodori. Scommetto che erano destinati alle grandi aziende di trasformazione dei pomodori, che poi noi compriamo sotto forma di pelati o salsa nei grandi supermercati. Si toccano quindi i gangli di un sistema economico e politico enorme”. I due incidenti mortali degli ultimi tre giorni hanno un legame diretto con la passata che noi compriamo per cucinare in casa un piatto di pasta al sugo: “Al supermarket chiediamo prodotti sempre di maggiore qualità a un costo sempre minore, ma per tenere basso il costo il sistema di produzione specula sul lavoro, cioè abbassa diritti e salari e aumenta gli orari nelle serre. Nelle campagne c’è il risultato palese di tutto questo. E quando vogliamo la passata a 90 centesimi – conclude il sociologo – dobbiamo sapere che qualcuno la produce per ‘stare dentro’ quei 90 centesimi. Impiega, cioè, schiavi”. Che una qualunque sera della loro vita, tornando a casa ammassati nel cassone di un furgoncino dopo oltre 10 ore nei campi, possono finire ammazzati in un frontale con un tir nelle campagne del foggiano. O di una qualunque altra parte d’Italia.
Caporalato e raccolta dei pomodori. "I furgoni sono pronti...", scrive Redattore sociale su Affari Italiani Venerdì, 15 giugno 2018. Un protocollo nazionale scaduto, una legge e una rete di qualità. Sono questi gli strumenti messi a punto nella passata legislatura contro il caporalato e lo sfruttamento del lavoro in agricoltura, ma ad oggi non hanno ancora prodotto i risultati sperati. Mininni (Flai Cgil): "Lavorare su prevenzione e lavoro agricolo di qualità". Un protocollo scaduto, una legge che sta ingranando ma solo sulla repressione e i furgoncini dei caporali puntuali ai soliti posti per caricare lavoratori. Sotto gli occhi di tutti. Con la raccolta del pomodoro alle porte è quasi inevitabile tornare a parlare di caporalato. Lo hanno fatto recentemente anche il ministro dell'Interno, Matteo Salvini, e il ministro delle Politiche agricole alimentari e forestali, Gian Marco Centinaio, criticando la Legge 199 di contrasto ai fenomeni del lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro in agricoltura e di riallineamento retributivo nel settore agricolo. Ma cosa è successo dalla passata stagione di raccolta dei pomodori ad oggi? Lo abbiamo chiesto a Giovanni Mininni, segretario nazionale della Flai Cgil, da anni impegnato sul tema. "Le ragioni dell’economia prevalgono ancora sulla legalità e sul rispetto delle persone - racconta Mininni -. Quando parte la campagna del pomodoro è una guerra nelle campagne e il fatto che sia stata maggiormente meccanizzata riduce soltanto l’impatto del fenomeno, ma non cancella lo sfruttamento". Sono tre gli strumenti messi in campo dal passato governo contro lo sfruttamento dei lavoratori nel settore agricolo e il caporalato. Per prima è arrivata la Rete del lavoro agricolo di qualità, poi un protocollo sperimentale, infine una legge. Di questi tre strumenti, però, il secondo non c'è più. Il protocollo. Ha anticipato la legge 199 del 2016 di qualche mese e sotto lo slogan “Cura, legalità e uscita dal ghetto” aveva avviato un percorso sperimentale contro il caporalato. Presentato come l’asso nella manica da ben tre ministri (Poletti, Alfano e Martina) e controfirmato dalle Regioni Calabria, Basilicata, Puglia, Campania e Sicilia, dopo qualche tentativo avviato qua e là, il protocollo è giunto a naturale conclusione il 31 dicembre 2017 senza troppi clamori. “Potrà essere prorogato o riproposto, previa verifica dei risultati proposti”, cita l’articolo 7, ma ad oggi non c’è traccia né di verifiche, né di proroghe. Già un anno fa, sempre su Redattore sociale, avevamo raccontato i pochi obiettivi raggiunti a distanza di un anno dalla presentazione del documento. Oggi, per Mininni, non ci sono dubbi. “Il protocollo nazionale è stato un fallimento - racconta -. Di tutte le misure previste, come l’istituzione del tavolo di coordinamento e le modalità con le quali bisognava aprire un confronto tra ministeri competenti e le associazioni firmatarie non è stato mai fatto nulla”. Il protocollo, infatti, è stato firmato anche da Acli, Caritas, Ispettorato nazionale del lavoro, Croce rossa italiana, Libera, Alleanza delle cooperative italiane, Coldiretti, Confagricoltura, Cia, Copagri, Flai Cgil, Fai Cisl e Uila Uil. Per Mininni, la responsabilità di questo fallimento è “in primis del ministero del Lavoro a cui era affidato il coordinamento - aggiunge -. Quel protocollo, però, ha prodotto ulteriori protocolli provinciali. Su iniziativa delle prefetture, e non dappertutto, le misure previste dal protocollo nazionale sono state applicata a livello territoriale. E' l'unico effetto positivo che ha provocato: una sensibilità in alcuni territori, non in tutti, e una risposta. Il problema, però, è che anche in questo caso non si è andati oltre alla sottoscrizione di protocolli provinciali". Sono poche, infatti, le esperienze nate. A Lecce, racconta Mininni, è stato realizzato un campo di accoglienza, oppure a Campobello di Mazara (Trapani) dove è partita la prima sperimentazione sul collocamento pubblico, anche se fuori dal protocollo nazionale. Poche esperienze positive a fronte di un fenomeno fin troppo diffuso. E l'effetto protocollo sembra essersi esaurito. “Abbiamo chiesto ai ministeri competenti di prorogarlo, ma ci è stato risposto che ormai c’era la legge 199 e non c’era più bisogno - racconta Mininni -. In realtà, non è proprio così, perché nel protocollo venivano indicate anche delle risorse da mettere in campo per poter contrastare il fenomeno. E soprattutto era calibrato su accoglienza e integrazione dei lavoratori immigrati presenti nei ghetti del nostro paese. La legge, invece, guarda al problema in senso ampio”. La legge. Quest’anno la legge 199 compie due anni, ma ad oggi, nonostante non siano mancate operazioni di contrasto e di polizia nelle campagne, non ha ancora lasciato il segno. “La legge sta producendo sicuramente i primi risultati da un punto di vista di operazioni di polizia - racconta Mininni -: ha prodotto i primi arresti, sia di caporali che di imprenditori, stanno per partire alcuni processi, ma noi siamo più propensi a lavorare sulla seconda parte della legge che prevede azioni positive da mettere in campo per prevenire questi fenomeni”. Intanto, nelle campagne tutto sembra continuare come se non ci fosse la 199. “Non riusciamo a capire come in alcuni territori dove facciamo sindacato di strada, così come li vediamo noi i furgoni non li vedano le forze di polizia e chi dovrebbe essere chiamato a intervenire subito. Da quei furgoni possono partire indagini per capire da dove partono, dove arrivano, le aziende coinvolte”. Per Mininni, c'è il rischio che anche quest'anno possa passare senza interventi concreti contro il caporalato, al di là delle operazioni di polizia. "C'è il rischio che per la seconda volta si perda l'occasione di intervenire per impedire cose così lampanti e sotto gli occhi di tutti - racconta -. Al di là di alcune operazioni che periodicamente vengono condotte, lo Stato non mette in campo altri interventi. Questo problema lo possiamo affrontare se lo Stato mette in campo più azioni contemporaneamente, altrimenti l’operazione di polizia diventa una spettacolarizzazione del fenomeno e poco incide sulla realtà. A Foggia, per la seconda volta, rischiamo di perdere l’opportunità di intervenire. Non ci sono ancora strumenti che funzionano: non c’è un collocamento pubblico, non c’è un trasporto legale degno di questo nome che possa fare in modo di non fermare l’attività delle imprese e le forze dell’ordine evidentemente chiudono un occhio sui furgoni che la mattina continuano a girare". In Capitanata, però, qualcosa si sta muovendo. "Si sta compiendo uno sforzo enorme nella sperimentazione della prima sezione territoriale della Rete del lavoro agricolo di qualità - spiega Mininni -, soprattutto per merito del prefetto Iolanda Rolli, uno sforzo che si scontra con la burocrazia locale e chi rema contro”. La rete. Nato come "organismo autonomo" per "rafforzare le iniziative di contrasto dei fenomeni di irregolarità e delle criticità che caratterizzano le condizioni di lavoro nel settore agricolo" (come cita il sito del Mipaaf) la Rete del lavoro agricolo di qualità doveva realizzare una sorta di argine contro lo sfruttamento realizzato con la partecipazione attiva delle aziende. A quasi tre anni dalla sua nascita, però, arranca ancora. Basta guardare ai numeri: le aziende che ad oggi sono entrate a far parte della rete istituita presso l'Inps sono poco meno di 3.500 a fronte di una platea di possibili aziende destinatarie del progetto che supera le 100 mila unità. A settembre 2017, le aziende iscritte erano poco più di 2 mila. "La rete funziona molto lentamente - spiega Mininni -, ma penso che sia ancora una scelta giusta. Naturalmente ha le sue difficoltà: ad esempio il regolamento che la cabina di regia non è ancora riuscita a darsi". C'è qualcuno, però, che rema contro, spiega il segretario nazionale della Flai Cgil. "La rete del lavoro agricolo ha ancora oggi i suoi detrattori - assicura Mininni -. Quasi come se si fossero messi alla finestra a guardare e aspettare il fallimento di questo esperimento, non cogliendo il fatto che invece potrebbe essere una grande opportunità per le imprese italiane per valorizzare l’agricoltura italiana”. Sebbene la rete del lavoro agricolo di qualità abbia dei limiti, per Mininni può rappresentare ancora un’opportunità per le aziende. “La Regione Emilia Romagna, ad esempio, ha adottato anche su nostra spinta un punteggio in più nei bandi per quelle imprese che sono iscritte alla rete. Questa cosa ha prodotto un boom di iscrizioni da parte delle imprese agricole della regione. Una cosa simile è stata fatta dal comune di Roma che per valorizzare alcuni mercati rionali richiedeva come requisito per le aziende ortofrutticole l’inscrizione alla rete. Noi abbiamo registrato molte iscrizioni di imprese romane. Azioni positive che, invece, non sono state fatte in altre regioni".
Strage di braccianti nel Foggiano. Tir contro furgone: 4 morti. Si indaga per caporalato. Le vittime erano tutte extracomunitari appena rientrate dai campi per la raccolta e viaggiavano con altre 6 persone. Cinque sono rimaste ferite durante l'impatto. Quattro ora sono stabili, scrive il 04 Agosto 2018 "La Gazzetta del Mezzogiorno". Quattro braccianti sono morti ed altre 5 sono rimasti feriti nello scontro tra un furgone chiuso con a bordo otto extracomunitari che avevano finito di lavorare nei campi ed un tir carico di pomodori, che come mostrano le immagini, dopo l'impatto si è rovesciato sull'asfalto. Lo scontro è avvenuto sulla strada provinciale 105 tra Ascoli Satriano e Castelluccio dei Sauri, nel Foggiano. Le vittime, impegnate nella raccolta di pomodori, sono cittadini nordafricani. Tre di loro sono morti sul colpo ed un quarto è morto in ospedale. Gli altri 5 feriti sono ricoverati in ospedale, tra loro anche il conducente del tir che ha riportato ferite lievi.
I FERITI - Sono gravi ma stabili le condizioni dei quattro braccianti agricoli, tutti extracomunitari, rimasti feriti nell’incidente stradale avvenuto ieri pomeriggio sulla strada provinciale 105, tra Castelluccio dei Sauri ed Ascoli Satriano. I quattro sono ricoverati negli Ospedali Riuniti di Foggia. A quanto si è saputo, i quattro non sono in pericolo di vita.
IDENTIFICATE LE VITTIME - Intanto sono state identificate tre delle quattro persone morte nell’incidente: Amadou Balde, di 23 anni, della Guinea; Ceeay Aladje, gambiano, di 20 anni, e Moussa Kande, di 27. Un quarto migrante non è stato ancora identificato. Le vittime, tutti braccianti che tornavano dal lavoro nei campi, non avevano indosso i documenti.
LE INDAGINI - Indagini sono in corso per stabilire la dinamica dell’incidente e per verificare se le persone a bordo del furgone che si è scontrato, per cause in corso di accertamento, con il tir, fossero regolarmente assunte o invece vittime del fenomeno del caporalato che attraversa le campagne del Foggiano dove in questo periodo si riversano migliaia di lavoratori, per lo più stranieri, impiegati nella raccolta dei pomodori. Gli investigatori della Polizia stanno cercando anche di stabilire in quale zona di campagna i braccianti extracomunitari coinvolti nell’incidente avessero trascorso la giornata lavorativa e dove fossero diretti: non è escluso che i migranti vivessero in una delle numerose baraccopoli esistenti nel territorio. Pare che a bordo del furgone vi fossero complessivamente otto persone: quattro sono morte e le altre quattro, tutte in gravissime condizioni, sono state ricoverate negli Ospedali Riuniti di Foggia. Ferite lievi sarebbero state riportate dal conducente del tir che, a quanto sembra proveniva da Foggia. Ecco il video subito dopo l'impatto.
L'APPELLO DEI SINDACATI - «Esprimiamo cordoglio e sconcerto per la morte in un incidente stradale di quattro braccianti e del grave ferimento di altri cinque». Lo dichiara Ivana Galli, Segretaria Generale Flai Cgil. «I braccianti di nazionalità straniera tornavano da una giornata di lavoro nei campi. Aspettiamo di sapere meglio la dinamica dell’accaduto, ma anche questo incidente gravissimo - osserva- allunga la lista dei morti sul lavoro e delle condizioni di poca sicurezza anche in itinere. Conosciamo bene le campagne del foggiano e la condizione precaria (se non in mano ai caporali) del trasporto di centinaia di lavoratori per i quali torniamo a chiedere un sistema di trasporto pubblico, non solo in nome della legalità ma anche della sicurezza e incolumità dei lavoratori». «Vogliamo sapere e con noi i lavoratori agricoli della Puglia e delle altre regioni italiane in cui il bracciante è solo forza lavoro da spremere, le posizioni di ciascuna delle vittime dal punto di vista contrattuale, previdenziale ed assicurativo. Vogliamo sapere chi li aveva assoldati, in quale azienda e in cambio di che tipo di contratto». Lo chiede in una nota Aboubakar Soumahoro, del coordinamento nazionale USB lavoro agricolo, all’indomani del tragico incidente stradale nel quale sono morti quattro bracciati agricoli extracomunitari che tornavano dal lavoro nei campi ed erano insieme con altri quattro connazionali rimasti feriti, due dei quali in modo grave, nel violento impatto con un tir avvenuto sulla strada provinciale 105, tra Ascoli Satriano e Castelluccio dei Sauri. Il sindacato chiama tutti alla mobilitazione e ha convocato un’assemblea che si terrà nel pomeriggio, alle 17.00, nell’ex ghetto di Rignano. «Braccianti, una parola che in Puglia e non solo - viene sottolineato nella nota - equivale a carne da macello, braccia da sfruttare in cambio di una manciata di euro per 12 ore di lavoro. I nostri compagni di lavoro sono morti dopo una giornata spesa a spaccarsi la schiena dall’alba per raccogliere pomodori. Proprio un tir carico di pomodori li ha travolti lungo la strada che percorrevano per tornare alle loro baracche. Quattro braccianti morti, tutti provenienti dall’Africa, tutti giovanissimi». «I quattro feriti - viene sottolineato - sono agli Ospedali Riuniti di Foggia, sostenuti dai delegati dell’Unione Sindacale di Base. Il nostro sindacato, insieme a Rete Iside, in questi giorni aveva distribuito ai lavoratori dei cappellini rossi per proteggersi dal caldo infernale. Poca cosa, ma un segno tangibile di vicinanza e di condivisione del processo di sindacalizzazione. Cappellini rimasti sull'asfalto, sul luogo dell’incidente, tra un mare di pomodori». Usb esprime «cordoglio e vicinanza ai familiari delle persone decedute e chiede a gran voce che sia fatta piena luce sull'accaduto». Usb conferma per il 22 settembre proprio a Foggia la grande assemblea nazionale indetta a giugno per presentare la piattaforma e il programma di lotta sul lavoro agricolo. «L'abitudine di considerare quasi normale e inevitabile il fatto che ogni giorno le vie di Capitanata siano attraversate da camioncini come quello oggetto dell’incidente, che vanno verso le aziende agricole e dove sono letteralmente ammassati i lavoratori senza alcun presidio di sicurezza» viene segnalata in una nota dal segretario Flai-Cgil di Foggia, Daniele Iacovelli, dopo l’incidente stradale. «La verità di quanto accaduto sulla Sp 105 - sottolinea il sindacalista - non si esaurisce nella dinamica dell’incidente, ma ha radici ben più profonde - e ormai tristemente note - fatte di marginalità sociale estrema, di ignobile sfruttamento dello stato di bisogno di ragazzi soli e senza diritti, costretti alla sopravvivenza tra le baracche dei ghetti, in un contesto sociale che sempre più li rende preda unicamente di sentimenti di rabbia e di insofferenza». Un evento - aggiunge - «dopo il quale non è più possibile immaginare che le cose continuino a scorrere come hanno sempre fatto, perché denuncia, senza tema di smentita e con una potenza mai sperimentata prima, per il numero delle vittime e per le circostanze che lo hanno generato, l’esistenza di una realtà sommersa, radicata, eppure da tutti conosciuta, che vede negati, a migliaia di persone, i più semplici diritti legati alla percezione di un giusto salario e al rispetto delle condizioni contrattuali, specie di quelle legate al numero di ore massime lavorabili». «E’ un evento - prosegue - Che ci interroga e chiama tutti a rispondere su quali siano realmente le ragioni che sinora non hanno consentito a questo territorio di concertare soluzioni che risolvessero problemi, come quello del trasporto, spesso in mano ai caporali, la cui diversa gestione avrebbe probabilmente evitato o ridotto il numero di vittime, nonostante proprio qui, a Foggia, sia stata istituita la prima sezione territoriale della Rete del lavoro agricolo di qualità».
MERCOLEDI' MANIFESTAZIONE - «Non è più tollerabile il silenzio e l'indifferenza verso chi, spesso sotto sfruttamento, muore di lavoro, sia esso italiano o straniero": per dire 'bastà alle morti sul lavoro in agricoltura, «per far sì che il contrasto allo sfruttamento e al caporalato nelle campagne possa manifestarsi con azioni concrete e sollecitare tutte le istituzioni ad assumersi la responsabilità di applicare la legge 199/2016», la Flai Cgil Puglia ha promosso, insieme a Fai e Uila e ad Arci, Libera, Terra, Consulta sull'immigrazione di Foggia e Cerignola, Casa Sankara, Intersos, Amici dei migranti ed altre associazioni, una manifestazione provinciale che si terrà a Foggia mercoledì 8 agosto 2018. Oggi intanto una delegazione della Flai Cgil composta da Giovanni Mininni, Segretario Flai nazionale, Azmi Jarjawi, Segretario Flai Puglia, Daniele Iacovelli e Magda Jarczak della segreteria Flai Foggia, si è recata presso l’ospedale dove sono ricoverati i quattro operai agricoli rimasti gravemente feriti dopo essere stati coinvolti nell’incidente stradale nel quale sono morti quattro braccianti agricoli, tutti migranti. La delegazione ha voluto portare «vicinanza e solidarietà» ai lavoratori e ai loro familiari e amici. PULMINO ERA RUBATO - Un pulmino bianco stracolmo di migranti, forse 20, tutti in piedi, che viaggia sulla strada statale 16 e che, da un controllo sull'App del ministero, risulta essere stato rubato nel mese di maggio a San Salvo, in Abruzzo: è questa l’immagine che sta spopolando su Facebook. Si tratta della foto scattata questa mattina in Puglia, sulla statale 16 e postata su Facebook da un imprenditore agricolo del foggiano, Marco Nicastro, per poi essere rilanciata con un altro post dal consigliere comunale di San Severo (Foggia) Francesco Stefanetti (Fratelli d’Italia) il quale, attraverso un amico, ha verificato che il furgone fotografato che viaggiava stamani sulla statale 16 risulta essere stato rubato nel mese di maggio. La segnalazione, prima di Marco Nicastro e poi rilanciata da Stefanetti, viene fatta il giorno dopo il terribile incidente stradale avvenuto nel Foggiano e nel quale sono morti quattro braccianti agricoli, tutti migranti, ed altri quattro sono rimasti feriti, che viaggiavano a bordo di un pulmino, al ritorno dai campi dove avevano raccolto i pomodori. «Ogni giorno - dice Stefanetti - è possibile assistere alla scena di pulmini stracolmi di stranieri, per lo più africani, che viaggiano sulle strade tra San Severo e Foggia: si tratta di persone che viaggiano spesso ammassati, in piedi, senza nessun tipo di sicurezza e che vengono trasportate a bordo di mezzi vecchi, spesso anche rubati. Occorrono sicuramente maggiori controlli da parte delle forze dell’ordine».
Altro schianto nel Foggiano: morti 12 braccianti, (7 regolari). Domani il premier Conte in Puglia. Salvini e Di Maio: «Più ispettori contro caporalato». Lo scontro frontale è avvenuto tra un furgone carico di migranti rientrati da poco dai campi e un tir carico di pomodori, scrive il 6 Agosto 2018 "La Gazzetta del Mezzogiorno". Erano in 14, probabilmente viaggiavano in piedi, stipati in un furgoncino bianco con targa bulgara che poteva trasportare al massimo otto persone e che si è capovolto sull'asfalto dopo lo schianto: una scena apocalittica, con i corpi straziati tra le lamiere. Dodici i morti, tre i feriti. Le vittime sono tutti braccianti agricoli extracomunitari che tornavano da un’altra dura giornata di lavoro nelle campagne del Foggiano. Sette di loro sono stati identificati fino ad ora e - per quanto si apprende dalla polizia - sono tutti regolari. L’impatto tra il pulmino ed un tir che trasportava un carico di farinacei, è avvenuto sulla statale 16, all’altezza dello svincolo per Ripalta, nel territorio di Lesina, nel Foggiano. Sale così a 16 il numero dei morti che si contano in due incidenti stradali avvenuti a poco più di 48 ore di distanza l’uno dall’altro e che mostrano drammaticamente, per una tragica fatalità, le stesse modalità e circostanze.
SABATO L'ALTRO INCIDENTE - Solo sabato scorso, allo stesso orario, le 15.30, altri quattro braccianti nordafricani che erano a bordo di un pulmino bianco sono morti nell’impatto con un tir carico di pomodori, sulla strada provinciale 105 tra Ascoli Satriano e Castelluccio dei Sauri. Quattro i feriti, anche loro migranti, che sono ricoverati in gravi condizioni in ospedale. Su questo incidente, che ha mobilitato tutte le sigle sindacali, si indaga per caporalato, per verificare, cioè, se le vittime fossero nelle mani di caporali. La stessa indagine potrebbe ora riguardare anche l’incidente stradale di oggi. Sembra che il furgone con a bordo i migranti stesse procedendo verso San Severo quando l’autista, forse a causa di un colpo di sonno o forse per un malore, avrebbe perso il controllo del mezzo che ha invaso la corsia opposta, scontrandosi frontalmente con il tir carico di farinacei che viaggiava in direzione opposta. Dodici braccianti sono morti sul colpo. I tre feriti, tra cui anche l'autista del camion, sono stati ricoverati nell’ospedale di San Severo: nessuno di loro è in pericolo di vita. Per estrarre le vittime dalle lamiere i vigili del fuoco hanno fatto intervenire una gru. Sul posto anche i carabinieri, la polizia stradale e ambulanze del 118. Anche in questo caso, come già si è verificato sabato scorso, le vittime non avevano documenti di riconoscimento e la loro identificazione richiederà tempo. E' probabile, così come è stato accertato per le vittime di sabato, che il furgone carico di migranti, per lo più africani, stesse rientrando nel Ghetto di Rignano, sgomberato nel 2017 e dove in realtà ne è già sorto un altro, con circa 600 roulotte.
IL MINUTO DI SILENZIO - L’Aula del Senato ha osservato un minuto di silenzio in memoria delle vittime. Il ministro del Lavoro Luigi Di Maio ha annunciato che saranno avviate tutte le procedure per un aumento del numero degli ispettori contro la piaga del caporalato. E il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, ha detto che chiederà controlli a tappeto per combattere sfruttamento e caporalato. Su Facebook il premier Giuseppe Conte annuncia che domani sarà a Bologna e a Foggia, per portare la vicinanza di tutto il Governo ai feriti e ai familiari delle vittime.
LE PAROLE DI EMILIANO - Il governatore della Puglia, Michele Emiliano, è convinto che «si può, si deve fare qualcosa e subito» e precisa che la Regione ha stanziato le risorse per garantire un trasporto più sicuro dei lavoratori dell’agricoltura. «Ma per predisporre un servizio di trasporto pubblico - dice - è necessaria la collaborazione delle aziende agricole che, con la massima trasparenza, devono farne richiesta comunicando numero di lavoratori, orari di lavoro, tragitti di percorrenza. Questo non avviene mai, non è mai avvenuto sino ad oggi».
I SINDACATI - A Foggia domani Flai, Fai e Uila terranno una conferenza stampa per illustrare i dettagli della manifestazione che le tre categorie sindacali Agricole di Capitanata hanno promosso, già ieri, per mercoledì nel capoluogo Dauno. E l’8 agosto si terrà, decisa sempre ieri, dalla Usb - con partenza dal ghetto di Rignano e arrivo a Foggia - una «marcia dei berretti rossi», come i cappellini che i braccianti indossavano nei campi per proteggersi dal solleone mentre raccoglievano i pomodori per ricevere la paga di 2 euro e 50 all’ora.
L'APPELLO DI SALVINI - «Chiederò controlli a tappeto per combattere, in tutta Italia, sfruttamento e caporalato». E' quanto afferma il vicepremier e ministro dell’Interno Matteo Salvini dopo l’incidente a Foggia. «Altri 12 braccianti stranieri morti in un incidente stradale - aggiunge il ministro - non si può andare avanti così. Una preghiera per le vittime e le loro famiglie».
Foggia, strage di braccianti, un testimone: «Ho visto il tir sbandare poi il rumore di lamiere». Il racconto dell’operaio di San Severo e i primi soccorsi, scrive il 7 Agosto 2018 "La Gazzetta del Mezzogiorno". «Davanti a me c'era un altro camion, viaggiavo sulla stessa direzione di marcia del furgone delle 12 vittime, cioè verso San Severo. All'improvviso ho visto un altro tir che, procedendo sulla corsia opposta, sembrava sbandare, forse stava solo cercando di evitare il camioncino su cui viaggiavano i migranti. Poi il botto, è stata una carneficina». Giovanni, operaio 52 enne di San Severo, racconta così l'impatto fatale che ieri pomeriggio ha provocato al morte di 12 persone e il ferimento di altre tre nei pressi dell'incrocio per Ripalta, in territorio di Lesina, lungo la «statale 16 Adriatica». «Penso proprio che l'autista del camion abbia tentato di schivare il furgone. L'autista ha fatto di tutto mettendo a repentaglio anche la propria vita. Purtroppo non è stato possibile evitare l'incidente. E che si trattasse di una carneficina ce ne siamo accorti subito, a cominciare dal rumore delle lamiere e il botto del camion che ha finito la sua corsa contro il muro di cinta di un'azienda». È stato proprio l'operaio sanseverese – con un passato nella protezione civile - a dare per primo l'allarme. In pochi minuti sul posto sono giunti i carabinieri della compagnia di San Severo, della stazione di Lesina, ma anche i vigili del fuoco di San Severo, numerose unità del 118, nonché pattuglie della polizia stradale. Poi i soccorsi. «E' stata una vera e propria corsa di solidarietà – commenta Giovanni -: molti automobilisti e camionisti si sono fermati e hanno iniziato a tirare fuori dalle lamiere contorte i feriti. Per quello che ho visto io nessuno nell’immediatezza dell’incidente ha pensato di proseguire. Si sono fermati per dare una mano, per prestare soccorso, almeno fino all’arrivo delle prime ambulanze e del personale delle forze dell’ordine. Tre corpi erano intrappolati nella cabina di guida completamente schiacciata, altri tre sono stati sbalzati fuori, tutti gli altri erano rimasti sotto quel che rimaneva del furgone. Compresi i feriti. Uno slancio senza eguali, anche se non rende meno brutta una giornata come questa. Erano tutti ragazzi che tornavano da una giornata di lavoro. Con loro gli accessori di tutti i giorni, zaini, roba da mangiare... Tutto sparso per terra... come i loro corpi». I feriti sono stati poi soccorsi dal 118 per poi essere trasportati all'ospedale di San Severo. Per gli altri dodici invece le bare destinazione l’obitorio. «Non ho mai visto un incidente di simile portata. Uno scenario raccapricciante. Con un dato certo: non possono essere più giustificate tragedie del genere. Oggi lo dico anche io dopo quello che ho visto. Non si può morire in questo modo... E' umiliate anche per noi... Occorre scuotere le coscienze».
SIAMO TUTTI CAPORALI.
Cosa dice la nuova legge contro il caporalato, scrive "Il Post" il 19 ottobre 2016. È stata approvata definitivamente ed estende responsabilità e sanzioni anche agli imprenditori che fanno ricorso allo sfruttamento del lavoro. Martedì 18 ottobre la Camera dei deputati ha approvato definitivamente il disegno di legge contro il cosiddetto caporalato che, tra le altre cose, contiene specifiche misure per i lavoratori stagionali in agricoltura ed estende responsabilità e sanzioni per i “caporali” e gli imprenditori che fanno ricorso alla loro intermediazione. I voti a favore sono stati 336, nessun contrario, gli astenuti sono stati 25 (Forza Italia e Lega). Il testo era già stato approvato dal Senato lo scorso agosto. Di cosa parliamo. Il “caporalato” è un fenomeno presente soprattutto nei settori dell’agricoltura e dell’edilizia e consiste nel reclutamento, da parte di soggetti spesso collegati con organizzazioni criminali, di lavoratori che vengono trasportati sui campi o nei cantieri edili per essere messi a disposizione di un’impresa. I lavoratori sono spesso persone in grande difficoltà economica e immigrati irregolari senza permesso di soggiorno: queste persone, che si trovano in una posizione molto debole, vengono pagate pochissimo, fanno lavori con turni lunghi e faticosi e subiscono spesso maltrattamenti, violenze e intimidazioni da parte dei cosiddetti “caporali”, le persone che gestiscono il traffico dei lavoratori. Le pratiche di sfruttamento dei caporali prevedono: mancata applicazione dei contratti di lavoro, un salario di poche decine di euro al giorno, orari tra le 8 e le 12 ore di lavoro, violenza, ricatto, sottrazione dei documenti, imposizione di un alloggio e forniture di beni di prima necessità, imposizione del trasporto sul posto di lavoro effettuato dai caporali stessi, che viene fatto pagare molto caro ai lavoratori. Ci sono diverse figure nell’organizzazione del caporalato: il “caponero”, che organizza le squadre e il trasporto, il “tassista” che gestisce il trasporto, il “venditore” che organizza le squadre e la vendita di beni di prima necessità a prezzi spesso molto alti, “l’aguzzino”, che utilizza e impone sistematicamente violenza o la sottrazione dei documenti di identità (che serve per avere maggiore controllo di una persona), il “caporale amministratore delegato”, l’uomo fidato che gestisce per conto dell’imprenditore l’intera campagna di raccolta dei lavoratori. Ci sono poi nuove forme di caporalato come il “caporalato collettivo” che utilizza forme apparentemente legali (cooperative e agenzie interinali) per mascherare l’intermediazione illecita di manodopera (assumono con un contratto a chiamata indicando molti meno giorni di quelli effettivamente lavorati) e infine c’è il “caporalato mafioso”, legato alla criminalità organizzata. Non ci sono dati ufficiali dettagliati sull’estensione del fenomeno, che negli ultimi anni è stato raccontato da diverse inchieste giornalistiche e indagini. Secondo l’ISTAT, il lavoro irregolare in agricoltura, a cui è associato comunemente il caporalato, è in costante crescita da dieci anni a questa parte e il terzo rapporto Agromafie e caporalato, del maggio 2016, realizzato dall’osservatorio Placido Rizzotto della FLAI-CGIL, dice che le infiltrazioni mafiose nella filiera agroalimentare e nella gestione del mercato del lavoro attraverso la pratica del caporalato muovono in Italia un’economia illegale e sommersa che va dai 14 ai 17,5 miliardi di euro. Il rapporto individuava circa 80 distretti agricoli indistintamente dal nord al sud Italia e quantificava tra 400 e 430 mila le persone soggette a sfruttamento, sia italiani che stranieri. Un settore specifico di sfruttamento riguarda infine le donne, generalmente italiane: in Puglia sono circa 40 mila, con paghe che non superano i 30 euro per dieci ore di raccolta nei campi. Il caporalato, ossia l’intermediazione illecita e lo sfruttamento del lavoro, era stato inserito tra i reati perseguibili penalmente nel Codice penale nel 2011, con un nuovo articolo: il 603-bis, collocato nel titolo XII del Libro II tra i delitti contro la persona e, in particolare, tra i delitti contro la libertà individuale. Puniva l’intermediazione con la reclusione da cinque ad otto anni e con multe da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato. La fattispecie del nuovo reato era tuttavia piuttosto complicata: prevedeva l’individuazione di un’attività organizzata di intermediazione, non dava una definizione di “intermediazione” e stabiliva una serie di specifiche condotte che costituivano lo sfruttamento. La nuova legge – che si compone di 12 articoli – riscrive il reato semplificandolo e liberandolo da alcune specifiche che prima ne complicavano l’individuazione: introduce cioè una fattispecie-base che prescinde da comportamenti violenti, minacciosi o intimidatori prima previsti e trasforma il caporalato caratterizzato dall’utilizzo di violenza o minaccia in un sottogenere della fattispecie base. Inoltre, introduce la sanzionabilità anche del datore di lavoro e non solo dell’intermediario, prevede l’applicazione di un’attenuante in caso di collaborazione con le autorità, l’arresto obbligatorio in flagranza di reato, la confisca dei beni, in alcuni casi. Nell’elenco degli indici di sfruttamento dei lavoratori aggiunge il pagamento di retribuzioni palesemente difformi da quanto previsto dai contratti collettivi territoriali e precisa che tali contratti, come quelli nazionali, sono quelli stipulati dai sindacati nazionali maggiormente rappresentativi. Il disegno di legge, poi, aggiunge il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro tra i reati per i quali (in caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti) è sempre disposta la confisca obbligatoria del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui il condannato non possa giustificare la provenienza. La nuova formulazione prevede di base la reclusione da uno a sei anni e una multa da 500 a 1.000 euro per ogni lavoratore reclutato. Il provvedimento prevede l’assegnazione al Fondo antitratta dei proventi delle confische ordinate a seguito di sentenza di condanna o di patteggiamento per il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro e estende le finalità del Fondo antitratta anche alle vittime del delitto di caporalato: le due situazioni sono ritenute simili e spesso le stesse persone sfruttate nei lavori agricoli sono reclutate usando i mezzi illeciti come la tratta di esseri umani. L’ultima parte della legge introduce infine misure di sostegno e di tutela del lavoro agricolo come il potenziamento della Rete del lavoro agricolo di qualità, che dovrebbe raccogliere, certificare e “bollinare” le aziende virtuose e un piano per la sistemazione logistica e il supporto dei lavoratori stagionali.
"Siamo tutti caporali!”, il Ddl sul lavoro nero penalizza gli agricoltori onesti, scrive "Targato Cuneo” venerdì 14 ottobre 2016. Confagricoltura Cuneo invia una nota ai parlamentari e consiglieri regionali della Granda: “Condivisibili le finalità, ma così si colpisce anche chi commette violazioni lievi e formali”. “Non si può trattare con lo stesso rigore punitivo chi, con violenza e minaccia, sfrutta i lavoratori e li sottopone a trattamenti degradanti e disumani e i datori di lavoro che assumono e assicurano regolarmente i propri dipendenti ed occasionalmente incorrono in violazioni lievi e meramente formali della normativa legale e contrattuale. Con questa legge gli imprenditori agricoli rischierebbero di essere considerati tutti dei caporali”. Enrico Allasia, presidente di Confagricoltura Cuneo, commenta così il disegno di legge sui temi del caporalato, del lavoro nero e dello sfruttamento della manodopera attualmente all’esame della Camera. Confagricoltura Cuneo, nell’esprimere preoccupazione per le ricadute che alcune misure contenute nel provvedimento potrebbero avere sul sistema imprenditoriale agricolo, ha inviato una nota ai parlamentari cuneesi e ai consiglieri regionali della Granda per manifestare tutte le sue perplessità. “Il provvedimento è condivisibile nelle finalità – prosegue Allasia -, ma gli strumenti previsti non centrano solamente l’obiettivo della lotta all’intermediazione illecita e allo sfruttamento, rischiano di far sentire i loro effetti anche sulle imprese che operano correttamente sul mercato del lavoro. Se il disegno di legge passasse così com’è stato approvato al Senato, per i datori di lavoro in agricoltura si aprirebbe una stagione tremenda. Queste misure, infatti, non sono utili a combattere il fenomeno del caporalato e potrebbero mettere in gravi difficoltà gli imprenditori”. Nel ritenere che l’intento perseguito dal disegno di legge, ossia la lotta al caporalato e allo sfruttamento del lavoro in agricoltura, sia condivisibile e appoggiando parte delle modifiche apportate al testo originario, l’organizzazione agricola ritiene sia necessario, in particolare, intervenire sull’articolo 1 del testo che prevede che sia punibile non solo l’intermediario (caporale), ma anche l’imprenditore che utilizza manodopera reclutata illegittimamente. Inoltre, prevede che sia punibile l’imprenditore che utilizza manodopera assunta regolarmente quando ricorrano violazioni lievi di normative legali e contrattuali in materia di igiene e sicurezza, orario di lavoro e retribuzione. “In altre parole – prosegue Allasia – con questa legge i datori di lavoro rischierebbero di essere considerati tutti dei caporali. È necessario che le norme penali ipotizzate siano equilibrate e vadano a colpire i veri criminali, ossia coloro che organizzano l’attività di intermediazione illecita e se ne avvantaggiano economicamente”. A queste misure penalizzanti si aggiungono anche i recenti aggravi previsti dalla nuova disciplina sui voucher che per Confagricoltura Cuneo danneggia fortemente gli agricoltori: “Non è certo l’agricoltura il settore nel quale si è registrata un’esplosione del numero dei voucher, visto che solo il 4,3% dei voucher venduti, dal 2008 al primo semestre 2016, sono stati impiegati in agricoltura – afferma il direttore di Confagricoltura Cuneo, Roberto Abellonio -. Non si comprende quindi tutto l’allarme lanciato contro l’utilizzo di questo strumento nel settore agricolo, dove invece ha dimostrato essere un valido supporto e, a differenza degli altri settori produttivi, può essere utilizzato solo per prestazioni relative ad attività stagionali, peculiari nel nostro settore, e svolte da pensionati e studenti fino a 25 anni”.
Il caporalato nelle vigne spiegato a mia figlia: sfruttamento, evasione fiscale, incidenti sul lavoro, scrive il 09/11/2015 Giancarlo Gariglio. Il caporalato è una gramigna che va estirpata dalle vigne italiane. Un fenomeno che colpisce al cuore il sistema politico, economico e sociale italiano per tre motivi: sfruttamento della manodopera (che talvolta è gestito dalla malavita organizzata), favorisce l’evasione fiscale e gli incidenti sul lavoro a causa della sistematica disattenzione delle norme sulla sicurezza. Ho la netta impressione che molti produttori di vino non abbiano chiaro questo meccanismo perverso. Ieri ho ricevuto la telefonata di una celebre vignaiola che mi chiedeva quale fosse il senso della nostra passata denuncia. Vorrei chiarirlo in questo articolo. Il caporalato è una piaga che non interessa solo il periodo della vendemmia, come aveva provato la nostra inchiesta pubblicata sulle pagine di Slowine.it il 26 giugno scorso: salari che in alcuni casi possono scendere fino alla misera cifra di 3 euro all’ora un sistema di sfruttamento che colpisce i lavoratori stranieri che forniscono le braccia nelle nostre vigne, da Nord a Sud senza grandi eccezioni. Gli sfruttatori, nella maggior parte dei casi, sono gli stessi connazionali, che giocano sulla disperazione e anche sul silenzio di macedoni, rumeni e pachistani. Nessuno denuncia un compatriota, perché si temono ritorsioni sui parenti rimasti a casa. Nel giugno scorso non ci eravamo proprio inventanti nulla, lo prova la nostra registrazione ambientale (pubblicata su Repubblica.it) realizzata in una cooperativa alle porte di Neive, che ha un ufficio e una struttura organizzativa di un certo peso e nonostante questo ci ha offerto lavoro in nero a cifre stracciate. E lo provano chiaramente anche i preventivi di cui siamo entrati in possesso e che pubblichiamo qui a fianco. La situazione durante l’estate è diventata ancora più grave, dopo che la cronaca nera è entrata di prepotenza in gioco in seguito alle morti di alcuni “schiavi” nei campi del Sud Italia. Un fenomeno così grave da aver fatto dichiarare, il 19 agosto scorso, al Ministro delle Politiche Agricole Maurizio Martina: «Il caporalato in agricoltura è un fenomeno da combattere come la mafia e per batterlo occorre la massima mobilitazione di tutti: istituzioni, imprese, associazioni e organizzazioni sindacali. Chi conosce situazioni irregolari deve denunciarle senza esitazione». Ma quali sono i meccanismi e le scappatoie che permettono a un fenomeno tanto antico, quanto ignobile, come il caporalato di esseri insinuato quasi indisturbato nelle nostre campagne e di aver inquinato come un cancro la viticoltura, che per tutti è il fiore all’occhiello della nostra agricoltura? Per capire meglio tutto questo abbiamo cercato una fonte disposta a raccontarci il sistema che è alla base di tutto questo. Per comprensibili ragioni di sicurezza preferisce mantenere l’anonimato. Lo chiameremo per semplicità Marco, lavora in un’azienda che presta servizi agricoli: «La legge 1369 del 1960 conteneva tre capisaldi per allontanare dal mondo del lavoro il rischio di sfruttamento del lavoro. Il primo e anche il più importante era quello che non ci può essere vendita di manodopera, ma le aziende che appaltano devono dotarsi di una struttura organizzativa. Il secondo punto fondamentale era che le aziende appaltatrici devono assumersi il rischio di impresa (altrimenti fanno semplicemente il mestiere di intermediari del lavoro altrui) e infine deve esserci piena autonomia tra appaltatore e committente. Questa legge era molto chiara, non lasciava tante scappatoie. Poi il mercato del lavoro è cambiato, si è sentito il bisogno di aumentare la flessibilità e dall’altra parte la crisi economica ha investito tutti i settori. La concorrenza si è fatta più dura e i produttori di vino hanno deciso che era ora di tagliare le spese dove possibile, non hanno sacrificato le cantine hollywoodiane, ma hanno esternalizzato i costi del lavoro». Tra la fine del Novecento e l’inizio degli anni Duemila poi si stava anche assistendo all’uscita dal mondo del lavoro degli ultimi braccianti italiani, per le aziende era sempre più complicato assumere persone di fiducia che conoscessero bene il mestiere del vignaiolo. Sono nate così le prime aziende di servizi e cooperative definite “senza terra”, che avevano il chiaro e preciso obiettivo di sopperire a questa mancanza di manodopera, fornendola a prezzi concorrenziali e sostenibili da parte delle cantine. Molte di loro lavorano in piena legalità e dobbiamo anche a loro il successo del vino italiano a livello internazionale. Ma quella che pareva la soluzione migliore del mondo, a causa di alcuni disonesti, si è rivelata alla fine un gigantesco inganno ai danni dei lavoratori, dello Stato italiano e della giustizia sociale. «Dal 2003 abbiamo avuto una nuova norma», ci dice Marco «che disciplinava il settore, la cosiddetta legge Biagi. Questa ha aperto un piccolo spiraglio che si è trasformato, poi, in una sorta di voragine dando il la alla nascita di un numero sempre maggiore di imprese e cooperative che fanno finta di proporre appalti regolari alle cantine, ma che in realtà si limitano a vendere manodopera. Cosa è cambiato nel 2003? In pratica si è lasciata la possibilità di affittare i macchinari dall’azienda che appalta. Ma se queste società non possiedono la terra, non hanno un’attrezzatura per gestire i lavori in vigna, che cosa forniscono? Esclusivamente delle braccia. Fanno caporalato punto e basta. Rastrellano la gente e la mettono a disposizione delle aziende come manovali pagati a ore». La situazione è drammatica, inutile negarlo e sono i numeri a dircelo. Nel 2015 il nucleo del Comando dei Carabinieri Tutela del Lavoro ha scovato 4.000 lavoratori irregolari su 12.181 controllati, praticamente uno su tre. Il lavoro nero è dilagante. Gli stessi inquirenti sono scoraggiati, perché a fronte di multe anche molto ingenti alla fine non si raccoglie nulla. Come mai? «A capo di queste società», ci spiega Marco, «viene messa una cosiddetta testa di legno. Una persona nullatenente, che non rischia nulla perché non possiede nulla». Ma veniamo ora a un aspetto troppe volte sottovalutato, che riveste grande importanza nel inquadrare il fenomeno del caporalato. Questo meccanismo malato sottrae anche alle casse del fisco un fiume di denaro incalcolabile. Perché queste imprese esistono solo sulla carta. Fatturano regolarmente le prestazioni alle cantine, incassano da queste anche l’Iva ma poi, molto spesso, non la versano. Tanto, dopo un anno, massimo due, scompaiono nel nulla. Lo fanno prima che il fisco abbia il tempo di accorgersi di loro. Pertanto quando prendiamo in mano i preventivi di queste aziende truffaldine vediamo che citano l’Iva (come potete notare nel immagini che abbiamo pubblicato), ma è solo un trucco per far dormire sonni tranquilli alle cantine con cui fanno affari. Lo stesso discorso vale anche per la sicurezza sul lavoro, le aziende di servizi dovrebbero sottoporre i propri dipendenti alle regolari visite mediche, li dovrebbero dotare di attrezzatura antinfortunistica. Tutto questo è completamente disatteso dalle realtà truffaldine: non fanno formazione, non hanno a cuore la salute dei propri dipendenti che sono semplice carne da macello. L’unica attrezzatura che gli danno in dotazione sono le forbici per potare e per tagliare gli stralci (investimento 30 euro…). In più i manovali sono sottoposti a orari estenuanti di lavoro, che li mette ancora di più a rischio, perché con la fatica la soglia di attenzione si abbassa drasticamente. «È troppo semplice per queste persone andare alla Camera di Commercio e aprire un’azienda di questo tipo. Se non si deve neppure dimostrare di possedere i macchinari per compiere le lavorazioni nei campi, allora i requisiti sono troppo bassi», continua Marco. Il clima d’impunità generalizzata è alimentato dal silenzio/assenso delle cantine, o almeno da una parte di queste. Noi siamo riusciti a raccogliere un buon numero di preventivi e i prezzi praticati (nel migliore dei casi) sono del 30 o 40% inferiori a quelli reali di mercato. Queste imprese offrono la potatura a 400 euro a ettaro, ma un imprenditore agricolo sa benissimo che per quel compito si deve lavorare almeno 40 ore. Quindi il costo orario che paga è di appena 10 euro. È impossibile, con quelle cifre rispettare il salario minimo e versare allo stesso tempo i contributi. Significa che l’azienda che fornisce manodopera sfrutta l’operaio o froda il fisco, ma è molto probabile che stia facendo entrambe le cose. Veramente eclatante è il discorso relativo alla vendemmia. Quella meccanica costa 500 € a ettaro (si fanno circa 3 ettari al giorno), come è possibile per quella manuale accettare preventivi dello stesso valore? Infatti, in media ci vogliono otto persone che lavorano otto ore (totale 64) più un trattore con operaio per altrettante ore (probabilmente dell’azienda committente, altro escamotage praticamente illegale perché il dipendente della cantina per legge non può lavorare fianco a fianco con quelli dell’azienda appaltatrice) per vendemmiare un ettaro. Neppure otto euro all’ora fatturati. Le cantine che accettano questi prezzi non possono non sapere che un sistema di questo tipo nasconde una truffa. E poco serve alla cantina stessa richiedere ad esempio il Durc (attestazione pagamento di contributi in modo regolare) per stare al sicuro, perché le aziende truffaldine assumono i braccianti ma si limitano a dichiarare il pagamento di pochi giorni al mese. «Eppure siamo circondati», conclude sconsolato Marco, «da numerose istituzioni che hanno potere ispettivo: Inps, Asl, Comando dei Carabinieri Tutela del Lavoro e Ispettorato del Lavoro. Forse uno dei problemi è proprio lo scarso coordinamento e conseguente dispersione delle forze in campo. In definitiva gli strumenti per combattere questo fenomeno ci sono: le leggi da far rispettare hanno bisogno di qualche ritocco ma potrebbero funzionare. Il vero nodo, che sta alla base di tutto, è fermare sul nascere la creazione di quelle aziende che in realtà non sono in possesso dei macchinari per i lavori in vigna ma hanno solo una possibilità: vendere braccia». Una cosa è certa, e questo è il messaggio che va indirizzato alle cantine, gli operai delle aziende di servizi non possono costare meno di quelli regolarmente assunti dalle cantine stesse, perché tutte le aziende sono soggette alle stesse leggi del mercato e in più chi fornisce la manodopera deve anche ricavare un piccolo guadagno dagli appalti che si sono aggiudicati. Le imprese di servizi agricoli sono utili perché forniscono da una parte alle cantine elasticità nell’assumere personale quando i lavori sono più pressanti e dall’altra specializzazione della manodopera. I miracoli in questo campo non esistono, i preventivi sottocosto puzzano di sfruttamento, elusione fiscale e probabile finanziamento di attività criminose. Per rispondere alla domanda iniziale della produttrice possiamo dire che Slow Food si occupa di questo fenomeno anche nel suo interesse, perché vorremmo evitare che le cantine virtuose debbano convivere con vicini di casa che fanno loro concorrenza sleale mettendo a rischio la salute dei manovali, alimentando l’elusione fiscale e sfruttando il lavoro di esseri umani, che hanno lo stesso diritto nostro di aspirare a uno spicchio di felicità in questa vita.
La giungla della logistica. Tra caporalato, evasione e sfruttamento, scrive il 10/04/2014 "Radio Città del Capo". “Siamo tornati al caporalato”, anche se oggi i lavoratori non stanno ad aspettare a bordo strada l’arrivo di un camion che li porti a destinazione: “Vivono con il cellulare in mano, perché sanno se andranno a lavorare con dieci minuti di anticipo e senza sapere quante ore faranno quel giorno”. E’ quello che accade nel mondo della logistica bolognese stando al racconto di Stefano Rivola, della Filt-Cisl dell’Emilia-Romagna, oggi in Comune per un’udienza conoscitiva. Quello della logistica è un settore in cui imperversano cooperative che, al termine di lunghe catene di appalti, “offrono prezzi lontanissimi dalla copertura del costo dei soci lavoratori”, aggiunge Rivola: quest’ultimo si aggira sui 18 euro all’ora, ma gli appalti si vincono “a 14 euro quand’è festa”. Si tratta di coop “che chiudono ogni due anni per evitare i controlli”, continua Rivola, spesso senza neanche una sede legale “certa e rintracciabile”, perché coincidente con lo studio di un consulente o di un avvocato. Terreno fertile per “l’infiltrazione della malavita”, aggiunge il sindacalista, giudicando “un buon inizio” la nuova legge di regolamentazione del settore che è in approvazione da parte della Regione. Anche gli altri sindacati di categoria confermano lo scenario. Alberto Ballotti, segretario della Filt-Cgil di Bologna, si sofferma sull’evasione fiscale e contributiva. “Ci sono casi di lavoratori che su 1.300 euro di retribuzione ne prendono 1.000 di trasferta, che è esente da qualsiasi tassa e contribuzione pensionistica”, riferisce il sindacalista, ma è “inverosimile” che all’Inps nessuno si accorga di una tale stortura. Allo stesso modo, “non è possibile che i committenti non si accorgano di nulla, perché spesso - spiega Ballotti - sono loro ad organizzare l’attività quotidiana dei magazzini”. C’è una “forte carenza di controlli”, aggiunge il segretario della Filt. All’Interporto, ad esempio, “servirebbe una presenza costante di Guardia di finanza e Direzione provinciale del lavoro perché succede di tutto”, dichiara Ballotti, ma in alcune aziende il sindacato fatica ad entrare: molti dei lavoratori sono stranieri e facilmente “ricattabili”. Tutto questo riguarda soprattutto le cosiddette coop “spurie”, ma per Ballotti “non è che nella cooperative normali siamo messi molto meglio”, perchè anche lì si registra “una certa difficoltà” ad applicare i contratti nazionali”. Nella logistica si muovono aziende “che vanno dalla serie A alla serie Z” e queste ultime “può darsi che neanche le conosciamo”, afferma Raffaele Perfetto, segretario regionale della Uil trasporti. Allo stesso tempo, “ci sono le aziende che cercano di applicare regolarmente i contratti, ma non ci riescono- aggiunge il sindacalista- perché non reggono il mercato”. Dunque, l’auspicio è che la nuova legge regionale “vada nella giusta direzione”, conclude Perfetto, ma l’importante è che “non resti sulla carta”. C’è da sperare che “non si tratti di pura demagogia - aggiunge Sebastiano Taumaturgo dell’Usb - perché si dice che bisogna tenere fuori l’illegalità, ma questa comincia già dai committenti”. Per il sindacato di base bisogna eliminare le catene di subappalto che portano ai massimi ribassi, scatenando una guerra tra poveri che non riguarda solo i singoli lavoratori: c’è anche quella tra diverse etnie le quali, riferisce Taumaturgo, si rendono disponibili a lavorare con diverse fasce di prezzo. Su queste tematiche, il Consiglio comunale si appresta ad intervenire con un ordine del giorno che, tra le altre cose, mira a sollecitare la Regione ad una rapida approvazione della nuova legge. Documento che dovrebbe essere bipartisan: l’iniziativa, presa da Rossella Lama (Pd), è stata subito sposata da Patrizio Gattuso di Forza Italia. (Dire)
Jobs act, creare finte coop per tagliare costi non è più reato. “Così il lavoratore perde il posto e l’impresa onesta chiude”. La riforma ha cancellato il reato di somministrazione fraudolenta, che si configurava quando un'azienda creava società fasulle a cui affidare alcune attività sulla pelle dei dipendenti, con contratti capestro, stipendi ridotti, abusi negli orari. Un fenomeno che va a braccetto con il caporalato. Il docente: "Sono state aumentate le sanzioni, per cui lo Stato guadagna di più, ma l'operaio perde il lavoro", scrive Stefano De Agostini il 14 luglio 2016 su “Il Fatto Quotidiano”. Prima era reato. Dopo il Jobs act, non più. Fino a un anno fa, gli ispettori del lavoro potevano obbligare le imprese colte in flagrante ad assumere i dipendenti sfruttati. Ora i lavoratori perdono semplicemente il posto. E le imprese rispettose delle regole hanno costi più alti e vanno fuori mercato. E’ il quadro dipinto dagli addetti ai lavori a 13 mesi dalla cancellazione del reato di somministrazione fraudolenta. Quello che si verifica quando le imprese creano società fasulle, in particolare cooperative, per affidare loro alcune attività e ridurre così gli esborsi sulla pelle dei lavoratori, con contratti capestro, stipendi ridotti, abusi negli orari. Un fenomeno che va a braccetto con il caporalato e che, non a caso, è evidente in modo particolare nel settore agroalimentare. “Un anno fa, l’ispettore del lavoro interveniva per il ripristino immediato delle tutele del lavoratore: retribuzione, tempi di lavoro, contratto, inquadramento – spiega Pierluigi Rausei, docente di Diritto sanzionatorio del lavoro alla scuola di dottorato Adapt presso l’Università di Bergamo – Adesso, invece, ci sono solo sanzioni economiche. Che sono più aspre di prima, ma l’obbligo di assumere il dipendente non c’è più. Oggi lo Stato guadagna più soldi, ma il lavoratore perde il posto”. Il reato, istituito dalla legge Biagi del 2003, si contestava di fronte a una somministrazione di lavoro “posta in essere con la specifica finalità di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicato al lavoratore”. In sostanza, come spiega Rausei, si verificava quando “un’impresa affidava un’attività, svolta in proprio fino al giorno prima, a una società creata ad hoc, una finta cooperativa o una finta srl, per abbattere i costi riducendo le tutele dei lavoratori”. Nel 2015, secondo i dati del ministero del Lavoro, i rilievi ispettivi in materia di “esternalizzazioni fittizie”, tra le quali rientra anche la somministrazione fraudolenta, hanno coinvolto 9.620 lavoratori, il 16% in più rispetto all’anno precedente. Ma il decreto attuativo del Jobs act sul riordino dei contratti, firmato da Matteo Renzi e dal ministro del Lavoro Giuliano Poletti e entrato in vigore nel giugno 2015, ha spazzato via questo reato abrogandolo. “L’abolizione della somministrazione fraudolenta – aggiunge Rausei – ha determinato l’immediata decadenza dei procedimenti sanzionatori in corso”. L’opera cominciata con il Jobs act è poi stata compiuta con un decreto approvato nel gennaio del 2016, il numero 8. Con questo provvedimento, il governo ha inasprito le sanzioni, ma al tempo stesso ha esteso l’ambito della depenalizzazione. Prima, i trasgressori dovevano pagare un’ammenda pari a 50 euro per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di lavoro. Da gennaio, la sanzione parte da 5mila euro e può arrivare fino a 50mila. Ma intanto le violazioni in materia di somministrazione sono scivolate dall’ambito penale a quello amministrativo. “Non costituiscono reato e sono soggette alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro tutte le violazioni per le quali è prevista la sola pena della multa o dell’ammenda”, stabilisce il decreto. “E’ il capitolo due rispetto al Jobs act – aggiunge Rausei – Se la riforma del lavoro ha abolito la somministrazione fraudolenta, il decreto ha depenalizzato tutti gli altri reati in materia di somministrazione, eccetto quelli che riguardano l’impiego di minorenni. Per il resto, i reati si sono trasformati in illeciti amministrativi che prevedono solo il pagamento di una sanzione pecuniaria”. Sono i sindacati a raccontare le conseguenze pratiche della depenalizzazione. “L’abolizione del reato è stata un’ulteriore libertà di bypassare le norme concessa dal governo a caporali, false cooperative e committenti senza scrupoli – spiega Umberto Franciosi, segretario Flai Cgil Emilia Romagna – E così le imprese che rispettano le leggi di questa Repubblica, che hanno costi più alti, vanno fuori mercato”. Gli abusi della somministrazione, spiega il sindacalista, sono particolarmente diffusi nel settore agroalimentare: “Nel distretto della lavorazione delle carni in provincia di Modena non c’è grande marchio che non faccia ricorso a queste pratiche fraudolente. Ma dappertutto stanno germogliando false cooperative con lavoratori sottopagati, senza malattia, senza vincoli di orario: ci sono dipendenti che formalmente lavorano 20 ore a settimana, ma in realtà ne fanno anche 50″. Esempi concreti? “Noi ci limitiamo a fare le segnalazioni di quelli che riteniamo casi di somministrazione fraudolenta, non conosciamo l’esito dei rilievi ispettivi – spiega Franciosi – Ma il caso più recente, che rappresenta la punta dell’iceberg di questo fenomeno, è la vertenza della Castelfrigo di Modena”. L’azienda in questione, attiva nel settore della macellazione della carne, è stata al centro di una vertenza che si è risolta con un accordo sindacale a febbraio. “Si trattava di circa 100 lavoratori inquadrati in due cooperative di dubbia legittimità – racconta il sindacalista – sottoposti a una serie di abusi su contratto, orari, stipendi”. A febbraio, il deputato Pd Davide Baruffi aveva presentato un’interpellanza al governo sulla vicenda della Castelfrigo. Il sottosegretario al Lavoro Massimo Cassano, pur non riferendosi nello specifico all’azienda in questione, ha spiegato che nel distretto modenese delle carni “le verifiche hanno evidenziato, oltre all’applicazione di contratti collettivi nazionali differenti per i lavoratori delle società committenti e per quelli delle cooperative operanti in regime di appalto, anche fenomeni di interposizione di manodopera, omissioni contributive, registrazioni infedeli sul libro unico del lavoro e violazioni della normativa in materia di orario di lavoro“.
Operai, postini, professori, camerieri: i nuovi schiavi lavorano a voucher. Eliminati i co.co.co., oggi il precariato passa attraverso i “buoni” a sette euro e mezzo l’ora. Che ormai dilagano, creando una nuova classe sociale. Le storie di chi sbarca il lunario in questo modo, scrive Fabrizio Gatti il 7 marzo 2016 su solito "L'Espresso". Una volta c’erano l’operaio, la guardia notturna, l’autista, il postino, il cameriere, l’idraulico, l’insegnante, il professore universitario. La nostra identità dipendeva anche dal ruolo che il lavoro ci assegnava nella società. Oggi tutte queste professioni, e molte altre ancora, possono essere riassunte in un unico mestiere: il voucherista. Essersi fermati alla terza media, come Andrea P., 49 anni, o avere tre lauree come Marco Traversari, 52 anni, docente universitario, per il moderno datore di lavoro forgiato dalla crisi e dalla retorica della quarta rivoluzione industriale non fa nessuna differenza. Sia Andrea, parcheggiatore notturno a chiamata, sia il professor Traversari valgono 7 euro e 50 centesimi di paga netta l’ora, più un euro e trenta di contributi pensionistici all’Inps, settanta centesimi di assicurazione antinfortunistica all’Inail e cinquanta centesimi di gestione del servizio. Fanno dieci euro tondi tondi: cioè, il costo orario lordo del lavoro nell’Italia che fa scappare i cervelli e tratta chi resta allo stesso modo, dal disoccupato a vita ai proletari della conoscenza. È nata così una nuova classe sociale: il popolo dei voucher, dei buoni-lavoro, degli italiani pagati con uno strumento inventato per gli impieghi saltuari nell’agricoltura e le ripetizioni del doposcuola. Ma oggi esteso a tutti i settori. Un ulteriore contributo della legge all’aumento dei working-poor: i nuovi poveri che, nonostante lavorino, vivono appena sopra il limite di sussistenza, o addirittura al di sotto. Il voucherista non ha infatti diritto a riposi o a ferie pagate. E questo, nel clima di cinesizzazione sociale che stiamo vivendo, potrebbe essere visto come un inutile privilegio. Ma non ha diritto ad ammalarsi, a curarsi, a maternità o paternità, a ottenere un mutuo per la casa, al congedo matrimoniale, al permesso per accudire i figli malati. Cioè a tutta quella serie di conquiste civili che finora hanno fatto la differenza tra un cittadino dell’Europa occidentale e un operaio-suddito dei regimi orientali. Perché al di fuori dei pochi centimetri quadrati del voucher e delle relative ore pagate, il rapporto di lavoro e lo stesso lavoratore cessano di esistere. Pochi giorni fa l’Inps ha confermato il boom anche per il 2015:115 milioni di buoni-lavoro staccati da gennaio a dicembre, contro i 69 milioni del 2014 e i 36 milioni del 2013. Un aumento nazionale del 67,5 per cento in dodici mesi con punte del 97,4 per cento in Sicilia, dell’85 in Liguria, dell’83 in Puglia e in Abruzzo, del 79 in Lombardia. La nuova classe sociale coinvolge già più di un milione e mezzo di lavoratori, due terzi dei quali al Nord. Metà uomini e metà donne. E l’età media è in continua diminuzione: 60 anni gli uomini e 56 le donne nel 2008, anno di introduzione dei buoni-lavoro; 44 e 36 anni nel 2011; 37 e 34 anni oggi. Anche l’età conferma la trasformazione da rimedio estemporaneo per arrotondare la pensione o gli ultimi anni di attività, a retribuzione vera e propria. Nel 2015 i datori di lavoro (imprese, commercianti, famiglie) hanno acquistato voucher per un miliardo e centocinquanta milioni di euro, che hanno generato contributi per quasi 150 milioni all’Inps, per 80 milioni all’Inail e compensi ai lavoratori per 862 milioni e 500 mila euro, oltre a 57 milioni in commissioni burocratiche. La crisi economica fa sicuramente la sua parte. Spinge gli imprenditori a tagliare i costi e a impiegare i dipendenti a ore o a giornata, soltanto quando servono. E mette anche a disposizione una massa di disoccupati, cassintegrati, esodati, mobilitati, licenziati costretti a svolgere più lavori saltuari per raccogliere qualcosa che assomigli alle briciole di una paga. È un po’ come il junk-food, il cibo spazzatura: si mangia quello che capita. Qui siamo al junk-job: si accetta quello che passa. Non sempre, ovviamente, il giudizio è negativo. Per gli studenti superiori e universitari i buoni sono una risorsa contro il lavoro nero o l’apertura di costose partite Iva: permettono infatti di lavorare in regola in bar, ristoranti, negozi e uffici per mantenersi parte degli studi. Nella stessa categoria degli studenti, rientrano quanti arrotondano grazie ai voucher uno o più stipendi part-time. Il lavoro accessorio tra l’altro non va dichiarato al fisco. Ma sono gli unici a dirsi completamente soddisfatti. La seconda categoria di voucheristi comprende quanti integrano in questo modo la magra pensione di anzianità. Oppure il salario di disoccupazione. E per le persone in mobilità sopra i quarantacinque anni la condizione di voucherista diventa una condanna permanente al sottoprecariato: perché l’istituzione dei buoni-lavoro offre ai datori la possibilità di non stabilizzare mai i loro dipendenti. La terza categoria raccoglie gli ex contratti a progetto, ora in gran parte aboliti, e le finte partite Iva, settore crollato del dieci per cento nel 2015. E loro stanno addirittura peggio: è la situazione di migliaia di collaboratori, educatori, addetti di cooperative sociali e piccole società a responsabilità limitata che da qualche mese devono accettare stipendi in minima parte pagati con i buoni. Il resto in nero. L’uso di voucher sta dando corpo anche a due categorie di datori di lavoro: quelli che rispettano la norma e trasformano il rapporto accessorio in contratto non appena l’impiego diventa stabile e quanti continuano a suddividere illegalmente l’impiego stabile in più rapporti accessori. Soltanto due limiti economici imposti dalla legge impediscono al momento una diffusione più massiccia dei voucheristi, auspicata da un’ampia scuola di giuslavoristi rappresentata anche dall’ex ministro nel governo Berlusconi, Maurizio Sacconi. Sono la barriera di settemila euro netti del compenso complessivo annuo in buoni che un lavoratore non può superare e di 2.020 euro all’anno pagati da ogni singolo committente. La terza condizione, cioè il vincolo che si tratti di lavoro accessorio, viene già aggirata da tempo. Soprattutto dove i voucher hanno avuto successo nel coprire il lavoro nero. Ecco cosa accade in Veneto e in Friuli Venezia Giulia, regioni in cui l’impiego di voucheristi ha registrato un aumento del 57,4 e del 40,1 per cento nell’ultimo anno. I buoni-lavoro hanno polverizzato i contratti part-time e stagionali nell’agricoltura. E oggi anche nelle campagne raccontate nel primo romanzo di Pier Paolo Pasolini “Il sogno di una cosa”, grazie ai voucher si ricorre largamente al lavoro nero. La raccolta della frutta e la vendemmia in Friuli durante l’estate e l’autunno 2015 hanno consolidato il rapporto tra la parte dello stipendio pagata in buoni e la parte illegale. È di uno a trenta: 37,50 euro al mese in voucher e 1.062,50 in contante per un massimo mensile di millecento euro. Ovviamente, soltanto per le settimane lavorate. Se piove o la raccolta termina, si va a casa senza paga. Fanno comunque più o meno 40 euro al giorno: un ottimo compenso rispetto ai 25-30 euro pagati, quando va bene, dai caporali in Sicilia, Calabria, Puglia e Campania. Ma che senso ha staccare 37 euro e 50 al mese in buoni-lavoro su un totale di millecento euro? Sono il valore netto di appena cinque voucher: «Certo», risponde Paolo F., 53 anni, ex operaio in un’impresa subappaltatrice di Fincantieri a Monfalcone e oggi bracciante a chiamata: «E sono l’alibi per evitare guai con l’ispettorato. È la prima informazione che ti danno sui campi: “Se viene un controllo, dite che è il primo giorno che fate qui”. Il voucher serve a questo: a coprire l’eventuale verifica o l’eventuale infortunio. Alla raccolta della frutta quest’anno eravamo in novanta. Un po’ di tutto: padri di famiglia come me, cinquantenni in mobilità da anni, donne senza lavoro, qualche romeno. Tutti pagati 37 euro e 50 in voucher al mese e il resto cash. Fanno oltre novantamila euro al mese di nero che l’azienda tira fuori per pagare il personale. Per obbligarli a versare i contributi, basterebbe verificare il lavoro eseguito. Come è possibile raccogliere tonnellate di frutta per i supermercati lavorando soltanto le cinque ore al mese retribuite dai voucher? Inutile aggiungere che di controlli non ne abbiamo mai visti». Perché non vuole sia rivelato il suo cognome? «Perché devo lavorare. I voucher hanno cancellato le ultime tutele sindacali: se parli, come minimo non ti chiamano più». Una norma, introdotta dopo l’inchiesta de “l’Espresso” sul caporalato nella raccolta dei pomodori, impone che i contratti siano registrati un giorno prima del loro inizio. Con i voucher basta un minuto prima: magari lo stesso momento in cui avviene un incidente. «Sappiamo di imprenditori che una volta passato il nostro controllo hanno disattivato il voucher», rivelano i carabinieri del Nucleo di tutela del lavoro in Lombardia: «Lo sappiamo in via confidenziale. L’Inps non ha nessuna banca dati sulle disattivazioni. Il trucco è attivare il voucher tutti i giorni per una sola ora. E magari disattivarlo a fine giornata. Per noi diventa impossibile contestare il lavoro nero. Dall’evasione totale dei contributi si passa all’elusione e le sanzioni si riducono. Dovremmo insomma impiegare uomini e risorse dello Stato per recuperare cifre irrisorie che non giustificano il costo». Basta il confronto con la cedola di una busta paga tradizionale per misurare la smaterializzazione del rapporto di lavoro che il voucher ha garantito. Questo è quanto riporta la busta: ragione sociale dell’azienda, nome e cognome del dipendente, data di nascita, data di assunzione, scatti di anzianità, luogo di lavoro, mansione, figli a carico, ferie, permessi, Tfr, versamenti Inps e Inail. E questo è quanto viene richiesto dal voucher: periodo prestazione, codice fiscale datore di lavoro, codice fiscale lavoratore, firma lavoratore. Fine. Aldo Furini, 55 anni, gestisce con la sorella Silvia la trattoria “Il Santuario” a Rovello Porro, provincia di Como. Pranzo a prezzo fisso a dodici euro durante la settimana e pizzeria-birreria il venerdì e il sabato sera. Molte fabbriche svuotate dalla delocalizzazione. La concorrenza delle mense aziendali. «Tutta la settimana bastiamo noi», racconta Furini, «venerdì e sabato, se abbiamo prenotazioni o prevediamo movimento, chiamiamo i ragazzi. Sono tutti studenti. A volte qualcuno non può o è malato, allora si continua il giro di telefonate finché la necessità è coperta. Li paghiamo tutti con i voucher. Lo Stato ha la grande convenienza. Prende i soldi in anticipo all’acquisto dei buoni e si tiene il venticinque per cento. È un vantaggio anche per l’Inps, visto che per la crisi molte aziende non pagano più i contributi». Mai pensato di stabilizzare uno o due camerieri? «Vorremmo assumere un dipendente a contratto. Ma le spese sono insopportabili. Soltanto per tenere la contabilità della busta paga, la Camera di commercio ci chiede milleduecento euro all’anno per persona. Più di uno stipendio mensile. Noi non ci stiamo dentro». Non per tutti la roulette gira così male. Simone Regio, 39 anni, è soddisfatto. Grazie ai voucher può arrotondare i milleseicento euro netti di due contratti part-time: educatore in un centro di riabilitazione psichiatrica e in un’associazione privata. Il terzo lavoro di voucherista è sui pedali: corriere porta a porta in bicicletta per la “Ubm - Urban bike messengers” di Milano, la più grande società del settore in Italia. Il suo collega, Simone Gambarin, dai buoni-lavoro è passato al contratto a tempo indeterminato sempre con “Ubm”. E a 36 anni può finalmente permettersi la sua prima casa in affitto. «Per noi i voucher sono stati una soluzione», spiega Gianni Fiammengo, proprietario di Ubm, «per tutte quelle persone che lavorano saltuariamente e che così sono pienamente coperte da contratto, assicurazione e Inps. Ora i voucher li utilizziamo poco perché gli sgravi fiscali ci hanno permesso di assumere quattordici corrieri full-time. I buoni li usiamo per i pochi part-time rimasti. Nel frattempo l’azienda si è ingrandita». Marco Traversari è docente nel laboratorio di Antropologia e lavoro del corso di laurea magistrale in Antropologia dell’Università di Milano Bicocca. Insegna anche Antropologia culturale in un liceo di Brescia. È laureato in scienze politiche, antropologia e filosofia ed è autore di libri e manuali scolastici. I due contratti part-time da docente coprono solo il settanta per cento del suo fabbisogno per vivere. Per il rimanente trenta per cento, Traversari deve impegnarsi in consulenze culturali, corsi di formazione, partecipazione a conferenze. E in tutto questo è pagato in voucher. «Nel 2015 i buoni-lavoro hanno spazzato via tutto quello che esisteva: contratti, cococo, cocopro, finte partite Iva, ritenute d’acconto. Dove la pubblica amministrazione ha appaltato i servizi», spiega, «lì le cooperative ora pagano solo in voucher». Ma il cambiamento va oltre l’eliminazione del contratto. I voucher sono la cifra della trasformazione culturale che stiamo vivendo. In gioco c’è il ruolo sociale di ciascuno: in sociologia, il ruolo è costituito dalle aspettative che gli altri hanno del tuo status sociale. Nel voucher il ruolo è indifferenziato. In questo il voucher è l’emblema del postfordismo: è l’espressione della smaterializzazione del lavoro come costruzione della propria identità stabile. Freud però ci insegna che l’identità psicologica stabile deriva dall’equilibrio tra eros e lavoro. Nel momento in cui il lavoro diventa instabile, flessibile, smaterializzato anche l’identità psicologica diventa fluida, instabile». Dove porta tutto questo? «Al problema di non sapere chi sei. Allora diventa potente la necessità di un’identità nazionalistica o religiosa. E lo vediamo in quello che sta succedendo in Europa. Gli studenti comunque vogliono i voucher: chi fa lavori di pochi mesi, trova giusto essere pagato in voucher. La flessibilità è parola che loro mettono in pratica». L’identità di Andrea P., parcheggiatore notturno a Milano, è flessibile da quando ha perso il lavoro di carrozziere. E poi il contratto di autista. Lui ha cercato di nascondere il dramma alla moglie e ai due figli. Per portarli in vacanza, ha speso i duemila euro di risparmio dei ragazzi. Ma quando la moglie lo ha scoperto, l’ha cacciato di casa. Ora Andrea, a quasi cinquant’anni, è tornato a vivere con la mamma, vedova e pensionata. La madre, immigrata pugliese nella Milano del boom economico, non sa che il figlio è un voucherista: 400-500 euro al mese in buoni da marzo a settembre nella stagione dei concerti. Sorveglia le auto del pubblico oppure controlla i biglietti ai tornelli quando a San Siro e nelle discoteche arrivano i grandi nomi della musica italiana e mondiale. Ma di tutto lo spettacolo, Andrea prende soltanto le briciole: «Da settembre a marzo faccio la fame», confessa, «non ho però il coraggio di dirlo a mia madre. Allora mi alzo la mattina alle 6,30, mi lavo e mi vesto. E fingo di andare a lavorare». Il nascondiglio, l’ultimo rifugio stabile sono i tre metri per uno e mezzo della cantina, un finto tappeto di nylon sul cemento, un piumone bianco per scaldarsi, lo scaffale vuoto alla parete, due maglie in cashmere della vita che fu appese a un angolo. Andrea ascolta la radio, dorme, pensa. Fino alle due del pomeriggio, quando esce dal sotterraneo e finge di tornare dal lavoro. La prima volta che l’hanno pagato in voucher, l’hanno perfino fregato. L’impresario di quel periodo gli ha dato buoni per 400 euro. Ma quando il parcheggiatore è andato a riscuoterli dal tabaccaio e poi all’Inps, gli hanno detto che erano stati disattivati. Andrea sorride amaro: «Ho scoperto così che anche il buono non era buono». Un miliardo di stipendi coi voucher: i buoni lavoro sono diventati più mini job per tutti.
Dall’edilizia al turismo, dal commercio ai convegni. Doveva essere solo un modo per far emergere il nero: invece è diventata una forma di impiego diffusa in tutti i settori, scrive Francesca Sironi il 7 marzo 2016 su "L'Espresso". Simone Regio, addetto al recapito posta in bicicletta, è pagato solo in vaucher Piccoli pezzi da 10. Minime tessere, minuscoli frammenti di un puzzle che raccoglie però oltre un miliardo di euro di retribuzioni, ormai. Valgono più di un miliardo infatti gli “stipendi” pagati nel 2015 attraverso i pezzi da 10 dei voucher. I buoni, nati per l’emersione dei lavoretti in nero (pulizie, giardinaggio, ripetizioni) si stanno evolvendo in strumento di massa. Fra i loro più grandi acquirenti ci sono le associazioni sportive e i club di calcio, che ne hanno bisogno per arruolare migliaia di steward durante le partite; oppure le catene di negozi come Stroili Oro, che cercano giovani per le attività di promozione nei centri commerciali; o gli organizzatori di convegni; o ancora i parchi di divertimento, che hanno abbracciato il tagliando azzurro come alternativa ai contratti temporanei che venivano sottoscritti, prima, per i weekend e le aperture straordinarie. Uno strumento più semplice. Ma anche più precario. Il “voucherista” è diventato un passepartout: dal ristoratore all’impresario edile, dall’albergatore al falegname, tutti lo chiedono, tutti lo vogliono. Perché è facile, costa poco ed è sempre in regola. Ma con l’ampliarsi dei modi e delle funzioni, sono aumentati anche gli infortuni, i trucchi, e le maschere per nascondere il volto dei nuovi sfruttati. I sindacati denunciano quello che si nasconde dietro al boom: «È come con il doping nello sport: appena riesci ad aggredire un problema, a reprimere gli abusi, subito chi vuole giocare sporco trova un altro sistema per truccare i risultati. Ecco: nell’edilizia, adesso, questo sistema è il voucher». Franco Turri è il segretario generale del sindacato dei lavoratori edili nella Cisl. I loro 600 osservatori stanno incontrando spesso voucheristi in cantiere. A Torino, un’impresa impegnata nella ristrutturazione di una caserma dei Carabinieri aveva arruolato tre persone su 5 con voucher: beccati, sono stati costretti dal comandante a regolarizzare i dipendenti “accessori”. Sempre in Piemonte, un’altra ditta di restauri si è fatta trovare all’opera con cinque manovali: due subordinati, due voucher, una falsa partita Iva. Un’antologia del piccolo precariato. A Bari in un’azienda che produce scheletri in legno per divani, cinque falegnami sono passati dal nero assoluto, in contanti, al nero parziale con retribuzione a voucher per un terzo dello stipendio da 900 euro al mese. Un classico: nel corso di una visita della Guardia di Finanza, il padrone ha timbrato i ticket, evitando sanzioni. «La concorrenza nel settore è selvaggia, e ora la gara al ribasso sui compensi si fa anche così», dice Turri. Dati sicuri su quanti siano i voucher in edilizia, non ce ne sono: il dubbio dei sindacati è che in molti si nascondano dietro quella categoria “altro” dentro cui sta un terzo dei 114 milioni di buoni venduti l’anno scorso. L’Inps sta redigendo un rapporto più approfondito, previsto per aprile. Lo stesso il ministero del Lavoro. In attesa, la preoccupazione resta. Soprattutto per i rischi: «I lavoratori in edilizia devono seguire 16 ore di formazione sulla sicurezza, prima di cominciare. I voucheristi? Niente», spiega il segretario. Il tema è sociale, ma anche economico; nei 10 euro all’ora del ticket, il contributo Inail è standard: 70 centesimi. Che si tratti di un potatore arrampicato su un albero o di un’insegnante di greco, il versamento anti-infortuni è lo stesso. Così i rimborsi agli incidenti da “lavoro accessorio” ricadono sulla fiscalità generale. E gli infortuni, seppure pochi, accadono sempre più spesso: l’Inail ha registrato 1.180 denunce nei primi nove mesi del 2015, di cui 950 riconosciute valide. Nel 2014 erano state 1.400; nel 2012 solo 436. Ancora una volta è la categoria “altro” a coprire il 44 per cento dei casi. Seguito da ristorazione, agricoltura, giardinaggio. Ed edilizia. Appunto. La copertura Inail di centinaia di migliaia di mini-lavoretti che prima venivano eseguiti in contanti, senza alcuna assicurazione, è certamente un passo importante però. E dai riscontri immediati, a differenza forse di quanto si accantona per l’Inps: il 13 per cento dei 10 euro, una percentuale che non è mai stata aggiornata dal 2008, a differenza dei contratti a progetto. «Sono briciole», lamenta Corrado Brachetti della Cgil: «Le pensioni che torneranno ai lavoratori dalle ore retribuite coi voucher avranno cifre irrisorie». Senza incidere poi sull’anzianità contributiva. D’altronde i buoni erano nati per coprire gli extra, non per diventare “impieghi” a tutti gli effetti. E una polvere di versamenti, risponde convinto chi difende gli effetti positivi dei ticket, è sempre meglio del nulla. Anche se, come dimostrano le storie raccolte da “l’Espresso”, spesso i voucher servono più ad agevolare l’evasione, che a combatterla. Ma la soluzione del problema, per il governo, c’è, e a portata di clic. «Renderemo necessaria la pre-attivazione del voucher via sms da parte del datore di lavoro; che dovrà indicare giorno, ora e numero del buono che intende utilizzare», spiega Filippo Taddei, responsabile economico del Pd: «Non c’è bisogno di un decreto ad hoc: basterà una procedura di revisione. Tempo pochi mesi e macro abusi come quelli dei tagliandi tenuti in tasca, inattivi, non saranno più possibili. Senza aggravi per le imprese». Voucher-ottimismo.
Addetti alle pulizie: Fuoriservizio, lo sciopero contro il precariato, scrive il 7 maggio 2016 Diana Cavalcoli de "La nuvola del lavoro" su "Il Corriere della Sera". Guadagnano meno di 700 euro al mese, hanno scarse tutele e lavorano più di otto ore al giorno. Sono gli addetti del settore pulizie, quelle figure ombra di uffici, ospedali e scuole che ogni giorno con secchio e spazzolone rendono più vivibile l’ambiente lavorativo di migliaia di persone. Di solito arrivano prima degli altri e se ne vanno dopo ma ieri, venerdì 6 maggio, hanno scelto di denunciare in piazza le proprie condizioni lavorative. Tra loro c’erano persone come Claudia, modenese che si divide tra il lavoro come donna delle pulizie in un ufficio postale e l’impiego part time da segretaria a Carpi. Una vita precaria, sempre di corsa, che condivide con altre 400 mila persone in Italia. Nel nostro Paese sono circa 31 mila le imprese di pulizie attive nel settore per un fatturato di oltre 12 miliardi di euro. «Le trattative per il rinnovo del contratto nazionale scaduto ad aprile 2013», spiega Filcams Cgil, «sono in stallo e i continui tagli ai contratti di appalto stanno compromettendo il servizio verso i cittadini e condizionando fortemente i diritti e le tutele dei lavoratori». Una mancanza di misure di welfare e di regole condivise che pesa sulle spalle dei professionisti sempre più preoccupati dal rischio precariato. Non a caso il settore delle pulizie è uno degli ambiti in cui più spesso vengono utilizzati i famosi voucher. Secondo il sindacato sono stati 115 milioni i buoni lavoro utilizzati in Italia nei primi mesi del 2016. «L’imponente incremento dell’utilizzo dei voucher, è un campanello di allarme che non può essere sottovalutato», spiega Filcams Cgil, «il voucher viene utilizzato spesso per “mascherare” prestazioni continuative e subordinate più che per regolarizzare rapporti di lavoro. L’utilizzo di queste tipologie contrattuali sta aumentando la precarietà: è necessario intervenire subito con controlli ispettivi più frequenti e mirati». In occasione dello sciopero del 6 maggio Filcams Cgil, Fisascat Cisl e Uiltucs Uil hanno anche lanciato sui social l’hashtag #FuoriServizio. Per dire no allo stallo contrattuale sono state organizzate manifestazioni a Milano, Bologna, Firenze e Roma. Accanto agli addetti alle pulizie hanno incrociato le braccia anche altri operatori del turismo come cuochi, camerieri, addetti mense, receptionist, impiegati di agenzie di viaggio, lavoratori dei fast food, operatori del comparto termale e farmacisti. Uno sciopero plurisettoriale che non si vedeva da anni e che al grido “Fuori servizio, contratto adesso” punta a difendere la dignità di una categoria professionale più che sottovalutata.
Il mondo del corriere espresso, dove il caporalato è legalizzato. Gli autisti lavorano da mattina a sera ma risultano part-time. Assunti da coop che aprono e chiudono nel giro di pochi mesi, scrive Luca Manservisi il 18 Giugno 2013 su "Ravenna e dintorni". Con la diffusione di internet, l’e-commerce e il boom degli acquisti online, l’importanza del loro compito è sotto gli occhi anche dei cittadini comuni, che ne attendono l’arrivo a casa, oppure si ritrovano i loro avvisi in buchetta. Si tratta del servizio di corriere espresso, degli autisti che alla guida dei loro furgoni consegnano a domicilio buste, pacchi e pacchetti ad aziende e privati provenienti da ogni parte d’Italia e anche del mondo. Dietro a quei furgoni (più o meno) fiammanti, con marchi prestigiosi, anche di multinazionali, ci sono però anche storie di sfruttamento ed evasione fiscale, di cooperative che lo sono solo di nome, concorrenza sleale e appalti al massimo ribasso. Del tema se ne occupò pure Report, centrando la propria attenzione in particolare su Sda, in quanto di proprietà del gruppo Poste Italiane e quindi strettamente collegabile al Governo italiano. A un anno e mezzo da quel servizio della nota trasmissione di Rai Tre, a Ravenna nulla sembra essere cambiato. Ma non c’è solo Sda, naturalmente. Nella nostra provincia, per esempio, sono presenti (complessivamente con circa 130 furgoni in strada ogni giorno) anche gli altri due marchi italiani di livello internazionale, Gls e Bartolini, e big stranieri come Dhl, Tnt e Ups (quest’ultimo ora accorpato a Ravenna nella stessa Sda). L’estate scorsa ha invece chiuso i battenti (quasi da un giorno all’altro, con i dipendenti avvisati via mail) Aws, che in Italia ha lasciato senza lavoro oltre cinquemila persone (una decina, tra impiegati e autisti, a Ravenna), dopo l’arresto per frode fiscale dei vertici della sede di Torino. «E non saranno certo gli ultimi – commenta un dirigente del settore, che preferisce restare anonimo –, qui chi vuole fare le cose per bene può cercare di essere in regola, diciamo così, per il 90 percento, ma di solito ci si ferma attorno al 50. In futuro, o ci saranno accorpamenti e fusioni, oppure qualcun altro salterà per aria…». C’è stato un tempo, però, in cui era tutta un’altra storia. Anni Ottanta e Novanta: le piccole aziende di corrieri e i grandi marchi che pian piano approdano in città si affidano per le consegne ai cosiddetti padroncini, artigiani con il mezzo di proprietà (all’epoca, come scopriamo da alcune testimonianze, nel settore fu un vero e proprio boom) che si accordavano direttamente con i vari committenti. «Mi comprai un furgone, formai la mia ditta individuale e partii», ci racconta uno di questi, tuttora in attività, che chiameremo con un nome di fantasia, Alberto, per evitare che subisca ritorsioni sul lavoro. «Ci si metteva d’accordo di anno in anno – continua – e l’azienda a quei tempi ti ricompensava aumentando le tariffe. Sono partito prendendo 230mila lire al giorno e sono arrivato in poco tempo a 300mila. Al netto di spese e tasse da pagare, ti arrivavi a portare a casa due milioni e mezzo di lire al mese. Non diventavi ricco, ma in quel periodo potevi ancora cambiare auto piuttosto spesso…». Adesso, invece, facendo lo stesso lavoro in maniera oltretutto più frenetica, Alberto guadagna dai 1.100 ai 1.200 euro al mese, così come un po’ tutti i suoi colleghi in Italia. Colpa della crisi, certo, ma in questo campo c’è molto di più. La svolta arriva nei primi anni Duemila, quando iniziano a fare la propria comparsa le prime cooperative («tutte con sede fuori Ravenna e quasi tutte guidate da imprenditori del sud Italia», ci dirà Fulvio Boschi, testimone diretto di quegli anni, come capofiliale a Ravenna di Ups, ora dirigente del Grar) che si presentano alle aziende proponendo tariffe nettamente più competitive per svolgere il lavoro dei padroncini. «Alle nostre 300mila lire di allora – continua nel suo racconto Alberto –, le cooperative rispondevano chiedendone 200mila. L’anno dopo inevitabilmente i committenti hanno iniziato a toglierci 15mila lire al giorno, che a fine anno sono bei soldi. E intanto le spese, gasolio in primis, aumentavano». Complici poi le nuove stringenti norme dell’autotrasporto – che imponevano ai padroncini di superare un esame e di certificare la propria capacità finanziaria (ai tempi di almeno 50mila euro) per entrare nell’albo e poter continuare a fare il proprio lavoro – il risultato è stato quello di aver estromesso quasi del tutto gli artigiani che lavorano in proprio dal mercato dei corrieri. Mercato che invece è finito in mano a società (quasi tutte cooperative) create da autotrasportatori che si assumono ogni responsabilità, affidando invece le consegne ad autisti che in questo modo non hanno più la necessità di rispettare i requisiti della normativa. La scelta della società cooperativa ha naturalmente uno scopo preciso, quello di sfruttare le agevolazioni che ne conseguono, in primis dal punto di vista fiscale, ma anche nel rapporto con i lavoratori, che spesso si ritrovano soci a loro insaputa, senza conoscere di persona neppure il loro capo. «Noi padroncini – cerca di essere più chiaro possibile Alberto, che ora è anche lui divenuto dipendente di una di queste cooperative – pagavamo tutto, non potevamo fare del nero avendo un unico committente. Questi, invece, non pagano più nulla…». La denuncia dell’autista è naturalmente simile a quella di altri suoi colleghi con cui abbiamo parlato ma che non si sono voluti esporre. E lo stesso, praticamente, ci dice l’ex capofiliale di Ups Boschi, che ha lasciato l’azienda nel 2005 dopo tanti anni, proprio per questo «scollamento» tra società e padroncini e per quello che poi definisce come un «cambiamento epocale». Quello che è stato il passo successivo verso il baratro dello sfruttamento. «Con l’arrivo delle cooperative – spiega Boschi – si è passati anche dalla tariffa oraria a quella a forfait. Le coop si accordavano per un tot ogni numero di pacchi e poi pensavano loro a gestire i propri autisti...». Con tutto quello che ne consegue. E cioè, quello che un po’ tutte le parti in causa definiscono come una sorta di caporalato legalizzato, situazione che pare però tollerata da tutti e difficilmente risolvibile. Praticamente i servizi vengono esternalizzati dai grandi marchi verso società di autotrasporto che offrono ribassi sempre più consistenti e l’effetto si fa sentire soprattutto sull’ultima ruota del carro, quella degli autisti. Busta paga alla mano, le cooperative offrono agli autisti contratti part-time, generalmente da 4 ore al giorno, quando in realtà ne vengono lavorate circa 12. Il triplo. Si arriva, come detto, a un totale mensile che si aggira tra i 1.100 e i 1.200 euro, ma grazie a voci compensative come rimborsi spese o trasferte, per un importo che quasi equivale quello delle ore lavorate. Voci, queste, naturalmente non tassate. E contributi che vengono pagati sempre solo per quelle 4 ore. «Senza contare che ti fanno guidare furgoni malridotti – rivela di nuovo Alberto –, senza manutenzione, per risparmiare sui costi. Bei tempi quando ero padroncino e tenevo il mio come un gioiello. Ora, tanto per capirci, una delle grandi società express a Ravenna gira con furgoni senza il marchio, probabilmente perché si vergogna del loro stato». La giornata lavorativa degli autisti parte alle 6.30 circa, con il carico dei pacchi in magazzino, e finisce non prima delle 7 di sera. Oltre 12 ore di lavoro praticamente ininterrotto, perché da quando sono diminuite le consegne alle aziende e aumentate a dismisura quelle ai privati, gli autisti preferiscono cercare questi ultimi in pausa pranzo, quando è più probabile trovarli a casa, limitandosi quindi a un panino da mangiare in pochi minuti sul furgone. Alcune cooperative impegnano oltretutto i propri autisti a passare almeno due volte da ogni abitazione in caso di assenza del destinatario, ma soprattutto si rifanno su di loro quando la percentuale di consegna scende al di sotto di una determinata soglia, solitamente il 96 percento. Essendo spesso previste delle penali nei contratti di appalto. «Se tu – spiega meglio Alberto –, autista, porti a casa in serata un tot di ricevute di mancata consegna, molte cooperative per punizione non ti fanno lavorare il giorno seguente, per esempio…». E il contratto in questi casi non prevede che gli autisti vengano pagati, se non lavorano. Così come non ci sono straordinari, permessi o ferie (che sono già pagate quasi sempre in busta paga). «Per stare un giorno a casa lo devo chiedere sei mesi prima», conferma Alberto. «A me il lavoro piace – continua l’autista –, cerco di farlo al meglio, ma senza dubbio è stressante: una volta si viaggiava con 50 consegne al giorno, adesso con 100. E di queste 100 la metà magari sono di privati che non trovi in casa. Se poi sai che non ti puoi permettere di tornare in magazzino con pacchi non consegnati…». Una situazione, quella in cui versano i pony express dei grandi corrieri, come si diceva, difficilmente risolvibile. In caso di controlli, chi ci rimetterebbe davvero sono sempre gli stessi autisti. Come già capitato in provincia, per esempio, in occasione della maxi multa di qualche anno fa comminata alla cooperativa che gestiva il trasporto per Gls, con i carabinieri che avevano accertato il fatto che la giornata lavorativa per gli autisti fosse ben più lunga delle 4 ore di contratto. Risultato? La cooperativa ha chiuso, senza pagare né multa e né gli autisti stessi. Prassi vuole infatti che i fattorini siano stipendiati a 60 giorni e in caso di chiusura della cooperativa gli ultimi due mesi di stipendio diventano spesso una chimera. E come ci hanno spiegato bene i sindacati, le cooperative in questo settore aprono e chiudono in continuazione (tanto che è difficile anche solo risalire ai loro nomi o a quelli dei responsabili), svanendo nel nulla, come i contributi dei loro lavoratori.
Il caporalato dei corrieri espresso, scrive Barbara D'Amico il 10 novembre 2016 su "La nuvola del lavoro" su "Il Corriere della Sera". I fattorini che smistano e consegnano i prodotti appena ordinati online sono i nuovi schiavi del caporalato logistico. Lo dicono le proteste che da mesi agitano i centri italiani di smistamento dei prodotti e le inchieste che, soprattutto a partire dalla morte dell’addetto Gls a Piacenza – investito da un mezzo della società lo scorso 15 settembre – fanno luce su un comparto dove le condizioni di lavoro sono diventate disumane. Nonostante la morte dell’operaio, la cui ricostruzione è al centro di uno scontro tra lavoratori, azienda e magistrati, le trattative per rinnovare il contratto collettivo nazionale del comparto e introdurre conseguenze più severe per chi sfrutta gli addetti sono ancora in stallo. Per questo alcune sigle sindacali rappresentative del settore, in particolare Filt Cgil, Fit Cisl e Uil Trasporti stanno pensando a uno sciopero nazionale. I dati di settore La logistica impegna direttamente circa 250 mila addetti in Italia (dati desunti dagli studi dell‘Osservatorio Contract Logistics del Politecnico di Milano). Ma il numero è fuorviante perché logistica non vuol dire solo smistamento e stoccaggio delle merci, bensì anche consegna e trasporti. Se si considerano quindi tutti i settori nel loro complesso, compresi i trasporti via mare, gli addetti salgono a1,4 milioni. Tra questi ci sono gli uomini e le donne in divisa a cui apriamo la porta quando finalmente ci arriva a casa il pacco ordinato tre giorni prima su un qualunque sito di e-commerce, e gli uomini e le donne che lavorano nei capannoni dove vengono stoccati e smistati gli ordini, e i camionisti e guidatori che materialmente trasportano le merci dai grandi magazzini di periferia in tutta Italia. Questi snodi sono cruciali per le vendite online e sono i luoghi da cui soprattutto i big dell’e-commerce pretendono un’efficienza quasi militare. Il caporalato non avviene solo nei campi Secondo studi di settore l’aumento delle vendite online richiede un aumento, almeno in Italia, della manodopera necessaria a garantire l’efficienza delle consegne. Specie se il consumatore si abitua a ordinare qualcosa su Internet e vederselo recapitare entro un’ora ovunque si trovi. L’efficienza per ora non può essere garantita dalla sola tecnologia, ma l’impiego di manodopera umana inizia ad avere un costo sociale troppo pesante: gli operai ricevono spesso paghe da fame, sono sottoposti a turni massacranti, e non vedono rispettate tutele fondamentali (malattia e ferie). Si può parlare di caporalato nel settore della logistica? «Assolutamente sì – risponde Emanuele Barosselli, sindacalista della sigla Filt Cgil per la Lombardia – Ma con alcuni distinguo: dove c’è una presenza sindacale si tenta di superare queste condizioni, ma questo è un settore talmente vasto che tutte le organizzazioni sindacali e para sindacali messe insieme coprono forse il 20% di tutto il comparto». Difficile far emergere il lavoro nero Tenere traccia del numero di lavoratori realmente impiegati e delle loro condizioni è impossibile a causa della scatola delle esternalizzazioni: un grande negozio online si affida a una società logistica per le consegne la quale, a sua volta, subappalta ad altre aziende lo smistamento o la consegna. Queste aziende a loro volta subappaltano a cooperative di lavoratori, in un ginepraio di deleghe che annacqua il compenso finale e rende complicatissimo risalire al vero datore di lavoro: colui che in teoria deve essere costretto ad applicare le norme di un contratto collettivo nazionale. All’indomani della morte di Abd Elsalam Ahmed Eldanf, l’operaio della Gls, Maurizio Diamante (Fit Cisl) dichiarava che «l’episodio di oggi non deve trarre in inganno, ha messo di fronte due categorie di lavoratori, facchini e camionisti, che inseriti nella stessa catena lavorativa, per ragioni diverse sono vittime dell’erosione dei diritti e delle tutele del lavoro da infinite catene di appalti e sub appalti i primi, dalla concorrenza sleale dei vettori dell’est Europa i secondi». Ma a distanza di due mesi non si è mosso nulla. «Preoccupa il fatto che la morte dell’operaio egiziano della Gls non abbia smosso di un millimetro le posizioni da parte datoriale nel settore nel suo complesso», denuncia Barosselli. «Il fatto ha sicuramente unito gli addetti dei diversi settori ma non ho visto reazioni pronte da parte imprenditoriale».
Il caporalato dei corrieri, a rischio le consegne di Natale? Scrive l'11 novembre 2016 Barbara D'Amico su "La nuvola del lavoro" su "Il Corriere della Sera". I sindacati del comparto logistico stanno pensando ad uno sciopero nazionale degli addetti ai magazzini, al trasporto e allo stoccaggio merci nel periodo in cui gli ordini online sono notoriamente più intensi: il Natale. UPS, uno dei principali gruppi del settore, ha stimato di consegnare circa 700 milioni nel periodo festivo. La possibilità che i fattorini incrocino le braccia, bloccando praticamente l’e-commerce in Italia nasce per protestare contro le condizioni di lavoro difficili per molti addetti ai centri logistici del paese, costretti a turni massacranti e sempre meno tutelati. Il blocco delle attività però non è ancora definitivo. Tutto dipenderà dalla riuscita delle trattative tra rappresentanti e datori in programma in queste settimane per rinnovare il contratto collettivo nazionale trasporti e logistica. Sul tavolo c’è soprattutto una richiesta: introdurre negli ingaggi clausole che impediscano alle aziende di effettuare subappalti a catena, pericolosi perché rendono più semplice non rispettare le tutele dei lavoratori della logistica, una categoria di fatto precarizzata e che è costretta a prendere anche meno di 4 euro l’orao a vedersi negare per 13 anni consecutivi i contributi pensionistici dovuti per legge. Tutti questi scenari sono stati denunciati da inchieste come quella di Marina Fortiper Internazionale (pubblicato a novembre) e di Luca Manservisi per Ravenna e Dintorni, testata per la quale il giornalista firmò nel 2013 forse il primo approfondimento documentato dall’introduzione dell’e-commerce sulla allarmante condizione degli addetti alla logistica. Quello che emerge è un mondo in cui possono capitare 26 giorni di fila di turni di lavoro in magazzino senza soluzione di continuità tra la notte e il giorno o – peggio – in cui le aziende sub-appaltatrici delle consegne utilizzano lavoratori stranieri di etnie diverse per evitare che si creino gruppi uniti e pronti a far valere i propri diritti. Le scatole cinesi delle esternalizzazioni Pensare che sia l’e-commerce a causare queste distorsioni sarebbe però riduttivo. Dare la colpa ai milioni di acquisti online e al conseguente livello di efficienza richiesto per le consegne è una soluzione semplice e di facile comprensione ma non esaurisce né circoscrive la causa del malessere lavorativo in questione. Stando a quanto denunciato dai lavoratori del comparto, il cuore del problema non è a monte ma a valle: le cooperative che gestiscono materialmente consegne e organizzazione dei magazzini. Queste realtà, infatti, godono di agevolazioni fiscali e possono quindi ridurre i costi dei servizi: il meccanismo però viene sempre più spesso abusato e si arriva al paradosso di usare la cooperativa come copertura per una società a tutti gli effetti che per essere competitiva presenta prezzi ribassati anche del 25% rispetto alla media di mercato. E la cresta viene fatta sui compensi degli addetti e sull’efficienza del lavoro garantita da turni folli. «Le nostre strutture provano a risalire la china di tutto questo mondo – spiega Giulia Guida della segreteria nazionale Filt Cgil – C’è il contratto unico di filiera ma spesso diventa poco rispettato, sia dalla committenza sia dai fornitori, perché tutto si gioca su prezzo e tariffa. Più soggetti ci sono nella filiera, più persone ci guadagnano e più difficile è individuare zone e realtà in cui inviare regolarmente ispettori e controlli. Al contrario, in Europa i grandi corrieri non appaltano: usano loro dipendenti o usano lavoro interinale o a tempo determinato che rientra sempre nella sfera di lavoro dipendente. Qui in Italia abbiamo provato a fare accordi a livello ministeriale, cercando di stabilizzare i processi lavorativi e logistici ma siamo ancora lontani dall’ottenere condizioni soddisfacenti per chi lavora nel comparto». A questo punto bisognerebbe chiedersi come mai per mantenere alte le vendite online occorra sfruttare manodopera umana. «In Italia – spiega sempre Guida – nessun corriere possiede il know-how necessario a gestire l’intera filiera logistica dei corrieri espresso e questo gap di innovazione costringe il comparto a spezzettare le competenze». Con il risultato che nessuno ha davvero il controllo sul settore e anziché robotizzare la fatica, si assumono squadroni di operai in un sistema degno dell’Ottocento. Un volume d’affari di 80 miliardi Da qui l’effetto perverso: dato che non esiste un unico operatore in grado di garantire tutti i passaggi di filiera, si spezzettano i servizi e si torna al punto di partenza cioè la moltiplicazione di aziende e cooperative. Ma il perché della creazione di tante scatole e di una catena di sub appalti ha anche una spiegazione economica: secondo i dati dell’Osservatorio Contract Logistics del Politecnico di Milano nel 2014 il fatturato della cosiddetta logistica in outsourcing ha toccato quota 77,3 miliardi di euro. Nel 2015 e 2016 il centro studi aveva ipotizzato una crescita di questo volume fin oltre gli 80 miliardi. Una fetta troppo grande per non fare gola e che spinge le piccole e medie società di servizi a salire sul carro pur non avendo l’organizzazione e la serietà per garantire quanto prescritto dall’ormai scaduto contratto nazionale in tema di logistica e trasporti. Divide ed Impera: il punto sulle trattative sindacali Ma c’è anche un altro aspetto. Se in Italia migliaia di lavoratori della logistica sono sfruttati e sottopagati è soprattutto a causa dell’assenza di un unico bacino di regole per il settore: perché le consegne in realtà coinvolgono tre ambiti distinti e cioè la logistica, i trasporti e gli appalti. Far dialogare questi tre attori è, secondo i sindacati, estremamente difficile. «Mantenere separati i singoli comparti gioca a vantaggio dei datori», spiega un lavoratore di una cooperativa sentita da La Nuvola e che vuole restare anonimo. Per questo i delegati stanno cercando di lavorare su più fronti per ottenere un unico tavolo di contrattazione nazionale e linee guida più forti su ispezioni e controlli: uno nazionale e uno a livello locale. Lo scorso 2 novembre i rappresentanti del comparto logistica hanno ottenuto un incontro in Regione Lombardia per sensibilizzare i tecnici e il presidente Maroni sulla necessità urgente di far rispettare le norme sul lavoro dei fattorini. Proprio la Lombardia è infatti sede di importanti snodi operativi, come quello di Stradella dove lo scorso luglio le addette al magazzino utilizzato per garantire lo smistamento degli ordini di H&M hanno scioperato contro EasyCoop, la cooperativa da cui sono assunte per gestire gli ordini della multinazionale. «E’ urgente far emergere le situazioni di sfruttamento e ottenere un unico tavolo di contrattazione con i tre comparti coinvolti», spiega Emanuele Barosselli (Filt Cgil). «Se non otterremo un unico tavolo di trattativa allora lo sciopero di Natale sarà sicuramente una delle opzioni da discutere con i lavoratori per dare un segnale forte».
I commissari del Concorsone pagati 50 centesimi a esame. «La nuova legge? È inutile», scrive Gian Antonio Stella il 18 luglio 2016 su “Il Corriere della Sera”. A cento giorni dalla denuncia del caso, mancano i decreti attuativi. Meglio raccogliere pomodori. Cento giorni dopo aver chiesto provocatoriamente se fosse peggio il caporalato agricolo che paga gli schiavi nei campi 2 euro l’ora o il caporalato statale che ai commissari del concorsone voleva dare 1 euro e 5 cent, abbiamo la risposta. Lo Stato, per ora, non dà lezioni neppure agli schiavisti. E l’ingaggio di 63mila docenti, a due mesi dall’apertura delle scuole, è sempre più complicato. Matteo Renzi c’entra e non c’entra. Dopo aver letto il 9 aprile la denuncia del Corriere, nata da quella di «Tuttoscuola», sulla difficoltà di trovare tutti i membri necessari per le commissioni di esame anche a causa di paghe da fame («50 centesimi di euro pari a mezzo caffè per la correzione di ogni elaborato e 50 centesimi di euro per ogni candidato esaminato all’orale») il premier era infatti andato (giustamente) su tutte le furie esigendo che l’Economia e l’Istruzione mettessero subito una pezza alla figuraccia. Lunedì 11 aprile il governo annunciava «un immediato intervento riparatorio». E già il giorno dopo, riconosce la rivista, il ministero dell’Economia chiese a quello dell’Istruzione «i dati necessari per quantificare l’onere finanziario e corrispondere all’impegno assunto dal premier. La macchina amministrativa pertanto si mosse con tempestività, dietro la diretta sollecitazione del capo dell’esecutivo». Imperativo: «massima urgenza». Il problema, come ricorda il periodico di Giovanni Vinciguerra, «è che serve una legge per modificare il compenso. Il 20 aprile il sottosegretario Faraone annuncia il raddoppio dei compensi per gli incarichi (un’integrazione di 8 milioni sui fondi stanziati). E dichiara che il Governo ha presentato un emendamento a un decreto legge in fase di conversione». La strada parlamentare «più rapida possibile». Il Senato accoglie l’emendamento «e il 12 maggio (un mese dopo le dichiarazioni del premier) approva in prima lettura le legge. Si passa alla Camera, che il 25 maggio approva definitivamente la legge, pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 28 maggio. Il 29 maggio entra in vigore. Sono passati 49 giorni da quando il premier aveva preso la decisione». Ma non è finita. L’emendamento prevede «che entro un mese dall’entrata in vigore della legge venga emanato un decreto interministeriale di applicazione». Ma come: non ci era stato promesso mille volte il superamento dei decreti attuativi («ne abbiamo trovati in eredità 889», sbuffò Maria Elena Boschi) promettendo leggi e leggine «auto-applicative»? Macché. Anzi, quel mese di tempo scadeva il 28 giugno. Pochi giorni e ne scadrà un altro. E magari Renzi, alle prese con altre grane, è pure convinto che ormai quella pratica sia sbrigata… Morale: cento giorni, in scadenza esattamente oggi, non sono bastati a fare chiarezza neppure su un caso specifico, «minore» e relativamente semplice la cui soluzione era invocata da tutto l’arco parlamentare, da destra a sinistra, grillini compresi. E meno male che, per ordine del premier in persona, era stata decisa la «massima urgenza»…Cento giorni: quelli sufficienti a Napoleone (evaso dall’Elba, sbarcato a Cannes e tornato trionfante a Parigi in un mese) per riprendersi la Francia, fare una nuova costituzione, convocare su questa e vincere il plebiscito, riordinare un esercito di 300 mila uomini, attaccare i prussiani, invadere il Belgio e sfidare il Duca di Wellington a Waterloo… Per carità, i tempi della democrazia saranno anche sacri ma qui c’è qualcosa che non va. Tanto più che la chiarezza sulla (magra) mercede, ricorda Tuttoscuola, «doveva servire anche a incentivare dirigenti scolastici e docenti con determinati requisiti a farsi avanti per l’incarico di commissario». A quelle condizioni, «pochi erano votati al sacrificio». E pochi, nell’incertezza sui compensi (quanti? a chi? quando?), sono rimasti. Intanto, ricorda la rivista in uscita, «le prove scritte si sono concluse. Da settimane si tengono le prove orali di molte classi di concorso, e gli uffici scolastici regionali ancora si affannano a cercare i commissari». E questo, dicevamo, a meno di due mesi dall’inizio del nuovo anno scolastico che dovrebbe vedere l’ingresso, dalle materne alle superiori, di quei 63.712 nuovi docenti in corso di selezione tra i 165.578 candidati, alcuni dei quali «avevano presentato più di una domanda di partecipazione». Non bastasse, per alcune materie son previste prove tecniche e comunque tra la pubblicazione di chi ha passato gli scritti e gli orali devono passare «almeno 20 giorni». Risultato: «visti i tempi delle procedure», il termine utile per le graduatorie, che dovevano essere definite entro il 31 agosto, è stato spostato al 15 settembre. Auguri. Tanto più che per una ventina di queste graduatorie «si sono rese necessarie prove scritte suppletive per effetto di un’ordinanza di sospensiva del Tar che ha accolto il ricorso di candidati esclusi». Ma quante graduatorie saranno definite in ritardo, «dispiegando la loro efficacia soltanto dal 2017-18?». Tuttoscuola è pessimista: «Certamente arriveranno fuori tempo massimo i concorsi di scuola dell’infanzia e scuola primaria per posti comuni, che riguardano circa la metà dei candidati». Auguri bis. Peggio: giovedì scorso Stefania Giannini ha dovuto firmare un’ordinanza: poiché «in alcune regioni non è stato possibile reperire un numero sufficiente di presidenti, commissari e componenti aggregati per l’accertamento delle conoscenze informatiche e delle competenze linguistiche», i responsabili regionali per questi settori possono «prescindere dai requisiti» fissati dal Decreto ministeriale «ferma restando la conferma in ruolo». Se proprio non ce la fanno neppure in questo caso, cioè con la precettazione e l’abbuono dei requisiti («ad esempio almeno 5 anni di ruolo: in teoria sarebbero possibili commissari anche i neo-assunti», spiega Vinciguerra) potranno «ricorrere con proprio decreto motivato alla nomina di componenti aggregati assicurando la partecipazione alle commissioni giudicatrici di esperti di comprovata competenza». Cioè gente presa, par di capire, sul libero mercato. Scommettiamo? C’è chi sta già scrivendo i ricorsi…
I trecento cristiani perseguitati dagli islamici in Puglia, scrive il 20 agosto 2016 “Libero Quotidiano”. Fedeli cristiani segregati in Italia, costretti a celebrare messe clandestine, Crocifissi nascosti per evitare che vengano distrutti, bruciati da fanatici islamici. Tutto questo nel Gargano, a 40 km dalla tomba di San Padre Pio in Puglia. La storia, incredibile, la racconta Cristiano Gatti sull'Espresso e Repubblica ne anticipa una parte. Si tratta di 300 immigrati africani, lavoratori stagionali dei campi di pomodoro, che vivono in una vera e propria bidonville sotto costante minaccia di musulmani che vengono da fuori: "Abbiamo paura, sì. Da due anni la domenica preghiamo tra di noi senza farci vedere". Di fatto il ghetto di Rignano Garganico è la riproposizione su piccola scala dei drammi della Nigeria e di altri Paesi africani dove i cristiani vengono perseguitati, picchiati, uccisi. "La bidonville aumenta di 10 nuovi arrivati ogni 24 ore. Ha già superato il record di 2mila abitanti e, con la raccolta dei pomodori, si avvia verso i 3mila. Troppa manodopera. Il risultato è che trovano lavoro per non più di 3 o 4 giorni al mese". I racconti dei cristiani sono atroci. Un nigeriano custodisce una croce, due legnetti di fortuna legati insieme alla bell'e meglio: "L'abbiamo fatta con i resti della baracca della fedele che ogni domenica ospitava la messa. La baracca l'hanno bruciata una notte di due anni fa. Poi qualcuno ci ha fatto capire che, se non volevamo altri incendi, non dovevamo pregare davanti ai musulmani. Anzi non dovevamo proprio farci vedere. Noi cristiani siamo una minoranza. Trecento contro duemila, troppo pochi. Così per paura abbiamo dovuto rinunciare alla messa. Solo a Pasqua abbiamo chiesto che venisse un prete. Almeno a Pasqua. Per il resto, preghiamo di nascosto. Loro hanno 3 moschee qui. Ma nessuna baracca può essere usata come chiesa". "I braccianti musulmani sono solidali con noi", spiega, rivelando che i persecutori sono "spie dei caporali", africani anche loro, che per ora non hanno dichiarato la loro vicinanza a Boko Haram o Isis. Ma l'intolleranza sta aumentando anche nel ghetto, con l'arrivo di nuovi immigrati: "Oggi ci dicono che non vogliono vedere croci o immagini di Gesù. Papa Francesco dovrebbe venire qui e scoprire con quanta fatica viviamo".
Apocalisse in Puglia, un pezzo del Paese oltre ogni umanità. Una spaventosa baraccopoli arsa dal sole e dal degrado. Clan di schiavisti in guerra. Migranti islamici che bruciano le croci di quelli cristiani. Violenze, minacce, agguati. A Rignano Garganico è la peggiore estate di sempre, scrive Fabrizio Gatti su "L'Espresso" il 22 agosto 2016. L’ultima messa l’hanno celebrata a Pasqua. La penultima non se la ricordano nemmeno. Nella torrida pianura ai piedi del Gargano, a 40 chilometri dalla tomba di San Padre Pio, c’è una bidonville di oltre duemila abitanti dove trecento cristiani vivono segregati. La misera baracca, in cui ogni settimana un padre missionario veniva a santificare le domeniche, l’hanno bruciata una notte di due anni fa. Dai resti del luogo di preghiera hanno costruito un crocifisso per ricordare l’aggressione: due moncherini di legno carbonizzato, legati insieme da un nastro di plastica nero ricavato dai tubi che irrigano i campi di pomodoro. La croce adesso la conservano nascosta sotto uno scaffale. Non se la sentono di esporla. Hanno paura di nuovi attacchi: «Abbiamo paura, sì. La domenica preghiamo tra di noi senza farci vedere fuori». La vita dei braccianti nelle campagne della provincia di Foggia è già difficile. Ma per i trecento cattolici africani, isolati in mezzo alla maggioranza musulmana del Ghetto di Rignano Garganico, lo è molto di più. Il Ghetto di Rignano è un valico in uscita. Quando le rotte carsiche verso l’Europa si chiudono, qui la baraccopoli si riempie. È la capitale delle bidonville nostrane. La più grande. Un termometro del clima sociale. Dovrebbero ammetterlo gli italiani che vorrebbero seguire la Brexit: finora ci hanno salvato le frontiere aperte, cioè l’Unione Europea. Dei 170 mila profughi sbarcati in Italia nel 2014, centomila hanno continuato il viaggio verso Nord. Se ne sono andati anche un po’ dei 153 mila arrivati nel 2015. Ma la grande maggioranza e i novantamila che si sono finora aggiunti quest’anno non hanno alternative. Si dovranno accontentare dell’Italia, anche se non piace. L’Austria prima, poi la Francia e la Svizzera non li lasciano più passare. È la nuova fase dell’immigrazione, la più maledetta: dalla chiusura delle frontiere europee dobbiamo cavarcela da soli. E le premesse non sono buone. Nel 2015 sui 29.698 stranieri riconosciuti come rifugiati e transitati nei progetti Sprar, il sistema di protezione italiano, soltanto 1.972 sono usciti dal percorso con un contratto di lavoro. E il 32 per cento dei progetti non ha portato a nessuna assunzione (dati Atlante Sprar). Normale, con un tasso di disoccupazione nazionale al 12 per cento. Ma l’Africa continua a partire al di là del mare. E quasi mai i nostri ministri la vanno ad ascoltare. Il 25 maggio il sottosegretario all’Interno, Domenico Manzione, è atterrato in Niger, snodo cruciale lungo la rotta del deserto verso la Libia. La sua missione è durata solo un pomeriggio. Pochi giorni prima Francia e Germania avevano inviato contemporaneamente i loro ministri degli Esteri. E insieme, con il governo di Niamey, hanno avviato una collaborazione ad alto livello che riguarda anche noi. Ma senza di noi. La frontiera che porta alla bidonville di Rignano è diversa da quelle di Ventimiglia, Ponte Chiasso o del Brennero. Il Ghetto, così lo chiamano senza giri di parole i suoi abitanti, sorge al di là di un confine interiore. È il valico dentro ciascuno di noi tra la decenza e l’indecenza, la democrazia e il caporalato. Dopo il tour nei centri ordinari e straordinari per richiedenti asilo, un periodo variabile tra nove mesi e due anni e aver tentato inutilmente di entrare in Francia o in Germania, i profughi riappaiono qui. Non fa differenza se hanno o non hanno ottenuto un qualsiasi tipo di permesso di soggiorno. Tanto, là fuori, di lavoro regolare non ce n’è più. E qui dentro perfino i capineri, i caporali africani, i kapò del nostro tempo, fanno fatica a soddisfare tutti. Dieci anni fa il rapporto era di un caponero ogni dieci, venti braccianti. Quest’anno siamo a uno ogni cento. Troppa manodopera. Il risultato è che si lavora non più di tre o quattro giorni al mese. Il resto delle settimane si sopravvive con la solidarietà tra connazionali, un piatto di riso al giorno, un morso di carne arrostita regalato dal vicino di baracca. La bidonville aumenta di dieci abitanti ogni ventiquattro ore. Il Ghetto ha già superato il record di duemila persone e con la raccolta dei pomodori si avvia verso quota tremila. Il governatore della Puglia, Michele Emiliano, ha ottenuto dal prefetto lo sgombero. Stanno studiando dove trasferire gli abitanti. Un pericoloso azzardo, in piena stagione di raccolto. Ci avevano provato già in passato. Ma le alternative offerte si limitavano a spiazzi sperduti. Così la bidonville ogni volta è risorta: la sera, di ritorno dal lavoro nei campi, è meglio l’intimità di una casa di legno e cartone, piuttosto che l’ipocrita benevolenza delle tendopoli e dei container di Stato. Adesso le autorità ci riprovano. Magari sgomberassero l’economia locale dal piglio criminale di molti imprenditori. Prendete l’esempio di Franco Valenzano, agricoltore di Borgata Arpinova a Foggia. L’anno scorso il Tribunale l’ha condannato a risarcire 19.595 euro di arretrati non pagati a uno dei suoi schiavi, un geometra del Burkina Faso, padre di tre figli, arrivato in Italia in aereo nel 2009 con un visto di lavoro. Valenzano non ha fatto ricorso in Appello. Dopo quasi un anno dalla sentenza semplicemente continua a non pagare. E anche il suo ex dipendente è precipitato in una baracca del Ghetto. In mezzo a questa arroganza italiana perfino l’eredità sindacale di Giuseppe Di Vittorio diventa un privilegio. Meglio un caporale subito e dodici ore di fatica a venti euro al giorno. «Padrone mio... damme li botte», supplica la triste canzone del compositore foggiano Matteo Salvatore. «Questa è la croce bruciata», dice sottovoce il bracciante nigeriano che la custodisce. La prende dallo scaffale. La mostra cauto, come fosse una sacra reliquia. E lo è. «L’hanno benedetta due volte. L’abbiamo fatta con i resti della baracca della fede che ogni domenica ospitava la messa. La baracca l’hanno bruciata una notte di due anni fa. Lei per fortuna non c’era. Poi qualcuno ci ha fatto capire che se non volevamo altri incendi non dovevamo pregare davanti ai musulmani. Anzi non dovevamo proprio farci vedere. Noi cristiani siamo una minoranza. Siamo del Togo, del Ghana, noi nigeriani. Trecento contro quasi duemila, troppo pochi. Così per paura di altri incendi abbiamo dovuto rinunciare alla messa. Solo a Pasqua abbiamo chiesto che venisse un prete. Almeno a Pasqua. Per il resto, preghiamo di nascosto. Loro hanno tre moschee qui. Ma nessuna baracca può essere usata come chiesa». Chi sono quelli che vi hanno fatto capire? «No, non facciamo nomi. Sono spie dei caporali, africani che non vivono nel Ghetto, vengono da fuori. Poche persone, ma stanno seminando paura. No, no, nessuno si è mai dichiarato a favore dei terroristi di Boko Haram o dello Stato islamico. I braccianti musulmani sono perfino solidali con noi. Con loro i rapporti sono buoni. Ma negli ultimi due anni è arrivata tanta gente nuova. E molti di loro non sembrano così tolleranti». Una sera di febbraio un altro incendio, partito da una stufa a gas, ha distrutto la baraccopoli. «Abbiamo messo in salvo le nostre cose, la batteria, il pannello solare. Ma mentre stavamo tentando di spegnere il fuoco, ce le hanno rubate. Anni fa nessuno ti chiedeva di che religione sei. Ora ci dicono che non vogliono vedere croci o immagini di Gesù. Papa Francesco dovrebbe venire qui e scoprire con che fatica viviamo». Gli immigrati che hanno costruito il Ghetto una decina di anni fa erano cresciuti nella speranza laica e socialista di Thomas Sankara. E anche l’emigrazione era vissuta come lo strumento necessario per finanziare il riscatto scolastico dei propri figli, rimasti con le mamme in Africa. I ventenni che sbarcano ora non sanno che farsene di Sankara, nemmeno di Nelson Mandela. Gran parte di loro ha trascorso anni a ciondolare il capo leggendo ad alta voce versetti nelle madrase coraniche, pagate dall’Arabia Saudita lungo tutto il Sahel. La lingua internazionale dei più giovani appena arrivati nella bidonville non è più il francese o l’inglese, ma l’arabo. Sono i figli dei patti di stabilità imposti dalle istituzioni mondiali agli Stati africani: tagliare la spesa, in cambio di aiuti. Così hanno tagliato le scuole statali. E a riempire il vuoto è piovuto dal Golfo l’imperialismo wahhabita, il razzismo religioso che sta sconquassando il mondo, finanziato dagli stessi emiri che in Europa comprano squadre di calcio, interi quartieri e compagnie aeree. Il tramonto adesso allunga le ombre. E nonostante le minacce alla comunità cristiana, la baraccopoli di Rignano sembra correre nella direzione opposta. I genitori musulmani consegnano senza remore i pochi bambini a don Vincenzo, giovane missionario scalabriniano, che con i suoi volontari viene fin qui qualche ora alla settimana a insegnare italiano. Per adescare i raccoglitori di pomodori sono accorse da Napoli le maman nigeriane con ragazze giovanissime da far prostituire nei bar improvvisati ovunque. E anche quest’anno una rete di studenti da tutta Italia si dà il cambio per mantenere accesa Radio Ghetto, davanti all’autoproclamato imam senegalese dell’autocostruita moschea di legno e cellophane, che al di là del spiazzo di polvere passa e saluta. Sotto sotto però, la delusione, il sovraffollamento, l’infiltrazione delle gang hanno rotto l’equilibrio. A fine luglio un bracciante del Mali, Ibrahim Traoré, 34 anni, viene ucciso a coltellate da un ivoriano di 26 anni, poi arrestato dai carabinieri. Pochi giorni dopo, un ladro sorpreso a rubare 300 euro, rischia il linciaggio. Lui si chiude in una baracca. Da fuori impugnano bastoni chiodati. «Bagnatelo tutto che lo colleghiamo all’elettricità», gridano i rivali assatanati. Ritornano i carabinieri e la sera alcuni connazionali che li hanno avvertiti passano un brutto quarto d’ora. Quando ormai è buio, telefonano da Lampedusa per raccontare della visita al campo profughi dell’europarlamentare di “Possibile”, Elly Schlein, accompagnata dall’avvocato Alessandra Ballerini della rete “LasciateCIEntrare”. È un altro passo dentro i confini dell’indecenza: 350 stranieri rinchiusi, venti donne, sei bambini piccoli, dieci minori, e solo otto docce (una ogni 43 persone), dodici turche in condizioni pessime (una ogni 29), wc inagibili e niente doccia nel settore minori, dormitori di lamiera rovente e mai un ricambio per i materassini di gommapiuma su cui dormono senza lenzuola i malati di scabbia. Eppure Lampedusa è diventata un “hotspot” europeo. Bruxelles ha inviato una palata di soldi all’Italia che una gara d’appalto ha girato alla “Confederazione nazionale delle Misericordie”, l’associazione cattolica che l’ha vinta. Fine della telefonata. A pochi passi da un disoccupato di Foggia che vende patate dal bagagliaio della sua macchina, gli ultimi inquilini del Ghetto portano notizie del mondo di fuori. Dicono che la polizia adesso fa scendere a Genova i neri che salgono sui treni per Ventimiglia. E sorridono spiegando che aerei pagati dal ministero dell’Interno riportano in Sardegna i rifugiati sgomberati dal confine francese. Qualcuno di loro ha già fatto su e giù addirittura quattro volte: sì, nel caos del prossimo autunno, finiremo con i gommoni che scappano da Olbia per sbarcare a Sanremo.
Migranti, in centomila sono scomparsi. La grande fuga dopo lo sbarco. Mentre bruciamo miliardi per l’accoglienza. Senza riuscire ad aiutarli, né a controllarli. Cosi in 104.750 sono sfuggiti ai controlli. Scappano anche davanti ai militari. Che non intervengono: in esclusiva le immagini di Bari, scrive Fabrizio Gatti il 21 gennaio 2015 su "L'Espresso". Lo Stato c’è, eccome. Il Tricolore sventola nella brezza. Il cartello giallo sulla rete avverte: «Zona militare. Divieto di accesso. Vigilanza armata». La camionetta dell’esercito con i due soldati di ronda arriva puntuale. Davanti ai loro occhi, sette tra africani e asiatici non si scompongono. Scavalcano i quattro metri e mezzo di recinzione. Scappano dal Cara di Bari, il Centro di accoglienza per richiedenti asilo. Uno di loro è vestito da talebano: caffetano bianco, berretto afghano sulla testa, barba e capelli lunghi. Forse è per questo che per uscire non passano dalla portineria. I militari guardano e non si fermano. La camionetta tira dritto, sempre a passo d’uomo. Sono le 10.30 di mercoledì 14 gennaio. La grande fuga continuerà per tutta la mattinata. Ma era così anche dieci minuti fa, un’ora fa, stamattina presto, stanotte, ieri sera, ieri pomeriggio, ieri mattina. Decine e decine di stranieri fuggono a ogni ora del giorno e della notte dal centro che dovrebbe registrare la loro presenza in Italia. Altri profughi, sbarcati addirittura nel 2011, a Bari usano il Cara per mangiare, dormire, farsi la doccia. Loro si arrampicano sulla recinzione due volte al giorno. Andata e ritorno. Hamid, 35 anni, bengalese, richiesta di asilo respinta, fa questa vita da due anni: esce la sera per andare a lavare i piatti in una pizzeria, la mattina rientra. Non importa se non è registrato. Perfino gli imam, quelli autoproclamati che nessuna moschea ufficiale riconosce, entrano a predicare il loro Islam. E, quando hanno finito, escono indisturbati. Eccone due. Si calano dalle sbarre di ferro del perimetro, lato Sud. La camionetta dell’esercito riappare dietro di loro e, puntuale, tira dritto. Sempre a passo d’uomo. Lo Stato c’è. Ma è di burro. Non solo a Bari. Accoglienza all’italiana. La strage di Parigi ha fatto risuonare l’allarme terrorismo. I rifugiati non sono criminali. Ma in tempi di massima allerta, registrare l’identità di chi entra in un Paese è il minimo indispensabile. Per avere il quadro della situazione, prevenire i rischi. Ecco, già questo elementare calcolo è impossibile: perché nel 2014 ben centomila dei 170 mila profughi arrivati in Italia sono scomparsi da ogni forma di monitoraggio. Fantasmi di cui non si sa più nulla. Nella maggioranza dei casi, nemmeno la vera identità: soccorsi in mare e contati, una volta arrivati a terra sono stati lasciati fuggire. Proprio come a Bari. Quasi sempre prima di essere identificati. Sono dati ufficiali del ministero dell’Interno. Le crisi umanitarie nell’area del Mediterraneo e l’operazione «Mare nostrum» hanno quasi triplicato il record nazionale del 2011:170.816 profughi arrivati nel 2014 contro i 64.261 di quattro anni fa. Nell’ultimo anno, però, soltanto 66.066 risultano registrati e ospitati nei centri. Significa cioè che104.750 stranieri sbarcati nel 2014 sono ora al di fuori di qualunque controllo. Colpiscono anche le cifre suddivise per origine. Siria: su 51.956 sbarcati nel 2014, solo 505 hanno richiesto protezione in Italia. Eritrea: su 43.865, solo 480. Somalia: su 8.152, solo 812. Il resto? Spariti. Rimangono i profughi partiti da altri Stati africani. Nigeria: 10.138 le domande d’asilo nel 2014. Gambia: 8.556. Mali: 9.771 su 11.119 sbarcati. Gran parte di siriani, eritrei e somali è andata ad alimentare il record di arrivi in Germania e Svezia. Moltissimi però vengono rimandati indietro. Oppure non escono dai nostri confini. Vanno ad aggiungersi alle migliaia di loro connazionali, in Italia dal 2011 o anche da prima, che non hanno mai ottenuto un permesso di soggiorno, o se l’hanno ricevuto non hanno più un lavoro regolare. Tremila di loro vivono a Roma: per strada, sotto i portici della stazione Termini o in case e uffici abbandonati. Nessun mezzo di sostentamento se non le mense di beneficenza. E, per qualche centinaio di africani, lo spaccio al Pigneto, il quartiere di Pier Paolo Pasolini. Altri cinquemila si stimano nelle province di Napoli e Caserta. Settecentocinquanta all’ex villaggio olimpico di Torino. Cinquecento al Ghetto di Rignano Garganico: la baraccopoli di braccianti e caporali nella campagna foggiana per la prima volta non si è svuotata, anche se è pieno inverno e in giro non c’è niente da fare. Centinaia dormono in ripari di cartone e container intorno ai centri statali per richiedenti asilo. Come Borgo Mezzanone, vicino a Foggia, o Pian del Lago, a Caltanissetta: una volta usciti dai Cara, con il permesso di soggiorno o il respingimento in tasca, le persone si spostavano a cercare lavoro. Adesso no: è più sicuro rimanere nelle vicinanze e attraverso la recinzione elemosinare un pasto a chi ha ancora diritto all’accoglienza di Stato. Insicurezza alimentare, la chiamano. Ci si aiuta così. L’Italia in recessione crea mille disoccupati ogni giorno. Nel frattempo avrebbe dovuto assimilare 291.247 nuovi cittadini: tanti quanti ne sono sbarcati dal 2011 al 2014. Il sogno infranto dalla crisi. Per noi. Per loro. “L’Espresso” è andato a cercarli. Dal Piemonte alla Sicilia. Dalla Calabria al Friuli. Ritorna una parola da decenni scomparsa dal vocabolario delle nostre strade: fame. L’alimentazione tipo la descrive Isaac Kumih, 32 anni, partito dal Ghana e incagliato nei prefabbricati di lamiera sulla pista della vecchia base militare di Borgo Mezzanone, quattro materassi in una stanza: «Una fetta di pane secco e una tazza di tè la mattina, un piatto di semolino la sera. Ho raccolto pomodori in agosto: 550 euro. Mi devono ancora pagare. Non posso permettermi il pranzo». Un alto funzionario della polizia italiana si lamenta perché alla frontiera del Brennero i colleghi austriaci rimandano indietro gli eritrei: «Sono spesso ragazzi cresciuti nei campi profughi». Ma si tengono i siriani diplomati e laureati. Non è solo cinismo. Quei titoli di studio in Italia andrebbero probabilmente sprecati. Mohanad Jammo, 42 anni, medico di Aleppo fuggito dalla guerra in Siria e poi dalla Libia in fiamme, è sopravvissuto con la moglie e la figlia di 5 anni al naufragio dell’11 ottobre 2013. Il più grande e il più piccolo dei loro bambini sono scomparsi in mare. Da Malta, la famiglia Jammo è stata accolta in Germania. Destinazione, un appartamento affittato dal sistema federale a due ore da Francoforte e un contributo mensile di 350 euro a persona per la spesa e il vestiario. Nel 2014 il dottor Jammo ha potuto frequentare un corso di tedesco. Nemmeno la sua laurea siriana è stata cestinata. A fine autunno ha superato l’esame per convertire la qualifica ed esercitare in Germania: da inizio gennaio Mohanad Jammo lavora in un ospedale. Dopo appena quattordici mesi e una tragedia immensa, la sua famiglia non è più a carico del governo tedesco. Un altro sopravvissuto allo stesso naufragio del 2013, un ragazzo che non vuole che il suo nome sia rivelato, ha chiesto protezione all’Italia. Dopo quasi un anno trascorso in un centro temporaneo in provincia di Varese, viene trasferito all’improvviso con una trentina di profughi a Carfizzi, milleduecento chilometri a Sud, 700 abitanti in mezzo alla Sila. Il paese in provincia di Crotone e il progetto di una cooperativa locale sono entrati nella rete Sprar, il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati: è l’ultima tappa, da sei mesi a un anno di accoglienza che dovrebbe fornire all’ospite conoscenze linguistiche e capacità professionali per vivere e lavorare in Italia. «A Carfizzi ci sono 33 profughi», spiegano il 6 gennaio Yasmine Accardo, dell’associazione LasciateCientrare, e l’avvocato Alessandra Ballerini: «Oggi un ragazzo con mal d’orecchie non è riuscito a contattare nessuno. Abbiamo provato a chiamare mediatrice e gestore: niente. La guardia medica non risponde». Dopo una visita al centro, parte la segnalazione al servizio centrale Sprar: «La struttura, un ostello della gioventù, è posta al di fuori del paese... Gli ospiti ci chiedono aiuto sotto diversi aspetti: cibo scarso, ritardo dei documenti, isolamento sociale, scarsa assistenza medica, assenza di riscaldamento... Moltissimi ospiti hanno radicato i loro documenti a Varese e tanti ci hanno fatto vedere la documentazione con appuntamenti già scaduti. Veniamo a sapere che il gestore dichiara che non ha soldi per acquistare il biglietto per il Nord. Nelle comunicazioni della questura, lo spazio riservato all’interprete è sempre vuoto. Sono tutte in lingua italiana. È evidente che la mediazione multiculturale non sia il forte di questo soggetto gestore che in alcuni documenti addirittura scrive: englesh». Dopo quattordici mesi, il ragazzo sopravvissuto come il dottor Jammo non parla italiano, non parla inglese, è in profonda depressione. Ed è ancora a carico dello Stato italiano. Come tutti gli altri 32 ospiti a Carfizzi: cioè, la loro presenza in Italia permette all’ente gestore di incassare circa 35 euro al giorno per persona, 1.050 euro al mese. Fanno tre volte il contante versato dalla Germania a ciascun profugo perché possa mantenersi e, con le sue spese, contribuire all’economia locale. Degli oltre mille euro pagati dal sistema Sprar alla cooperativa di Carfizzi, però, il ragazzo siriano riceve soltanto 75 euro al mese. Per le piccole necessità: le telefonate alla famiglia, l’integrazione del cibo quando è scarso, le marche da bollo per i documenti. Dal 2011, con i primi decreti sull’ emergenza Nord Africa, questo sistema ci è costato due miliardi 287 milioni 851 mila euro: 483 milioni soltanto nel 2014 per vitto e alloggio, più 117 milioni e mezzo per l’operazione «Mare nostrum». Trenta-trentacinque euro al giorno per persona non sono affatto pochi. Un esempio è l’albergatore napoletano Pasquale Cirella, 49 anni: grazie ai 614 profughi che le prefetture campane gli hanno affidato, incassa 19 mila euro al giorno. Così la sua società Family srl è passata dai 44 mila euro di fatturato del 2009 al milione 853 mila euro del 2012. Con utili annuali cresciuti da 676 euro a 170 mila euro. Un altro imprenditore a Monteforte, in provincia di Avellino, ha messo a dormire 107 rifugiati in tre appartamenti: tagliando sulle spese di assistenza, come interpreti e tutela legale, se le prefetture non controllano il guadagno aumenta. “L’Espresso” ha scoperto che nel 2006 il Comune di Roma riusciva a garantire ospitalità a cifre bassissime, tra i 4,70 e i 8,30 euro al giorno per persona. Se ne occupava Luca Odevaine, futuro consulente del Cara di Mineo, provincia di Catania, arrestato nell’operazione «Mafia capitale». L’aumento da allora ha raggiunto il 421 per cento. Oggi il consorzio dei Comuni, che a Mineo controlla il più grande centro di accoglienza profughi, incassa dallo Stato decine di milioni. Il direttore generale, Giovanni Ferrera, tre mesi fa ha stanziato diecimila euro del bilancio al Comune di San Cono per organizzare la “XXIII Sagra del ficodindia”. Un comunicato ci assicura che «l’integrazione è passata attraverso la partecipazione e la condivisione di iniziative popolari come la Festa del grano di Raddusa e la Sagra del ficodindia di San Cono...»: 648 parole pagate all’autore locale 720 euro, organizzazione della conferenza stampa inclusa nel prezzo. Sempre il direttore generale nel 2013 ha pagato un’altra conferenza stampa 4.514 euro: 855 parole di comunicato alla cifra di 5,27 euro a parola e incontro con i giornalisti locali compresi nella fattura. C’è anche la “Partita del Cuore” attori contro Cara: tredicimila euro di noleggio dei pullman per lo stadio e altri cinquemila per i biglietti. E l’educazione stradale ai profughi? Ventimila euro. I volontari della protezione civile? Quattordicimila 900 euro. La festa dell’uva a Licodia? Fuori altri diecimila euro. L’Estate ramacchese? Diecimila euro. Tradizioni e sapori a Raddusa? Diecimila euro. Cara estate a Mineo? Diecimila euro. L’agosto mirabellese? Diecimila euro. Il Natale dell’amicizia a Castel di Iudica? Diecimila euro. Il presepe vivente a Mineo? Diecimila euro. Tutto regolare, ovviamente. Pagano gli italiani. Nessuna obiezione dal sindaco-presidente del consorzio, Anna Aloisi. Né dal rappresentante legale delle cooperative locali che lavorano nel centro, Paolo Ragusa. Né dall’ex commissario delegato per il Cara di Mineo, Giuseppe Castiglione, attuale sottosegretario all’Agricoltura nel governo Renzi. Sono tutti e tre sostenitori del Nuovo centrodestra, il partito del ministro dell’Interno, Angelino Alfano, di cui Castiglione è coordinatore in Sicilia. Clifford Emeanua, 35 anni, moglie e due figli in Nigeria, faceva il muratore in Libia. Scoppiata la guerra, è scappato: sbarco a Lampedusa il 4 agosto 2011. Poi l’hanno portato al campo di Mineo: «Sono rimasto lì un anno e mezzo». Cosa ha fatto in quell’anno e mezzo? «Non c’è lavoro a Mineo. Chiedevo l’elemosina ai bianchi per strada per qualche soldo da mandare alla mia famiglia. Dentro il campo non potevamo fare niente. Solo mangiare e dormire». Ha frequentato un corso d’italiano? «Non c’era nessuna scuola quando io ero a Mineo. Se c’era, avrei imparato un po’ di italiano. Questo è il problema che ho oggi. Nessun lavoro. Niente. Sono un essere frustrato. Non so dove sto andando. Non so cosa fare. Perfino mangiare è un grande problema. Se chiedo l’elemosina per strada, mangio. Se non raccolgo soldi, non mangio». Conclusa per decreto l’emergenza Nord Africa, nell’inverno 2013, Clifford è stato messo fuori dal Cara con un permesso umanitario. E come migliaia di profughi cancellati da un giorno all’altro dal governo, si è ritrovato sulla strada. È salito a Torino e ora dorme in una stanza dell’ex villaggio olimpico al Lingotto. Quattro palazzine occupate nel 2013. Dal 2006, anno dei Giochi invernali, erano ancora abbandonate. Lui quasi si scusa: «Dormivo in un giardino. Faceva freddo. Gli amici mi hanno detto che qui c’erano appartamenti vuoti da sette anni». Un meccanico nello scantinato costruisce carri da trainare con le biciclette. Li usano per raccogliere e rivendere vestiti, elettrodomestici, metalli recuperati tra i rifiuti. Dieci ore fuori, da 50 centesimi a tre euro l’incasso. Soltanto alcuni centri sociali si occupano di loro. Mentre Lega e neofascisti chiedono lo sgombero. Stesso clima all’ex Ferrhotel: settanta profughi somali, uomini e donne, vivono nell’albergo abbandonato accanto alla stazione di Bari. Per la realizzazione di un centro per rifugiati qui dentro sono stati già stanziati due milioni, di cui quasi un milione e mezzo dall’Unione Europea. Fine lavori: 30 dicembre 2012. Proprio così: non sono mai cominciati. A Pescopagano, frazione africana di Castelvolturno, gli ultimi abitanti sono arrivati dopo il 2011. All’alba li vedi alle rotonde alla ricerca di un ingaggio. Il caporalato è ormai l’unica forma di welfare: il vero jobs act per migliaia di lavoratori. Ma la manodopera è in eccesso. Amou Otoube, 31 anni, la moglie in Ghana che non vede da 9 anni, nel 2014 ha lavorato soltanto due giorni: un guadagno annuo di 70 euro. Isaac Onasisi, 48 anni, come molti italiani disoccupati è alle prese con le bollette. Il Comune gli ha mandato la tassa sui rifiuti: 239 euro, anche se da anni non passa nessun servizio di nettezza urbana. Sul prato all’ingresso di via Parco Fabbri crescono più sacchi dell’immondizia che erba. Centri che funzionano bene esistono. Come lo Sprar dell’Ex-canapificio a Caserta: 40 ospiti in appartamenti diffusi, corsi professionali e di italiano. Fabio Ballerini, dell’associazione Africa Insieme, racconta invece che a Pisa la prefettura ha messo rifugiati perfino nell’ex tenuta presidenziale di San Rossore. Undici richiedenti asilo, erano 40 fino a qualche mese fa, li stanno ospitando a 4,6 chilometri dall’uscita del parco. Altri dieci a quattro chilometri. Con relativi appalti per le cooperative di gestione. Gli unici collegamenti con il mondo sono due o tre biciclette da condividere. L’integrazione in mezzo al nulla. Forse c’è una logica nel nascondere i profughi. Ricordate a Genova gli angeli del fango? Sono i venti ragazzi africani armati di badili che con i genovesi hanno ripulito la città dopo l’alluvione. In quei giorni erano ospitati nell’ex ospedale a Busalla. Lega e Forza nuova hanno protestato con i manifesti: «Ospedale per italiani, non ostello per africani». Anche se riaprire l’ospedale a Busalla sarebbe un oltraggio alla spesa pubblica, la prefettura ha deciso il trasferimento. Evviva la gratitudine. Gli angeli del fango sono finiti a Belpiano, in mezzo ai boschi dell’Appennino ligure: quattro ore e mezzo di pullman e treno da Genova, quasi tre ore da Chiavari, sette chilometri a piedi da Borzonasca, il paese più vicino dove trovi soltanto una tabaccheria e cinque frane che si sono mangiate pezzi di strada. Non appena hanno visto il posto, due ragazzi sono usciti dal programma di accoglienza. Questa è l’Oasi di don Mario Pieracci. Lui sale raramente. Vive a Roma ed è più facile incontrarlo in tv, ospite della Rai. L’Oasi è un villaggio vacanze della chiesa. Un tempo era aperto solo d’estate. Dagli sbarchi del 2011, funziona tutto l’anno. Centoventi profughi, asiatici e africani, conferma Caterina, la cuoca che da sola gestisce il centro e la cucina. Il corso di italiano è affidato a uno studente di ingegneria che parla inglese. Nessun aiuto linguistico per chi conosce appena arabo, pashtun o francese. Anche per questo soltanto otto ragazzi su 120 frequentano oggi la lezione. Per scendere in paese, si va a piedi. Una volta al mese. Il vecchio pullmino è rotto. Non c’è Internet. Non ci sono film in lingua straniera. La tv riceve solo i programmi della Rai. «Poveri cristi», ammette Caterina, «ci sono ragazzi che sono arrivati il 5 gennaio 2014 e sono qui ancora in attesa dei documenti». Mangiano, dormono. Si scaldano le infradito e i piedi scalzi, seduti intorno alla stufa a legna. Si riparte. Qualche ora di autostrada ed ecco Gorizia, la Lampedusa dell’Est: ogni mese la rotta balcanica scarica dai camion decine di richiedenti asilo afghani e pakistani. Gli amministratori della cooperativa siciliana Connecting People e una vice prefetto sono sotto processo con l’accusa di avere gonfiato numeri e fatture del Cara di Gradisca d’Isonzo. I dipendenti della cooperativa non ricevono lo stipendio da mesi. Molti di loro sono allo stremo, come gli africani di Pescopagano. Nonostante lo scandalo, secondo i sindacati il prefetto potrebbe presto arrivare a una risoluzione consensuale del contratto. Una conclusione amichevole: la Connecting People non perderebbe così la cauzione da 791 mila euro. Mentre i lavoratori perderebbero gli arretrati. Nell’industria dei rifugiati, tutto è possibile. All’inizio dell’inverno sempre a Gorizia, provincia con decine di caserme da anni deserte, la prefettura ha pagato come dormitorio un’officina: umidità, materassi per terra, riscaldamento scarso, 25 euro per persona e 70 profughi che al fortunato proprietario hanno reso 1.750 euro al giorno. Una velocità di 73 euro l’ora. Proprio quell’officina era il garage di una concessionaria Lancia. Curiosa parodia che riassume il destino dell’economia italiana: perse le auto, si spremono i profughi. (Ha collaborato Francesca Sironi).
Sfruttamento selvaggio, ora gli schiavi d'Italia dicono basta. Non solo Rosarno. Dalla pianura pontina al distretto del pomodoro in Puglia sfruttamento, ghetti e zero sicurezza riguardano 400 mila lavoratori. Che finalmente denunciano, scrive Floriana Bulfon e Francesca Sironi il 18 luglio 2016 su "L'Espresso". Picchia il sole su 400mila lavoratori impiegati senza tutele a raccogliere casse di pomodori e ceste di meloni, fino alle uve d’autunno. La cifra è fornita dall’osservatorio della Cgil sul caporalato. In inverno erano a Rosarno o Ginosa per gli agrumi. Con l’estate si trovano a Foggia come a Nardò, come in qualche località della Campania. Altro raccolto, altra schiavitù. Perché nonostante leggi, programmi e promesse, lo sfruttamento nei campi continua. Assume nuove forme, indossa maschere semi-legali: intermediazione, contratti a ore, aziende fantasma. Riceve fondi europei. Conta sulla mancanza di controlli. E non arretra. E oggi all’emergenza “storica” (in Calabria è da otto anni che le associazioni parlano di schiavitù, in Puglia la prima rivolta dei braccianti risale al 2011) se ne aggiunge una nuova. Nei centri d’accoglienza per i richiedenti asilo sono registrati 111mila migranti. Arrivano da Pakistan, Nigeria, Gambia, Senegal, Mali. Erano 33 mila in meno un anno fa. Nella tendopoli di San Ferdinando, dove un carabiniere ha ucciso, sparando, un ragazzo che lo minacciava con un coltello, il 33 per cento dei 471 stagionali curati da “Medici per i diritti umani” era un “diniegato”, un esule cioè in attesa di ricorso in tribunale. Più della metà aveva in tasca un permesso di protezione internazionale. Il 10 maggio da un’inchiesta della Digos di Prato sono stati indagati 12 pakistani: per la vendemmia di cinque aziende del Chianti - “Chianti classico”, docg e “gran riserva” - facevano il giro dei centri d’accoglienza. Caricavano su van dai vetri oscurati i profughi - cento, almeno, quelli coinvolti - per pagarli da quattro a sei euro l’ora, contro i 9 del contratto nazionale. Al telefono li chiamavano «questi schiavi negri e stronzi». Sono stati perquisiti anche tre italiani: professionisti di Prato, fornivano false buste paga e documenti. Fra quelle vigne mancavano ispezioni, prima della denuncia da cui è partita l’indagine, aiutata dal direttore della cooperativa che ospitava i rifugiati e che si era accorto che qualcosa non andava. Del resto sui campi, quando arrivano i controlli, arrivano anche le sanzioni: nelle 8.862 aziende agricole ispezionate dalle autorità nel 2015 sono stati intercettati 6.153 irregolari e 3.629 braccianti totalmente in nero. Impiegati secondo l’antica prassi di ricatti, rimborsi per il “viaggio” dovuti ai caporali, ghetti, nessuna sicurezza. Fino alla fame: meno di un mese fa i carabinieri hanno arrestato nel brindisino una madre e suo figlio. Italiani, portavano, secondo l’accusa, i braccianti fino nel barese, stipati in furgoncini; se non c’era posto, li chiudevano nel bagagliaio. «Non mangio da giorni», diceva disperata una di loro. «Ho provato vergogna. Qui mancano i diritti e non è riconosciuta la dignità». Così Camilla Fabbri, presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sugli infortuni sul lavoro, commentava il 24 maggio l’ispezione appena terminata nella cooperativa “Centro Lazio”, nella pianura pontina. In quattro ore di controlli i Carabinieri di Latina e gli agenti dei Nuclei Antisofisticazioni e Sanità hanno trovato nelle serre braccianti “in regola” per 12 giorni al mese quando ne lavoravano 20, per paghe da meno di quattro euro l’ora e turni da dodici ore al giorno. Raccoglievano in queste condizioni pomodori e zucchine “di alta qualità”, come pubblicizza il sito dell’azienda, che ha chiuso il bilancio del 2014 con un fatturato di 14 milioni di euro. La “Centro Lazio” ha ricevuto negli ultimi tre anni un milione e 440mila euro di fondi agricoli europei: 304mila nel 2013, altri 600 nel 2014 e 536mila l’anno scorso. Rappresentante dell’impresa è Fiorella Campa, che con la sorella Stefania (anche lei socia della cooperativa) era già stata denunciata nel 1994 per sfruttamento, riporta l’archivio dell’Agi. Il padre, Luigi, «tuttora impegnato a sostenere le figlie con una presenza costante e vigile sul campo», come si legge in un’intervista con cui le sorelle presentano i loro progetti per diventare «un colosso dell’ortofrutta», era stato arrestato nel gennaio del 1993 con l’accusa di occultamento di cadavere e violazione della legge sugli stranieri. Secondo un giovane impegnato nei campi l’amico di 31 anni si era sentito male dopo aver mangiato, ed era morto. «Se lo trovano qui succede un macello», avrebbe detto il padrone: «Buttiamolo nella discarica». La “Centro Lazio” fa parte di un grande consorzio: “Italia ortofrutta”, 140 aziende associate. Gennaro Velardo, il presidente, commenta così i risultati dell’ispezione: «Verificheremo per capire l’origine del problema. Lo sfruttamento è inaccettabile ma di certo c’è anche un problema di crisi del reddito per i produttori. Niente è giustificabile però sappiamo cosa può capitare, quando la grande distribuzione chiede prezzi sempre più bassi». L’estate scorsa un altro consorzio aveva espulso immediatamente una delle sue consociate dopo la denuncia di 14 immigrati che venivano rimborsati a 2,5 euro a cassetta. «Incontreremo la società per capire cos’è successo», dice invece Velardo, che aggiunge: «Gli autocontrolli ci sono, le irregolarità non sono così diffuse. E insisto: bisogna capire anche i bisogni degli agricoltori. Lo dico con una battuta: ma forse il cottimo non sarebbe sbagliato». Di “Italia Ortofrutta” fa parte anche “Ortolanda”, una cooperativa olandese con una lunga esperienza nella coltivazione di ravanelli. Dai Paesi Bassi è scesa fino all’Agro Pontino per coltivare in nome della qualità e dello sviluppo sostenibile. Nove lavoratori Sikh hanno presentato lo scorso agosto una denuncia: avevano un caporale, connazionale, che li convocava la sera per il giorno dopo. Per comodità aveva creato un gruppo WhatsApp intitolato “Ortolanda”: 34 utenti, lui l’unico “amministratore” che decideva chi lavorava e chi no. Le indagini sono in corso e stabiliranno chi dice la verità. Intanto nelle serre pontine si lavora senza sosta. Per reggere la fatica spesso ci si aiuta anestetizzandosi. Metanfetamine, antispastici e soprattutto oppio: la produzione è in mano agli italiani, lo spaccio agli indiani e costa pochissimo, dieci euro a bulbo. Una spirale che può portare al suicidio: pochi giorni fa è stato trovato un altro ragazzo appeso a una corda dentro un capannone nelle campagne di Borgo Hermada, a ridosso del fondo agricolo in cui lavorava. Aveva trent’anni e non c’era più niente che potesse prendere per sopportare la schiavitù. «Nel sikhismo il suicidio è vietato; la comunità lo associa allo sfruttamento lavorativo intensivo», spiega Marco Omizzolo dell’associazione InMigrazione: «La stessa comunità che affronta con una colletta per i costi per mandare la salma in India». Il caporale sbraita - «dovete muovervi, riempire i cassoni!» - e loro, per la prima volta incrociano le braccia. È l’estate del 2011 ed era il primo sciopero dei migranti contro la schiavitù. Grazie a quella protesta nelle campagne di Nardò, in Puglia, fu approvata la legge penale contro il caporalato. Cinque anni dopo «la situazione è peggiorata, i diritti sono regrediti», dice con amarezza Yvan Sagnet, il giovane ingegnere camerunense che per pagarsi gli studi al Politecnico di Torino era arrivato in Salento (un amico gli aveva parlato di “paghe da favola” e invece s’era ritrovato a rischiare di morire): «Sono stati approvati molti provvedimenti, ma rimangono inefficaci se non ci sono i controlli». «Qualche passo in avanti c’è, ma insufficiente», conferma Guglielmo Minervini, consigliere regionale in Puglia ed ex assessore: «A Rignano Garganico si sta già ri-formando il ghetto. Il “distretto del pomodoro” è stato portato a Foggia. Ma per ora non sta accadendo niente». Nel frattempo, la schiavitù si evolve. In Basilicata, dove dal 2013 i controlli sono più stretti, gli investigatori hanno scoperto cooperative fantasma che regolarizzavano cittadini italiani, pagando per loro i contributi, mentre a raccogliere andavano stranieri, ad un costo inferiore. E sono sempre più diffusi gli sfruttati “a contratto”: sulla carta le ore di lavoro sono solo tre, eppure passano l’intera giornata chinati sui campi. Ma se arriva un controllo: risultano in regola. Anche i caporali ora operano legalmente all’ombra delle agenzie interinali. In Puglia uno di loro è riuscito, da solo, a spostare da una società d’intermediazione all’altra seimila persone, rassegnate a condizioni prive di sicurezza. Spostate come merci, da buttare quando non servono più. Come è successo a Paola Clemente, uccisa lo scorso agosto dalla fatica mentre raccoglieva uva a 150 chilometri da casa. «Le agenzie interinali celano spesso i caporali del terzo millennio», nota Bruno Giordano, magistrato e consulente giuridico della Commissione: «Dovrebbero esserci maggiori controlli. E quando il reato di caporalato avviene da parte di un’agenzia bisognerebbe prevedere un’aggravante». Perché una morte come quella di Paola Clemente non si ripeta, il 27 maggio è stato firmato un “protocollo contro il caporalato” per le regioni del Sud. «È un risultato forte», dice Ivana Galli, segretario generale della Flai Cgil: «Il programma avrà a disposizione fondi Ue e risponderà a esigenze concrete». Ora bisogna seguirlo, però. Mentre il 25 giugno i sindacati saranno a Bari per chiedere di votare, finalmente, il disegno di legge contro lo sfruttamento in agricoltura, che «prevede una sanzione per l’azienda: fino ad oggi veniva punito solo il caporale», spiega la senatrice Fabbri, e la confisca dei beni utilizzati per lavorare, fino a tutto il patrimonio qualora si accerti che non coincide con la situazione fiscale. Leggi da modificare, ma soprattutto da applicare, rafforzando i controlli e modificando alcuni aspetti: «Da quando è stata introdotta la legge sul caporalato un solo processo è giunto fino in Cassazione», nota il magistrato Giordano. Per tutti gli altri a poco è valso il coraggio di chi ha denunciato. Per ora, ha vinto l’impunità.
Artigli e passamontagna. Ecco come i «pacifisti» aiutano i clandestini. Spranghe, coltelli e un artiglio da film horror sequestrati ai "No border" a Ventimiglia. Gabrielli: "Professionisti dell'agitazione", scrive Stefano Zurlo, Martedì 09/08/2016, su “Il Giornale”. Un'arma degna di Wolvwerine o di Freddy Krueger. Sembra di stare dentro una scena da incubo della saga horror di Nightmare, invece siamo alla frontiera di Ventimiglia. Dove l'Europa va in frantumi, i migranti si accatastano, i No Borders soffiano sul fuoco. Otto arresti, sette francesi e un'italiana residente a Parigi, ma soprattutto un catalogo impressionante di armi: un guanto con punte acuminate modello X-Men, coltello da rambo con lama di 30 centimetri, mazze, tubi di plastica da maneggiare come manganelli, cappucci. Il kit del perfetto dimostrante che si schiera al fianco dei disperati arroccati in attesa di un domani sugli scogli dei Balzi Rossi, ma poi distribuisce violenza, prima di giocare la solita parte della vittima. Insomma, il classico «pacifista» armato. Nessuno vuole colpevolizzare le idee, ci mancherebbe. Gli antagonisti e i centri sociali hanno tutto il diritto di dare voce alle proprie opinioni, ma troppe volte il copione deraglia. Qui, con 600 persone bloccate a un passo da Mentone e dall'agognata Francia, arriva l'imprevisto che sconvolge i piani di guerriglia: sabato sera un agente, Diego Turra, muore d'infarto sulla prima linea della protesta. I No Bordes, spiazzati, annullano il corteo previsto e mettono le mani avanti: «Non vogliamo cadere in trappola. Non c'entriamo nulla con quella morte, avvenuta per cause naturali mentre i suoi colleghi ci inseguivano e ci picchiavano». Fermi e fogli di via disegnano uno scenario assai diverso. Ci sono tutti gli strumenti classici per imbastire un pomeriggio di terrore, ambientato non più nel cuore di Milano o in Val di Susa, ma dove Italia e Francia s'incontrano. Al crocevia di una politica sempre più impotente. «E' lo stesso meccanismo che abbiamo visto tante volte con i Black Blok - dicono gli agenti che stanno monitorando il fenomeno - italiani o francesi non importa: si organizzano e si danno appuntamento nei luoghi più problematici per alimentare la tensione». Angelino Alfano, in un'intervista a Repubblica, sconfina attribuendosi meriti straordinari: «Se Ventimiglia non è fin qui diventata una Calais italiana lo si deve al fatto che abbiamo realizzato controlli». Ma le sue parole roboanti non tranquillizzano. Anzi. Il Governatore della Liguria Giovanni Toti denuncia «la situazione ormai insostenibile a Ventimiglia, dove serve subito un intervento fermo e deciso del governo con l'identificazione degli immigrati e il pugno duro con i No Borders che, irresponsabilmente, aggiungono tensioni a tensioni». Sulla stessa lunghezza d'onda, anzi più in là, il senatore forzista Maurizio Gasparri: «Il Governo sta drammaticamente sottovalutando la situazione a Ventimiglia. Ci aspettiamo l'allontanamento immediato dalla città di tutti i clandestini e fermezza contro i provocatori». Il capo della polizia Franco Gabrielli dosa i concetti come un politico consumato: «Intensificheremo le operazioni di decompressione, in modo da alleggerire la pressione nell'area. E alleggerire la pressione significa prendere le persone e portarle da un'altra parte». Poi si concentra sulla protesta: «I No Borders sono professionisti dell'agitazione, ma - aggiunge subito - addebitare a loro la morte di Turra è un esercizio poco serio». Un punto che tutti condividono. Ma che non cancella il malcontento: mentre l'Europa si scioglie, gli agenti sono sempre più vecchi, mal pagati, peggio equipaggiati. E devono fronteggiare, in quel lembo estremo d'Italia, anche il rischio che qualche terrorista si mescoli ai profughi.
Tra islamici e anarchici il lato «oscuro» degli attivisti. I legami internazionali del movimento anti-confini sotto la lente degli investigatori. Le prove dei video, scrive Fausto Biloslavo, Martedì 09/08/2016, su "Il Giornale". Gli attivisti «No Borders» hanno dei lati oscuri e dei collegamenti internazionali sotto la lente degli investigatori. Non si tratta solo della solidarietà estrema ai migranti «nelle loro pratiche di resistenza e violazione dei confini attraverso le frontiere interne ed esterne dell'Europa», come dichiarano gli stessi attivisti. Mohamed Lahaouiej Bouhlel, che ha falciato con un camion 84 persone a Nizza, è stato ripreso in un video e identificato dalla polizia a Ventimiglia nel giugno dello scorso anno. Il futuro stragista islamico partecipava ad una manifestazione pro migranti assieme all'associazione «Cuore della speranza» con base a Nizza. Il gruppo pseudo caritatevole era gestito da estremisti salafiti, che accoglievano e aiutavano soprattutto profughi o clandestini musulmani. Le foto sul profilo Facebook mostrano la mobilitazione a Ventimiglia e personaggi con il barbone islamico d'ordinanza che alzano un dito verso il cielo per indicare la volontà e la potenza di Allah. Nonostante l'inquietante commistione gran parte degli antagonisti «No Borders» italiani, che negli ultimi giorni si sono mobilitati dai centri sociali della Liguria, Piemonte e Lombardia hanno simpatie e agganci anti Stato islamico. I loro riferimenti sono i miliziani curdi di estrema sinistra del Ypg, che combattono nel nord della Siria contro l'Isis. Lo dimostra uno dei loro siti di riferimento, InfoAut, con tanto di stellina rossa. Sul blog di contro informazione si legge: «Il ruolo preposto dall'Unione europea all'Italia per i prossimi anni è quello di essere un deposito di materiale umano sfuggito alle guerre umanitarie dell'Occidente e alla sistematica spoliazione delle risorse dei paesi del sud globale che hanno subito gli ultimi decenni di «aiuto allo sviluppo». La «resistenza» pro migranti e contro i confini è pan europea. In marzo attivisti «No Borders», anche italiani, hanno fomentato i migranti rinchiusi nel campo greco di Idomeni distribuendo volantini con indicato un tragitto per raggiungere la Macedonia. Il risultato è stata la reazione della polizia con scontri ed arresti. Dallo scorso anno il movimento «No ai confini» influenzato dalla sinistra antagonista si è mobilitato da Ventimiglia a Calais, dove sono state arrestate e poi rilasciate tre attiviste italiane che studiano a Parigi. Chi paga proteste e mobilitazioni? Ufficialmente i soldi vengono raccolti in rete con il crowdfunding, ma da noi la campagna pro migranti è ampiamente rilanciata sul sito Melting Pot Europa. Lo sponsor del sito è l'Istituto nazionale assistenza ai cittadini (Inac). Un patronato «da oltre 40 anni impegnato nel sociale» e promosso dalla Confederazione italiana agricoltori, che fornisce assistenza gratuita agli immigrati per il rilascio del permesso di soggiorno o le pratiche del ricongiungimento familiare. Dalla scorsa estate volontari pro migranti italiani e di mezza Europa hanno fornito assistenza non solo umanitaria, grazie a mappe scritte anche in arabo con indicazioni precise sulle rotte, passaggi e sotterfugi per raggiungere soprattutto la Germania. Via twitter con gli hashtag #Crossingnomore o #marchofhope e WhatsApp hanno indirizzato migliaia di migranti verso determinati punti di frontiera per cercare di sfondarli. La rete «No Borders», infiltrata dagli anarchici, «è uno strumento per i gruppi e le organizzazioni di base a favore dei migranti e dei richiedenti asilo - si legge sul web - al fine di lottare al loro fianco per la libertà di movimento». Alcuni gruppi europei anti confini o Stop Deportation hanno piani più aggressivi. Le compagnie aeree come Lufthansa, Air France, Swissair, Sabena, British Airways, Iberia e pure le agenzie di viaggio sono finite nel mirino perché «deportano» i clandestini. I campi pro-migranti come quello di Ventimiglia, già organizzati in Slovacchia, Germania, Polonia, Sicilia e Spagna, sono un altro tassello del piano pro «invasione». Ulteriori azioni prevedono l'«evasione dai centri (di accoglienza nda), la loro distruzione o la lotta contro le nuove costruzioni». Dopo Ventimiglia il passaggio ad azioni violente è dietro l'angolo.
Marcinelle, 60 anni fa la tragedia nella miniera belga. L'8 agosto del 1956 nelle viscere della miniera del Bois du Cazier morivano 262 minatori. 136 erano italiani fuggiti dalla miseria, scrive il 7 agosto 2016 Edoardo Frittoli su Panorama. I Belgi li trattavano più o meno come prigionieri di guerra. Erano i lavoratori italiani della miniera del Bois du Cazier a Marcinelle vicino a Charleroi. Si erano sentiti spesso chiamare "musi neri" o "sporchi maccaroni". Siamo nel 1956, ma le condizioni di vita dei minatori emigrati riportavano ad almeno 10 anni indietro, quando le misere baracche dove alloggiavano erano state utilizzate prima come lager dai nazisti e poi come campo di prigionia per gli stessi tedeschi. Il Belgio si trovava in quegli anni in una situazione opposta a quella dell'Italia stremata da una guerra perduta. Aveva molte risorse e poca mano d'opera disponibile. Il nostro Paese invece mancava completamente di riserve energetiche, centellinate dai vincitori. Fu un accordo politico siglato nel 1948 dai governi di Roma e Bruxelles a portare decine di migliaia di italiani spinti dalla fame a lavorare nei pericolosi cunicoli delle miniere del Belgio. Braccia umane in cambio di carbone. Il contratto prevedeva per i minatori un periodo minimo di un anno di lavoro, pena l'arresto in caso di rescissione da parte loro. Per 8 anni fino al giorno della tragedia, gli italiani lavorarono giorno e notte in cunicoli alti appena50 centimetri a più di 1000 metri dentro le viscere della terra, spesso vittima di esplosioni di grisù e di malattie gravi come la silicosi. La speranza per 262 minatori, di cui 136 italiani, si spense poco dopo le 8,20 del mattino dell'8 agosto 1956. Nel pozzo N.1, un impianto obsoleto in funzione dal 1930, si verificò un incidente ad un ascensore carico di carrelli di carbone. Uno di questi sporgeva di alcuni centimetri dal vano di carico e per un errore umano fu fatto partire verso la superficie. L'attrito del carrello sporgente spezzò contemporaneamente cavi elettrici e tubazioni d'olio per macchinari ad alta pressione. L'incendio si innescò immediatamente e invase presto le gallerie puntellate con travi di legno e prive di sistemi di sicurezza efficaci. Presto dai due pozzi della miniera iniziarono a levarsi alte colonne di fumo, mentre la squadra di soccorso del Bois du Cazier distava ben 1,5 km dall'impianto. Non fu neppure fermato il pozzo di aerazione, fatto che contribuirà ad alimentare l'incendio ed i gas letali da questo sprigionati. Le fiamme furono domate solo 24 ore dopo con l'ausilio dei pompieri di Charleroi, ma i superstiti furono soltanto 13. 262 cadaveri giacevano inghiottiti nelle gallerie, ed i quotidiani uscirono con il titolo a cinque colonne "Sono tutti morti". Gli ultimi corpi furono recuperati il 22 marzo del 1957, mentre iniziava l'inchiesta sulle responsabilità della tragedia. Come prevedibile, la Commissione belga nella quale furono chiamati anche alcuni ingegneri minerari italiani, scagionò la società delle miniere del Bois du Cazier in un iter pieno di omissioni e vizi di forma. Nessuna tra le vittime ebbe giustizia né risarcimento in quell'estate di 60 anni fa quando la vita umana valeva una manciata di carbone. Per un approfondimento sulla storia del disastro di Marcinelle, segnaliamo il libro di Toni Ricciardi "Marcinelle, 1956: quando la vita valeva meno del carbone".
Marcinelle sessant'anni dopo. Otto e mezzo del mattino di quel maledetto 8 agosto 1956. Una gigantesca voluta di fumo nero si sprigiona dalla miniera di carbone di Bois du Cazier, a ridosso di Marcinelle, nel comune di Charleroi in Belgio. La bestia ha spiegato le sue ali di fuoco nero a mille metri sotto il livello della dignità umana. Muoiono 262 minatori, e di questi 136 sono italiani, scrive Maurizio Di Fazio l'1 agosto 2016 su “L’Espresso”. Ha scritto Paolo Di Stefano nel suo “La Catastrofa” (Sellerio, 2011): “Troviamo tutti i nomi dell’Italia di sempre, Antonio, Giovanni, Mario… e i nomi delle tante Italie di un tempo. Nomi-casa, nomi-memoria, nomi-storia, nomi-simbolo, nomi-speranza, nomi-destino: (tra gli altri) Bartolomeo, Santino, Valente, Camillo, Modesto, Primo, Secondo, Terzo, Annibale, Benito, Adolfo, Assunto, Felice, Liberato, Calogero, Otello, Abramo. E Rocco. Si ripete cinque volte il nome Rocco, tra i morti dell’8 agosto 1956: c’è persino un Rocco Vita”. Sessant’anni dalla più immane tragedia del lavoro italiano all’estero. Dalla strage di guerra in tempo di pace di Marcinelle. Divampata alle otto e dieci del mattino. Un addetto ai carrelli fa risalire nel momento sbagliato un montacarichi, che sbatte contro una trave metallica che va a squarciare un cavo dell’alta tensione, una conduttura dell’olio e un tubo dell’aria compressa. L’incendio è immediato e micidiale, non lascia scampo, anche perché in quel complesso di antica estrazione (dallo smantellamento più volte rinviato) tutte le strutture sono ancora in legno. Il sistema di sicurezza è inchiodato all’ottocento. Non sono in dotazione nemmeno le maschere con l’ossigeno e così quasi tutti moriranno soffocati dall’ossido di carbonio, di concerto col lavorio infame delle fiamme. Soltanto dodici i superstiti. Otto e mezzo del mattino di quel maledetto 8 agosto 1956. Una gigantesca voluta di fumo nero si sprigiona dalla miniera di carbone di Bois du Cazier, a ridosso di Marcinelle, nel comune di Charleroi in Belgio. La bestia ha spiegato le sue ali di fuoco nero a mille metri sotto il livello della dignità umana. Crepano 262 minatori, e di questi 136 sono italiani. Quasi la metà di loro, nel numero di 60, è abruzzese; ben 23 vittime provengono da Manoppello, un impalpabile paesino accartocciato ai piedi di Chieti, emigrato in blocco in Vallonia e altrove perché a casa propria il lavoro era un po’ come la materia oscura dell’universo (e senza effetti gravitazionali). Gli altri arrivano dalle altre regioni del mezzogiorno e del nord-est, spesso portandosi dietro la famiglia al completo. Marcinelle: un’indicibile calamità innaturale, abruzzese, italiana e mondiale seguita (per la prima volta) in diretta dai media internazionali ora dopo ora. Le operazioni di salvataggio dureranno due settimane, al cospetto di una folla disciplinata e sgomenta: i parenti di chi è rimasto sepolto per sempre nel sottofondo delle viscere della terra. Almeno prima erano tumulati sì, ma vivi. Pregano nel dialetto natìo le centinaia di mogli e figli; invocano, invano, Santa Barbara. Il 23 agosto, l’annuncio ferale: “Sono tutti morti”. Gli ultimi li hanno rinvenuti a 1.035 metri di profondità. Abbracciati gli uni agli altri. Solidali e impavidi fino all’ultimo respiro. Dal 1990 la miniera del Bois du Cazier è un monumento storico; un luogo della memoria. Nel 2001 è stata introdotta nel nostro calendario civile la “Giornata nazionale del sacrificio del lavoro italiano nel mondo”: ricorre non a caso ogni 8 agosto, anniversario di Marcinelle. Nel 2012 la silicosi, il morbo del minatore, era ancora la malattia professionale più diffusa in Belgio, nonché la principale causa di morte nella popolazione. Nel 1956 a lasciarci la pelle erano stati contadini per lo più: un esercito sub-industriale di riserva in esubero in quell’Italia Anno Zero del dopoguerra. La carica dei macaronì, come venivano chiamati con una punta di disprezzo. Era il frutto dell’accordo siglato tra Roma e Bruxelles nel 1948, sulla falsariga perfetta di quello con la Germania nazista del 1937: braccia (duemila nuovi minatori tricolori a settimana) in cambio di carbone (duecento chili per ogni nostro lavoratore). Solo che il carbone arrivò molto di rado a destinazione, e questi poveri diavoli si spensero a venti, trenta o quarant’anni nella strenua e beffarda speranza di un futuro migliore. Anime pure, non ne avevano percepito l’inganno intrinseco. Pensavano finalmente di scegliere per se stessi, dopo secoli di subalternità, e invece erano precettati con furbizia; si credevano autonomi quando stavano firmando per la loro nuova schiavitù: minatori volontari, ma fortemente indotti. “Regolari o irregolari, l’importante era che ne partissero il più possibile per andare a scavare nelle viscere della terra quel carbone che sarebbe dovuto servire per il rilancio economico della disastrata Italia” scrive lo storico delle migrazioni Toni Ricciardi in “Marcinelle, 1956. Quando la vita valeva meno del carbone”, da poco uscito per Donzelli. Tra il 1945 e il 1950, il 45% dei maschi maggiorenni dello Stivale sognava di espatriare. Si partiva a cuor leggero e con febbrile entusiasmo, sulla scorta di quegli affascinanti manifesti rosa che tappezzavano tutte le città e cittadine della neonata Repubblica italiana: “Operai italiani! Condizioni particolarmente vantaggiose per il lavoro sotterraneo nelle miniere belghe”. Seguiva elenco lirico delle mirabili e progressive novità che li attendevano sul posto: “ottimi salari giornalieri, premi temporanei, assegni familiari, scorte di carbone gratuito, biglietti ferroviari gratis, premi di natalità, ferie, possibilità di rimesse per l’Italia, facilità di alloggio”. E graziose casette in legno e mattoni per i minatori con familiari al seguito. Ecco quello che molti di loro poi effettivamente trovavano nella dura prosa del distretto minerario di Charleroi (oggi meta di rapidi e confortevoli voli low cost), dopo viaggi estenuanti in treno lunghi anche due giorni e mezzo: baracche prive di acqua, gas, bagno interno, elettricità, e a volte persino del tetto. Stamberghe che pochi anni prima avevano ospitato, mutatis mutandis, i prigionieri di guerra russi e tedeschi. Al centro della scena, e dei retroscena, la cosiddetta battaglia del carbone. L’Italia che riaffiorava dalla seconda guerra mondiale era una nazione agricola, “povera e affamata di carbone, che all’epoca rappresentava la fonte energetica primaria” (nel 1944 il 92 per cento dell’energia prodotta derivava dal carbone). No carbone, no ricostruzione. L’equazione fu presto fatta: noi straripiamo di disoccupati, il Belgio possiede miniere a volontà? Allora facciamo uno scambio equo. Anche perché i minatori autoctoni non volevano più calarsi negli abissi del sottosuolo: troppo rischioso e potenzialmente letale. E per ovvi motivi non si poteva più contare sull’apporto dei prigionieri di guerra. Non restava che imbarcare quote cospicue di “libera” manodopera straniera: “Non volevamo i lavoratori stranieri, ma abbiamo dovuto cercarli per sopravvivere economicamente”. Nuovi prigionieri in tempo di pace. Porte aperte agli italiani. Benvenuti, macaronì! Tappeti stesi rosso sporco-sangue&fuliggine per voi. Lo scambio minatore-carbone (ribattezzato, non a caso, “accordo di deportazione”) divenne una priorità nazionale e bipartisan tanto a Roma quanto a Bruxelles. Dal 1948 al 1955, in base alle cifre ufficiali, furono più di 180 mila gli italiani che passarono per le miniere belghe. L’impatto era traumatico, terribile. Per la grande maggioranza di loro, ragazzi di campagna “partiti con il sole, con il cielo splendido” si trattava del debutto nel ventre inglorioso della terra. Così “dopo le prime ore in fondo alla mina (cioè la miniera), in media 250-500 minatori – un quarto, se non a volte la metà dell’intero contingente arrivato – stracciavano il contratto chiedendo a tutti i costi di essere destinati ad altra occupazione, se non addirittura di essere rimpatriati immediatamente” afferma Ricciardi. Era fulmineo, era irrefrenabile il desiderio collettivo di tornarsene a casa. Meglio la miseria della vita nei campi, ma col sole in faccia, di quelle discese quotidiane nel regno delle ombre roventi. A mille metri sotto, rannicchiati dentro un buco in posizioni innaturali: se questo è un lavoro. La reazione delle autorità belghe fu implacabile: far “soggiornare” in carcere tutti quelli che si rifiutavano di scendere in fondo alla mina. Si accavallano a migliaia le storie dei minatori trasferiti di forza al Petit-château, un carcere di fatto: “I malcapitati venivano stipati anche in quaranta in celle di dieci metri per cinque. La latrina era fatta da buglioli posti nell’angolo della stanza che venivano svuotati due volte al giorno, mentre i letti erano sacchi di paglia buttati sul pavimento. Per ripararsi dal freddo, visto che i vetri superiori delle finestre erano rotti, veniva concessa loro solo una piccola coperta”. Questo è il riassunto di un’ampia relazione che nell’ottobre del 1946 giaceva sulle scrivanie dei ministeri romani. Già, perché le classi dirigenti sapevano. Sin dapprincipio. Conoscevano le “condizioni in cui vivevano e lavoravano decine di migliaia di minatori volontari indotti”. Andarono in visita al Bois du Cazier e dintorni Amintore Fanfani, allora ministro del lavoro; il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi; un giovanissimo Aldo Moro, l’unico a dipingere quell’occupazione come “abbrutente, inumana, svolta lontano dalla luce del sole, in condizioni spesso di pericolo e di timore”. Ha scritto la storica belga Anne Morelli: “L’Italia ha venduto i suoi figli? La responsabilità dei governanti italiani dell’epoca è molto pesante. Hanno inviato coscientemente migliaia di giovani in perfetta salute sapendo molto bene ciò che li attendeva. Sapevano perché i belgi non scendevano più nelle miniere. Ciò malgrado, i dirigenti italiani hanno finto di non esserne al corrente. Oggi tutti quelli che hanno fatto un’intera carriera nelle miniere sono morti al prezzo di terribili sofferenze. Li hanno venduti”. Tra i suoi effetti collaterali, il disastro di Marcinelle ha portato alla ribalta mediatica mondiale località e frazioni mai udite prima. A cominciare dal comune abruzzese di Manoppello (oggi noto per aver dato i natali al calciatore Marco Verratti), che contava settemila abitanti e “proprio in Belgio aveva esportato, dal 1946, 325 uomini”: quell’8 agosto del 1956 ne morirono 23 di cittadini manoppellesi in miniera. Un paese disseminato nel mondo: chi in America Latina, chi nell’America del nord, o in Australia. Ne ripercorre la sventura Annacarla Valeriano, autrice del capitolo che conclude il saggio di Toni Ricciardi: “Ci vogliono i titoli sulla prima pagina dei quotidiani, le fotografie delle vedove e degli orfani perché l’Italia si domandi dov’è Manoppello e perché la gente di questo paese è così povera e che cosa si può fare per sollevarla dalla miseria senza mandarla a morire in Belgio. Diciamo subito che non si può fare niente, perché il tessuto sociale di Manoppello, il connettivo che tiene insieme duecento case del paese intorno alla parrocchia è proprio la miseria. La miseria a Manoppello è quello che è a Ivrea la Olivetti, la Fiat a Torino, il porto a Genova, i commerci e l’industria a Milano, la burocrazia a Roma” tratteggiò un cronista de “Il Giorno”. A Manoppello c’era “un solo cinema che costa cento lire e mette in programma soltanto vecchi film tagliati e mal ridotti” e si vendeva “tutto a crediti con la “libretta”, il pane, la pasta, persino il latte, persino il formaggino, persino i lacci delle scarpe, tutto si vende a credito” aggiunse l’inviato dell’Unità. Giungeva da Turrivalignani (cinque chilometri a ovest di Manoppello) Cesare Di Berardino, il nonno di Enrica Buccione, la ragazza che lo scorso 22 giugno ha tenuto un memorabile discorso al Parlamento europeo di Bruxelles: “Io sono la nipote di una vittima. Quel tragico 8 agosto del 1956 mio nonno Cesare perse la vita insieme ad altri cinque familiari e a molti altri amici. Mia nonna rimase vedova a 35 anni con quattro bambine. E sono un'emigrante di terza generazione. Ho trascorso la maggior parte della mia vita in Italia. Lo scorso ottobre mi sono trasferita qui a Bruxelles con mio marito e un bimbo in grembo, alla ricerca delle mie radici”. Annacarla Valeriano: “I minatori di Marcinelle erano partiti da questi contesti, da questi luoghi intrisi di desolazione muta in cui si campava a stento nella speranza di migliorare la loro vita; una volta in Belgio, avevano dovuto accettare, insieme alle loro famiglie, una quotidianità ancora più pesante”. La morte era sempre in agguato: “Si avevano delle mascherine di plastica in dotazione, ma venivano puntualmente tolte, arrivati in fondo, perché il caldo era insopportabile e si arrivava zuppi di sudore. Tutti avevano paura, lì sotto. Il grisou (un gas combustibile inodore e incolore) faceva morti di frequente, perché faceva addormentare le persone. Molti morirono così, andando per un bisogno e non tornando più” racconta l’ex minatore di Marcinelle Sergio Aliboni a Martina Buccione in “La nostra Marcinelle” (edizioni Menabò). Tutti morti, e tutti assolti nell’apocalisse sotterranea del 1956. Bastò esibire due mostri sacrificali qualunque. Per la commissione che fu chiamata a indagare, l’incidente era stato provocato dall’errata manovra compiuta da Antonio Iannetta, un 28enne di Bojano, un piccolo borgo del Molise famoso per le mozzarelle. Iannetta non capiva quasi per niente il francese e non riusciva a eseguire correttamente quello che gli veniva richiesto. La prima sentenza del 1959 mandò tutti assolti, e solo nel processo d’appello di due anni dopo la catastrofe venne considerata di origine colposa: ne era responsabile il direttore dei lavori del complesso minerario antidiluviano, il signor Adolphe Calicis. Per lui sei mesi di reclusione con la condizionale più una multa di duemila franchi. Tutti gli altri, innocenti e immacolati. Eppure già all’alba dell’orribile ‘56 il ministro belga Jean Rey aveva divulgato i “codici” della grande carneficina annunciata: dal gennaio 1947 al dicembre del 1955, i morti nelle miniere del Paese erano stati 1164. Quasi la metà italiani. “In realtà, la mattanza fu ben più alta. Dal 1841 al 1965 furono circa 170 l’anno, per un totale di oltre 21 mila in poco più di un secolo. Solo nel secondo dopoguerra, dal 1946 al 1965, si sono registrate 3400 vittime” specifica Ricciardi. E c’è la storia di Maria. Maria che non ha “conosciuto mai la faccia di un politico”, dopo il fattaccio. Maria che suo marito Camillo, falciato poco più che ventenne a Marcinelle, lui che “voleva morire di vecchiaia, non di silicosi”, non l’ha mai abbandonata veramente. Maria che il giorno in cui il corpo di suo marito rientrava a Manoppello, a tre mesi e mezzo dal misfatto, era in ospedale. Maria che negli istanti esatti in cui la cassa di suo marito Camillo sfilava in funerale per le vie del paese, stava partorendo la loro Camilla. Maria che da sola cristallizza e sublima il ricordo di quella vergognosa “Catastrofa”. Di questi 262 minatori, martiri indotti. Morti d’emigrazione. Di silenzio. Di indignazione. Per il lavoro. Per il carbone. Per una vita migliore. Per il futuro. Per l’Europa unita. Per tutte le Manoppello, Lettomanoppello e Turrivalignani d’Europa. Per tutti i loro cari. Per non farli preoccupare. Per dare sostegno a chi se n’era rimasto al paesello. Per ridare fiato alla nostra industria. Per il benessere della nazione. Per la tenuta della famiglia. Per rimpatriare il prima possibile. Per il primo treno utile. Per affanno. Per l’inganno. Per il dolore. Per amore.
Quando l’Italia era “Lamerica” degli albanesi. Era l’8 agosto del 1991, esattamente 25 anni fa, quando la nave «Vlora», con a bordo 20mila migranti albanesi in cerca di futuro in Italia, sbarcava nel porto di Bari. La storia e le immagini di quei momenti entrati nella storia, scrivono Leda Balzarotti e Barbara Miccolupi l'8 agosto 2016 su "Il Corriere della Sera”. Non c’è più stupore nel leggere sui giornali la notizia di uno sbarco di migranti sulle coste siciliane o sull’isola di Lampedusa, è un fenomeno quotidiano al quale siamo tristemente abituati, salvo indignarci quando al largo dell’Italia si ripetono tragici naufragi di uomini, donne e bambini in viaggio verso la salvezza, il sogno di un lavoro o più semplicemente una vita senza guerra. Non era così nel 1991, quando l’Italia diventò di colpo la terra promessa delle popolazioni balcaniche e in particolare dei nostri “vicini di casa” albanesi, ovvero di quei paesi in frantumi dopo la caduta del Muro e dell’Unione sovietica. Lo capimmo con chiarezza la mattina dell’8 agosto 1991, quando nel porto di Bari fece il suo ingresso la nave Vlora, carica all’inverosimile di 20 mila migranti giunti dall’Albania dopo un viaggio iniziato due giorni prima a Durazzo, a bordo di un mercantile malandato, fabbricato 30 anni prima nei cantieri di Genova. Qualche ora prima, la Vlora aveva già tentato l’approdo nel porto di Brindisi, ma l’allora viceprefetto Bruno Pezzuto aveva negato l’ingresso e convinto il comandante Halim Milaqi a navigare verso Bari: altre sette ore di viaggio, al timone di una nave difficile da governare, con la tensione alle stelle e la folla stipata fino al radar. L’Italia sperava, in quel breve margine di tempo, di potersi organizzare al respingimento e al rimpatrio immediato del mercantile, o almeno a disporre una temporanea accoglienza, ma a Bari non c’erano né il prefetto né il questore, entrambi in ferie, e le autorità cittadine, compreso il sindaco, furono avvisate quando la nave era già in porto. Le dimensioni di quello sbarco colsero le autorità centrali italiane totalmente impreparate, ma al vuoto istituzionale rispose la mobilitazione dei cittadini pugliesi e del sindaco Enrico Dalfino, che si attivarono subito per fornire ai migranti stremati i primi soccorsi, acqua, cibo e vestiario. A distanza di 25 anni gli albanesi in Italia sono diventati una delle comunità straniere più radicate e integrate nel nostro Paese, ma come dimostra ogni giorno la cronaca il problema migratorio resta ancora attualissimo e irrisolto, e il ricordo della Vlora e del suo carico di 20 mila anime è diventato un simbolo per l’Italia e per l’Europa intera.
8 agosto 2016. Vlora, 25 anni dopo. Bari ricorda il grande esodo, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno il 7 agosto 2016. Quello che stava succedendo dall’altra parte dell’Adriatico, nell’estate del 1991, lo abbiamo ricostruito nel tempo. In Albania avevano aperto le prigioni e, secondo i servizi segreti, a criminali, banditi comuni e balordi era stato «consigliato» di scomparire. Come? Fuggendo in Italia. A queste bande di malviventi in fuga si erano uniti i poveri disgraziati delle campagne, quelli che non avevano granché da lasciarsi alle spalle, ma anche molti giovani che nel tam tam di strada «Dai, partiamo, andiamo in Italia!» avevano proiettato la propria occasione di avventura, il gioco, la goliardata. Questa - variegata, colorata, inquietante - era l’umanità che abitava la Vlora. Sulla banchina 14 del porto di Bari, la mattina dell’8 agosto 1991, c’era anche Luca Turi, il nostro fotoreporter. Anche lui, in qualche modo, è un pezzo della «leggenda albanese»: le sue fotografie della vecchia carretta del mare stipata di uomini all’inverosimile hanno fatto il giro del mondo. «C’era gente che si sentiva male, chi simulava di sentirsi male, c’era il viavai di mezzi della finanza, dei carabinieri, della polizia, le ambulanze. Era tutto sporco, perché sulla banchina avevano scaricato il carbone qualche giorno prima. Era l’inferno», racconta Luca.
Il ricordo più intenso?
«Enrico Dalfino, il sindaco. Un uomo mite, come tutti ricorderanno, bene: in quei giorni mostrò tutt’altra faccia, la sofferenza e la rabbia».
E invece qual è la prima emozione legata all’incontro degli albanesi?
«La fame. E la disperazione. Si lanciavano sui panini e sulle bottiglie d’acqua come animali selvaggi. Perché all’epoca non c’era la macchina dell’accoglienza di oggi».
Oggi c’è molta più organizzazione.
«Certo. Negli ultimi anni a Bari come in tutta Italia, la Protezione civile, le forze dell’ordine e i volontari hanno saputo accogliere i profughi. Il cibo, le cure mediche, i primi soccorsi, gli indumenti: tutto è già pronto. A queste persone viene garantita subito la salvaguardia della dignità. Io ricordo uomini sbarcati in mutande che in mutande sono rimasti per giorni».
Una curiosità: nell’epoca digitale sembra impossibile pensare che le fotografie un tempo andavano sviluppate e stampate. Come si riusciva 25 anni fa a rispettare i tempi di un giornale?
«Facevamo la spola dal porto o dallo stadio al mio vecchio studio di via Cairoli. Ci davamo il cambio, toglievamo i rullini dalle macchine e li andavamo a sviluppare, scappando di qua e di là. Sì, i tempi erano più lunghi e lo stress a mille, ma certe fotografie di allora, credo, sono più autentiche di quanto non si possa fare oggi».
Lo Stadio della Vittoria: gli albanesi furono sistemati lì. E furono giorni durissimi.
«Gli elicotteri delle forze dell’ordine sorvolavano lo stadio in continuazione, anche per ragioni di sicurezza. Portavano acqua e viveri che venivano gettati sull’erba dall’alto. Sono scene indimenticabili. Anche perché la stanchezza e l’esasperazione degli albanesi a un certo punto divennero incontenibili. L’alloggio del custode dello Stadio fu letteralmente fatto a pezzi, ma non dimentichiamo che tra quelle migliaia di persone c’erano anche dei criminali serissimi».
L’allora capo della polizia Parisi venne a contrattare il loro possibile rientro in Albania.
«Lo ricordo fuori dallo Stadio. Propose di dare 50mila lire a testa per rimandarli indietro, per loro era una cifra strepitosa. Qualcuno alla fine se ne andò di sua spontanea volontà, altri fuggirono. Qualche altro è rimasto e in Italia davvero ha trovato fortuna».
Si può dire che la storia professionale di Luca Turi sia anche in qualche modo legata alle sorti dell’Albania da quel 1991 in poi?
«Sono stato uno dei primi ad andare in Albania subito dopo la Vlora: la prima volta rimasi due ore in tutto. Ripresi la nave per rientrare in Puglia la sera stessa».
Perché?
«Perché capii perché tutta questa gente era venuta a consumare il suo sogno italiano: in poche ore compresi le loro condizioni di vita, la miseria la disperazione. Mi portarono in una villa per farmi passare la notte: appena vidi gli scarafaggi uscire dal lavandino me ne scappai. Ma ci sono tornato molte altre volte: è un Paese che ha completamente cambiato volto».
Nel senso che le condizioni di vita sono migliorate?
«Assolutamente. Oggi si assiste piuttosto a un fenomeno inverso: sono gli italiani che vanno in Albania».
Un paradosso.
«Beh, a fronte della modernità, della pulizia e dei servizi, i prezzi sono bassissimi. Un bell’appartamento nel centro di Durazzo, dove molti nostri pensionati si trasferiscono, costa 120 euro al mese e con 20 euro puoi stare bene una settimana».
Dopo 25 anni rimane in ogni caso la memoria collettiva di una città che seppe aiutare i profughi.
«È vero. I baresi mostrarono tutto il loro cuore. Nella disorganizzazione generale, è stata l’umanità delle persone, sindaco in testa, a governare l’emergenza».
Caporalato, nel ghetto salentino di Nardò l'arruolamento degli sfruttati è via Whatsapp. Tutto è organizzato. Anche le sale tv sotto le tende, dove risuona il telegiornale di Al Jazeera, il barbiere, il meccanico, la sera tre o quattro disco-pub e le case delle prostitute, una quindicina di nigeriane, scrive Chiara Spagnolo il 27 luglio 2016 su "La Repubblica". Il caporalato ai tempi di Internet vive grazie a Telegram e Whatsapp: messaggi in arabo, inglese e francese per convocare i braccianti al lavoro e concordare le paghe, perfino le foto dei capisquadra per dimostrare chi ha lavorato e quanto. Evolve la complessa organizzazione para-criminale che gestisce il lavoro nelle campagne del Salento. E nel ghetto di Nardò i migranti non staccano gli occhi dai telefonini. Entrare in quella terra di mezzo in contrada Arene-Serrazze è impresa ardua. Difficile portare in mano videocamere e macchine fotografiche, pure il telefono cellulare è meglio metterlo via. Perché i ragazzi del ghetto - almeno duecento, di una decina di nazionalità - dopo essere stati esibiti per anni sui media, guardano tutti con sospetto. La rivolta della masseria Boncuri del 2011 ormai è un ricordo e l'obiettivo primario di ognuno è solo lavorare qualche ora al giorno e tornare al campo con pochi euro in tasca. I più fortunati racimolano 30 euro a giornata, qualcuno molto meno, considerato che la raccolta del pomodoro viene pagata circa 3,5 euro a cassone (ciascuno da 350 chilogrammi) e le angurie 5 euro all'ora. Contratti non ne ha firmati nessuno. O almeno così raccontano i lavoratori, mostrando fogli che indicano una fantomatica disponibilità al lavoro acquisita dalle aziende. Con la mediazione rigorosa dei caporali, che sono stati i primi ad arrivare in Salento e ora gestiscono il lavoro con il telefonino, affidando ai capisquadra le verifiche nei campi e anche il trasporto delle persone. Dal ghetto si parte alle 5,30-6, intorno alle 12,30 molti furgoni sono di ritorno perché alcune aziende rispettano l'ordinanza del sindaco, Pippi Mellone, che ha inibito il lavoro dalle 12 alle 16. I 15 proprietari delle ditte più grosse hanno fatto ricorso al prefetto e al Tar, ma per il primo cittadino indietro non si torna. Lui la patata bollente dei braccianti l'ha ereditata a stagione iniziata: in un'area comunale accanto alle casupole sono state sistemate 22 tende (20 del ministero dell'Interno e due del Comune), container con bagni e docce inviati dalla Regione e da Coldiretti, aperto un presidio sanitario e avviati corsi sulla sicurezza sul lavoro. Nel campo, però, trovano posto 132 persone a fronte di almeno 400 che orbitano nell'hinterland neretino e da quest'anno si spingono a lavorare fino al Brindisino, a Ginosa, al Metapontino. Per gli altri resta il ghetto, proprietà comunale in cui neppure gli addetti alla raccolta della spazzatura vogliono mettere piede, limitandosi a svuotare i tre bidoni vicino al cancello. Dentro, per forza di cose, i rifiuti sono ovunque, i servizi igienici non esistono e un odore nauseabondo ammorba l'aria. Nelle casupole costruite con materiale di risulta si cerca di mantenere una parvenza di dignità, ma non è facile quando il pavimento è la terra rossa e abiti e suppellettili vedono l'acqua di radi. I gruppi sono divisi per etnie e poi anche per tribù - spiega Angelo Cleopazzo di Diritti a Sud - ognuno con un capo che mantiene l'ordine e stempera i conflitti. A pochi metri dall'ingresso il primo bar, con tre uomini intenti a preparare il pranzo per chi torna dal lavoro: "Oggi fave, pomodoro, uova e cipolla", spiega un ragazzone che poi insiste per offrire il caffè. Più avanti si cambia Paese d'origine e quindi menù: "Oggi uova e carne, assaggia questo frullato, lo faccio io tutti i giorni". Il sapore è buono, il bicchiere grande costa un euro, 2 il panino, 50 centesimi il caffè. Tutto è organizzato. Anche le sale tv sotto le tende, dove risuona il telegiornale di Al Jazeera, il barbiere, il meccanico, la sera tre o quattro disco-pub e le case delle prostitute, una quindicina di nigeriane portate dalle matrone e gestite da protettori. Perché se pure nel ghetto di Nardò lo Stato non vuole entrare, dentro ci sono comunque persone. Che hanno rinunciato ai diritti di lavoratori, ma non alla loro umanità.
Bracciante schiavo che si ribella, scrive Giovanni Masini il 28 luglio 2016 su "Gli occhi della Guerra". Da Boreano (Potenza). Non è facile, per uno schiavo, ribellarsi ai propri padroni. Così come non è semplice trovare il coraggio di denunciare tutto davanti a una telecamera. Eppure, anche fra i dannati del caporalato di casa nostra, c’è chi osa alzare la testa e rifiutare il sistema criminale di sfruttamento e di ricatto che ogni anno costringe in catene decine di migliaia di braccianti irregolari. Per incontrare uno dei rari Spartaco contemporanei dobbiamo spingerci fino in Lucania, nella terra che diede i natali al poeta latino Orazio. Un volontario di sosRosarno, l’associazione anti-caporalato nata dopo le rivolte di migranti in Calabria, ci ha fornito il contatto di un bracciante disposto a “parlare” dei meccanismi di questa industria della morte. Di lui abbiamo solo un numero di telefono e un soprannome, “l’americano”. Vive in una baracca di plastica e lamiere sperduta in mezzo ai campi di grano, dove il sole estivo picchia come un martello e il frinire delle cicale assorda ogni pensiero. L’americano, che poi scopriamo chiamarsi Youssif, è un lavoratore relativamente emancipato: parla un discreto italiano ed è riuscito a mettere da parte abbastanza denaro per potersi permettere una bicicletta e qualche gallina per le uova. Ci riceve nella sua baracca, dove ha sistemato un generatore di corrente recuperato chissà dove e qualche sedia. La sera ospita i compagni di lavoro per bere qualche birra insieme. Lui lo chiama “il suo bar”. Per l’affitto della terra su cui ha costruito la baracca paga al proprietario del fondo cinquanta euro al mese. Periodicamente, spiega, il padrone distrugge le capanne dei braccianti per liberare il terreno. Gli incendi non sono infrequenti. I lavoratori si spostano di qualche metro e tutto ricomincia da capo. Anche qui vigono le medesime leggi che regolano la vita dei braccianti di Rignano: dei trentacinque euro di paga giornaliera, al lavoratore ne finiscono circa venti. Tutte le masserie abbandonate, parla piano Youssif indicando i casolari diroccati all’orizzonte, sono piene di braccianti. A volte la brutalità dei caporali si spinge fino a ritirare loro i passaporti; non è raro che le donne, specialmente quelle dell’est, vengano ricattate e avviate alla tratta della prostituzione. In queste terre selvagge sembra non esistere legge né pietà. La dimensione del fenomeno è tale che oltre due terzi dei braccianti stranieri non figurano nemmeno nelle liste ufficiali. “Solo in Puglia – spiega il segretario regionale della Flai Cgil Puglia Giuseppe Deleonardis – ci sono cinquemila africani iscritti negli elenchi anagrafici, che in gran parte risultano lavorare per meno di 51 giornate, come se per il resto del tempo se ne venissero in ferie… Ma il dato stupefacente è un altro: solo nei ghetti del foggiano se ne contano almeno quindicimila. I due terzi almeno, quindi, sono irregolari.” Peraltro moltissimi di questi schiavi godono dello status di rifugiato o sono addirittura richiedenti asilo: per lo Stato italiano non possono essere dei fantasmi e per la legge in molti casi non potrebbero nemmeno lavorare. In un’azienda produttrice di pomodorini, racconta Deleonardis, l’anno scorso sono stati trovati richiedenti asilo che lavoravano quattordici ore al giorno per poco più di trenta euro lordi.” E questo meccanismo perverso di gioco al ribasso, che contribuisce a scaricare i costi di produzione sull’anello più debole della catena, inizia a colpire anche i lavoratori italiani. Appoggiato al suo trattore, il signor Rocco Strada, coltivatore diretto, ci espone la sua visione dei fatti togliendosi il cappello davanti alla telecamera: “Questi immigrati sono esseri umani come noi – farfuglia in un misto di italiano e dialetto – Hanno due occhi, due orecchie, un naso… Ma perché non se ne stessero a casa loro? Vivono con venti euro al giorno, perché i proprietari dovrebbero spenderne cinquanta per un operaio italiano?” Chissà come risponderebbe l’americano. Come noi, una risposta non ce l’ha. Lontano da ogni forma di civiltà, isolato in una baraccopoli che brucia nel sole, sa solamente che domattina alle tre e mezzo suonerà di nuovo il clacson della macchina che lo porterà al lavoro nei campi. Da queste parti, già accettare di dire le cose come stanno è una vittoria del coraggio.
Cgil: in Capitanata almeno 20.000 lavoratori invisibili, scrive il 30 luglio 2016 “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Il cosiddetto ghetto di Rignano Garganico è solo un pezzo del problema dell’agricoltura in Capitanata, dove la vera questione è l’illegalità diffusa: è quanto sostiene in una nota la Flai Cgil di Foggia prendendo spunto dalla lite di tre giorni fa nella baraccopoli culminata nell’uccisione di un malese ad opera di un ivoriano, che è stato fermato nelle ore successive. «Almeno 20.000 lavoratori in agricoltura, pari al 50% degli iscritti negli elenchi anagrafici - scrive il sindacato - sono privi di diritti e invisibili ai mass media. A questi devono essere sommati almeno altri 10-15 mila lavoratori completamente in nero che non vengono iscritti negli elenchi anagrafici e che sono fuori da ogni circuito di legalità». La Cgil sottolinea che il fenomeno del ghetto di Rignano "interessa l’opinione pubblica e le istituzioni soprattutto nei tre mesi estivi, mentre sembra quasi cadere nel dimenticatoio per i restanti mesi, un luogo come altri della Capitanata. Rignano non è l’unico, probabilmente è il più vasto e forse il più famoso, sotto i riflettori dei media internazionali e nazionali». La Cgil fornisce una serie di cifre sul lavoro nero in agricoltura in Capitanata: i lavoratori africani censiti negli elenchi anagrafici al 2014 sono 2.646, e di questi solo 588 hanno più di 51 giornate lavorative, mentre 1.151 hanno lavorato nell’anno nella provincia di Foggia per meno di 10 giornate. Stesso destino spetta ai lavoratori bulgari, che sono 4.289 di cui 3.600 con meno di 51 giornate mentre 2.300 non raggiungono le 10 giornate. Infine ci sono 11.451 romeni, dei quali 8.400 non raggiungono le 51 giornate annue. Un contesto complessivo, scrive la Cgil, che frutta all’economia illegale milioni di euro e che andrebbe analizzato nel suo insieme come un sistema strutturato e complesso gestito in modo organizzato, «sottaciuto da sacche di assuefazione, anche da parte delle istituzioni». Per il sindacato serve «un’azione sinergica tra le parti sociali con le parti datoriali», le aziende di trasformazione in loco «devono pretendere che i propri conferitori, le aziende agricole di produzione, debbano essere iscritte nella rete di qualità per il lavoro agricolo», ovvero «debbano essere eticamente sostenibili».
Non solo extracomunitari. Italiani schiavi nei campi per tre euro l’ora, inchiesta di Giovanni Masini con video di Roberto Di Matteo del 29 luglio 2016 su "Gli occhi della Guerra". I sindacati di sinistra disprezzano le riforme sul lavoro che danno un filo di speranza ai disoccupati non politicizzati. I sindacati di sinistra vogliono assunti sindacalizzati, e per i loro protetti ci riescono, per poter mantenere i sindacati con i prelievi forzosi in busta paga. Assunzione che per i più mai arriverà per l’esoso costo del lavoro. Con il buono lavoro, invece, si ha la speranza di svolgere almeno dei lavori saltuari. L’alternativa è lo sfruttamento del caporalato, che a quanto sembra i sindacati con le loro posizioni non vogliono debellare. “Il caporalato è andare dalle persone che stanno morendo e farle finire di morire”. La frase, lapidaria, è di un proprietario terriero della provincia barese, che intercettiamo alle cinque del mattino mentre assiste all’inizio dell’acinellatura: la difficile operazione di pulitura dei grappoli di uva da tavola, da preparare verso fine luglio in vista della raccolta di settembre. Gli acini più piccoli impediscono agli acini più grandi di crescere al meglio e vanno rimossi uno per uno. Questo lavoro viene tradizionalmente svolto da braccianti chiamati a giornata, non di rado giovani sui vent’anni che cercano di guadagnare qualche soldo “facendo l’acinino”. Pulire i grappoli sembra un compito semplice, ma può rivelarsi massacrante. Trascorrere fino a dieci ore sotto il tendone di plastica che serve a proteggere l’uva contro la pioggia con temperature che superano i quaranta gradi, le braccia sempre sollevate e il caporale che incalza chi lavora meno velocemente, non è un lavoro da signorine. Eppure, negli ultimi anni, sono sempre di più le donne che vanno a giornata a lavorare in campagna. Non più giovani che vogliono pagarsi gli studi o magari la vacanza, ma madri di famiglia che accettano di lavorare anche per venti euro al giorno pur di sfamare la propria prole. Alle quattro del mattino si mettono in viaggio dalle province meno ricche della Puglia, Brindisi e Taranto. Sui pullman viaggiano per ore fino alla zona compresa fra Bari, Andria e Foggia, dove c’è più richiesta di manodopera. Il sindacato stima che ogni notte si mettano in movimento fra trentamila e quarantamila donne, per la stragrande maggioranza italiane. A volte si portano dietro anche il marito, il fratello, i figli. La miseria costringe ad accettare ogni tipo di ricatto. Anche la truffa dei fogli di ingaggio, che consente a molti datori di lavoro di conferire una patina di legalità – anche se solamente formale – al lavoro dei braccianti alle loro dipendenze. Il meccanismo è semplice: i braccianti vengono assunti per quindici giorni con il sistema del part-time orizzontale e (sotto)pagati per un mese. Così facendo l’azienda risulta sempre in regola con le uscite, i contributi previdenziali e tutte le norme sul lavoro: se mai dovesse arrivare un’ispezione, si fa sempre in tempo a dire che il bracciante ha iniziato a lavorare da due ore, quando invece sta raccogliendo uva dalle cinque del mattino. Come se questo non bastasse, molto spesso i fogli di ingaggio vengono intestati ad amici o parenti dei proprietari terrieri, che così, se non si superano le 51 giornate di lavoro in un anno, possono godere dell’assegno di disoccupazione. Ma le truffe a danni dello Stato si sommano a quelle, se possibili ancora più gravi, commesse alle spalle dei braccianti diseredati. Dalle tabelle salariali emerge che la paga giornaliera di un operaio di “secondo livello” (fra cui quelli, ad esempio, addetti all’acinellatura) non dovrebbe essere inferiore, al lordo, a 47 euro. Una paga quasi doppia al salario medio di un operaio irregolare. Nemmeno gli orari vengono rispettati: da contratto la giornata dovrebbe durare sei ore e mezza più due di straordinario, ma nella realtà questo tempo può quasi raddoppiare. Non è raro che le donne lavorino dalle sei del mattino alle sei di sera. Alla paga lorda, come succede per gli africani, dev’essere sottratto il costo del trasporto sul posto di lavoro (che, se superiore a un’ora e mezza, competerebbe contrattualmente all’azienda). Per quanto questo fenomeno sia sulla bocca di tutti, trovare qualcuno disposto a parlarne è ancora più difficile che nel ghetto di Rignano Garganico. La manodopera non manca e chi “parla” rischia di trovarsi senza lavoro da un giorno all’altro. Ogni tanto la questione torna alla ribalta delle cronache, soprattutto quando, tre o quattro volte all’anno, qualche bracciante muore sul posto di lavoro. È il caso della bracciante quarantanovenne Paola Clemente, morta nel luglio 2015 mentre lavorava nelle vigne della campagna di Andria. Un malore provocato dai quarantadue gradi all’ombra e, quasi certamente, dal lavoro estenuante. Il suo stipendio era di appena 27 euro al giorno. Nel processo ancora in corso, per cui, nonostante i tanti mesi trascorsi, non ci sono ancora stati rinvii a giudizio, è indagato fra gli altri Ciro Grassi, l’autista del bus che aveva condotto la Clemente fino nei campi, dal paese del Tarantino di cui era originaria. Ciro Grassi è anche il nome che leggiamo sulla fiancata di un bus parcheggiato, fin dalle cinque del mattino, sul bordo di una vigna delle campagne baresi. Una coincidenza? Certo Grassi è solamente indagato e quindi innocente fino a prova contraria, ma resta comunque paradossale che la normativa non ne abbia sospeso l’attività per cui pure si è dichiarato innocente.
Caporalato nel Chianti: braccianti sfruttati anche nei terreni di Sting (senza che lui ne sapesse nulla). Undici misure di custodia cautelare a imprenditori e reclutatori di manodopera. L'inchiesta della procura di Prato. Operai in ciabatte anche in inverno pagati 4 o 5 euro l'ora, scrive Franca Selvatici il 13 ottobre 2016 su "La Repubblica". Hanno lavorato anche sui terreni di Sting a Figline. Senza che il cantante sapesse niente sulla regolarità o meno di quei braccianti agricoli. Anzi, è stato accertato che lui non era neppure presente. Mentre – secondo le accuse – altri importanti imprenditori agricoli toscani erano ben consapevoli di sfruttare immigrati clandestini o richiedenti asilo, mandati a lavorare nei campi con le ciabatte in inverno e pagati 4 o 5 euro l’ora. Si tratta degli imprenditori Coli, titolari dell’azienda vitivinicola Coli Spa di Tavarnelle Val di Pesa. Secondo le accuse, da anni utilizzavano profughi, soprattutto provenienti dal Pakistan e dall'Africa e li sfruttavano avviandoli al lavoro nero nelle vigne e nelle olivete del Chianti e di altre aree. E in un caso – sempre secondo quanto risulta dalle indagini – sarebbe stato occultato anche un gravissimo incidente sul lavoro avvenuto nei vigneti: un lavoratore si bucò la gola con un gancio e all’ospedale l’infortunio fu spacciato come un incidente domestico. È quanto scoperto dalla procura, dalla Digos e dalla polizia stradale di Prato, che hanno avviato una vasta operazione anticaporalato tra le province di Prato, Firenze, Modena e Perugia. E’ la prima volta che si scopre un fenomeno tanto devastante come quello del caporalato nei vigneti del Chianti, «culla – ha detto il pm Antonio Sangermano che ha coordinato l’inchiesta con la collega Laura Canovai – della civiltà rinascimentale». Undici le misure cautelari emesse nei confronti di cittadini italiani e pakistani: in cinque sono finiti agli arresti domiciliari. Disposti anche vari sequestri preventivi di quote societarie e 13 perquisizioni. L'inchiesta nasce nel 2015 quando due giovani africani hanno segnalato alla polizia l'illecito sfruttamento di una cinquantina di braccianti agricoli che a vario titolo operavano per l'azienda agricola "Coli" che ha sede a Tavarnelle Val di Pesa. L'ipotesi della procura è che un gruppo di pachistani, capeggiati da Tariq Sikander, avesse reclutato decine di richiedenti asilo per farli lavorare nei campi a basso prezzo. Sikander era stato arrestato in maggio e aveva deciso di collaborare. Secondo gli inquirenti attraverso alcuni intermediari i Coli gli hanno offerto denaro perché mentisse o ritrattasse, ma Sikander si è rifiutato. Le accuse sono di associazione per delinquere finalizzata a commettere una serie indeterminata di delitti tra cui intermediazione illecita nel reclutamento di cittadini extracomunitari, per lo più giunti in Italia come profughi e sfruttamento del lavoro nero, truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, interramento di rifiuti speciali, emissione di fatture false, ostacolo alle indagini e frode in esercizio del commercio: avrebbero infatti messo in commercio del vino Chianti "adulterato con uve della Sicilia e della Puglia in percentuali non consentite dalla normativa e ponendo in commercio un prodotto diverso, per qualità di composizione e attestazione da quello dichiarato". I Coli sono accusati anche di aver percepito indebitamente fondi comunitari per lo sradicamento e il reimpianto di vigneti. L'operazione, denominata "Numbar dar", che in pakistano significa “caporale”, è stata illustrata dal procuratore di Prato Giuseppe Nicolosi. Le indagini sono state coordinate dai pm Antonio Sangermano e Laura Canovai e condotte dalla Digos della questura di Prato con la collaborazione della sezione polizia stradale, della guardia di finanza di Prato e del Corpo forestale dello Stato di Firenze.
"Disossatore a 5 euro l'ora": il lato nero della Food Valley di Parma. Dopo la denuncia di Flai Cgil sulle condizioni degli operai alimentaristi emerge che anche i salumifici del parmense non sono esenti da irregolarità, scrive Maria chiara Perri) il 19 gennaio 2016 su “la Repubblica”. "Offriamo lavoratore a 5 euro all'ora, giorno e notte". Questo è il tenore dei fax che alcuni titolari di salumifici del parmense hanno ricevuto da sedicenti cooperative pronte a fornire manodopera come al mercato. Un segno concreto, nero su bianco, che anche le produzioni di alta qualità della Food Valley non sono immuni dalle piaghe del lavoro irregolare e dello sfruttamento. Il caso è stato denunciato con forza da un rapporto di Flai Cgil a Modena, dove la situazione nei macelli rasenta lo schiavismo. Nel parmense il sindacato degli alimentaristi conduce da anni battaglie per la corretta applicazione del contratto. "Ci sono infinite sfumature di problemi - spiega Luca Ferrari di Flai Cgil Parma - probabilmente nel parmense questi fenomeni sono più isolati, di solito riusciamo a intercettarli nelle singole aziende e a intervenire. Abbiamo un contratto provinciale, concordato con l'Upi, che funziona un po' da regolatore e ci permette un migliore controllo". E' soprattutto nella filiera della carne che si verificano irregolarità. Dal momento che la lavorazione dei salumi prevede diverse fasi, alcune mansioni non vengono svolte da personale dipendente del salumificio ma affidate a lavoratori esterni. E qui si insinuano le cosiddette "false cooperative" e i fenomeni di caporalato. Ci sono "coop" gestite da veri e propri padroni che raggruppano operai di singole nazionalità, dalla Nigeria allo Sri Lanka, offrendoli prezzi stracciati per il lavoro di sugnatura e disossatura dei prosciutti. Gli operai vengono intercettati con il passaparola, ma non mancano casi di disperati che aspettano alle 7 di mattina in piazza Corridoni a Langhirano che venga un artigiano a sceglierli per il lavoro. "A volte i titolari degli stabilimenti ricevono anche offerte via fax, ci cascano e si servono di questi lavoratori perché costano poco. Ma ovviamente quelle realtà non pagano contributi, non forniscono l'attrezzatura e l'abbigliamento adatto, non rispettano alcuna norma di sicurezza - spiega Ferrari - questo va a discapito dei lavoratori e della qualità del prodotto. C'è anche il fenomeno dei falsi facchini, che abbiamo denunciato: con il contratto di facchinaggio dovrebbero fare solo movimentazione, invece sono impiegati nella produzione". Gli stabilimenti in attività nella Food Valley sono 200, con circa 4mila addetti tra personale dipendente e indotto. Flai Cgil si batte perché a tutti venga applicato il contratto degli alimentaristi. Contratto già scaduto, con un'agitazione a livello nazionale per il rinnovo. Il 29 gennaio è previsto lo sciopero di settore per l'intera giornata. Questa settimana, invece, le singole rappresentanze sindacali potranno gestire un pacchetto di quattro ore di sciopero nei vari stabilimenti.
I FORZATI DEL MATTATOIO. Oltre 5mila operai addetti alla preparazione dei prosciutti sono costretti a durissime condizioni di lavoro in cambio di paghe da fame. I turni possono durare anche 15 ore durante le quali viene ripetuto un unico movimento, lo stesso taglio ogni 3 o 4 secondi, con gravi danni a schiena, braccia e spalle. "Io faccio lo schiavo", ci ha raccontato uno di loro. La denuncia arriva dalla Flai Cgil che segnala anche il proliferare di società che cambiano nome e truccano i conti, i bilanci e le buste paga. False cooperative, confermano le inchieste della Finanza, che non applicano il contratto nazionale, non versano i contributi previdenziali ed evadono il fisco, scrive Valerio Teodonio il 18 gennaio 2016 su “La Repubblica”.
Pochi spiccioli per turni massacranti. Cesare ha 55 anni e le mani grandi. Gli occhi chiari e la voce profonda come le sue rughe. Lavora nei mattatoi da quando era ragazzino, macella i maiali che diventeranno prosciutti, che verranno firmati da aziende dai nomi importanti e con fatturati da milioni di euro. Cesare, dopo 38 anni di lavoro, fa turni massacranti. E viene pagato 4,50 euro l'ora. Prima della crisi era un operaio specializzato, oggi si deve accontentare per disperazione. Francesco, invece, ha 42 anni e ormai non riesce neanche più a tenere in mano un coltello. Ha i muscoli e i tendini usurati. Fa sempre lo stesso movimento, a ripetizione, senza sosta: lo stesso taglio ogni 3 o 4 secondi. Disossa polli per 12, spesso 15 ore al giorno. E gliene pagano meno della metà. Ma ha una moglie e un figlio. E nessuna alternativa. Succede nella provincia di Modena dove - dicono i dati che verranno pubblicati nel prossimo rapporto della Flai Cgil e che Repubblica è in grado di anticipare - 5mila operai sono gravemente sfruttati. Schiavi. Esistono irregolarità di ogni tipo, in Emilia Romagna. Abusi che, secondo l'Inea, l'Istituto Nazionale di Economia Agraria, si inquadrano soprattutto nella "sottodichiarazione delle ore e o dei giorni di lavoro o nella dichiarazione di mansioni inferiori a quelle svolte". Secondo i dati elaborati dal gruppo di studio della facoltà di Sociologia della Sapienza di Roma guidato dal professor Francesco Carchedi sulla base delle informazioni raccolte tra i lavoratori, in questa zona sono almeno 3.700 gli operai gravemente sfruttati nella zootecnia. Ma secondo le stime ci sono almeno altre mille persone che lavorano in condizioni anche peggiori, perché non hanno alcun contratto né tutela. Vengono pagate anche in nero per turni dagli orari estenuanti. Francesco e Cesare (i nomi sono di fantasia) si sono rovinati i polsi, i gomiti, le spalle. Prima del 2000 si occupavano dell'intero processo di lavorazione della carne: squartare, eviscerare, macellare, rifilare. Le loro mani e le loro braccia erano sottoposte a diversi tipi di sollecitazioni. Adesso il lavoro si è ridotto ad una sola mansione. Perché alle aziende conviene pagare poco un operaio non specializzato e fargli fare un'unica operazione, piuttosto che pagarne uno specializzato con compiti diversi. La meccanizzazione, poi, ha fatto il resto. E dunque Cesare rifila il maiale, Francesco disossa il pollo. "Ma un conto è stressare i muscoli e i tendini per otto ore al giorno - spiega Giacomo (ancora un nome inventato), operaio anziano e molto esperto - un altro è farlo per 15. Spesso capita che lavori dalle 4 di mattina alle 7 di sera. E poi, con un sms, vieni convocato dal capo della cooperativa per le 23 del giorno stesso. Come si chiama tutto questo? Io lo chiamo schiavismo. Non solo. Se la carne da lavorare tarda ad arrivare, gli operai vengono costretti a rimanere in azienda ad aspettare per ore e ore. Senza essere pagati. E senza sapere quando torneranno a casa. A completa disposizione della ditta. Ormai non c'è differenza con il fenomeno dei braccianti agricoli assoggettati dai caporali nel sud Italia". La dimensione esatta dello sfruttamento è impossibile da determinare perché a ingaggiare questi lavoratori non sono direttamente le grandi aziende, ma società appaltatrici, quasi sempre false cooperative, che cambiano spesso nome, che truccano i conti, i bilanci e le buste paga. Che non applicano il contratto nazionale, che non versano i contributi previdenziali, che evadono il fisco. E che occupano soprattutto stranieri, quasi sempre romeni, marocchini, cinesi. Persone che spesso non conoscono la lingua e che non hanno mai votato un bilancio sociale, come invece spetterebbe ai soci lavoratori. Ma su 100 operai sfruttati, 10 sono italiani. "Sono sempre di più - denuncia il segretario regionale della Flai Cgil, Umberto Franciosi - si tratta di uomini strozzati dalla crisi che per disperazione accettano di sottostare a queste condizioni". Poi ci sono i giovani, ragazzi senza alcuna esperienza, che vengono sfruttati più degli altri e che rischiano non solo malattie professionali, ma anche gravi infortuni sul lavoro. "Non sanno usare il coltello - ragiona Giacomo - un tempo era previsto un periodo di apprendistato, oggi non si fa più. Costa troppo. Così questi ragazzi usano troppa forza, perché non hanno tecnica. E succede che scappi la lama. Non è raro che se si diano una coltellata in pancia. Ma in ospedale raccontano che si è trattato di un incidente domestico. Perché chi parla rischia il lavoro. Quando va bene ti tengono a casa per qualche settimana, ma capita che non vieni più chiamato. Così nessuno denuncia". Accuse pesanti confermate nella sostanza dall'intervista al direttore del Servizio prevenzione e sicurezza negli ambienti di lavoro della Ausl di Modena Renato Di Rico che potete leggere più sotto. Una serie di interventi della Guardia di Finanza, tra il 2012 e il 2014, ha scoperto che nella zona, su mille operai controllati, 900 non erano in regola. "In generale - argomenta il comandante provinciale Pasquale Russo - possiamo dire che nelle cooperative risultate spurie, 7 soci lavoratori su 10 sono falsi soci lavoratori. Tra il 2014 e il 2015 abbiamo riscontrato evasioni pari a 20,5 milioni in materia di Irap, 10,5 milioni per le imposte indirette, 10 milioni in termini di Iva, ritenute fiscali non versate per 1,5 milioni". Uno degli escamotage più usati per risparmiare sulle buste paga è il sistema della "Trasferta Italia". In pratica una percentuale dello stipendio viene pagato sotto la dicitura, appunto, di trasferta (mai avvenuta), che non prevede il versamento dei contributi previdenziali. "Tra le aziende che nella zona di Modena appaltano parte della produzione a società esterne - racconta Franciosi - possiamo citare Suincom, Alcar Uno, Fimar, San Francesco. Siamo nella zona di Castelnuovo Rangone. E da loro comprano tutti i grandi marchi italiani che troviamo negli scaffali dei supermercati, e che producono carni, salumi, mortadelle, pancetta. Le grandi aziende magari sono virtuose al loro interno, rispettano i contratti e pagano il giusto i loro dipendenti, ma quando si vanno ad approvvigionare dai loro fornitori, guardano il prezzo. E acquistano dove conviene di più. Non si domandano come mai la carne costa ogni giorno un centesimo in meno. Le aziende a cui si rivolgono, hanno, al loro interno, lavoratori pagati da false cooperative. Che, appunto, sfruttano il personale. In pratica, per mantenere invariata la qualità dei prodotti d'eccellenza, si risparmia sulla manodopera. E a volte sono le stesse aziende che creano le false cooperative, e ci mettono come capo una testa di legno". Repubblica ha provato a intervistare i responsabili delle società che possono appaltare parte del lavoro a ditte esterne (raggiungere direttamente le false cooperative non è stato possibile). Ci ha ricevuto solo la Suincom, uno dei più grandi stabilimenti della zona. "Qui è tutto in regola - è la replica del presidente Roberto Agnani - chi non ci crede può venire a controllare. Turni massacranti? Macché. Qui rispettiamo il contratto nazionale. Anzi, spesso sono i lavoratori extracomunitari che vogliono lavorare più ore e siamo noi che glielo impediamo". Mentre i grandi marchi che nella zona di Modena possono acquistare carni, come Grandi Salumifici, Consorzio del Prosciutto di Parma e Rovagnati rispondono all'unisono: "Non siamo a conoscenza di casi di sfruttamento". Secco no comment invece da Citterio. L'Emilia Romagna - secondo gli ultimi dati Istat - è tra le regioni che hanno il maggior numero di aziende zootecniche. In questo comparto impiega oltre 85mila lavoratori e ha una produzione dedicata alla macellazione tra le più importanti a livello nazionale, seconda soltanto alla provincia di Mantova. Lo stipendio medio degli operai zootecnici è difficile da quantificare. La Cgil calcola che la metà dei lavoratori stranieri riescono a raggiungere gli 800 euro mensili, ma, come si è detto, le ore lavorate sono spesso molte di più rispetto a quelle pagate. Il risparmio finale su ogni addetto arriva anche al 40 per cento, perché succede che un operaio specializzato venga pagato come un semplice apprendista, cioè la metà di quello che gli spetterebbe. Come Cesare, che da ragazzino sognava solo di fare bene il suo lavoro. "Invece faccio lo schiavo", racconta abbassando gli occhi stanchi. O come Francesco, che ha le braccia distrutte. E la sera, quando torna a casa, ha voglia solo di piangere.
La Asl conferma: "Infortuni oltre la media". Patologie invalidanti, ripetuti traumi e incidenti di vario tipo, omertà nel denunciare quanto accade. Renato Di Rico, direttore del Servizio prevenzione e sicurezza negli ambienti di lavoro della Ausl di Modena, conferma le conseguenze della gravissima situazione di sfruttamento diffusa tra i lavoratori dei macelli fotografata dalla Flai Cgil.
Quali sono le malattie professionali più diffuse?
"Le più frequenti in assoluto sono quelle muscolo-scheletriche. In particolare della schiena e degli arti superiori. Spesso si scaricano dei prosciutti dai camion in posizioni molto scomode. Si fanno migliaia di operazioni al giorno. Perché spesso le giornate durano molte più delle otto ore previste. E poi c’è il sovraccarico biomeccanico: movimenti fini, ripetitivi, molto frequenti, con durante importanti. Come l’uso del coltello per rifilare i prosciutti".
Si parla di tagli ogni 3/4 secondi. Per molte al giorno.
"Sì, sono molto veloci e molto frequenti. Il problema è proprio questo: ritmo e frequenza eccessivi. Bisognerebbe introdurre delle pause, basterebbe anche fare un altro tipo di lavoro, e riposare quel segmento dell’arto. C’è un sovraccarico di lavoro. Ma ridurre il ritmo significherebbe ridurre la produzione".
Succede che i lavoratori non si facciano curare?
"E' chiaro che non tutte la malattie vengono a galla. Molte patologie non si vedono, quello che si vede è solo una parte di un iceberg semisommerso. Perché parecchie di queste sfuggono al controllo del medico competente".
Perché sfuggono?
"Perché non vengono denunciate. E poi perché c’è una sorta di selezione naturale. Chi ce la fa rimane, chi non ce la fa, se ne va. E poi molti dei lavoratori delle cooperative sono stranieri, e questo comporta tutta una serie di difficoltà, come la lingua, l'incapacità a rappresentare le proprie rimostranze. Una debolezza implicita del ruolo".
Quante sono le malattie professionali?
"Nel 2012, su 45 mila denunce in Italia, la metà riguardava problemi osteo-articolari. In Emilia Romagna la percentuale di malattie professionali è di un terzo più alta della media nazionale".
Molti lavoratori non riescono più a tenere un coltello in mano.
"C'è un aumento delle malattie della schiena di tipo degenerativo. E poi c'è l'arto superiore: dalla spalla fino all'articolazione del polso: i tendini, le guaine tendinee. Le malattie più frequenti sono la sindrome del tunnel carpale, ma anche le tendiniti del gomito e della spalla. Le infiammazioni colpiscono i tendini, ma anche i nervi. Che danno dolore, parestesie, difficoltà a compiere movimenti".
Che tipo di infortuni si verificano a causa dell’eccessivo lavoro?
"Aumentano gli incidenti perché diminuisce l’attenzione e cresce la possibilità di compiere errori. Gli operai sono tanti, molto vicini uno all’altro e succede che si facciano male tra loro, maneggiando dei coltelli molto affilati. Sono ambienti chiusi, bui, freddi. Per questioni anche igieniche. Ambienti disagevoli che costituiscono un rischio già di per sé. E poi ci sono le lesioni da sforzo, rotture di dischi intervertebrali. E anche lesioni legate all’uso del coltello o delle macchine".
Per esempio?
"Ci si conficca il coltello nel costato, se per esempio non si fa l’operazione in modo corretto. Bisognerebbe usare attrezzature sottoposte a manutenzione e maglie d’acciaio protettive sulle mani e sull’avambraccio. Gli incidenti sul lavoro sono diminuiti ovunque, in alcuni casi gli indici infortunistici sono in netto miglioramento. Anche in edilizia, un classico settore rischio. Mentre nel comparto della carne non c’è alcun miglioramento".
La replica delle aziende tra silenzi e smentite. Molti degli stabilimenti accusati dalla Cgil di avvalersi di manodopera procurata da cooperative esterne non hanno voluto rispondere alle nostre domande. Come AlcarUno, Fimar e San Francesco. Ci ha risposto invece il presidente della Suincom, uno dei più grandi stabilimenti della zona. "Qui è tutto in regola, chi non ci crede può venire a controllare. Turni massacranti? Macché. Qui rispettiamo il contratto nazionale. Anzi, spesso sono i lavoratori extracomunitari che vogliono lavorare più ore e siamo noi che glielo impediamo". Dal Consorzio Prosciutto di Parma l'ufficio stampa fa sapere: "Non ci risulta che ci siano casi di questo tipo legati alla produzione del Prosciutto di Parma". Rovagnati e Citterio non hanno voluto rilasciare interviste sul tema. Grandi Salumifici italiani dichiara che non risultano casi di sfruttamento e in una nota spiega che esige "dalle aziende appaltatrici, comprese le cooperative di soci lavoratori, l'applicazione ed il rispetto integrale e inderogabile delle norme contrattuali confederali del settore merceologico di appartenenza, nonché di tutte le norme previdenziali e antinfortunistiche e dei diritti sindacali".
COOPERATIVE A DELINQUERE. La favola dell'assistenza e della mutualità ha fatto il suo tempo. E in questa grande finzione, fa presto a infiltrarsi la criminalità organizzata. A Corigliano Calabro la Finanza ha indagato a maggio 352 persone per truffa all'Inps: una cooperativa agricola che aveva denunciato falsi rapporti di lavoro per 35mila giornate agricole era, in realtà, riconducibile a una cosca della 'ndrangheta. A Gioia Tauro, invece, la "Cooperativa lavoro", che gestisce il traffico di migliaia di container, aveva stretto una sorta di joint-venture con le famiglie Piromalli, Alvaro e Molè. E in Campania è la camorra a utilizzare le coop nel settore dei trasporti e dei parcheggi. L'Ortomercato di Milano, che si prepara a garantire una cornucopia di frutta e pesci di ogni tipo sulle tavole degli italiani imbandite per il Natale, è stato per anni il regno dei clan. Nella memoria depositata nel processo concluso a maggio con la condanna dei boss della cosca Morabito-Bruzzaniti, il pm Laura Barbaini ricostruisce il ruolo del prestanome Antonio Paolo che "formalmente assume presso la cooperativa Scai il socio lavoratore Salvatore Morabito, l'uomo conosciuto da tutti come criminalmente potente, e nella sostanza cede al consorzio i suoi contratti di appalto migliori: quale per esempio quello con Dhl Express Italy srl e con Tnt Poste". Le cooperative - scrive il pm - servono ai clan anche per riciclare denaro sporco "attraverso la falsa fatturazione o l'emissione di assegni circolari intestati a nominativi di lavoratori stranieri dipendenti e incassati da prestanomi". In questo modo, creano "importanti disponibilità in contanti per l'acquisto di droga". Anche al boss di Cologno Monzese, Marcello Paparo, le cooperative del suo consorzio di facchinaggio e pulizie per i supermercati Sma ed Esselunga servivano solo per prelevare contanti da investire in affari illegali. E nel capoluogo lombardo c'è l'ombra del riciclaggio anche nell'omicidio di Pasquale Maglione, un avvocato casertano che rappresentava diversi consorzi di origine campana nel rapporto tra colossi della logistica e sindacati.
IL DUMPING E LA CONCORRENZA SLEALE. Ma anche quando non c'è la mafia, le statistiche dicono che le cooperative sono, una miniera di profitti in nero. Più delle altre società. A Milano, come a Lecco, l'82% di quelle ispezionate risultano irregolari; a Brindisi il 37%; a Cuneo il 65, a Pescara il 40, a Padova il 67,7. In media, il 65% sono irregolari. Anche nel settore dei servizi sanitari e sociali si diffonde l'illegalità: a Siena la Gdf ha scoperto a luglio una coop che per quattro anni aveva lavorato in nero con anziani, minorenni e disabili. Gonfiavano i rimborsi, s'inventavano trasferte inesistenti in giorni improbabili - come il 31 giugno - e in questo modo, secondo la Finanza, "riuscivano a garantirsi, a costi competitivi, la presenza sul mercato degli appalti pubblici". Con prezzi stracciati, è facile sbaragliare la concorrenza degli onesti. Il ministero del Lavoro, nel 2007, aveva tentato di arginare il fenomeno con un protocollo che considerava i ribassi del 30 per cento "un fattore di distorsione del mercato". Si decise di dar vita agli "osservatori permanenti", coordinati dalle direzioni del lavoro. Pochi ispettorati, però, sono riusciti a tener d'occhio le cooperative spurie. Che hanno una vita media di due anni ed espellono i soci che osano prendere sul serio i loro diritti. Com'è successo, ad esempio, ai 16 soci eritrei della cooperativa "Il papavero" di Cerro al Lambro, in provincia di Milano, che lavora per la Gls, che ha tra i suoi committenti le poste inglesi: a febbraio avevano indetto un regolare sciopero, ad agosto si sono ritrovati licenziati. E ora, assistiti dal SiCobas, hanno aperto due vertenze: in una il datore di lavoro è tacciato di comportamento "discriminatorio". Due settimane fa il tribunale del lavoro di Firenze ha dato loro ragione. Ma, prima della magistratura, chi dovrebbe fare tutte le verifiche?
I CONTROLLI FANTASMA. La maggior parte delle pseudocoop non fanno parte delle centrali (Legacoop, Confcooperative, eccetera) che prevedono verifiche sugli affiliati. "C'è il potere ispettivo del ministero dello Sviluppo - spiega Stefano Zamagni, economista e presidente dell'agenzia per le Onlus - ma gli ispettori sono pochi, è difficile controllare. Noi possiamo intervenire solo per le cooperative sociali, ma solo inoltrando le denunce alla Guardia di finanza e all'Agenzia delle entrate. Nella maggior parte dei casi si ricorre alle cooperative solo per evadere il fisco e avere agevolazioni. Lo spirito mutualistico di una volta è sparito". Così finisce che le cooperative anziché unire i lavoratori consentendo loro di emanciparsi, li dividono ulteriormente. In questi giorni nei magazzini Gs-Carrefour di Pieve Emanuele, in provincia di Milano, operai cinesi, egiziani e italiani stanno il dando il meglio di sé. Sono i "soci" che hanno accettato i nuovi ritmi, 160 colli stoccati all'ora, imposti da una nuova coop che sostituiva la precedente. Quelli che hanno detto no, erano stati espulsi. Ora hanno vinto la loro battaglia, e hanno ritrovato il lavoro.
Migranti del Cara di Mineo, così negli aranceti lo Stato ha creato i caporali. "I richiedenti asilo non ricevono i documenti previsti dalla legge italiana ed europea" denunciano gli avvocati di chi vive nel centro di accoglienza siciliano. Di conseguenza, possono lavorare solo in nero. E alimentano uno sfruttamento mai visto prima negli agrumeti nelle vicinanze, scrive Antonello Mangano su “L’Espresso”. Migranti all'esterno del Cara. Il viaggio dal Ghana, lo sbarco a Lampedusa, il trasferimento al centro di Mineo. Marcus, lo chiameremo così, sembra un migrante come tanti. Invece lo Stato italiano lo ha trasformato in un fantasma senza diritti. Avrebbe dovuto ricevere almeno tre documenti. Non ne ha avuto nessuno. Adesso, se vuole lavorare, può farlo solo da schiavo. Siamo a Mineo, Sicilia orientale. Il Cara – acronimo di “Centro di accoglienza per richiedenti asilo” - è fuori dal mondo. Per raggiungere Catania in auto ci vuole un'ora. Il posto più vicino è il paese. Vicino per modo di dire: undici chilometri di cammino in salita. E quando arrivi trovi un posto da cui emigrano anche gli italiani. Tutti i migranti del Cara hanno presentato richiesta d’asilo. Chi la ottiene avrà i documenti. Gli altri dovrebbero essere espulsi. Per avere una risposta passano da uno a due anni. Altrettanti per il ricorso in caso di diniego. Non è stata predisposta una commissione all’interno, la più vicina è a Siracusa. Così, rispettare i termini di legge è impossibile. Che fare durante tutto questo tempo? La direttiva europea prevede che dopo sei mesi un richiedente asilo abbia un permesso temporaneo. In questo modo può lavorare regolarmente. Eppure non viene consegnato. Per ottenerlo bisogna fare ricorso, denunciano gli avvocati. Dunque si può scegliere tra il limbo e i caporali. Mineo è un’isola in un mare di aranceti. Basta un rapido giro per incontrare estensioni senza fine. Piccoli proprietari e grandi latifondi. Tutti hanno bisogno di braccia. I padroni senza scrupoli scelgono quelle a basso costo. «C’è un caporalato diffuso, pazzesco e impressionante», denuncia Elvira Iovino del Centro Astalli di Catania. Antonella Elisa Castronovo è una dottoranda di ricerca dell’Università di Pisa che ha condotto uno studio nella zona. «I risultati hanno mostrato implicazioni molto significative nel mercato del lavoro locale», spiega all’Espresso. «Il caporalato non esisteva nella zona, è stato letteralmente introdotto col Cara». Il suo studio è stato pubblicato da una rivista scientifica internazionale, l’Open Journal of Social Sciences. Tra i testimoni che ha intervistato, tra gli altri, ci sono alcuni sindacalisti del luogo: «Gli “affricani”, ed è quello che accade nel Cara di Mineo, si fanno trovare alle sette del mattino in un determinato posto, passa il tizio locale, recluta alcuni lavoratori, li porta a lavorare in campagna e gli dà 3 euro l’ora o 10 euro al giorno» dichiara uno di loro. «I richiedenti asilo sono pagati ancora meno degli immigrati “economici”», dice un altro intervistato. Anche la Cgil conferma: «Nell’area del Calatino gli immigrati del centro di accoglienza sono facili vittime dei caporali», dice all’Espresso Salvatore Tripi, segretario della Flai regionale. Quanti sono gli ospiti di Mineo? “Circa tremila”. La capienza nominale sarebbe di 1800 posti. Gli avvocati dell’Asgidenunciano l’«omessa comunicazione dei provvedimenti con il quale il Questore dispone l’accoglienza». In più non viene consegnato l’attestato nominativo e non è disposta neppure la cessazione dell’accoglienza. L’unico documento, con valore legale pari a zero, è il badge. Un pezzo di carta rilasciato dall’ente gestore. Numerose associazioni – tra queste il Centro Astalli di Catania – hanno denunciato il traffico dei badge. Chi va via lo lascia a un connazionale. Per cui vengono assistiti i “presenti-assenti”. In mancanza di documenti, il migrante non ha accesso all’assistenza sanitaria e al gratuito patrocinio di un legale. C’è materiale per denunce alle istituzioni europee, ai tribunali italiani e alla Corte dei conti. Ogni migrante vale 30 euro al giorno. Che si moltiplica per un numero incerto. Gli avvocati dell’Asgi hanno presentato numerosi ricorsi contro queste violazioni. E hanno inviato una lettera al Ministero dell’Interno. Senza ricevere risposta. Anche la nostra richiesta di replica – al momento della pubblicazione dell’articolo - ha avuto la stessa sorte. L’avvocato Filippo Finocchiaro difende alcuni richiedenti asilo di Mineo. Mi introduce nel suo studio a due passi dal grande mercato all’aperto di Catania. Prende i faldoni. Ognuno racconta di pezzi di vita sottratti ai migranti. Il legale ribadisce che i suoi assistiti non hanno ricevuto nessun documento. «La risposta tipica ai miei ricorsi è che il decreto di accoglienza non è stato notificato per “l’elevato numero di migranti sbarcati nel periodo di riferimento”» dice. La colpa quindi è dell’emergenza. Ma perché non è stato consegnato neppure il permesso di soggiorno? «Non risulta che il suo assistito abbia mai richiesto a questo ufficio un appuntamento», risponde la Questura di Catania. Le reti dividono la campagna dal centro immigrati più grande d’Europa, aperto da Maroni e Berlusconi nel 2011. Era l’anno dell’“emergenza Nordafrica”, quando le primavere arabe portarono un nuovo afflusso di migranti. Si decise di riciclare il villaggio in stile americano pensato per i marines di Sigonella, ma che la Us Navy non voleva più. Quando inaugurò il centro, Maroni parlò di modello di eccellenza per l’Europa. Oggi il suo compagno di partito Salvini conduce una furiosa campagna per la chiusura. Numerosissime associazioni – tra le tante i Medici per i diritti umani - hanno proposto un modello di accoglienza diffusa e non quella che può essere definita una “fabbrica della disperazione”. Invece negli anni abbiamo visto violenze e numerosi tentativi di suicidio; prostituzione interna ed esterna; trafficanti che usavano il centro come base operativa; mancanza di servizi di consulenza legale; rivolte violente per i tempi lenti della burocrazia. Alle ultime elezioni comunali, nel 2013, a Mineo la lista civica legata agli uomini di Ncd (il partito del Ministro Alfano) ha ottenuto il 42% per cento. La media nazionale è il 3%. Il coordinatore regionale del partito, Castiglione, è al momento indagato. Il Cara è diventato la “Fiat” del territorio, con un budget triennale che sfiora i 100 milioni di euro e circa 400 persone che ci lavorano. Dopo “Mafia Capitale”, gli appalti sono sotto la lente della magistratura. Il sospetto è che fosse un affare pilotato e diviso tra cooperative rosse, Comunione e liberazione e uomini della destra. Gestito dalla politica in cambio di assunzioni. Spesso precarie. La situazione a Mineo appare estrema, ma il problema riguarda l’intero Paese. L’avvocato Salvatore Fachile, anche lui dell’Asgi, si occupa di diritto d’asilo a Roma. «Negli ultimi tre mesi ho seguito due migranti che erano ospiti presso loro amici, quindi non a carico dello Stato. Sono stati convocati dalla Commissione dopo appena tre mesi. Per gli ospiti dei centri, la media è invece di sedici».
Per i comuni mortali non c'è limite all'indecenza. A Manduria multa al nipote tra le vigne durante la vendemmia. Più facile che combattere mafia e burocrazia. In una nazione dove tutto va a catafascio, o come dicono alcuni a scatafascio, ossia alla deriva morale e materiale, il sistema di parassiti le pensa tutte per potersi mantenere vessando in tutti modi i cittadini, sudditi di una classe dirigente (politica ed istituzionale) corrotta ed incapace. Classe dirigente che con i media genuflessi alle cricche induce il paese ad essere governato da nani, ballerine ed oggi anche da comici. Questo da aggiungersi al sistema di potere cristallizzato di mafie, lobbies, caste e massonerie. Si sorvola sul fatto che a riformare l’ordinamento forense ci sono gli stessi avvocati in Parlamento a tutela dei loro privilegi ed a chiusura della concorrenza (salvo che per amici e parenti), i medesimi che, oltretutto, sono periodicamente in sciopero per le riforme da loro stessi predisposte. Ma passiamo oltre. In una Italia dove si sottace l’usura e l’estorsione di Stato, ovvero la nomina e la retribuzione amicale dei consulenti dei magistrati. Una nazione, dove il più onesto merita l’Asinara, ci dimostra che né toghe, né divise possono pretendere l’esclusiva della legalità, né possono permettersi il monopolio del parlarne agli studenti in incontri nelle scuole e nei convegni organizzati dalla sinistra. Detto questo, un fatto merita di essere conosciuto. Quando tutto è perduto, e quel tutto ti accorgi di essere vacuo, non rimane altro che tornare a fare i contadini. Ma ecco qui. Ci impediscono anche di fare questo. Si passa oltre sul fatto che il duro lavoro dei nostri antenati di sanificazione dei terreni da sterpaglie e pietre o di bonifica dalle paludi, al fine di renderli terreni fertili da coltivare, sia stato reso vano dall’invasione su quelle stesse terre di pannelli fotovoltaici e del ritorno delle sterpaglie. Truffaldini intenti ambientalisti di falsa tutela della natura, ma che nasconde l’odio verso gli umani od addirittura speculazioni mafiose, ci impongono l’invasione di alternative fonti di energia e ci impediscono di tagliare le sterpaglie, che oggi sono protette. Oggi tu tagli e pulisci le strade o il podere dai rovi? Giù multe perché tagli piante protette. Ed ancora. Da sempre i contadini hanno bruciato nello stesso campo gli avanzi delle potature degli alberi o le foglie cadute. Oggi tu li bruci? Giù multe perché inquini. Ma il colmo di questa Italia e che in campagna non ci puoi più proprio andare, salvo che accompagnato dal commercialista o dal consulente del lavoro, se no giù multe per violazione di norme sul lavoro. “Vendemmia amara: 5mila euro per aver portato il nipote in campagna” è il titolo del fatto avvenuto e pubblicato su “La Voce di Manduria”. Un fatto che merita di essere conosciuto in tutta Italia, perché fatti analoghi succedono in tutto il “Mal Paese”, ma nessuno si degna di parlarne. “Una multa di cinquemila euro per lo zio e una denuncia penale per i genitori di un quindicenne che prima dell’inizio dell’anno scolastico si era recato nella campagna dei parenti per assistere al taglio dell’uva. Quell’esperienza costerà cara alle due famiglie di agricoltori manduriani che durante la passata vendemmia in uno dei propri poderi hanno avuto la visita degli ispettori dell’Ufficio provinciale del lavoro di Taranto. La sanzione pecuniaria riconosciuta allo zio è per impiego di minore e lavoro irregolare mentre il papà del ragazzo è in attesa di una contestazione di reato penale per sfruttamento di lavoro minorile. L’episodio risale al 6 settembre 2012, ma solo ora è stata notificata l’intimazione a pagare. I protagonisti della vicenda sono due cugini manduriani che per la campagna dell’uva avevano organizzato il cantiere di vendemmia, assumendo regolarmente cinque operai che impiegavano alternativamente nei rispettivamente vigneti. Il 6 settembre si vendemmia dal cugino e il signor M. oltre alla moglie, componente del nucleo lavorativo familiare, porta con sé anche il figlio P. Il giovane oltre a frequentare lo Scientifico di Manduria, studia pianoforte (quinto anno) presso il conservatorio musicale “Paisiello” di Taranto (scuola privata). P. non ha iniziato ancora le lezioni in quanto le scuole non erano aperte alla data del 6 settembre. Decide allora di assistere alla vendemmia. Si mette affianco alla madre senza prendere parte ai lavori. Lo studente di fatto non vendemmia e questo perché il padre è un agricoltore che rispetta la legge. Quel giorno però arrivano in campagna gli ispettori del lavoro (un uomo e una donna), fanno i dovuti controlli e trovano tutto in regola salvo, per loro, la presenza di P. che viene considerato come un lavoratore, in quanto ha in mano delle forbici antinfortunistiche. Il tutto viene contestato dagli ispettori e a domanda al ragazzo se stesse lavorando Piero risponde di no, dice che si trovava affianco alla madre e non su un filare di vite e senza un secchio per la raccolta. A non convincere gli ispettori circa quella casualità è stato l’arnese che aveva tra le mani: le forbici antinfortunistiche che seppure non adatte al taglio dei grappoli sono state comunque considerate come un utensile da lavoro.” Il fatto è successo a Manduria, comune sciolto ed in odor di infiltrazione mafiosa. Eppure, quando una denuncia partì da parte mia, anche in occasione di concorsi pubblici truccati svolti in quel comune, i carabinieri delegati alle indagini scrissero nel rapporto che tutto quanto denunciato non era vero, anzi, erano propalazioni del Giangrande ed il magistrato archiviò. Del fatto si occupò la Gazzetta del Sud Africa e il magistrato per ritorsione denunciò a Potenza il Giangrande per diffamazione. I magistrati a Potenza furono pronti ad incriminare. Vuol dire che è più importate multare i campagnoli che lottare contro i mafiosi. In questa Italia c’è solo da vergognarsi di farne parte. Non sanno più da dove prendere i soldi. Se una famiglia ha un piccolo appezzamento di terreno ereditato dagli avi, coltivato ad uliveto o vigneto o altro tipo di coltura, ed il capo famiglia portasse con sé moglie e figli, per raccoglierne i miseri frutti per i bisogni familiari, e vorrebbe farsi aiutare dai parenti il sabato o la domenica per sbrigarsi prima perché affaccendato in altre mansioni durante la settimana? Non può. Deve passare prima dai burocrati che devono stampargli in fronte il timbro della validazione e pagare tributi e contributi. Aprire la partita iva ed assumere i parenti con tanto di sfilza di norme da rispettare. Se non lo fa: giù multe e processi per caporalato. Ma qui ci impediscono addirittura le salutari scampagnate di una volta. Qui più che non ci sono più le tradizioni di una volta, mi sa che non c’è più religione. Ed allora sì che la campagna viene abbandonata, l’unica vera e certa fonte di sostentamento. Che ci invoglino a rubare e finire in carcere? Almeno lì si mangia e si beve a sgrascio…e multe non te ne fanno. Ben venga allora quel sonoro vaff… di quel comico che, a quanto pare, fa ridere meno dei nostri governanti ed aspira a governare un paese abitato da macchiette colluse e codarde.»
L'episodio a Manduria: il quindicenne aveva accompagnato i genitori e lo zio nel podere di famiglia, prima dell'inizio della scuola. "Sfruttamento di lavoro minorile" per gli ispettori di Taranto, scrive “La Repubblica” il 03 novembre 2012. Una multa di 5mila euro per lo zio, una denuncia penale per i genitori. Si è chiusa così la mattinata in campagna di un quindicenne di Manduria. Il ragazzo era nei vigneti dei parenti, con i genitori al suo fianco, per assistere alla vendemmia quando è arrivata un'ispezione dell'ufficio del lavoro provinciale di Taranto. I funzionari non hanno avuto dubbi: quello era un caso di sfruttamento di lavoro minorile. La vicenda è stata raccontata dal giornale La Voce di Manduria. L'episodio risale allo scorso 6 settembre, ma la notizia si è diffusa solo in questi giorni con l'arrivo dell'ingiunzione a pagare. La scuola non era ancora iniziata e il quindicenne ha accompagnato il parente nei poderi di famiglia per assistere al taglio dell'uva. ll padre del ragazzo e suo cugino avevano organizzato un cantiere di vendemmia, assumendo regolarmente cinque operai che impiegavano alternativamente nei rispettivamente vigneti. Il 6 settembre si vendemmia dal cugino e il padre del ragazzo, oltre alla moglie, impegnata nel lavoro, porta con sé anche il figlio quindicenne. Il ragazzo frequenta il liceo scientifico di Manduria e studia pianoforte da cinque anni al conservatorio Paisiello di Taranto. Al momento dell'arrivo degli ispettori il ragazzo è accanto alla madre ed ha in mano un paio di forbici infortunistiche. Questo basta ai due funzionari per contestare ai suoi familiari il lavoro irregolare e la denuncia di sfruttamento di minore. Lo studente, dal canto suo, ha negato di aver preso parte alla vendemmia. Ma ora della sua posizione dovranno risponderne i suoi parenti.
Vendemmia amara: 5mila euro per aver portato il nipote in campagna, scrive “la Voce di Manduria”. Una multa di cinquemila euro per lo zio e una denuncia penale per i genitori di un quindicenne che prima dell’inizio dell’anno scolastico si era recato nella campagna dei parenti per assistere al taglio dell’uva. Quell’esperienza costerà cara alle due famiglie di agricoltori manduriani che durante la passata vendemmia in uno dei propri poderi hanno avuto la visita degli ispettori dell’Ufficio provinciale del lavoro di Taranto. La sanzione pecuniaria riconosciuta allo zio è per impiego di minore e lavoro irregolare mentre il papà del ragazzo è in attesa di una contestazione di reato penale per sfruttamento di lavoro minorile. L’episodio risale al 6 settembre scorso ma solo ora è stata notificata l’intimazione a pagare. I protagonisti della vicenda sono due cugini manduriani che per la campagna dell’uva avevano organizzato il cantiere di vendemmia assumendo regolarmente cinque operai che impiegavano alternativamente nei rispettivamente vigneti. Il 6 settembre si vendemmia dal cugino e il signor M. oltre alla moglie, componente del nucleo lavorativo familiare, porta con sé anche il figlio P. Il giovane oltre a frequentare lo Scientifico di Manduria, studia pianoforte (quinto anno) presso il conservatorio musicale “Paisiello” di Taranto (scuola privata). P. non ha iniziato ancora le lezioni in quanto le scuole non erano aperte alla data del 6 settembre. Decide allora di assistere alla vendemmia. Si mette affianco alla madre senza prendere parte ai lavori. Lo studente di fatto non vendemmia e questo perché il padre è un agricoltore che rispetta la legge. Quel giorno però arrivano in campagna gli ispettori del lavoro (un uomo e una donna), fanno i dovuti controlli e trovano tutto in regola salvo, per loro, la presenza di P. che viene considerato come un lavoratore in quanto ha in mano delle forbici antinfortunistiche. Il tutto viene contestato dagli ispettori e a domanda al ragazzo se stesse lavorando Piero risponde di no, dice che si trovava affianco alla madre e non su un filare di vite e senza un secchio per la raccolta. A non convincere gli ispettori circa quella casualità è stato l’arnese che aveva tra le mani: le forbici antinfortunistiche che seppure non adatte al taglio dei grappoli sono state comunque considerate come un utensile da lavoro.
Ed ancora....
Invita gli amici alla vendemmia, prende una multa da 19.500 euro per lavoro nero. Doveva essere una festa, si è trasformato in un blitz dell’ispettorato. Il sindaco di Castellinaldo d’alba: «Assurdo, in campagna ci si aiuta da sempre», scrivono Valter Manzone e Marisa Quaglia da Castellinaldo D’Alba (Cuneo) su “La Stampa” il 28 settembre 2015. È finita con una multa di quasi 20 mila euro quella che doveva essere una festa tra le vigne di Castellinaldo d’Alba, in provincia di Cuneo. Come faceva spesso, Battista Battaglino, 63 anni, pensionato, mercoledì ha invitato alcuni amici nella sua casa, in località Granera, nel cuore del Roero. È una bella giornata, i filari del suo piccolo podere, un ettaro di terreno in collina, sono carichi di grappoli, barbera e un po’ di nebbiolo. Così i quattro decidono di aiutare Battista a vendemmiare. Uve che il pensionato utilizza per produrre il vino per sé, quello che consuma in casa e con qualche amico. Il tutto si dovrebbe concludere con una cena in allegria. Ma il finale è ben diverso. Lo racconta Ada Bensa, compagna del pensionato: «Stavamo raccogliendo l’uva, ridendo e prendendoci in giro perché in quelle vigne è anche difficile stare in piedi. Ad un certo punto siamo stati letteralmente circondati da carabinieri e funzionari dell’ispettorato del lavoro. Ci hanno chiesto i documenti e hanno redatto un verbale di denuncia di lavoro nero». La multa per Battista Battaglino è di 19.500 euro, 3900 per ognuno dei 4 amici e del pensionato. La donna è indignata: «È assurdo. Volevamo aiutare Battista e gli abbiamo procurato un danno enorme. In campagna è consuetudine aiutarsi l’un l’altro. Si è sempre fatto, senza il timore di essere catalogati come evasori, o peggio ancora, ritenuti dei caporali che sfruttano le persone facendole lavorare in nero». Ada Bensa scrive anche a «Specchio dei Tempi» per denunciare quello che per tutti, cittadini e viticoltori, è una vera ingiustizia. «Battista coltiva da solo quel pezzo di terra, è in pensione e ci passa il suo tempo - dicono gli amici -. Quando l’uva è matura ci chiede di aiutarlo. Bisogna fare in fretta, altrimenti i grappoli marciscono e lui non potrà fare il suo buon vino. Per quello eravamo lì, come facevamo da anni, a turno non sempre tutti, a seconda dei nostri impegni». L’indignazione è quella dell’intero territorio. Il sindaco di Castellinaldo, Giovanni Molino è amareggiato: «Non siamo un paese in cui vige il caporalato. Qui la gente si aiuta, si spacca la schiena tra le vigne, su queste colline. È assurdo che un uomo come Battista, che manda avanti questi pochi filari da solo, con grande sacrificio, venga additato come evasore. Sono terreni che erano già del padre, vigne che avranno 70-80 anni. Lui le cura tutto l’anno ancora con metodi vecchi, quelli di una volta. Non ha neanche i mezzi più moderni per coltivare e raccogliere, tutto viene fatto a mano. È pazzesco che debba pagare una multa del genere». Battista è ancora amareggiato e non ha molto da dire su quanto successo: «Lascerò andare tutto, abbandonando le vigne perché non merita lavorare tanto per poi avere questi bei risultati. L’unica cosa che potevo dare a questi amici era una cena per ringraziarli. Purtroppo non abbiamo neanche fatto quella». Il sindaco lancia una proposta: «Ho intenzione, a novembre, di invitare questi funzionari del lavoro a una riunione con tutti coloro che coltivano un pezzo di terra, dalle grandi aziende di questo territorio ai piccoli agricoltori. Voglio che ci spieghino cosa dobbiamo fare per lavorare senza la paura di dover pagare multe». Mercoledì Battaglino e i suoi amici saranno a Cuneo, convocati dall’Ispettorato del Lavoro. Ribadiranno la loro posizione. «Speriamo sia usato un po’ di buon senso» conclude Ada Bensa.
I sindacati a Boldrini: «Approvare subito la legge contro il caporalato». L'appello alla Camera. Il ddl 2217 attende l'ok ormai da un anno: manca l'ultimo step. «Strumento prezioso per contrastare lo sfruttamento e il lavoro nero». La presidente: «Basta condizioni disumane nei campi e fine dei ghetti», scrive Antonio Sciotto il 13.9.2016 su “Il Manifesto". Sembra incredibile, ma la nuova legge di contrasto al caporalato e al lavoro nero in agricoltura non è ancora stata approvata. Tanti buoni propositi nei mesi scorsi, soprattutto ricordando le tragiche morti che hanno funestato l’estate del 2015, ma dopo l’ok del Senato, incassato prima della pausa estiva, a questo punto non sappiamo quando il ddl 2217 avrà anche quello definitivo della Camera. I sindacati ieri hanno incontrato la presidente della Camera Laura Boldrini nel suo ufficio a Montecitorio, particolarmente sensibile al tema tanto che più volte – sia a Roma che nelle campagne meridionali – ha incontrato i braccianti, soprattutto donne, sia italiane che immigrate. Flai Cgil, Fai Cisl e Uila Uil hanno sollecitato la messa in esame del provvedimento, e la presidente – «compatibilmente con quelli che sono i regolamenti parlamentari», ha tenuto a precisare – si è impegnata a non mollare la presa sul tema. «Si metta fine a questa vergogna – ha dichiarato Boldrini al termine dell’incontro con i sindacati – Ci sono lavoratori sfruttati per 10-12 ore, pagati 20 o 22 euro, con condizioni disumane. E ci sono ancora tanti ghetti dove sono costretti a vivere tanti immigrati senza alcuna garanzia e senza il rispetto delle condizioni minime di dignità: dobbiamo fare in modo che situazioni simili non esistano più in Italia». Una parte della soluzione, secondo la presidente della Camera, «è sicuramente il provvedimento in discussione, apprezzato prima di tutto dalle persone che lavorano e dai sindacati: perché evidentemente il reato di caporalato non bastava, e adesso bisogna responsabilizzare e sanzionare le aziende che sfruttano i braccianti. Perché ci sono aziende regolari, che assumono applicando i contratti e rispettando i dipendenti, ma ci sono anche aziende che violano i diritti minimi». Secondo Stefano Mantegazza, segretario generale della Uila Uil, che ha parlato a nome delle tre sigle di categoria, «il testo della legge in discussione è condivisibile ma serve un’approvazione veloce». «Ci auguriamo un iter rapido della legge, perché la campagna di raccolta estiva è passata con la stessa normativa di sempre e quindi con le stesse condizioni di sfruttamento dei lavoratori e delle lavoratrici». Luigi Sbarra, segretario Fai Cisl, chiama «tutti i gruppi parlamentari alla compattezza per centrare l’obiettivo». Ivana Galli, segretaria Flai Cgil, sottolinea che «nelle campagne c’è un assoluto bisogno dei nuovi strumenti che la legge può assicurare». Tra l’altro una settimana fa i sindacati avevano denunciato la non applicazione del Protocollo firmato in maggio da parti sociali e istituzioni, per il fatto che il governo non aveva ancora erogato i fondi promessi. Allarme che era stato fatto proprio dal presidente della Commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano. Secondo l’ultimo Rapporto Agromafie e Caporalato, elaborato dall’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai Cgil, a essere vittime del caporalato sono indistamente italiani e stranieri, circa 430 mila persone nel nostro Paese, peraltro in crescita (di circa 30/50 mila unità) rispetto a quanto stimato nel rapporto precedente. Più di 100 mila lavoratori vivono in condizione di grave sfruttamento e vulnerabilità alloggiativa. Le agromafie e il caporalato muovono insieme, in Italia, un’economia illegale e sommersa che ha un valore che si aggira tra i 14 e i 17,5 miliardi di euro. Le mafie hanno diversi settori di interesse: si va dall’import-export oltreoceano dei nostri prodotti agroalimentari, alla contraffazione (quella agroalimentare costituisce il 16% del totale con un business da un miliardo di euro) di pane, vino, macellazione e pesca, solo per citare i comparti più esposti. Molto colpita anche la logistica, del commercio all’ingrosso e al dettaglio, dei mercati ortofrutticoli e dei diversi passaggi che caratterizzano la filiera. Da nord a sud, poi, si rilevano fenomeni di sofisticazione legati all’Italian sounding, così come il nuovo intreccio tra agromafie e energie rinnovabili. Una spia dell’interesse delle mafie ispetto al settore agricolo è testimoniata dal fatto che quasi il 50% dei beni sequestrati o confiscati a queste organizzazioni sono proprio terreni agricoli (30.526 sul totale di 68.194 nel 2015).
I sindacati contro lo sfruttamento: “Stop al caporalato: è diventato il terzo business delle mafie”, scrive giovedì 21 luglio 2016 "Lecce sette". Conferenza stampa questa mattina di Cgil e Flai Cgil per la campagna nazionale Stop al Caporalato, Coltiviamo la legalità. Fermare il caporalato e la tratta di esseri umani, florido business per le mafie dopo la droga e le armi. Così i segretari generali di Cgil Valentina Fragassi e Flai Antonio Gagliardi durante la conferenza stampa di lancio della campagna nazionale Stop al Caporalato, Coltiviamo la legalità che si è svolta giovedì 21 luglio a Lecce, nella sala Di Vittorio della Cgil di Lecce. Durante la conferenza stampa è stato esposto il risultato di uno dei quotidiani sopraluoghi svolti dal sindacato nelle aree di Nardò e del Salento, anche con un reportage fotografico, in cui sono evidenti le condizioni gravemente precarie dal punto di vista dell’accoglienza: “Circa 200 lavoratori ammassati in aree senza servizi o “organizzate” da presunti caporali, con ricoveri ricavati da teli in plastica e materiali di scarto. Nel frattempo, nonostante l’impegno delle istituzioni, i campi allestiti sono ancora in gran parte non funzionanti. Preoccupante anche l’evidente presenza, oltre che di lavoratori, anche di donne straniere che sostano nelle aree probabilmente provenienti anch’esse dalla tratta di esseri umani”. La Flai ha quindi ricordato che, nei prossimi giorni, sarà sottoscritto in Regione Puglia l’Accordo quadro attuativo del Protocollo sperimentale nazionale contro caporalato e lavoro nero. Tra gli impegni presi in questo accordo regionale dalla Flai, c’è la presenza quotidiana, nei campi di accoglienza di Nardò e Foggia, della Tenda Rossa per dare assistenza ogni giorno ai lavoratori. “Nardò è diventato uno dei luoghi simbolo del caporalato e dello sfruttamento nel lavoro agricolo. Ingiustamente. Noi riteniamo infatti che Nardò debba essere considerato il luogo simbolo di rinascita della lotta dei lavoratori per i diritti. Qui, con il sostegno della Flai e della Cgil, è stato organizzato il primo sciopero dei braccianti stranieri in Italia; qui è stata realizzata la prima sperimentazione di collocamento pubblico della manodopera agricola attraverso le liste di prenotazione del centro per l’impiego; grazie al lavoro quotidiano del sindacato e alla collaborazione dei lavoratori, è stato denunciato un sistema illecito di sfruttamento e di intermediazione nel lavoro agricolo ora oggetto di iter processuale. L’inserimento nel codice penale del reato di caporalato, il Tavolo provinciale di coordinamento permanente per il lavoro stagionale in agricoltura in Prefettura a Lecce, e l’avvio della sperimentazione del Protocollo contro il lavoro nero e caporalato sottoscritto al Ministero dell’Interno sono, a nostro avviso, conseguenze positive di una rivolta pacifica e sacrosanta dell’attuale generazione dei braccianti costretti a condizioni di lavoro e di vita insostenibili”. “Come tutte le battaglie, anche quella per la legalità nel lavoro in agricoltura va combattuta e può essere vinta, ma occorre far convergere le forze e l’impegno di tutti i soggetti interessati. Per questo diciamo che vanno bene tutte quelle azioni che nascono con l’obiettivo di migliorare le condizioni di lavoro, di salute e di sicurezza dei lavoratori agricoli: riteniamo però che azioni isolate di un solo Comune salentino, e messe in atto senza il coinvolgimento del Sindacato che rappresenta i lavoratori ed è a stretto contatto con loro, rischiano di essere facilmente aggirate. Siamo convinti che questo percorso potrà avviarsi proficuamente anche con l’Amministrazione comunale di Nardò che proprio domani, venerdì 22 luglio, avrà un confronto con i soggetti stipulanti il contratto provinciale di lavoro per gli operai agricoli. “Flai e Cgil appoggiano e promuovono la Campagna di Progressi e della coalizione di associazioni con cui si chiede la rapida approvazione del disegno di legge 2217 (Disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero e dello sfruttamento del lavoro in agricoltura), fermo da quasi un anno al Senato. La scorsa estate la Puglia è stata protagonista di una delle pagine più nere della storia del lavoro, con le drammatiche morti di lavoratori stranieri e italiani piegati dallo sfruttamento e dall’assenza di regole e controlli nel lavoro in agricoltura. In una condizione di assoluta emergenza e gravità come quella del 2015 sembrava che questo paese si stesse finalmente muovendo: invece il ddl si è perso nelle cosiddette lungaggini burocratiche. C’è bisogno di una legge che dimostri una ferma e convinta lotta all’illegalità e allo sfruttamento. La Cgil continuerà la sua battaglia per una legge che punisca le imprese che ricorrono al caporalato”.
Braccianti sfruttati retata in campagna controlli per la vendemmia Ginosa Marina: tre euro per essere accompagnati al lavoro, scrive Maristella Massari il 6 settembre 2016 su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. È un sommerso che fa il paio con evasione fiscale, negazione delle garanzie sociali e previdenziali; distorsioni della concorrenza tra le imprese; dumping salariale e sfruttamento dei lavoratori. L’unica arma seria per «curare» la piaga del caporalato, resta la prevenzione, i cosiddetti controlli a tappeto. E nel corso dell’ennesima «retata» notturna nelle campagne del tarantino, i carabinieri della stazione di Ginosa Marina hanno fermato un furgone che procedeva nei campi carico di braccianti rumeni. Due persone sono state arrestate per intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro nei campi. I militari hanno fermato un veicolo Fiat Ducato che percorreva una strada delle contrade al confine tra Ginosa Marina e Laterza. Nel corso degli accertamenti svolti dai carabinieri, è emerso che a bordo del mezzo vi erano, oltre ai due arrestati, altre 9 persone di nazionalità romena, 5 uomini e 4 donne. I lavoratori trasportati hanno riferito ai carabinieri di essere stati reclutati dal conducente e dalla loro connazionale, che provvedevano, con sistematicità, al loro trasporto sul luogo di lavoro dietro corrispettivo di una somma di denaro che variava dai 2 ai 3 euro a persona. Dopo il controllo, i due caporali sono stati condotti in caserma ed arrestati in attesa dell’udienza di convalida, mentre il veicolo Fiat Ducato è stato sottoposto a sequestro. Intanto ieri mattina il gip del Tribunale di Taranto, accogliendo l’istanza del difensore degli indagati Giuseppe Passarelli, non ha convalidato gli arresti e ha scarcerato i due caporali che erano stati arrestati dai carabinieri per intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro nei campi. Il gip, informano in una nota gli stessi carabinieri, «non ha accolto la richiesta del pm e non ha convalidato» gli arresti, «non rilevando condotte intese ad incutere timore e coartare la volontà dei braccianti. I due soggetti - conclude la nota dei carabinieri -, sono quindi stati liberati nel primo pomeriggio di lunedì».
Intanto sono in corso approfondimenti per verificare in quali aziende e con quali modalità di ingaggio siano stati impiegati i braccianti. Il controllo del territorio finalizzato al contrasto del fenomeno del “caporalato” dell’intermediazione e dello sfruttamento del lavoro nell’ambito delle attività agricole, sarà intensificato con l’arrivo della stagione della vendemmia. Ogni anno le forze dell’ordine cercano di porre un argine al dilagare di un fenomeno che si sviluppa tra paghe da fame e condizioni di lavoro da nuova schiavitù.
L’attenzione massima è soprattutto per il versante occidentale del Tarantino, nelle zone di Castellaneta e Ginosa, centri in cui sono presenti numerose aziende agricole che operano nel ramo delle colture stagionali di frutta e verdura. Scopo degli investigatori è far emergere ed approfondire le modalità di reclutamento della forza lavoro, le condizioni in cui lo stesso viene fatto svolgere ed il rispetto degli obblighi fiscali e contributivi cui le imprese agricole sono tenute ad adempiere.
Lo sfogo di una donna al pm: «Perdere lavoro è una tragedia», scrive il 23 febbraio 2017 “la Gazzetta del Mezzogiorno”. Nel provvedimento cautelare che oggi ha portato all’arresto di sei presunti caporali, facenti parte quasi tutti di un’agenzia interinale, c'è la straziante confessione di una bracciante che ha commosso gli inquirenti tranesi e che fa emergere il tessuto economico di sfruttamento a cui sono sottoposti i braccianti, anche da parte delle agenzie interinali. Una volta sul pullman, nel momento in cui venivano distribuite le buste paga, «alcune donne - dice a verbale la testimone - si sono lamentate dei giorni mancanti, G. ha detto che noi lo sapevamo, quindi, non dovevamo lamentarci. Nessuna ha più parlato, anche perché si ha paura di perdere il lavoro, anche io adesso ho paura di perdere il lavoro e di essere chiamata infame. Ho un mutuo da pagare, mio marito lavora da poco, mentre prima stava in Cassa integrazione. Dovete capire che il lavoro qui non c'è e, perderlo, è una tragedia. Quindi, se molte di noi hanno paura di parlare è comprensibile». Le braccianti sfruttate nei campi - secondo la Procura di Trani - percepivano ogni giorno 30 euro per essere al servizio dei caporali per 12 ore: dalle 3.30 del mattino, quando si ritrovavano per essere portate nei campi a bordo dei pullman, alle 15.30, quando ritornavano a casa dopo essere state al lavoro tra Taranto, Brindisi e Andria. Il loro compenso, in base ai contratti di lavori, avrebbe dovuto essere di 86 euro, circa tre volte di più. Ovviamente nelle buste paga non solo non venivano calcolati - secondo le indagini della Gdf e della Polizia - tutte le giornate di lavoro effettive, ma neppure gli straordinari. E’ quanto emerge dalle indagini sui sei arresti computi oggi su disposizione della magistratura tranese nell’indagine sul caporalato nata dalla morte della bracciante Paola Clemente, ma non legata al decesso della donna. In soli tre mesi l’agenzia interinale che aveva reclutato i braccianti ha così evaso 48mila euro di contributi. «La tragedia di Paola Clemente è ancora viva in tutti noi, la legge contro il Caporalato proposta dal nostro governo con le parti sociali e con il sostegno quasi unanime del parlamento ha segnato un punto di svolta. La nostra battaglia per la legalità e la dignità del lavoro continua». Così il ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina all’ANSA sulla vicenda degli arresti legati alla morte della bracciante Paola Clemente.
Caporalato, sulle demolizioni spuntano nuove baraccopoli lavoro nero. Casa Sankara: «I primi a non denunciare sono i sindacati» la lotta allo sfruttamento, scrive Massimo Levantaci il 30 marzo 2017 su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Il percorso di integrazione «sarà lungo e difficile», il caporalato «non si sconfigge tanto facilmente finchè troverà un appiglio nelle nostre debolezze». Ma intanto qualcosa è cominciato. Perciò basta polemiche, vietato strumentalizzare i lavoratori migranti. Lo chiedono i 320 «residenti» di Casa Sankara, la comunità nelle campagne di San Severo insediata dalla Regione dopo la chiusura del Gran Ghetto di Rignano (1 marzo) in una vecchia azienda agricola gestita da due anni da un gruppo di senegalesi. In quel caseggiato è spuntato forse un germe di normalità, nell'immensa cloaca che è diventata l'accoglienza dei «lavoratori della terra», come si autodefiniscono, in Capitanata. Perché se la Regione ha usato le ruspe per cancellare la vergogna del Ghetto, quella sta già riemergendo dalle sue stesse ceneri e a nemmeno un mese di distanza dallo spettacolare sgombero (con il drammatico corollario di due morti) voluto dal presidente Emiliano dopo vent'anni di immobilismo. Le nuove baracche rinascono tra i rifiuti incendiati del vecchio accampamento, perché è lì che vanno i caporali in cerca di braccia per le campagne. E a borgo Mezzanone, altra bidonville fra Foggia e Manfredonia, le baracche sono quasi raddoppiate dopo aver accolto i transfughi del Ghetto. Insomma i ghetti sono sempre là, più forti e più di prima. Vediamo se almeno l'esperimento di Casa Sankara funziona. «La Regione – scrivono in una nota i migranti ospiti del primo campo legalizzato – ha voluto dare un segnale forte e chiaro di voler combattere l'illegalità che vigeva nel Gran Ghetto come in altri ghetti. Ora tocca a tutti noi, ognuno con i propri mezzi e strumenti, dare forza e concretezza a questo progetto. La produzione agricola in Capitanata ha bisogno di questi braccianti agricoli, così come i prodotti pugliesi hanno bisogno di una filiera etica che non poggi le proprie basi sullo sfruttamento di questi fratelli africani. Oggi abbiamo un'occasione unica che non va sprecata per le velleità egoistiche di qualcuno che non fa altro che gettare fango su quanti, in questo progetto, ci stanno mettendo l'anima».
È anche una battaglia d'immagine, questo è chiaro. La Regione si fa scudo dell'esperienza di Casa Sankara per ribaltare lo scenario che si sta profilando e riportare la «verità» dalla sua parte. I lavoratori puntano il dito anche contro i «sindacalisti o presunti tali» accusati di non essere schierati dalla parte delle istituzioni. Ed è forse la prima volta che accade. «Si prendano la responsabilità di denunciare caporali e sfruttatori - rilevano - chiedendo alle aziende di assumere tramite le liste di prenotazione la manodopera che serve loro, se davvero vogliono combattere il caporalato». Un affondo senza precedenti, alle vigilia di un’altra stagione rovente per le grandi campagne di raccolta nel Foggiano. Una cosa è certa: i ghetti ci rimarranno finché ci saranno i caporali.
La preoccupazione nei campi «Resteranno gli spregiudicati», scrive Tonio Tondo il 20 ottobre 2016 su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. «Siamo in grande difficoltà. Purtroppo se ci schieriamo contro la legge ci accusano di volere favorire il caporalato». È sincero l’imprenditore agricolo di un piccolo comune del Salento: «Il legislatore è andato avanti come un carro armato, tutti a difendere le posizioni più radicali del sindacato. Nessuno ha rappresentato le ragioni delle buone aziende agricole del Mezzogiorno, a partire dalla nostra regione, la Puglia che è campione della piccola e media impresa». Ed è proprio in questo mondo che cerca di sopravvivere tra pressioni, spesso vessazioni, e invadenze burocratiche che monta la protesta. «Vogliono colpire il caporalato e quella parte, minoritaria, di impresa agricola collusa di settori circoscritti, e invece finiscono con il mettere fuori gioco la nostra vita». La nuova legge che allarga la responsabilità penale agli imprenditori, anche in circostanze non legate strettamente al fenomeno del caporalato, sarebbe così minata da una «eterogenesi dei fini». Cioè determinerebbe «conseguenze non intenzionali di azioni intenzionali». Invece di sradicare il male colpirebbe la parte più vulnerabile. Appunto la piccola e media impresa su base familiare e quella parte, estesa e cruciale, di appassionati dell’agricoltura e con un altro reddito: pensionati e giovani con lavori precari che si sono lanciati nell’avventura delle attività agricole per sfuggire alla povertà. La legge che ha ottenuto il via libera definitivo della Camera amplia la platea dei possibili responsabili «di intermediazione illecita» di manodopera rispetto alla vecchia norma dell’articolo 603 bis del codice penale che perseguiva lo sfruttamento del lavoro nell’ambito del fenomeno criminale del caporalato. Obiettivo della repressione non è più in modo prioritario il caporale nelle sue diverse dimensioni (caporale-lavoratore, trasportatore, venditore, singolo o collettivo), ma il datore di lavoro nella sua responsabilità di conduttore delle attività. Non è quindi più indispensabile un’organizzazione criminosa per sfruttare il lavoratore, ma è sufficiente che il datore di lavoro «sottoponga a condizioni di sfruttamento il lavoratore approfittando del suo stato di bisogno». In questo caso è possibile anche la confisca dell’azienda agricola con l’affidamento a uno o più amministratori nominati dal giudice. L’allargamento della maglia può avvolgere chiunque. Cerchiamo di chiarire la struttura del mondo nel quale la legge viene a calarsi. In Puglia, all’ultimo censimento agricolo del 2010 sono state dichiarate attorno a 275mila aziende agricole e zootecniche. La dimensione media delle imprese è di 4,7 ettari (il 7,9 a livello nazionale). I due terzi, il 71 per cento, sono di dimensioni minori con un reddito annuo per singola azienda inferiore ai 25mila euro. L’altro 29 per cento si può dividere a metà: una parte con redditi tra 25mila e 50mila euro, l’altra tra 50mila e mezzo milione. Circa il 90 per cento della campagna pugliese è mantenuta, con grandi sacrifici e spesso grazie a una vera e propria passione per la terra, ereditata dai genitori e curata con un amore ancestrale, da decine di migliaia di famiglie e da ferventi volontari, nuovi protagonisti (non riconosciuti) del mantenimento del territorio. Molti di questi volontari provengono da professioni di prestigio, professori, medici e ingegneri, e trasferiscono soldi dal lavoro principale all’hobby del fine settimana, in base al trend della vita buona.
È un’agricoltura che spesso è solo di sussistenza e che si integra alle filiere solo grazie alle poche cooperative ben gestite. Chi lavora in queste aziende con scarsi o nessun profitto? Spesso nelle comunità si va avanti grazie allo scambio delle prestazioni tra parenti e amici, ricorrendo ai terzocontisti a loro volta piccoli proprietari e assumendo, quando è necessario, lavoratori con i voucher oppure a nero su richiesta degli stessi lavoratori. Tra questi, soprattutto tra gli immigrati, si distinguono gli albanesi che sono bravi e puntuali, molto apprezzati nelle nostre piccole comunità. La segnalazione di questi lavoratori è informale, in base al passa parola di piazza, a volte su «raccomandazione» di chi li frequenta, quindi esterna alla cosiddetta Rete del lavoro di qualità, gestita con tempi e andazzo burocratico da diversi enti. La vita agricola si svolge nella realtà concreta e cruda delle esistenze delle persone, segnate purtroppo da vicende drammatiche, ma anche da buone esperienze umane. In questo mondo il caporalato non c’entra per nulla, il lavoro irregolare invece è presente e molte aziende cercano di muoversi tra dipendenti regolari e altri informali pur di far quadrare i conti. Questa è la realtà di un mondo con seri problemi con pressioni esterne formidabili e con margini sui prodotti sempre più ristretti o annullati. In questa realtà impatta la nuova legge, con effetti devastanti.
«Vogliono aprire definitivamente le porte alle importazioni», dice l’imprenditore. Il grande rischio incombente è l’ulteriore abbandono delle campagne. Le persone per bene rifletteranno sul rischio di vedersi denunciate e indagate dalle procure. Preferiranno lasciare perdere, con grande dolore. Così avranno via libera i protagonisti veri di questa fase, i personaggi più aggressivi e violenti che già stanno approfittando del crollo dei prezzi della terra per accaparrarsi le superfici abbandonate. La nuova legge si limita a stringere gli imprenditori in una morsa amministrativa e giudiziaria. Non si preoccupa neanche per un attimo del futuro possibile. Non sono sufficienti poche e grandi aziende per salvare l’agricoltura italiana, è un peccato mortale costringere decine di migliaia di piccoli e medi proprietari ad arrendersi di fronte alla brutta figura di vedersi confiscata la terra. Meglio abbandonarla.
Flai Puglia, lettera aperta sul caporalato. 30 marzo 2017, su Rassegna Sindacale. Gagliardi: "Ci sono imprenditori agricoli in Terra di Bari che pensano che il caporale rappresenti una fortuna per le aziende e addirittura chiamano alla rivolta contro una legge dello Stato. E lo dicono con sfacciataggine e grande senso d'impunità". Non toccateci i caporali. "Abbiamo avuto un attimo di esitazione alla lettura di un titolo de "La Gazzetta del Mezzogiorno", che riportava fedelmente le parole di un imprenditore agricolo. Roba da non crederci. Eppure sì, è così, ci sono imprenditori agricoli in Terra di Bari che pensano che il caporale sia una fortuna per le aziende e addirittura chiamano alla rivolta contro una legge dello Stato. E lo dicono con sfacciataggine e grande senso di impunità. In questo caso, lo dice un imprenditore di Monopoli sulle pagine della Gazzetta del Mezzogiorno". Inizia così la lettera aperta di Antonio Gagliardi, segretario generale Flai Puglia sul caporalato. "Ma qualche giorno fa abbiamo letto dichiarazioni più o meno dello stesso tenore da parte di agricoltori della Capitanata: C’è un caporalato che funziona, fino a una sorta di confessione, la guerra ai caporali fa salire i costi. Certo, perché la legalità ha un costo, e il lavoro nero e lo sfruttamento sono contro la legge e recano un danno alla collettività e anche agli imprenditori onesti (se ne ricorderanno mai le associazioni agricole dei loro iscritti che vogliono lavorare nel rispetto delle leggi?). Torniamo a Monopoli: dalle affermazioni rilasciate da questo illuminato imprenditore, si evince una assoluta misconoscenza delle norme che regolano il mercato del lavoro. Affermare che non esistono agenzie di collocamento che si preoccupano di trasferire gli operai agricoli da una provincia all’altra della nostra regione, equivale a dire che si disattende il contratto di lavoro di riferimento", rileva il dirigente sindacale. "A questo agricoltore sveliamo un segreto: è obbligo degli imprenditori - lo dice il contratto provinciale di lavoro - garantire ai propri dipendenti, seppur stagionali, il trasporto fino al luogo dell’attività lavorativa. Affermare che per reperire manodopera bisogna per forza rivolgersi al caporale per garantire alle aziende agricole di operare, equivale a sostenere l’intermediazione illecita di manodopera. Un reato penale. E non è affatto vero che non esistono alternative: da qualche anno, la Puglia si è dotata di uno strumento che rafforza il collocamento pubblico, le cosiddette liste di prenotazione, dove attingere manodopera legalmente. Anche alla luce di tali farneticazioni, siamo maggiormente convinti che la strada imboccata con l’approvazione della legge 199/2016 contro lo sfruttamento lavorativo e il caporalato, abbia centrato la necessità di modificare, soprattutto sul piano culturale, un fenomeno distorsivo delle più elementari regole in materia di mercato del lavoro che non può essere più tollerato", prosegue il sindacalista. "Non vi è dubbio che proprio questa legge permette anche di utilizzare strumenti che tolgono a questi capitani d’impresa ogni alibi e pretesto: non a caso, proprio la Flai e la Cgil, nei giorni scorsi, hanno lanciato delle proposte che sostengono l’idea di impegnare istituzioni e associazioni agricole per trovare misure sostenibili per favorire regole trasparenti per l’assunzione della manodopera, per garantire il trasporto anche pubblico per e da i luoghi di lavoro, vera accoglienza ed integrazione. Non solo per i lavoratori locali, ma anche per tanti lavoratori stranieri che si avvicendano nei campi della nostra regione. Scuse non ce ne sono, altrimenti si dica - e qualcuno lo fa - che si preferisce agire nell’illegalità perché costa meno. E in quel caso, non si agiti lo spettro repressivo di una legge che forse in questo Paese è arrivata anche con troppi anni di ritardo", conclude Gagliardi.
CAPORALATO, IL GOVERNO INTERVIENE. MA QUANTA IPOCRISIA ...di Lorenzo Frassoldati. Illegalità, sfruttamento, lavoro nero nelle campagne, caporalato: argomenti caldi che si intrecciano con l’emergenza immigrazione. Fatti di cronaca (alcuni morti in campagna) e inchieste giornalistiche hanno fatto deflagrare il tema, inducendo il Governo ad intervenire. Come sempre in Italia si lavora sull’emergenza con tutte le conseguenze del caso. Inevitabile cadere nello sport nazionale, la scoperta dell’acqua calda. Intendiamoci: il Governo ha deciso di intervenire con misure straordinarie e ha fatto bene. Più controlli (in Puglia c’erano veri e propri accampamenti di lavoratori in nero, alla luce del sole, con tanto di negozi, dormitori, bar e anche un bordello); dal 1 settembre sarà operativa la "Rete del lavoro agricolo" prima sperimentazione italiana di certificazione della qualità del lavoro con relativa cabina di regia incaricata di redigere un piano d'azione straordinario per la lotta al caporalato; confisca dei patrimoni delle imprese che sfruttano manodopera irregolare, così come per i reati di mafia. Bene, vedremo i risultati di questi interventi. Non c’è dubbio che qualcosa andava fatto, anche perché lavoro sommerso e caporalato sono un problema per le imprese agricole in regola, che rispettano la legge e i contratti di lavoro. Anche se regole e norme già esistevano, però ce le eravamo ‘dimenticate’. A partire dal Durc, il documento di regolarità contributiva che già esiste. Però per diradare le nebbie dell’ipocrisia su questo argomento diciamo due cose: che il lavoro in nero, specie al Sud, è sempre stato uno strumento per rendere competitivi i prezzi di molte produzioni, che – come noto - non sono determinati dalla parte agricola ma dal combinato disposto tra lo strapotere della Gdo e la frantumazione dell’offerta agricola. Una competitività, va precisato, al ribasso perché tutti – dalle catene della Gdo alle associazioni dei consumatori – vogliono che frutta e verdura costino poco. Infatti, appena i prezzi salgono, tutti strillano. Poi, seconda osservazione, il fenomeno del lavoro nero nelle campagne era sotto gli occhi di tutti, da anni. Non lo vedeva solo chi non lo voleva vedere. Adesso ci sono scappati i morti e la tv soffia sul fuoco, quindi si interviene. Però aldilà delle misure repressive, “di polizia” ci sono alcuni rischi da evidenziare. Che le misure proposte non si tramutino in nuovi aggravi burocratici, perché quelli che ci sono già bastano e avanzano. La Cia parla di tracciabilità etica dei prodotti, con tanto di etichetta dove rendere pubblici i prezzi all’origine dei prodotti. “Senza una giusta remunerazione del prodotto agricolo – dice la Cia - non ci può essere sostenibilità né ambientale, né economica né sociale dell’agricoltura. E’ dimostrato come la corsa al ribasso dei prezzi non giovi proprio a nessun comparto, anche la Grande distribuzione non trae alcun beneficio da tale fenomeno”. L’idea è buona, non so quanto realizzabile, se non su base volontaria. Il tema dei prezzi è strettamente connesso al tema del lavoro nero e decisivo se vogliamo davvero debellare il fenomeno. Sapere che il chilo di patate che sto comprando a più di un euro è stato pagato in campagna 0,15 al produttore fa riflettere il consumatore sulle storture del mercato agroalimentare nazionale e rende evidente che c’è un sistema che non funziona. Poi tra adesione alla rete del lavoro di qualità e certificazioni etiche, bisogna evitare di caricare di nuovi balzelli e adempimenti le imprese perché poi va a finire come con le certificazioni di qualità, che alle imprese costano e poi non creano neppure un centesimo di valore aggiunto al prodotto. Infine ci sarebbe un modo infallibile per combattere il lavoro nero: meno burocrazia; più flessibilità, regole e forme contrattuali trasparenti e chiare per normare soprattutto le grandi campagne di raccolta; alleggerire i balzelli e gli oneri sul costo del lavoro, tra i più alti d’Europa. In sintesi venire incontro e agevolare il lavoro delle imprese e magari premiare le aziende virtuose con vantaggi fiscali e contributivi. Ma queste misure, dettate dal semplice buon senso, sicuramente non si faranno. Indovinate perché. Da: Corriere Ortofrutticolo,31/08/2015
Commenti. Domenico Oriolo - inserito il 04/09/2015.
Egregio Dott. Lorenzo Frassoldati, vorrei innanzitutto congratularmi con Lei per le osservazioni finalmente serie fatte in riferimento al fenomeno del caporalato in agricoltura. Quando parla delle storture della filiera in riferimento alla frammentazione dell'offerta e allo strapotere della GDO, non fa altro che centrare il principale motivo per il quale il lavoro nero trionfa, ovvero la scarsa redditività delle aziende agricole costrette a far quadrare i conti in virtù dei prezzi sempre poco remunerativi dei propri prodotti. Quando sento parlare da parte di alcune importanti responsabili della GDO del rispetto da parte dei fornitori del "Progetto Etico (COOP Italia ad es ) mi chiedo se è altrettanto etico vendere sottocosto o a prezzi irrisori la frutta o la verdura nei loro punti vendita. Il fenomeno del caporalato diventa un problema serio quando vi è sfruttamento del lavoratore. Tuttavia se fossero regolarizzati avrebbero una funzione molto importante, in quanto catalizzatori di manodopera organizzata prestata all'azienda agricola giusto il tempo necessario (avvolte pochi giorni) come succede spesso nella realtà. I burocrati non sanno come sia difficile oltre che impossibile per un'azienda agricola assumere 30/40 persone per pochi giorni (il tempo necessario per espletare una operazione colturale quale la raccolta ad esempio) e poi comunicare alle stesse persone che il lavoro è finito. Ma questo può capirlo solo chi vive il problema, per questo dico senza essere frainteso che il "caporalato regolarizzato" ha una funzione molto importante nella realtà agricola italiana. Mi rendo conto che il problema del caporalato meriterebbe una analisi molto più approfondita, ma mi creda sono stufo di sentire parlare gente che non ha mai messo piede in campagna e non conosce i problemi reali della agricoltura, e mi fa rabbia che tutti ne parlano tranne i reali protagonisti del problema. Con stima Dr Domenico Oriolo
"Ma lasciate stare i caporali sono la nostra fortuna". Coraggiosa intervista di Valentino Sgaramella ad Angelo Lamanna giovedì 30 marzo 2017 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Intervista che non troverete mai sul web e rilasciata da chi fa e lavora e non parla e specula sulla pelle dei contribuenti.
“Il caporale ha inventato l’agenzia interinale un secolo prima che lo facessero i nostri ministri. Il caporale fa la mediazione tra datore di lavoro e lavoratori. Non schiavizza nessuno.” Angelo Lamanna è un omone di un metro e 80 centimetri, la testa completamente calva. Ha un’azienda floro-vivaistica che fattura circa 200mila euro l’anno. Accetta di parlare con noi all’ora di pranzo.
Chi è il caporale?
“Non è uno schiavista. Questo è ciò che la propaganda ufficiale vuol farci credere. Il caporale offre un servizio, è un intermediario.”
Lei ricorda Paola Clemente, la bracciante agricola di San Giorgio Jonico morta per un infarto sotto un tendone dopo un’illecita intermediazione?
“Se lei mi dice che ci sono dei mascalzoni, le dico che ci sono”.
Come lavora un caporale?
“Poniamo il caso che io sia un imprenditore agricolo e devo raccogliere le olive o le ciliegie. Domattina avrò bisogno di 20 persone. Telefono al caporale e gli dico che domani deve portarmi 20 operai. Il caporale domattina si presenta con la manodopera. Poniamo il caso, invece, che domani ci sia pioggia. Allora non avrò bisogno di 20 operai, ma di appena 5, perché 15 sono di troppo e dovrei pagarli per far nulla. Il caporale me ne porterà cinque.”
Come avviene il pagamento di questa intermediazione?
Il caporale si mette d’accordo con i lavoratori e col datore di lavoro che, in cambio del lavoro che il caporale gli procaccia, paga una provvigione. Tenga conto che il caporale con un pulmino la mattina si reca a casa di ciascun operaio e accompagna tutti sul luogo di lavoro e viceversa. Secondo lei un operaio si sposta da solo da Villa Castelli, dove risiede, a Corato?”
E’ imminente l’inizio della raccolta delle ciliegie, presumibilmente il ricorso agli intermediari…
“Accade di più. Trovare operai capaci di raccogliere le ciliegie è ancora più difficile e costoso. Prima di tutto perché dura poco e poi perché bisogna avere una manualità che è sempre più rara. Ai nostri giovani non piace raccogliere ciliegie ed olive. Non si spiega diversamente la presenza di tutti questi stranieri nelle campagne”.
Quanto costa un operaio ingaggiato così?
“Specie per la raccolta dell’uva e delle ciliegie un operaio molto difficilmente mette meno di 50 euro al giorno in tasca. Bisogna aggiungere le spese per il foglio d’ingaggio che nelle nostre zone incide per 12 euro circa”.
Se non conviene sul piano economico perché non avvalersi delle forme legali per la ricerca di manodopera?
“Non esiste un’agenzia di collocamento che mi prende il personale da Salice Salentino e me lo porta a Monopoli. Non c’è. Il caporale non va colpevolizzato, né giustificato. Il caporalato va fatto emergere alla luce del sole e regolamentato”.
Perché allora le istituzioni, la magistratura, l’opinione pubblica sono così attente al fenomeno?
“E con chi dovrebbero prendersela? Con il lavoratore non possono. Allora va colpevolizzato il datore di lavoro od il caporale. L’anello debole della catena è proprio il caporale perché conta di meno. Anche perché è l’unica figura non prevista dalla legge. Dagli all’untore. Il caporale, però, spesso e volentieri è un lavoratore che fa l’intermediario, ma è egli stesso dipendente dell’azienda e non fa altro che arrotondare la propria paga.”
Mi sta dicendo che è lo stesso imprenditore che incoraggia ed organizza il caporalato?
“L’Imprenditore non fa altro che chiamare un caporale perché gli procuri manodopera”.
Insomma, siamo tornati a vendere le braccia ai margini delle piazze?
“Stiamo scherzando? Ma cosa si vende? Vendiamo esseri umani? Non diciamo corbellerie. Pensi che nelle piccole aziende noi facciamo i testimoni di nozze ai giovani operai che si sposano e dopo siamo i padrini alle cresime dei figli. Li aiutiamo ad acquistare una casa e vengono a dirci che compriamo le braccia?”
Lei usufruisce dei servizi di un caporale?
“Quando è necessario sì. I miei dipendenti sono stagionali perché ci sono tempi morti durante l’anno in cui non si produce nulla”.
Insomma è un fenomeno irrisolvibile?
“C’è un modo. Bisogna regolarizzare i caporali e che con una legge prevede la figura dell’intermediazione agricola e dotare tutti tessera magnetica, per cui l’operaio fa una strisciata nell’apparecchio apposito collegato con gli uffici del lavoro. Non abbiamo bisogno di camere del lavoro o di associazioni di categoria o agenzie interinali.”
Quindi problemi non ce ne sono ed in agricoltura va tutto bene?
“Scherza? Noi abbiamo una classe dirigente assolutamente incompetente. Tutti i governanti dai Comuni fino al governo nazionale. Non sanno nulla del mondo agricolo. Lo stesso dicasi per le nostre associazioni di categoria. Dovrebbero trasformare l’agricoltura in un settore strategico che deve prescindere dalle regole di mercato.”
Dimentica che in Europa ci sono regole da rispettare?
“L’altra sera il signor Farinetti di Eataly ha detto in tv che il miglior grano è quello americano e che lo usa per fare la pasta ed il Ministro dell’Agricoltura Martina assentiva col capo. In una manciata di secondi hanno distrutto l’immagine della cerealicoltura italiana. Oggi i nostri produttori di grano vendono grano al prezzo di 40 anni fa. Nessuna associazione di categoria si è lamentata per quanto detto in tv.”
PARLIAMO DI CAPORALATO.
Un certo tipo di stampa partigiana e razzista cerca di inculcare l’idea che il Caporalato nasce e si sviluppa al sud. Ed ecco, allora, delle inchieste ad effetto.
Sono italiane le nuove schiave dei campi. Più affidabili, ma soprattutto più ricattabili e più facili da piegare alla volontà dei caporali: per questo chi controlla il mercato del lavoro agricolo preferisce le connazionali. Nella sola Puglia, secondo i dati della Cgil, circa 40mila braccianti sono gravemente sfruttate con paghe che non superano i 30 euro per 10 ore trascorse a raccogliere fragole o uva. "Non vogliono più stranieri perché loro si ribellano e noi no", scrive Raffaella Cosentino e Valeria Teodino su “La Repubblica”.
Così metà paga finisce al caporale, scrive Raffaella Cosentino. Alle tre di notte le donne del Brindisino e del Tarantino sono già in strada. Indossano gli abiti da lavoro e hanno in mano un sacchetto di plastica con un panino. Nei punti di raccolta, agli angoli delle piazze, alle stazioni di benzina, aspettano il caporale che viene a prenderle con l'autobus gran turismo per portarle sui campi, dove lavorano sfruttate e ricattate, a volte anche con la richiesta di prestazioni sessuali. Sono soprattutto italiane, più affidabili, ma soprattutto più "mansuete" delle lavoratrici straniere, protagoniste in passato di proteste e denunce. Per costringere le italiane al silenzio non servono violenze fisiche. Basta la minaccia "domani resti a casa". "I proprietari dei pullman sono i caporali. È a loro che ci rivolgiamo per trovare lavoro in campagna o nei magazzini che confezionano la frutta", racconta Maria, nome di fantasia, che ha 24 anni e lavora sotto i caporali da quando ne aveva 16. Secondo le stime del sindacato Flai Cgil, sono 40mila le braccianti pugliesi vittime dei caporali italiani, che in molti casi hanno comprato licenze come agenzie di viaggio, riuscendo così ad aggirare i controlli. "Nei paesi ci sono delle persone, generalmente sono delle donne, che fanno da tramite tra chi vuole lavorare e il caporale. Raccolgono i nominativi per lui - racconta Antonietta di Grottaglie - Il caporale decide dove mandare a lavorare le braccianti e quello che deve essere dato come salario. Cercano di non avere uomini, anche per i lavori pesanti, perché le donne si possono assoggettare più facilmente". Antonio, altro nome di fantasia, è ancora più esplicito: "Non vogliono stranieri, il motivo è che loro si ribellano e gli italiani no: ci sentiamo gli schiavi del terzo millennio, ci hanno tolto la dignità". "La donna si presta di più a un lavoro piegato di tante ore - spiega un produttore agricolo che assume circa 60 operaie nelle sue serre di Scanzano Jonico - Io ho quasi tutte italiane, andiamo a prendere la manodopera in Puglia, perché quella locale non basta. In tutta Scanzano esistono 600 ettari di coltivazioni di fragole. A 6 donne a ettaro fanno 3600 braccianti donne". Ci sono rumeni che si propongono per la raccolta, ma non vengono quasi mai presi in considerazione. "La fragola è molto delicata - dice Teresa - facilmente si macchia e diventa invendibile, per questo servono le donne a raccoglierla nelle serre, con la temperatura che raggiunge i 40 gradi". Tra Scanzano, Pisticci e Policoro si produce la fragola Candonga, brevettata in Spagna e diventata un'eccellenza molto apprezzata sul mercato perché è più grande e ha una lunga durata. Spesso vengono "trattate" con ormoni come la gibberellina, come vediamo dalle scritte sui tendoni "campo avvelenato". Da aprile a settembre centinaia di grossi pullman si spostano carichi di lavoratrici tra le province di Brindisi, Taranto e Bari per la stagione delle fragole, delle ciliegie e dell'uva da tavola. Grottaglie, Francavilla Fontana, Villa Castelli, Monteiasi, Carosino, sono solo alcuni dei nomi della geografia del caporalato italiano che sfrutta le donne. Il nome del caporale è scritto in grande, stampato sulla fiancata dei bus, insieme al numero di cellulare. "È per questo che nessuno li ferma", dice Teresa, altro nome di fantasia. Il potere del caporale si misura dal numero di pullman che possiede, perché questo è indice anche della quantità di lavoratori che riesce a controllare. Si va dalle cinquanta alle oltre 200 persone. Il caporale prende dall'azienda circa 10 euro a donna e sui grandi numeri guadagna migliaia di euro a giornata. "Nel magazzino per il confezionamento dell'uva da tavola dove lavoro ci sono mille operaie italiane, portate lì da più di dieci caporali diversi", racconta Antonio, bracciante della provincia di Taranto. In questi giorni i pullman percorrono quasi cento chilometri, dalla Puglia fino alle aziende agricole che producono fragole nel Metapontino, tra Pisticci, Policoro e Scanzano Jonico, in provincia di Matera. Questi proprietari conferiscono il prodotto a dei consorzi di commercianti con sede nel nord Italia che hanno magazzini in loco. L'intermediario prende una percentuale variabile, almeno del 2%, poi si aggiungono i costi delle cassette e la tariffa del 12% pagata al "posteggiante", il personaggio che la espone in vendita ai mercati generali. Alla fine si arriva a un prezzo al consumatore anche di 7 euro al chilo nei supermercati di Milano. Gli orari di lavoro e la paga variano a seconda del tipo di raccolta. Ma la regola sono impieghi massacranti e sottosalario. Alle fragole si lavora per sette ore, ma se sono mature e vanno raccolte subito si arriva anche a 10 ore. Nei magazzini di confezionamento si arriva anche a 15 ore. Ogni donna deve raccogliere una pedana di uva pari a 8 quintali. Se ci mette più tempo la paga resta uguale, per cui alla fine il salario reale è meno di 4 euro l'ora. "C'è il pregiudizio che le donne iscritte negli elenchi agricoli siano false braccianti - spiega Giuseppe Deleonardis, segretario della Flai Cgil Puglia - invece vivono una condizione di sfruttamento pari agli immigrati. Nel sottosalario, a parità di mansioni con gli uomini, c'è un'ulteriore differenza retributiva: se la paga provinciale sarebbe di 54 euro e all'uomo ne danno in realtà 35, la donna non va oltre 27 euro". Il salario ufficiale è di 50-60 euro. Ma vengono segnate la metà delle giornate di lavoro effettivamente lavorate. Le braccianti vengono costrette a firmare buste paga che rispettano i contratti, perché le aziende hanno bisogno di dimostrare che sono in regola per poter accedere ai finanziamenti pubblici. Di fatto continuano a pagare un terzo o al massimo la metà del salario dovuto, richiedendo indietro i soldi conteggiati in busta paga. "In provincia di Taranto, con inquadramento minimo, posso avere una busta paga ufficiale di 47 euro lordi, però in realtà me ne arrivano 27, massimo 28 a giornata - racconta Antonietta - L'azienda ci dà il foglio di assunzione, noi dobbiamo portarlo con noi tutti i giorni nel caso ci dovesse essere un controllo. L'autista del pullman risulta essere un dipendente dell'agenzia di viaggio". I datori di lavoro mettono la paga del caporale sull'assegno che percepiscono le lavoratrici, le quali riscuotono e danno al caporale la sua parte in nero. Nei campi italiani succede di tutto, approfittando della disperazione e della crisi economica. C'è chi aspira a diventare una "fissa" della squadra del caporale come se fosse una specie di nota di merito in graduatoria. Chi subisce molestie sessuali o la richiesta di prostituirsi per poter lavorare. Ci sono donne caporali che sono anche proprietarie di pullman. Ma la figura più ambigua è quella che tutti chiamano "la fattora", una sorta di kapò al femminile con una funzione di ricatto. È lei la persona di fiducia del caporale che controlla le lavoratrici sul campo. "Il suo ruolo è di subordinare psicologicamente le braccianti, garantendo loro assunzioni se rinunciano ai diritti", spiega Deleonardis. "Alla minima protesta, rimostranza o insubordinazione si resta a casa per punizione - dice Teresa - Anche se ti lamenti perché non vuoi viaggiare nel cofano del pulmino". Emerge il quadro di un sistema di produzione basato su ricatti, soprusi, omertà e conoscenza personale. "Non ho mai visto un pullman essere fermato da una pattuglia della polizia, anche se ne incontriamo molte", continua Antonio. Secondo Deleonardis questo è un sistema di caporalato legalizzato. "È una situazione conosciuta da tutti sul territorio. Qui c'è una tolleranza di un sistema di illegalità, non si vuole colpire il caporalato - dice il sindacalista - Abbiamo chiesto al prefetto di Taranto di fare dei controlli, ma possibile che non ci sia mai una verifica se i pullman hanno le autorizzazioni a trasportare persone e in quali aziende vanno?". I dati ufficiali del ministero del Lavoro dicono che ci sono state 1818 ispezioni in Puglia in tutto il 2014. Quelle che hanno riscontrato irregolarità sono state 925, circa il 50%, per un totale di 1299 lavoratori coinvolti, pari a 1,4 lavoratori ad azienda. Un numero davvero esiguo se paragonato ai datori di lavoro che assumono anche mille braccianti per volta servendosi dei caporali.
Sessantamila sfruttate in tre regioni, scrive Valeria Teodino. Amina indossa un vestito leggero e scarpe sporche di terra. Ha 25 anni, ma ne dimostra dieci di più. È diventata mamma sei mesi fa e ha lasciato il suo bambino in Romania per venire a lavorare in Italia. La pelle cotta dal sole, gli occhi grandi e scuri. E gonfi di paura. Li tiene bassi, incollati al pavimento. Sta raccontando a due operatrici della Caritas di Foggia che è appena scappata, che l'hanno costretta a stare piegata sui campi dei padroni italiani dall'alba alle dieci di sera, che non l'hanno mai pagata, che le hanno preso i documenti. E che per riprenderseli, e andarsene, è stata costretta ad avere dei rapporti sessuali con il suo caporale romeno. Adesso non ha neanche i soldi per il biglietto dell'autobus. Il fenomeno del caporalato in Italia è una piaga sempre più profonda. E la novità è che negli ultimi due anni c'è stato un aumento costante della manodopera femminile: donne ghettizzate, violentate e sfruttate che vanno lentamente a sostituire i braccianti di sesso maschile: oggi - dicono i dati che sta raccogliendo la Flai Cgil e che pubblichiamo in anteprima - le straniere schiavizzate in agricoltura sono 15mila (contro i 5mila uomini). Sono quasi sempre giovani mamme, ricattabili proprio perché hanno figli piccoli da mantenere. Un dato impressionante, che si somma ad un altro elemento preoccupante: il numero sempre crescente delle lavoratrici italiane, che, se non schiavizzate, sono comunque gravemente sfruttate: sempre secondo le stime del sindacato, in Campania, Puglia e Sicilia, le tre regioni a maggiore vocazione agricola, sono almeno 60mila, in proporzione crescente rispetto alle straniere. Vengono pagate 3-4 euro l'ora, ma anche meno in alcuni territori, e costrette a turni massacranti. Ad Amina hanno raccontato che tutti i soldi guadagnati in un mese servono per pagare il viaggio, gli spostamenti, l'acqua, il vitto. E che, anzi, è lei ad essere in debito. E che deve continuare a lavorare fino a quando non sarà saldato. Altrimenti niente paga e niente documenti. "Fai quello che ti diciamo, oppure ti ammazziamo". Si è dovuta anche prostituire in cambio della libertà. Molte altre restano a spezzarsi la schiena fino a 14 ore al giorno, cercando in tutti i modi di portare qualcosa a casa a fine stagione. Hanno bambini piccoli e un bisogno disperato di soldi. E tornare a mani vuote non è pensabile. Anche se le condizioni sono disumane. Restano per l'estate o anche solo per qualche settimana, e poi se ne vanno. Rientrano in Italia dopo qualche mese o l'anno successivo. Quando va bene e hanno saldato il "debito" (i caporali trattengono soldi anche per l'affitto delle baracche dove le fanno dormire), vengono pagate 3 euro l'ora come gli uomini schiavizzati, ma spesso anche meno. Vengono preferite alla manodopera maschile proprio perché non si ribellano e sottostanno a tutto, anche ai ricatti sessuali. Una pratica frequente in Puglia, nel Brindisino e nel Tarantino, e in Campania, nel Casertano. E in Sicilia, in particolare nella provincia di Ragusa, dove è stato documentato il caso di donne romene “vendute” dai caporali ai padroni italiani, con cui vengono costrette ad avere rapporti sessuali, anche nel corso di festini a cui partecipano diversi uomini. I caporali che operano in Puglia vanno a reclutare le ragazze soprattutto nelle zone agricole della Romania, nelle campagne intorno a Timisoara o a Iasi, zona al confine con la Moldavia. Le imbarcano su pullman da 50 posti. Il viaggio dura un giorno e una notte. "Organizzano viaggi verso il sud Italia - racconta Concetta Notarangelo, coordinatrice del progetto Caritas in Puglia - ma sappiamo per certo che arrivano anche in Emilia Romagna. Ma nessuno ha il coraggio di denunciare. Qui non si tratta di caporali e basta, si tratta di organizzazioni criminali. Malavita. Il caporale è solo un anello della catena. Gli annunci per questi lavori escono addirittura su un giornale romeno. Non è solo un passaparola. E le donne hanno paura. Ma senza denunce nessuno viene punito. In tre anni che seguo il progetto Caritas abbiamo raccolto in tutto 15 denunce. E poi è comunque difficile provare il reato, ci sono alcuni processi in corso, ma per ora nessuna condanna". In Campania ad essere schiavizzate sono le donne africane. "Se non accettano di avere rapporti sessuali con il datore di lavoro (quasi sempre italiano, ndr) non vengono pagate - spiega Cinzia Massa, responsabile immigrazione Flai Campania - Non hanno permesso di soggiorno, ed essendo clandestine sono le più ricattabili". Secondo i dati della Flai Cgil solo in Puglia sono tra le 30 e le 40mila le donne gravemente sottopagate, a cui vanno aggiunte diverse altre migliaia in Campania e in Sicilia. A volte partono alle tre di notte e tornano a casa di pomeriggio. I caporali intascano 12 euro per ogni donna che hanno "procurato". Anche se hanno un regolare contratto, vengono pagate 20-25 euro al giorno. Mentre sulla busta paga ne risultano 45. Succede soprattutto nel Casertano e nel Salernitano. "Mentre lavorano - denuncia ancora il sindacato - le donne vengono controllate da un guardiano, che grida continuamente di non distrarsi e di essere più veloci. Per andare in bagno hanno 10 minuti a turno. E se qualcuna si rifiuta di andare sui campi in un giorno di festa, come il 15 agosto, viene 'punita': per qualche giorno non la fanno lavorare". E se una ragazza è considerata troppo ribelle non viene scelta. Le donne selezionate vengono caricate sui furgoni o ammassate - anche in 30 - in camion telonati. Per questo trasporto bestiame ogni lavoratrice paga fino a 7 euro a viaggio. Gli addetti all'agricoltura in Italia sono un milione e 200 mila. Nel 43 per cento dei casi - è il dato dell'Istat - si tratta di lavoro sommerso. E il giro d'affari legato al business delle agromafie, secondo le stime della Direzione nazionale antimafia, è di 12,5 miliardi di euro all'anno. "Il caporalato - spiega Stefania Crogi, segretario generale Flai Cgil nazionale - è stato riconosciuto come reato penale solo nell'agosto 2011, ed è punibile con l'arresto da 5 a 8 anni. Prima era prevista solo una sanzione pecuniaria. Ma non sempre si riesce a provarlo, anche a causa delle difficoltà che incontrano le vittime nel denunciare. Serve un percorso di protezione". Amina è alla Caritas di Foggia. Ha fatto 50 chilometri a piedi per arrivarci. Ora è seduta davanti a Concetta e le chiede i soldi per l'autobus. Ma quando le chiedono di denunciare i suoi sfruttatori, finalmente alza lo sguardo dal pavimento, gli occhi scuri fissano quell'italiana che vorrebbe aiutarla. Forse pensa a suo figlio, e all'uomo che le ha rubato tutto quello che poteva. Si alza. E scappa via.
Ci manca il coraggio del camerunense Sagnet, scrive Raffaella Cosentino. A pochi giorni dall'apertura dell'Expo le Ong del commercio etico di Norvegia e Danimarca hanno scritto al governo Renzi una lettera aperta chiedendo di agire contro il caporalato ed esprimendo la preoccupazione dei consumatori dei loro paesi per l'illegalità che vige nel sistema di produzione agricolo italiano. Si rischia il boicottaggio dei prodotti italiani a causa dello sfruttamento dei braccianti, italiani e stranieri. Dal 2011 il caporalato è un reato penale sulla carta. Ma si fatica ad applicare la legge, a vedere i caporali dietro le sbarre e a punire le aziende agricole che si servono di loro. I processi sono lunghi e dall'esito incerto. Questa mancanza di giustizia rafforza la tendenza all'assuefazione a un sistema di soprusi da parte dei lavoratori, soprattutto di quelli italiani. Se il caporalato è diventato un reato penale lo si deve allo sciopero dei braccianti africani di Nardò che nell'estate del 2011 rifiutarono di obbedire all'ennesimo ordine del caporale che chiedeva un supplemento di lavoro sui pomodori per la stessa paga di 3 euro e 50 centesimi a cassone. Una protesta spontanea, guidata dal giovane camerunense Yvan Sagnet, oggi sindacalista in quelle stesse terre con la Flai Cgil e minacciato di morte per le sue denunce. Il processo "Sabr" che vede Sagnet e altri braccianti testimoni al tribunale di Lecce contro imputati italiani e stranieri, accusati di essere i caporali e i mandanti dello sfruttamento, è ancora in corso. La Regione Puglia e la Cgil si sono costituite parte civile, mentre il comune di Nardò ha rifiutato di farlo, una spia della difficoltà ad affrontare questo problema sul territorio. "La protesta era sacrosanta perché le condizioni di lavoro degli stagionali non erano coerenti con le nostre leggi e neppure con i principi di civiltà", ammette il sindaco e avvocato Marcello Risi. Secondo il primo cittadino però, grazie ai controlli degli ispettori del lavoro, il caporalato "si è di molto ridimensionato ed è diventato residuale". Eppure basta andare d'estate a Nardò per vedere le tendopoli in cui alloggiano i migranti sfruttati e i ruderi in cui sono costretti a vivere gli altri, sottomessi ai caporali. "Non ci siamo costituiti parte civile perché il processo è fondato su intercettazioni e indagini effettuate quando il reato non esisteva", spiega Risi. Insomma, sul territorio ci si aspetta che i datori di lavoro locali coinvolti nel processo, come i Latino, vengano assolti. Il Comune non si costituisce parte civile in un processo simbolo perché, afferma Risi, "per l'amministrazione comunale di Nardò la costituzione repubblicana è il simbolo più alto di tutti". Anche a Rosarno, cittadina calabrese teatro della famosa rivolta dei braccianti africani che nel 2010 si ribellarono alla 'ndrangheta e allo schiavismo, le istituzioni non hanno pensato di costituirsi parte civile nel processo contro Antonio Pititto, condannato a 13 anni e 10 mesi di carcere in primo grado per avere ridotto in schiavitù il ghanese Joseph Biribi. Dopo essere fuggito durante gli scontri, Biribi ha denunciato il suo schiavista. L'unica a costituirsi parte civile è stata l'associazione anti-tratta abruzzese "On the road" che ha dato assistenza legale al bracciante. Biribi era costretto a vivere in un rudere distante diversi chilometri dal paese di Cessaniti (VV), insieme agli animali del 'padrone', senza bagno, energia elettrica e senza copertura, per cui quando pioveva lui dormiva sotto l'acqua. Lavorava con orari massacranti, sette giorni su sette, accudendo le pecore, raccogliendo arance e mandarini, con una paga pattuita di 20 euro al giorno in nero. Parte del lavoro non gli fu pagato e Pititto gli consegnò anche 100 euro falsi come salario. Biribi era costretto a lavarsi con l'acqua avanzata dall'abbeveraggio degli animali, gli era vietato usare la bombola del gas per scaldarsi. I giudici hanno stabilito che c'è stato sfruttamento mediante violenza, inganno e approfittandosi della situazione di necessità del lavoratore. Pititto arrivò a picchiare e ferire Biribi con un pezzo di legno in testa perché non obbediva al suo ordine di gettare via il cellulare che squillava durante il lavoro e che era il suo unico mezzo di collegamento con il resto del mondo. Dopo due anni, quando le forze dell'ordine andarono a fare accertamenti sul datore di lavoro calabrese, trovarono altri lavoratori stranieri segregati nello stesso rudere e ridotti alla fame, costretti a mangiare gli avanzi dei cani di Pititto. Il processo di appello è previsto per il 9 giugno in Corte d'Assise d'Appello a Reggio Calabria.
Il ruolo ambiguo delle agenzie interinali, scrive Raffaella Cosentino. "Il nome Quanta l'ho letto solo sulle buste paga e sui Cud che arrivano a casa. Ma io non mi sono mai rivolta all'agenzia interinale, lavoravo sempre e solo con il solito caporale". È la testimonianza di Maria, lavoratrice di Brindisi impiegata nelle raccolte agricole stagionali attraverso l'agenzia interinale Quanta di Rutigliano, in provincia di Bari. Sono migliaia le storie come la sua. Per mascherare di legalità il caporalato, l'intermediazione illecita avveniva usando la filiale barese di un'importante agenzia di somministrazione del lavoro. "Non solo l'uso di caporali ma anche falsi part time, sottosalario ed evasione - spiega il segretario della Flai Cgil Puglia Giuseppe Deleonardis - Abbiamo fatto le segnalazioni ai carabinieri e all'Inps e sono scattate le ispezioni e le sanzioni". Quanta ha azzerato il gruppo dirigente locale e ha avuto penali di "centinaia di migliaia di euro". Il 23 aprile ha firmato un protocollo d'intesa con i sindacati (Cgil, Cisl e Uil) per contrastare il caporalato. Nel documento c'è scritto che si ricorrerà a liste di prenotazione e che "sarà garantito gratuitamente e secondo quanto previsto da contratto, il trasporto per il raggiungimento del posto di lavoro". Vincenzo Mattina, vice presidente del gruppo Quanta, ex sindacalista ed ex parlamentare italiano ed europeo con i socialisti, conferma che la filiale di Rutigliano è stata "commissariata" e che le sanzioni dall'Inps sono state pari a "parecchie centinaia di migliaia di euro". A suo avviso la responsabilità è interamente dei due ex responsabili della sede barese che sono stati licenziati. Il vice presidente li definisce "dipendenti infedeli" che hanno avuto "comportamenti anomali". "Non avevamo nessuna percezione che potessero essere usati caporali", spiega Mattina elencando le contromisure prese dal gruppo: filiale commissariata, ravvedimento all'Inps, pagamento delle sanzioni, regolarizzazione dei lavoratori che avevano avuto trattamenti inadeguati, esclusione dai clienti delle aziende colluse con i dipendenti infedeli, accordo con i sindacati per una condotta legale. "Questi due dipendenti - precisa ancora il vice presidente di Quanta - per semplificarsi la vita si facevano fare le squadre dai caporali, non posso definirli altrimenti, invece la nostra presenza doveva servire a regolarizzare situazioni off limits". "Da questa vicenda abbiamo avuto solo danni - continua Mattina - delle migliaia di lavoratori coinvolti, nessuno ci aveva segnalato una qualsiasi anomalia e forse questo ha determinato una falla nei nostri sistemi di controllo. Si è scoperto che i caporali sono proprietari di pullman, ma per questo devono avere delle autorizzazioni, è strano che queste persone siano tutte immacolate e abbiano potuto avere le licenze".
REGIONE CHE VAI, CAPORALATO CHE TROVI.
Ad informarsi bene, però, si scopre che il Caporalato è un fenomeno nazionale.
Utilizzavano 2.100 lavoratori irregolari: cooperative nei guai. Torna il «caporalato», scrive “Il Giornale”. Si servivano della manodopera di oltre 2.100 lavoratori irregolari, per fornire servizi di catering e facchinaggio in occasione di sfilate di moda, concerti, fiere ed importanti eventi sportivi nel Nord Italia e all'estero, rendendosi responsabili di un'evasione fiscale da 70 milioni di euro. Per questo sono state denunciate dalla Guardia di finanza di Gallarate (Varese) 14 persone, tra prestanome e amministratori di nove cooperative con sede a Milano tutte riconducibili a figure leader del settore del catering e del reclutamento di personale per lavori occasionali. Nell'ambito dell'inchiesta, coordinata dalle Procure di Busto Arsizio e Milano, sono stati sequestrati alle società immobili, gioielli, auto, denaro e quote societarie per un valore di circa 3,5 milioni di euro. Secondo quanto è emerso dalle indagini, partite anche grazie a un articolo pubblicato su un giornale locale, le cooperative si servivano di referenti sul territorio che reclutavano persone in difficili condizioni economiche da impiegare in nero come camerieri o facchini. I «caporali» trattenevano una parte dei loro compensi, pari a circa due euro su uno stipendio medio di 12 euro all'ora, e pretendevano dai lavoratori denaro in cambio dell'impegno a richiamarli. È risultato che le cooperative avrebbero sottratto al fisco oltre 70 milioni di euro, tra basi imponibili, Iva e ritenute non versate ai dipendenti. Le persone denunciate sono accusate di reati fiscali, riciclaggio e intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro.
Cinque euro l’ora, benvenuti nel caporalato al Nord. Lo chiamano “caporalato a squillo”. Si sta seduti a casa ad aspettare che qualcuno ti faccia lavorare. È il sistema brevettato dalle cooperative di facchinaggio “spurie” (cioè fasulle) che in Emilia vengono utilizzate nella macellazione o nei trasporti, mentre in Lombardia nel settore dell’edilizia ci sono le finte partite Iva di imprese individuali di stranieri dell’est. In tasca a questi lavoratori entrano circa 5 euro l'euro, scrive Laura Galesi su “L’Inkiesta”. Lo chiamano “caporalato a squillo”, vittime sono gli immigrati che lavorano nelle aziende di macellazione emiliane. Siamo in provincia di Modena, nel cosiddetto triangolo del maiale tra Vignola, Castelnuovo e Spilamberto. «Qui» spiega Umberto Franciosi della Flai Cgil di Modena «non emergono fatti eclatanti come quelli che sono accaduti a Rosarno, ma la presenza della mafia si manifesta anche attraverso il lavoro nero e il nuovo caporalato». Non è indenne la rossa Emilia dal lavoro nero nel settore agroalimentare e in quello della macellazione delle carni, dove i rinomati prodotti di eccellenza celano sfruttamento e lavoro nero. Il ciclo lavorativo parte più o meno la sera. Un sms, avvisa i lavoratori migranti della prossima destinazione di lavoro. È così, anziché morire dal freddo alle quattro del mattino nelle piazze dei paesi ad aspettare il caporale, si sta seduti a casa ad aspettare che qualcuno ti faccia lavorare. È il sistema brevettato dalle cooperative di facchinaggio “spurie” (cioè fasulle) che in Emilia vengono utilizzate nella macellazione o nei trasporti, mentre in Lombardia nel settore dell’edilizia ci sono le finte partite iva di imprese individuali di stranieri dell’est. Le cooperative di “facchinaggio” nella macellazione. Juan ,36 anni boliviano è stato uno dei primi a denunciare, alla procura di Lodi, i meccanismi malati delle cooperative di facchinaggio. «Ho girato diverse cooperative». La situazione era sempre la stessa. Nell’ultima «non mi hanno mai consegnato il contratto di assunzione». Ma il quindici di ogni mese un caporale pagava in contanti una busta paga a zero ore. In provincia di Modena, Samir, 29 anni, lavora in un’azienda di macellazione ed è socio lavoratore di una cooperativa fasulla. Taglia le cosce di maiale per fare i salumi, ma il suo dovrebbe essere lavoro di facchinaggio. Si tratta di un nuovo caporalato che si sviluppa attraverso le cooperative cosiddette “spurie” con un abbattimento dei costi di 12 euro l’ora ad operaio. Somministrazione del lavoro, si affrettano a denunciare dagli uffici provinciali del lavoro, che possono svolgere solo le agenzie preposte. Ma sotto l’ombra di cooperative si nascondono vere e proprie “aziende dello sfruttamento”. I soci di una cooperativa, per legge, quantomeno dovrebbero essere a conoscenza dello statuto e delle scelte. In realtà i migranti, spesso costretti a diventare soci delle stesse cooperative, sono veri e propri dipendenti subordinati a un datore di lavoro. All’agenzia interinale si sostituiscono società che, infrangendo la legge “affittano” i propri lavoratori ad altre aziende. Spesso, come accade in provincia di Modena, sono costretti a svolgere mansioni molto diverse rispetto a quelle previste per le cooperative di facchinaggio. Si tratta di una sorta di esternalizzazione delle attività produttive. Secondo i dati di Union Camere in Italia ci sono 151 mila cooperative che «resistono alla crisi». Sicilia e Lazio sono le regioni italiane a più alta presenza, ma crescono del 2 per cento in Lombardia, per un totale di un milione e 400 mila impiegati in diversi settori. «E’ una filiera viziata» spiega ancora Umberto Franciosi. «I migranti sono costretti a fare parte di cooperative delle quali sono soci, anche versando solo un euro. Si tratta di una forma anomala di cooperativa, perché i soci non partecipano alle assemblee sociali e non hanno il contratto specifico, ma sono inquadrati come lavoratori che si occupano di logistica. Tra le due tipologie contrattuali c’è una differenza di circa 2 mila euro l’anno a livello contributivo e, in quanto soci lavoratori, possono scendere sotto la soglia contrattuale in casi di emergenza». Questo nei fatti significa perdere i propri diritti sindacali. Gli immigrati che operano nelle aziende di macellazione emiliana sono in buona percentuale di origine srilankese, nigeriana e ganese o provenienti dai paesi dell’Est. I nuovi caporali operano per le aziende committenti e coinvolgono stranieri per un prezzo molto più basso di quello previsto dal contratto che, in media, si aggira intorno a 27 euro l’ora e che per il migrante si dimezza a 11 euro. Senza sottovalutare i gravi rischi mortali nel lavoro della macellazione delle carni. Perché per gli operai-migranti non ci sono dispositivi di protezione, né formazione per tagliare le carni. Una busta paga mensile in netto è di 1500 euro, di questi 1000 vanno dati come “trasferta Italia”, ovvero niente contributi né premi, mentre il lavoro effettivo viene quantificato in 500 euro. «Hanno paura a denunciare» conclude il sindacalista «perché certamente temono le ritorsioni». Omissione contributiva al Nord, caporalato al Sud. Il viaggio dei migranti che da Lampedusa approdano nel nostro paese è drammatico. In Lombardia caporalato in edilizia. Milano si conferma capitale del “caporalato sms” in edilizia. Come i colleghi emiliani, sono meno visibili delle piazze rumorose all’alba. I caporali cercano di passare inosservati e ricorrono sempre più spesso al passaparola oppure al cellulare (via sms) per organizzare le squadre di lavoranti a giornata. In edilizia a Milano e provincia una quota che oscilla tra il 30 e il 40% della manodopera lavora in nero e il 15% del totale dei lavoratori vengono reclutati da caporali. Dieci euro di paga oraria per prestazioni straordinarie, notturne o festive, comprese tredicesima, ferie e malattie per i lavoratori di origine rumena. Già nel 2008 la Cisl Lombardia denunciava le condizioni di sfruttamento di una società di intermediazione del lavoro che offriva dieci euro per la manodopera proveniente dalla Romania. «La proposta fu inviata a diverse aziende dell’area bresciana, precisando che le imprese possono sostituire il personale in giornata e cessare il suo utilizzo senza alcun preavviso». La Cisl lombarda denunciava il rischio di una nuova forma di caporalato. Quanto poi finisca nelle tasche di questi lavoratori è tutto da scoprire. Probabilmente, secondo una stima del sindacato, è meno di cinque euro l’ora.
Ma che strane cooperative sono piene di " caporali ", scriveva già Pierangelo Giovanetti Pagina 12/13 (22 marzo 1996) - Corriere della Sera. In apparenza hanno tutta l'aria di normali cooperative che offrono servizi. Come quelle che operano nel facchinaggio alla stazione o nel trasporto durante i traslochi. Sono società a responsabilità limitata, composte da soci lavoratori, hanno uno statuto che funge da regolamento interno e una direzione che organizza il lavoro. Niente di particolare, senonchè i lavoratori di queste cooperative non svolgono un lavoro autonomo, magari aggiudicato attraverso un appalto. Vengono invece "affittati" ad aziende, supermercati, ristoranti, panifici, società di distribuzione di bottiglie d'acqua, che li inseriscono in produzione o in negozio, a fianco di normali dipendenti. Quando in fabbrica c'è bisogno di una sostituzione o di rinforzi in periodi di particolari richieste, la cooperativa affida "in gestione" i lavoratori, senza bisogno che l'azienda servita proceda alla consueta assunzione. Con notevole risparmio sui costi (la forma cooperativa è agevolata), senza vincoli di mantenimento del posto di lavoro o garanzia delle tutele minime stabilite dallo Statuto dei lavoratori o assicurate dai contratti nazionali di categoria. Una sorta di lavoro interinale ante litteram, una sorta di lavoro in affitto all'italiana, che non ha niente a che fare con quello proposto dal ministro del Lavoro, Tiziano Treu, nel suo disegno di legge. In quanto riguarda mansioni a esiguo contenuto professionale, e perchè è operato spesso da cooperative di dubbia garanzia (che nascono e muoiono nel giro di qualche anno, per poi nascere sotto altro nome), sprovviste di autorizzazione all' intermediazione. Questa sorta di caporalato organizzato è per ora del tutto proibito dalla legge. Negli ultimi anni queste cooperative sono spuntate come funghi, spesso confondendosi con quelle serie di "produzione lavoro" o di "servizi", che si aggiudicano un appalto e lo gestiscono fino alla completa realizzazione. La peggio è dei lavoratori che vengono affidati a un'azienda, affiancati ai dipendenti ma con un trattamento diverso e totale precarietà di condizioni. Inoltre, come i dipendenti, rispondono alla direzione dell'azienda in cui sono meri esecutori di ordini. Con la differenza che l'azienda non li ha assunti, cosicchè formalmente figurano come "prestatori di lavoro autonomo": soci imprenditori della cooperativa che li retribuisce, guadagnandoci, come l'azienda. Vediamo in che modo. Falsi imprenditori. La prima molla che fa nascere queste società è il vantaggio legalizzato offerto dalla formula cooperativa. Come si è detto, questi lavoratori non vengono inquadrati come dipendenti, ma come "soci lavoratori". Anche se spesso non lo sanno o non se ne rendono conto, sono considerati formalmente imprenditori (in contrasto con l'articolo 2082 del codice civile), lavoratori autonomi. Mentre le loro mansioni sono magari quelle del ciclo di produzione in fabbrica o del riempimento di scaffali nel supermercato. L'ingresso nella cooperativa avviene con il versamento di una quota minima di iscrizione, ma la vita sociale è quasi sempre inesistente, ed è la direzione che decide della destinazione lavorativa del socio. Senza rete. La prima conseguenza di questo inquadramento è che il lavoratore, inserito nella grande industria o nella distribuzione, non è più soggetto ai contratti nazionali o allo Statuto dei lavoratori. E tanto meno agli "integrativi" dell'azienda in cui lavora. Per lui fa legge solo il "regolamento interno" della cooperativa, che è il testo che stabilisce se il socio ha diritto o meno alle ferie non pagate, alla tredicesima, al trattamento di fine rapporto, all'indennità per malattia. Naturalmente quasi mai concessi. Posto a rischio. Ciò che invece il regolamento interno stabilisce con certezza è la sospensione dal lavoro. Se la direzione della cooperativa ritiene infatti che il lavoratore non sia più necessario, può chiedergli di starsene a casa, naturalmente senza sussidio di disoccupazione. Costringendolo quindi a licenziarsi e a cercarsi un altro impiego. Questo avviene spesso, soprattutto se il socio protesta o avanza rivendicazioni. Contributi minimi. L'altro grande vantaggio di questa formula è il risparmio sui contributi. Innanzitutto si pagano i contributi solo sul salario convenzionale di socio di cooperativa. Ma poi, per il lavoratore, l'applicazione contributiva risulta quella minima dell'Inps. Cioè il trattamento di invalidità e di vecchiaia per questo personale corrisponde al minimo garantito dall'Inps, che è l'unico soggetto che paga in caso di malattia o infortunio. A meno che il regolamento interno non disponga altrimenti. Naturalmente anche il trattamento pensionistico, a fronte di minori contributi, sarà meno vantaggioso dal punto di vista economico. Quanto all'inquadramento fiscale, l'opera prestata dal personale, magari assegnato al ciclo di produzione di una fabbrica, è considerato "reddito da lavoro autonomo". Quindi non è soggetto a trattenuta, ma a ritenuta d'acconto. Pretore fuori gioco. Come se non bastasse, quando il lavoratore si stanca del meccanismo e si rivolge a un pretore del lavoro per rivendicare l'assunzione nella fabbrica in cui è stato impiegato, magari per mesi e mesi, si sente rispondere che il pretore non è competente. Infatti non essendo lavoratore dipendente, ma imprenditore, lavoratore autonomo, la causa spetta al tribunale. Con le conseguenti lungaggini e maggiori spese che distolgono molti dall'idea di intraprendere una causa. Causa peraltro difficile da vincere poichè "formalmente" tutto è in regola. L'azienda che ha utilizzato il lavoratore risponde di non aver mai assunto nessuno, in quanto si avvaleva solo di prestazioni autonome di addetti a facchinaggio o manutenzione di magazzino. La cooperativa d'altra parte si dichiara a posto perchè il proprio personale è inquadrato come socio imprenditore. Dal facchinaggio alle pulizie. Qui si nasconde il dipendente. L'affitto di manodopera è espressamente vietato dalla legislazione vigente. In attesa dell'introduzione in Italia di forme di lavoro "interinale" alla francese, regolate ex novo dal legislatore, attualmente resta infatti il divieto sancito da una legge che risale al 23 ottobre 1960, la numero 1369 che, all'articolo 1, esclude qualsiasi forma di appalto di manodopera. Il testo della legge è molto preciso e recita così: "E' vietato all'imprenditore di affidare in appalto o in subappalto o in qualsiasi altra forma anche a società cooperative, l'esecuzione di mere prestazioni di lavoro mediante impiego di manodopera assunta e retribuita dall'appaltatore o dall'intermediario, qualunque sia la natura dell'opera o del servizio cui le prestazioni si riferiscono. "E' altresì vietato all' imprenditore di affidare ad intermediari, siano questi dipendenti terzi o società anche se cooperative, lavori da eseguirsi a cottimo da prestatori di opere assunti e retribuiti da tali intermediari". E fin qui la casistica purtroppo riprodotta poi nella realtà da questa specie di caporalato organizzato. Ma non basta. La legge regola anche la violazione del precedente divieto, stabilendo anche a chi dovrà essere addebitata la prestazione. In questo modo: "I prestatori di lavoro, occupati in violazione dei divieti posti dal presente articolo, sono considerati, a tutti gli effetti, alle dipendenze dell'imprenditore che abbia utilizzato le loro prestazioni". Vale a dire dell'azienda che formalmente non li ha assunti. All'articolo 3 la legge n. 1369 del 1960, stabilisce: "Gli imprenditori che appaltano opere o servizi, compresi i lavori di facchinaggio, pulizia e di manutenzione ordinaria degli impianti, da eseguirsi nell'interno delle aziende con organizzazione e gestione propria dell'appaltatore, sono tenuti in solido con quest'ultimo a corrispondere al lavoratore da esso dipendente un trattamento minimo inderogabile retributivo e ad assicurare un trattamento normativo non inferiore a quelli spettanti ai lavoratori da loro dipendenti"... "Gli imprenditori sono altresì tenuti in solido con l'appaltatore, relativamente ai lavoratori da questi dipendenti, all'adempimento di tutti gli obblighi derivanti dalle leggi di previdenza ed assistenza". Trattamento completo. E con le clausole capestro si rischia persino il posto. Quali sono i casi più frequenti in cui ci si avvale delle cooperative di intermediazione di manodopera? E in quali settori? I più disparati: c'è l'azienda meccanica che, al crescere delle commesse, fa ricorso a lavoratori in affitto. C'è il supermercato che li utilizza per riempire gli scaffali o tenere in ordine il magazzino. Ma c'è anche il proprietario della pizzeria che non assume nessun dipendente, ma costituisce una cooperativa che inquadra il personale (camerieri, lavapiatti, pizzaioli, ecc.) da "girare" alle esigenze del locale. Addirittura vi sono cooperative che "affittano" guardie giurate per la custodia degli edifici. Naturalmente senza porto d'armi e in concorrenza con i veri istituti di vigilanza. Le cooperative hanno tutte un oggetto sociale (scopo dichiarato nello statuto) generico. Si parla di "predisporre mezzi e personale per svolgere servizio di facchinaggio per conto terzi", o "pulizia di aree industriali per conto terzi", o "altra attività connessa o affine". Altre volte si parla di "autotrasporto di merci per conto terzi", ma anche "confezionamento e assemblaggio di materiali sfusi", "acquisto e vendita di articoli di abbigliamento", "gestione di punti vendita al pubblico di generi alimentari". Il tutto, sempre, per conto terzi. Il contratto che sta alla base del lavoro dei soci lavoratori prestati in affitto è, come si diceva, il regolamento interno della cooperativa. Questo prevede articoli capestro come il seguente: "Per le giornate di lavoro perse per infermità, il socio lavoratore non ha diritto ad alcun trattamento aggiuntivo oltre l'indennità corrisposta dagli Istituti previdenziali, assistenziali ed infortunistici, salvo l'indennizzo derivante dall'apposita polizza di assicurazione facoltativa per i soci che l'avessero stipulata". O altri che suonano così: "Ogni socio lavoratore ha diritto ad un periodo di riposo annuale non retribuito pari a cinque settimane del calendario". "Nei casi di impedimento oggettivo della prestazione lavorativa, il consiglio d'amministrazione ha la facoltà di deliberare la sospensione del socio dal lavoro a tempo indeterminato e la sua sostituzione nell'organico della cooperativa". O ancora: "In casi di contrazione dell'attività della cooperativa, il consiglio d'amministrazione può deliberare la sospensione del lavoro a tempo indeterminato di uno o più singoli soci". Quando sorge un contenzioso e il lavoratore "affittato" chiede per vie legali l'assunzione da parte della ditta che lo "usa", la risposta è più o meno la stessa. Non si e' instaurato nessun rapporto di dipendenza, perchè le prestazioni effettuate riguardano lavoro autonomo, svolto da una cooperativa attraverso i propri soci. Se il fenomeno del caporalato tradizionale. Come ha denunciato di recente la Commissione d' inchiesta del Senato. Prospera ancora, soprattutto al Sud, e sono almeno 200 mila i lavoratori agricoli coinvolti in Puglia, Basilicata, Campania e Calabria, le nuove forme di intermediazione illecita di manodopera si stanno ramificando specialmente al Nord. In Lombardia, ad esempio, province come Milano, Bergamo, Brescia, assistono alla continua denuncia di casi da parte di sindacati, patronati e Camere del Lavoro. A Bergamo, in un anno l'Ispettorato del Lavoro ha scoperto tredici imprese di intermediazione clandestina, con centinaia di soci imprenditori "ceduti" alle imprese utilizzatrici. A Brescia la Camera del Lavoro negli ultimi tre anni ha denunciato quattordici società cooperative che affittavano lavoratori ad aziende "terze" lucrando un profitto di intermediazione. A Milano, l'Ufficio Vertenze della Cisl è subissato di denunce da parte di lavoratori, tanto da decidere di specializzarsi in tali forme di intermediazione allestendo una competente struttura legale. I casi emersi sono emblematici: eccone alcuni. Una lavoratrice denuncia di essere stata "affittata" (e inserita a tutti gli effetti nel ciclo produttivo) per periodi prolungati a un'azienda meccanica che produce flessibili per auto, e a un'azienda del settore gomma, che produce guarnizioni per forni. Alcuni soci di una cooperativa hanno segnalato di essere stati "affittati" a una grossa catena di drogherie, con utilizzo interno nei negozi, ad esempio per riempire gli scaffali. Altri, invece, sono stati "ceduti" a catene di supermercati, per la gestione ordinaria del magazzino o a panifici, con inserimento in laboratorio, per il taglio e il confezionamento del pane. Una cooperativa è stata costituita con dei soci, che sono stati poi "affittati" a società gemelle alla cooperativa stessa che commerciano nella distribuzione di acque minerali, aventi più o meno i medesimi amministratori. E la casistica, purtroppo, potrebbe continuare. Stiamo sempre aspettando l' "interinale". Interinale delle mie brame. Ma l'Italia resta il Paese in cui non esiste ancora una legislazione sul lavoro in affitto. Secondo gli esperti è questa una delle ragioni per cui sedicenti cooperative possono operare in regime di assoluta irregolarità, intermediando di fatto manodopera, anche in contrasto con quanto previsto oggi dalla normativa. Si calcola che una legge sul lavoro in affitto potrebbe dare lavoro "equivalente" oggi a circa 2 300 mila persone (vale a dire lavoro a tempo pieno per tutto l'anno). Poco, secondo alcuni. Ma abbastanza, secondo altri, considerando la temporaneità della prestazione, che coinvolgerebbe quindi ben più di alcune centinaia di migliaia di persone e soprattutto introdurrebbe una regolamentazione nell' attuale Far West. Ma perchè il lavoro in affitto, pur previsto dagli accordi del 23 luglio '93 tra le parti sociali, in Italia stenta a decollare? Perchè sindacati e imprenditori non riescono a mettersi tra loro d' accordo. E il governo, ultimamente, tende a lasciare alle parti sociali l'onere dell'accordo. Le principali ragioni di scontro tra datori di lavoro e organizzazioni sindacali sono racchiuse in alcuni punti: il riconoscimento di apposite agenzie preposte al lavoro in affitto, che offrano particolari caratteristiche di serietà e affidabilità; la loro autorizzazione da parte del ministero del Lavoro; l'eventuale esistenza di un'indennità mensile anche a copertura dei periodi di inattività; i livelli professionali interessati; i settori da coinvolgere e da escludere. Giovanetti Pierangelo. Pagina 12/13 (22 marzo 1996) - Corriere della Sera.
COOPERATIVE E CAPORALATO.
Emilia, l'intreccio pericoloso tra la 'ndrangheta e le false coop. Cooperative fasulle che offrono braccia a bassissimo costo, per lavori che un tempo svolgevano operai specializzati. Con questo metodo si aggirano i paletti della contrattazione collettiva. E i boss si impadroniscono del settore, scrive Giovanni Tizian il 13 agosto 2018 su "L'Espresso". «Se ho appena avviato un’azienda e mi rendo conto che spenderei troppo per mantenere in regola i dipendenti, e non potrò neppure licenziarli, mi affido a una cooperativa di facchinaggio, la quale mi subappalterà una squadra di operai a costi ridotti. In questo modo non dovrò assumere nessuno e così taglierò di netto dal bilancio aziendale le spese del personale, inclusi i contributi». Metodo semplice ed efficace, spiegato da un personaggio che di zone grigie, quei mondi dove legale e illegale si mescolano, se ne intende. A spiegare ai magistrati antimafia di Bologna come funziona lo schema per abbattere i costi d’impresa è Giuseppe Giglio. Imprenditore di successo dalla Calabria all’Emilia, punto di riferimento al Nord del clan Grande Aracri e della ’ndrangheta “emiliana” fino a quando non ha deciso di saltare il fosso e collaborare con il pm Beatrice Ronchi. Alle osservazioni di Giglio seguono numerose pagine di omissis, segno che le indicazioni fornite hanno suscitato un forte interesse investigativo. Del resto il tessuto produttivo emiliano è da tempo infettato dai capitali mafiosi. Denaro sporco con il quale sono nate migliaia di società e cooperative fasulle, ossia coop che nulla hanno a che vedere con lo spirito e con le regole della cooperazione. Giglio è il primo pentito che svela l’interesse delle organizzazioni mafiose nel settore, ma moltissime indagini antimafia hanno documentato come anche in Lombardia la ’ndrangheta sia stata abile nello sfruttare questa anomalia legislativa, che permette di muoversi nel mercato legale senza destare particolari sospetti. La funzione delle coop fittizie è essenzialmente quello di offrire braccia a bassissimo costo, per lavorazioni che un tempo svolgevano operai specializzati, inquadrati all’interno delle aziende e con contratti a tempo indeterminato. Un modo, in pratica, per aggirare i paletti della contrattazione collettiva.
Una delle discriminanti che distingue una vera cooperativa da una finta è, per esempio, lo status di chi ci lavora. I soci lavoratori sono effettivamente tali? Usufruiscono, per esempio, della redistribuzione degli utili? Quando questo non accade, e i i soci sono in realtà semplici dipendenti con paghe da fame, siamo di fronte a una “fake coop”. Il paradosso è ancora più evidente in Emilia, culla della cooperazione rossa. Proprio qui ha attecchito prima che da altre parti il fenomeno. Lo sa bene Umberto Franciosi, sindacalista modenese, segretario regionale della Flai Cgil, che difende i lavoratori dell’agroindustria. Franciosi è il primo ad aver colto il pericoloso intreccio tra false coop e aziende. Le prime assicurano alle seconde un compressione notevole dei costi di produzione. Tutto ciò ricade sugli operai, che assunti da esterni, e non più da chi produce, percepiscono salari nettamente inferiori. Franciosi è stato il primo a coniare, già nel 2005, la definizione di “nuovo caporalato” per descrivere il subappalto di manodopera tramite il meccanismo della finte coop. Tutto lecito? Solo in apparenza, chi guadagna dal sistema sfrutta l’ambiguità legislativa. «Le false cooperative sono imprese appaltatrici e, quando c’è un appalto illegittimo, c’è sempre un committente che le utilizza tramite terziarizzazioni di dubbia legittimità. Aspetto, quest’ultimo, che non viene sufficientemente approfondito e analizzato» spiega all’Espresso Franciosi, che aggiunge: «I committenti affidano le loro lavorazioni da molti anni agli stessi soggetti che si avvalgono però di prestanome, a cui affidare la gestione delle coop fasulle, su cui ricadranno tutte le responsabilità. Prestanome che non potranno versare nulla allo Stato e ai lavoratori perché non hanno nulla che possa essere aggredito patrimonialmente». Non solo, è del mese scorso un’inchiesta sulla filiera della macellazione delle carni. Che ha lambito la produzione del prosciutto di Parma. Alcune cooperative, infatti, operavano presso due stabilimenti, uno di Parma e l’altro della provincia di Modena. L’inchiesta ha accertato una frode fiscale di 300 milioni di euro da parte di un consorzio di finte coop. I lavoratori, che non hanno alcuna colpa, rischiano il posto, perché sono dipendenti delle coop e non delle grandi aziende presso cui lavoravano. Complicità dei committenti, dunque, tra i quali troviamo anche importanti marchi alimentari e della logistica. Ma c’è una manina invisibile che garantisce la riuscita dell’operazione truffaldina. Quella del professionista di turno, ingaggiato dal clan o dall’imprenditore spregiudicato. Il colletto bianco crea le società cooperative a tavolino, con lo scopo di assicurare al cliente l’evasione fiscale, dei contributi e anche la possibilità del riciclaggio. Un documento inedito certifica, per la prima volta, il lavoro sporco di alcuni commercialisti e consulenti del lavoro al soldo di bancarottieri, mafiosi e truffatori vari. Una prova straordinaria di quanto sia diffuso il sistema. Si tratta del testo di un accordo sequestrato dalla guardia di finanza durante un’indagine su una banda di riciclatori che portava al fallimento aziende sane: un giro d’affari di 35 milioni di euro, con ricadute pesantissime sull’occupazione del territorio. L’inchiesta coordinata dal magistrato Marco Imperato della procura di Modena ha permesso di svelare il sistema messo in piedi da un consulente finanziario, specializzato nella creazione di scatole vuote, tra queste alcune finte cooperative. Nel documento agli atti dell’indagine sono specificati i passaggi, con tanto di costi, necessari per fondare una coop al solo scopo di distrarre risorse da aziende un tempo sane e spolpate dal medesimo proprietario. Per 35 mila euro il commercialista offriva il pacchetto completo: una coop nuova di zecca con soci, amministratori, atti vari, cessioni di rami d’azienda eventuali. Il compenso dello studio era pari a 15 mila euro. Insomma un affare per tutti e in tempi rapidissimi. Complicità che assicurano alti profitti ma lacerano il tessuto del Paese. E sono queste relazioni insospettabili che vanno colpite. Ne è convinto Umberto Franciosi, che non ha mai lesinato critiche alle leggi sul lavoro scritte dal Partito democratico: «Bene contrastare chi delinque, ma bisogna eliminare anche il terreno fertile in cui germoglia il fenomeno, cioè gli appalti di dubbia legittimità, le esternalizzazioni selvagge. Avendo anche il coraggio politico d’intervenire immediatamente sul piano legislativo, ad esempio ripristinando il reato penale nella somministrazione di manodopera (depenalizzato nel 2016 dal governo di centrosinistra) e reintroducendo il reato della somministrazione fraudolenta di manodopera (abrogato con il Jobs Act)». Infine, Franciosi, riflette su un’altra variabile: «Oltre alle leggi e alla repressione dei reati, sarebbe opportuno anche un po’ di responsabilità sociale da parte delle imprese committenti che non possono non accorgersi di quanto accade nei loro appalti. Se si continua a competere con questa organizzazione del lavoro non può esserci un futuro per nessuno, nemmeno in una filiera così importante come quella del Prosciutto di Parma».
La grande truffa delle false coop: così le società di comodo sfruttano i lavoratori. Deregulation. Crollo delle ispezioni. Evasione e illegalità prosperano dove era nata la solidarietà. Tra ristoranti, bar, alberghi in Romagna, scrive Gloria Riva il 9 agosto 2018 su "L'Espresso". Nessuno li aveva mai visti, gli scaffalisti del Carrefour. Prendevano servizio alle 22, quando gli altri, quelli assunti per davvero, finivano il turno. Per dieci anni hanno lavorato di notte, riempiendo gli scaffali per una nuova giornata di acquisti. Da un mese a questa parte invece, nei tre supermercati del milanese (Paderno, Assago e Carugate), gli scaffalisti - una settantina in tutto - sono usciti dalle tenebre. Ora cominciano il turno alle sei e restano lì fino alle dieci, spalla a spalla con i dipendenti Carrefour. Che però hanno una paga oraria di 10,89 euro, mentre loro ne prendono 6,90. Il motivo? Sono al soldo di una “cooperativa”. Quindi hanno meno diritti. E pensare che le coop sono garantite dall’articolo 45 della Costituzione, che ne riconosce «la funzione sociale e ne favorisce l’incremento». Per crescere, sono cresciute eccome: stando a una stima degli ispettori del lavoro, nella filiera produttiva ogni duemila lavoratori fissi ci sono altre quattromila persone esternalizzate in una coop. Nelle regioni del Nord si stima che il 25 per cento della forza lavoro sia alle dipendenze di una cooperativa, che di mutualistico ha ben poco. Eppure è perfettamente legale, o quasi. Del resto, grazie al ministro uscente del Lavoro, Giuliano Poletti, nonché a causa del Jobs Act che ha ridotto le sanzioni per i reati di somministrazione illegale di manodopera a poco più di un buffetto, la situazione dei “soci” delle cooperative è pesantemente peggiorata e fa dell’Italia una Repubblica fondata sul lavoro illecito. Fino a qualche anno fa le coop spurie erano un fenomeno isolato, che si concentrava nel settore agroalimentare, in zone precise, fra Emilia Romagna e Lazio. Oggi non è più così: sono le Asl e gli Ospedali a far ricorso alle cooperative per il lavoro di cura, poi il fenomeno si è esteso al settore della logistica, fino a coinvolgere le grandi aziende, dall’abbigliamento alle metalmeccaniche, che per contenere i costi hanno fatto ricorso alle coop, divenute strumenti per fare dumping salariale. Samuele Gatto è il sindacalista della Cgil che sta tenendo d’occhio Carrefour: «Non so neppure se reggeranno a questi turni massacranti, sono ridotti a fare in quattro ore quello che prima facevano in sei, guadagnando meno. Il rischio, poi, è che anche il lavoro alle casse e negli altri reparti passi ai cooperanti. Non sarebbe la prima volta, l’hanno già fatto in alcuni punti del gruppo, esternalizzando le pescherie e le gastronomie. Ogni metodo è buono per tagliare sul costo del lavoro». «Lo fanno in molti», conferma Rosario De Luca, presidente della Fondazione studi dei Consulenti del Lavoro che raccoglie migliaia di segnalazioni di attività illecite, tutte «contraddistinte da forme di risparmio sul costo del lavoro che non hanno riscontro nella normativa vigente». Lo scorso anno l’ente ha segnalato al ministero del Lavoro migliaia di casi, in cui si percepisce l’evoluzione e l’affinamento delle tecniche di elusione fiscale.
Ad esempio, a Torino una tabaccheria paga 1.114 euro al mese la cooperativa multiservizi M&G di Roma per avere un lavoratore, pagato solo 688 euro netti per 87 ore mensili. Se la tabaccheria avesse assunto un dipendente, avrebbe speso non meno di duemila euro, più ferie, tfr, malattia. Poi ci sono i trucchi: a Ravenna la Mib Service, che è una coop multiservizi, paga un cooperante 350 euro lordi per 41 ore di servizio in un albergo, più 1.332 euro di trasferta. Un’elusione clamorosa, fatta perché le trasferte non vengono tassate: «A volte l’Agenzia delle Entrate queste cose le becca e manda le multe, ma visto che le cooperative hanno vita breve (circa due anni), l’unico a pagare è il lavoratore. Gente inesperta, spesso stranieri, che arriva alla camera del lavoro per chiedere aiuto», spiega Marco Sala, sindacalista dei trasporti della Cgil di Bergamo, che continua: «Di cooperative ne ho incontrate davvero poche. Chiudono non appena sentono aria di guai e riaprono con un altro nome, un’altra sede, un altro prestanome, magari straniero che neanche sa di avere una cooperativa intestata». I lavoratori? «Chi alza la testa o si rivolge al sindacato rischia il posto, per gli stranieri potrebbe saltare anche il permesso di soggiorno. Così vengono al sindacato, ci raccontano di aver subito trattamenti disumani, di lavorare il doppio rispetto a quanto finisce in busta paga, ma non denunciano, perché hanno paura», aggiunge il sindacalista. Che racconta come le coop della logistica siano oggi utilizzate per fare di tutto, «sfruttate soprattutto nella bassa bergamasca nel distretto della cosmesi, gente sulla carta pagata per quattro ore di lavoro, che invece ne fa dodici». Ma funziona così dappertutto: nel cremonese centinaia di marocchini vengono pagati due soldi per la stagione di semina e raccolta. Tra Latina e Sabaudia, dove c’è la più forte concentrazione di caporalato, spesso controllato dalle cosche, ci sono migliaia di indiani sikh che sudano nei campi della zona fino a 90 ore la settimana, ma ufficialmente ne lavorano solo 18, per non più di quattro euro l’ora. A Rimini sono i consulenti del lavoro a lanciare l’allarme sfruttamento, denunciando che interi alberghi, ristoranti, bar, stabilimenti balneari appaltano tutto il personale. Non succede solo lungo la via Emilia, ma anche in aree turistiche ricchissime, come Livigno. Un paio d’anni fa i proprietari dei due alberghi a quattro stelle Intermonti e Alexander hanno appaltato l’intera gestione a società e cooperative esterne, che a loro volta hanno assunto 160 persone, versando loro solo una piccola parte di salari e contributi Inps e Inail. L’inchiesta ha portato alla luce una situazione di lavoro nero misto al grigio, in cui in molti casi i lavoratori non sapevano neppure chi fosse il proprio datore. A dare una mano alle finte cooperative, si diceva, è arrivata la cancellazione del reato di somministrazione fraudolenta. Prima del 2016 chi esternalizzava un lavoro creando una società fasulla, che applicava contratti capestro e offriva stipendi miseri e abusava degli orari di lavoro, andava incontro a una condanna fino a due anni. Oggi, invece, sono rimaste solo le sanzioni economiche. La depenalizzazione ha fatto esplodere il fenomeno, che ha segnato un aumento del 39 per cento. L’altro problema è il crollo delle ispezioni che potrebbe derivare dallo sfortunato matrimonio tra gli ispettori di Inps, Inail e funzionari del ministero del Lavoro, finiti sotto il cappello dell’Ispettorato nazionale del Lavoro. L’unione, avvenuta nel 2017, è rimasta solo sulla carta: gli ispettori dell’Inps e dell’Inail hanno ritenuto più conveniente per loro lasciare il reparto ispettivo per rientrare stabilmente all’interno dei rispettivi enti. Così molte posizioni sono rimaste scoperte e le ispezioni, che erano già poche, perché toccavano non più del 2 per cento delle aziende italiane, sono crollate: si è passati dalle 244 mila del 2012. Eppure proprio il ministero del Lavoro ha invitato tutti gli ispettori a concentrarsi sulle finte cooperative, che sono il nervo sensibile e scoperto del mercato del lavoro. «Il tasso di irregolarità delle aziende controllate è del 65 per cento, significa che due aziende su tre sono risultate irregolari con una media di un lavoratore sfruttato ogni due imprese», c’è scritto nel resoconto dell’Ispettorato, che continua dicendo: «In particolare bisogna continuare a porre particolare attenzione alle cooperative spurie. Addirittura nel 2017 una sola cooperativa ha ricevuto un verbale di oltre 25 milioni di euro, con debiti contributivi per 19,6 milioni e sanzioni civili per 6,4 milioni e migliaia di lavoratori coinvolti». Eppure, racconta a l’Espresso un ispettore dell’Inps che chiede l’anonimato, «individuare queste società e sanzionarle è difficilissimo». E racconta il sistema oliato: «Le aziende licenziano i dipendenti, che entrano in mobilità e da lì vengono ripescati dalle cooperative, usufruendo per altro degli sgravi fiscali del jobs act». I vantaggi per il datore sono parecchi: «La coop è usata solo durante i picchi di lavoro, il contratto è economicamente inferiore». Spesso a capo di una cooperativa c’è un consorzio che ne gestisce più d’una: «Quando una cooperativa scricchiola, perché rischia un’ispezione o ha accumulato troppi debiti con l’erario, allora la si chiude e i dipendenti passano sotto un’altra dello stesso consorzio». E se la coop chiude i battenti senza aver versato all’Inps tutto il dovuto, a pagare è lo Stato, cioè da tutti i contribuenti, attraverso un apposito fondo di salvaguardia. Così i danni delle finte cooperative pesano ancora di più sulla finanza pubblica, mentre gli imprenditori e i consulenti si arricchiscono.
Articolo 45 della Costituzione italiana: "La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l'incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità. La legge provvede alla tutela e allo sviluppo dell'artigianato". Immaginiamo una cooperativa con quasi un centinaio di soci lavoratori che eseguono "ufficialmente" lavori di facchinaggio nelle imprese delle lavorazione delle carni e dei salumi, ma nella realtà eseguono lavori del ciclo produttivo. Viene naturale pensare ad impresa con una struttura che sostiene una sede, se non prestigiosa almeno dignitosa con computer telefoni e fax, un apparato di dirigenti con impiegati e segretarie. Ci possiamo immaginare, insomma, di avere di fronte un’impresa a tutti gli effetti, scrive Umberto Franciosi su “Nuovo Caporalato”. Niente di tutto questo. La cooperative di cui sopra, che possiamo benissimo definire falsa cooperativa, è un esempio che può rappresentare benissimo altre imprese del genere. Queste false cooperative spesso hanno formalmente la loro sede legale presso l’abitazione del presidente, a volte un semplice prestanome extracomunitario, oppure, per dare una parvenza di legalità, presso un polveroso ufficio di pochi metri quadrati che funge da ripostiglio, in cui manca la strumentazione minima per qualsiasi impresa: fax, telefono e computer, oltre che il personale che vi lavori dentro. Capita anche che la sede legale sia anche in luoghi remoti dell’Italia meridionale, presso la sede di qualche commercialista e che, la posta inviata a quegli indirizzi postali, ritorni indietro per compiuta giacenza. Gli unici recapiti di queste imprese fantasma, in maggioranza false cooperative, sono anonimi cellulari. Un esercito di false cooperative che gestiscono lavoratori stranieri grazie al prezioso lavoro di consulenti, o commercialisti, delle imprese committenti. Imprese committenti cha attraverso pseudo appalti di servizi, ne utilizzano la manodopera. Consulenti che gestiscono decine di false cooperative, uno di questi è addirittura un ex ispettore del lavoro ora in pensione. Cooperative che cambiano nome repentinamente, per sfuggire ai controlli. Consulenti che spesso sono gli stessi consulenti dell’impresa committente. Consulenti che si sono creati in famiglia la loro cooperativa di facchinaggio per somministrare manodopera nelle aziende dei loro clienti. Ma non è tutto! Associazioni degli imprenditori che di giorno predicano bene contro l’illegalità del lavoro, ma di notte razzolano male perché, attraverso società terze direttamente controllate, gestiscono decine di false cooperative. Al peggio però non c’è mai fine: imprese committenti che si costruiscono la propria cooperativa in casa con presidente familiari dell’amministratore delegato dell’impresa committente, oppure lo stesso amministratore delegato della cooperativa che è lo stesso dell’azienda committente. Non stiamo parlando della “new economy” o di imprese di servizi futuribili legati all’informatica, ma ad “aziende” che forniscono ad altre lavoratori per la lavorazione delle carni e dei salumi. E’ il mondo delle cooperative “furbe”, o meglio delle cooperative fasulle, che operano nel grigio ma anche nel nero, che somministrano illegalmente manodopera non rispettando le leggi della Repubblica: dalla Costituzione, passando dalla famosa legge 30, arrivando ai contratti nazionali di lavoro. E’ il mondo di chi, operando nell’indifferenza politica ed istituzionale, vuole rivestire un ruolo moderno e competitivo riconducibile però sempre ad un vecchio termine: caporalato!
Numero delle cooperative e dei lavoratori. Nel comprensorio di Vignola, un territorio con meno di 70.000 abitanti, sono presenti oltre 100 cooperative che occupano oltre 2000 lavoratori in netta prevalenza extracomunitari, molti di questi impegnati nel comparto della lavorazione della carne e dei salumi. Il numero di questi dipendenti all’interno delle aziende alimentari del territorio è variabile, ma comunque in molte imprese il rapporto fra dipendenti diretti dell’azienda committente ed i soci lavoratori delle cooperative di facchinaggio che hanno in appalto fasi del processo produttivo è di 1:1. In alcune imprese della lavorazione della carne il numero delle cooperative di facchinaggio supera le 8 unità. Molte di queste sono direttamente controllate dai proprietari delle aziende committenti.
Come vengono utilizzati i soci lavoratori. Vengono utilizzati come se fossero dipendenti di un’impresa interinale ma impiegati in modo improprio ed illegale attraverso discutibili forme di appalto di fasi del processo lavorativo. Appalti che non trovano la sua legittimità né con il Codice Civile, all’articolo 1655 (mancanza dell’autonomia e del rischio d’impresa), né con il Dlgs 276/03 (somministrazione illegale di manodopera). Lavorano in promiscuità e alle dipendenze del personale e dei responsabili dell’azienda committente i quali gestiscono ed organizzano gli orari di lavoro come se fossero lavoratori di imprese interinali. Da evidenziare che, com’è accaduto, i soci lavoratori delle cooperative vengono anche licenziati dai responsabili dell’azienda committente.
Come sono retribuiti i soci lavoratori. Quasi tutti adibiti in fasi della lavorazione delle carni ma inquadrati nel contratto di lavoro della logistica e della movimentazione delle merci. Contratto meno costoso e con meno diritti e tutele per i lavoratori. Le ore che vengono dichiarate in busta paga sono sempre inferiori a quelle che vengono effettivamente svolte. Se le ore eccedenti non vengono retribuite in nero vengono retribuite in busta paga con l’istituto della “trasferta Italia” che comunque non è tassata nè fiscalmente e nemmeno previdenzialmente. Dalle segnalazioni raccolte vi sono lavoratori che lavorano per 3 o 4 € all’ora anche con dei contratti di collaborazione prima ora a progetto. Quando invece viene applicato un contratto coerente con l’attività che viene svolta, ad esempio quello dell’artigianato o della piccola industria alimentare, il salario netto che viene evidenziato in busta paga viene realmente erogata una cifra inferiore. Questo modello di retribuzione può, con il trascorrere del tempo, generare problemi di giustizia sociale a causa dell’alto tasso di evasione fiscale e retributiva. Sempre più spesso, chi lavora in queste imprese, grazie alle dichiarazione dei redditi solo “formali”, accedono ai primi posti di tutte le graduatorie per l’utilizzo dei servizi e dell’assistenza sociale.
Velocità delle linee di produzione e ambiente di lavoro. I lavoratori vengono collocati nella linea di smontaggio a ritmi e velocità pesantissimi con un’organizzazione del lavoro che neanche i liberisti più sfrenati oserebbero proporre e pensare. Le linee di produzione vanno sempre più forte ed i lavoratori vengono sempre adibiti alla stessa mansione causando le inevitabili malattie professionali caratteristiche del settore in crescita esponenziale (dal “tunnel carpale” ad altre malattie muscolo scheletriche). Nelle linee del disosso dei prosciutti crudi, analizzando il processo del lavoro per ogni singola postazione, ogni operatore in media deve effettuare un’operazione ogni tre secondi con coltelli, in alcuni casi elettrici. Lavorazioni faticose che si possono protrarre anche per oltre 10 ore al giorno, effettuate in ambiente bagnato e freddo, con scarse pause, a velocità altissime e senza turnazioni, tutti elementi che sommati fra di loro sono estremamente pericolosi che causano, con la lunga esposizione, inevitabili danni all’apparato muscolo scheletrico. Il turn over dei dipendenti delle imprese della lavorazione della carne è praticamente inesistente. Le aziende, mascherandosi dietro a scuse inesistenti tipo la difficoltà di reperimento della manodopera, prediligono avvalersi della traboccante disponibilità della manodopera che le cooperative di facchinaggio possono offrire. Per questo nelle imprese appaltatrici il turn over è altissimo. Quest’ultime imprese, quasi tutte false cooperative di facchinaggio, gestiscono eserciti di lavoratori extracomunitari che, spesso, per quattro soldi, sono disposti a tutto. Monetizzano diritti, salute e non si porgono certo problemi per l’inquadramento contrattuale o per la regolarità del pagamento dei contributi previdenziali. Per questi lavoratori l’importante è quanto si porta a casa ogni mese e non c’è differenza se è in “nero” o in regola. Più si guadagna e meglio è, perché una buona parte di loro non hanno l’intenzione di radicarsi nel territorio. Così accade che lavoratori senza un’idonea preparazione professionale vengono letteralmente buttati nella linea di smontaggio della carne a velocità sempre maggiori! Inevitabili gli infortuni, alcuni anche pesanti. Infortunati che “spariscono” , come spesso è impossibile provare la responsabilità dell’inidoneità degli strumenti di protezione quando qualcuno si fa male: nessuno c’era, nessuno conosce l’infortunato e nessuno l’ha visto. Un meccanismo che genera una concorrenza spietata fra lavoratori, in particolare fra dipendenti dell’azienda committente e quelli dell’azienda appaltatrice che pur di lavorare monetizzano diritti e salute. Un sistema che può generare conflitti fra le etnie in cui sono suddivisi nelle varie false cooperative e con gli stessi italiani.
L’organizzazione del lavoro.
Quasi tutte le cooperative eseguono le lavorazioni della carne, in totale e palese promiscuità con il personale dipendente delle aziende committenti;
le false cooperative di facchinaggio sono prevalentemente costituite da lavoratori stranieri suddivisi in etnie, le etnie prevalenti sono le seguenti: marocchina, albanese, srilankese;
alcuni lavoratori stranieri sono stati anche collocati anche con documenti non regolari;
precaria ed insufficiente preparazione e formazione igienico sanitaria che riguardi il lavoro che dovranno svolgere;
i soci lavoratori, oltre ad essere diretti dal loro presidente (che in alcuni casi risultava, fino a qualche mese fa, dipendente dell’impresa committente) ricevono gli ordini dai proprietari dell’azienda e/o dai suoi stessi collaboratori;
le false cooperative operano illegalmente, senza averne l’autorizzazione, come imprese interinali o di somministrazione di manodopera;
spesso, ed in costante incremento, i soci-lavoratori vengono impiegati per sostituire i dipendenti dell’azienda committente;
l’orario di lavoro dei soci lavoratori della cooperativa è lo stesso dei dipendenti dell’impresa committente;
inesistente l’autonomia imprenditoriale ed il rischio d’impresa per le false cooperative di facchinaggio, quasi sempre vengono utilizzati mezzi e strumenti di proprietà dell’impresa committente ed in rari casi risultano stipulati affitti degli impianti o degli strumenti utilizzati, quando sono presenti "formali" affitti i canoni pattuiti sono veramente ridicoli;
le ore effettivamente lavorate vengono parzialmente riportate nelle buste paga, le cifre riportate sono nettamente inferiori a quelle effettivamente svolte. Le ore eccedenti vengono retribuite in nero o attraverso la voce retributiva “trasferta Italia” le cui somme non sono comunque tassate né previdenzialmente e nemmeno fiscalmente.
Ispezioni della Direzione provinciale del Lavoro. Innumerevoli richieste d’ispezione inoltrate. Parlando con i lavoratori si percepisce che alcune ispezioni da parte dell’Ispettorato del Lavoro, sarebbero state fatte negli anni passati, ma nulla è cambiato (le cooperative sono rimaste) e, anzi, da quelle ispezioni ne sarebbe conseguita una maggior promiscuità. Si percepisce dai lavoratori un certo grado di diffidenza nei confronti degli organi Ispettivi e per altri è palese una chiara rassegnazione.
Segnalazioni alla Direzione Provinciale del Lavoro. Innumerevoli sono le segnalazioni che le organizzazioni sindacali hanno inviato alla Direzione Provinciale del Lavoro di Modena. Purtroppo, da quanto si apprende dai lavoratori, spesso, quando stanno per aver luogo le ispezioni, le aziende sembrerebbero essere già informate ed avrebbero tutto il tempo per organizzarsi spostando, i soci lavoratori delle cooperative appaltatrici, in mansioni di semplice manovalanza o addirittura nascosti fuori dall’impresa, sotto la comoda ombra delle piante, per poi rientrare quando la situazione ritornava alla “normalità”. Non si vuole accusare nessuno ma, forse, la "sensazione" che i lavoratori riportano è probabilmente dovuta ai tempi necessari per indossare gli indumenti asettici, idonei per entrare nei luoghi da ispezionare. Inoltre, da parte di alcuni committenti, vengono millantate “presunte consulenze” da parte della Direzione Provinciale del Lavoro. Spesso si sente affermare che il tal processo produttivo, o quelle mansioni si possono appaltare perché viene avvallato dal Direttore della sede del Ministero del Lavoro di Modena. Qualcuno ha chiesto, per iscritto, immediate spiegazioni in merito a quelle vantate “consulenze”, o meglio si volevano capire i criteri con cui sono state giustificate quelle terziarizzazioni o appalti. Fu avanzata una formale richiesta richiedendo una risposta scritta, ma nulla è mai arrivato! Purtroppo possiamo affermare che segnalare un eventuale appalto irregolare alla Direzione Provinciale del Lavoro di Modena può produrre l’effetto contrario, cioè il suo avvallo o peggio può generare la consulenza con cui vengono istruite le aziende come fare per “regolarizzare” l’appalto. Infatti, abbiamo visto come dopo un intervento ispettivo, fosse stato sufficiente tracciare una linea gialla per terra per delimitare gli spazi fra una cooperativa ed i lavoratori dell’impresa committente per avvallare l’appalto! Così com’è stato sufficiente creare spogliatoi separati per le aziende appaltatrici, anche in container, per provarne l’autonomia d’impresa. Linee e spogliatoi, per anni, è bastato questo all’Ispettorato del lavoro di Modena, mentre nessuna attenzione per provare la reale autonomia d’impresa o per verificare la reale dipendenza di questi lavoratori dall’impresa committente! Con una semplice inchiesta era ed è possibile provare il reato di “interposizione irregolare di manodopera”, quello previsto dall’abrogata Legge 1369/60, o dall’attuale “somministrazione irregolare” di manodopera prevista dal Dlgs 276/03.
L’architettura dell’appalto. Il sistema più “scientifico” prevede un “affitto di ramo d’impresa” ad una cooperativa con l’autorizzazione a sub-appaltare. Tra l’azienda committente e la cooperativa viene stipulato un accordo commerciale che prevede il pagamento della carne lavorata. Pagamento pattuito in pochi centesimi di euro al chilogrammo senza distinzioni di pezzature di carne e nemmeno dei tagli anatomici. Differenze non di poco conto: una coscia suina non può avere lo stesso prezzo di carne di scarto, tipo la così detta "carnetta". Quest’ultima cooperativa poi subappalta ad altre imprese fasi del processo produttivo. Quindi all’interno dello stesso sito produttivo un’azienda affitta ad un'altra un pezzo di stabilimento, si stipula un contratto per la fornitura di carne lavorata e la cooperativa appaltante può sub-appaltare. Fin qui nulla di strano, ma i problemi sono i seguenti: la carne che viene lavorata la compra l’azienda committente, il personale di tutte le cooperative presenti viene gestito dal committente attraverso il suo direttore, ma anche lo stesso amministratore delegato, così le domande d’assunzione che vengono fatte presso l’azienda committente vengono dirottate presso le cooperative presenti nel suo sito produttivo. Dove sta l’autonomia imprenditoriale ed il rischio d’impresa? E’ o no una somministrazione illegale di manodopera? Il sistema “promiscuo” prevede dei “regolari” contratti di appalto che hanno per oggetto degli specifici nastri (o linee di produzione). Regolari solo sulla carta perché i lavoratori delle cooperative di facchinaggio, e se ne possono contare anche 9 all’interno dello stesso sito produttivo, vengono poi gestiti e collocati come se fossero dipendenti dell’azienda committente, addirittura, com’è capitato, vengono licenziati o sospesi dagli stessi capi reparto o capi linea dell’azienda committente. Può accadere che i dipendenti dell’azienda committente svolgano le attività più specializzate, come ad esempio il disosso mentre i lavoratori delle cooperative svolgono attività accessorie, ma comunque specializzate, come il rifilo delle cosce ed altri tagli. Quindi riepilogando: nessun rischio d’impresa e nemmeno autonomia, ma utilizzo di queste cooperative come somministratori od intermediatori di manodopera. Peccato che non sono soggetti autorizzati, quindi lo effettuano in modo illegale ed inoltre non è nemmeno previsto dal Contratto Nazionale di Lavoro. Così come lo stesso Contratto non prevede, al suo articolo 4, l’appalto di lavori pertinenti le attività di trasformazione dell’azienda. Il tutto però viene fatto impunemente da anni, alla luce del sole e a dispetto di quegli imprenditori che hanno sempre cercato di comportarsi onestamente senza ricorrere a simili soluzioni organizzative. Il sistema “interinale” è di gran lunga il sistema più gettonato negli ultimi anni. Ovviamente viste le possibilità di sviluppo delle situazioni descritte in precedenza le imprese che ricorrono a queste soluzioni organizzative non si pongono certo il problema della sua regolarità o meno. Stiamo assistendo ad un utilizzo delle cooperative di facchinaggio come se fossero imprese interinali quindi, tramite un fittizio appalto di lavori di facchinaggio, i soci lavoratori vengono poi adibiti sulle linee di produzione in promiscuità con il personale dipendente delle aziende committenti. Inizialmente inizia per sostituire lavoratori ammalati poi, visto il notevole risparmio sul costo del lavoro, la scelta diviene strutturale. Il risultato è che nel comprensorio si sta diffondendo questa pratica ed ormai in tutti i settori è presente questo modello, nelle carni e nei salumi è ormai fuori controllo.
Esempi di Appalti. Il caso più eclatante: una cooperativa “A” ha la sede in Modena nello stesso ufficio della consulente dell’azienda committente “Squalo” la quale a sua volta segue altre cooperative fra le quali anche quella di suo figlio. Nella vecchia sede legale della citata cooperativa “A” ha trovato ora sede un'altra cooperativa “C”. A quest’ultima cooperativa “C”, la cooperativa “A”, ha sub appaltato alcune lavorazioni delle carni che si effettuano presso la “Squalo”. La consulente della “Squalo” è anche la consulente di “Competitivi” azienda, quest’ultima, acerrima concorrente della prima. Da notare che la “A”, iscritta alla Legacoop, iniziò la sua attività nel 1992 presso una storica azienda della lavorazione delle carni, la “Neuro”, ora direttamente controllata da “Competitivi”, e la sua sede legale era proprio presso la sede di quell’impresa. Nel primo CdA era presente l’attuale consulente della “Squalo” e “Competitivi”. Chi dirige la “A” è uno straniero che non risulta nel CdA, ma solo come semplice socio, mentre il fratello è Presidente della “C” e sua moglie con lo stesso suo fratello sono soci accomandatari di un’altra impresa, la “D”, che ha in appalto lavorazioni dalla stessa “A” presso l’azienda committente “Squalo”. La “A” si occupa, come da contratto d’appalto, della toelettatura e disossatura carni. Il trasferimento di ramo d’impresa, con il successivo accordo commerciale, non ha causato esuberi o licenziamenti. Molti lavoratori sono passati autonomamente dalla “Squalo” alla cooperativa “A” perché interessati al “guadagno immediato e interessante” ed anche perché incentivati a farlo. L’incentivo, che è più corretto definire disincentivo, consisteva nel far lavorare 8 ore i lavoratori della “Squalo”, così chi si era abituato ai livelli economici raggiunti nei mesi precedenti, con il pagamento delle ore di straordinario in nero, veniva, senza troppi veli, indirizzato presso la cooperativa “A” o “C”. Il CCNL di riferimento per i soci lavoratori è quello della logistica e della movimentazione merci. Il reparto affittato alla “A” viene diretto da personale della “Squalo” nella figura del Direttore di produzione d’allora e anche dal maggior azionista. Da evidenziare che l’azienda committente “Squalo” indirizza le persone, che presentano la domanda di lavoro, direttamente verso la cooperativa “A” ed esplicitamente affermano che non assumano più nessuno e che le assunzioni vengono effettuate solo dalle cooperative. Alcune domande d’assunzione la “A” le smista alla “C” o alla “D”. La A, nella figura del suo Presidente, controlla e gestisce in prima persona il lavoro della “C” e della “D”. La maggioranza dei lavoratori occupati presso questo reparto appaltato sono extracomunitari di origine indiana e pakistana. Lavorano a tutti gli orari del giorno, prevalentemente dalle 5.00 alle 19.00, compresi i sabati mattina e spesso anche alla festa e alla notte, con personale più ridotto. Le persone non sono mai le stesse, dalle informazioni che abbiamo il turn over è molto alto e le capacità professionali di questi lavoratori sono estremamente deboli e limitate. Per quanto riguarda la parte che ancora “ufficialmente” è rimasta sotto il controllo della committente “Squalo”, in cui sono occupati circa 40 persone, il turn over è praticamente bloccato. Ogni tanto, all’inizio, cioè quando nacque l’operazione di affitto di ramo d’impresa, i dipendenti della “Squalo” venivano sostituiti da soci lavoratori solo quando erano assenti per malattia o per le ferie, la postazione veniva affidata ad un lavoratore della cooperativa pronto all’uso. Se venivano fatti scioperi? Nessun problema, il lavoro viene fatto fare alla cooperativa. Episodi già segnalati all’Ispettorato del Lavoro senza nessun esito concreto.
Il caso che fa scuola. Presso la “Competitivi”. Oltre 8 cooperative gestite direttamente dai capi reparto della “Competitivi”. Le cooperative non hanno nemmeno una sede legale, se ce l’hanno è presso l’abitazione del suo Presidente o presso lo studio del suo commercialista. Quasi tutte queste cooperative sono costituite da extracomunitari così come il loro Presidente che in molti casi non è altro che un vero e proprio prestanome di “Competitivi”. Per molti anni un dipendente extracomunitario della “Competitivi” è stato anche Presidente di una cooperativa che lavorava presso la stessa azienda in cui lui era dipendente. I dipendenti delle cooperative sono ormai in un numero uguale ai dipendenti della “Competitivi”. Gli orari di lavoro non sono meno di 10/11 ore al giorno compreso tutti i sabati fino alle 14.00 e a volte fino alle 17.00. Molte ore di lavoro vengono retribuite con la voce retributiva “trasferta italia”, non tassata fiscalmente e nemmeno previdenzialmente. Questa azienda è stata oggetto di ripetuti interventi ispettivi richiesti dalle OO.SS ma nulla è stato trovato. Per l’ispettorato vengono svolte attività che si possono ricondurre a quelle previste dal DPR 602/70: toelettatura e macellazione. Poco importa l’autonomia imprenditoriale e il rischio d’impresa! E poco importa l’articolo 4 del CCNL dell’industria alimentare che vieta gli appalti delle attività produttive pertinenti alle attività di trasformazione dell’azienda. I soci lavoratori delle cooperative non hanno sufficienti ed idonei luoghi da utilizzare come spogliatoio e mensa. Episodi già segnalati all’Ispettorato del Lavoro senza nessun esito concreto.
Un caso di strano “conflitto d’interessi”. La “Competitivi” controlla direttamente la “Neuro” ed all’interno di quest’ultima è presente una cooperativa di facchinaggio. La “Neuro” è ha come direttore un amico del proprietario della “Competitivi”. Il figlio del citato direttore è Presidente della cooperativa che lavora presso la “Neuro” ed ha anche in appalto lavori presso la “Competitivi”. La vice Presidente della cooperativa, quella che dirige nei fatti la medesima, è la moglie di uno dei figli del titolare della “Competitivi”. Le tre aziende: “Competitivi”, “Squalo” e “Neuro” insieme lavorano una notevolissima quantità di cosce suine, oltre le 150.000 al giorno!
Un caso di appalto casalingo. Un’azienda appalta fasi del processo produttivo ad una cooperativa i cui dirigenti sono della famiglia dell’azienda committente. I soci lavoratori sono in palese promiscuità con i dipendenti dell’azienda committente, li sostituiscono quando sono assenti, e sono diretti ed organizzati dai proprietari dell’azienda stessa. Il Presidente di quella cooperativa è dipendente dell’azienda committente e figlia di uno dei proprietari e moglie di un altro socio della cooperativa anch’egli presente nel CdA. Mentre la moglie di uno dei titolari dell’azienda committente che svolge l’attività di responsabile amministrativo è anch’essa nel CdA della cooperativa così come lo è un’altra moglie di uno dei proprietari dell’azienda committente, anche quest’ultima è membro del CdA della cooperativa e dipendente della stessa azienda committente. I soci lavoratori di questa cooperativa sono quasi tutti orientali, con netta prevalenza di cinesi. Evasioni ed elusioni fiscali sempre presenti. Episodio già segnalato all’Ispettorato del Lavoro senza nessun esito concreto. Altri casi ancora potrebbero essere evidenziati, ma crediamo sia già sufficiente così! Umberto Franciosi.
Inchiesta italiana su “Repubblica” a firma di Davide Carlucci e Sandro De Riccardis col titolo: Schiavi e caporali a Natale, scandalo false cooperative. Vengono usate come forma di outsourcing, con il vantaggio che i "soci" sono facilmente licenziabili. Fini mutualistici solo sulla carta, così si sfruttano i benefici su fisco e costo del lavoro. L'influenza di mafia e 'ndrangheta. Alla catena di montaggio che prepara il Natale, nei cubi di cemento dei grandi centri logistici che riforniscono gli scaffali dei supermercati di luci e decorazioni, entrano che non è ancora l'alba ed escono che è già notte. Nelle grandi piattaforme della grande distribuzione, sperdute nelle campagne di tutta Italia, sgobba una nuova classe di lavoratori. Sono gli schiavi del Natale. Formalmente, soci di cooperative. In realtà persone che, di fatto, hanno meno diritti dei dipendenti delle aziende classiche, con la sola differenza che spesso non sanno bene chi è il loro padrone. Due coop su tre, dicono le ispezioni delle direzioni provinciali del lavoro, sono irregolari. Ma quante sono allora in Italia le "cooperative spurie"? Quanti dipendenti occupano? E perché sia il sistema economico che la criminalità organizzata ricorrono sempre più a questa tipologia d'impresa che produce un valore aggiunto di 40 miliardi di euro, il tre per cento del totale nazionale?
LE DENUNCE. "Con questo mezzo, gli operai ad essa aderenti pensano di fare il primo passo nella via della loro emancipazione, poiché sottratto il lavoro da ogni dipendenza, l'associazione offrirà ad essi il modo di istruirsi, di educarsi e di togliersi dallo stato di miseria e soggezione in cui oggi si trovano...". Fa tenerezza rileggere le parole dello statuto della prima cooperativa modenese, fondata a Finale Emilia nel 1886, e confrontarle con il racconto che Juan, 124 anni dopo, ha reso alla procura di Lodi. Con altri quattro connazionali, il 36enne boliviano ha denunciato gli ingranaggi del sistema del lavoro nero nella piattaforma Dhl di San Giuliano Milanese, dove lo smistamento dei pacchi natalizi moltiplica il numero di colli da movimentare. "Ho girato diverse cooperative. I nomi cambiavano in continuazione ma i responsabili erano sempre gli stessi...". L'ultima "non mi consegnò mai il contratto di assunzione. Ma il quindici di ogni mese un caporale mi pagava in contanti. La mia busta paga era sempre a zero ore. Lavoravo nel settore carico con una mansione pericolosa, che richiedeva, però, velocità e lucidità. Poi abbiamo contattato il sindacato e ci siamo ribellati. Ma quando tornai in azienda, l'addetto alla sicurezza non mi fece entrare: ero licenziato". Ora Juan ha ottenuto il permesso di soggiorno in base all'articolo 18 della legge sull'immigrazione, quello utilizzato di solito dalle prostitute per fare arrestare i protettori. E come lui gli altri colleghi che hanno denunciato, oggi collocati in una vera cooperativa, la "Lotta all'emarginazione" di Sesto San Giovanni. Le prime segnalazioni della Filt-Cgil sulla piattaforma di San Giuliano risalgono all'aprile 2008. "Ai lavoratori regolarmente assunti venivano assegnati orari sempre più ridotti in modo da provocarne le dimissioni affinché fossero sostituiti da extracomunitari con permessi di soggiorno falsi...". Simon, anche lui boliviano, quarantenne, racconta di aver lavorato per più cooperative e di ricevere lo stipendio "su una carta di credito prepagata intestata a mio nome". Le cifre sono sempre minori di quelle concordate. Sulle denunce di Juan, Simon e gli altri è aperta un'inchiesta della direzione provinciale del lavoro di Milano. Molte coop citate nelle denunce, nel frattempo, hanno licenziato gli operai, come la Padana servizi - 70 in un colpo solo, con un semplice fax - o risultano inattive, come la Alfa coop e la Vidac.
IL BOOM. In Italia le cooperative sono 151mila, calcola l'ultimo rapporto di Unioncamere. E mostrano, a differenza delle altre imprese, "una notevole resistenza alle difficoltà della crisi", con un saldo positivo tra cessazioni e nuove costituzioni. Quasi la metà del totale (45 per cento) sono al Sud, ma è al Nord che creano più occupazione. Sicilia e Lazio sono le prime regioni per diffusione, seguono Lombardia e Campania, dove in media crescono del 2%. Sono il 2,1% del totale delle imprese italiane, con un milione e 400mila lavoratori impiegati ormai in ogni settore. La logistica - dove operano grandi gruppi come Colser di Parma (3000 dipendenti), Ucsa di Milano (1700), Gesconet di Roma, Cal di San Giuliano Milanese (900 soci), Piave di Torino, Transcoop di Reggio Emilia - è solo uno dei settori delle coop, che ora operano anche nell'outsourcing. Per esempio, grandi compagnie di assicurazioni hanno delegato a piccole coop di giovani diplomati - inserite all'interno di gruppi imprenditoriali molto floridi - lavori che prima erano riservati agli interni, ottenendo più flessibilità, ma anche la possibilità di lasciare a casa i "soci" quando le commesse scarseggiano. Un vero e proprio boom si registra poi nella sanità, nell'informatica, nelle telecomunicazioni, nell'edilizia, nel settore delle pulizie fin anche all'intermediazione finanziaria, all'istruzione, alla formazione privata. Con picchi di crescita superiori alla media delle altre imprese, soprattutto per quanto riguarda donne e immigrati. Ma cosa c'è dietro questa esplosione di vitalità? Un rilancio in grande stile o un uso distorto della forma cooperativa come quello che denunciano i facchini di San Giuliano Milanese?
IL RACKET. Dietro, spesso, ci sono soltanto delle truffe. Storie che sanno di caporalato e che riempiono decine di inchieste, dal Trentino alla Sicilia. Imprenditori, commercialisti, avvocati e consulenti fiscali sono i registi di reti di società intestate a prestanome con le quali danno avvio all'impresa criminale. Come funzionano le coop-patacca? Il meccanismo è quasi sempre lo stesso. S'intestano le cooperative ad anziani, disabili, tossicodipendenti, che in cambio di una firma ricevono poche decine di euro. Poi si dà il via all'attività, sfruttando le agevolazioni previste per questo genere d'impresa, con assunzioni in nero, buste paga inferiori ai pagamenti effettivamente corrisposti, straordinari nascosti in altre voci contabili, contributi e tasse non versate. Formalmente, i lavoratori sfruttati sono soci della coop. Ma essendo ricattati, le loro decisioni sono dirette dal presidente o dai suoi fantocci. Quando gli investigatori arrivano alle società, si trovano di fronte a società in liquidazione, a patrimoni pari a zero, ad amministratori fittizi. Ma non sempre i furbi la fanno franca. Il caso più noto è quello di Padova, dove un'operazione della Guardia di Finanza ha smantellato una "associazione per delinquere finalizzata all'evasione fiscale". Una rete di cooperative intestate a titolari di comodo, quasi tutte nell'orbita della Compagnia delle opere, aveva evaso 30 milioni di euro tra oneri previdenziali, fiscali e contributivi non versati. I militari hanno sequestrato anche 18 milioni di euro in contanti, titoli di società ed immobili tra Veneto, Toscana, Piemonte, Emilia Romagna. Tra i 21 indagati e i tre arrestati c'erano Willi Zampieri, 40 anni, presidente della società con un passato in Forza Italia; il commercialista Paolo Sinagra Brisca e una consulente del lavoro, ex tesoriere del Consiglio provinciale dell'Ordine, Patrizia Trivellato. Diecimila euro al giorno venivano reinvestiti in bar e negozi, mentre centinaia di lavoratori restavano senza contributi previdenziali. Le loro condizioni di lavoro sono lo spaccato del moderno schiavismo camuffato da cooperativismo: permessi per malattia o maternità negate, ferie inesistenti. Un caso isolato? Pare proprio di no. Nella capitale economica del paese, Milano, teoricamente il luogo più evoluto nei rapporti di lavoro, dal primo gennaio al 31 agosto 2010, gli accertamenti hanno svelato 1101 posizioni irregolari: collaboratori a progetto che nella realtà erano soci, lavoratori senza riposo giornaliero o settimanale, "con schede cronografiche infedeli, straordinari contabilizzati come indennità di trasferta, per le quali non è previsto il versamento di contributi", spiega il direttore provinciale del Lavoro di Milano, Paolo Weber. In otto mesi, gli ispettori della Direzione provinciale del lavoro hanno recuperato ben 426.780 euro di contributi non versati.
Caporalato, voucher e cooperative, scrive il 20 maggio 2016 Silvia Pagliuca su "La nuvola del lavoro" su "Il Corriere della Sera". Il caporalato è più vivo che mai. E non solo in agricoltura. A denunciarne le dimensioni con un’apposita Audizione alla IX Commissione Agricoltura al Senato, Assosomm, l’associazione delle Agenzie per il Lavoro, pronta a scendere in campo contro l’illegalità. «Il caporalato non coinvolge solo il settore primario, ma anche il terziario interessando la grande distribuzione – spiega Rosario Rasizza, Presidente di Assosomm – per questo, nella Rete di Qualità bisognerebbe far partecipare anche le imprese della distribuzione. Rete alla quale dovrebbero concorrere anche le Agenzie per il lavoro e gli enti bilaterali della somministrazione per contrastare il sommerso anche con dotazioni economiche proprie». Uno degli ambiti da tenere più sotto controllo è, secondo Assosomm, quello del lavoro svolto in forma cooperativistica, a cui si aggiunge la questione degli appalti. Bisogna distinguere tra «appalti genuini» e «appalti illeciti» e combattere le cosiddette «cooperative spurie» che, pur non essendo autorizzate, di fatto somministrano personale mediante il ricorso all’appalto. A ciò si aggiunge l’annosa questione di voucher, ritenuti uno dei principali strumenti di abusi, tra i quali si nasconde la criminalità. I lavoratori coinvolti e pagati con voucher, come certifica l’Inps, sono passati dai 24.755 del 2008 a 1.380.030 del 2015. Tra questi, il numero di “nuovi” lavoratori è stato pari a 809.341, vale a dire il 59%. È, secondo quanto denunciato da Assosomm, uno dei sintomi di un’applicazione fuori controllo, testimonianza del fatto che spesso i voucher vengono usati per coprire parzialmente attività in nero. Ogni settimana di lavoro irregolare, infatti, vengono staccati alcuni voucher di copertura. «Ad aggravare le irregolarità – ribadisce Rasizza – hanno contribuito anche le modifiche che la legge ha attuato nel tempo, allargando i buoni lavoro indiscriminatamente a tutte le categorie di lavoratori interessati ed estendendoli a tutti i settori di attività, amministrazioni pubbliche comprese». Tra i settori più richiesti, in particolare, il commercio (17,5%), il turismo (13,6%), i servizi (13,3%), seguiti da giardinaggio e pulizia (6,3%) e attività agricole (5,1%). Quanto alla connotazione territoriale, la regione nella quale si è fatto maggiore ricorso ai voucher è stata la Lombardia, con 47,5 milioni di buoni lavoro venduti. A seguire: il Veneto (38.4 milioni), l’Emilia-Romagna (34,3 milioni) e il Piemonte (24.461.263), mentre al Sud le capoliste sono state la Puglia (10,9 milioni) e la Sardegna (8,2 milioni). «Ora – conclude il presidente – bisogna dare l’alt, sospendere l’uso indiscriminato dei voucher, punire i responsabili e ripartire da zero».
La grande truffa delle false cooperative, scrive il 20 maggio 2013 Felicia Buonomo su “La Repubblica”. La tradizionale forma di lavoro in Emilia stravolta da un sistema di illegalità diffuso. Il caso dei cento lavoratori di Campogalliano, provincia di Modena, dove c'è una dogana e dove c'è la maggior parte dei corrieri internazionali. Le buste paga ritoccarte, l'evasione fiscale, il caporalato. Era il 1855 quando si costituì a Modena la prima società di mutuo soccorso, quella dei tipografi. L'esordio di un "sistema" che porterà ad attuare negli anni Sessanta e Settanta dell'Ottocento le prime forme di società cooperative di produzione e lavoro. La tradizione cooperativa in Emilia è forte e radicata. Ma quei valori oggi sono "violentati" da un sistema di illegalità diffuso. Gli addetti ai lavori, i cosiddetti "controllori", le chiamano cooperative spurie. Società che attraverso escamotage diversi e variegati perseguono una serie di obiettivi illeciti, come l'evasione fiscale e contributiva, l'applicazione di contratti pirata, l'illecita somministrazione di mano d'opera e il caporalato. Parlare di cooperative è un vero e proprio depistaggio lessicale. Parliamo di cooperative che occupano prevalentemente lavoratori stranieri, molti dei quali incapaci di leggere e scrivere l'italiano, e che, come tali, non hanno mai votato un bilancio sociale, come di norma spetterebbe ai cosiddetti soci lavoratori. I settori in cui si sono insinuate sono diversi. Tra questi quello della logistica. Campogalliano, un piccolo paese alle porte di Modena, per la sua collocazione geografica si caratterizza per una presenza, più che nel resto della provincia, di lavoratori riconducibili alla cooperazione. La presenza della dogana, infatti, ha determinato una grande concentrazione di grossi corrieri internazionali, che a loro volta appaltano anche ad aziende di autotrasporto, spesso cooperative. Una sorta di ombelico del mondo nel settore. È proprio a Campogalliano che hanno sede la Fruit Logistic e la Ggroup, due società cooperative che da un giorno all'altro sono scomparse, lasciando 100 tra facchini e carrellisti privi di lavoro e anche di stipendi per mesi. "Si sono rivolti a noi - spiega Cesare Galantini, sindacalista Filt-Cgil Modena - i lavoratori di queste due cooperative, riconducibili alla stessa proprietà, che ci segnalavano problemi di ritardi di pagamento e sospensioni nel lavoro. Poi un giorno davanti alla sede delle società è comparso un cartello che diceva di rivolgersi a Milano, a una sede che di fatto era irreperibile. Loro forniscono manodopera per appalti nel settore della logistica. Si parla di situazioni border line su quella che è la somministrazione pura e semplice di manodopera. Stiamo lavorando per attivare la responsabilità dei committenti, perché esiste una normativa che impone al committente di rispondere in solido in caso di inadempienza dell'appaltate". "Loro fanno sempre i furbi - racconta un lavoratore, Babiy Vitaliy, ucraino che da anni è dipendente della cooperativa di Campogalliano - in busta paga non mettono mai le ore giuste. Dicono sempre che c'è stato un errore e che me li restituiranno il prossimo mese. Qua ad esempio - dice il lavoratore mostrando la busta paga - c'è scritto 114 ore, ma io ho lavorato 160 ore e così noi non riusciamo mai veramente a capire cosa ci spetta". È filippino, invece, Rogelio Apigo, che esterna tutte le proprie difficoltà: "È difficile andare avanti così. È da novembre che mi manca lo stipendio. Ho cinque figli e non lavoro da quasi due mesi. Mi dite che cosa possa fare?". Alla fine si è riusciti a rintracciare le due società cooperative e i sindacalisti hanno recuperato gli stipendi arretrati, ma il lavoro è ormai perso per i 100 facchini. "Le cooperative spurie - spiega Giulia Grandi, segretaria provinciale Filt-Cgil Modena - agiscono su due fronti. O con la non applicazione del contratto nazionale. Oppure, pur applicandolo, inseriscono in busta paga delle ore che non sono riconducibili alle ore lavorate, ma a trasferte". Un espediente che serve alle imprese per tenere basso il costo del lavoro. In sostanza l'azienda, al fine di pagare meno tasse, trasforma una parte del reddito in spese per trasferte (mai state effettuate). L'importo dei rimborsi spese, infatti, non diviene oggetto di reddito imponibile (ovvero reddito soggetto a tassazione), il quale sarà così più basso; reddito sul quale, di conseguenza, l'azienda pagherà meno tasse. Poi c'è l'evasione contributiva e cioè il ridotto importo dei contributi previdenziali. La Cgil ha quantificato il danno in 3-400 euro mensili in meno in busta paga per ogni addetto. In termini di evasione ed elusione, invece, si parla di percentuali medie del 25 per cento. "Non ci troviamo più di fronte a un libero mercato in senso positivo - aggiunge Giulia Grandi - ma di chi tiene il prezzo più basso. Questo determina anche l'esclusione o perdita di appalti di cooperative, che nei grandi numeri vanno fuori mercato. Abbiamo avuto un aumento delle persone occupate all'interno del settore del facchinaggio, ma solo a fronte di un maggiore sfruttamento del lavoro". I "furbetti delle cooperative" si sono ingegnati e hanno ideato diversi metodi per operare in regime di risparmio, pur in spregio alle regole, a danno ovviamente di coloro che (ancora ne esistono) credono ancora in una concorrenza leale. "Avviene che in grosse realtà - spiega Grandi - sia lo stesso committente che decide, arruolando un proprio dipendente, di creare una cooperativa cui appaltare fasi di lavorazione, con dei prestanome nei fatti, perché l'appalto di fatto non è più genuino". Non siamo ancora nel terreno dell'illegalità manifesta, ma in una situazione al limite, border line, sicuramente non genuina. In provincia di Modena sono oltre 1460 le imprese cooperative registrate. Stranamente solo circa 950 sono quelle attive; centinaia sono inattive o in liquidazione. In particolare nel settore della logistica, su un insieme di circa 240 aziende iscritte, ben 182 (il 76%) sono cooperative e di queste solo 16 (l'8%) sono associate - e controllate - alle strutture territoriali della cooperazione (Legacoop, Confcooperative o Agci). "La sproporzione è evidente - ammette Gianluca Verasani, direttore di Legacoop Modena - e non può non suscitare forti dubbi circa la diffusione di forme cooperative spurie che nulla hanno a che vedere con la reale natura cooperativa". "Spesso - aggiunte la sindacalista - vengono appaltate delle vere e proprie linee di produzione. I dipendenti diretti e quelli in appalto svolgono le stesse mansioni, ma i secondi costano meno. Una flessibilità che costa poco e garantisce alle imprese un doppio guadagno".
NAZIONE CHE VAI, CAPORALATO CHE TROVI.
Ma la schiavitù all'estero è anche legalizzata.
"Schiavi" italiani in Australia? Sì, ma legali. E invece di indignarci dovremmo imitarli. Un'inchiesta tv ha denunciato casi di schiavismo nelle campagne dell'isola oceanica. Gli sfruttati sono però solo una piccola parte del totale e il sistema di Canberra offre ai migranti molte più garanzie del nostro, scrive Stefano Vergine su "L'Espresso". «L'odissea dei giovani schiavi italiani. Undici ore a notte, a raccogliere cipolle». L'articolo pubblicato dal “Corriere della Sera” racconta il risultato di un'inchiesta giornalistica condotta dalla popolare trasmissione televisiva australiana “Four Corners”. Un programma che ha squarciato il velo, nella terra dei canguri, sulle migliaia di giovani europei che finiscono a lavorare gratis nelle fattorie. Tutto vero. Per gli australiani meno informati è stato sicuramente uno shock scoprire che nel loro Paese ci sono persone praticamente schiavizzate, raccoglitori di quei prodotti che finiscono poi nei supermercati di Sydney, Melbourne, Brisbane, Darwin e delle altre cittadine sparse per l'immensa isola dell'Oceania. Ma le cose sono un po' più complicate di come appaiono. Ovvero: per tanti che hanno denunciato condizioni di sfruttamento, ce ne sono almeno altrettanti contenti dei loro tre mesi di vita agreste. Perché, a differenza di quanto succede in Italia con gli extracomunitari, di fatto costretti all'illegalità oltre che talvolta schiavizzati, in Australia i tre mesi di lavoro in campagna danno diritto a un regolare permesso di soggiorno. L'inchiesta in questione si è concentrata sul visto vacanza-lavoro, il “working holiday visa” . Rilasciato solo a cittadini di alcune nazioni industrializzate, con età compresa tra i 18 e i 31 anni, costa poche centinaia di euro e permette di stare in Australia per un anno lavorando a tempo pieno, estendendo la permanenza di un altro anno se il migrante è disposto a svolgere per tre mesi alcune mansioni come l'agricoltore o l'allevatore. Si può decidere di farlo percependo uno stipendio (le paghe variano dai 10 ai 25 dollari australiani all'ora), oppure prestare la propria opera gratuitamente, in cambio di vitto e alloggio. Nel 2014, scrive il “Corriere” della Sera citando i dati del dipartimento per l'Immigrazione australiana, nel Paese c'erano più di 145 mila giovani con questo tipo di visto, oltre 11 mila dei quali italiani. I casi di sfruttamento sono stati ben documentati dalla tv australiana. E pure il "Corriere" ha dato conto di alcuni esempi, come quello di due ragazze che, impiegate in un'azienda agricola, raccoglievano cipolle rosse «dalle sette di sera alle sei di mattina, anche quando pioveva o faceva freddo». Il fatto è che quelli evidenziati da “Four Corners” sono solo i casi sfortunati. Chi scrive ha potuto sperimentare in prima persona il working holiday visa australiano. E può assicurare che molti europei, fra cui parecchi italiani, non hanno subìto alcun tipo di sfruttamento. Certo, con questo sistema le aziende locali beneficiano della manodopera straniera a basso costo, ma c'è un altro lato della medaglia da considerare. Grazie a questa politica migratoria, gli italiani e i tanti altri cittadini stranieri che vogliono emigrare in Australia possono farlo legalmente. Fanno la richiesta di visto online, vanno a lavorare per tre mesi in campagna, pagati oppure solo compensati con il vitto e l'alloggio, e in questo modo si guadagnano la possibilità di restare nel Paese per un secondo anno (in realtà, come ricorda il “Corriere”, il governo di Canberra ha recentemente deciso di concedere l'estensione del visto solo a chi viene pagato per lavorare). La sostanza però non cambia. Invece di costringerli ad entrare illegalmente, come avviene oggi per i tanti extracomunitari che continuano ad arrivare sulle nostre coste, adottando una politica migratoria simile a quella del "working holiday visa" si permetterebbe ai migranti di avere due anni di visto per stare nel Paese, tempo utile per imparare la lingua e trovarsi un lavoro. Al contempo, le aziende italiane beneficerebbero di manodopera a basso costo, come peraltro già avviene. Ma tutto questo avverrebbe in modo legale, mentre oggi da noi le campagne sono ancora teatro di uno sfruttamento ben più pesante rispetto a quello visto nei casi raccontati dalla tv australiana.
Noi, italiane felici di far le "schiave" in Australia. "Mille dollari a settimana è sfruttamento?". Il nostro articolo della scorsa settimana che "difendeva" il sistema di immigrazione del paese Oltreoceano ha scatenato polemiche e reazioni. Alcune ragazze ci hanno scritto per raccontarci com'è davvero la vita nelle fattorie e sfatare qualche leggenda, continua Stefano Vergine. Il nostro articolo sulle condizioni di lavoro degli italiani che si trasferiscono in Australia ha scatenato polemiche. Abbiamo ricevuto parecchi commenti da parte di lettori che ci hanno accusato di difendere le leggi “schiaviste” di Canberra. Nei giorni scorsi ci hanno però scritto via email anche giovani connazionali che hanno avuto esperienza diretta di quanto da noi descritto, e che sono rimasti soddisfatti della vita nelle aziende agricole, le cosiddette farm. «Dopo aver letto l'articolo del "Corriere della Sera" sono rimasta scioccata dal fatto che vengano sempre sottolineate le esperienze negative, mai quelle buone. Rivolgendoci alle famiglie italiane, vogliamo rassicurare tutti i genitori preoccupati per noi poveri figli "sfruttati" Oltreoceano», ha scritto ad esempio Arianna Pozzobon. Che ha poi aggiunto: «Se per l’italiano medio essere sfruttato significa lavorare 11 ore al giorno per 1.000 dollari alla settimana, allora voglio essere sfruttata anche io». Abbiamo deciso di pubblicare alcune di queste lettere. Le storie che leggerete qui sotto riguardano quattro ragazze arrivate in Australia con il working holiday visa, il visto vacanza-lavoro che offre la possibilità agli italiani di età compresa fra i 18 e i 31 anni di restare nel Paese per un anno e di rinnovare il permesso per altri dodici mesi in cambio di 88 giorni di lavoro in campagna. Sono storie che raccontano la durezza del lavoro in campagna, le fregature che si possono incontrare, ma anche i lauti guadagni, le amicizie, la capacità di sapersi adattare a situazioni nuove. Storie che permettono di capire in cosa può consistere, concretamente, l'esperienza in fattoria, quella che migliaia di giovani connazionali stanno sperimentando ogni anno.
Francesca Calabrese, 22 anni, di Cervia. "Sono arrivata a Melbourne nell'ottobre del 2013 e mi sono trasferita subito a Mildura, sempre nello stato del Victoria, perché lì avevo il contatto di un amico. In campagna ho raccolto un po' di tutto: fagiolini, meloni, olive, zucche, pomodorini, uva, asparagi. Ho avuto solo un'esperienza negativa in un'azienda dove si raccoglievano broccoli. Alla fine della giornata lavorativa non sono stata pagata, motivo per cui non ci sono più tornata. In generale le varie aziende agricole mi davano 14 dollari l'ora, una paga bassa per i livelli australiani, ma c'è un motivo: tutti questi lavori me li ha trovati quello che qui chiamano “contractor”, una persona – nel mio caso italiana – che ti procura l'impiego in cambio di una commissione. In realtà grazie a lui ho trovato anche lavori pagati meglio, ad esempio la raccolta degli asparagi per 20,5 dollari all'ora. Ad ogni modo, sia io che i miei colleghi eravamo consapevoli della situazione, cioè sapevamo che il contractor si prendeva una fetta dello stipendio, ma nonostante tutto eravamo felici di vivere l’esperienza delle farm, tant'è che io ci sono tornata a lavorare anche una volta finiti gli 88 giorni necessari per rinnovare il visto per il secondo anno".
Arianna Pozzobon, 29 anni, di Treviso. "Sono arrivata a Perth ad agosto 2014. Dopo aver viaggiato un po' per la costa occidentale del Paese, a ottobre ho trovato posto in una farm di Darwin che coltiva mango. E' stata dura. Lavoravo sette giorni su sette, dodici ore al giorno, con temperature che arrivavano fino a 45 gradi. Però la paga era molto buona: 1.300 dollari alla settimana, senza contare le tasse e la pensione personale che il proprietario dell'azienda versava per mio conto. Con i soldi guadagnati ho viaggiato per l'Australia centrale fino ad arrivare a Melbourne, dove ho lavorato come cameriera in una caffetteria. Poi, ai primi di aprile, mi sono diretta verso nord-est con alcuni amici e abbiamo trovato impiego in una farm di mandarini a Mundubbera, in Queensland, dove mi trovo tuttora. Qui il salario è di 85 dollari per ogni cesto di mandarini riempito, che equivale a 400 chili. Io ne faccio in media due al giorno, quindi sono 170 dollari, ma in realtà potrei farne di più, dipende da quanto voglio guadagnare visto che i proprietari ci permettono di gestire l'orario in autonomia. Ho un giorno libero alla settimana e alloggio in un caravan park: è praticamente un campeggio per roulotte. Ho una cabina personale, i bagni e la cucina sono pubblici, l’affitto è di 90 dollari alla settimana. Insomma, finora la mia vita in farm è stata molto soddisfacente".
Alice Riccamboni, 21 anni, di Trento. "Sono arrivata a Melbourne nel gennaio 2015 con l'idea di trovare un lavoro in città. Non sono stata fortunata, i soldi iniziavano a scarseggiare, quindi ho deciso di partire per le farm. Il 9 febbraio sono arrivata a Mildura e ho contattato un contractor. Il giorno seguente ho cominciato a lavorare. Per un mese ho raccolto uva, olive e angurie. Poi ho fatto il controllo qualità delle mandorle: prendevo 23 dollari all'ora. Ci sono state anche esperienze di lavoro meno piacevoli. A Griffith, nello stato del Nuovo Galles del Sud, ho raccolto zucche per soli 13,5 dollari all'ora. Dopo una settimana, insieme a cinque amiche, ce ne siamo andate. Abbiamo fatto un mini-viaggio passando per Sydney e Brisbane prima di arrivare a Mundubbera, ma purtroppo anche qui non ho trovato lavoro. In generale le mie aspettative sull'Australia erano molto più alte rispetto a quanto ho sperimentato finora, ma nonostante ciò è stata un'esperienza di vita che mi cambierà per sempre e che ricorderò con piacere. Tornassi indietro, ripartirei altre mille volte!"
Giada Mattioli, 23 anni, di Modena. "Sono arrivata a Perth nell'ottobre del 2014, dopo un mese mi sono spostata in campagna per iniziare i tre mesi di farm. La prima tappa è stata Munjimup, a tre ore da Perth. Selezionavo mele. Mi davano 3 dollari ad albero, l'alloggio costava 150 dollari a settimana. In pratica, ogni due settimane mettevo da parte 800 dollari. E poi ho conosciuto un sacco di gente interessante, motivo per cui ci sono rimasta due mesi. Finita la stagione delle mele ho passato un mese e mezzo a Margaret River, a due ore da Perth, a raccogliere uva. Lì eravamo in tanti, quindi si lavorava a rotazione, quattro giorni a settimana, per 4-5 ore al giorno e circa 200 dollari alla settimana. Non un granché, ma è stato comunque un periodo fantastico. Ho avuto anche un'esperienza dura, una fattoria della zona di Melbourne dove raccoglievo pomodori. Lavoravo sette giorni su sette, 10-11 ore al giorno, anche sotto la pioggia, e mi pagavano solo 50 dollari al giorno. Dato che sapevo di poter trovare di meglio, dopo un paio di settimane giorni mi sono spostata a nord di Brisbane per raccogliere mandarini. Da una ventina di giorni ho superato i tre mesi di farm necessari per rinnovare il visto, ma sono ancora qui perché sono circondata da persone fantastiche, datori di lavoro compresi, e posso tranquillamente dire che sto vivendo l'esperienza più bella della mia vita".
"Lavorare in Australia è stato un vero incubo. Vi racconto l'inferno e lo sfruttamento in farm". Tempi di lavoro massacranti, i terribili contractors, le paghe da fame. Dopo aver pubblicato le esperienze di chi, nonostante la fatica, è rimasto soddisfatto dall'esperienza in Australia, L'Espresso ospita la lettera di un italiano che racconta i mesi tremendi passati nel paese oceanico. L'Espresso ha aperto un dibattito con i lettori sul tema degli immigrati italiani in Australia. Stefano Vergine, giornalista della nostra testata e con un'esperienza diretta nei campi del luogo, ha difeso il sistema delle vacanze lavoro del paese Oltreoceano in questi giorni al centro di polemiche anche a Sidney. Sul nostro sito abbiamo anche ospitato le storie di chi è rimasto soddisfatto del suo periodo di lavoro nelle fattorie australiane. Di seguito pubblichiamo invece l'esperienza di Marco (nome di fantasia, che in Australia ha dovuto subire ricatti ed ha deciso di raccontarci la sua pessima esperienza. "Sono partito in Australia a metà settembre, con l'idea, come tanti altri miei coetanei, di cercare dall'altra parte del mondo quello che purtroppo qui in Italia è quasi impossibile trovare: il lavoro. A leggere in rete le esperienze di alcuni pare che si tratti dell'eldorado. Purtroppo non è proprio così. Il primo impiego l'ho trovato a Gatton (Queensland) in una farm dove ai primi di ottobre la principale coltura era quella dei broccoli. Io vivevo nel caravan Park di Gatton, un agglomerato di vecchie roulotte e camper gestito da tal Steve, pittoresco personaggio in contatto con il mondo dei contractors, ovvero i "caporali" che fanno da tramite fra i proprietari di farm e la potenziale manodopera. Appena "sbarcato" al caravan Park, mi è stato consegnato un foglio con i numeri di telefono di questi contractors, ed io, fattomi consigliare da un ragazzo italiano che stava lì da un po', ho subito mandato un sms a quello considerato più remunerativo in termini di paghe e giornate di lavoro offerte. Sono stato subito risposto con un " OK tomorrow 4.30 pick up thanks". Cioé "Alle 4,30 appuntamento al piazzale del campeggio. La mattina dopo, puntualmente, vengo caricato e portato in un bus in un enorme campo di broccoli. Abbiamo iniziato subito a lavorare, mi hanno messo in squadra con una serie di migranti delle Fiji, ragazze più avvezze di me al lavoro agricolo. La mia mansione consisteva nel raccogliere i broccoli, tagliarli con dei mini machete e buttarli nel "bin" del trattore che dietro di noi procedeva inesorabilmente a volte pure a rischio di metterci sotto. La produttività non aspetta evidentemente. Come supervisore avevo un vecchio barbuto che per tutta la mattina non ha fatto altro che urlarmi che ero troppo lento o che stavo lasciandomi dietro i broccoli più grandi. E' curioso notare come i broccoli siano troppo grandi o troppo piccoli a seconda del "gusto" personale dei supervisors. L'unica regola che mi era stata data per selezionarli era la seguente "devono avere la grandezza di una bella tetta". "The size of a nice titty grasp". Ecco. Vi lascio immaginare. Ovviamente non avevo mai raccolto broccoli ma a crazy Frankie non poteva fregare di meno. Dopo più o meno sei ore di lavoro, verso l'una del pomeriggio, veniamo riportati indietro. Dimenticavo; il lavoro nel campo era molto faticoso per via del fango che arrivava fino alle ginocchia. Dettagli, ma che lasciano intuire quanto per un esordiente totale possa essere scioccante il primo impatto con la vita agreste australiana. Qualche giorno dopo, un mio amico tedesco, mi consigliò di andare con lui la mattina dopo al "pick up" delle 4 davanti al Coles, una catena di supermarket. Ci presentiamo con altri ragazzi al parcheggio (strapieno di backpackers come noi) e subito inizia a serpeggiare il dubbio che chi fosse sprovvisto di "basket and scissors" non potesse lavorare. Non ci siamo fatti scoraggiare e ci siamo messi in macchina (il mio amico ne era provvisto) a seguire il convoglio che portava fino all'enorme campo di cipolle. Arrivati lì ci troviamo davanti ad un campo se possibile ancora più imponente sdi quello di broccoli, pieno di cipolle da tagliare. Io ed altri non siamo stati accettati perchè, come previsto, non eravamo muniti di bacinella e forbicioni, ma per 15 dollari un contractor australo-turco me ne ha venduto un paio "for the next time". Scoraggiato da queste esperienze dopo pochi giorni mi sono lanciato nell'avventura del Woofing, nella cosiddetta Krishna Farm, nei pressi di Murwillumbah, in New South Wales. Il Woofing sarebbe lavorare per vitto e alloggio. Una sorta di volontariato che insegna (nel caso della Krishna farm) la filosofia della permacultura e dell'agricoltura biologica. Ho passato lì due magnifiche settimane, dividendomi fra lavoro nei campi, lezioni di yoga e induismo, pasti al tempio degli Hare Krishna e conoscendo un sacco di persone splendide e piene di storie interessanti. I miei migliori ricordi australiani risiedono tutti lì. Dopo due settimana tuttavia con altri due ragazzi italiani conosciuti lì abbiamo deciso di rimetterci in viaggio alla ricerca di soldi e lavoro. Col Van di uno di loro, ci siamo spostati verso Stanthorpe, il paese geograficamente più in alto del Queensland e abbiamo preso "casa" (nel mio caso sarebbe meglio dire preso "tenda") in uno dei due caravan park del paese. Anche qui i gestori, due "simpatici" vecchini, offrono lavoro agricolo in quanto in contatto con i farmer. Attenzione, loro i contatti li hanno coi farmer, e non con i contractors, perchè a Stanthorpe esiste un'agenzia del lavoro che cerca di combattere la piaga dei contractors. I gestori del park ci hanno messo subito sulla strada per questa agenzia e, pieni di entusiasmo, ci siamo presentati lì come gli ennesimi backpackers in cerca di lavoro stagionale. La gentile signora dell'agenzia ci ha subito informato della scarsità di lavoro data dalla carenza di piogge, ma noi eravamo a conoscenza di un farmer mezzo italiano che sapevamo assumere praticamente solo italiani. Così, dopo pochi giorni di ricerche, abbiamo trovato la tenuta di questo fantomatico farmer, un immigrato italiano di seconda generazione che coltiva la vite, pesche ed albicocche. Presentatici lì nel cortile di questo baffuto italiano siamo stati accolti gentilmente e, con la promessa di esser richiamati dopo una settimana, ce ne siamo tornati a casa con in tasca la quasi certezza del lavoro. Puntualmente la settimana dopo siamo stati richiamati dandoci appuntamento per il giorno dopo, alle sei, per iniziare la raccolta delle pesche. In tanti ci avevano messo in guardia dal carattere di quest'uomo ma noi avevamo fame di lavoro e quindi, incoscienti, ci siamo lanciati fra le braccia di uno dei peggiori psicotici mai conosciuti in vita mia. Infatti, appena iniziato il lavoro, il farmer, mentre ci faceva indossare i sacchi per la raccolta, ci minacciò con un "Ma se licenzio uno di voi, gli altri poi tornano?". Stupiti abbiamo iniziato a lavorare, nonostante cose tipo "Qui nella mia farm non si usano guanti", "La tua felpa non va bene per lavorare", "Non mi piace come cammini, sembri un morto" eccetera. Io ho un brutto carattere, e dopo pranzo, quando alla segnalazione del suo scagnozzo di un mio errore (avevo buttato le pesche nel carrello sbagliato) il fattore ha iniziato a sbraitare chiamandoci "Fuckin' idiots", non ci ho visto più. Ho cercato di mettere le cose in chiaro, spiegando al boss che fuckin' idiots non si deve ne può dire a dei collaboratori, e che in primo luogo il rispetto era una cosa essenziale. Ma va beh, erano parole al vento, dato che anche nei successivi due giorni ha continuato ad insultarci e chiamarci in ogni modo. "Analfabeti, asini, cavalli” e via di seguito con lo zoo. Lasciamo perdere. Al terzo giorno, dopo che per due giorni avevamo complottato coi due amici di mandarlo a quel paese, alle otto e venti ho rischiato di cadere dalla scala con cui raccoglievamo le albicocche - le pesche le avevamo finite il giorno prima - e il fattore, vedendo la scena, non ha mancato di insultarmi per questo motivo. "Io non ti pago per cadere dalle scale, tu devi lavorare, qui è pieno di backpackers come voi, ci metto niente a licenziarvi". Non ci ho visto più. L'ho inondato di parolacce, gentili inviti ad andarsene a qual paese, e ho lanciato il sacco nel carrello, inforcato gli occhiali e messo le gambe in spalla per tornare a casa. Naturalmente lui ne ha approfittato per licenziare fra le urla pure i miei due amici e così, arrivati al cortile, c'è stato quasi un contatto fisico per fortuna risoltosi con un nulla di fatto. Il giorno dopo alle sette del mattino, il proprietario del caravan park mi ha svegliato dicendomi che servivano braccia per un campo di peperoni (gestito da un siciliano di seconda generazione) in cui fare weeding (strappare le erbacce banalmente). Entro quaranta minuti in reception per il passaggio al campo. Consumata una velocissima colazione ci siamo messi in viaggio io e uno dei miei due compagni italiani. Arrivati al campo ci siamo trovati per la prima volta davanti a persone "normali". Il lavoro durò fino alle due più o meno del pomeriggio, e oltre al weeding abbiamo aiutato la signora a ripulire e sistemare la farm. Il giorno dopo identico copione, ma con l'aggiunta di una possibilità, per il giorno dopo, di lavorare al planting dei peperoni. Abbiamo ovviamente accettato ed il giorno dopo eravamo alle sei nel campo puntualissimi e pronti alla pugna. Il planting dei peperoni avviene in questa maniera; seduti nei sedili posteriori di un trattore particolare (con serbatoio per l'acqua, due sedili ed una sorta di rastrelliera per prendere e togliere le casse di piantine) con una mano si prende un mazzetto di piante dalla rastrelliera, con l'altra si pianta nel terreno usando tutta la forza necessaria per il felice compimento dell'operazione. Il compito, inizialmente svolto a velocità umane, era piuttosto facile. Ma il serbatoio dell'acqua si svuotava in fretta, lasciandoci poco tempo e costringendo il trattorista a correre per i filari a velocità sempre più veloce. Inutile dire che ci siamo beccati degli insulti per la nostra lentezza e per la mia debolezza di braccia. Tuttavia a fine pomeriggio il lavoro era bello che finito. Il mio giudizio finale su questa farm è piuttosto buono: una brava persona costretta dall'economia ad assumere persone che come me non hanno nessuna esperienza nel "campo" dei campi agricoli. Tuttavia dopo il terzo giorno di lavoro non siamo stati più chiamati così arriviamo alla mia ultima esperienza lavorativa in terra australiana: la raccolta dei snow peas, banalmente una varietà di piselli. Solito passaggio in furgone e solito arrivo all'alba nel campo. Il compito era riempire dei secchi coi piselli raccolti dai filari. Compito facilissimo ma estremamente provante per la schiena. E soprattutto poco remunerativo, dato che in due (io ed una ragazza francese) in due ore e quaranta abbiamo fatto un secchio soltanto a testa. Poco prima delle otto abbiamo lasciato il campo e ci siamo fatti venire a prendere ed io, dentro di me, maturavo quella che poi qualche settimana dopo sarebbe stata la decisione di tornare in Italia. Riassumo qui le paghe ricevute per le mie prestazioni lavorative:
Raccolta broccoli. Sei ore circa di lavoro: 45 dollari-visti dopo più di una settimana;
Farm del primo italiano. Trecento dollari per due giorni di lavoro dalle 6 alle 4 o 5 del pomeriggio e per altre due ore e venti il terzo giorno;
Farm del secondo italiano. Trecentosettanta dollari per tre giorni “sani” di lavoro;
Campo di Snow Peas. Venti dollari da dividere in due per il riempimento di un secchio di piselli.
Non voglio dare giudizi. Tuttavia se ho deciso di tornare in patria è perchè alla fine dei conti a mio parere non vale la pena di mollare gli affetti e la propria famiglia per cercare di far “soldi” in un posto in cui hanno più che altro bisogno di braccia per mandare avanti la baracca del comparto agroalimentare. Posso solo dire che le condizioni di lavoro che si possono riscontrare a Rosarno sono, con le dovute differenze, molto simili a quelle in cui si trovano i “backpackers”.
COMUNISTI. QUELLI CHE CI VOGLIONO TUTTI UGUALI: TUTTI PIU’ POVERI.
Così Lenin uccise il lavoro togliendolo dal mercato. L'introduzione in Russia del "monopolio capitalistico di Stato" determinò un disastroso spreco di risorse, scrive Giampietro Berti, Martedì 22/08/2017, su "Il Giornale". Ci sono testi, oggi riproposti in occasione del centenario della rivoluzione d'ottobre, che annunciavano, involontariamente ma limpidamente, il fallimento catastrofico del comunismo. È il caso di questa antologia di scritti di Lenin, Economia della rivoluzione (Il Saggiatore, pagg. 521, euro 29, a cura di Vladimiro Giacché), con saggi e articoli del dittatore sovietico relativi agli anni 1917-1923, vale a dire quelli che corrono dalla conquista del potere in Russia da parte dei bolscevichi fino quasi alla morte dello stesso Lenin. Anni in cui Lenin e compagni hanno cercato l'impossibile quadratura del cerchio: tentare di dar vita a un'economia in grado di superare quella capitalista. Si vorrebbe dimostrare, in sostanza, che la lezione di Lenin possa essere ancora utile nel momento in cui il mondo occidentale, e non solo quello, è travagliato dalla crisi economica. Ma i conti non tornano proprio. Il punto di partenza è noto: la fantastica credenza marxista - ma anche, se vogliamo, di gran parte della sinistra - che, una volta aboliti la proprietà privata e il mercato, il lavoro sia, di per sé, sufficiente a produrre valore. Il lavoro umano non è inteso qui quale mero fattore dinamico di trasformazione della materia, ma come unica espressione autentica dell'universale essenza dell'uomo. È certo che il lavoro produce valore, ma la sola erogazione del lavoro - del lavoro vivo, per usare i termini marxiani - non costituisce affatto la condizione esaustiva dello sviluppo economico e della successiva creazione della ricchezza (per settant'anni, infatti, nell'Unione Sovietica è stata profusa una quantità incredibile di lavoro vivo, ma il solo risultato ottenuto è stata, per l'appunto, la miseria generalizzata). Secondo Lenin «il socialismo consiste nella distruzione dell'economia di mercato. Se rimane in vigore lo scambio, è persino ridicolo parlare di socialismo». «Il socialismo non è altro che il monopolio capitalistico di Stato». La società va concepita come «un grande ufficio e una grande fabbrica», dove vi sarà «la sostituzione totale e definitiva del commercio con la distribuzione organizzata secondo un piano», affinché lo Stato-Partito sia in grado di «tutto correggere, designare e costruire in base a un criterio unico», giungendo in tal modo alla «centralizzazione assoluta». Siamo, come si vede, alla piena affermazione della statalizzazione dell'economia che si rivela il passaggio obbligato per la realizzazione della società comunista. Nel piano unico di produzione e di scambio l'assenza dei prezzi di mercato, cioè degli indici insostituibili di scarsità, rende impossibile ogni razionale calcolo economico. Il comunismo, distruggendo il mercato, distrugge non solo il luogo reale dove si produce la ricchezza, ma anche il luogo razionale della sua creazione perché solo il mercato può indicare - grazie alla libera circolazione della moneta - quali sono i beni in eccedenza e quali sono in beni che scarseggiano. La pianificazione statocentrica, e il regime totalitario che inevitabilmente ne consegue, diventano l'unica possibile soluzione della costruzione della società «senza classi». L'illusione è che, se lo sforzo unanime dell'intera collettività, nelle sue diverse determinazioni produttive, fosse coscientemente regolato a priori, ovvero pianificato dall'unicità della direzione, ne conseguirebbe il superamento dell'esito alienante di ogni lavoro individuale, proprio della società borghese. Il lavoro del singolo finirebbe per identificarsi immediatamente con quello di tutti e la sua intrinseca dimensione sociale non avrebbe alcun bisogno di astrarsi nella forma del denaro quale mezzo di scambio. Il legame distorto esistente tra i singoli produttori, generato dalla logica mercantile attraverso l'uso perverso della moneta, proprio dell'assetto capitalistico, verrebbe superato e riportato alla sua autentica base naturale: le due entità, individuo e società, coinciderebbero di fatto in una coscienza indistinta. In tal modo, grazie alla pianificazione, sarebbe possibile instaurare il legame diretto e organico tra prodotto e produttore, e con ciò superare la divisione tra lavoro e appropriazione del lavoro. E con ciò siamo, con questo organicismo totalitario, al trionfo dell'antimoderno. Siamo, insomma, a quell'irriducibile rigurgito reazionario-romantico di rifiuto della modernizzazione che ha caratterizzato il comunismo. E poiché l'organicismo comunista richiede la duplice assenza della proprietà privata e del mercato, ne deriva che soltanto una volontà politica è in grado di dar corso alla sua realizzazione pratica. La domanda d'obbligo perciò è questa: perché solo una volontà politica, ovvero in questo caso la dittatura, può dare corso alla società organica? Ovvio, perché l'infondatezza scientifica della concezione economica marxista ha generato il fallimento di tutte le sue previsioni, con la conseguenza che la sua edificazione non si configura più come l'esito spontaneo dello sviluppo storico, ma come il prodotto forzato di una precisa decisione, quella di imporre una dittatura laddove la storia e la logica hanno dato torto all'infondatezza delle aspettative. In conclusione, il comunismo ha prodotto uno sbocco politicamente repressivo e un risultato economicamente fallimentare; due dimensioni che si sono alimentate reciprocamente: la miseria generata dalla pianificazione è stata il risultato circolare della depressione economica scaturita dalla repressione politica.
Cos'hanno in comune il comunismo e la crisi di Lehman brothers. Quest'anno si celebrano due anniversari importanti: è passato un secolo dalla Rivoluzione d’Ottobre e dieci anni fa è iniziata la crisi economica con il crack della banca americana. A unirle sono illusioni, menzogne, tradimenti, scrive Martin Sandbu il 25 agosto 2017 su "L'Espresso". Quest’anno ricorrono due anniversari - il centenario della rivoluzione russa e il decennio trascorso dall’inizio della crisi finanziaria globale - che hanno più in comune di quanto non appaia a prima vista. Entrambi gli eventi sono chiaramente epocali. La Rivoluzione d’Ottobre ha inaugurato una dittatura destinata a rappresentare, fino alla metà del Novecento, un contraltare all’egemonia del fascismo e, per tutto il XX secolo, al capitalismo democratico. La crisi finanziaria globale, nel frattempo, ha scosso le basi del modello che era emerso vincente dalla guerra fredda. Il comunismo opprimente che aveva caratterizzato il blocco sovietico negli anni ’80 è crollato sotto il peso delle sue stesse contraddizioni economiche e politiche. Le turbolenze di quest’ultimo periodo dimostrano che stiamo adesso cominciando a chiederci se le economie di mercato subiranno lo stesso destino. Ma le somiglianze fra i due eventi in questione sono più profonde della loro rilevanza storica. Anche la minaccia che grava attualmente sull’economia di mercato liberale è in sostanza la stessa che si è abbattuta sul suo sistema antagonista. Il comunismo è fallito perché ha perpetrato due grandi menzogne.
La prima è stata quella di tradire il sogno che aveva inizialmente attratto tanti milioni di persone: l’avvento di una società fondata sull’uguaglianza, la solidarietà e l’autorealizzazione attraverso il perseguimento del bene comune. Questa fede è sopravvissuta più a lungo di quanto si potesse giustificare persino nella madrepatria del comunismo – e ancor di più in Occidente. Ma alla fine si è infranta contro la realtà.
La seconda menzogna è stata la costruzione di un sistema economico basato sull’inganno e l’illusione. Oggi se ne è perso per lo più il ricordo, ma per buona parte del ventesimo secolo è infuriato un dibattito che tendeva a stabilire se il sistema più efficiente di allocazione delle risorse fosse quello della pianificazione centralizzata o quello dei mercati decentrati. La posizione favorevole al controllo statale dei mezzi di produzione si basava sulla convinzione che soltanto la pianificazione poteva evitare gli evidenti sprechi di risorse derivanti dalla disoccupazione di massa prodotta dal capitalismo e dalle ricorrenti carenze di domanda che provocano le recessioni.
Nella pratica, ovviamente, la pianificazione centrale si è rivelata un pessimo sistema di produzione e distribuzione dei beni richiesti dalla popolazione. Ma invece di correggersi, l’economia centralizzata ha trasformato il piano in una grande menzogna alla quale dovevano conformarsi le credenze pubbliche di tutti i cittadini, anche se in privato nessuno ci credeva. «Voi fate finta di pagarci e noi facciamo finta di lavorare» era la battuta che circolava da Rostock a Vladivostok, ma che rispondeva alla realtà. Solo più tardi la tesi di Friedrich von Hayek, secondo la quale i prezzi di mercato flessibili contengono maggiori informazioni di quante possa sperare di raccoglierne un sistema di pianificazione centralizzato, e che pertanto un processo decisionale disperso funziona in modo più efficiente di quanto le autorità statali possono fare, ha trovato un consenso intellettuale. Questo concetto fondamentale spiega in larga misura il crescente divario di prosperità tra i paesi capitalisti e quelli comunisti verso la fine della guerra fredda. Fino a quando non è stato messo bruscamente in crisi dalla crisi finanziaria globale, che ha minato qualsiasi pretesa di una superiorità del capitalismo finanziario occidentale come miglior sistema di organizzazione dell’economia. L’intuizione di Hayek sul meccanismo dei prezzi non è sbagliata, ma incompleta. I prezzi di mercato di beni e servizi sono effettivamente un sistema d’informazione più potente di qualsiasi piano centrale. Ma la recente crisi globale ha dimostrato che non si può dire lo stesso per i prezzi delle attività. Se il piano quinquennale era la grande menzogna del blocco sovietico, quella del capitalismo è che i valori di mercato delle attività finanziarie e d’altro tipo rispecchiano fedelmente il valore economico che rappresentano.
La crisi scoppiata nel mese di agosto di dieci anni fa ha rivelato brutalmente che i crediti finanziari accumulati durante la fase di espansione degli anni precedenti non si sommavano, e che il futuro sviluppo economico prevedibile era insufficiente per garantirne il pieno rientro. In sintesi, la ricchezza che la gente credeva di possedere non esisteva di fatto. Quando molti si sono resi conto che la loro ricchezza era fasulla, il sistema è crollato. E il disorientamento e la diffidenza che ne sono derivati, nella sfera dei mercati come in quella della politica, era del resto quel che ci si poteva aspettare quando milioni di persone si accorgono di essere state ingannate. Una bugia ne ha tirata un’altra, dal momento che il sistema del libero mercato, a sua volta, ha tradito il sogno che aveva alimentato. Le economie occidentali sono oggi molto più povere di quanto la tendenza precedente al crollo dei mercati finanziari lasciasse prevedere. La crisi e le sue conseguenze hanno lasciato i giovani, in particolare, con pochi motivi di speranza nelle stesse opportunità di prosperità economica dei genitori e dei nonni.
Quelli che vogliono che il capitalismo democratico torni a progredire devono trarre due lezioni da questo confronto. Innanzitutto, un sistema sociale può sopravvivere alla disillusione per lungo tempo. Il comunismo lo ha dimostrato, al pari del capitalismo, la cui promessa è stata tradita già qualche decennio prima dell’ultima crisi per alcuni gruppi sociali. Ma quando le persone vedono minacciate le proprie possibilità di sopravvivenza, si ribellano. Anche in questo caso, le società meglio in grado di resistere sono quelle che conoscono la verità su se stesse. L’inganno ha effetti disgreganti. Il capitalismo liberale è in pericolo perché il suo sistema finanziario ci ha consentito di ingannare noi stessi; e non ha riconosciuto francamente i suoi difetti quando sono diventati innegabili. Populisti di destra e di sinistra alimentano la nostalgia per gli anni d’oro dell’economia mista. E hanno ragione quando sostengono che la contesa fra pianificazione e laissez-faire si debba risolvere con un mix di questi due elementi. Ma la lezione principale da trarre da questa contesa è che qualsiasi sistema sociale ed economico deve essere innanzitutto onesto: non solo giusto, ma veritiero. E questo è un principio irrinunciabile che i populisti tendono difficilmente a rispettare. Traduzione di Mario Baccianini The Financial Times Limited 2017
La grande fuga dai nuovi voucher. L’Inps: “Ci sarà un crollo dell’80%”. I vincoli introdotti con la riforma per evitare il referendum hanno ridotto le prestazioni occasionali. Ora il rischio è il sommerso, scrive Marco Ruffolo l'1 settembre 2017 su "La Repubblica". "La vendemmia anticipata la facciamo con amici e parenti: i nuovi voucher sono troppo complicati, non riusciamo a utilizzarli. Chi può, arriva addirittura a preferire i contratti a tempo determinato". Gli agricoltori della marca trevigiana sono in buona compagnia nel denunciare la burocratizzazione di uno strumento pensato in origine per lavori occasionali e veloci. Ma non è solo un problema procedurale. Pochi mesi fa, una legge fatta in quattro e quattr'otto per evitare il referendum anti-voucher della Cgil, ha trasformato i vecchi buoni-lavoro in contratti di prestazione occasionale, vincolati a un complicato intreccio di limiti e divieti, che impedisce alla maggior parte delle imprese di accedervi.
L'80 PER CENTO IN MENO. I primi 45 giorni di vita del nuovo strumento ci consegnano in realtà un bilancio assai magro. Sono appena 6.742 i lavoratori che hanno svolto finora prestazioni occasionali: quasi tutti (6.056) al servizio di microimprese, e solo 686 per lavori familiari. Sulla piattaforma Inps si sono registrati 16.250 utilizzatori e 10.767 lavoratori, per un totale di oltre 27 mila utenti. "Non potevamo attenderci un livello più alto di ricorso al lavoro occasionale ", commenta il giuslavorista Pietro Ichino, senatore del Pd. "La legge ora esclude da questa opportunità tutte le imprese con più di 5 dipendenti stabili: in questo modo si è tagliato fuori il novanta per cento della platea di datori di lavoro che nel regime precedente potevano utilizzare i voucher". Ecco uno dei nuovi paletti, sicuramente il più ingombrante. Tanto da ridimensionare drasticamente le previsioni di accesso ai nuovi voucher elaborate dall'Inps. Secondo l'Istituto di previdenza, non si supererà il 20% di quanto realizzato nel 2016, anno che registrò un picco di 1,6 milioni di lavoratori e 134 milioni di voucher. L'80% in meno significa che ci dobbiamo aspettare a regime poco più di 300 mila prestatori di lavori occasionali. La spiegazione che viene data sta tutta nella nuova costruzione di vincoli e divieti. I quali sono stati inseriti per tutelare meglio i lavoratori, per evitare l'abuso di lavori normali spacciati per occasionali (anche se si era già provveduto a rendere obbligatoria la tracciabilità). E soprattutto per scongiurare il referendum incombente.
VINCOLI E DIVIETI. Vediamoli allora questi nuovi vincoli. Non c'è solo il limite che circoscrive la platea delle imprese a quelle con non più di 5 dipendenti a tempo indeterminato. Ci sono vincoli anche al tipo di attività: le imprese agricole sono ammesse solo se impiegano pensionati, studenti under 25, disoccupati e cassintegrati. Sono escluse imprese edili, cave, miniere e opere e servizi svolti in appalto. Le pubbliche amministrazioni possono accedervi con progetti speciali per categorie svantaggiate, attività di solidarietà, manifestazioni sociali, sportive, culturali e caritative. Le famiglie, invece, possono chiedere piccoli lavori domestici, assistenza domiciliare a bambini e anziani malati o disabili, e lezioni private. Tetto alle ore lavorate: 280 l'anno. Tetto agli importi: ogni lavoratore non può incassare più di 5 mila euro l'anno da tutti i suoi datori di lavoro (contro i precedenti 7 mila), e non più di 2.500 euro dallo stesso utilizzatore. Se si supera questo limite, il rapporto si trasforma in contratto a tempo indeterminato. Il compenso giornaliero non può essere inferiore a 36 euro. Quello orario deve essere di almeno 9 euro netti e 12,37 lordi per le imprese, e di almeno 8 euro netti e 10 lordi per le famiglie. Il vecchio regime prevedeva cifre inferiori: 7,5 e 10 euro. Facile prevedere, di fronte a questo ginepraio di vincoli, un forte ridimensionamento del fenomeno voucher. "I primi dati dell'Inps mi sembrano molto bassi", commenta il presidente della commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano. "Segno evidente che questa norma è stata pensata non per trovare uno strumento utile a lavoratori, imprese e famiglie, ma solo per evitare il referendum, per scoraggiare l'uso del lavoro occasionale. Che è diventato anche molto complicato da utilizzare".
UNA GIMKANA ON LINE. Oltre ai paletti legislativi, infatti, ci si è messa pure la procedura di accesso alla piattaforma on line dell'Inps a complicare le cose, anche se ad agosto la situazione è migliorata. Lavoratori e utilizzatori devono registrarsi nel sito dell'istituto. Tre i modi: con il Pin, ma servono giorni per ottenerlo, con lo Spid tramite le Poste o con la Carta nazionale dei servizi. Dopo la registrazione, scatta il versamento dei datori di lavoro sul proprio "portafoglio elettronico": all'inizio si poteva usare solo il modulo F24, da agosto è ammessa la carta di credito. A questo punto bisogna comunicare la prestazione: i dati dell'utilizzatore e del lavoratore, il tipo di impiego, il luogo, la durata e il compenso pattuito. Una volta terminata la prestazione, il lavoratore deve accedere nuovamente al sito e confermare l'avvenuto lavoro. Ed entro il 15 del mese successivo viene pagato dall'Inps.
IL RISCHIO SOMMERSO. Insomma, un percorso molto più accidentato di quello richiesto con i vecchi voucher, reperibili dal tabaccaio e facilmente utilizzabili; un percorso che richiede il più delle volte la guida di un consulente. Così, tra paletti legislativi e gimkane sul web, l'esordio dei neo-contratti non è stato certo brillante. Resta da capire dove sia finito tutto il lavoro occasionale che si avvaleva dei vecchi voucher. "Difficile dirlo - risponde Ichino - presumibilmente una parte sparisce, una parte torna nel sommerso, e una parte (molto piccola perché costosa) diventa lavoro regolare a termine. Si sarebbe dovuto compensare il divieto di utilizzo del lavoro occasionale per le imprese almeno con un allargamento del ricorso al lavoro intermittente. Non si è fatto. E così le aziende oggi non hanno uno strumento contrattuale adatto alle esigenze particolari del lavoro occasionale".
TROPPE LEGGI = ILLEGALITA’.
Troppe leggi, così affonda la legalità. Commi, codicilli, deroghe, incoerenze. E veri e propri deliri semantici dei legislatori. Così si corrompe il concetto stesso del vivere sociale, scrive Michele Ainis il 30 agosto 2017 su "L'Espresso". In Italia l’esame di maturità viene regolato da 59 atti normativi (leggi, decreti, circolari, protocolli). Per introdurre le unioni civili, viceversa, è bastato un solo articolo di legge, che però al suo interno si declina in 69 commi. Il nuovo codice degli appalti – celebrato dal governo Renzi come un monumento alla semplificazione – ospitava 181 errori nei suoi 220 articoli, e ha ricevuto 131 modifiche nel giro d’un anno. Dopo l’approvazione del Jobs Act, dopo la riforma del pubblico impiego entrata in vigore il 22 giugno scorso, ai licenziamenti s’applicano 8 regimi diversi, a seconda dei loro presupposti (giusta causa, giustificato motivo soggettivo, giustificato motivo oggettivo, procedura di licenziamento collettivo e via elencando), del tipo di licenziamento (disciplinare, economico individuale, economico collettivo, discriminatorio), delle caratteristiche del datore di lavoro (grandi imprese, imprese agricole, piccole imprese, settore pubblico). Risultato: le cause di lavoro crescono (18,7% in più dal 2014 al 2016), il lavoro cala. Ma calano altresì gli investimenti, i redditi, l’innovazione tecnologica, la competitività del nostro Paese. E affonda il senso stesso della legalità, insieme alla certezza del diritto. Per forza: quando le leggi sono troppe s’elidono a vicenda, e in ultimo ciascuno fa come gli pare. Dal pieno nasce il vuoto, l’eccesso di diritto determina un ordinamento lacunoso, senza regole precise per la nostra convivenza.
E se poi all’inflazione normativa si somma il pessimo linguaggio delle norme, ciascun interprete (il giudice, il burocrate, il commercialista, l’avvocato) diventa un legislatore in miniatura, nel senso che crea la regola, invece d’applicarla. Provateci un po’ voi, del resto, a interpretare leggi che suonano come altrettanti abracadabra, che si contraddicono l’una con l’altra senza mai abrogarsi espressamente, che dicono, disdicono, e alla fine maledicono. Da qui un campionario che avrebbe fatto gola a Ionesco, maestro del teatro dell’assurdo. La costituzione di pegno sui prosciutti (legge n. 401 del 1985). Gli «effetti letterecci», menzionati dal testo unico in materia sanitaria per indicare cuscini e lenzuola delle camere d’albergo. La norma con i logaritmi (art. 39 del decreto legislativo n. 277 del 1991). Le «nuove imprese innovative» di cui straparla la legge n. 388 del 2000 (art. 106). Le «modalità per la sosta dei cadaveri in transito», disciplinate dal regolamento di polizia mortuaria (decreto presidenziale n. 285 del 1990). Il divieto d’usare ruote quadrate, prescritto dal vecchio codice della strada (art. 66). O infine il delirio semantico che avrebbe inondato la Costituzione stessa, se la riforma Boschi fosse stata accettata al referendum: da 9 a 430 parole nel nuovo art. 70, e il Senato competente «per le leggi di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116, terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma». Questo virus non corrompe unicamente l’universo del diritto: no, corrompe anche la nostra vita democratica. Come diceva Hegel, non c’è democrazia se le leggi sono appese tanto in alto da non poter essere lette. Ma a quanto pare la questione non interessa più nessuno.
C’è forse un partito, un movimento, un leader che se ne faccia portavoce? Eppure qualche anno fa è successo, con un soprassalto di consapevolezza, con uno sforzo bipartisan che coinvolse governi di destra e di sinistra, attraversando tre legislature. Fu l’epoca della «Taglialeggi», ossia della ghigliottina automatica per tutti gli atti legislativi anteriori al 1970, con poche eccezioni circoscritte: un meccanismo inventato dalla legge n. 246 del 2005, perfezionato attraverso una serie d’interventi, dopo di che sfasciato, smontato, rovesciato. Così, la delega della Taglialeggi è stata emendata un paio di volte (dalle leggi 15 e 69 del 2009), mentre l’esecutivo con una mano ha tolto (mediante due decreti legge abrogativi, nonché per effetto del decreto legislativo 212 del 2010), con l’altra mano ha aggiunto (per mezzo del decreto «Salvaleggi»: n. 179 del 2009). E in conclusione ne siamo usciti con più dubbi di quanti ne avevamo indosso prima, mistero sulle leggi abrogate e su quelle salvate, i vivi e i morti assiepati in un unico carnaio, nello stesso girone dell’inferno. Sicché non resta che appellarsi a soluzioni drastiche, tranchant. Sia per svuotare il gran mare delle leggi (nel 2007 la commissione Pajno contò 21.691 atti legislativi dello Stato in vigore, cui però bisogna aggiungere almeno altrettante leggi regionali, nonché 70 mila regolamenti della più varia risma). Sia per depurarne il linguaggio dal burocratese che lo rende inaccessibile ai comuni mortali. Da qui due idee per la prossima legislatura, con la speranza che qualcuno le raccolga. Primo: ogni nuova legge ha l’obbligo d’abrogarne due. Secondo: nessuna legge può superare mille parole. Perché nella patria del diritto, a questo punto, la regola più urgente è il risparmio delle regole.
Così il lavoro affoga nella burocrazia. Quintali di carta, moduli da riempire, certificazioni, autodichiarazioni. Dal chirurgo al ristoratore la moltiplicazione delle scartoffie ruba tempo e tutela poco, scrive Francesca Sironi il 30 agosto 2017 su "L'Espresso". L'ipocrisia di una regola affermata, ma sistematicamente disattesa nella pratica, è un male peggiore dell’assenza di quella stessa norma. Perché «le regole nascono per dare soluzioni ai problemi concreti. Questa è la funzione che dovrebbero tornare a svolgere. Altrimenti ecco le disfunzioni che stiamo osservando in Italia». Riccardo Salomone è ordinario di Diritto del lavoro a Trento. Ed è convinto che «il diritto sia stato caricato di funzioni e significati diversi dai propri». Che soffra, soprattutto, di «una sistematica, perniciosa, ipocrisia», nel nostro paese. Ipocrisia che porta a scrivere un’abbondanza di protocolli, codici e cavilli in commi a contratti, per poi lasciare che la realtà continui a discostarsene con «deviazioni gigantesche». Generando così una doppia stortura: da una parte le norme si fanno più complesse; dall’altra i cittadini smettono di farvi affidamento. «I sistemi normativi sembrano servire oggi soprattutto per evitare questioni. Le regole vengono usate per proteggere se stessi piuttosto che per risolvere i bisogni degli altri», continua Salomone. Risultato? «Diventano burocrazie». Ovvero: l’esercizio del diritto si esaurisce in un modulo che ne prevede la tutela. Per iscritto. E poi non resta altro che un foglio, un’indicazione astratta, incapace di fermarne le eventuali violazioni, di dare soluzioni e spazi, di entrare nel merito. «È la frammentazione degli interessi e del potere», conclude il professore: «Ad aver fatto sì che tutti abbiano fretta oggi di usare le regole per autogarantirsi, per non essere messi in discussione da altri centri di influenza, piuttosto che per risolvere le difficoltà degli altri».
Roberto Orlandi è un ortopedico, non un giurista. Ma vede nella sua pratica gli stessi meccanismi indicati da Salomone. Due mesi fa ha scritto a un quotidiano locale, a Bergamo, lamentando come «la burocrazia valga ormai più del malato». «Da chirurgo penso che sia giusto, e fondamentale, che il medico, il primo responsabile di quanto accade in sala operatoria, scriva nel dettaglio e firmi il verbale dell’intervento eseguito», racconta: «Verbale che comprende la diagnosi, la descrizione, i codici operativi, le check list e tutto il resto. Ma non è normale che io debba ricopiare sulla scheda di dimissioni quanto è già contenuto in quel documento. E così per tutti i copia e ricopia che ci è chiesto di fare, anche dieci volte a operazione, carta che sottrae il nostro tempo a chi è in cura e all’aggiornamento professionale». Sono mansioni amministrative e burocratiche, insiste «che servono solo ad agevolare i controller, non i pazienti». Da due anni si cerca di estendere in Italia la cartella clinica elettronica, che dovrebbe rendere automatico il processo, «ma rischia di rimanere indiscusso il principio: quello di aumentare i moduli per scaricare le responsabilità lungo la catena. È come mettere un divieto da 40 chilometri sulla rampa d’uscita dell’autostrada: sai che tutti andranno più forte, ma così scarichi la responsabilità».
Anche se lavora in un settore e in una regione lontani da quelli dell’ortopedico o del professore, Raul Pennino conosce la stessa ombra. Un anno e mezzo fa, con un gruppo di amici, ha fondato in provincia di Caserta una startup che produce hamburger, fettine e ragù 100 per cento vegetali. Ha la certificazione biologica, quella vegana, i collaboratori formati per la sicurezza, e una frustrazione: «Il corso di formazione sanitaria? Paghi, e passa. Le certificazioni? Paghi, e passa. Gli enti che distribuiscono i loghi sono privati, e non hanno un grande interesse a eseguire ispezioni. Allora è perché io sono meticoloso, e ci tengo, che qui è uno specchio, altrimenti basterebbero quei quintali di carta. Cinque copie di ogni registro, e sei a posto. Loro, li ho visti solo due volte. E a me dispiace tanto, perché penso che i controlli migliorerebbero il settore».
Il problema delle certificazioni nell’alimentare e nel bio, mercati di punta per l’Italia che cerca di uscire dalla crisi, è nazionale: molte di queste non sono che auto-dichiarazioni, operazioni quasi di marketing per avere un bollino. Anche gli istituti più seri restano consorzi privati. «Servirebbe un ente statale. I Nas ad esempio da me sono venuti una volta, a sorpresa.
Hanno trovato ovviamente tutto a posto, perché per me è fondamentale rispettare le regole». Norme, dice, «che sarebbero tutte di buon senso, se non restassero teoriche. E soprattutto se fossero ben coordinate». Altra esperienza diretta che ha: per aprire l’azienda ha fatto la spola fra uffici e uffici che «non sapevano a che classe Ateco ricondurre i miei prodotti», e che «non mi hanno aiutato a districarmi nel sistema». «Alla fine mantieni questa sensazione che se ci riesci, è perché ti hanno fatto un favore», commenta: «Ma questa è proprio una sensazione che non sopporto».
L’ipertrofia e la complessità della normativa sono un altro degli aspetti che ciclicamente riemergono nell’osservare l’impasse burocratica del paese. «Basti pensare all’occupazione: ci sono 800 contratti nazionali di lavoro in Italia. Un paese normale ne ha 200. A cui vanno aggiunti il livello aziendale, le norme europee...», spiega Michele Tiraboschi, direttore del Centro studi Marco Biagi dell’università di Modena e Reggio Emilia: «Partiamo con una quantità enorme di regole. In parte sconosciute agli stessi imprenditori». L’obiettivo dovrebbe essere «avere regole flessibili ma che si applichino a tutti», non regole rigide che vengono sistematicamente aggirate. «Il dibattito di questi giorni sull’autocertificazione nei primi tre giorni di malattia ad esempio è fondamentale. Perché significa diminuire l’impatto di 23 milioni di lavoratori sui medici di base», in un momento, spiega: «in cui piuttosto che di mini verifiche dovrebbero occuparsi del prossimo futuro: ovvero i malati cronici al lavoro. Con l’invecchiamento della popolazione sarà uno dei più importanti temi mondiali secondo l’Oms. E noi non abbiamo nessuna legislazione chiara in merito». Ovvero: «Abbiamo poche regole per le cose più importanti e molte per quello che lo sono meno».
In cucina, come in sala, sarebbero tutti d’accordo, nel ristorante da tre stelle Michelin che la famiglia Cerea conduce da mezzo secolo. «Abbiamo 50 dipendenti. Cresciamo di anno in anno», racconta Chicco Cerea: «Certo, il carico fiscale ti fa passare la voglia d’ingrandirti. E la burocrazia fa il resto per togliere ogni entusiasmo... ma ci proviamo». L’ipertrofia, per Cerea, ha il timbro «dei 12 diversi enti che possono venirci a fare un controllo. Dodici! E poi fanno la legge per “l’home-restaurant”... Immagino i controlli agli abbattitori casalinghi». Si riferisce a una norma per regolamentare le startup delle cene a domicilio: per l’Antitrust il testo in discussione in parlamento è considerato troppo restrittivo. Per Cerea, invece, si tratta già di concorrenza sleale. Di creare due binari: quello di chi avrà meno o zero regole, e quello di chi continua a averne troppe. «Un esempio? La normativa sugli allergeni: giustissima. Ma per un ristorante come noi che cambia il menu praticamente ogni giorno, a seconda delle primizie, è possibile che io debba compilare fogli e fogli con tutti gli allergeni che sono dentro ogni ricetta ogni giorno? Chi li legge?». È teoria. Non pratica. E ogni piccolo sasso sulla strada, per chi cerca d’essere una Ferrari, e non un’utilitaria, è un muro.
La metafora è di Stefano Piccolo, professore di Biologia molecolare all’università di Padova, autore di studi d’avanguardia sulle cellule staminali. Riflettendo sulle “regole”, Piccolo richiama quelle che formano i criteri per la valutazione dei docenti, «in modi che spingono alla medietà. Che non premiano lo sforzo all’eccellenza, anzi abbassano la soglia della qualità». Regole «formali. La cui applicazione egemonica asfissia il merito anziché favorirlo. Queste regole infatti premiano chi si adegua. Non chi innova». Il perché riporta all’inizio della discussione: «perché si delega a una norma, a un algoritmo, la responsabilità di entrare nel merito» . Che dovrebbe invece essere delle persone. E non di moduli.
Lavoro e regole, ecco quelle da buttare secondo cinque professionisti, scrive il 30 agosto 2017 "L'Espresso".
1 - Il ricercatore. Stefano Piccolo, università di Padova il suo allarme è sulla «convergenza al medio del mondo universitario». «Siamo tutti d’accordo sul fatto che dobbiamo essere valutati. Ma i criteri oggi sono al ribasso: non premiano chi si sforza - infinitamente di più - per raggiungere i livelli più alti. E allo stesso tempo non risolvono il problema dei fannulloni». Bisogna entrare nel merito. Riportare le regole alle responsabilità dei pari. «E poi sì, c’è la burocrazia: stessa applicazione di una logica perversa, per cui io devo passare da Consip anche per comprare una penna con finanziamenti europei che ho trovato io. Mentre chi vuole trasgredire sul serio, è preoccupato dalla Consip?».
2 - Il ristoratore. Normativa sugli allergeni: giusta, ma può diventare una mole di carta da compilare ogni giorno ogni volta che cambiamo un piatto? Verifiche Hccp: giuste, ma possiamo avere controlli a sorpresa il sabato sera quando è da 50 anni che dimostriamo di far tutto più che in regola? Sicurezza alimentare: fondamentale; ma a volte sembra partire dal presupposto che siamo tutti frodatori. Penso al tappo antirabbocco obbligatorio per l’olio. Studi di settore: qualcosa sta cambiando, dicono, ma ancora se mandiamo a lavare 100 tovaglioli, non hanno l’elasticità di capire che potremmo averli sostituiti più volte a cliente. No. Considerano 100 coperti».
3 - Il medico. Date al chirurgo quello che è del chirurgo ovvero: «Bisognerebbe far sì che gli amministrativi possano occuparsi pienamente delle pratiche burocratiche. Il medico è necessario per i verbali di merito, ma per il resto? Devo essere io a ricopiare 10 volte una cartella e tutti i suoi codici?». Roberto Orlandi è un ortopedico contro una «burocrazia che toglie il nostro tempo ai malati e all’aggiornamento professionale» «Soprattutto se l’obiettivo non è snellire le procedure, o aumentare la trasparenza, ma solo garantire che i controlli - dall’alto - possano essere fatti solo sui moduli e più velocemente». Bisogna estendere le cartelle cliniche elettroniche quindi. Ma anche cambiare passo.
4 - Il giuslavorista. Primo: ridurre «La salute e la sicurezza sul lavoro sono temi importantissimi. Non possono essere delegati a un codice con 306 articoli con 50 legati tecnici. Una cascata di norme che un operatore a volte non riesce nemmeno a conoscere». Quello che è fondamentale è la concretezza dei metodi per proteggere l’integrità dei lavoratori. Secondo: cambiare priorità «Dobbiamo rendere le regole più flessibili. Ma anche far sì che si applichino a tutti» Terzo: guardare al futuro «Le fabbriche del domani saranno reti territoriali di soggetti. Dobbiamo iniziare a investire allora in contratti del territorio».
5 - Il piccolo imprenditore.
Certificazioni. Servirebbe un ente statale per le certificazioni biologiche e veg. Non solo consorzi privati. Che spesso riducono l’adesione a un pagamento, e a un controllo se mai solo di carte, raramente a una verifica reale.
Coordinamento. Le regole sono giuste, ma devono essere coordinate fra loro.
Formazione. «Quando vuoi lanciare un’impresa, in Italia non c’è una forma di avviato o formazione, o tutoring. Dagli uffici ricevevo solo risposte contraddittorie e quasi mai risolutive. L’impatto con la burocrazia è stato pesante, per noi».
Digitale. Raul Pennino ha lanciato la sua startup in Campania, ora si sta trasferendo nelle Marche. «La digitalizzazione dei servizi era zero», racconta.
COMUNISTI. QUELLI CHE CAMPANO SULLE SPALLE DEGLI ITALIANI.
Ora arriva lo "ius soldi": reddito di inclusione a chi è in Italia da 2 anni. Il governo cede e allarga le maglie del welfare agli stranieri: 485 euro al mese per tutti, scrive Antonio Signorini, Venerdì 1/09/2017, su "Il Giornale". Il ministro del Lavoro era stato chiaro. Il Rei, il reddito di inclusione, nuovo sussidio universale per le famiglie più povere, andrà anche agli stranieri, ma solo a quelli che Italia da almeno cinque anni. Il paletto messo dal ministro aveva messo in allarme la platea sempre più folta dei generosi che chiedono di estendere al massimo il welfare nazionale, già stremato da disoccupazione e crisi, anche a chi è di passaggio. L'idea di fondo che si fa strada è quella di includere al cento per cento nello stato sociale, chi non ha aiutato a crearlo. Si può ribattezzare lo Ius soldi. Una cosa di sinistra fatta, come negli anni Settanta, a spese del contribuente. I partigiani del welfare per tutti, non escono allo scoperto. Nessuna protesta pubblica per chiedere l'inclusione dei cittadini stranieri, in compenso, molti messaggi lanciati via giornali amici e pressing sul governo. Lo stesso scenario si era presentato in passato, ad esempio quando è stato varato il bonus mamme. Le associazioni non profit che si occupano di stranieri chiedevano: perché limitare le misure di welfare solo a chi si trova in Italia da anni, perché non includere anche chi ha un permesso di soggiorno breve? Il Rei, reddito familiare da associare a progetti di inclusione e che può arrivare fino a 485 euro in caso di famiglie numerose, andrà a una platea di cittadini stranieri molto ampia. Oltre ai cittadini dell'Ue (scontato), anche quelli extra Ue che siano titolari di un «permesso di soggiorno di lungo periodo», residenti in Italia da almeno due anni al momento della presentazione della domanda. Ma non c'è l'obbligo di lavorare in Italia, come in altre misure sociali. Durante l'iter parlamentare le opposizioni di centrodestra avevano presentato vari emendamenti per estendere il requisito di residenza a dieci anni, ma sono stati tutti respinti. Ha più voce chi chiede allargare la platea. Facile immaginare che con la versione, un po' ambigua, con l'obbligo di essere residente da 24 mesi, saranno in molti a provare a chiedere il sussidio, anche se vivono fuori dai confini. E questo scenario potrebbe aggravarsi con lo Ius soli, spiega Lucio Malan, senatore di Forza Italia. «Facile si verifichino casi in cui la famiglia faccia prendere la cittadinanza a un figlio e vadano a cercare lavoro fuori dall'Italia. Salvo poi tornare se hanno bisogno di cure mediche o di un sistema scolastico gratuito». Uno scenario i cui effetti finanziari sono tutti da calcolare. In caso di approvazione dello Ius soli, ci sarebbero subito circa 800 mila nuovi cittadini italiani e poi altri 60 mila all'anno. A molti stranieri fa gola più il welfare tricolore che il passaporto italiano. E se accettano il secondo è solo per avere pieno accesso al primo, spiega Malan. La politica ha assecondato questa tendenza. Tutte le ultime misure sociali includono cittadini stranieri, con limitazioni sempre meno nette. Sono accessibili agli stranieri, il bonus asilo nido, l'assegno di maternità dei comuni per gli stranieri per le madri disoccupate, i contributi per l'affitto e anche i famosi 500 euro del bonus cultura di Matteo Renzi. Poi anche la Sia e la nuova versione, il Rei. In passato, in un contesto politico completamente diverso, l'Inghilterra scelse la strada di un welfare generoso con gli stranieri che non avevano lavorato in patria. Il risultato fu che migliaia di europei - in particolare italiani in fuga da un Paese dove lo stato sociale costa molto ma non arriva ai cittadini - si trasferirono a Londra per avere quel sussidio universale che in patria non esisteva. Poi, un po' ovunque, si è scelta una strada diversa e tanti italiani che vivevano dello stato sociale britannico hanno dovuto fare i bagagli.
Franco Bechis: nomi e numeri delle coop che si arricchiscono con gli immigrati. 31 Agosto 2017 su "Libero Quotidiano". C’è una sola cooperativa sociale di rilievo che si occupa di gestione e accoglienza dei migranti che nel 2016 non è riuscita ad aumentare il suo giro di affari: è il consorzio Eriches 29 di Roma che un tempo era guidato da Salvatore Buzzi e oggi per sua sfortuna è controllata dal tribunale di Roma che ne sequestrò le quote quando scoppiò lo scandalo di Mafia Capitale. Ma è un caso più unico che raro: perché nell’ultimo anno chi si è occupato di migranti e nella maggiore parte dei casi ha gestito gli Sprar ha fatto affari così straordinari con le cooperative sociali o i consorzi che ne raccolgono alcune che quelle imprese sembravano vivere in tutt’altra parte di Italia. Basta pensare che con le 45 più rilevanti che hanno depositato presso la camera di Commercio locale il proprio bilancio al 31 dicembre 2016 si raggiunge un fatturato di 367,7 milioni di euro. Le stesse società nel 2015 avevano complessivamente fatturato 294,5 milioni di euro. La crescita complessiva del loro giro di affari è stata dunque superiore ai 73,1 milioni di euro in un solo anno, pari ad un aumento del 24,81% sul giro di affari dell’anno precedente. Nessun altro settore produttivo italiano può vantare risultati di questo tipo in un anno dove si è cominciata a vedere una timida crescita, mai però a due cifre.
Le coop che si arricchiscono con i migranti: nomi e numeri. Se si guarda l’utile netto conseguito dalle 45 coop sociali che si sono occupate di migranti il risultato è ancora più strabiliante: era di 3,4 milioni di euro nel 2015, è salito a 6,5 milioni di euro nel 2016, con una crescita assoluta di 3 milioni e percentuale del 90,5%. La cifra può sembrare esigua rispetto al giro di affari, ma qui non siamo di fronte a società per azioni o a multinazionali, e bisogna tenere presenti regole e tradizioni delle cooperative sociali, che più o meno vengono tutte dalla Lega Coop, dalla Confcooperative, dalla chiesa cattolica o da movimenti cattolici. Fra quelle 45 coop solo 4 hanno visto nel giro dell’ultimo anno ridursi il fatturato per il taglio di alcune commesse pubbliche, ma di quelle quattro tre hanno comunque aumentato la propria redditività rispetto all’anno precedente. L’utile è aumentato per 35 cooperative, mentre per dieci si è ridotto. Ma di queste dieci ben 9 sono comunque riuscite ad aumentare il proprio giro di affari sperando di fare lievitare il margine nel 2017.
IL CASO BUZZI. La sola coop che invece è in negativo sia per fatturato che per utile è appunto la sopra ricordata Eriches 29 che oggi viene gestita dal tribunale di Roma che ha nominato alcuni professionisti al vertice. Forse è un caso, ma forse non lo è che la sola coop di settore per cui i migranti non siano un business è quella su cui è strettissimo il controllo di legalità. Anche per la Eriches 29 però nel 2017 la situazione potrebbe cambiare in meglio. Lo si legge nella relazione di bilancio in cui gli amministratori fanno una sostanziale rivelazione. «Si precisa», scrivono, «che nei primi mesi del 2017 la Società ha chiesto ed ottenuto dalla stazione appaltante Comune di Roma-Dipartimento Politiche Sociali di rinegoziare la percentuale del co-finanziamento relativo alla commessa Sprar, dal 20% al 5%. Come noto, il 20% del co-finanziamento che rimane a carico del gestore costituisce la principale causa della marginalità negativa della commessa; la riduzione al 5% consente il riequilibrio della stessa, e di tale riequilibrio la Società ne trarrà beneficio seppure limitato al secondo semestre del 2017». Cosa è accaduto? Che l’ex coop di Buzzi si è portata di proroga in proroga fino al giugno 2017 le regole del vecchio contratto. Ma nel frattempo è intervenuta una novità legislativa, di cui ha beneficiato probabilmente qualche altra coop che gestiva gli Sprar dei migranti già nella seconda parte del 2016: dipende dalla scadenza dei loro contratti e dalle trattative avviate con gli enti locali controparte. La legge prevedeva che per il finanziamento degli Sprar per l’accoglienza diffusa dei profughi e richiedenti asilo l’80% fosse a carico dello Stato e il 20% a carico degli "enti". In teoria quel 20% doveva essere finanziato dagli enti locali in cui venivano istituiti i centri di accoglienza, ma in quasi tutti i casi i comuni hanno traslato quella norma sugli enti privati che vincevano le gare: le coop sociali che gestiscono quei centri. Il governo di Matteo Renzi nell’agosto del 2016 ha varato un nuovo decreto che ha portato quella percentuale dal 20% al 5%, e di conseguenza le coop hanno avuto direttamente o indirettamente (attraverso il Comune) un 15% inatteso di redditività in più. Le due più grandi coop sociali che si occupano di migranti sono la Auxilium e la Senis Hospes entrambe con sede legale a Senise, in provincia di Potenza. Più volte finite entrambe sotto tiro della magistratura (anche in alcuni scampoli della inchiesta su Mafia Capitale), sono legate alla storia di una cooperativa bianca un tempo legata alla compagnia delle Opere: La Cascina, che fa ristorazione. Gestiscono i Cara più importanti, e una sfilza. Ma i problemi giudiziari non hanno intralciato evidentemente i loro affari: l’Auxilium in un anno ha visto aumentare il proprio fatturati da 56,2 a 61,1 milioni di euro e anche l’utile è cresciuto lievemente: da 529mila a 543mila euro. La performance è stata ancora più straordinaria per la Senis Hospes: il fatturato è salito da 26,2 a 42,1 milioni di euro e l’utile da 80mila a 109mila euro. Il risultato straordinario arriva dalla gestione del Cara di Mineo, dal Cara di Foggia e di alcuni Sprar a Roma, Teramo e altri 13 comuni minori. È stata acquisita la gestione anche di un ulteriore Sprar nel comune di Messina. La previsione degli amministratori è di affari a gonfie vele anche nel corso del 2017: «La gestione 2017», scrivono nella relazione sulla gestione, «evidenzia un livello di servizi resi e marginalità in linea con quelle già registrate nel 2016. Nel corso dell’esercizio 2017 la Cooperativa ha in animo in particolare di intensificare i propri servizi resi nel campo socio assistenziale». Molte cooperative sociali affiancano al business dei migranti anche altro tipo di attività nel campo dell’assistenza sociale: minori, anziani, case famiglia anche per gli italiani. Alcune di loro sono nate in quel settore, e poi hanno colto al volo l’occasione di business che presentavano i rifugiati. Ma non poche sono nate solo negli ultimi anni proprio per esercitare in via esclusiva nel settore dei migranti. Fra quelle che hanno avuto negli ultimi dodici mesi risultati eclatanti c’è anche la Lai Momo di Sasso Marconi in provincia di Bologna: ha quasi raddoppiato il fatturato (da 3,2 a 5,3 milioni di euro) e più che raddoppiato l’utile netto (da 309 mila a 883 mila euro). È la coop balzata al disonore delle cronache negli ultimi giorni per quell’improvvido commento sui social del proprio mediatore culturale Abid Jee sullo stupro in spiaggia a Rimini, in cui sosteneva che la donna violentata dopo il primo brusco impatto provava piacere. La Lai Momo ha vinto l’appalto per la gestione dello Sprar di Bologna insieme ad altre coop, e si è creata in questi giorni tensione con il committente. Ma non può lamentarsi, visti i risultati. Fra le performance più incredibili quella della Ruah di Bergamo, che ha visto lievitare il proprio fatturato da 4,8 a 9,2 milioni di euro, quasi quadruplicando l’utile: da 82 mila a 284 mila euro. di Franco Bechis
Senza Iva i centri di accoglienza. Sono esenti da Iva le prestazioni rese dai centri di accoglienza temporanea degli immigrati clandestini, gestiti dalla Croce rossa. Lo ha chiarito l'Agenzia delle entrate con la risoluzione n. 188/E del 12/6/2002.
Tangenti e frodi al fisco Migranti, il lato oscuro dell'accoglienza, scrive Claudio Reale il 19 luglio 2017 su “La Repubblica". Quando la commissione parlamentare d'inchiesta sulle condizioni dei migranti andò a visitare il centro per minori non accompagnati di Giarre, il giudizio dell'allora presidente, l'attuale sottosegretario Gennaro Migliore, fu tranchant: «Indecente». Adesso, dopo oltre due anni, la Procura di Catania ha mandato ai domiciliari due persone, Giovanni e Mario Pellizzeri, indagati per quello che gli investigatori ritengono essere un giro di mazzette per l'assegnazione di minori non accompagnati: perché, mentre i neo-fascisti di "Generazione identitaria" annunciano l'intenzione di puntare i riflettori sulle ong che salvano i migranti in mare, è a terra che il sistema dell'accoglienza mostra i suoi lati oscuri. Sui quali piovono finanziamenti milionari — la prima accoglienza vale oltre 50 milioni all'anno, il Sistema di protezione per i richiedenti asilo oltre 40 — che a volte fanno gola a interessi criminali o presunti tali: la più clamorosa inchiesta è stata quella sul Cara di Mineo, filiazione dell'indagine su Mafia Capitale, ma da allora i fascicoli si sono moltiplicati, fino ad arrivare appunto a quella di ieri e allo stop imposto lunedì dalla prefettura di Siracusa ai pagamenti per una coop accusata di evasione fiscale.
FARMACI? PUÒ BUTTARE SANGUE. L'inchiesta dei carabinieri accende le attenzioni su due cooperative e sei centri: "Futuria" e "Casa delle fanciulle" di Giarre, "Freedom", "Acacia" e "Mazzaglia" di Mascali e "Paoli" di Sant'Alfio. Le strutture avrebbero gestito 196 minorenni per un giro d'affari da oltre due milioni all'anno, visto che lo Stato versa 45 euro al giorno per ogni ragazzino. Soldi che però venivano usati a singhiozzo per i farmaci, almeno stando all'intercettazione fra Giovanni Pellizzeri, dipendente Asp ed ex candidato sindaco a Mascali, e Isabella Vitale, un'altra indagata (le persone coinvolte nell'inchiesta sono in tutto dieci) raggiunta ieri da un divieto di dimora: «I farmaci generici — dicevano commentando l'acquisto di medicine per gli ospiti, chiamati ‘porci' dagli indagati — sì. Ma no questi qua. Assolutamente no. Per me può buttare sangue».
NEL CENTRO SOTTO INCHIESTA. Migliore quelle strutture se le ricorda bene. «A Giarre — dice l'attuale sottosegretario alla Giustizia — arrivammo in quest'Ipab diventata un ricovero fatiscente. C'erano condizioni igienico- sanitarie e di sicurezza pessime. Fummo costretti ad entrare con i carabinieri». All'interno, poi, la situazione non era migliore: «C'erano strutture divelte, un intero piano completamente abbandonato, non c'era un'infermeria attrezzata. Poteva accadere di tutto, e certamente non era una struttura adeguata per ospitare i minorenni. Ci spiegarono che il titolare di fatto era un certo Giovanni Pellizzeri, anche se formalmente non figurava come responsabile». Alla fine le ricostruzioni di Migliore sono confluite in una relazione, ma anche in una segnalazione alla magistratura: «Non ricordo una struttura con caratteristiche simili a quella».
IL CASO CARA DI MINEO. E dire che la stessa commissione ha acceso i riflettori su un'altra struttura poco distante. Tanto che, alla fine di giugno, l'organismo parlamentare ha votato all'unanimità una relazione che arriva a una conclusione drastica: «La struttura va subito chiusa». Le indagini sono finite in due fascicoli aperti dalle Procure di Catania e Caltagirone e fra gli altri punti hanno messo nel mirino i bandi, affidati sempre allo stesso raggruppamento di imprese, ma anche le assunzioni del personale, la gestione poco trasparente del "pocket money" e alcune irregolarità nella comunicazione alla prefettura delle presenze giornaliere. Da queste indagini sono già arrivati quattro patteggiamenti (uno riguarda Luca Odevaine, imputato di Mafia Capitale), 15 rinvii a giudizio e il rito immediato per il sottosegretario Giuseppe Castiglione, che l'ha richiesto per «produrre tutta quella copiosa documentazione che dimostra senza ombra di smentita la mia condotta improntata ad assoluta correttezza e trasparenza», come ha spiegato Castiglione a ridosso della notizia. Un'autodifesa che, però, non salva l'esponente alfaniano dagli attacchi degli avversari: «Si deve dimettere», commenta il deputato di Sinistra Italiana Erasmo Palazzotto. Lo scontro, adesso, è anche politico. Ma è sull'affare economico che si consuma la partita.
VOUCHER: I BUONI LAVORO.
Buono lavoro. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il buono lavoro (chiamato anche voucher) è una modalità di retribuzione per lavoro occasionale di tipo accessorio. La prima introduzione del buono lavoro, come strumento di retribuzione del lavoro occasionale, è del 2003 a opera del secondo governo Berlusconi. Il provvedimento che ne inquadrò per la prima volta l'utilizzo fu infatti la Legge Biagi. Per diversi anni questa forma di remunerazione, introdotta con l'intenzione di ridurre il lavoro nero, ma con effetto a volte contrario, fu sostanzialmente semi-sconosciuta. Il Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali del Governo Prodi II nel 2008 diede attuazione alla legge, precisandone i limiti e l'utilizzo (ad esempio nel settore agrario). Fu successivamente esteso per i lavori di tipo occasionale con prestazioni brevi riconosciuti dalla Riforma Biagi. Il lavoro di riferimento, allora, era quello tipicamente domestico; infatti lo scopo principale di questo strumento sarebbe stato quello di contrastare il lavoro nero e difendere le categorie considerate più deboli nel mercato del lavoro, come ad esempio le colf e le badanti. Altri utilizzi originari del voucher erano quelli delle ripetizioni a casa da parte di studenti, lavoretti di giardinaggio, pulizie e faccende di casa, prestazioni di hostess o stewart in fiere o eventi pubblici, altre situazioni analoghe, tipicamente pagate (con l'assenso del lavoratore) in nero e per questo senza protezione assicurativa. Le modifiche alla legislazione furono a opera del Governo Berlusconi IV, in particolare con la legge 33/2009 che estese nel 2010 l'applicazione a tutti i soggetti. Poco tempo dopo è iniziata la liberalizzazione di utilizzo. Prima con il Governo Monti (Riforma Fornero), che ne ha liberalizzato l'uso con il solo vincolo economico pari a 5.000 euro all'anno per ogni singolo lavoratore. Poi con il Governo Letta che, con la legge 99/2013 di conversione del “Decreto Lavoro”, ha eliminato la dicitura "di natura meramente occasionale" e ne ha esteso l'uso a tutti i settori. Il Governo Renzi ha alzato il limite economico annuale di utilizzo da 5.000 a 7.000 euro, introducendo al contempo la tracciabilità. Le prestazioni rese nei confronti di imprenditori commerciali e liberi professionisti non possono superare 2.020 € netti annui (2.693 € lordi) per ciascun committente, fermo restando il limite di 7.000 euro netti, (9.333 euro lordi). Nel tempo la legislazione ha allargato l'utilizzo del buono lavoro dall'ambito domestico ai settori professionali (imprese, enti, lavoratori autonomi, ecc.). A tutt'oggi viene molto usato da aziende nel settore del commercio, dell'agricoltura e dell'intrattenimento (ristoranti, bar, discoteche, sale cinema e simili) per prestazioni di lavoro che non superino i 5.000 € netti annui di retribuzione (passati a 7.000 € nel 2015 in seguito all'emanazione del provvedimento legislativo noto come Jobs Act). Per i pensionati o cassaintegrati la cifra scende a 3.000 €. Con l'entrata in vigore del decreto legislativo 81/2015 l'utilizzo del voucher è stato esteso a industria e artigianato e quindi nessun settore produttivo è escluso. Invece, non è possibile usare il lavoro accessorio (a parte deroghe) nel caso di personale in appalto (sia opere che servizi). Le caratteristiche intrinseche del sistema, tuttavia, ne hanno favorito la diffusione come strumento di elusione ed evasione delle norme fiscali e previdenziali. Questa modalità di lavoro occasionale accessorio ha assunto da tempo anche la denominazione contratto voucher. L'incarico può essere verbale o essere documentato: in qualsiasi caso sottende sempre un contratto di lavoro (di tipo accessorio). Il voucher, come buono lavoro, è regolarmente vidimato con il logo dell'INPS. Il decreto legislativo 185/2016 (entrato in vigore il 24 settembre 2016) ha reso obbligatorio l'invio di un SMS o email all'Ispettorato del lavoro competente parte del committente almeno un'ora prima della prestazione per agevolare la registrazione dell'utilizzo e impedire usi fraudolenti (cioè pagare con voucher solo una piccola parte del compenso). Attualmente, il valore facciale del buono lavoro è di 10 € di cui 7,50 € vanno netti al prestatore e il resto sono contributi Inps e INAIL. Il singolo buono lavoro vale 10 €, il costo con cui viene acquistato dall'azienda o dal datore di lavoro presso l'INPS. Il buono cartaceo può anche essere acquistato presso tabaccai aderenti all'iniziativa, presentando la sola tessera sanitaria. Il voucher telematico prevede invece l'iscrizione delle parti (datore di lavoro e lavoratore) all'INPS e all'INAIL: in questo modo il lavoratore riceverà la INPS CARD su cui vedrà accreditarsi lo stipendio e potrà controllare i contributi versati. Inclusi nella spesa i contributi previdenziali INPS (13%), l'assicurazione INAIL (7%) e i costi di gestione del servizio (5%); pertanto, al lavoratore spettano i restanti 7,50 € (netti). A partire dal 28 giugno 2009 il Ministero diede il via a campagne pubblicitarie sul web, in televisione e al cinema per sponsorizzare questa nuova forma retributiva. La Regione Lazio avviò la promozione dei Buoni Lavoro nel 2010 tramite la campagna "Vo.La - Voucher Lazio". Il meccanismo dei buoni era nato per introdurre nel mercato del lavoro italiano uno strumento flessibile in grado di far emergere dall'area del lavoro nero quelle forme di lavoro saltuario, o di secondo e terzo lavoro, difficili da perseguire, per le quali risulta onerosa l'attivazione degli strumenti tradizionali per la stipula di un rapporto di lavoro (comunicazione al centro per l'impiego, obbligo di scritturazione del Libro unico del lavoro, consegna del cedolino paga, adempimenti in materia di sicurezza, ecc.). Si ricorda che le prestazioni rese nei confronti di imprenditori commerciali e liberi professionisti non possono superare 2.020 € netti annui (2.693 € lordi) per ciascun committente, fermo restando il limite di 7.000 euro netti (9.333 euro lordi) che un singolo lavoratore può guadagnare con il sistema dei buoni lavoro in un anno, per cui non è possibile, nella legalità, sostituire i buoni lavoro a un contratto di lavoro continuativo presso un unico datore di lavoro. L'evoluzione della pratica, tuttavia, ha messo in luce un vasto fenomeno sociale di utilizzo irregolare, in cui la flessibilità dei buoni lavoro si presta facilmente a pratiche elusive della legislazione del lavoro e della previdenza sociale: tali pratiche tendono a ricondurre, nell'ambito della tipologia del lavoro accessorio di tipo occasionale, rapporti di lavoro di altro tipo. Nella pratica, infatti, si segnala il frequente utilizzo dei voucher per la regolarizzazione apparente di rapporti di lavoro caratterizzati da esclusività e continuità della prestazione, non compatibili con i limiti di remunerazione premessa dai buoni lavoro. In tali casi, infatti, il buono lavoro è usato, in modo irregolare, come schermo di regolarità per una prestazione di lavoro intrattenuta quasi interamente in nero, attraverso l'occasionale remunerazione mediante cessione di un voucher. La semplice attivazione del meccanismo dei voucher nei confronti del lavoratore fa in modo che, nell'eventualità di un infortunio sul lavoro, o di un accesso ispettivo da parte dei servizi di vigilanza dell'INPS, dell'INAIL, o del Ministero del lavoro, è sufficiente l'esibizione dei buoni acquistati, ancorché non corrisposti, perché la presenza del lavoratore in azienda non possa essere considerata irregolare né dar luogo a sanzioni. In tali casi, infatti, è arduo, per i servizi ispettivi, adempiere all'onere della prova circa l'esistenza di prestazioni lavorative ulteriori rispetto a quelle effettivamente remunerate con la cessione di un voucher, dal momento che l'attivazione della prestazione non richiede alcun adempimento di registrazione o comunicazione[8]. Questo procedimento non è più possibile da settembre 2016 essendo stata resa obbligatoria la rintracciabilità dell'utilizzo del singolo buono (vedi oltre). Il problema di questo uso irregolare è stato affrontato da una norma contenuta nel Jobs Act, che ha previsto l'obbligo di comunicare l'inizio della prestazione alla Direzione Territoriale del lavoro competente, in modo preventivo e per via telematica (in modo analogo a quanto già previsto per il lavoro intermittente). Il decreto legislativo 185/2016 ha reso operativa tale procedura da ottobre 2016 sebbene non riguardi tutte le tipologie di committenti/datori di lavoro.
Nel 2016 il numero totale di buoni lavoro venduti è stato di 134 milioni (+ 23,9% rispetto al 2015, + 95% rispetto al 2014). Il valore del buono lavoro rappresenta la soglia minima di remunerazione resa possibile dal sistema. Tuttavia, le norme di legge non stabiliscono una soglia minima a cui ancorare la remunerazione su base oraria, lasciando aperta la possibilità che un unico buono sia utilizzato per remunerare più ore di lavoro. Per contrastare tale abuso, impedendo forme di "negoziazione" e "svalutazione" della prestazione oraria, la legge di riforma Fornero (legge 28 giugno 2012, n. 92), era intervenuta a regolarne l'utilizzo prevedendo l'emissione di un atto regolamentare che fissasse i valori minimi del compenso orario per ciascuna categoria. Tale previsione è rimasta a lungo inevasa, con la sola eccezione del settore agricolo: in mancanza dell'atto, rimane invariata la discrezionalità nella quantificazione della remunerazione oraria tramite buoni lavoro in tutti i settori diversi dal mondo agricolo[8]. L'impasse regolamentare ha trovato soluzione con l'entrata in vigore del Jobs Act il quale, pur demandando la determinazione del valore nominale orario a un apposito decreto del Ministero del lavoro (da basarsi, previo confronto con le parti sociali, sulle medie orarie delle retribuzioni rilevate nei diversi settori produttivi), stabilisce un regime transitorio durante il quale, in attesa di emanazione del decreto ministeriale, la remunerazione oraria della prestazione di lavoro accessorio è stabilita nel valore di taglio minimo del buono lavoro.
Lavoro, il voucher abolito, il Sud dimenticato, il povero selezionato, scrive il 23/03/2017 su "L'Uffingtonpost.it" Daniele Priori, Giornalista, scrittore, blogger. Il voucher. Trovato il colpevole. La malattia dell'Italia sindacalizzata ha individuato, colpito e affondato un altro capro espiatorio e questa volta, ad abbatterlo, prima della piazza e prima del già convocato referendum, ormai scongiurato, ha contribuito il governo a maggioranza democratica. Unico a provare invano a mettersi di traverso, forse una volta tanto anche in difesa del buonsenso, è stato il ministro degli esteri e leader della neonata Alternativa Popolare, Angelino Alfano. Ma che cos'è questo mostro dal quale gli italiani si sono salvati? E chi l'aveva voluto? Parliamo come forse non tutti sanno di "buoni lavoro" emessi dall'Inps e fino ad oggi acquistabili in tabaccheria. A renderli parte in causa nell'intricata questione occupazionale italiana era stata la Legge Biagi del 2003. Anzi, proprio in questi giorni cadono i quindici anni dal vile attentato che vide morire sotto casa sua, a Bologna nel marzo del 2002, vittima delle Nuove Brigate Rosse, il professore e stimato giuslavorista Marco Biagi da cui prese il nome la legge di riordino del lavoro varata l'anno seguente dal Governo Berlusconi dentro la quale, oltre ai voucher c'erano soprattutto altre forme di flessibilità del lavoro, come i contratti a progetto. Utili in un Paese maturo e realmente libero che non è l'Italia. Va detto, comunque, per completezza di informazione, che proprio i voucher sono divenuti pratica utilizzata in maniera aberrante dal 2008 in poi, quando cioè al Governo c'erano Bersani e molti suoi amici oggi fuoriusciti a sinistra del Partito Democratico. Poi è stata una cascata. Purtroppo proprio i voucher che, nella mente di Biagi dovevano essere il modo per regolarizzare i lavoratori a chiamata del mondo agricolo o le colf che operano, spesso in nero, nelle case di tutti noi, sono diventati l'asso nella manica anche per azienda grandi, addirittura per le versioni italiane di famose multinazionali che si sono caratterizzate nell'ultimo quinquennio, da quando cioè i governi Monti e Letta hanno ulteriormente allargato la manica, per l'assunzione, tra molte virgolette, pressoché esclusiva di ragazzi improvvisamente e, aggiungerei io, persino drammaticamente divenuti "voucheristi". Così, quando il troppo è troppo, finisce che non ce n'è più per nessuno. Addio voucher col rischio, paventato dal ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, di un rialzo del lavoro nero. E allora il Governo cerchi la una soluzione ulteriore: i mini Jobs alla tedesca. Quelli cioè che, dalle parti di Berlino, hanno rappresentato il primo campanello d'allarme per una crisi che forse aveva iniziato a bussare anche alla porta del regno di Angela Merkel, oggi alle prese, anche per questa ragione, con un difficile cammino verso il terzo mandato alle elezioni in programma a settembre. Per noi, che invece, voucher o no, la crisi ce l'abbiamo ormai connaturata proprio, questi mini Jobs, lavori occasionali con minicontratti, di fatto meno di un part time, dovrebbero essere la soluzione. Quando invece il vero problema, di cui troppo poco si parla, è la discrasia sempre più evidente tra Nord e Sud con una differenza che, mentre prima era il Nord a tirare la carretta, ora è il Sud a trascinare il paese nel baratro. A proposito di lavoro agricolo basti pensare alla tragedia degli schiavi africani irregolari di Rosarno in Calabria, vicenda nota a tutti e documentata da giornali e tg ma fino a che punto risolta? Oppure alla esecrabile collaborazione tra ambulanti irregolari di Caserta e africani clandestini resisi autori del pestaggio in diretta alla troupe di Striscia La Notizia nei giorni scorsi. Aboliscono i voucher, insomma, nuovi spaventapasseri del mercato del lavoro, senza trovare una soluzione autentica al problema divenuto annoso e stabile, "zerovirgola" a parte, della disoccupazione. Approvano una legge sulla povertà che è una mancetta, o al massimo, ad essere ottimisti, un primo passo che assegnerà 480 euro al mese, il nuovo "reddito di inclusione" solo a 1,7 milioni degli oltre 4,6 milioni di italiani che Istat ha certificato come gravemente al di sotto della soglia di povertà ma non si accorgono del problema più grande: di un Paese che nel complesso si svuota e decresce dal punto di vista demografico ma che al contrario, proprio nel profondo Sud, continua a crescere senza senno e soprattutto, purtroppo, senza speranza per tanti bambini che crescono allo stato brado in un Paese che, oltre alla ricchezza e al lavoro, rischia ogni giorno di più di perdere l'identità. Diteci voi, amici de Il Formicaio, se abolire i voucher può anche solo lontanamente sembrare l'inizio di una soluzione a questo labirinto o è soltanto l'ennesima, solita, via più facile per fare il popolo contento e canzonato.
Quei compagni che stanno con i voucher contro la Cgil, scrive Stefano Feltri l'8 gennaio 2017 su “Il Fatto Quotidiano”. Matteo Renzi almeno non si sforza più di rivendicare una continuità con la tradizione della sinistra. L’Unità di Sergio Staino invece ci prova. E attacca chi “dimentica la nostra storia”, cioè Susanna Camusso, segretario generale della Cgil. Le capriole ideologiche nel renzismo sono la norma, ma resta curioso vedere il giornale fondato da Antonio Gramsci contro il sindacato di Giuseppe Di Vittorio. Staino ha le sue ragioni quando dice che la Cgil è sempre più forza di opposizione e protesta, invece che parte attiva del governo dell’economia. Ma argomenta in modo singolare: il massimalismo sterile della Cgil è stato reso evidente proprio dalla più corposa delle sue sigle, il sindacato pensionati Spi che in Emilia Romagna usa quei voucher che la Cgil nazionale sta cercando di abolire con un referendum. Questo “bel segnale” dovrebbe spingere la Camusso a “ritornare sui grandi binari della nostra storia sindacale, delle nostre lotte di unità e di progresso”. Che i voucher possano essere associati alla storia della sinistra (è lavoro senza tutele, senza contratto, senza diritti) pare ardito. Inoltre a Staino sfugge una questione di merito: per quanto sia un colossale infortunio di comunicazione, l’uso dei voucher da parte dello Spi è quello corretto e auspicabile. Qualche pensionato riceve tagliandi dal valore di poche decine di euro per il suo lavoro di supporto, quasi mera militanza, un hobby. Se tutti i voucher fossero usati così, il referendum andrebbe deserto. Ma con il silenzio de L’Unità e i voti del Pd, però, i governi Monti, Letta e Renzi hanno liberalizzato i voucher che ora vengono usati da ristoranti, imprese, perfino pubblica amministrazione, al posto di contratti più tutelati. E così si arriva ai 121,5 milioni di voucher in 10 mesi nel 2016. Dopo i voucher, c’è solo la schiavitù. Chissà se Staino considera di sinistra anche quella.
Sindacati contro i voucher: quanta ipocrisia, scrive Ruben Razzante il 13-01-2017 su "La Nuova Bussola”. Tempi duri, questi, per i sindacati. Con buona pace della Cgil, la Corte Costituzionale ha bocciato il referendum sull’articolo 18 che mirava a cancellare la norma sui licenziamenti illegittimi, dichiarandolo inammissibile, e ha invece ammesso il referendum sui voucher e quello sugli appalti. Consultazioni che si terranno, probabilmente, la prossima primavera. Per i sindacati, insomma, si tratta di una sconfitta a metà, contro la quale la Cgil ha già annunciato un ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo, considerando antidemocratica la negazione della possibilità, per gli elettori italiani, di pronunciarsi sul Jobs Act. La consultazione referendaria, secondo quanto prevede la legge, dovrà svolgersi tra il 15 aprile e il 15 giugno prossimi. Salvo, ovviamente, elezioni anticipate. In quel caso, la legge prevede che i referendum abrogativi che hanno avuto il via libera dalla Cassazione e dalla Corte Costituzionale vengano “congelati” fino all’anno successivo. La reazione del segretario generale della Cgil Susanna Camusso non si è fatta attendere: "Valuteremo la possibilità di ricorrere alla Corte Europea in merito ai licenziamenti. E continueremo la battaglia". Il quesito sull’articolo 18 - politicamente il fulcro dell’iniziativa della Cgil - puntava ad abrogare le modifiche apportate dal Jobs Act allo Statuto dei lavoratori e a reintrodurre, dunque, i limiti per i licenziamenti senza giusta causa. In particolare, la Cgil chiedeva che fosse ripristinata e ampliata la “tutela reintegratoria nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo”, estendendola a tutte le aziende con oltre cinque dipendenti, contro il tetto dei 15 dipendenti del vecchio articolo 18. Al sindacato, “azzoppato” nella sua richiesta principale, ora non resta dunque che sperare nei referendum sui voucher e sulla responsabilità appaltante-appaltatore. Una querelle, quella sui voucher, che ha tenuto banco per molto tempo durante il governo Renzi. I voucher – denuncia il sindacato – ormai sono utilizzati dai datori di lavoro come strumento di pagamento anche per i lavoratori dipendenti e subordinati, che vengono fatti passare per lavoratori occasionali accessori. “Pizzini”, li ha definiti più volte la Camusso. Che, secondo lei, toglierebbero dignità al lavoratore dipendente, costringendolo a rimanere in un sottobosco lavorativo senza le adeguate tutele. Che i dati sul loro utilizzo abbiano, in effetti, subito un’impennata, è lo stesso Inps ad ammetterlo. Alcuni mesi fa Tito Boeri aveva lanciato l’allarme: nei primi sei mesi del 2016 sono stati attivati oltre 49 milioni di tagliandi con un aumento del 74,7% rispetto all’anno precedente. Eppure non dimentichiamo che il sistema di pagamento in voucher ha permesso di arginare la pericolosa piaga del lavoro nero. Non a caso, il loro utilizzo è cresciuto fra i collaboratori domestici e nel settore dell’agricoltura, fino ad oggi territorio franco per molti abusivi. Demonizzare i voucher, dunque, è sbagliato. Piuttosto, occorrerebbe correggerne l’utilizzo. Come giustamente sottolinea il Presidente dell’Inps, basterebbe imporre dei limiti al loro utilizzo mensile anziché annuale. Questa, insomma, rischia solo di diventare l’ennesima battaglia ideologica della Sinistra, che avrà come unico effetto quello di frenare ancora una volta la crescita del Paese e di ostacolare il sistema imprenditoriale. Anche perché da esponenti della minoranza del Pd come Roberto Speranza – che combattono strenuamente contro voucher e articolo 18 – fino ad oggi non è mai arrivata una ricetta alternativa. E senza alternative – di solito - si rischia la paralisi. Da parte della Cgil, inoltre, non si può che notare una fastidiosissima ipocrisia. Secondo dati ufficiali, nell’ultimo anno il sindacato guidato da Susanna Camusso ha investito 750 mila euro negli odiati voucher, mentre anche altri sindacati, come la Cisl, li avrebbero utilizzati per un valore complessivo di 1 milione e mezzo di euro. Alla luce di questi dati, le battaglie dei sindacati hanno sempre di più l’odioso sapore della retorica. Per capire quanto forte sia tale sapore, basta dare un’occhiata ai dati delle iscrizioni: negli ultimi due anni i sindacati hanno perso quasi trecentomila iscritti.
«La Cgil è contro i voucher perché chi viene pagato così non si iscrive al sindacato», scrive il 21 Marzo 2017 Francesca Parodi su “Tempi”. Secondo il giornalista Cobianchi, la battaglia del sindacato della Camusso «è ideologica, fatta sulla pelle delle persone. Ed è l’ideologia che manderà a picco questo paese». Il governo «politicamente» non aveva alternative, ma abrogando gli articoli del Jobs Act relativi ai voucher per scongiurare il referendum promosso dalla Cgil «fa un enorme favore al lavoro nero». Così Marco Cobianchi, giornalista di Panorama e fondatore di #Truenumbers, commenta a tempi.it la decisione del governo Gentiloni. «Dal punto di vista politico, si è trattato di una mossa obbligata perché al referendum, in questo paese di cialtroni, avrebbe senza dubbio vinto il sindacato. Per quanto riguarda i contenuti, invece, l’eliminazione dei buoni è stato il più grande favore al lavoro nero che si potesse fare, e ne sono responsabili il governo e la Cgil insieme». Ma perché la Cgil chiede la cancellazione dei voucher? «La storia dell’abuso di questo strumento contrattuale è solo una scusa. Il vero motivo è che chi viene pagato a voucher non si iscriverà mai a un sindacato. Da quando in qua la Cgil si interessa dei lavoratori autonomi? È solo una questione di interessi e convenienza». Effettivamente i voucher, riconosce Cobianchi, presentavano un punto debole che chiedeva delle modifiche: «Il valore di ciascun buono era di 10 euro, ma era troppo basso perché al lavoratore andavano solo 7,50 euro, il resto se ne andava in contributi. I voucher dovevano valere almeno 15, se non 20 euro. Il vero sfruttamento non consiste nella mancanza di contratto, ma nella possibilità di sottopagare il lavoratore». C’è di buono che, quando utilizzati in maniera appropriata, i voucher hanno contribuito a far emergere il lavoro nero ed è interessante osservare la mappa del loro utilizzo: «I dati mostrano che i buoni sono molto impiegati soprattutto nelle regioni più industrializzate del paese, come Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, mentre un’ampia area del centro-sud si mostra più impermeabile alle incentivazioni per regolamentare il lavoro in nero». Risultato finale della cancellazione dei voucher: «Gli imprenditori onesti si trovano senza un valido strumento di flessibilità, mentre i disonesti continueranno a trovare modi per sfruttare i lavoratori». Certamente c’era il rischio che i voucher venissero utilizzati in maniera impropria per tagliare i costi del lavoro («un dipendente a tempo indeterminato costa più di un lavoratore pagato a buoni»), ma la realtà è che i voucher venivano usati persino troppo poco: «Nel 2016 ne sono stati venduti 134 milioni e sono stati versati stipendi per un miliardo e 340 milioni. Rispetto all’ammontare totale degli stipendi in Italia, che si aggira sui 600 miliardi, i voucher coprono una percentuale del mercato del lavoro pari allo zero virgola. Facendo una media, risulta che i lavoratori italiani che ne hanno usufruito, ne avrebbero utilizzati appena tre o quattro a testa». Su numeri così bassi, quindi, parlare di abuso non ha senso: «È solo ideologia della peggior specie perché fatta sulla pelle di persone, soprattutto giovani, che potevano essere finalmente pagati in modo regolare, ed è l’ideologia che manderà a picco questo paese». Ultimamente si sta parlando, come possibile alternativa, dei voucher francesi o dei mini jobs tedeschi, «ma la cosa importante è trovare una soluzione in fretta, perché la stagione estiva si avvicina e il turismo è uno dei settori dove i voucher sono maggiormente utilizzati». Si dovrà inoltre tener presente che adesso la Cgil, «che ha già ottenuto una grandissima vittoria con l’abolizione dei voucher, avrà il potere di dettare al governo le linee guida per l’elaborazione di un nuovo strumento».
L’Inps sui voucher: sindacati e non profit tra i maggiori utilizzatori. Nuovi dati Inps aggiornati al 2016. I sindacati hanno il più alto numero di voucher per lavoratore. E sono secondi solo alle società per azioni per numero di voucher per committente. La Cgil: «L’Inps faccia nomi e cognomi delle aziende che li usano di più», scrive Rita Querzé su “Il Corriere della Sera” il 17 gennaio 2017. L’Inps ha risposto ieri alla Cgil che nei giorni scorsi aveva chiesto nomi e cognomi delle aziende prime utilizzatrici dei voucher. Le carte d’identità non sono state rivelate, in compenso l’istituto ha fornito un approfondimento sull’uso dei buoni lavoro a seconda di numero di dipendenti e forma societaria dell’impresa. Ne risulta che i 36 sindacati che hanno sfruttato questo strumento hanno in media usato nel 2016 180 voucher a testa per 1.559 lavoratori. La quota procapite di voucher più elevata. Al secondo posto arriva il mondo del non profit. Al terzo la pubblica amministrazione. Per quanto riguarda il numero di voucher utilizzati dal singolo committente, i sindacati sono secondi soltanto alle società per azioni. “Questi dati non aggiungono nulla di nuovo — è il commento della Cgil —. I sindacati, autonomi e non, e le associazioni di rappresentanza sono numerosi. Piuttosto ci aspettavamo che l’Inps ci dicesse quasi sono le grandi e grandissime imprese sopra i mille dipendenti che usano questo strumento”. Da notare: visto che ogni voucher da 10 euro vale 7,5 euro nelle tasche del lavoratore, 180 voucher corrispondono a 1.350 euro l’anno a lavoratore (il tetto è 2.000 euro).
Quel centinaio di aziende con più di mille dipendenti. L’Inps ha diffuso anche una tabella inedita sull’uso dei voucher a seconda della dimensione delle imprese. Da notare l’elevato uso di voucher per dipendente da parte delle società per azioni e, in generale, delle grandi aziende con più di mille dipendenti. «Visto che i voucher venduti nel 2015 sono stati 115 milioni, se come spiega l’Inps 66 milioni sono stati acquistati da imprese con almeno un dipendente tutti gli altri (poco più di 48 milioni) sono andati a attività senza dipendenti. Un aspetto questo che deve far riflettere», fa notare Guglielmo Loy della segreteria Uil. «E’ vero che di questi 48 milioni poco meno di una decina sono utilizzati per giardinaggio, pulizie e lavori domestici. Ma restano ancora più di 38 milioni di voucher utilizzati da aziende senza dipendenti», va oltre il sindacalista.
Big del terziario. Per quanto riguarda il centinaio di aziende con più di mille dipendenti grandi utilizzatrici di voucher (102 per la precisione), si fanno i nomi di grandi catene della distribuzione e della ristorazione. Tra questi fruitori anche numerose amministrazioni pubbliche (vedi il comune di Torino).
La Camusso sbugiardata: anche la Cgil usa i voucher. Il sindacato rosso paga i suoi collaboratori coi buoni che vuole abolire: "Non ci piacciono, ma non c'è alternativa", scrive Paolo Bracalini, Venerdì 06/01/2017, su "Il Giornale". Raccogliere firme per un referendum contro i voucher, e poi pagare i collaboratori con gli stessi voucher? Sì, la Cgil può. Però, il sindacato più rosso d'Italia ha un alibi: «Lo facciamo perché non abbiamo alternative, anche se continuano a non piacerci» confessa Bruno Pizzica, segretario regionale dello Spi-Cgil (ramo pensionati) in Emilia Romagna. Non solo quindi la Cgil licenzia i suoi dipendenti mentre combatte contro i licenziamenti nelle aziende private, ma «sfrutta» anche i lavoratori precari pagandoli a cottimo, con gli odiati voucher che vorrebbe abolire. La leader Cgil, Susanna Camusso, li paragona nientemeno che ai pizzini della mafia: «I voucher sono ormai diventati i pizzini che retribuiscono qualsiasi attività - ha detto l'altro giorno la segretaria nazionale della Cgil. Così facendo si inquina il buon lavoro e si condannano milioni di giovani e lavoratori a un futuro assai povero. Vanno aboliti». Dopo averli usati per retribuire i precari della Cgil, però. Succede peraltro a Bologna, cuore del sindacalismo barricadiero di sinistra, dove nel 2002 è stato assassinato dalla nuove Br il giuslavorista Marco Biagi, il primo ad introdurre i voucher nella sua riforma del lavoro. «Abbiamo l'indicazione dai livelli nazionali di non usare i voucher, i volontari che lavorano per noi poche ore al giorno» racconta il sindacalista Cgil al Corriere di Bologna, aggiungendo l'auspicio che la faccenda rimanga confinata dentro la circonvallazione bolognese, perché «è meglio che questa notizia esca adesso, perché se uscisse durante l'eventuale campagna referendaria per l'abolizione del Jobs act faremmo molta fatica a spiegarla alla nostra gente...». Difficile far passare, ad esempio, la giustificazione che adduce il segretario dello Spi-Cgil di Bologna, Valentino Minarelli: «Noi usiamo i voucher per i nostri volontari che fanno lavori occasionali, stiamo parlando di una cinquantina di persone. Parliamo di persone che guadagneranno 150 euro al mese, che lavorano solo qualche ora per noi. Siamo praticamente costretti a utilizzare i voucher», perché l'alternativa ai voicher per retribuire le prestazioni occasionali sarebbe il nero, o un'impossibile assunzione. Cioè le stesse identiche ragioni per cui ricorrono ai voucher le aziende, a cui però proprio la Cgil vorrebbe togliere lo strumento del pagamento occasionale. Lo Spi-Cgil fa tutto all'insaputa della Camusso? Non sembra proprio. «Ne abbiamo parlato anche con la Cgil nazionale, noi siamo e restiamo contrari all'uso dei voucher» risponde il segretario dello Spi Cgil nazionale, Attilio Arseni. Ma appunto, non hanno alternative: «Ricorriamo all'uso dei voucher per pagare il servizio ad alcuni pensionati che uno o due volte la settimana, ci aiutano in prestazioni quasi di carattere volontario: si tratta di pagamenti all'incirca di 100 euro al mese. Che dovremmo fare? Pagarli in nero? Non esiste proprio. Purtroppo i voucher sono gli unici strumenti a disposizione». Ma la Cgil è in buona compagnia nel predicare in un modo e razzolare in quello opposto. Il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, si è schierato per l'abrogazione dei voucher perché il Jobs Act «riduce i diritti dei lavoratori», eppure il Comune di Napoli ha appena emesso un bando «per la selezione di lavoratori disoccupati disposti ad effettuare presso il Comune di Napoli prestazione di lavori di tipo accessorio retribuiti mediante voucher». E pure a Torino, dove la sindaca Chiara Appendino del M5s, che definisce i voucher «sfruttamento, precariato spinto e zero tutele», offre lavoro tramite appunto i voucher. Tutti buoni, coi buoni lavoro degli altri.
L’imbarazzante caso dei pensionati Cgil che usano i «maledetti» voucher. Da ieri i suoi dirigenti sono nell’occhio del ciclone. «Vogliamo abolirli, ma l’alternativa era il nero», è la difesa, che somiglia a quel che sostiene il governo, scrive il 5 gennaio 2017 Dario Di Vico su "Il Corriere della Sera". Con i suoi 640 mila pensionati iscritti, 6 mila attivisti e 300 leghe sparse sul territorio lo Spi-Cgil dell’Emilia-Romagna rappresenta il cuore del sindacalismo rosso e sicuramente una delle maggiori organizzazioni sociali dell’intera Europa. Da ieri i suoi dirigenti sono nell’occhio del ciclone perché, come ha scritto il Corriere di Bologna, utilizzano per il lavoro occasionale i famigerati voucher. Quelli che la Cgil vuole abolire chiamando al voto tutti gli italiani e sempre quelli che Susanna Camusso ha paragonato ai pizzini mafiosi. Il caso riguarda 50 persone che prestano servizio presso le sedi del sindacato meno di tre giorni a settimana e vengono retribuiti con i ticket del lavoro. Il segretario regionale dello Spi-Cgil, Bruno Pizzica, ieri ha spiegato che non si tratta di «occasionali» ma di pensionati attivisti dell’organizzazione che non si sarebbero potuti pagare in nessun altro modo. «Siamo per l’abolizione dei voucher, non dissentiamo dalla Cgil ma non potevano certo ricorrere a prestazioni in nero. E abbiamo usato l’unico strumento per non farlo». Ma proprio sostenendo che sono un rimedio contro il sommerso Pizzica finisce per avvalorare la posizione del governo Gentiloni che vuole riscrivere le norme per contrastare gli abusi ma intende confermare i voucher in funzione anti-evasione. Nel merito poi dei possibili emendamenti alla legge uno dei consulenti di Palazzo Chigi, Marco Leonardi, ha elencato in questi giorni sulla sua pagina Facebook almeno sette possibili soluzioni. La vicenda rappresenta sicuramente un micidiale contropiede per la Cgil a pochi giorni dal verdetto della Consulta sull’ammissibilità dei tre referendum, di cui uno riguarda esplicitamente i ticket del lavoro. Esaurite però le polemiche il tema che emerge sullo sfondo è quello degli orientamenti di fondo del sindacato italiano. Da una parte c’è la tendenza a vivere di grandi campagne d’opinione, spalmate sul territorio e assistite da una continuità organizzativa esemplare; dall’altra la necessità in una fase contraddittoria come l’attuale di «sporcarsi le mani», di spendere la forza degli iscritti per negoziare soluzioni magari imperfette ma che in qualche maniera cercano di governare i profondi cambiamenti dell’economia e del lavoro. La scelta della Cgil finora è stata legata al primo modello e non è un caso che dalle campagne si sia passati alla raccolta delle firme per i referendum, in virtù di una sorta di radicata sfiducia sulle possibilità di ottenere risultati per altra via. Ma il rischio che il sindacalismo italiano corre adottando questa strategia è di confondersi con il grillismo, di trasformare la (legittima) protesta e il disagio sociale in rancore. Salvo poi incappare in clamorose contraddizioni quando, come nel caso dello Spi-Cgil, il sindacato è esso stesso datore di lavoro e si deve comportare con pragmatismo. Non tutto il sindacato è però incamminato su questa strada. La Cisl, pur tra mille cautele, ha scelto la via di continuare a contrattare il contrattabile e ha avuto ragione a scommettere sul tramonto della rottamazione sindacale. Proprio ieri Tommaso Nannicini, indicato come l’estensore del prossimo programma del Pd, in un’intervista concessa alla Stampa ha indicato come obiettivo quello di re-intermediare investendo «nell’associazionismo, nei circoli, sulla rete e nel confronto con i corpi intermedi». Un secco dietrofront rispetto al primo renzismo. Accanto alla Cisl anche un altro spezzone del sindacalismo italiano, nientemeno che le tre sigle dei metalmeccanici Fiom-Fim-Uilm, ha di recente scelto di «sporcarsi le mani» firmando con la Federmeccanica un contratto che per affrontare insieme le sfide di Industria 4.0 e della valorizzazione del capitale umano individua nuove soluzioni e sceglie di affrontarle assieme. Un antidoto se non al populismo quantomeno al rancore.
Camusso beccata. Protestano e intanto sfruttano: così la Cgil paga con i voucher, scrive Nino Sunseri il 6 Gennaio 2017 su “Libero Quotidiano”. I voucher sono un esempio di sfruttamento indegno quando a usarli sono le imprese private. Diventano un insostituibile strumento di flessibilità e di contrasto al lavoro nero se a utilizzarli è il sindacato per i propri collaboratori occasionali. La solita doppia morale cui la Cgil non si sottrae mai. Per Susanna Camusso i voucher sono dei volgari "pizzini" segno di sfruttamento dei lavoratori al punto da meritare un referendum per abolirli. La Camera del Lavoro, invece li impiega senza problemi. Com' è questa storia? A sollevare lo scandalo è il Corriere di Bologna, edizione locale del Corriere della Sera, dove però decidono che la notizia non merita di essere rilanciata a livello nazionale. Chissà perché? Colpevole distrazione o tardivo riflesso dei tempi in cui sul palazzo di via Solferino sventolavano bandiere rosse? Non si capisce. Tanto più che la scoperta è veramente ghiotta: lo Spi-Cgil, il potente sindacato dei pensionati, a Bologna e in tutta l'Emilia-Romagna paga i collaboratori occasionali (quelli che lavorano meno di tre giorni alla settimana) con i voucher. Siamo nel cuore rosso del Pd e i protagonisti sono i rappresentanti dei pensionati che ormai costituiscono la componente più importante del sindacalismo italiano. Ma non importa. I custodi dell'ortodossia sindacale non si fanno scrupoli di utilizzare i tagliandi Inps. Al punto tale che la Cgil ha raccolto ben tre milioni di firme per abolirli insieme al jobs act. E che importa se l'alternativa ai voucher è il lavoro nero e che il ripristino dell'articolo 18 (addirittura esteso alle imprese con appena cinque dipendenti) diventa il gesso nel quale imbalsamare il mercato del lavoro? Quello che conta per una certa sinistra è l'ideologia. La realtà è un'altra cosa e se non si adegua ai sacri principi è la realtà a sbagliare. Mai l'ideologia. Una contraddizione pesante per chi sta conducendo una battaglia senza quartiere per la cancellazione dei buoni lavoro di cui il Corriere di Bologna ha chiesto spiegazioni a Bruno Pizzica segretario Spi-Cgil dell'Emilia-Romagna. La risposta che ricevono in redazione è surreale: Abbiamo l'indicazione dai livelli nazionali di non usare i voucher, i volontari che lavorano per noi poche ore al giorno al limite li paghiamo con i buoni pasto. Un riconoscimento implicito che le collaborazioni saltuarie sono onorate in nero. Inammissibile per i difensori dei diritti dei lavoratori. Così poco dopo il sindacalista chiama in redazione a Bologna per correggere il tiro: Mi scuso, non mi occupo degli aspetti organizzativi e non ero bene informato: quella dei ticket-restaurant è una stupidaggine, è vero invece che utilizziamo anche noi i voucher, anche se continuano a non piacerci. Lo facciamo perché non abbiamo alternative. Né a quanto pare il sindacato sembra veramente interessato a costruirle preferendo il lavoro nero. La stessa logica che ha portato Cgil-Cisl e Uil a non applicare l'articolo 18. Vietato licenziare per tutti tranne che per il sindacato. Una via di fuga legata al fatto che i rappresentanti dei lavoratori sono sempre riusciti a evitare la regolarizzazione imposta dalla Costituzione (naturalmente la più bella del mondo). In questo modo non sono mai stati costretti a presentare bilanci trasparenti e nemmeno a rispettare le regole sul lavoro Né importa che la lotta ai voucher appare come un altro esempio degli scontri di potere che stanno dilaniando l'eredità del Pci. Perché se è che i ticket Inps vengono introdotti nel 2003 con la Legge Biagi e altrettanto vero che la liberalizzazione più forte arriva con il governo Monti appoggiato dal Pd di Pierluigi Bersani. Lo stesso ex segretario che oggi definisce i voucher mostruosi. Il resto è storia recente, il governo Renzi ha alzato la soglia annua entro i quali possono essere usati, portandola da 5 a 7 mila euro. Nei giorni scorsi il segretario della Cgil di Bologna, Maurizio Lunghi ha denunciato l'abuso dei buoni anche nel cuore delle provincie rosse. I dati - ha detto - sono chiari: in Emilia-Romagna sono state attivate più di 18 milioni di ore con i voucher e il 30% solo a Bologna. Numeri imponenti cui, si scopre ora, ha dato un contributo anche la Camera del lavoro. Nino Sunseri
Voucher in Cgil, mail interna: "Alla stampa dire che sono casi isolati". Ma il problema resta. Due membri della segreteria nazionale scrivono ai dirigenti del sindacato dopo la notizia dell'utilizzo dei voucher nello Spi Emilia-Romagna: "Non alimentare fratture coi media". Ma il problema del lavoro non sempre regolare all'interno della Cgil rimane, scrive Matteo Pucciarelli il 07 gennaio 2017 su “La Repubblica”. Voucher utilizzati per il lavoro in Cgil: "Sì, ma solo per prestazioni occasionali". Dopo il caso dei voucher utilizzati dalla categoria dei pensionati dell'Emilia-Romagna, un autentico boomerang per chi si sta battendo per l'abolizione dei buoni lavoro e che ha raccolto le firme per un referendum abrogativo, la Cgil corre ai ripari. Ieri la segreteria nazionale ha diramato una mail a tutti i dirigenti delle categorie, nazionali e regionali. La cosiddetta "nota alle strutture" è un vademecum sul come, anche, rispondere agli organi di stampa sulla questione. "L'obiettivo che dobbiamo perseguire in queste ore delicate anche in relazione alla prossima espressione della Corte sulla ammissibilità dei quesiti referendari - scrivono Tania Scacchetti e Nino Baseotto, membri della segreteria nazionale - deve essere quello di rilanciare la validità delle nostre ragioni, supportate da milioni di firme raccolte nei mesi scorsi, evitando i processi ed evitando di alimentare fratture nella organizzazione e nella sua immagine pubblica". Ed è anche comprensibile la voglia di "evitare i processi". Perché il problema dell'utilizzo dei voucher per pagare i propri collaboratori è un problema esteso e non relegato a una sola regione. I casi sono diversi: dallo Spi di Bergamo a quello di Milano (dove nei mesi scorsi un'ispezione interna portò a pesanti provvedimenti disciplinari, compresa l'espulsione, per dei dirigenti), solo per citarne alcuni. "Certamente meglio sarebbe stato usare maggiore attenzione sulla questione, specie una volta avviata la nostra campagna di raccolta firme. Tuttavia, anche nella relazione con la stampa locale, il fenomeno va circoscritto a quello che è, un utilizzo per limitate attività meramente occasionali svolte da soli pensionati", continua il messaggio dei due dirigenti del sindacato. Insomma, minimizzare. Confinare la questione spinosa ai soli pensionati. Ma in realtà dentro la Confederazione l'utilizzo dei voucher è solo la punta dell'iceberg del capitolo legato al lavoro interno alle strutture non sempre regolare. "Un sistema ampiamente utilizzato per retribuire alcuni collaboratori - racconta un funzionario della Cgil di una struttura del sud - è quello del finto volontariato. Poi di solito attraverso la richiesta di rimborsi spese chilometrici fasulle, che vengono presentati alla tesoreria provinciale o territoriale, si percepisce una sorta di compenso mensile". Un chilometro, 0,31 centesimi: si elenca una serie di tratte, si arriva alla cifra concordata e il gioco è fatto. Lo stesso avviene un po' ovunque ed è il segreto di Pulcinella all'interno dell'organizzazione sindacale. "Non è pertanto accettabile che sia strumentalizzata la posizione della Cgil che per mesi, nel silenzio assordante di tutto il Paese, ha fatto denunce e raccolto milioni di firme affinché il tema avesse la giusta attenzione. La Cgil non nega l'esigenza di uno strumento che possa rispondere al lavoro occasionale; nega che questo strumento siano i voucher come li conosciamo oggi", si legge ancora nella mail interna di Scacchetti e Baseotto che si chiude così: "Auspichiamo pertanto che questi possano essere i contenuti che saranno diffusi ad attivisti e delegati oltre che alla stampa locale quando interpellati sulla questione". Prima che venisse inviata la mail, uno storico dirigente della Cgil emiliana, Bruno Papignani, su Facebook si era espresso così: "Non siamo di fronte ad un brutto accordo, siamo di fronte ad una cosa legittima, motivata, ma che politicamente non si può fare. Credo che ogni giustificazione peggiori il giudizio. Anche perché persino i peggiori sfruttatori se andiamo a intervistarli hanno la loro giustificazione...".
Boeri: "Cambiare i voucher ma non cancellarli. Cgil ipocrita, li usa in gran quantità". Il presidente dell'Inps conferma il giudizio positivo sul Jobs Act. "Il sindacato guidato da Camusso ha utilizzato buoni per le prestazioni per 750 mila euro". "Sto cambiando l'Istituto riducendo anche i vertici. Da qui gli attacchi. Non voglio bastoni tra le ruote", scrive Francesco Manacorda l'11 gennaio 2017 su "La Repubblica".
Presidente Boeri, i suoi dirigenti la denunciano alle Procure.
"L’ho letto sui giornali. Credo che sia la reazione di alcuni a una riforma della dirigenza mai fatta prima nella Pubblica amministrazione".
Dal ministero del Lavoro piovono rimbrotti a raffica.
"Osservazioni cui abbiamo già risposto".
I sindacati interni l’accusano di avere la sindrome dell’uomo solo al comando.
"Prima ancora di arrivare al mio posto avevo chiesto una riforma della governance, con un consiglio di amministrazione che avesse pieni poteri; altro che uomo solo al comando!".
E i sindacati nazionali, che già non la amano, da oggi l’ameranno ancora meno.
"Sui voucher vedo troppa ipocrisia da parte di chi li demonizza. Vanno corretti, ma non certo cancellati".
Tito Boeri, l'economista del lavoro che tra un mese compie due anni tempestosi come presidente dell'Inps, riceve da solo - e anche questo è un segno - nella sede milanese dell'Istituto. Zero uscieri, zero segretarie e un auspicio per i due anni che ancora gli restano alla guida: "Chiedo che non mi vengano messi i bastoni tra le ruote: non ho mai minacciato le dimissioni, ma non ho timore a difendere le mie posizioni. Se anche mi dovessero cacciare ho il privilegio di poter tornare a un lavoro che amo e quindi non sono condizionabile".
Gli ennesimi dati sulla disoccupazione giovanile di lunedì e la polemica sui voucher - proprio oggi la Corte Costituzionale deve pronunciarsi sui quesiti referendari della Cgil - riportano l'attenzione su un lavoro che non c'è e che se c'è tende a diventare precario. Lei ha dato in passato un giudizio positivo sul Jobs Act. Lo conferma anche alla luce di questi dati?
"La disoccupazione giovanile resta a livelli inaccettabili. Ma da quando c'è il Jobs Act l'occupazione è cresciuta più del reddito nazionale. Gli studi che stiamo facendo ci diranno che ruolo hanno avuto in questo gli incentivi fiscali rispetto al contratto a tutele crescenti, il cui scopo principale era comunque quello di migliorare in prospettiva la produttività e i salari visto che questa forma di contratto vuole stimolare le imprese a investire sulla formazione dei lavoratori".
Da una parte quel contratto, dall'altra i contestati voucher. Sono dei "pizzini", come dice la segretaria della Cgil Susanna Camusso?
"No. Non c'è dubbio che c'è stato un abuso dei voucher per le prestazioni temporanee e accessorie e che sono stati utilizzati per finalità molto differenti da quelle che il legislatore si era proposto. Qualche correttivo quindi serve. Ma cancellare i voucher sarebbe davvero sbagliato. Anche perché nel dibattito di questi giorni vedo molta ipocrisia".
L'ipocrisia riguarda la Cgil che contesta i voucher ma poi li usa a Bologna per pagare alcune prestazioni di pensionati?
"Dai nostri dati si tratta di un episodio tutt'altro che isolato. Nell'ultimo anno la Cgil ha investito 750 mila euro in voucher; non si tratta quindi né solo di Bologna né solo di pensionati. Anche altri sindacati hanno massicciamente usato questi strumenti, ad esempio la Cisl ne ha utilizzati per un valore di 1 milione e mezzo di euro".
Dei voucher conviene quindi prendere il buono? La loro funzione di far emergere il lavoro nero, come dice chi li vuole?
"Questo era il loro obiettivo accanto a quello di offrire lavoretti a studenti e pensionati. Ma solo un quinto dei percettori appartiene a queste categorie e i voucher sono cresciuti di meno nei settori dove c'è più lavoro nero come tra i collaboratori domestici e in agricoltura".
Come correggere allora il loro utilizzo?
"Si possono imporre dei limiti all'utilizzo mensile anziché annuale dei voucher. Se vediamo che in un mese lo stesso datore di lavoro ha usato lo stesso lavoratore per molte ore con i voucher questo indica la sostituzione di un contratto di lavoro alle dipendenze con i voucher. Si possono migliorare i controlli facendo pervenire direttamente all'Inps anziché al ministero gli sms di attivazione e rendendo finalmente operativo l'ispettorato nazionale del lavoro per assicurare che al voucher corrisponda effettivamente a un'ora lavorata. Questo lo renderebbe come un salario minimo, un istituto di cui si sente il bisogno in Italia".
Dal lavoro all'Inps. La sua riorganizzazione dell'istituto non piace a tutti. Anzi, sembra piacere davvero a pochi...
"Gli attacchi continui, comprese queste denunce che alcuni dirigenti avrebbero fatto nei miei confronti, si spiegano con il fatto che un'operazione di razionalizzazione come quella che abbiamo avviato all'Inps non è mai stata fatta nella Pubblica amministrazione. Le riforme organizzative della Pubblica Amministrazione sin qui sono state spesso accompagnate dal mantenimento del numero di dirigenti: noi invece riduciamo di un quarto i dirigenti di prima fascia; quelli alla direzione generale di Roma vengono più che dimezzati passando da 33 a 14. Rafforziamo la presenza dell'Inps sul territorio e creiamo spazio per nuove assunzioni di giovani laureati, magari anche che abbiano fatto esperienze all'estero e vogliano tornare in Italia. Ovvio che di fronte a questi cambiamenti si scatenino delle reazioni".
Ma lei che cosa vuole cambiare nella macchina che eroga le pensioni - e non solo - agli italiani?
"L'Inps fa molto di più che pagare le pensioni. Ha tenuto insieme il Paese durante la crisi più profonda della storia repubblicana. Ciò detto, può e deve funzionare meglio e il cambiamento deve partire dalla classe dirigente dell'Inps. Finora le promozioni a dirigente di prima fascia avvenivano spesso in modo opaco. Il risultato è stato quello di arrivare a 48 direzioni, con nomi spesso fantasiosi, che creavano sovrapposizioni e conflitti decisionali. Con la riorganizzazione abbiamo azzerato le prime e le seconde linee ed entro febbraio attribuiremo i nuovi incarichi generando una dirigenza ridotta nel numero, meno costosa e più vicina ai cittadini".
Lei deve anche nominare il nuovo direttore generale dopo le dimissioni di Massimo Cioffi, con il quale lei ha avuto un forte conflitto.
"Ho proposto Gabriella Di Michele e sto aspettando l'approvazione del ministero, che spero arrivi già oggi".
La riorganizzazione però non piace al ministero del lavoro. Prima di Natale vi siete lasciati con un scambio di missive velenoso...
"È stato sorprendente, perché il ministro Poletti aveva espresso soddisfazione per la riorganizzazione dell'istituto, nella quale eravamo andati incontro a molte sue richieste, e poi ci siamo ritrovati con una lettera del direttore generale del ministero alla quale comunque abbiamo già dato risposta. Peraltro l'ultima nota ci rimproverava molto sul bilancio dell'Inps, senza tenere conto di quello che stiamo facendo per aumentare le entrate e ridurre i costi. Ad esempio abbiamo ottenuto ottimi risultati nella lotta all'evasione contributiva, grazie alla nuova vigilanza documentale, effettuata tramite l'incrocio di banche dati. Lo scorso anno solo da questa attività abbiamo evitato un esborso illegittimo di prestazioni per circa 150 milioni. Poi abbiamo tagliato spese con operazioni di equità".
Ad esempio?
"Abbiamo pronta una circolare che interviene sulle modalità di calcolo delle pensioni dei sindacalisti. Alla luce di una sentenza della corte dei Conti possiamo intervenire per via amministrativa anche su prestazioni in essere ad ex-sindacalisti. Basta solo l'ok del lavoro e partiamo".
Traduzione?
"Oggi alcuni sindacalisti distaccati possono fare versamenti anche molto consistenti negli ultimi anni di lavoro. E questi versamenti episodici hanno un impatto sulla pensione molto rilevante al contrario di quanto avviene per gli altri lavoratori. Come documentato nella sezione "a porte aperte" del sito Inps, questa prassi ha portato ad aumenti del trattamento fino al 60%".
Quante persone sono coinvolte?
"Circa 40 già in pensione e 1.400 sindacalisti in attività".
Piccoli numeri, insomma.
"Sì, ma con un forte valore simbolico di equità, creando un precedente che potrebbe essere utilizzato per intervenire sui vitalizi. Un'altra operazione dai risparmi contenuti ma che ha un forte valore di equità è la scelta di disdire una convenzione con l'assemblea regionale della Sicilia che permetteva ai parlamentari siciliani di ottenere, in cambio di una contribuzione mensile dello 0,12% della retribuzione, un mese di retribuzione erogata a favore degli eredi in caso di decesso. Con la fine della convenzione abbiamo tolto questo privilegio a chi non ne ha diritto per legge".
Nel governo c'è chi vuole intervenire per decreto sulla povertà. E opportuno? ed è utile?
"Dal punto di vista tecnico è di sicuro opportuno. La povertà è aumentata di un terzo dal 2008 a oggi ed è giusto ambire a uno strumento universale e al tempo stesso selettivo come un reddito minimo garantito. Per farlo, però, bisognerebbe sfruttare l'esperienza positiva dell'Isee (l'indicatore della situazione economica equivalente che prende in considerazione anche le proprietà immobiliari e le condizioni dell'intero nucleo familiare, ndr) ed evitare che, come accade oggi, circa 5 miliardi di prestazioni assistenziali vadano a persone che sono nel 20% più ricco della popolazione. Il marito di una ricca manager con grande casa di proprietà non è proprio detto che debba ricevere la quattordicesima".
Il disegno di legge è bloccato in Parlamento. Sarebbe il caso di procedere per decreto?
"In Parlamento si sono persi dei pezzi importanti, come la possibilità di intervenire sui trattamenti assistenziali in essere - correggendoli e non cancellandoli - per ridurre storture come quella a cui accennavo prima. Visto che la legislatura può durare circa un anno, ci sarebbero tutte le ragioni per un decreto. Sul piano politico sarebbe un modo per dare una risposta ai movimenti anti establishment che sorgono in Italia come in altri paesi. Una pubblica amministrazione che aiuta chi ha davvero bisogno sulla base di criteri oggettivi, come un Isee basso, e non perché è sostenuto dal politico locale, migliora il rapporto fra cittadini e Stato e spiazza il clientelismo".
Due anni fa le telefonò Renzi e lei accettò la presidenza dell'Inps. Adesso Renzi è a casa e lei resta qui. Si sente più solo?
"In questi due anni mi sarei aspettato maggiore sostegno nella riforma dell'Inps, nella informazione che stiamo facendo - l'anno scorso sono impazzito per trovare i francobolli con cui spedire le famose buste arancioni - e nel permetterci di far fronte ai più di 50 nuovi compiti che ci sono stati affidati senza attribuirci risorse aggiuntive con nuove assunzioni. Con il nuovo presidente del Consiglio comunque ho un'interlocuzione più rapida, direi immediata".
Lei ha studiato e lavorato all'estero. Si sente migliore degli altri o solo più fortunato?
"Non riuscirà a trascinarmi in una polemica con il ministro Poletti. Le dico solo che il fatto di aver lavorato all'estero mi ha dato molto. E al piano di assunzioni dell'Inps spero parteciperanno alcuni talenti che lavorano fuori dall'Italia".
Che reazione ha all'esodo di laureati italiani all'estero?
"È un problema serissimo che si combatte non tanto con le formule - penso che "merito" sia la parola più inflazionata di questi anni - quanto con gli esempi concreti. Selezioni trasparenti e promozioni non legate a condizionamenti, come vogliamo fare all'Inps, sono atti che possono dare un segnale di speranza a chi è fuori e continua a sperare che l'Italia cambi. E una pubblica amministrazione che torna ad assumere persone competenti è un segnale importante: dopotutto il blocco delle assunzioni nella Pubblica Amministrazione che si trascina ormai da 15 anni ha privato i giovani ogni anno di circa 150.000 opportunità di impiego. Un numero molto vicino a quello dei giovani che nel 2015 hanno lascato l'Italia iscrivendosi all'anagrafe dei residenti all'estero".
VOUCHER ED ASSUNZIONI FACILI...
Tangenti per le assunzioni in Ama. Spuntano gli elenchi dei «padrini». Azienda rifiuti nel caos per le compravendite di posti di lavoro. Uno dei delegati Cisl citato nelle registrazioni all’esame della Procura figurava tra gli «sponsor» dei netturbini entrati nel 2010, scrive Fabrizio Peronaci il 5 gennaio 2017 su "Il Corriere della Sera". E al terzo giorno di fibrillazione per i dialoghi choc pubblicati dal Corriere sulla compravendita di posti da netturbino, in Ama tornarono a circolare le liste di Parentopoli. Alcuni nomi coincidono, il mondo è sempre quello: delegati di stretta osservanza Cisl. Il sindacalista citato dalla spazzina infuriata per la mancata assunzione del compagno («rivojo indietro i 9 mila euro, mo’ quello zompa per aria!»), ad esempio, figurava anche nei tabulati dell’«infornata» 2010. All’epoca il delegato sotto le insegne dell’organizzazione di via Po riuscì a far assumere un suo parente strettissimo, che si può quindi escludere abbia pagato. Ma cosa è accaduto nelle segnalazioni successive, specie quelle accompagnate dal versamento di moneta sonante? Quanti neo-netturbini hanno messo mano al portafoglio pur di accaparrarsi un posto fisso? È quanto sta cercando di accertare il magistrato Alberto Galanti, al quale la scorsa estate il leader della Cgil Funzione pubblica di Roma e del Lazio, Natale Di Cola, ha consegnato la chiavetta Usb con le tre conversazioni incriminate che era stata inviata anche a un segretario confederale della Cisl, Luciano Giovanni, e all’ex presidente dell’Ama, Daniele Fortini, e al capo del Personale, Saverio Lopes. L’operatrice ecologica, nei 36 minuti di registrazioni da lei stessa effettuate, parla del sistema diffuso di tangenti da 15-20 mila euro con l’amico mediatore (operaio in Atac) e poi, in modo acceso, con il presunto organizzatore del traffico, un altro delegato sindacale noto per il suo attivismo. I rumor nella sede di via Calderon de la Barca dicono che il nuovo affaire potrebbe rivelarsi ancora più devastante della Parentopoli del triennio 2008-2010, costata all’ex Ad Franco Panzironi la condanna a 5 anni e 3 mesi di carcere. In ogni caso, dai vecchi elenchi segreti, potrebbero venire elementi utili, forse decisivi ad accertare i fatti e l’intreccio di relazioni. Al Corriere nelle ultime ore sono giunte tre pagine fitte di nomi di assunti nel 2010, con a fianco i dati personali e, nell’ultima colonna, il «padrino» di riferimento. In tutto quasi cento casi di favoritismo, che tirano in ballo decine di sindacalisti legati al gran capo della Cisl in Ama, quell’Alessandro Bonfigli ribattezzato «l’imperatore» nei comunicati interni. Non mancano, tuttavia, ex assessori e consiglieri comunali, dirigenti, quadri aziendali. Ormai gli argini sono rotti: la slavina «assunzioni facili», nella municipalizzata degli scandali, pare destinata a ingrossarsi di ora in ora.
La Cgil: «Fummo noi a denunciare. Adesso in Ama chi sa deve parlare». Natale Di Cola, segretario della Funzione pubblica: «Andai in Procura la scorsa estate, appena ricevuta la chiavetta Usb. Nonostante i due cambi di amministrazione dopo il medioevo etico di Alemanno e Panzironi, l’azienda non è stata bonificata fino in fondo», scrive il 5 gennaio 2017 "Il Corriere della Sera". Cgil all’attacco, Cisl più cauta, a causa delle divisioni interne. Così le principali sigle confederali hanno reagito alla pubblicazione dei dialoghi-choc che hanno portato all’inchiesta sulla compravendita di posti di lavoro in Ama. «La magistratura vada fino in fondo. Su fatti così gravi bisogna fare assoluta chiarezza. Chi sa, parli». Natale Di Cola, capo della Cgil Funzione pubblica di Roma e Lazio, è stato l’unico, tra i destinatari della chiavetta Usb, a presentare denuncia in Procura. «La scorsa estate, appena il plico contenente il materiale citato dal Corriere è giunto nella nostra sede, lo abbiamo portato ai magistrati», ha precisato il sindacalista, che si è detto preoccupato per la persistenza di favoritismi e logiche clientelari. «Nonostante i due cambi di amministrazione seguiti al medioevo etico di Panzironi e Alemanno, l’azienda non è stata bonificata fino in fondo né messa nelle condizioni di operare in modo efficiente e con trasparenza. Per questo - ha concluso Di Cola - oggi chiediamo a chiunque abbia informazioni utili di uscire allo scoperto, garantendo il nostro sostegno». Il segretario della Cisl di Roma, Paolo Terrinoni, ha invece precisato che «nessuna chiavetta Usb con file audio è mai arrivata all’attenzione della mia persona né alla struttura». Un intervento che suona come una presa di distanza sia dai dirigenti Cisl ancora attivi in azienda, già sconfessati dal leader Bonanni 4 anni fa, ai tempi della mega Parentopoli, sia dall’attuale livello superiore: il plico risultava infatti inviato in via Po (sede della Cisl nazionale) al segretario confederale Luciano Giovanni, che sul tema «assunzioni facili» ieri non è intervenuto.
Tangenti e assunzioni facili all’Ama, dialoghi-choc all’esame della Procura. «Sono entrata pagando 17 mila euro». In una chiavetta Usb 36 minuti di registrazioni scottanti sul traffico di posti di lavoro. I fatti risalgono al 2012, l’inchiesta aperta dalla scorsa estate. Coinvolto un sindacalista, scrive Fabrizio Peronaci il 3 gennaio 2017 su "Il Corriere della Sera". Nell’azienda municipalizzata più famigerata d’Italia, quell’Ama che di gentile ha soltanto il nome e in tempi recenti ha fatto respirare ai romani i peggiori miasmi - dalla Parentopoli targata Panzironi alle convulsioni del caso Muraro, dal video con un netturbino che sniffa cocaina alle foto choc dei maiali grufolanti attorno ai cassonetti - quest’esclusiva mancava. Se ne parlava con insistenza, per la verità. Più che una voce, era un mormorio indistinto, bisbigliato da operai, autisti e capisquadra tenendo la mano davanti alla bocca. «Non lo sai? Certo che per entrare in Ama si paga!» Bene, anzi male. Fino a che oggi, finalmente, quel labiale è stato decifrato. Esisteva un tariffario non solo per le promozioni – come scoperto dal Corriere quattro anni fa – ma anche per le assunzioni: 17 mila euro et voilà, la tuta arancione era pronta. E se qualcosa andava storto, la «stecca» saliva: un posto fisso d’altronde è oro colato, come dire di no? L’inchiesta a Piazzale Clodio è appena agli inizi, ma promette scintille. Le prove del traffico di posti di lavoro sarebbero contenute in una registrazione segretissima sulla quale sta indagando il pm Alberto Galanti, uno dei magistrati del pool «reati contro la pubblica amministrazione» guidato dal procuratore aggiunto Paolo Ielo. Le indagini, affidate alla Guardia di finanza con ipotesi di reato che vanno dall’estorsione alla corruzione, ruotano attorno a una chiavetta Usb contenente due file, della durata complessiva di 34 minuti e 36 secondi. Il plico, corredato da un testo «esplicativo» scritto da persone ben informate sulle guerre interne, era stato recapitato la scorsa estate al segretario confederale della Cisl Giovanni Luciano, al segretario della Cgil Funzione Pubblica di Roma e del Lazio Natale Di Cola, all’ex presidente dell’Ama Daniele Fortini e all’allora capo del personale, Saverio Lopes. Tra i destinatari figurava anche il Corriere, ma l’indirizzo era errato. Intoppo oggi risolto, grazie a un ulteriore, riservatissimo contatto. E ora la chiavetta è qui, sbobinata parola per parola...Le conversazioni risalgono a fine aprile 2012: in Campidoglio comandava un Alemanno già fiaccato dalle tegole giudiziarie, prima tra tutte quella legata alla valanga di assunzioni di favore garantite in Ama dall’amico manager Franco Panzironi. I protagonisti degli audio sono tre: lei, la Spazzina Infuriata, che ha materialmente azionato il tasto «rec» del telefonino, pronta a trascinare tutti dai carabinieri pur di riavere i soldi versati (a vuoto!) per far assumere il suo compagno; lui, il Mediatore d’affari, amico della dipendente raggirata, all’epoca in servizio presso un’altra municipalizzata, che cerca di metterci una pezza e le promette di restituirle il maltolto di tasca sua; e infine il terzo personaggio, il Sindacalista Colluso, la cui voce è a tratti tremante, forse nel timore che il tappo salti. Il primo file dura 8 minuti e 47 secondi e contiene due dialoghi. La Spazzina Infuriata alza la voce con il Mediatore. «Ah, aspetta! Ti voglio dire una cosa... Lui dice che la colpa è tutta la tua».
«Lui c’aveva paura che tu lo registravi, io c’ho parlato!» (Si sta riferendo al Sindacalista Colluso).
«Si, co’ che caz... lo registro? Va be’, tu sappi ‘na cosa. Lui dice che i soldi te li sei tenuti te!»
«Sì, so tutto, non ti devi preoccupa’, non me metto a fa ‘na sola a te e *** (il convivente)».
«E io lo so, lo so, lo so…» (ironica).
«Qualsiasi cosa mettimi in mezzo a me, non a loro… Mi pare che fino a ieri stava tutto tranquillo…»
«E non è tranquillo! (Strilla). Perché io vojo i sol-di!! Le soluzioni so’ due anni che non le trovamo… Comunque so’ 9 mila, non so’ più 26… E quindi adesso *** ha detto che se ne fa carico…» (la Spazzina Infuriata si sta riferendo al Sindacalista Colluso: i 26 mila euro potrebbero essere il totale versato dalla coppia per entrare in Ama, ed essendo lei stata assunta grazie al versamento di 17 mila euro, come risulta dal successivo colloquio, si può dedurre che il secondo posto fisso era stato promesso in sconto, a «soli» 9 mila euro)
«Tu non me le devi di’ a me ste cose! So tutto… Domattina, quando sei libera, mi fai uno squillo, in modo che io capisco che sei te e ti richiamo». (Il Mediatore teme di essere intercettato).
«Ok, ciao». «Ciao».
Il secondo dialogo è della stessa giornata, 24 aprile 2012. A registrare è ancora lei, stavolta al telefono con il Sindacalista Colluso. «Pronto?» «Eh?» «Sì, ahò, io c’ho parlato con ***(l’amico Mediatore) Eh, niente... Ci dobbiamo vedere a tre, qualcosa non quadra!».
«Nun me posso mette a litiga’!».
«Guarda, fa’ come te pare! Lui dice che ce l’hai tutti te, tu dici che ce l’ha tutti lui. Lui dice che tu non mi dici niente perché c’hai paura che te registravo. Va bè, cose dell’altro mondo! Quindi adesso ci vediamo a tre e risolviamo… Perché io mi so’ rotta le palle d’aspettà».
«No, guarda, chiamalo e andiamo dai carabinieri tutti e tre…» (tono concitato).
«Vedetela voi, oggi è lunedì, anzi martedì… Io martedì prossimo ci devo ave’ tutti i 17 mila euro se no vado dai carabinieri da sola, io nun vado co’ nessuno…» (la Spazzina Infuriata non ammette repliche. Da notare la cifra in contrasto con la precedente)
«No, la finisco subito, ma stiamo a scherza’? Qui mica stiamo a gioca’, oh!»
«Io lo so che non stiamo a gioca’, perché c’ho rimesso tutto e tu lo sai».
«Guarda, adesso vado a fa’ ‘na denuncia nei suoi confronti. Mi sono rotto i cojoni, scusami, non ce l’ho con te (il Sindacalista Colluso passa all’attacco, rincara la dose). Non pensavo una cosa del genere! Guarda, ci vogliamo vede’ tutti e tre dai carabinieri?»
«Qualsiasi cosa tu decidi va bene. Io o c’ho i soldi o vado dai carabinieri. Cioè: nun c’ho alternative» (lei non demorde)
«Non ci sono problemi. Punto (ma ci ripensa subito). Allora facciamo così, tu fai quello che devi fare… (biascica, non si capisce bene) ...Se hanno fatto una truffa... Non voglio saperne più niente, quello che sta succedendo è gravissimo! Ognuno risponderà delle sue azioni. Allora a ‘sto punto non ci vediamo, se hai deciso…»
«No (lei è puntigliosa) Io non ho deciso niente! Cercavo solo di capire perché uno dà la colpa all’altro. Non voglio passa’ da cretina, eh!»
«Io non c’entro (abbassa la voce) sto fuori, ok? Ci sentiamo, ciao». E mette giù.
Il terzo colloquio risale al 28 aprile 2012 ed è il più vivace. Motore di un automezzo, sferragliare di cassonetti. Stridore di freno a mano tirato, sportello che si apre. Si salutano con un bacetto. La Spazzina Infuriata ha registrato quasi 26 minuti di dialogo per strada con l’amico Mediatore, che all’inizio le spiega come farà a pagarle la cifra dovuta («Allora, ho chiesto un finanziamento, poi la cessione del quinto… Quindi o uno o l’altro i soldi ce stanno…») I due alternano chiacchiere svagate («So’ sfinita, fa un caldo da morì»), confidenze («Come sta tu’ socera?»), sbotti di rabbia per la tangente versata «a buffo» e considerazioni amare su come tirare avanti nell’Italia della crisi: «Vuoi er posto? Lo paghi! Perché oggi il lavoro non c’è, ok. Io te li do, i soldi. Ma se lui non entra (il convivente), tu me li devi ridare su-bi-to, su-bi-to, su-bi-to!»
Il Sindacalista Colluso, presunto mandante della dazione di danaro, è il suo chiodo fisso. La Spazzina Infuriata torna a parlarne. «Loro se sarebbero potuti para’ er c... diversamente. *** è stato fortunato perché di mezzo ci sei tu e la famiglia nostra, se no da mo’ che era zompato».
Ma il Mediatore lo difende, gioca su entrambi i tavoli. «Ci sta la magistratura dentro, da voi! Lui è l’unico che non centra un caz... L’unico! Se lo so’ inc… due volte!»
«Facessero come je pare, ma sta rischiando… Poi è la spocchiezza con la quale te parla, capito? Se *** entrava (fa ancora il nome del compagno) tutto questo non sarebbe successo!»
«No, è un fatto…Il fatto è che loro (si riferisce probabilmente ai delegati sindacali) c’hanno tutto controllato… Se l’Ama tira fuori un euro, dicono: che è st’euro, a chi lo devi dà? A loro non j’entra manco uno spillo ar c…». Fino a che lei, la Spazzina Infuriata, sbotta. «Io diciassettemila euro je l’ho dati, però! Uno sull’altro…. Ta-ta-ta! Tutti contanti!» (La frase è gridata, e questa sembra una prova alquanto eclatante).
QUELLI COME…I PARLAMENTARI.
L'onorevole paga il portaborse in nero. Il Jobs Act doveva dare più garanzie ai precari. Ma i primi a non usare il contratto a tutele crescenti coi collaboratori sono proprio i parlamentari, che spesso preferiscono i cococo o direttamente metodi non legali. In modo da spendere meno e intascare di più, scrive il 9 gennaio 2017 "L'Espresso". È stato sbandierato come lo strumento per dare più garanzie ai precari: eppure i primi a non applicare il nuovo contratto a tutele crescenti, Jobs Act, sono proprio i parlamentari. A cominciare da coloro che la riforma l’hanno votata. Su 301 deputati Pd, ha scoperto l’Espresso, solo 14 lo hanno utilizzato coi loro portaborse. E fra controlli solo formali e poca trasparenza, le forme di lavoro nero o sottopagato (quando non del tutto gratuito) proseguono, mentre un onorevole ha modo perfino fare la cresta sui costi sostenuti. La chiave di volta del sistema si chiama "rimborso spese per l'esercizio del mandato": 3.690 euro al mese esentasse per i deputati e 4.180 per i senatori, utilizzabili per pagare i collaboratori ma anche consulenze, affitti delle sedi o finanziare l'attività politica (in tutto 43,8 milioni nel 2015). Per ricevere l'intera somma, tuttavia, basta rendicontarne la metà: insomma, è possibile addirittura guadagnarci. Alla Camera, ad esempio, solo 410 eletti dichiarano di avere un assistente: uno su tre, in pratica, riceve i soldi senza averne uno personale. Per cambiare qualcosa si potrebbe far pagare gli stipendi direttamente alle Camere, come avviene all'estero e come chiede l’Aicp, l'associazione dei collaboratori parlamentari. Lo prevedeva anche un progetto di legge approvato nel 2012, ma la fine anticipata della legislatura ha rimesso tutto in discussione. In quella attuale, malgrado impegni e promesse, non è stato mosso un passo e da due anni un ddl analogo giace dimenticato in commissione Lavoro a Montecitorio. In realtà sarebbe sufficiente una semplice delibera dell’Ufficio di presidenza ma il punto è un altro: molti onorevoli girano una quota del denaro al partito e in tempi di abolizione del finanziamento pubblico fa comodo non spenderli. Nel frattempo il sistema si presta a degenerazioni di ogni tipo, come mostra il questionario diffuso nelle settimane scorse proprio dall'Aicp. La scadenza è fissata a gennaio ma i primi risultati provvisori, che l'Espresso presenta in anteprima, fanno riflettere: retribuzione parzialmente in nero nel 14 per cento dei casi; cocopro trasformati in cococo ma che di fatto, nascondendo forme di lavoro subordinato, restano illegittimi (18 per cento); stage non retribuiti, vietati dalla legge Fornero, che mascherano impegni full time che arrivano fino a otto ore al giorno. E il Jobs act? Il contratto a tutele crescenti è il preferito dai diretti interessati, perché dà maggiori diritti ma essendo più oneroso non ha avuto fortuna: su 902 portaborse, solo 92 ce l’hanno. Con un paradosso doppio: fra i contrari alla provvedimento c'è chi l'ha usato, i favorevoli assai meno. Nel 2015 il gruppo M5S a Montecitorio ha stabilizzato 25 dipendenti, suscitando l'ironia del Pd per via delle critiche grilline. Eppure solo 18 deputati fra coloro che hanno votato la legge poi hanno applicato il Jobs act ai loro assistenti. Tutti gli altri, che in pubblico l'hanno sostenuto, in privato si sono rifiutati di applicarlo. Oppure hanno recalcitrato, come racconta una collaboratrice che chiede l'anonimato temendo ritorsioni: «Ho dovuto insistere per passare dal cocopro all'indeterminato, anche se il mio parlamentare aveva votato la riforma. Se non sono costretti, tutti guardano solo la forma contrattuale più conveniente dal punto di vista contributivo». Fra i "magnanimi" c'è pure chi ha fatto il furbo, spiega Marta (nome di fantasia): «Il senatore con cui lavoro ha trasformato la mia collaborazione in un subordinato a tempo indeterminato ma per non spendere di più mi ha fatto un part time. La retribuzione così è rimasta la stessa, anche se lo seguo tutta la settimana per l'intera giornata, lui in compenso ha usufruito degli sgravi». Sgravi che per un tempo pieno arrivano a ottomila euro in tre anni. D'altronde la fantasia fiscale non manca: per avvalersi delle agevolazioni previste per particolari categorie di neo-assunti c'è chi ha aperto ditte individuali o posizioni Inps e Inail come lavoratori autonomi. Qualcuno col cambio di contratto ci ha perfino rimesso, grazie a un'altra furbizia dell'onorevole di turno: lasciare inalterato il lordo ma col risultato di un netto più basso per effetto delle ritenute. E c'è pure chi l'impiego lo ha perso, come il collaboratore del Cinque stelle Massimo De Rosa. Invece di trasformare il contratto a progetto, come prevede la nuova legge, il deputato ha dato il benservito all'assistente, che gli ha fatto causa chiedendo oltre 20 mila euro fra differenze retributive, tfr e mancato preavviso e ha perfino prodotto una mail che dimostrava un tentativo di fargli firmare una lettera di dimissioni in bianco. Alla fine i due sono arrivati a una conciliazione e l'importo, fa sapere De Rosa, è stato pagato proprio col rimborso spese per l'esercizio del mandato. Ma la somma, malgrado la decantata trasparenza, è top secret: «Non posso rivelare la cifra, per evitare che la vicenda sia usata in modo politico c'è una clausola di riservatezza». Curiosità: negli anni scorsi il dipietrista Francesco Barbato, divenuto celebre per le sua battaglie moralizzatrici, fece inserire una condizione identica nella transazione con la sua ex collaboratrice. Pagata in nero come l'assistente di Gabriella Carlucci, che fu condannata. Dopo numerose inchieste che hanno svelato la diffusione del lavoro nero, ora i badge per accedere in Parlamento sono rilasciati solo a chi ha un regolare contratto depositato negli Uffici di Questura di Camera e Senato. Ma neppure questo ha sradicato il fenomeno: i controlli sono solo formali e il modo di aggirare la legge non manca. Basta un pass giornaliero in cui il portaborse viene accreditato come “visitatore” e il gioco è fatto. E sarebbe proprio questo l'escamotage utilizzato dal forzista Domenico Scilipoti, di recente citato a giudizio dal suo ex collaboratore: dopo due mesi in nero, anziché contrattualizzarlo come promesso, lo avrebbe mandato via senza nemmeno dargli la somma pattuita. L'assistente, che a sostegno della sua tesi ha esibito numerose conversazioni Whatsapp con la segretaria dell'onorevole, sarebbe entrato negli uffici del Senato con accrediti temporanei redatti tramite la pagina intranet del parlamentare. Scilipoti non commenta: «Non ho nessuna causa» si limita a dire. Impossibile avere un'idea di quanti casi simili possano esserci. Benché sotto schiaffo, molti preferiscono tenere la testa bassa: la paura di farsi terra bruciata intorno e non lavorare più nell'ambiente è forte. Così, per una media di 1.200 euro, si può finire anche a dover pagare bollette, fare la spesa o ritirare le camicie in lavanderia del proprio datore. Per quanto rare, le controversie finite in tribunale però non mancano. Da poco si è tenuta la prima udienza del processo fra Paolo Bernini (M5S) e il suo ex assistente Lorenzo Andraghetti, uno storico ex militante bolognese che lo accusa di licenziamento illegittimo per ragioni politiche e chiede 70 mila euro di risarcimento. Per la difesa, invece, l'allontanamento sarebbe giustificato dalla redazione di scritti critici col Movimento, culminata nella partecipazione a una iniziativa di fuoriusciti, tale da compromettere "l'elemento fiduciario". A Lecce è in corso una causa fra la dem Teresa Bellanova e il suo ex collaboratore locale Maurizio Pascali. Al centro della disputa, le immancabili questioni fiscali e i risparmi connessi all'apertura della partita Iva. Falsa secondo l'assistente, che aveva un unico committente e operava nella sede della federazione del Pd; del tutto in regola per l'onorevole, trattandosi di lavoro autonomo.
QUELLI CHE COMBATTONO IL LAVORO NERO...
"Non lavoro più in nero per te" e Don Ciotti lo prende a ceffoni. Voleva un impiego regolare. Il prete lo prende a sberle e pedate, poi colto dal rimorso gli scrive e confessa di averlo picchiato. Leggi la lettera, scrive di Antonio Amorosi su “Libero Quotidiano”. Tra le scelte improprie e i comportamenti discutibili attribuiti ad esponenti dell’associazione «Libera» emerge in questi giorni un episodio sconcertante e rimasto finora sconosciuto. È la storia raccontata a Libero da Filippo Lazzara, un lavoratore siciliano impegnato nell’associazionismo che ha presentato denuncia ai carabinieri (la quale, per la cronaca, è stata successivamente ritirata) proprio contro il fondatore di Libera, don Luigi Ciotti. Lazzara aveva depositato l’esposto nel 2011, ma lo ha reso pubblico solo qualche giorno fa pubblicando la notizia sulla propria bacheca Facebook. I fatti: ancora nel 2010, Filippo lavorava con un contratto a tempo indeterminato in un supermercato a Partinico, in provincia di Palermo. È uno di quelli che non ama l’omertà mafiosa - caratteristica preziosa e rara da quelle parti - e si impegna nel sociale con dedizione. Conosce don Ciotti e dopo un confronto col prete si convince a denunciare per infiltrazioni mafiose l’impresa per cui lavora, pesantemente collusa con alcune cupole. È un gesto di per sè coraggioso, addirittura incredibile se si pensa che un contratto di lavoro a tempo indeterminato, per di più in Sicilia e di questi tempi, è una fortuna della quale ben pochi sarebbero in grado di privarsi. Eppure Lazzara si espone, anche perché una promessa di don Ciotti lo ha convinto che può esserci anche per lui un altro tipo di futuro. La proposta è trasferirsi in Piemonte e lavorare per don Ciotti stesso. L’uomo denuncia il malaffare e nel settembre 2010 si trasferisce al nord. «Don Ciotti mi fa lavorare per alcuni mesi presso la Certosa», scrive nella denuncia e «precisamente presso l’associazione 15-15». Di seguito viene trasferito all’associazione «Filo d’erba» del gruppo Abele, che fa sempre capo a don Ciotti. Non è in regola e tenta ripetutamente di incontrare il fondatore di Libera per avere un contratto ed essere finalmente a norma come promesso. Nel marzo del 2011, nella sede del gruppo Abele di Torino, dopo tanti tentativi riesce a ottenere un confronto diretto, ma lo scambio verbale presto degenera. Don Ciotti passa alle mani e - stando alla ricostruzione dello stesso Lazzara - lo colpisce con pugni e calci. Il ragazzo, rimasto basito, viene poi allontanato dalla scorta del prete. Finisce però al pronto soccorso con una prognosi di 10 giorni. Lazzara, a dimostrazione di quanto è accaduto, posta in rete una lettera privata, firmata proprio da don Ciotti (e datata marzo 2011), nella quale il sacerdote fa riferimento a delle percosse: si scusa per le «sberle», le «pedate» e «i nervi saltati, un po’ per la stanchezza e un po’ per il tuo modo di fare». Scrive di pedate, il sacerdote, e tenta di fare ammenda: «Quelle pedate le merito io». Lazzara al telefono conferma la propria versione: «Oltre a essere stato picchiato, mi hanno fatto terreno bruciato intorno. Non avevo un lavoro e non sapevo dove sbattere la testa. Lui è un intoccabile». L’uomo cerca di spiegarsi: «Denunciare lui è come denunciare Nelson Mandela. Chi mi crede? Chi starà dalla mia parte? Per me tutte le porte si sono chiuse. Per il peso che ha, in certi ambienti, don Ciotti è come il Papa. Ma ricevere dei cazzotti dal Papa è una cosa che ti lascia scosso. Se questa è l'antimafia...».
Voucher, «con l’abolizione si rischiano 870 mila lavoratori in nero». Sono 870 mila le persone che dopo l’abolizione dei voucher rischiano di tornare nel lavoro nero. Lo sostiene una ricerca della fondazione consulenti del lavoro. Sono le persone che con i voucher arrotondavano le loro entrate. E che adesso potranno continuare a fare gli stessi lavoretti ma in nero, scrive Lorenzo Salvia il 9 aprile 2017 su "Il Corriere della Sera". Sono 870 mila le persone che, dopo l’abolizione dei voucher, rischiano di essere spinte verso il lavoro nero. Una cifra non da poco, visto che le stime attuali indicano in tre milioni il popolo del sommerso. Lo sostiene una ricerca della Fondazione studi consulenti del lavoro. Un documento che arriva mentre il governo sta ancora valutando come e quando intervenire per sostituire i buoni a ore, cancellati con il decreto legge che ha disinnescato il referendum della Cgil. Come si arriva a calcolare quel numero, 870 mila? È la somma di disoccupati, occupati e pensionati che nel 2015 hanno utilizzato i buoni. Tre categorie che rappresentano il 63% del totale dei «voucheristi» e hanno uno «status incompatibile o non conveniente rispetto a un lavoro dipendente di tipo tradizionale». Spariti i voucher, in sostanza, difficilmente avranno un contratto vero e proprio.
I motivi. Perché? I motivi sono diversi a seconda della categoria considerata. I disoccupati (250 mila) potevano cumulare i voucher all’indennità di disoccupazione. Con un contratto vero l’indennità la perderebbero. Gli occupati (mezzo milione) potevano aggiunge i voucher allo stipendio del lavoro principale. Un altro stipendio e un altro contratto, invece, non lo potrebbero aggiungere. Per i pensionati, altri 100 mila, il discorso è più complicato: con i voucher avevano dei mini contributi previdenziali a fondo perduto, che li rendevano «molto convenienti» per le aziende. Con un contratto «classico» costerebbero molto di più. Il risultato è che la cancellazione dei buoni farebbe scendere nel sommerso quei lavoretti che prima consentivano di arrotondare. C’è però un’altra categoria che resta fuori dal calcolo, forse quella che i voucher li ha sofferti di più: le persone che dai buoni avevano la loro unica fonte di reddito. Sono un altro mezzo milione, il 37% del totale. Adesso, in teoria, potrebbero aspirare a un contratto migliore, meno precario e più stabile. Ma è tutto da dimostrare.
Le alternative. In attesa delle decisione dei governo, alcune alternative ai voucher sono già disponibili per le aziende e le famiglie che vogliono assumere un lavoratore in modo saltuario. Ma, sempre secondo lo studio, si tratta di una possibilità più teorica che concreta. Il contratto a termine, ad esempio, è troppo «rigido», perché ha una durata minima e prevede un intervallo di almeno 20 giorni tra un periodo e l’altro. Il lavoro a chiamata, quello già oggi possibile per un massimo di 400 giorni nell’arco dei tre anni, prevede comunque un una serie di procedure burocratiche che le imprese più piccole faticano a smaltire. Non solo. Costa di più rispetto ai voucher, secondo i consulenti tra il 40% e il 60%, e poi esclude le persone comprese fra i 25 e i 45, di fatto «la fascia d’età di maggior interesse per il dato occupazionale». In realtà è proprio sull’eliminazione dei limiti d’età e sulla semplificazione burocratica per le micro aziende che dovrebbe intervenire il governo. Ma fino a quando questa modifica non arriverà, e nonostante la possibilità di utilizzare fino alla fine dell’anno i voucher già acquistati, il ritorno al lavoro nero è un rischio reale. Quel dato, 870 mila, suona come una mossa per fare pressing sul governo.
«Eliminati i voucher, resta il lavoro nero», scrive il 25 Marzo 2017 Francesca Parodi su "Tempi”. «Buoni lavoro eliminati per ragioni ideologiche. Grave irresponsabilità della Cgil». Intervista a Francesco Rivolta, direttore generale di Confcommercio. Un «comportamento assolutamente censurabile» quello del governo, che acconsentendo a eliminare i voucher ha preso una «decisione grave dalle ragioni meramente ideologiche, per nulla oggettive». Secondo Francesco Rivolta, direttore generale di Confcommercio, la scelta del Consiglio dei ministri di tradurre in decreto il voto della Commissione lavoro per l’abrogazione degli articoli 48, 49 e 50 del Jobs Act è stata «una mossa strategica, giustificata dal governo con l’argomento che ora l’Italia non ha bisogno di un referendum. Io invece sono convinto che, a questo punto, sarebbe stato molto meglio chiamare il paese a pronunciarsi e discutere». Ciò che è grave, sottolinea Rivolta a Tempi, è che il governo «sia intervenuto in materia di lavoro senza sentire le parti sociali e imprenditoriali. Noi di Confcommercio abbiamo sempre dato la nostra attiva collaborazione a tutti i provvedimenti assunti negli ultimi anni, ma quest’ultima decisione del governo è stata un colpo di mano». Rivolta concorda sul fatto che forse i voucher non fossero degli strumenti impeccabili, «ma il punto è che le aziende hanno bisogno di mezzi che consentano di operare in maniera flessibile dentro un quadro di legalità, soprattutto per quanto riguarda il lavoro occasionale». Non esistono altre forme alternative valide e «la convinzione della Cgil che, sopprimendo i voucher, aumentino le assunzioni è solamente un’illusione ottica». Ma, per fortuna dei sindacati, l’Italia ha la memoria corta, «così tra qualche anno non saremo in grado di chiamare la Cgil a rispondere di questo grave atto di irresponsabilità».
L’argomento che i voucher sono spesso usati in maniera impropria, infatti, non giustifica niente: «Se qualcuno abusa di uno strumento legislativo, bisogna prendere il colpevole e punirlo. Ma in Italia, invece che colpire chi abusa, si colpisce lo strumento, il che è del tutto illogico. È come se, per colpa di pirati della strada che passano con il rosso, si decidesse di togliere tutti i semafori dalle strade. Chi addita lo strumento come causa dell’abuso è chiaramente in mala fede». Se si privano quindi le aziende dell’unico strumento in grado di operare nella legalità, concorda Rivolta, l’unica alternativa, inevitabilmente, rimane il lavoro in nero. Il governo ha annunciato che si organizzerà appositamente un tavolo per studiare delle soluzioni diverse e la Confcommercio rimane in attesa di ascoltare le proposte. «Certo sarebbe stato più intelligente elaborare delle alternative (ammesso che ce ne siano) prima, e non dopo, la soppressione degli strumenti esistenti. Ma da questo punto di vista il nostro è un paese schizofrenico». Senz’altro tra le possibili soluzioni non può rientrare, come ipotizzato da qualcuno, il lavoro a chiamata: «Non è adatto, perché presuppone che si compiano tutte le procedure burocratiche per un’assunzione “normale”, ad esempio a tempo determinato. Ma se, per esempio, questa mattina un mio dipendente mi chiama e mi dice che oggi non può venire a lavorare perché ha l’influenza, io che faccio, scelgo il lavoro a chiamata? Cioè, nella pratica, vado all’Inps, regolarizzo la posizione, mi infilo in un vortice di burocrazia solo per un lavoro di un giorno o addirittura di poche ore? Impensabile. Il voucher ha il vantaggio di essere uno strumento estremamente flessibile che consente di intervenire immediatamente in caso di bisogno, fornisce una copertura previdenziale e fiscale, insomma è perfetto per i casi di emergenza». Rivolta sottolinea che il lavoro in nero è uno dei problemi più grandi del mercato italiano ed eliminare i voucher equivale quindi «a cancellare uno strumento che è stato utile per tutti. Se è servito a ridurre questa area grigia del mercato del lavoro, invece di abrogarlo, non dovremmo riconoscerne l’efficacia e la validità?».
Senza più voucher, torna il lavoro nero? Caro Severgnini, le scrivo a proposito dei voucher. Sono un’imprenditrice che opera da più di vent’anni nel campo dell’Arte, ho cinque dipendenti, tutti regolarmente assunti a tempo indeterminato. Siccome la mia attività consiste nell’organizzare eventi, oltre al mio staff, necessito anche di collaboratori occasionali, finora retribuiti attraverso voucher, uno ogni ora di lavoro. Adesso che questa modalità è stata cancellata non potrò più avvalermi del loro know how: si tratta prevalentemente di giovani universitari che collaborano con me da anni, alcuni anche se già laureati continuano per il piacere di lavorare in un ambiente stimolante. Non potendo certo assumere tutti dovrò a malincuore rivolgermi a ditte che “noleggiano” allestitori ed hostess e i “miei” studenti rimarranno senza lavoro. Francamente la soluzione adottata dal governo non mi convince, sarebbe bastato aumentare il costo di ciascun voucher (effettivamente troppo basso) ed eseguire regolari controlli (facile perché per utilizzarli bisogna attivarli in anticipo). A mio parere questo non farà che stimolare coloro che utilizzano il lavoro nero. Cordiali saluti, Elisabetta Mignoni.
Il Governo ha avuto paura di un’altra sconfitta in un referendum, e ancor di più della campagna elettorale che l’avrebbe preceduto: Paolo Gentiloni l’ha detto, in fondo. Il governo avrebbe potuto mantenere i voucher almeno per i servizi alle famiglie (baby-sitter, badanti occasionali, aiuto domestico a ore, piccoli lavori di manutenzione). Ma ha temuto che questa soluzione non avrebbe scongiurato il referendum. Quindi, ha buttato tutto. Ha buttato un sistema che si poteva correggere, ma non era da buttare. Adotteremo il sistema francese, basato sul credito d’imposta, che rende poco conveniente il pagamento in contanti? Costa 7 miliardi l’anno: dove li troviamo? Sceglieremo il sistema tedesco dei mini-jobs, piccoli lavori dichiarati con contratto? Lo trasformeremmo in un labirinto burocratico (e i sindacati, comunque, si opporrebbero). Come andrà a finire? L’ha già scritto lei, Elisabetta: più lavoro nero. Sistema CETZ: Contanti E Tutti Zitti. Tanto per cambiare. Beppe Severgnini Italians Corriere della Sera 20 marzo 2017.
Sacconi: "Senza voucher tornerà il nero". Per l'ex ministro del Lavoro di uno dei governi Berlusconi, che voterà contro in Senato, "l'abolizione dei tagliandi è un passo indietro", scrive Barbara Ardù il 17 marzo 2017, su "La Repubblica". "Ci si illude che eliminando i voucher si elimini il lavoro occasionale. I lavori occasionali rimarranno e ritorneranno nel nero, com'era prima. Non vedo quale sia il passo avanti". Maurizio Sacconi, già ministro del Lavoro in uno dei governi Berlusconi, è sempre stato contrario all'abolizione dei voucher e non ha certo cambiato idea.
Oggi il Consiglio dei ministri dovrebbe dare il via libera all'abolizione. Passerà?
"Penso di sì a questo punto. Anche se già si parla di trovare altre strade per coprire il vuoto legislativo. Ma non so bene quali potrebbero essere, visto che il legislatore sarebbe nell'impossibilità di riprodurre i voucher sotto mentite spoglie".
Ma lei senatore voterà contro quando il provvedimento arriverà in Senato?
"Certamente io sì. Vedo che però anche Maurizio Lupi lo ha dichiarato per Ncd. Io ho presentato una proposta di legge che abbassa il tetto delle prestazioni con lo stesso committente da 2.000 a 1.500 euro, che è l'unica cosa che interessa veramente perché un uso eccessivo sostituirebbe un contratto strutturato. Così come ho proposto di liberalizzare i contratti a chiamata che sono stati limitati a pochi casi. Con il rifiuto di ogni mediazione sarà il nero a farla da padrone, perché sui lavori occasionali non si può pensare di accendere un rapporto di lavoro tipico oggi per poi chiuderlo domani o dopodomani. Penso alla raccolta delle olive o alla vendemmia di pochi giorni o ai camerieri che si aggiungono nell'occasione di un matrimonio".
Un passo indietro dunque?
"Assolutamente sì, anche perché stiamo parlando dello 0,3% del marcato del lavoro. In Germania, dove esistono i minijobs con modalità molto simili, costituiscono il 25% del mercato del lavoro e nessuno si scandalizza".
Trova che ci sia stato un accanimento in questa battaglia?
"Diciamo chiaramente che i voucher sono diventati un simbolo, quello del lavoro che non c'è, ma non è certo eliminando i voucher che si crea il lavoro".
Ha vinto la Cgil?
"Certo, è la vittoria di un solo sindacato. Anche su Cisl e Uil, che non erano d'accordo a eliminarli e avevano condivido la recente introduzione della tracciabilità voluta dal ministro del Lavoro, Poletti. Ma non si è voluto nemmeno aspettare che dispiegasse i suoi effetti. Sul piano politico è finita l'illusione di un Partito democratico slegato dalla Cgil".
Aboliti i voucher rimane però il quesito sugli appalti, di cui si è parlato meno. Che fine farà?
"Per il momento non si capisce cosa abbiano in testa Renzi e il governo. Io ho presentato un ddl, in cui si propone che il committente sia responsabile in solido verso i lavoratori nei limiti in cui può esercitare un potere-dovere di vigilanza sull'appaltatore".
Il presidente di Confindustria Cuneo: “Senza i voucher si favorisce il lavoro nero”. Biraghi avrebbe preferito, rispetto alla cancellazione, il referendum proposto dalla Cgil, scrive il 18/03/2017 Matteo Borghetto su "La Stampa". «Chi ha voluto eliminare i voucher, vuole favorire il lavoro nero». Così Franco Biraghi, presidente di Confindustria Cuneo, all’indomani dell’annuncio del governo Gentiloni che entro il 2018 abolirà il metodo di retribuzione per prestazioni occasionali di lavoro. «Avevamo lo strumento, certamente da semplificare, per dare dignità ai cosiddetti “lavoretti” che fanno soprattutto studenti, pensionati e chi ha bisogno di arrotondare – prosegue il numero uno degli industriali cuneesi -, e per legalizzare un mondo che altrimenti rischia di tornare nel sommerso. Era l’occasione di far diventare l’Italia un Paese serio, moderno, dove si cerca di eliminare, con gli strumenti in nostro possesso, l’illegalità. Si è optato per l’alternativa: non far lavorare la gente, o farglielo fare in nero». Appoggiando il presidente nazionale, Vincenzo Boccia, anche Confindustria Cuneo avrebbe preferito, rispetto alla cancellazione, il referendum popolare proposto dalla Cgil. «Si è così andati nella direzione unilaterale e senza un dibattito referendario, di abolire uno strumento che funzionava prima di averne trovato uno nuovo – sottolinea Biraghi -. Si è scelto di non eliminare il lavoro nero e di non dare la possibilità ai giovani, ai pensionati o a chi ha bisogno di un secondo impiego, di agire in maniera semplice e lecita, eliminando l’unica forma di remunerazione che la legge consentiva, per non cadere nel sommerso, per certi tipi di prestazioni». E conclude: «Non è che senza i voucher si rinuncia a lavorare quando se ne ha bisogno: ora, semplicemente, si tornerà a farlo in modo illegale».
Voucher, dopo stop è allarme per agricoltura e turismo, scrive il 29/03/2017 "L'Adn Kronos". L’abolizione dei voucher sta creando allarme e preoccupazione nel mondo del lavoro. A essere penalizzate sono soprattutto le imprese del turismo e dell’agricoltura, settori legati da sempre alla stagionalità e dunque alla necessità di prestazioni di lavoro saltuarie. Le loro posizioni e quella della Cgil, il sindacato che ha promosso il Referendum per abrogare i voucher, sono state raccolte dall'AdnKronos. Gli albergatori sono categorici nel manifestare il loro disappunto. "E' un errore grave, marchiano, di cui non avevamo nessun bisogno - dichiara Alessandro Nucara, direttore generale di Federalberghi - abbiamo detto, e lo ribadiamo, che sarebbe stato meglio andare a referendum. Si è deciso altrimenti, per ragioni che evidentemente non avevano a che fare né con le esigenze delle imprese né dei lavoratori". Critiche al governo giungono anche per la tempestività con cui ha agito. Dall’oggi al domani i voucher sono stati aboliti e non rimpiazzati da un altro strumento. E ora si confida sull'iter parlamentare per raddrizzare il tiro. "Noi speriamo che il Parlamento ponga rimedio, almeno in parte, ai guasti che sono stati provocati - sostiene Nucara - perché allo scoccare della mezzanotte del 17 marzo i voucher sono stati ritirati. Ora occorre che si preveda un congruo margine di tempo, un mese, due mesi, dalla conversione del decreto entro il quale si possono acquistare i buoni che potranno essere utilizzati entro il termine stabilito, il 31 dicembre 2017". "E' una farsa. Nella legge avevamo già messo gli anticorpi - dichiara Romano Magrini, responsabile Lavoro della Coldiretti - intanto, perché potevano essere utilizzati solo da studenti, pensionati e cassintegrati e non da operai agricoli. In questi anni, nessuno operaio agricolo è diventato voucherista, ma anzi gli operai sono aumentati, dall'altra i voucher sono rimasti costanti". La percentuale di utilizzo dei buoni lavoro nel turismo e nell'agricoltura, è comunque molto bassa, per questo motivo, gli imprenditori di entrambi i settori rimandano al mittente le accuse di aver abusato di questo strumento. Nel turismo infatti, i voucher rappresentano l'1,2% del lavoro del settore, ovvero ogni impresa mediamente utilizza 127 voucher l'anno, questo significa una persona per tre settimane o tre persone per una settimana. Analoga percentuale nel lavoro dei campi, circa l'1% viene utilizzato che corrisponde a 2,2 milioni di buoni venduti con una platea di oltre 50 mila lavoratori. La Coldiretti sollecita il governo a fare presto nell’imminenza delle campagne di raccolta. "Chiediamo che si faccia presto, - aggiunge Magrini - perché come sono stati veloci nell'abolirli dobbiamo essere altrettanto veloci nel trovare un nuovo strumento che li abolisca. Il nuovo strumento deve essere veloce, non burocratico e soprattutto non avere costi tali da scoraggiarne l'utilizzo". Sulla stessa lunghezza d'onda la Federalberghi: "abbiamo un tessuto di piccole e piccolissime imprese quindi ci serve poca burocrazia, molta efficienza e tempestività". Su tutt’altre posizioni la Cgil che, pur avendo ottenuto un primo risultato con il decreto legge per l’abolizione dei voucher, attende la conversione in legge per chiudere la partita del Referendum. E mantiene alta la guardia facendo riferimento alla sua proposta di legge sulla Carta dei diritti del Lavoro. "La nostra proposta prevede una risposta al problema per normare il lavoro occasionale, ricondotto alla sua tipologia di piccoli lavori, di lavori in famiglia coperti da studenti e pensionati. E' dunque è anche sbagliato di parlare di vuoto normativo, si discuta della Carta dei Diritti presentata dalla Cgil". Ma, qual è secondo il sindacato di Corso d'Italia l'alternativa ai voucher? "Esistono altri strumenti come il lavoro a chiamata, - spiega Martini - la somministrazione e i contratti a termine in alcuni settori". Se la Cgil confida in forme contrattuali alternative, scetticismo e contrarietà esprimono gli imprenditori. "E' del tutto evidente che un pensionato e uno studente non avranno alcun interesse ad essere assunti con un classico rapporto di lavoro subordinato - sostiene Magrini - il pensionato perché ha paura di perdere la pensione, lo studente perché andrebbe a incidere sull'Isee e quindi sulle tasse universitarie". Preoccupazione anche da parte degli albergatori. "La prestazione da un'ora non si può trasformare tecnicamente in un contratto, quindi molte persone resteranno a spasso. Così avremo fatto un danno grave alle imprese ma anche ai lavoratori di un Paese che ha la sua principale preoccupazione nella disoccupazione e, in particolare, di quella giovanile".
LA BUFALA DEL 1° MAGGIO? PARLIAMO DI LAVORO NERO E SFRUTTAMENTO. PARLIAMO DI VERO “CAPORALATO”.
In Italia i nostri politici insieme ai sindacati e alle aziende parlano di tutto, ma nessuno affronta il problema dei tantissimi stagisti e praticanti che lavorano gratis. Antonio Giangrande, suo malgrado perseguitato, con i suoi canali divulgativi vuole portare avanti e meglio far conoscere questo grave problema di sfruttamento, e quindi chiede a tutte quelle persone che hanno fatto o che stanno facendo questa esperienza di sostenerlo. L’invito è rivolto anche a tutte le persone che non hanno mai avuto, per loro fortuna, questa esperienza, ma che vogliono dare un contributo a questa iniziativa.
Cosa succede oggi quando si raggiunge la fatidica laurea? Semplice, si cerca un lavoro, e siccome il lavoro per i comuni mortali ormai è diventato un miraggio, per non stare con le mani in mano, di solito ti iscrivi a una scuola di specializzazione, il cui risultato finale è uno stage gratuito di 6 mesi senza percepire un soldo, e magari per fare questo stage cambi anche città per cui ti devi pagare l’affitto e il resto. Questa classe di lavoratori sono gli “stagisti” o meglio i “nuovi proletari”, dove la loro unica ricchezza sono mamma e papà che devono continuare a dargli la “paghetta” per andare avanti. Quel che è peggio è che in moltissimi casi lo stage, che dovrebbe rappresentare un momento formativo al lavoro, viene svilito delle capacità professionali di una persona, nel senso: ci sono da fare le fotocopie, le fa lo stagista! Al termine del periodo dello stage, cosa succede? Arrivederci, grazie e avanti un altro. Tanto è gratis. Per fortuna non è sempre così, ci sono realtà aziendali dove il tirocinio post-laurea è davvero considerato ciò che dovrebbe essere, un periodo di formazione e prova che precede un’assunzione (uno su dieci circa), e spesso in questo caso lo stage è anche retribuito. Accanto agli stagisti, ci sono i praticanti, molti dei quali tenuti a stecchetto per anni da avvocati, notai, commercialisti ed altri liberi professionisti: perché pagare chi, per accedere all’Ordine, ha bisogno di svolgere il praticantato? Siamo allo sfruttamento vero e proprio del lavoro. Di questo mondo di stagisti e praticanti i sindacati e la politica non ne parlano e non ne vogliono parlare.
I praticanti avvocati come i “ragazzi-spazzola” dei barbieri di una volta, quelli costretti a sperare nella generosità dei clienti che volevano lasciargli una mancia. Ebbene i giovani aspiranti avvocati, laurea in tasca e dignità sotto i piedi, lavoreranno gratis o quasi come i garzoni di bottega dei tempi andati. E’ una delle novità previste dalla riforma della professione forense che i senatori sembrano voler approvare per forza entro la fine della legislatura. Troppo tardi per i tagli alle province, troppo poco tempo per varare misure alternative al carcere previste nel testo Severino. Dovendo scegliere cosa votare in fretta e furia, la conferenza dei capigruppo al Senato ha optato per la riforma scritta a quattro mani dalla vecchia maggioranza Pdl-Lega, su ispirazione del Consiglio Nazionale Forense. Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera fa il punto sulla riforma che farebbe comodo ai 50 avvocati che siedono a Palazzo Madama. Tanti gli aspetti contrastanti: da chi contesta il divieto ai non iscritti all’albo degli avvocati di fornire consulenza extragiudiziale a chi preferirebbe che rimanesse in vigore il divieto a costituire studi legali in forma di società di capitali, sul modello delle law firm di stampo anglosassone. Ma in quel testo sono almeno tre i punti a sfavore dei giovani che inspiegabilmente privilegiano l’anzianità. Scrive Stella: «L’imperativo categorico è dare un futuro ai giovani», ha tuonato paterno Renato Schifani. Detto fatto, l’unica legge messa in calendario dal Senato ormai agli sgoccioli è la riforma della disciplina forense cara a un sesto dei senatori (presidente compreso) di mestiere avvocati. Riforma che consente di imporre ai praticanti (laureati) di lavorare gratis come i «ragazzi-spazzola» dei barbieri di una volta. Spiegano a palazzo Madama che per carità, alla larga dalle malizie, è tutto normale. Certo, il tempo è tiranno e, visto che dopo il varo della legge di stabilità Mario Monti darà le dimissioni e le Camere saranno sciolte, non ci sono proprio i giorni necessari (ahinoi!) per fare tante cose. Troppo tardi per approvare la soppressione delle province. Troppo tardi per varare le misure alternative al carcere care alla Guardasigilli Paola Severino. Troppo tardi per legge sul pareggio di bilancio che secondo Vittorio Grilli sarebbe stata «essenziale» e «parte integrante del processo di riforma e messa in sicurezza dei conti del Paese». Troppo tardi per mandare in porto perfino certe leggine piccole piccole sulle quali si dicono tutti d’accordo come il raddoppio delle pene per i trafficanti di opere d’arte che finalmente consentirebbe di mettere le manette (oggi escluse) a chi rubasse la Pietà di Michelangelo o la Venere del Botticelli. Troppo tardi. Restava giusto il tempo, prima dello scioglimento del Senato, per far passare una sola legge. E dovendo scegliere che cosa ha scelto la conferenza dei Capigruppo, tra i quali non mancano gli avvocati? La «Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense», scritta dalla vecchia maggioranza PdL-Lega su ispirazione del Consiglio Nazionale Forense. Che arriva in aula con grande soddisfazione del presidente della commissione Giustizia Filippo Berselli (mestiere? Avvocato) dopo la bocciatura di tutti i 160 emendamenti presentati dalla (vecchia) opposizione. Di fatto, ha scritto Il Sole 24 Ore , la riforma «riporta per molti versi le lancette della professione legale a prima degli interventi “liberalizzatori” di riordino». Un esempio? «I parametri, che nel linguaggio liberalizzatore hanno sostituito le vecchie tariffe, in realtà tornano a somigliare molto al progenitore, considerato che vengono “indicati” a cadenza biennale dal decreto ministeriale “su proposta del Consiglio nazionale forense”». Gli aspetti più contrastati sono diversi. C’è chi contesta il divieto ai non iscritti all’albo degli avvocati di fornire consulenza extragiudiziale nelle materie giuridiche, anche se sono laureati in legge, come fossero condannati a non usare le conoscenze giuridiche acquisite all’università. Chi contesta la delega al Governo perché conservi il divieto a costituire studi legali in forma di società di capitali (su modello di quelli americani o inglesi) salvo che tutti i soci siano iscritti all’albo degli avvocati. Chi ancora contesta il divieto di pubblicità. I punti più ammiccanti nei confronti dei «vecchi» e più ostili ai giovani, però, sono tre. Il primo obbliga gli avvocati a un continuo aggiornamento professionale ad eccezione di quelli che hanno più di 25 anni di iscrizione all’Albo. Come se chi ha smesso da più tempo di studiare avesse meno bisogno di star al passo coi nuovi testi e le nuove sentenze di chi è di studi più recenti. Peggio: sono esentati gli avvocati politici con la motivazione che si aggiornerebbero automaticamente grazie a quanto fanno. Una tesi assurda, contro la quale inutilmente si è battuto Pietro Ichino: «Quello che si chiede all’avvocato è conoscere tutte le novità giurisprudenziali, come l’ultima sentenza di Cassazione, magari non ancora pubblicata su una rivista e che, però, può servire per vincere la causa. La novità legislativa incide su questo onere di aggiornamento in misura minima. Non riesco a capire come si possa sostenere decentemente che un parlamentare si aggiorni sulla giurisprudenza e sulla dottrina per il solo fatto di sedere in un’aula delle camere». Più ancora, però, Ichino e altri sono indignati per il comma 11 dell’articolo 41. Il quale dice che «ad eccezione che negli enti pubblici e presso l’Avvocatura dello Stato» (come a dire: facciano pure, loro, tanto sono soldi pubblici) «decorso il primo semestre, possono essere riconosciuti con apposito contratto al praticante avvocato un’indennità o un compenso per l’attività svolta per conto dello studio, commisurati all’effettivo apporto professionale dato nell’esercizio delle prestazioni e tenuto altresì conto dell’utilizzo dei servizi e delle strutture dello studio da parte del praticante avvocato». Traduzione: il titolare di uno studio può pagare un obolo al giovane praticante avvocato che sgobba per lui solo dopo il primo semestre. Non è obbligatorio: primi sei mesi gratis, poi è un rimborso facoltativo. Quanto all’accenno all’«utilizzo dei servizi e delle strutture dello studio» che vuol dire: che se il praticante fa una telefonata gli va detratta? La sedia su cui siede va detratta? Peggio ancora, denuncia Dario Greco, il presidente dell’Aiga, l’associazione dei giovani avvocati: il riconoscimento di quel rimborso facoltativo dopo i primi sei mesi «cessa al termine del periodo di pratica lasciando completamente scoperti quei giovani che attendono di fare l’esame d’avvocato oppure che l’hanno superato, ma che continuano a frequentare lo studio ed a lavorare a tempo pieno per il loro dominus. Si tratta di rapporti di collaborazione che di autonomo non hanno nulla e che coinvolgono un elevatissimo numero di giovani di ogni regione italiana, i quali, si trovano costretti a rimanere in tali studi alle sostanziali “dipendenze” dei loro domini, senza forma di tutela alcuna, e senza il riconoscimento di un compenso che sia effettivamente commisurato all’apporto che il giovane riesce a dare allo studio». Un meccanismo, accusano i giovani legali, che «impedisce ogni prospettiva di crescita, di progressione di carriera del giovane, oltre a costituire una vera e propria emergenza sociale nei confronti di quei giovani che non riescono a raggiungere la soglia dei mille euro al mese». Domanda: che sia una coincidenza che una legge così venga salvata in «zona Cesarini», a discapito di ogni altro provvedimento destinato a spirare insieme con la legislatura, da un Palazzo Madama presieduto da un avvocato nel quale gli avvocati sono addirittura 50 su poco più di trecento senatori?
Io aspirante avvocato trattata come una schiava. Lettera A “Libero Quotidiano” di un "sorcio" in uno studio legale sulle situazioni di sfruttamento e mobbing professionale. "Questa non è una semplice denuncia di quanto avviene in Italia o di quanto aumenta giornalmente il precariato. Questa è l'espressione della rabbia, messa nero su bianco di una di loro: una precaria o meglio, come li chiamano a Roma una di "quei sorci da buttà in gabbia". Ebbene, la gabbia, sembra paradossale a dirsi, è uno studio legale, uno dei tanti dove oggigiorno vengono "assunti" giovani praticanti. "Assunzione", però è una parola grossa perché, pur se subordinata ad un formale colloquio di assunzione, ad esso non segue un contratto. Nessuna certezza dunque e la possibilità di ritrovarsi senza un posto di lavoro se "il periodo di prova" è andato male. Ebbene sì, pur avendo tutte le carte in regola per lavorare in uno studio legale, (laurea, master, esame d'avvocato già sostenuto) si viene sottoposti giornalmente ad un esame di compatibilità con lo studio. Cosa si intende per compatibilità? Credo di non averlo ben capito ... o forse sì. Per la mia prima esperienza lavorativa, compatibilità indicava la predisposizione ad "accompagnare" il professore saltuariamente nella sua vita privata, in cambio di una "assunzione definitiva" o, se si è più fortunate ed oltre ad esser carine si sa anche scrivere, di qualche pubblicazione. Sembra banale scriverlo. Nulla di nuovo, si diranno in tanti leggendo questa lettera, tutti lo sanno, funziona così in Italia. Per una donna è più facile, o forse più difficile, dipende dai punti di vista: devi essere carina, indossare un abbigliamento "consono ad uno studio legale" e così forse, arrivi a guadagnare anche 500 euro al mese. Ma questo "compenso" è sudato, ovviamente. Se invece non ci si imbatte in queste tragicomiche situazioni imbarazzanti a tête à tête con il professore allora si capita in un grosso studio con praticanti sotto i 27 anni, i più non vengono retribuiti e tanti altri vengono pagati una miseria. Per miseria si intende che con tale cifra non ci si riesce a coprire neanche il rimborso spese equivalente al pranzo o ai costi per il tragitto casa-studio. E tutto ciò perché ? Beh, perché è la prassi per noi giovani praticanti avvocati. Ma mi chiedo in cosa debba consistere questa prassi. Forse è prassi l'essere sottoposti ad un supplizio giornaliero che dura dalle 9.00 alle 21 ogni giorno? Forse è la prassi essere soggetti a pressioni o stupide ritorsioni dei "boss" o forse invece di scappare dall'Italia bisognerebbe denunciare tante meschine situazioni di sfruttamento e mobbing lavorativo? A tutti voi, praticanti e boss, una riflessione.
Giovani avvocati: Lo schiavismo del nuovo millennio. Retribuzioni da 30 centesimi l'ora, maternità di due settimane, "multe" per ogni errore, il potere assoluto del "dominus": le umilianti condizioni di lavoro dei praticanti - ma non solo - negli studi legali denunciate dai lettori per l'iniziativa "Giovani e lavoro" di ilfattoquotidiano.it. Pratica legale, ovvero “lo schiavismo del nuovo millennio”. Così ci scrive Arianna, per l’iniziativa Giovani e lavoro di ilfattoquotidiano.it. Ma sono molte le email arrivate da giovani (anche over 30, però) aspiranti avvocati che raccontano un tirocinio in studio fatto di sfruttamento e vessazioni. Se Arianna pensa di fuggire all’estero dopo aver fatto per due anni la segretaria gratis del suo “dominus” (definizione quanto mai azzeccata), Francesca racconta una storia che ricorda le mondine. Diventata avvocato, ha lavorato fino al giorno prima del parto ed è stata richiamata in studio, con insistenza, appena due settimane dopo. Il tutto per retribuzioni che, come calcola Marco, praticante presso un ufficio della Pubblica amministrazione, da circa un euro e mezzo l’ora. Ecco alcune delle storie arrivate in redazione.
FRANCESCA: LA MATERNITA’? SOLO DUE SETTIMANE. Mi chiamo Francesca, ho 33 anni e sono avvocato. Lavoro per uno dei più importanti studi di Napoli da oltre otto anni, cinque giorni la settimana, 12 mesi l’anno perché anche ad agosto lo studio è aperto per due settimane. Mai pagato il mese di agosto perché tanto non si fa niente… Trasferte in giro per i tribunali della Campania a dir poco sottopagate, ma il bello deve ancora venire! Rimango incinta, lavoro fino al giorno prima del parto oberata di adempimenti ed udienze, partorisco e dopo due settimane sono di nuovo al lavoro dopo molteplici chiamate, 2 giorni la settimana. Quando ritorno a lavorare a pieno regime sapete quanto mi viene offerto per i quattro mesi in cui ho lavorato ‘a mezzo servizio’? Cinquecento euro fatturati per quattro mesi, due volte la settimana per 8 ore ciascuna ovvero 0,5 centesimi l’ora quando una cameriera ne guadagna 8 l’ora senza laurea, master, specializzazioni e soprattutto Cassa forense da pagare. Questo è il magico mondo del lavoro che la nostra generazione ha di fronte e che diversamente dagli spagnoli subiamo senza in alcun modo reagire!
DANIELE, UNA MULTA PER OGNI ERRORE. Sono un giovane di 27 anni che a Dicembre proverà per la prima volta l’esame di abilitazione alla professione forense. All’inizio ho svolto la pratica in un piccolo studio, orario di ufficio, niente paga. Dopo 6 mesi ho iniziato a percepire qualcosa (130,00€ al mese) che piano piano è aumentato a 300,00. Fortunato?! Non proprio!. Se sbagliavo un atto o una lettera veniva scalata una “multa” dal mio stipendio. Ovviamente dovevo svolgere tutta la cancelleria, redigere atti, andare in posta, alle notifiche (alle 6 di mattina in coda dinanzi all’Unep competente), preparare le fatture e altro. Inoltre, dovevo gestire lo studio durante le “ferie” del dominus. Il mio cellulare era diventato un call-center, chiamate a tutte le ore (dopo il lavoro) e chissenefrega se ero a cena con la morosa o amici. Dovevo essere sempre reperibile, manco fossi un ingegnere nucleare!!!!. Un giorno il mio dominus si accorge che è stato smarrito un mini scanner (valore 130 ,00 € più iva), e si ricorda che 3 settimane prima lo aveva dato a me! Conclusione ho dovuto ricomprarlo (IVA compresa, ma il professionista non la scarica?!). Infine dulcis in fundo. il 29 dicembre 2011 (durante le festività natalizie) vengo lasciato a casa alle ore 22.00 tramite un sms perché mi sono rifiutato di recarmi in Tribunale a depositare un atto (non urgente) la mattina dopo, rendendomi disponibilissimo a depositarlo il lunedì successivo. Causa questa mia grande mancanza il mio dominus ha dovuto ritardare la partenza per la sua settimana bianca di 4 ore!!!!! Finita qui?! Assolutamente no!!! Nonostante la conclusione del rapporto di praticantato ho dovuto litigare ferocemente per ottenere la firma sul libretto.
ARIANNA: “PRATICA LEGALE, SCHIAVISMO DEL NUOVO MILLENNIO”. Sono Arianna, 27 anni, laurea triennale in scienze giuridiche europee e transnazionali, laurea specialistica in giurisprudenza a Bologna, entrambe nei tempi e con voti oltre il 100. Un’esperienza Erasmus in Germania e un master internazionale in proprietà industriale in Italia. Parlo correntemente inglese e tedesco, ho già lavorato durante l’università per non essere totalmente a carico dei miei. Dopo la laurea mi sono trovata a fare i due anni di schiavismo del nuovo millennio altrimenti definiti pratica forense. Non ho imparato a scrivere. Ma ho imparato a rispondere al telefono, fare fotocopie fronte/retro, litigare in cancelleria, depositare a tempo record, liquidare i clienti che il dominus non voleva ricevere, tanto da trovarmi talvolta anche in situazioni poco piacevoli. Il tutto gratis per due anni, sentendomi dire che nonostante lavorassi gratis per 10 ore al giorno non facevo abbastanza. Quest’anno ho l’esame di Stato, lo faccio perché voglio il titolo, ma vi potete scordare che io vada a fare l’avvocato in qualche studio. Piuttosto vado a fare qualsiasi altro lavoro, pagato (anche poco), ma perlomeno dignitoso. Forse all’estero sapranno apprezzare e ricompensare la mia professionalità e la mia preparazione. Questo sistema non funziona e fra 10 anni questo paese si accorgerà di aver perso tante occasioni quanti siamo noi giovani che ce ne andiamo disgustati da una classe politica che pensa solo al breve periodo e non è capace di guardare al futuro. Mi dispiace, ma non intendo contribuire a pagare la pensione a quelli che oggi non fanno che trattarci come schiavi.
MARCO, PAGATO DALLO STATO 36 CENTESIMI L’ORA. Mi sono laureato con lode in Giurisprudenza a 24 anni, 6 mesi e 15 giorni, in meno dei cinque anni previsti, a luglio 2009. Da dicembre 2008, però, avevo iniziato la pratica notarile, con l’intenzione di diventare notaio: attività che si è protratta per 18 mesi, fino a luglio 2010, senza rimborso spese alcuno. Da settembre 2010 ad oggi, ormai 27enne, sono stato praticante avvocato presso l’ufficio legale di una Pubblica Amministrazione: l’orario richiesto è quello d’ufficio, peraltro flessibile – e dunque molto più favorevole di quello cui devono sottostare la maggior parte dei praticanti avvocati – ma il rimborso spese è di 250 euro mensili, versati con cadenza trimestrale, non regolare. Dunque ogni tre mesi arrivano 750 Euro: calcolando 35 ore lavorative settimanali per 5 giorni alla settimana e 20 giorni lavorativi mensili, fa 1,56 euro l’ora (8×5=40 ore settimanali; 40×4=160 ore mensili; 250:160= 1,56 Euro l’ora). Sono così fortunato da avere alle spalle una famiglia economicamente solida, che mi sostenta interamente, ma mi chiedo quali prospettive riservi per il futuro un simile sistema, non solo a me, ma anche ad altri meno fortunati. Resta la sconcertante constatazione che la provenienza di censo è (ri)diventata determinante nel decidere cosa uno potrà o non potrà fare nella vita, e realizzarlo non è piacevole nemmeno per chi, pur nato “dalla parte giusta”, ha sete di giustizia, soprattutto sociale.
ANTONELLA, CON REGOLARE CONTRATTO: MAI RISPETTATO. Sono Antonella, ventiquattro anni e vi scrivo da Reggio Calabria. La mia condizione lavorativa è apparentemente discreta, infatti lavoro come segretaria in uno studio legale da ben cinque anni, regolarmente assunta con contratto a tempo indeterminato. Dietro questo contratto si celano delle condizioni che vanno ben oltre la precarietà: stipendio al di sotto del minimo sindacale per lo svolgimento del doppio delle ore previste dal contratto (400 € per 8 ore di lavoro al giorno), straordinari non retribuiti, 15 giorni di ferie l’anno su quattro settimane previste dalla legge e zero pretese per non perdere il posto. Aggiungiamo il fatto che mi ritrovo a pagare tasse e a subire costi rapportati a un reddito che non percepisco realmente. Queste sono le condizioni a cui oggi è possibile trovare un posto di lavoro. Ed è questo il motivo per cui non si può dar torto a quei giovani che valutano e optano per l’idea di rimanere a casa dai genitori. Io non ce l’ho avuta la possibilità di scegliere quest’alternativa, sono costretta a procurarmi un sostentamento, sono costretta quindi ad accettare le suddette misere condizioni.
Avvocati schiavi; architetti saltuari. Non solo call center: precariato e sfruttamento colpiscono negli studi professionali, nella scuola, nei giornali, persino sui Tir. Il caso di Alice, tirocinante a tempo pieno al ministero dello Sviluppo economico e la sera friggitrice da un "kebabbaro" pakistano: 866 euro al mese e zero tempo libero. Ilfattoquotidiano.it continua a raccogliere le esperienze dei lettori. Alice, tirocinante a tempo pieno al ministero dello Sviluppo economico, la sera a friggere da un “kebabbaro” pakistano, sabato e domenica cameriera in un bar. Bilancio di fine mese: 866 euro e zero tempo libero. E i “giovani” avvocati, che a trent’anni si trovano a fare gli “schiavi a partita Iva”, come si definisce uno dei nostri lettori, magari dopo aver completato un tirocinio di sfruttamento e umiliazioni presso un “dominus” di grido. O i loro colleghi architetti, bramati perché a differenza della vecchia guardia “sanno tenere in mano un mouse”, che lavorano 9 ore al giorno, ma sono pagati una miseria come consulenti “saltuari”. Sono solo alcune delle storie che continuano ad arrivare a ilfattoquotidiano.it per l’iniziativa “Giovani e lavoro”. Storie che raccontano un precariato e uno sfruttamento generalizzato, che sonda il muro dei 30 e dei 40 anni e che non sta più solo nei call center, ma negli studi professionali, negli ospedali, nei giornali. O, come racconta una delle email che pubblichiamo, sui Tir che trasportano merci in giro per l’Italia.
ALICE, DIVISA TRA IL MINISTERO DELLO SVILUPPO E IL KEBAB PAKISTANO. Sarda. Trent’anni. Non mi comprerò mai una casa, non potrò mai permettermi di avere un figlio, e se continua così con tutta probabilità non possiederò mai neppure un’automobile. Bologna. Studentessa fuori sede: laurea triennale, laurea specialistica, master. Inizio la mia carriera con un fantastico tirocinio (sei mesi) presso l’Istituto per Il Commercio Estero (Ministero per lo Sviluppo Economico), svolgo il lavoro di funzionari ministeriali (strapagati) incapaci di aprire un foglio excel: € 200 al mese (se ti ammali ti vengono scontati i giorni di assenza). Contemporaneamente alla mia attività di stagista a tempo pieno svolgo attività di cassiera/friggitrice di patate kebabbara, gestione pakistana, tre ore al giorno, ogni giorno: 6 € l’ora. Sabato e domenica mattina, ore 6:15 – 15.00, barista banconiera presso bar di periferia: 7 € l’ora. 126 + 540 + 200= 866 € (350 € di affitto per camera singola, spese e non un giorno libero). Dopo sei mesi il tutto cambia, nuovo tirocinio (quattro mesi), Imola: 400€ al mese (ma nessun rimborso spese per il treno). Il mio reddito aumenta quindi di circa 100 € al mese ma il mio tempo si riduce, ancora. Dopo quattro mesi arriva il primo contratto: progetto, tre mesi, 1.000 €: non posso abbandonare il kebab e la caffetteria perché con tutta probabilità tra tre mesi potrei essere senza lavoro. Potrei quindi pensare di mettere dei soldi da parte, ma: dentista €. 1.200 (in comode rate mensili). Dopo tre mesi, un nuovo contratto, progetto per altri tre mesi. La stanchezza inizia a farsi sentire. L’azienda chiude. Grazie al cielo ho il kebab e la caffetteria. Il tempo passa, le cose non cambiano, kebab, lavori a progetto, cappuccini: vado a Londra e imparo l’inglese (bene). E adesso? Sono troppo qualificata. Sono troppo vecchia. Le esperienze all’estero sono sintomo di instabilità. Vogliamo solo lavorare.
LORENZO, “SCHIAVO A PARTITA IVA” NELLO STUDIO LEGALE. Ho 30 anni, una laurea in legge con tesi conseguita a pieni voti in diritto commerciale, lavoro a Milano da 4 anni come “libero professionista”, di fatto siamo schiavi a partita Iva, dipendenti sottopagati e senza diritti. La carriera legale è in assoluto la peggiore tra quelle dei “liberi professionisti”: i praticanti avvocati sono utilizzati spesso dai loro “dominus” per fare lavoro di segreteria, ovvero rispondere al telefono, fare cancelleria, fotocopie, fatturazione, ricerche e (pochissimi) atti seriali tutti identici. Non c’è alcuna formazione, non sono retribuiti e, quando lo sono, vivono da eterni stageur con stipendi da fame, maciullati dalle tasse e dalle casse di previdenza, come se uno con meno di 10.000 euro lorde annue potesse pensare alla pensione. E per gli avvocati la situazione non è migliore: i pochi studi che offrono compensi decenti richiedono che tu lavori per loro 10-12 ore al giorno, si entra alle 9 del mattino e si esce alle 10 di sera: una vita al di fuori dello studio non esiste, ma del resto si sa, è una professione “che non ha orari”. E gli altri? Ti pagano se e quando vogliono, inizio mese, metà mese, quando capita, poco importa che tu abbia bollette, affitti, spese da sostenere, o che il titolare guadagni 10 volte quello che ti da in un mese, del resto sei un “collaboratore” mica un dipendente, e dovresti solo ringraziarli! Non solo non percepiamo 13° o 14°, pur lavorando per lo stesso titolare da anni 5 giorni su 7 (a volte anche i sabati e le domeniche), ma spesso non abbiamo diritto neppure allo stipendio di agosto perché “ad agosto tu non lavori”. Guai a sognarsi poi di avere una propria clientela perché in molti studi non è permesso averla, e quando anche non è espressamente vietato, ti sobbarcano di lavoro in modo da impedirti di avere dei tuoi clienti. Se sgarri poi sei fuori, dall’oggi al domani, e poco importa che hai dato la tua vita a quello studio, del resto non hai mica firmato un contratto. Questo ambiente è il vero Far West del mondo del lavoro ed è assurdo leggere le recenti prese di posizione dell’ordine degli avvocati sulla riforma, quando il governo da sempre non fa che tutelare questa casta che vive sulle spalle delle generazioni più giovani in modo indegno e vergognoso. A 30 anni è davvero umiliante, c’era davvero bisogno di lauree e master, per una vita senza tutele, senza guadagni e piena di sacrifici? Ai ragazzi dico di non fare come me e non seguire questa strada…
VINCENZO, AVVOCATO-SEGRETARIO TUTTOFARE PER IL SUO “DOMINUS”. Mi chiamo Vincenzo, ho 24 anni compiuti il 30 aprile. Un mese prima, il 20 marzo, mi sono laureato in Giurisprudenza alla Seconda università degli studi di Napoli. Ancor prima di laurearmi ho iniziato il praticantato presso un avvocato penalista con studio nella mia città, Napoli. Appena tornai a casa, dopo la discussione della tesi, conclusasi con un 102, iniziai a inviare curricula in giro per le aziende italiane, sfruttando qualsiasi mezzo (mail, raccomandate e quant’ altro). Ciò che ho avuto in cambio in questi oramai 7 mesi è stato un mucchio di e-mail automatiche, di quelle che il sistema informatico di un’azienda ti invia per comunicarti che la tua candidatura è stata ricevuta. Ho fatto un colloquio con la Apple, ma dopo il terzo step sono stato eliminato perché troppo giovane. A oggi mi trovo a fare il segretario per il mio dominus, girando per tribunali di tutta la Campania, rispondendo al telefono, aprendo la porta ai clienti e facendo fotocopie (era necessaria una laurea conseguita senza andare fuori corso per questo!?), ovviamente non retribuito, nemmeno a livello di rimborso spese. Non nascondo che la situazione si è fatta davvero pesante, non riesco ad immaginare di dover fare questa vita per altri 5-10 anni. Sto cominciando seriamente a credere che l’unica soluzione sia lasciare questo Paese, anche se non so una laurea come la mia quanto possa servire all’ estero. Ritengo profondamente ingiusto che i vari politicanti predicano il tramonto del posto fisso e poi hanno figli e parenti che invece il posto fisso ce l’hanno eccome. Spero profondamente che noi giovani riusciremo ad unirci per cacciare questi str… che ci hanno rovinato il futuro, a qualsiasi costo. Mi scuso per il gergo poco rispettoso, ma la rabbia è davvero tanta…
IGNAZIO, ARCHITETTO “SALTUARIO” A TEMPO PIENO PER 500 EURO AL MESE. Vorrei segnalarvi il “lavoro” dei giovani laureati in Architettura, che sono in uno dei settori messi peggio, e non solo perché ci sia la crisi. Il precariato è diventato una possibilità sfruttata oltre ogni limite possibile e immaginabile: ormai lavori minimo 9 ore con orari fissi di entrata e uscita, ma i titolari degli studi (più o meno vecchi architetti e ingegneri) ti pagano con la ritenuta d’acconto o ti chiedono di aprirti una partita Iva come se collaborassi saltuariamente. Magari ti chiedono pure di venire col portatile da casa. Se fai straordinari, non ti pagano. Spesso ti trattano male perché sanno di poter fare a meno di te: se lanciano un sasso attraverso l’annuncio di un giornale, beccano 50 disperati come e più di te. Ma senza di te non potrebbero stare: non sanno tenere un mouse in mano – sebbene disprezzino il computer vogliono che tu lo sappia usare perfettamente, perché hanno fretta – spesso non riescono a seguire tutti i progetti e lasciano questi schiavi ad occuparsi di un po’ di tutto. Non hanno pazienza di insegnare, e un’amica che è disperatamente alla ricerca mi ha detto di un annuncio che chiedeva neolaureati con almeno tre anni di esperienza: della serie “gratis-e-senza-che-rompi-chiedendomi-come-si-fanno-le-cose” (da notare che Architettura è una facoltà con obbligo di frequenza, quindi è molto difficile poter studiare e lavorare prima della laurea). In generale ti pagano 500 euro al mese, 600, 700. Poche volte di più, molte volte di meno. Oggi pensavo a tutti quelli che quasi non ci credono quando glielo racconti e mi è venuta voglia di raccontare com’è andata la mia ultima esperienza di lavoro, omettendo i nomi (perché è una mafia: in un’occasione in cui mi sono licenziato con solo due settimane di anticipo – non ero assunto, ma “collaboravo saltuariamente” 9 ore al giorno – mi è stato giurato che non avrei mai più lavorato in città con nessuno studio di architettura…). Niente di estremo, per carità: sono certo che cambiando due o tre particolari molti, troppi architetti ci si potrebbero facilmente riconoscere. Ringraziandovi dell’attenzione, vi auguro buon lavoro (per chi ce l’ha!).
ALESSANDRO, CAMIONISTA PRECARIO IN UN FAR WEST SENZA REGOLE. Il mio è un precariato anomalo. Faccio l’autista di tir, comunemente camionista. Per la maggior parte quello prepotente o riproposto come criminale al telegiornale o in trasmissioni televisive. Ma dietro ci sono anche persone come me, che lo fanno con passione, che han studiato. E negli anni si è ritrovato da far l’autista a fare il contabile, il magazziniere, il facchino… Il contratto in Italia non lo rispetta quasi nessuno, si scatena la fantasia con pagamenti a viaggio o a chilometro. Quando ti pagano. E l’unica cosa peggiore di non lavorare è lavorare e non essere pagato, anche perché mentre lavori non sei spesato. E se ti lamenti o vuoi viaggiare in regola, il tuo contratto anche a tempo indeterminato non vale niente. L’ultima volta mi han licenziato per “incompatibilità ambientale”… fantasiosi. Il nostro è ora un settore dove la regola è che non c’è regola: finte filiali all’Est Europa, autisti dell’Est che fanno il nazionale o il locale e, ultimo genio italico… gli autisti italiani che accettano di farsi fare il contratto in Romania o Bulgaria. L’azienda paga meno tasse, lo stato incassa meno ma tu lavori in un’azienda italiana, con mezzi italiani, merce e tratte italiane. Potenza dell’Europa. E quindi via di ricatti. Paghiamo la disoccupazione a casa a migliaia di autisti e paghiamo altri autisti per fare lo stesso lavoro. Fantastico. Noi siamo l’inizio della fine. Mio padre vive anche di quello che ha costruito mio nonno, io vivo grazie a mio padre… ma, se mai avrò un figlio come potrà vivere di quello che ho costruito io?! Non parlo di risparmi o case, parlo anche di contributi, di struttura sociale…ci han tirato via tutto, a volte mi chiedo, a 30 anni e 14 di contributi, cosa lavoro a fare.
LUCIANA, IN SCADENZA DA 12 ANNI ALLA SCUOLA MATERNA. Sono insegnante di Scuola Materna, precaria da oltre dodici anni. Ho 44 anni, tre figli, di cui uno disabile. Mio marito per fortuna ha un lavoro stabile, ma il mio stipendio serve soltanto a pagare l’affitto di casa. Non possiamo permetterci di comprarne una. Ogni anno, a settembre, il rito della lotteria della fortuna si ripete. Non so se otterrò un incarico. Se la buona sorte mi assiste, riesco a ottenere un incarico annuale, che però termina sempre a giugno, per cui l’estate rimane non pagata e devo chiedere il sussidio di disoccupazione. Tra l’altro, l’Inps mica ti paga il sussidio subito. Te lo dà a spizzichi e bocconi. Ora il Ministro ha annunciato un concorso – finalmente, dopo tanti anni! – per assumere giovani insegnanti. Ma io, come tanti altri che sono da anni nella graduatoria ad esaurimento, non passerò a tempo indeterminato. Dovrò rimanere precaria ancora per chissà quanto! Se penso che anch’io sono stata giovane, una volta…
FRANCESCA, PUBBLICISTA A SEI EURO AD ARTICOLO: “HO SCELTO DI FARE LA CAMERIERA”. Francesca, 32 anni (quasi 33), laurea in Lettere moderne, storia dell’arte (ci arrivo tardi alla laurea, dopo anni di studio diligente l’università l’ho presa con calma, troppa sicuramente, ma poi mi laureo con un ottimo risultato) iscritta all’Ordine dei giornalisti come pubblicista da un anno. Una passione che scopro probabilmente troppo tardi, quando l’indipendenza economica urge e il tempo per fare gavetta è poco stage, tirocinio, il lavoro nella redazione di un quotidiano online locale, un lavoro “volontario” perché nel progetto ci credo, è ambizioso e la mia città ne ha bisogno. Nel frattempo faccio la cameriera per pagare affitto e bollette. Poi qualche sostituzione nella redazione regionale di un quotidiano nazionale. Ma in tempi di difficoltà economica anche i corrispondenti sembrano smettere di andare in ferie e finalmente l’occasione sembra arrivare: potrò continuare a scrivere per “il mio” giornale online e collaborare con un’altra testata, pagata. Un mese di prova (gratis, neppure il rimborso spese), poi finalmente il caposervizio sentenzia: mando la richiesta per il tuo contratto di collaborazione. Segue doccia fredda: il compenso è di 6 euro lordi ad articolo. Ma se i pezzi, mi chiedo, mi vengono richiesti anche alle 17, come posso continuare anche a fare la cameriera e pagare le spese? fatti due conti non mi resta che rinunciare (trattare non è servito, il tentativo fatto ha prodotto una totale assenza di risposta alle mie chiamate): rischio di rimetterci fra telefonate e benzina per gli spostamenti, e davvero non me lo posso permettere. Oggi riesco ancora a scrivere e continuo a fare la cameriera. Ma il mio futuro è lasciare questo mestiere: non posso cambiare città, non riesco a sostenere le spese. Ma la ricerca di un’altra, qualsiasi occupazione, sembra la ricerca dell’arca perduta. (Al momento l’unica porta aperta sembra il call center: 2,50 euro l’ora…).
Medici a partita iva, infermieri a termine: la precarietà va anche in ospedale. Lo sfogo di Teo, a fattura per l'Inps: "Senza ferie né malattia". Elisa, in corsia da quattro anni con contratti di sei mesi "non rinnovabili". E la psicologa Giulia fa la cassiera a chiamata. Dalle storie inviate a ilfattoquotidiano.it su "Giovani e lavoro" emerge la rabbia verso le ruberie degli stessi politici che tagliano la sanità e avallano condizioni di lavoro sempre peggiori. La precarietà e lo sfruttamento vanno anche all’ospedale: medici a partita Iva, infermieri precari che lavorano più degli assunti, chirurghi specializzati all’estero e disoccupati in Italia. Sono tante le email dal mondo della sanità arrivate a ilfattoquotidiano.it. Dalle storie di persone che svolgono il delicatissimo compito di occuparsi della nostra salute emerge sempre più la rabbia per gli sprechi e le ruberie della politica, soprattutto in quegli stessi enti, come la Regione Lazio, che intanto tagliano i servizi della sanità e avallano condizioni di lavoro sempre peggiori. Ecco alcune delle testimonianze arrivate in redazione.
TEO, MEDICO SPECIALIZZATO A PARTITA IVA. Sono un medico specialista trentenne con un contratto annuale in libera professione con l’Inps, attualmente la mia unica precaria fonte di reddito. Sorvolo sui sei anni di medicina e sui quattro di specialità. Oggi mi ritrovo a fare un lavoro che è esattamente lo stesso dei colleghi assunti a tempo indeterminato, soggetto alle stesse responsabilità, agli stessi controlli, alla stessa pianificazione e rilevazione della produttività. Con qualche piccola differenza: posso lavorare solo 20 ore settimanali, se mi ammalo sono fatti miei, se vado in ferie non guadagno, se fossi donna e fossi in gravidanza potrei solo stare a casa senza percepire nulla, devo emettere fattura ogni mese (soggetta a Iva, perché notoriamente come medico produco beni quasi come una ditta), non sono pagato regolarmente (e spesso devo anche anticipare l’iva), devo versare i contributi nel fondo A e B della Cassa previdenziale dei medici (12,5%, ovviamente da sommare a Irpef, Irap, Iva…). Provi a lamentarti? Ti rispondono che “ti va già di lusso così, vista la precarietà che c’è in giro!” E chiaramente se ti lamenti troppo ti ricordano che comunque “sei soggetto a rinnovi annuali, che mica sono scontati!”. Alternative? Nessuna, in effetti è vero quando ti dicono che in fondo sei un privilegiato… Perché la cosa più drammatica di questa situazione è che arrivi davvero a pensare che non esista il giusto, ma solo il meno peggio. Ma mi domando: che destino può avere un paese dove tutto è precario, dove importiamo solo il peggio della flessibilità (che sarebbe anche cosa buona se venissero offerte delle possibilità)? Chiaramente in tutta questa situazione: vuoi “mettere su famiglia”? Quanti “no” vuoi sentirti dire dalle banche per un prestito (scusi, ma lei ha un contratto annuale, non possiamo concederglielo), un mutuo (mi hanno riso in faccia), un fido (al massimo 500euro)? Che pena infinita.
ELISA, INFERMIERA “NON RINNOVABILE” DA QUATTRO ANNI NEL LAZIO DEGLI SPRECHI. Elisa, 36 anni, infermiera in uno dei più grandi ospedali di Roma. In servizio in questa azienda da agosto del 2008, entrata con un avviso pubblico per soli titoli per un contratto della durata di sei mesi (badate bene non rinnovabili)… mi ritrovo, io e molti altri, a distanza di più di 4 anni impiegata sempre nella stessa azienda, senza essere mai stata un giorno a casa. I nostri contratti sono stati rinnovati a ogni scadenza senza mai un giorno di interruzione (per fortuna o purtroppo…) e a dicembre, alla scadenza del contratto, (dopo 52 mesi di lavoro!) si parla per noi del “fantastico” mondo dei co.co.co., forse… Sono arrabbiata, delusa, stanca… ci metto amore e passione in quel che faccio, ho scelto di farlo perché mi piace il mio lavoro (strano ma vero), perché in questo paese è così difficile fare ciò per cui si è studiato? Perché è permesso utilizzare certe forme contrattuali che sono a dir poco inaccettabili? Mi sembrava che fosse stata archiviata da tempo la pratica-sfruttamento del lavoro… forse non ho studiato bene la storia. Si parla di tagli, ma sulle tasche della gente che lavora. Vivo nel “mondo sanità”, mai visti tanti sprechi per cose totalmente inutili ma che fanno arricchire le tasche di pochi. Non ci rinnovano i contratti perché la Regione Lazio non stanzia i fondi, ovviamente per mancanza degli stessi (dicono loro…). Ok, ci sto… però poi non si può “riservare” un intero piano al presidente della Regione Lazio per chissà quale delicato intervento, i fondi in quel caso si trovano?
GIULIA, PSICOLOGA E CASSIERA A CHIAMATA. Sono Giulia, ho 27 anni, una laurea specialistica in psicologia in tasca, e neanche l’ombra di un lavoro all’orizzonte. Mi sono laureata nel 2010, ho fatto l’anno obbligatorio di tirocinio non pagato e nell’estate del 2011 l’esame di Stato, obbligatorio per iscriversi all’Albo. In sostanza è un anno che cerco lavoro, barcamenandomi tra lavoretti interinali come cassiera (con contratti di massimo 3 settimane, e convocazioni spesso per il giorno stesso) e ormai centinaia di curriculum inviati in 5 province diverse. Per gli psicologi ormai è tutto un vicolo cieco: troppo qualificati per essere assunti come educatori, non abbastanza per i concorsi pubblici (che richiedono tutti anche la specializzazione in psicoterapia: altri 4 anni di scuola, quasi sempre privata, che costa migliaia di euro all’anno); senza esperienza, o troppo vecchia, per lavori quali cameriera, commessa, segretaria. Al momento ho la grande fortuna di avere due genitori che mi danno una grossa mano, e di vivere con il mio fidanzato che, con i suoi 4 lavori – e lavorando spesso anche 15 ore al giorno – riesce a guadagnare più o meno abbastanza per entrambi. Ma di progetti, non si vede neanche l’ombra. Sposarsi, avere dei bambini è il nostro più grande sogno. Ma con che coraggio mettere al mondo un figlio, in questo momento? Come lo potrei mantenere? In autunno comincerò la scuola di specializzazione, ho una collaborazione con uno studio di professionisti per dei progetti nei quartieri e nelle scuole, ma di guadagni fissi non se ne vedono all’orizzonte. Difficile sperare in un futuro migliore, per noi giovani. Anche se, nonostante tutto, non sono ancora pronta a rinunciarci! Vi ringrazio per aver dato l’opportunità a noi under 35 di parlare, di sfogarci: l’impressione che nessuno ci ascolti è più forte che mai.
ANNA, CHIRURGO CON MASTER ALL’ESTERO E NESSUN LAVORO. C’è anche chi… per aver visto il proprio padre siciliano sacrificare se stesso e la famiglia lavorando tutti ma tutti i giorni onestamente per cercare di cambiare un’università corrotta e inutile… Oggi continua a vedere il proprio padre stanco ma vittorioso onesto e onesto sempre… con un università migliore e una figlia di cui vantarsi… Laureata in medicina, costretta a cambiare città per le troppe allusioni sul mio fare e troppo bene (avevo una media del 28 e non dicevo di essere figlia di…) sono diventata un chirurgo diplomato (diploma europeo… master… periodo di lavoro all’estero) non mi manca nulla… solo un lavoro. A Roma no job… master internazionale Cile, Brasile, Messico, Spagna, Francia… Tutti i professori riconoscono il mio alto livello….e rimangono sbalorditi del fatto che io ancora lavori volontariamente! E poi leggo di Fiorito… arrestiamolo, arrestiamoli tutti. Sequestriamo i loro soldi e con quelli creiamo posti di lavoro e ricerca. Stiamo parlando di salute, ma che ci fa che il sistema sanitario sia gratuito se a lavorare lì ci siano solo poche persone che possono offrire un servizio mediocre? Perché il sistema porta i giovani (oramai abbiamo le rughe anche noi…) a lavorare gratis? Ricattati da tutti… tristi… All’Italia non manca nulla… solo l’onestà!
Medici precari ed archeologi delle fogne. Ecco i contributi arrivati a ilfattoquotidiano.it: racconti in prima persona che mostrano anche le facce meno conosciute del precariato. Vanessa, chirurgo a partita Iva da 12 anni. Carmelo, esperto di antichità a chiamata. Alberto, stagista smista-posta. Antonio, supplente a spese proprie. E chi vuole avviare un'impresa trova più ostacoli che incentivi. Un medico chirurgo a partita Iva, un geometra perennemente scalzato da apprendisti che possono essere pagati di meno, un archeologo a chiamata nei cantieri delle fogne…Sono storie che raccontano anche le facce meno conosciute del precariato, quello che tocca professioni superqualificate, come il medico appunto, oppure le difficoltà di chi prova a smarcarsi dall’utopia del posto fisso per creare un’impresa, ma dal fisco e dalle banche trova ostacoli invece che incoraggiamento. E poi le grottesche mansioni affidate agli stagisti, supplenti della scuola che spendono di tasca propria migliaia di euro per “qualificarsi” a un lavoro che sfugge di anno in anno. Le storie raccolte da ilfattoquotidiano.it dicono anche che nel mondo del lavoro si è “giovani” a oltranza, anche oltre i 30 e i 40 anni, e poi si rischia di diventare “vecchi” di colpo. E quindi di essere mandati a casa quando i figli sono ancora piccoli e il mutuo ben lontano dall’essere saldato.
VANESSA, 12 ANNI DA MEDICO PRECARIO. Leggendo le storie sui giovani mi sono posta una domanda: gente che come me si è laureata in medicina e chirurgia, (6 anni di corso di laurea) ha fatto il tirocinio post-lauream di 6 mesi per sostenere l’esame di stato, ha studiato per entrare in scuola di specializzazione (minimo altri 4 anni di studio fino a 6), come fa a definirsi giovane quando si affaccia nel mondo del lavoro? Bene che ti va finisci a 30 anni. Io ho finito a 34, nel 2004, e ho iniziato a lavorare da allora come precaria, incessantemente precaria fino ad oggi dove invece di crescere professionalmente mi ritrovo a lavorare con partita Iva, dovendo versare quindi un contributo Enpam chiamato quota B oltre alla quota di base, come libero professionista, ma è la mia unica entrata perché in quanto specialista in Igiene e Medicina Preventiva mi occupo di direzione sanitaria gestione dei servizi etc. Quindi parliamo tra specializzazione (remunerata con borsa di studio quindi illegale e non in linea con la comunità europea) e lavoro sono 12 anni di precariato, con uno stop di 5 mesi dove sono stata mandata via dalla Asl Roma A in quanto “antipatica al cognato del direttore generale”! Oltretutto esiste anche questa gente capite, che ti mette in mezzo ad una strada senza sapere che danno enorme a macchia d’olio produce.
ALBERTO, STAGISTA IN BANCA A SMISTARE POSTA. Alberto, 19 anni, perito informatico (84/100), non ho voluto proseguire gli studi e quindi mi sono mobilitato per iniziare subito a lavorare. Per due mesi non ho trovato da nessuna parte finchè sono riuscito a fare un colloquio di lavoro per una banca, ovviamente per smistare la posta (cosa pensavate?!). Subito Preso! Miracolo! Che Gioia! Stagista per sei mesi a 350 euro lordi, ma non me li posso godere tutti perchè 150 sono in buoni pasto. Ora capisco perché ero l’unico al colloquio…
IVAN, “LIBERO” PROFESSIONISTA SPREMUTO E SCARICATO. Mi chiamo Ivan, ho 31 anni e sono uno dei tanti/troppi giovani senza un futuro. E’ brutto da dire ma è così. La mia situazione e quella di tanti altri uomini e donne della mia età è quella dell’incertezza: a 30 non sei più interessante per le aziende le quali non riescono più a godere dei vantaggi di assumere un apprendista. A 30 anni si passa dalla precarietà alla disoccupazione in un batter d’occhio. Sono geometra, mi sono diplomato nel 2001 e da quel momento ho sempre cercato di lavorare: praticante sottopagato (300€ mensili per 2 anni); libero professionista alle prime armi, quindi senza clienti, con compenso fisso a 1400€ mensili dei quali ne spariscono il 40/50% tra IVA, per la previdenza e per “mantenere” il Collegio dei Geometri (vera e propria casta legalizzata); dipendente apprendista a 1100€ sotto due forme di contratto diverso, perché così riescono a spremerti al massimo senza garanzie di un contratto a tempo indeterminato al termine del percorso. Come tanti altri ho dato il massimo in ogni lavoro svolto nella speranza di un rinnovo, ma il tutto si è tristemente concluso col ben servito motivato dalla crisi. Nell’ultimo la crisi era voluta perché nel giro di un mese il mio posto è stato preso da un libero professionista a 800€ mensili. Gli studi tecnici preferiscono i liberi professionisti ai dipendenti: gli costano meno in quanto riescono comunque a sottopagarlo e sfruttati allo stesso livello, sono già formato e si assumono personalmente ogni responsabilità. Ed infine li si può scaricare da un giorno all’altro senza preavviso e senza troppi problemi legali/sindacali. Spesso si sentono cinquantenni intervistati che giustamente si lamentano perché dopo 35 anni di lavoro sono in mezzo ad una strada e non sanno come reinventarsi. Il problema è che la mia generazione è nella stessa situazione ma con 20 anni di anticipo.
ANTONIO, INGEGNERE-SUPPLENTE CHE “SCADE” OGNI ESTATE. L’estate dovrebbe essere il periodo più bello dell’anno, le tanto sospirate e agognate vacanze, il mare, il sole, il riposo, il divertimento… invece da quando insegno (ormai da 6 anni) per me è l’inizio dell’incubo. Ho 36 anni, laureato in ingegneria meccanica, un’esperienza alle spalle di due anni a Torino c/o Alenia Aeronautica, contratto a tempo determinato, alla conclusione del quale l’azienda decide di non assumermi a tempo indeterminato ma di continuare indiscriminatamente ad assumere ingegneri con contratti a termine e così tutto il lavoro, la mia esperienza acquisita in due anni se ne va in fumo come i miei sogni. 3 mesi in un call center poi inizio a Milano la mia carriera scolastica. Ogni anno solo grazie al fatto che la mia classe di concorso è pressocché esaurita ottengo delle supplenze, 1200 euro al mese, insegno in istituti professionali e Itis e devo ritenermi già fortunato secondo i presidi. Ma io fortunato non sono o non mi reputo tale, mi sono capitate classi-pollaio di 32 ragazzi, insegnare in istituti fatiscenti, un materiale umano che comunque non è gratificante. Mai la scuola mi ha permesso di aggiornarmi, ho sempre fatto di tasca mia, e così inizio a prendere lezioni private per imparare nuovi software, seguo corsi di lingue per non restare indietro, ma tutto questo ai colloqui di lavoro non interessa, “il suo CV è troppo qualificato” mi dicono. Ogni contratto mi scade il 30 giugno ed è qui che inizia l’incubo, l’incubo che a settembre la scuola non chiami, l’incubo di dover di nuovo cambiar istituto, conoscere nuovi alunni, un nuovo ambiente, nuovi colleghi, così ogni anno e perché non vedo una speranza, una via di uscita. 6 anni di esperienza non servono a nulla quando mi costringono ad affrontare le forche caudine del Tfa: 3 prove per accedere a un corso di 3000 euro (a spese dei precari) per avere un’abilitazione che non servirà a nulla se poi il Ministro annuncia che ci sarà un concorso. Ormai ho perso ogni speranza, tutte le mie ambizioni, i sogni, i progetti sono andati in fumo, e la frustrazione è tanta, ma davvero tanta…
CARMELO, ARCHEOLOGO A CHIAMATA NEI CANTIERI DELLE FOGNE. Sono un “giovane” archeologo. Dico “giovane” perché in Italia sono ancora trattato da tale nonostante abbia 31 anni, una laurea magistrale, specializzazione in Archeologia Classica, un Master, Dottorato di ricerca europeo (PhD) conseguito all’estero (Olanda) con all’attivo diverse pubblicazioni scientifiche. In questo periodo mi trovo in Turchia dove vengo ogni anno per lavorare ad un progetto scientifico italiano: noto con sommo dispiacere che mentre amici e colleghi turchi miei coetanei molto spesso sono entrati negli apparati statali o nelle università, io (così come altri colleghi italiani) veniamo qui a titolo gratuito e lavoriamo per settimane con il solo rimborso delle spese di viaggio; e la nostra missione (dico nostra perché ormai sono membro dal 2005) è sempre in bilico, in forse e riceve sempre meno fondi dalle istituzioni italiane. Che dire? … Continuo a tener duro sperando di riuscire a fuggire dal Belpaese, dove lavoro come uno schiavo facendo l’archeologo sui cantieri di emergenza (quelli per intenderci in cui si costruiscono strade, parchi eolici, fognature…) in maniera più che precaria: ormai sui contratti non scrivono più neanche la scadenza; vengo a sapere i programmi il giorno prima per il giorno dopo e non riesco mai a lavorare a meno di 100 Km da casa. E capita di rimanere settimane in attesa di una chiamata (sempre imminente) che impedisce ogni organizzazione, oppure di sapere alle 8:00 di una domenica sera che il giorno dopo alle 7:00 di mattina devo essere su un cantiere ubicato chissà dove e a lavorare chissà con chi. Bello, bello veramente bello questo “Bel Paese”…ma solo per chi lo vive da turista una settimana all’anno oppure per chi torna nelle ferie d’agosto o per chi ha qualche … “amico in paradiso” Che aggiungere?… sono senza parole. Ma … “add’à passà a nuttata” ? o forse preferisco non andare oltre per non degenerare (per esempio taccio sui capitoli pagamenti-tariffe-tasse), ma colgo piuttosto l’occasione per porgere un sentito ringraziamento a tutta la nostra classe dirigente.
ALICE, INSEGUITA DAL CALL CENTER ANCHE A BERLINO. Avete già affrontato l’argomento, ma è un sempreverde: si va all’estero pensando di avanzare con la carriera e si scopre che anche i lavori umili si sono trasferiti con te. L’80% dei miei amici a Berlino ha avuto almeno un contratto con un call center italiano nella capitale tedesca.
SIMONE, DAL FISCO ALLE BANCHE PORTE CHIUSE ALL’IMPRENDITORE WEB. Ho letto oggi l’articolo sulle prime 2 ragazze che hanno aperto un srl semplificata e ho deciso di scrivervi per portarvi la mia testimonianza. Mi chiamo Simone, ho 27 anni, abito in provincia di Varese, sono il primo di 6 fratelli, con il papà operaio e la mamma casalinga (operaia in casa, preferisco!). Con enormi sacrifici i miei genitori mi hanno mandato a scuola in Svizzera (e con me i miei 5 fratelli!!), cercando, a scapito della loro salute e con immensi sacrifici e privazioni, di farci avere una formazione dignitosa, che non avremmo avuto nelle scuole pubbliche italiane (purtroppo!). Al liceo in Svizzera ho conseguito delle borse di studio che mi hanno permesso di pagare l’iscrizione. Poi mi sono iscritto all’università, facoltà di economia, a Varese: nonostante gli ottimi voti e la mia situazione familiare non mi hanno dato la borsa di studio (me l hanno data solo l’anno successivo, quando ormai non ero più all’università!). Mi sono sempre dato da fare, ho aperto una web agency, con tante idee e tantissima voglia di fare! Perché vi ho fatto una lunghissima premessa? Per farvi capire che mi sono sempre dato da fare, non mi sono mai piegato davanti a niente, ho sempre lottato e trovato le soluzioni ad ogni ostacolo. Ora però tutta la mia voglia di fare, e di farlo in Italia è scomparsa. Mi sono fatto il culo quadro per 2 anni per portare avanti la mia attività, con idee innovative, cercando di migliorare quanto c’era sul mercato. Esattamente quello che ci chiedono continuamente no? Sì ma perché allora non esiste uno straccio di incentivo per i giovani che vogliono aprire una attività? Perchè se vado in banca a chiedere un prestito con la p. iva regime dei minimi mi ridono dietro? Eh già perché per poter aprire una attività ho dovuto scegliere questo regime: visto il campo e gli studi di settore mi sarei visto costretto ad anticipare iva per cifre che non ho neanche mai visto in vita mia! – Perchè se vado alla Confcommercio proponendo le mie idee per le imprese, le soluzioni alla crisi che io nel mio piccolo posso proporre, ma per metterle in pratica mi serve un piccolo finanziamento, ebbene perché mi sento dire, torni quando ha un fatturato presentabile, e con un business plan completo basato su 5 anni? Perché devo andare a cercare i bandi e i finanziamenti regionali nella duecentesima pagina del sito della Regione, scritto in minuscolo non leggibile quasi nascosto e con vincoli e barriere all’ingresso assurde? Perché noi giovani, pieni di idee, con voglia di fare, non abbiamo a disposizioni strumenti utili per poterle mettere in pratica? E perché se non riusciamo a mettere in pratica innovazione, non avendo strumenti, ci sentiamo dare degli sfigati e dei bamboccioni? Perché in Svizzera ogni giovane ha 100 volte gli strumenti che ho io giovane qui in Italia? Io amo l’Italia, questo è il mio paese, io voglio lavorare e farmi il culo qui, voglio avere la mia attività qui! Per quanto ancora resisterò? Poco, molto poco penso.
L'Italia del lavoro nero. Questa è l’inchiesta di Paola Adragna, Gloria Bagnarol, Luca Monaco, Paolo Nencioni e Eugenio Cirese su “La Repubblica”. Perché quest’inchiesta? Se il lavoro diventa fuorilegge!! Una Festa del lavoro quando il lavoro manca o si perde. O si riesce a trovare ma tutto in nero. E proprio a a questa Italia abbiamo scelto di dedicarci in questo primo maggio 2013. La crisi abbatte i muri tra le generazioni. C'è il dramma dei giovani che si trovano le porte sbarrate sulla strada di un lavoro regolare. C'è il milione di licenziati solo nel 2012 che ha lasciato per strada chi un lavoro ce l'aveva e ora si trova con gli anni addosso e poche o nessuna sicurezza. Tra queste rovine sociali cresce e prospera il lavoro nero: quei soldi, pochi maledetti e subito che stanno diventando una via obbligata per tanti. Troppi. E non sono solo i giovani pony express, ma i benzinai, gli impiegati che fanno il doppio lavoro. Secondo la ricerca dell'Eurispes Italia in nero sono almeno tre milioni gli italiani coinvolti in cui le stesse vittime sono costrette a diventare complici. Una voce per tutte: "Se cercassi di far valere i miei diritti potrei dire addio al posto e poi come la mantengo la famiglia?", dice Simone, portiere d'albergo. Uno dei tanti che sono costretti al silenzio. Storie vecchie direte, ma che ritornano dopo che per anni co.co.co e dintorni sono stati presentati come il male minore: "Che volete ragazzi, non è più tempo di posto fisso e il lavoro flessibile è meglio del lavoro nero", è stato il ritornello. In realtà le cose non sono andate così. Il lavoro nero è continuato e si è sempre più esteso, causa crisi, anche a chi con il solo stipendio non riusciva più a far quadrare i conti. Certo, c'è il peso delle tasse. Certo, ci vuole la ripresa per avere più posti di lavoro. Ma per avere più posti in regola non basta neanche la ripresa. Questo paese è cresciuto anche perché a un certo punto la Costituzione ha varcato i cancelli delle fabbriche. Pensiamo davvero che si possa costruire un futuro tenendo fuorilegge il lavoro?
In Italia dilaga il lavoro nero, tre milioni sono senza contratto. Dal dipendente pubblico costretto a fare il muratore per far quadrare i conti, fino agli stranieri che lavorano soprattutto nei campi e nei cantieri italiani. Tante storie diverse legate insieme dalla necessità di arrivare a fine mese. Dai controlli sulle aziende recuperato un miliardo per lo Stato. Muratori, camerieri, braccianti. Ma anche assicuratori, insegnanti, benzinai. Sono solo alcune delle tante facce del lavoro nero in Italia. Circa tre milioni di persone che lavorano senza un contratto, quindi senza giorni di malattie, senza ferie e senza la speranza di una pensione. Gli ultimi dati disponibili si fermano al 2010, ma la cifra è destinata senz'altro ad aumentare a causa della crisi. "Se gli italiani non danno vita a forti forme di dissenso è solo perché esiste una ricchezza generata da un'altra economia, quella sommersa". A dirlo è il presidente dell'Eurispes Gian Maria Fara che nel rapporto "L'Italia in nero" ha fatto i conti al sommerso: 540 miliardi di euro, il 35% del Pil, di cui 280 miliardi vengono dal lavoro in nero. Ma chi contribuisce a far crescere le casse di questa economia parallela? L'identikit non è facile da disegnare: c'è chi come Cristina fa la badante, chi come Luca lavora in pizzeria. Poi Antonella dà ripetizioni dopo aver finito il turno a scuola. Rajhad invece è venuto dal Punjab per fare il bracciante nell'agro pontino. Ma c'è anche Pietro che la mattina indossa la divisa e nei ritagli di tempo fa il muratore o Maurizio dipendente pubblico dalle 8 alle 17 e dopo assicuratore. Persone molto diverse tra loro accomunate dalla stessa necessità di far quadrare i conti. "Anni fa - spiega Fara - avevamo denunciato la sindrome della quarta settimana, poi siamo passati alla terza, ora siamo al giorno per giorno. Arrivare a fine mese è diventato impossibile: per questo dobbiamo uscire dalla logica della divisione tra italiani buoni e italiani cattivi. Ci sono solo persone costrette a cedere perché non ce la fanno". "Ogni volta che non mi fanno lo scontrino mi arrabbio, penso a tutti i soldi che se ne vanno per colpa degli evasori. Ma mi sono ritrovata a essere una di loro". Maura con il suo stipendio da bidella non superava le prime due settimane e così ora, come dice lei, "aiuto qualche famiglia con i servizi di casa". E non è l'unica. Ad avere un doppio lavoro in Italia sono almeno un milione di dipendenti pubblici e complessivamente le "posizioni plurime" sono il 31,6% di tutti i lavoratori in nero. Il 55,7% ha unicamente un reddito fuorilegge, mentre solo il 12,7% è straniera. Più di 370mila immigrati che lavorano soprattutto nell'edilizia e nei campi. L'agricoltura, con il 24,9% di irregolari, è il settore più nero secondo il rapporto dell'Eurispes, seguita da servizi (13,5%) e industria (6,6%). Ma scomponendo il dato del terziario, con l'eliminazione dei dipendenti pubblici, la percentuale dei lavoratori in nero arriva al 50% nei servizi domestici e si 'ferma' al 30% nel turismo. "Nel bar dove lavoro la metà dei dipendenti non ha contratto. Ma la paga è buona", racconta Marco, cameriere trentenne che deve pagare l'affitto della sua stanza romana. Ma se il nero sembra diffuso, nel mondo dei ristoranti e degli alberghi è il grigio ad avere la meglio. "L'uso abnorme di contratti atipici - spiega Franco Martini, segretario generale della Filcams - serve a mascherare la pratica sempre più diffusa di nascondere le irregolarità. Hai un contratto part time ma fai un full time. Oppure un contratto a chiamata ma lavori tutti i giorni. Forme contrattuali più economiche per il datore di lavoro, ma senza le tutele che spettano al dipendente". Una condizione accentuata dalla flessibilità del settore, i cui confini sono talmente labili da permettere facilmente manovre elusive. Le stesse che dovevano essere contenute dalla recente riforma Fornero. "La bussola della nuova legge - prosegue Martini - era quella di rendere svantaggiosa l'assunzione con contratti flessibili, a favore di quelli più stabili. Ma i risultati non si vedono. Anzi, il grigio sta crescendo". Un andamento confermato anche dai dati del ministero del Lavoro nel suo Rapporto 2012 sull'attività di vigilanza in materia di lavoro e previdenza. Su poco meno di 250mila aziende ispezionate dal dicastero con l'aiuto di Inps e Inail, circa 300mila lavoratori sono risultati irregolari, di cui un terzo totalmente in nero. E se rispetto all'anno prima i dipendenti invisibili sono calati del 5%, quelli che hanno contratti-farsa sono saliti del 6%. Il Ministero ha controllato solo il 15% delle aziende ed è riuscito a far rientrare nelle casse dello Stato più di un miliardo e mezzo di euro. Una cifra che lascia Luca - cassaintegrato che consegna le pizze per pagarsi il mutuo - sconsolato: "Tanto a me di quei soldi non torna indietro niente..."
Un milione di irregolari sotto ricatto, lavorano tra alberghi e ristoranti. "Se cercassi di far valere i miei diritti potrei dire addio al posto e poi come la mantengo la famiglia?" dice Simone che fa il portiere d'albergo. Uno dei tanti costretti al silenzio. Marco mette i suoi 40 euro in tasca. Sono le tre del mattino, la saracinesca del bar romano dove lavora è chiusa. Finalmente può tornare a casa, dopo otto ore in piedi a correre tra i tavoli. "Cinque euro all'ora è una paga ottima per fare il cameriere", racconta. Non ha un contratto e prende i soldi alla fine di ogni serata. La metà dei suoi colleghi - dal lavabicchieri al barman - lavora in nero, come lui. E basta fare un giro per i locali e i ristoranti del centro delle grandi città, e non, per capire che non è un'eccezione. Secondo i dati Istat del 2010, nell'ambito dei servizi (tra alberghi, esercizi commerciali, trasporti e servizi pubblici) il 18,7% dei lavoratori è irregolare. Un dato che sale al 30 per cento, secondo l'osservatorio Isfol (Istituto per lo Sviluppo della Formazione Professionale dei Lavoratori), se non si considera il settore pubblico. Insomma qualcosa come un milione di posizioni in nero. Anche se, come sottolinea Franco Martini, segretario generale della Filcams, la federazione Cgil per commercio, turismo e servizi, "il nero totale esiste, ma è l'elusione della norma la pratica più diffusa". Come nel caso di Claudia, receptionist stagionale in un grande resort della Sardegna. Contratto regolare da sette ore e 40 al giorno, mille euro netti, buone mance. "Sembra perfetto - spiega - però in realtà lavoro 12/13 ore, dalle 8 del mattino a mezzanotte, con una pausa di tre ore nel pomeriggio". Un totale di quasi 300 ore al mese, pagate 3,50 euro l'una, che fanno sembrare più allettanti i 5 euro di Marco. O quelli di Alessandro, cuoco sei giorni su sette con contratto a chiamata, perché "quella volta che vengono a controllare, il proprietario può stare tranquillo". La piaga di questi lavoratori è infatti l'utilizzo abnorme dei contratti atipici. "Sono settori - spiega Martini - che vivono di flessibilità, basti pensare agli orari o alla periodicità. Con confini così larghi è molto facile utilizzare al posto dei contratti subordinati quelle forme contrattuali che costano meno all'azienda e che contemporaneamente garantiscono meno tutele al lavoratore". Un fenomeno che nasce e si somma alla crisi. Sempre più medie e grandi strutture ricorrono agli appalti per abbattere i costi delle fasi di lavoro. E le ditte che forniscono i servizi di lavanderia o ristorazione agli alberghi, per esempio, se devono mantenere bassi i prezzi devono tagliare le spese, molto spesso a discapito dei contributi per i dipendenti. L'offerta di lavoro, poi, supera lungamente la domanda. Quindi chi si trova con un posto, anche se irregolare, non ha nessun vantaggio a protestare. "Se cercassi di far valere i miei diritti potrei dire addio al mio posto, e poi come la mantengo la mia famiglia?", domanda Simone dalla portineria di un albergo del salentino. Vive a più di cento chilometri dall'hotel e da aprile a ottobre vive lì. Torna a casa una volta a settimana per vedere suo figlio, e il suo posto da guardiano notturno a 800 euro al mese non lo lascia, nonostante sia più fatica che gratificazioni. "C'è una fila di persone che aspetta che io molli. Se mi permettessi di chiedere più soldi il mio titolare mi sbatterebbe la porta in faccia e assumerebbe qualcun altro alle stesse condizioni. È un ricatto morale". L'Italia sorretta dagli stranieri, un esercito di 400 mila irregolari. Il piano previsto dal governo per aiutare l'emersione sta fallendo. Pochissime denunce. "Se la tua richiesta viene respinta rischi l'espulsione". Cristian viene dal Ghana e raccoglie pomodori per tre euro all'ora ogni estate, il resto dell'anno cerca di cavarsela vendendo teli e oggetti etnici nelle stradine di Trastevere, Magda ne guadagna otto di euro, viene dalla Biellorussia e fa le pulizie in sei case differenti a Roma, Rajinder ha 40 anni, fa il boscaiolo nell'agro pontino ed è arrivato in Italia sette anni fa, Mohamed, egiziano, lavora come pasticcere a Bologna. Sono il tessuto della nostra società, ma sono invisibili. Impiegati in tutti i settori della nostra economia aiutano a far andare avanti il Paese, il loro sforzo però molte volte invece di finire nelle casse dello Stato riempie quelle del sommerso. Se, come ha detto il Presidente dell'Agenzia delle Entrate Attilio Befera l'evasione "è vista da alcuni come una legittima difesa", per chi come Cristian e Mohamed non ha i documenti "è l'unica alternativa". L'unica opzione per chi cerca un futuro diverso e si ritrova invece spesso piegato dal caporalato: "Sono arrivato in Italia credendo di trovare spazio per me - racconta Rajinder - ho fatto degli sforzi incredibili, pagato un viaggio più di 10 mila euro e appena sono arrivato invece di guadagnare ho continuato a pagare. Senza l'aiuto di un caporale non si lavora". Gli stranieri impiegati senza contratto sono quasi 400mila. I dati sono contenuti nell'ultimo rapporto dell'Eurispes, "Italia in Nero" e sono destinati a crescere perché con la crisi la situazione "è sicuramente peggiorata" commenta il Presidente Gian Maria Fara. Gli stranieri con contratti non regolari sarebbero il 12,7% dei lavoratori in nero. Il governo guidato da Mario Monti aveva deciso di affrontare la situazione nel luglio del 2012, precisamente otto mesi dopo il suo insediamento, con il decreto legislativo 109 che introduceva un sistema di sanzioni per "i datori di lavoro che impiegano cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare", ma soprattutto dava la possibilità di presentare domanda per sanare la propria condizione. Magda non ci ha neanche provato: "Mi hanno detto che se la mia richiesta veniva rifiutata potevo essere espulsa. Qui guadagno bene, posso mandare i soldi a casa e mantenere la mia famiglia". Altri invece sono stati fermati dai costi: 1000 euro all'Inps e sei mesi di contributi arretrati, in realtà per legge a carico del datore di lavoro. Per altre 134,747 persone invece la domanda è partita: vengono soprattutto dal Bangladesh, si sono stabiliti in tutte le parti d'Italia e lavorano per lo più nell'agricoltura e nei servizi alla persona. La richiesta di regolarizzazione doveva essere presentata dal datore di lavoro. Per ora ad avere ottenuto esito positivo sono poco più di 20mila. Più di un terzo è stato rifiutato, altri restano bloccati dalle maglie della burocrazia. L'Italia aveva l'occasione di allinearsi alle direttive dell'Unione Europea, ma questi risultati rischiano di vanificarne lo sforzo. Ciò che più preoccupa però è la paura di cui si fa portavoce Mohamed: "Se parlo smetto di lavorare, così a chi mi chiede la mia condizione dico anche che ho le vacanze pagate!"
"Spazzo, stiro, pulisco le vetrine e non riesco a pagare l'affitto". L'odissea quotidiana dei 450mila irregolari impiegati in aiuti domestici, baby sitting, assistenza agli anziani. Un cifra che secondo la Cgil sfiora i due milioni. Un esercito di uomini e donne che ricorrono al nero perché conviene a tutti. "Sono rimasta vedova a 35 anni, con due figli da mantenere. Non mi importava essere assicurata o meno, l'importante era portare qualche soldo a casa". Dopo dieci anni, Vittoria lavora ancora in nero e la sua vita è un gioco di incastri. "La mattina, tre volte a settimana, faccio le pulizie a casa di una dottoressa e il pomeriggio stiro da un avvocato. Il venerdì pulisco un negozio di tende e il sabato una macelleria". Da una parte all'altra della sua città, in autobus. Perché con gli 800 euro che riesce a racimolare può pagare a mala pena un affitto, impensabile mantenere una macchina. Al futuro non ci pensa: sa che non avrà mai una pensione, ma "tanto a domani non ci arrivo se oggi non mangio". Come Vittoria, secondo i dati Istat, sono circa 450mila gli irregolari impiegati per aiuti domestici, babysitting e assistenza agli anziani, ma secondo alcune stime della Cgil il dato può arrivare a sfiorare i due milioni. Il 60% sono donne, perché In questo campo il nero prende le sfumature del rosa. C'è Giulia, 23 anni e laureanda in lingue, che fa la babysitter, senza contatto così "sono più libera e posso andare via quando voglio". Francesca, 35, si è laureata ormai da qualche anno in scienze sociali e in attesa di un lavoro in qualche struttura di assistenza fa compagnia a un vecchietto vicino di casa per pochi euro l'ora. E Carmen, campana cinquantenne, tiene pulita la casa di una coppia di ragazzi in carriera per arrotondare la pensione. Tutte donne, figlie e madri a loro volta, che trasformano la loro quotidianità in un'entrata extra esentasse. Il fenomeno ha sottratto tra i 26 e i 34 milioni di euro alle casse dello Stato solo nel 2008 e non accenna a calare. "La riduzione della spesa pubblica per l'assistenza - spiega il segretario generale Filcams, la federazione Cgil per commercio, turismo e servizi, Franco Martini - ha portato a un aumento della richiesta di servizi privati. Ma la tassazione per le famiglie è alta e per questo si ricorre al nero". Investire nella spesa sociale e ridurre la pressione fiscale sono dunque due modi per combattere l'irregolarità strutturale. "La sanatoria del 2009 - commenta Martini - ha sì contribuito all'emersione di molte posizioni illegali, ma non basta. Anche perché ha aperto le porte a una vasta scala di grigi". Come per Cristina, 45 anni, badante, nuovamente lavoratrice in nero. Lei, con la sanatoria è rimasta fregata. Nel 2009 è stata assicurata dalla figlia della signora per cui lavorava da 4 anni. Stesso stipendio, ma maggiori tutele. Almeno sulla carta. Per prendere la stessa cifra che prendeva senza contratto, Cristina è stata assicurata per tre ore al giorno, cinque giorni a settimana: un decimo delle ore lavorate realmente. Ma così stipulato, il suo contratto non copriva una malattia più lunga di qualche giorno. E l'ha scoperto a sue spese. "Dopo due anni ho avuto un problema di salute. Sono dovuta star ferma quasi un mese e quando ero pronta a riprendere ho scoperto che mi avevano licenziata. Quel contratto gli ha dato il diritto di togliermi il lavoro".
Lo stipendio dello Stato non basta più. Impiegati a caccia del doppio lavoro. Le classiche lezioni private non dichiarate dai docenti, i bidelli che poi fanno le pulizie anche altrove. Tutto in nero. E c'è anche chi chiede di passare al part-time per arrangiarsi con un posto in pizzeria. Dieci milioni, solo nel 2009. Tanto vale il doppio lavoro in Italia, una cifra importante che però va ad alimentare l'economia sommersa piuttosto che quella regolare. I lavoratori con una "posizione plurima", erano nel 2009 quasi un milione di lavoratori, il 31,6 per cento dei lavoratori in nero. Evasori o come sostiene tra gli altri il Presidente dell'Eurispes Gian Maria Fara "costretti dalle condizioni a cedere all'evasione"? Tra di loro c'è Maura, 43 anni fa la bidella in una scuola, ha due figli e un divorzio alle spalle. Il suo stipendio le permette a malapena di arrivare alla seconda settimana e così quando suona la campanella lascia la scuola per andare a fare le pulizie. "Non posso fare altrimenti, senza questa seconda occupazione non potrei fare assolutamente nulla, mandare avanti una famiglia è diventato impossibile. Per un periodo sono arrivata addirittura a fare tre lavori, ma non vedevo più i miei bambini, ora almeno a cena ci sono". La vita di Massimo, anche lui bidello, non è molto differente: per 'arrotondare' fa il muratore. Ma nella scuola non sono gli unici ad assicurarsi qualche entrata extra con il lavoro in nero, ci sono anche i professori come Antonella. Lei insegna matematica da 20 anni, si è laureata a 24, il massimo dei punti in graduatoria. Un'eccellenza, ma con uno stipendio netto da 1500 euro, decisamente inferiore ai suoi colleghi inglesi e tedeschi. Dopo aver finito le ore nel suo liceo torna a casa e ospita gli studenti degli altri istituti per le ripetizioni: "In questo modo riesco ad assicurarmi quasi un secondo salario. Non è per vivere nel lusso, ma per garantirmi una condizione dignitosa". Perché allora non regolarizzare questa sua posizione? "Non posso, si teme il conflitto di interessi, anche se io non mi permetterei mai di insegnare a pagamento ai miei studenti. Sono molti i docenti che hanno questa 'doppia vita', ma non se ne parla. Tutti lo fanno, tutti lo sanno, ma si tiene la bocca chiusa e così proprio noi che dobbiamo educare i nuovi cittadini ci trasformiamo nel cattivo esempio". Il lavoro nero è una piaga che coinvolge tutta la pubblica amministrazione, non solo la scuola. I dipendenti che scelgono di avere qualche guadagno extra sono anche dentro ai ministeri, ai comuni, agli ospedali e nelle forze dell'ordine. C'è Pietro, carabiniere da più di 25 anni che con i suoi 1600 euro al mese non riesce a mantenere la famiglia e così, ogni volta che può, va in qualche cantiere. O chi come Maurizio: oltre a lavorare nel suo ufficio fa anche l'assicuratore a nero. Non lascia il suo posto fisso perché "lo Stato è l'unico che mi dà delle sicurezze, peccato che non siano abbastanza neanche per sopravvivere". Diversa è la condizione di Gianna che è passata al part-time per lavorare in pizzeria. Avrebbe potuto chiedere alla sua amministrazione il permesso, ma districarsi tra le carte della burocrazia non è cosa facile: "Ad alcuni miei colleghi è stato negato e così ho preferito non dire niente a nessuno, certo, non è onesto, ma con l'onestà non si mangia".
Senza tutele e senza assistenza. Vita da pony per pagarsi gli studi. L'assicurazione Inail è universalistica, chiariscono gli esperti. Ma sono molti i trucchi dei datori di lavoro per evitare le sanzioni. Dal negare di conoscere il dipendente, al contratto custodito senza depositarlo, alla dichiarazione ex post fatta solo il giorno prima dell'incidente. "A 20 anni non stai tanto a riflettere sui rischi, eppure anche portare le pizze a domicilio può diventare un lavoro pericoloso". Marco, un 23enne romano laureando in Lettere se n'è reso conto a sue spese. "Un mese fa sono scivolato con la moto durante l'ultima consegna - afferma - mi sono procurato una lesione ai legamenti dalla quale non mi sono ancora ripreso". Marco lavorava in nero come altre migliaia di studenti che il fine settimana sfrecciano sulle due ruote con i bauletti carichi di pizza pur di racimolare 50 euro. Nel quinquennio tra il 2007 e il 2011 sono stati 3.285 gli infortuni denunciati all'Inail dai corrieri espressi: la categoria comprende i corrieri postali (diversi da quelli delle poste nazionali) gli operatori per le consegne a domicilio e i pony express. Il dato è in crescita. Dai 598 incidenti nel 2007 infatti, si è passati a 668 sinistri nel 2011. Non sono molti, considerando che "l'assicurazione Inail è universalistica e tutela anche i lavoratori in nero- chiarisce il professor Giulio Prosperetti, ordinario di diritto del Lavoro all'università di Roma Tor Vergata - Tuttavia, molti dipendenti senza contratto preferiscono evitare la denuncia, che produce un incremento del costo dell'assicurazione per datore di lavoro (si segue la logica del bonus malus)". Nonostante le nuove norme puniscano con sanzioni salatissime chi non deposita immediatamente i contratti, si continuano a utilizzare i vecchi stratagemmi propri del sommerso: da chi nega di conoscere il dipendente, a chi custodisce il documento firmato evitando di depositarlo. Fino alla dichiarazione ex post, nella quale si ammette che il lavoratore aveva iniziato la collaborazione, ma solo dal giorno prima dell'incidente. Quest'ultimo caso è accaduto a Marco. "Io non avevo intenzione di fare causa - racconta - così quando ho chiamato il proprietario della pizzeria (di Roma est) dopo essere uscito dal pronto soccorso mi ha detto di stare tranquillo: avrebbe fatto risultare che lavoravo per lui dal giorno prima. Così mi avrebbe potuto tutelare comunque. In realtà lavoravo per lui da due anni...". Episodi come questo accadono quotidianamente "perché non c'è una repressione idonea - sostiene Prosperetti - il sommerso in Italia è socialmente accettato. Inoltre il lavoro occasionale (come nel caso dei portapizza) esiste solo come istituto, ma non si riesce a farlo funzionare. È mal visto dall'ordinamento e per nulla incentivato dagli amministratori. Si pensi ai Voucher per le prestazioni occasionali - aggiunge - esistono, ma non li conosce nessuno. E poi sono difficili da utilizzare. Io stesso ho atteso mesi prima di riuscire ad avviare le pratiche per la mia colf". Se fossero pagati con i Vouche - i buoni dell'Inps da 10 o da 50 euro - i ragazzi portapizza e gli altri dipendenti occasionali si vedrebbero pagat i contributi Inps e Inail, incassando dal tabaccaio o alle Poste il netto di sette euro e 50 per ogni biglietto da 10 euro percepito. "Davvero? Non ne sapevo nulla, ora mi informo - assicura Giuseppe Filiberti, proprietario di una pizzeria da asporto a Roma Nord - In altro modo contrattualizzare un ragazzo che lavora due sere a settimana per 10 consegne in tutto, diventa una perdita". E così in tanti continuano ad alimentare il bacino del sommerso.
Gli schiavi della benzina: 10 ore al giorno per 40 euro. Indossano la divisa della compagnia petrolifera ma sono senza contratto. Non si tratta degli stranieri che vediamo ogni giorno davanti ai distributori di carburante ma di italiani senza tutele e assistenza. Un fenomeno appena nato ma in forte espansione. Indossano la divisa della compagnia, ma lavorano senza contratto. Ogni giorno servono la benzina nelle grandi stazioni di servizio lungo le arterie a scorrimento delle città. Gli schiavi del carburante non sono solo stranieri, ma anche italiani. Lavorano dieci ore consecutive, sei giorni su sette: senza tutele, per soli 40 euro al giorno. Si tratta di un fenomeno sul nascere, del quale ancora non si conoscono stime. A raccontare la condizione di sfruttamento sono le testimonianze dei protagonisti e degli avvocati del Lavoro. "Le prime cause contro i proprietari delle pompe di benzina le abbiamo intentate quattro anni fa - racconta Andrea Solfanelli, per anni in forze all'ufficio legale di Federcolf (sindacato di area cattolica) - a presentare le denunce sono stati indiani e bengalesi. Spesso i ragazzi che la sera chiedono la mancia al "fai da te", sono gli stessi che al mattino invece lavorano in nero con la divisa della compagnia indosso. In tutti i casi che ho seguito - continua - il dipendente ha deciso di denunciare il datore di lavoro solo a fronte di un licenziamento: generalmente dopo un anno in "nero" provano a chiedere di essere messi in regola, ma vengono puntualmente licenziati e sostituiti con un altro connazionale, anche lui senza contratto". Adesso però, accanto agli stranieri sono arrivati gli italiani. I nuovi schiavi del carburante sono ex operai rimasti senza lavoro. Giovani padri disposti a tutto per mandare avanti la famiglia. Proprio come Alberto, 39 anni, uno dei benzinai ingaggiati in nero dai distributori lungo il Grande raccordo anulare di Roma. "Facevo il muratore - racconta - poi un anno e mezzo fa la ditta per la quale lavoravo con un regolare contratto ha chiuso improvvisamente, e io non ho più trovato nessuno disposto ad assumermi. Ho fatto colloqui, inviato centinaia di curriculum, ma il lavoro scarseggia e con una figlia di tre anni a carico non puoi permetterti di scegliere: quando un mio amico mi ha detto che cercavano un addetto alle pompe ho subito detto di si". Anche se il lavoro è usurante (il petrolio alla lunga aggredisce la pelle delle mani) Alberto non se l'è sentita di pretendere i diritti che gli spetterebbero: "Avevo gli arretrati dell'affitto da saldare, spendo 700 euro al mese per un buco al Tuscolano. Mia moglie fa le pulizie a ore in casa dei privati, ma deve anche badare alla bimba. È stata una fortuna trovare questo posto". Il primo mese ha sostituito per una decina di giorni un collega, "poi sono diventato fisso - continua - Ora guadagno mille euro, ma lavoro dalle otto alle 10 ore al giorno senza pause. Metto la benzina agli automobilisti e in più do una mano all'autolavaggio. In tutto siamo sei dipendenti alle pompe, io qui sono l'unico senza contratto. Ma se ti fai un giro negli altri distributori sai quanti ne incontri di disperati come me?".
Lavoro nero alla cinese. A Prato qualcosa sta cambiando. Due operai hanno denunciato il loro sfruttatore. Storia esemplare (e rara) di affrancamento. Ma il più delle volte il "guanxi", la rete di solidarietà parentale, vale più di un permesso di soggiorno. C'è la regola e c'è l'eccezione. Tra gli operai cinesi clandestini di Prato la regola è lavorare 10-12 ore al giorno per un salario risibile in cambio di vitto, alloggio e protezione dagli intrusi, con la prospettiva di diventare un giorno il padrone della baracca. L'eccezione è quel giovane operaio che nei mesi scorsi ha bussato alla porta dell'assessore all'Integrazione del Comune di Prato, Giorgio Silli, per raccontare la sua storia e denunciare il datore di lavoro che lo sfruttava. Per questo ha ottenuto un permesso di soggiorno temporaneo. "Sono in Italia da qualche anno in clandestinità - ha detto - e lavoro per un euro all'ora dalle 7 all'una di notte". Una condizione comune a migliaia di cinesi impiegati nelle circa tremila tra confezioni e pronto moda che nel tempo hanno soppiantato le tradizionali tessiture e filature pratesi decimate dalla crisi del tessile. Un giorno però la macchina a cui sta lavorando si rompe e l'operaio si procura ustioni di secondo e terzo grado. Di norma si chiamerebbe un'ambulanza, ma per lui no. Ambulanza significa controlli, e controlli significano multe e sequestro della ditta. E' capitato già un paio di volte che operai cinesi morti in fabbrica per cause naturali siano stati lasciati sul marciapiede, come immondizia da ritirare. E così il cinese ustionato viene caricato in macchina e scaricato davanti al pronto soccorso dell'ospedale. In realtà il nostro operaio cinese è caduto fuori dal guanxi, l'efficiente rete di solidarietà parentale e amicale che rappresenta il vero welfare per i cinesi. La confezione chiude? Hai perso la casa? In qualche maniera gli amici ti fanno cadere in piedi. Nel suo caso qualcosa non funziona e lui si trova solo. Viene sottoposto a più di un intervento chirurgico e alla fine decide di chiedere aiuto agli "intrusi", proprio a quelli da cui lo proteggeva il suo datore di lavoro. Sì, perché la storia degli operai cinesi schiavi nelle confezioni è in gran parte una favola. Chi parte da Wenzhou (Zhejiang) per venire in Italia è perfettamente consapevole di quello che lo attende. Molti di loro, anche senza permesso di soggiorno, guadagnano abbastanza per mandare qualcosa in Cina coi money transfer, stringono i denti e aspettano la prossima sanatoria. Quella che il governo ha varato la scorsa estate, secondo il consigliere comunale del Pd Simone Mangani, è stata un'occasione persa per Prato. "Si era aperta una finestra, dal 15 settembre al 15 ottobre - spiega - nella quale i datori di lavoro potevano denunciare la presenza di dipendenti clandestini o al nero e pagare per mettersi in regola. Ma solo pochi l'hanno fatto, un po' perché non è stata sufficientemente pubblicizzata, un po' perché costava troppo, e si sa che in questi casi le spese ricadono in realtà sul clandestino". L'operaio cinese che ha denunciato il suo datore di lavoro ha ottenuto un permesso di soggiorno temporaneo ai sensi dell'articolo 18 della legge sull'immigrazione, quello che di solito si usa per le prostitute tolte dal racket, e ora è in una sorta di programma di protezione, lontano da Prato. Un'altra via è il permesso temporaneo per motivi di giustizia, sul quale decide il questore su parere favorevole del magistrato. Ma i casi si contano sulle dita di una mano. Un altro cinese, pochi giorni dopo la denuncia del primo, si è rivolto all'assessore Silli per raccontare una storia simile e denunciare il suo laoban, il padrone. Anche lui si era fatto male ed era caduto fuori dal guanxi. Eccezioni. Così come lo sono i due imprenditori cinesi che si sono iscritti all'Unione industriale pratese. Il primo, Xu Qiu Lin, nel 2000, il secondo Gabriele Zhang, un mese fa. Un po' poco per parlare di integrazione imprenditoriale. Meglio ha fatto la Cna, che è riuscita a far iscrivere circa 80 artigiani orientali all'associazione e ha nominato Wang Liping vicepresidente, con una certa cautela in una città dove il sindaco di centrodestra Roberto Cenni ha strappato il Comune alla sinistra dopo più di mezzo secolo, nel 2009, cavalcando la paura dell'invasione cinese. Lui che pure aveva in parte fatto le sue fortune facendo lavorare le confezioni cinesi per la sua Sasch prima del fallimento (ora è indagato per bancarotta). Ma sul fronte dei dipendenti le cose vanno diversamente. Alla Cgil gli operai cinesi iscritti sono meno di dieci (un po' di più quelli iscritti alla Cisl). "Affiggeremo manifesti in cinese, italiano, urdu e albanese per le strade - promette l'assessore Silli - Vogliamo spingere i clandestini a uscire allo scoperto". A saltare fuori dal guanxi, insomma. Bisognerà poi vedere quanti avranno paura del salto nel buio e preferiranno rimanere nascosti nelle confezioni.
In Italia, un italiano su 550 è giornalista. Riformiamo l'Ordine? Scrive Antonio Armano su “Il Fatto Quotidiano”. A mezzo secolo dalla nascita dell’Ordine dei giornalisti, la crisi economica e i rapidi cambiamenti tecnologici stanno mettendo in discussione la professione. Non ci sono più argomenti deontologici o giuslavoristici tabù. Volano stracci, anche di lusso, anche firmati. La crisi è anche un’opportunità di cambiamento, vedi etimologia greca, come si dice sempre. Si parla della possibile abolizione dell’Ordine, creato nel ’63 su iniziativa dal sindacato dei giornalisti (Fnsi), organismo, quest’ultimo, nato in pratica insieme all’Italia (nel 1977 il primo presidente fu il letterato Francesco de Sanctis), sciolto durante il fascismo e rifondato nel ’44 dopo la liberazione di Roma. Vecchio cavallo di battaglia dei radicali, l’abolizione dell’Ordine. Scrivere abitualmente su una testata, che sia la Campana di Casei Gerola o il Corriere, nel nostro paese, caso più unico che raro nel panorama mondiale, è, o meglio dovrebbe essere, appannaggio di chi ha il tesserino marrone (anche il colore punitivo e purgativo viene discusso). Almeno in teoria e Internet permettendo: per questo ho usato il condizionale. Altrimenti si cade nell’esercizio abusivo della professione, come uno che ti cava in denti senza la laurea, per intenderci. L’esame per diventare professionisti (l’albo dei pubblicisti sarebbe riservato a chi scrive come attività secondaria) è stato da poco reso più accessibile, ma continua a costare una cifra insostenibile per chi non è assunto come praticante. In base a una norma da poco approvata l’esame lo possono fare tutti i pubblicisti che dimostrano di vivere di questo mestiere (non ci sono più requisiti stringenti di reddito). Oltre, naturalmente, a tutti quelli che hanno lavorato in una redazione: in regola come praticanti, e sono pochissimi (compresi i soliti raccomandati), o in nero. Poi però devi sborsare quasi 500 euro tra tasse e bolli vari, iscriverti obbligatoriamente a un corso preparatorio – quello online, per esempio, costa 200 euro -, andare a Roma due volte per fare scritto e orale nel bunker burocratico dell’hotel Ergife. Siamo sui mille euro come ridere. Ma poi c’è poco da ridere e stare allegri. Che cosa si risolve diventando professionisti? Nelle ultime infornate di esami ho incontrato molti trentenni che non lavorano già più o fanno lavoretti giornalistici saltuari per poche centinaia di euro l’anno. Una conquista dunque? La “corporazione” finalmente si apre e diventa meno cooptativa o è solo l’ennesimo salasso? Tra pubblicisti e professionisti il numero dei giornalisti in Italia ha raggiunto quota 110mila. La tanto reclamata pulizia degli elenchi, cioè l’eliminazione di chi da anni non fa più il mestiere e usa la tessera solo per entrare gratis nei musei o grattare il ghiaccio dal lunotto, non è mai stata fatta. Ciascun iscritto è obbligato a pagare una quota annua di 100 euro, se no scatta la cartella esattoriale. Fanno circa undici milioni di euro. Che cosa se ne fa l’Ordine? Gli competerebbero tre funzioni: sorveglianza deontologica, formazione professionale e tenuta degli elenchi. Sulla tenuta degli elenchi, ormai lievitati in modo mostruoso oltre quota 100mila iscritti, si è appena detto. La sorveglianza deontologica è stata riformata e si stanno formando appositi collegi nominati dai tribunali. Le scuole, dopo avere proliferato pure quelle, sono in crisi sempre più, a volte servono solo a dare lavoro a chi insegna. Quella più gloriosa e antica, l’Ifg di Milano (Carlo de Martino), è stata incorporata nell’università statale perché non c’erano i soldi per mantenerla così com’era. Anche chi esce dalle scuole ha diritto di fare l’esame da professionista. Dopo avere speso parecchio per frequentare il biennio, che è post-laurea, deve scucire il grano, mille euro minimo per l’esame da professionista (se lo passi al primo turno e ho visto gente che lo ripeteva per la terza volta). I tassi di bocciatura sono sempre maggiori. Un’altra novità, si fa per dire, è la Carta di Firenze. La Carta di Firenze, ironizzava qualcuno, è quella che serve a foderare i cassetti. Teoricamente dovrebbe consentire di rivolgersi all’Ordine per chiedere una sanzione disciplinare nei confronti dei colleghi (redattori, capiservizio, direttori) che ti offrono lavoro a condizioni indecenti. I quali non potranno più trincerarsi dietro al solito alibi che quelle condizioni le impone il datore di lavoro, cioè l’editore, che loro non c’entrano niente col trattamento economico dei collaboratori. A più di un anno dall’approvazione si può fare un bilancio: i casi di applicazione sono rarissimi. Anzi: più unici che rari. Credo che ci sia solo un caso noto nel Lazio. Perché, contrariamente al previsto, non è stato istituito un osservatorio per vigilare sulle violazioni. E perché l’Ordine non può muoversi d’ufficio. Si deve aspettare che sia il singolo giornalista, sfruttato e ricattabile, a muoversi. Alcune realtà regionali si stanno attivando per denunciare le condizioni di sfruttamento dei collaboratori (pezzi pagati pochi euro, per intenderci) ai rispettivi ordini senza attendere che siano i freelance a muoversi. Un importante gruppo editoriale ha di recente imposto ai collaboratori condizioni standard per cui i pezzi molti brevi sono pagati… zero euro. Zero. Il lavoro gratuito viola la Costituzione. Anche quello a condizioni non dignitose. Sui problemi della professione grava da anni una cappa di silenzio, un muro di gomma. Paradossale, grottesco, kafkiano perché stiamo parlando del mondo dei mass media, della comunicazione. Ma visto che sui giornali non se ne può parlare, perché gli editori non gradiscono, dove altro parlarne? Internet per fortuna sta un po’ cambiando le cose. Al festival del giornalismo di Perugia il premio Walter Tobagi, giornalista del Corriere vittima delle Br e protagonista dell’attività sindacale negli anni ’60 a Milano, è andato a un articolo sullo sfruttamento dei precari in questo settore. Autore Chiara Baldi per il blog L’isola del cassintegrati. Non si può dire che sia un’inchiesta con le contropalle: evidentemente si è voluto premiare l’intento, l’argomento. A cinquant’anni dalla fondazione l’Ordine è un tassello fondamentale del mosaico di un mestiere che sta cambiando volto: 110mila iscritti sono circa un italiano su 550. Un italiano su 550 è giornalista, pubblicista o professionista che sia, anziani e bambini compresi. C’è qualcosa che non va. Se non si può riformare meglio abolire.
PARLIAMO DEGLI O.S.S. OPERATORI SOCIO SANITARI.
"Laviamo i malati e li imbocchiamo: ma per noi non ci sono tutele". Gli operatori socio sanitari costituiscono una cerniera tra l’universo dei pazienti e il mondo dei medici e degli infermieri. Ma sono da troppo tempo in attesa di una legge che definisca le competenze, scrive Maurizio Di Fazio il 23 giugno 2017 su "L'Espresso". “Siamo la colonna vertebrale del sistema sanitario. Ogni mattina mettiamo in piedi i pazienti di ospedali, residenze sanitarie assistenziali (Rsa), strutture private, centri diurni. Sopperiamo alle carenze infermieristiche crescenti, come crescente è la domanda di assistenza sanitaria. Sulla nostra schiena sono caricati i pesi del malessere, della malattia, dell'infermità, ma nessuno vuole concederci un legittimo riconoscimento professionale, un fatto senza precedenti nella storia della sanità italiana”. Strana la storia degli oltre 200 mila Oss (operatori socio-sanitari) italiani, istituiti da una Conferenza Stato-Regioni del 2001 e oggi sempre più richiesti soprattutto in ambito extraospedaliero perché costano poco e sono polivalenti. “Gli Oss sono sospesi in un limbo contrattuale, a metà strada tra l’essere tecnici o professionisti sanitari. Perché la nostra professione manca tuttora di una legge adeguata che definisca e suggelli le nostre competenze, consentendoci di lavorare con la giusta tutela giuridica. Sulla carta siamo operatori sanitari e possiamo somministrare farmaci, eseguire medicazioni, rilevare i parametri vitali, ma nei nostri contratti di lavoro non c'è traccia di tutto ciò” racconta all’Espresso Alessandro Pini, presidente dell’Unitoss, l’Unione italiana operatori socio-sanitari. Eppure il loro è un mestiere quanto mai sensibile e delicato: non a caso è stato incluso tra quei lavori gravosi che almeno fino al 2018 saranno coperti dall’Ape sociale. Un'attività faticosa e di responsabilità massima a stretto contatto con malati che hanno un grande bisogno di cure, assistenza e vicinanza psicologica. Gli Oss costituiscono una cerniera tra l’universo dei pazienti e il mondo dei medici e degli infermieri: il punto di riferimento iniziale per i primi, il più forte supporto materiale per i secondi. Devono essere in grado di assolvere a tutti i bisogni di primo livello, a 360 gradi, garantendo l’igiene dei ricoverati e assistiti (come il lavaggio di naso, denti, orecchie e il taglio delle unghie dei piedi), l’espletamento delle loro funzioni biologiche e fisiologiche (assumere i pasti, urinare, andare di corpo) e una corretta deambulazione e mobilizzazione su letto o sedia a rotelle. Mentre gli Osss (operatori socio-sanitari specializzati) estendono il raggio d’azione e dedizione agli anziani non autosufficienti, ai portatori di handicap, agli utenti psichiatrici, ai malati terminali. Raramente gli operatori socio-sanitari vengono cooptati come dipendenti dopo aver vinto un concorso pubblico; va un po’ meglio nel privato, e in questo caso le assunzioni dirette convivono con le chiamate tramite agenzie interinali e cooperative in centri di assistenza, onlus e comunità di recupero. E se non si sottostà alle regole non scritte, si rischia il posto. “I datori di lavoro (specie nelle Rsa e nelle cooperative) obbligano l'Oss a sostituirsi all'infermiere e, in particolare nei turni di notte, a ricoprire entrambe le mansioni senza nessuna tutela di legge” aggiunge Alessandro Pini. A discapito della salute tanto dei degenti quanto degli stessi operatori. Una confusione di ruoli frammista a robuste dosi di machiavellismo aziendale che comincia sin dal corso teorico e pratico obbligatorio per diventare Oss. Costo, dai 1200 ai 3000 euro; durata, da un anno a 18 mesi. Cristiano P. ne ha frequentato uno pochi anni fa e ci rivela la sua esperienza. “Dopo la teoria, il tirocinio, che consisteva in due step. Prima si viene inseriti in un ambulatorio, per assorbire le modalità di gestione dei pazienti direttamente dai medici e dagli infermieri; in seguito si viene smistati in residenze sanitarie assistite e dentro strutture per anziani. Spesso autentici lager. Una volta mi costrinsero a fare iniezioni intramuscolari, e quando osai protestare le mie ragioni alla caposala fui confinato nel libro nero. E dire che a lezione ci avevano catechizzato a lungo: “se vi chiedono cose che esulano dalla vostra competenza, rifiutatevi categoricamente. La verità è che ci trattano come pseudo-infermieri costretti a un lavoro doppio, anzi quadruplo, visti gli organici sottodimensionati. E ogni tanto qualche Oss finisce per dare di matto”. Occorre una proposta “di modifica della legge istitutiva del 2001 che preveda l'obbligo della formazione continua. Quella non fu una vera norma giuridica. Il vuoto è palpabile” – denuncia il presidente dell’Unitoss -. E serve un riconoscimento delle mansioni e del profilo sanitario per cui siamo stati formati con le 1400 ore di corsi regionali. Dobbiamo essere assimilati alle altre figure del settore: lavoriamo gomito a gomito con camici bianchi e paramedici, sostituendoci spesso alle loro responsabilità, però non riusciamo ad assurgere al rango di professione. Restiamo dei semplici “tecnici”. Ma allora perché ci definiscono “operatori socio-sanitari?”. All’estero non funziona così. “Negli altri Paesi gli operatori lavorano in autonomia e svolgono la propria attività secondo protocolli specifici. Solo in Italia gli Oss sono soggetti al ricatto contrattuale e allo sdoppiamento coatto di ruolo”. L’obiettivo è di varare un elenco pubblico degli Oss (già presente per gli infermieri) e di ridisegnarne l’identikit agli occhi del diritto del lavoro. “Non siamo tecnici dei servizi”. Testimoni diretti, le decine di migliaia di malati e ricoverati che questi “professionisti sanitari di fatto”, ogni giorno, imboccano, incoraggiano, massaggiano, lavano, medicano, muovono. Aiutandoli ad andare avanti.
"Noi, infermieri sfruttati a danno dei pazienti". Sono professionisti indispensabili e svolgono compiti delicati. Ma in molte strutture sono costretti a turni massacranti e rischiano il posto di lavoro se denunciano condizioni sanitarie inadeguate, scrive Maurizio di Fazio il 5 giugno 2017 su "L'Espresso". Infermieri sviliti, ricattati, ridotti a compiti da factotum. Sottopagati e alle prese con contratti 'creativi' e senza tutele. Spostati da un reparto all’altro, di giorno e di notte, e costretti a fronteggiare da soli corsie affollate da decine di pazienti. Maria (il nome è di fantasia) di origine senegalese, vive in Italia da 34 anni ed è infermiera professionista da un quarto di secolo. Laureata in Infermieristica, per sei anni ha lavorato, di notte, in una casa di riposo del Piemonte. Faceva di tutto: il giro letti, le pulizie, le medicazioni, i prelievi; somministrava le terapie, imboccava gli ospiti, apparecchiava e sparecchiava. Poi qualche settimana fa è stata licenziata. Indirettamente, da uno studio di infermieri associati a cui era iscritta. Così è cominciata la sua battaglia: ha deciso di depositare una denuncia penale per razzismo nei suoi confronti e per le violenze contro gli anziani residenti nel suo ex luogo di lavoro. Ci sono persino delle morti nella storia che ci rivela e che sta riferendo in questi giorni ai magistrati; il suo racconto è suffragato dalle parole di Massimo, anche lui infermiere professionista, un suo collega in organico da dieci anni in quella casa di riposo che sembra uscita da un racconto dell'orrore. “Ho chiesto agli inquirenti di muoversi in tempi stretti, prima che la situazione degeneri completamente. Perché gli episodi che denuncio sono poca cosa rispetto all’assurdità del quadro generale” sostiene Maria. “Ci vorrebbe una legge nazionale che istituisca l’obbligatorietà delle telecamere in tutti gli ospedali e case di riposo. Faccio un appello alla ministra Lorenzin e al Parlamento. Quello che noi segnaliamo è solo una punta dell’iceberg. Se piazzassimo le telecamere in tutti i reparti verrebbero a galla fatti ancora più drammatici” aggiunge Massimo. Nella struttura dove lavora lui e lavorava lei, non c’è nemmeno una telecamera interna.
Contratti fittizi e straordinari non pagati. Maria: “In questo studio di infermieri associati siamo in 170, assunti a tempo indeterminato, in modo fittizio. La paga è di poco più di 10 euro l’ora: con questi soldi dobbiamo pagarci l’Empapi, l’Ente nazionale di previdenza e assistenza della professione infermieristica. Io sono una mamma, ho due figli a carico e le assicuro che, versate le quote Empapi, non mi rimane granché. Per ogni nostra prestazione lo Studio incassa il doppio. Ci tiene sotto scacco”. E Massimo aggiunge: “Non abbiamo nessun tipo di garanzia né per le malattie, né per le ferie: ci vengono concesse, ma a spese nostre. E non percepiamo mai straordinari”.
Licenziata per aver rotto l'omertà. Maria: “Sono stata cacciata non per miei errori o negligenze ma perché ero diventata scomoda. Nella nostra casa di riposo gli Oss (operatori socio-sanitari) insultavano, picchiavano e maltrattavano gli ospiti. Io ho denunciato questi fatti e il risultato è che mi hanno dato il benservito. Senza nessuna lettera di licenziamento. Se parli, se rompi il patto d’omertà, sei fuori. Anni fa una mia collega, allontanata come me da un giorno all’altro dallo studio, si è suicidata”. “Davo fastidio perché controllavo tutto, come m’hanno insegnato alla scuola di Infermiera. E poi il colore della mia pelle non piaceva. Il direttore generale me lo aveva promesso: prima o poi ti faccio licenziare, non voglio neri nella mia clinica”.
Turno di notte: un'infermiera per 70 pazienti. “In tutto siamo sei infermieri, e altrettanti Oss. Di notte sono sempre stata l’unica infermiera di turno per settanta ospiti. Sono una professionista, laureata, ma ho dovuto a lungo supplire alle inefficienze degli operatori socio-sanitari che sonnecchiano e fanno squadra tra di loro” racconta Maria rievocando i turni nella casa di riposo. E aggiunge Massimo, il suo collega: “Dobbiamo idratare gli anziani, altrimenti lasciati a liquefarsi; mobilizzarli; medicarli a causa delle lesioni provocate dalla disattenzione delle operatrici. E anche il personale medico non brilla certo per l’impegno profuso. Asserire che se ne fregano è un generoso eufemismo. Occorre stimolarli a fare le cose, ricordargliele sul quaderno”. Ma non basta: “dobbiamo accendere e spegnere le luci, aprire e chiudere i cancelli, sbloccare gli ascensori quando si bloccano…”.
Anziani maltrattati nella struttura a 4 stelle. Spiega ancora Maria: “Nella mia denuncia alle autorità giudiziarie ho vuotato il sacco sugli schiaffi, le offese, le urla disumane lanciate dagli Oss agli ospiti col silenzio-assenso del direttore. Due di loro sono deceduti: non stavano bene in salute, ma sono stati lo stesso presi a ceffoni. E pensare che dovrebbe essere una struttura a 4 stelle”. Le fa eco Massimo: “Altri hanno perso la vita perché trascurati dal punto di vista dell’assistenza: soffrivano già di patologie come il diabete o l’ipertensione ma ci si è dimenticati di loro, e quando li si è mandati al pronto soccorso non c’era più nulla da fare. Inoltre sono all’ordine del giorno le cadute rovinose e le fratture del femore”.
Manca l'igiene. “Vengono disattesi anche i precetti elementari. Gli Oss sono capaci di usare lo stesso guanto monouso per quattro o cinque pazienti alla volta, scatenando infezioni serie. Ma se provi a rimproverarli, loro sibilano stizziti che il direttore della casa di riposo è d’accordo. Il nostro Studio, dal canto suo, minaccia rappresaglie ogni volta che facciamo notare questi comportamenti. E in sindacati sono totalmente assenti.
"Si perde il legame tra paziente e infermiere". Per gli anziani il personale paramedico costituisce un po’ una seconda famiglia. Vorrebbero socializzare, condividere l’album dei ricordi, farsi confortare. In questi casi il rapporto psicologico è fondamentale. Ma gli infermieri in servizio sono sempre pochi. E non c’è tempo da perdere. “Per il troppo lavoro da svolgere, a volte non riesco neanche a guardarli in faccia. Figurarsi se riusciamo a instaurare un qualche rapporto empatico” conclude Massimo: “Siamo delle macchinette che rimbalzano da un piano all’altro, da una stanza alla successiva per fare quello che c’è da fare subito e che gli altri non fanno o fanno male”.
L'autore ringrazia per la collaborazione fornita il portale nurse24.it
PARLIAMO DEI TIROCINANTI PRESSO GLI UFFICI GIUDIZIARI.
Noi tirocinanti presso gli uffici giudiziari, scrive il 16 giugno 2017 Elena Menga su "Il Corriere della Sera". Scrivo per raccontare la mia storia e quella di altri ragazzi che, come me, hanno svolto o stanno svolgendo un tirocinio presso gli uffici giudiziari italiani. Si tratta di uno stage formativo, istituito dall’art. 73 del c.d. "Decreto del fare", che prevede l’affiancamento del tirocinante ad un magistrato per un periodo di 18 mesi. Al tirocinio possono accedere i laureati in giurisprudenza con meno di 30 anni e voto di laurea non inferiore a 105/110. Al termine del tirocinio viene rilasciato un attestato che vale, in parte, ai fini della pratica legale e costituisce valido titolo di accesso al concorso in magistratura. I tirocinanti collaborano attivamente alla stesura dei provvedimenti dei magistrati e li assistono durante l’attività di udienza. Suppliscono quindi anche alle gravi carenze d’organico che da anni affliggono il “sistema giustizia” in Itala. Lo stesso Ministro Orlando, in più occasioni pubbliche, ha evidenziato come i tirocinanti abbiano contribuito all’accelerazione e al buon andamento del sistema negli ultimi anni. A partire dal 2015, il governo ha deciso di stanziare dei fondi per l’erogazione di borse di studio ai tirocinanti. Si tratta di 400 euro mensili netti, erogati sulla base dell'indicatore della situazione economica equivalente (ISEE) calcolato per le prestazioni erogate agli studenti nell'ambito del diritto allo studio universitario (anche se nessuno di noi è più studente da un pezzo e, infatti, una volta ricevuta, sul piano fiscale la borsa viene equiparata alle retribuzioni derivanti da lavoro dipendente). Gli 8 milioni di euro stanziati per coloro che hanno svolto il tirocinio nell’anno 2015 sono risultati sufficienti per tutti i tirocinanti. Le cose sono cambiate per il 2016. Nonostante il numero dei tirocinanti in Italia sia aumentato (come già detto, i tirocinanti fanno comodo), sono stati ugualmente stanziati fondi pari a 8 milioni di euro. E così, stamattina, il Ministero ha pubblicato la graduatoria degli ammessi: risultano idonei solo coloro con reddito non superiore ad euro 42.012,21. Tutti gli altri – centinaia di giovani – restano esclusi.
Il Ministero di (in)Giustizia non paga 1.300 tirocinanti, scrive Alberto Marzocchi il 21/6/2017 su "it.businessinsider.com. E meno male che si tratta del Ministero che si occupa di “Giustizia”. Dove, evidentemente, lavorare gratis deve sembrare cosa buona e giusta. Milletrecento giovani laureati in giurisprudenza hanno sgobbato dentro e fuori da tribunali, procure e corti d’appello. Hanno affiancato giudici e pubblici ministeri nelle attività di tutti i giorni, colmando le carenze d’organico che da anni affliggono il sistema. Tanto da risultare, secondo lo stesso ministro della Giustizia, Andrea Orlando, fondamentali per gli uffici giudiziari. Eppure non vedranno un soldo. Questa mattina sulle scrivanie del Guardasigilli, del ministro Padoan, dei sottosegretari alla Giustizia Cosimo Ferri e Gennaro Migliore e su quella del presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, ci sarà la lettera di 1300 tirocinanti provenienti da tutta Italia. Loro, dalla graduatoria che garantisce le borse di studio per l’anno 2016 (400 euro al mese), sono rimasti fuori. La critica che muovono al governo si fonda su due punti. Il primo: il tirocinio è sì formativo (tanto che garantisce punteggi nelle graduatorie pubbliche e dà la possibilità di accedere al concorso in magistratura) ma è soprattutto paragonabile a un lavoro. Lo dimostra il decreto legge 69/2013 con cui è stato creato. Si tratta del cosiddetto “Decreto del fare”, con cui il governo intendeva fornire “Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia”. “Nel titolo III – si legge nella lettera inviata dai giovani laureati al governo – è contenuto l’articolo 73 che istituisce il nostro tirocinio al fine di migliorare l’efficienza del sistema giudiziario. È chiara l’intenzione di dotarsi nella maniera più veloce di uno strumento che aiuti a ‘smaltire’ il carico di lavoro degli uffici giudiziari”. Il secondo punto riguarda le modalità con cui vennero erogate le borse di studio lo scorso anno. Tutti i tirocinanti, infatti, ricevettero il compenso. Il ministero della Giustizia, in accordo coi colleghi del Tesoro, aveva stanziato 8 milioni di euro. Con l’inizio degli stage nel 2016, però, le cose sono cambiate e i tirocinanti sono aumentati sensibilmente. Perché, allora, il fondo destinato alle borse di studio è rimasto uguale? “Deve essere chiaro che noi lavoriamo” puntualizza Marta Moroni, una delle escluse. Marta sta svolgendo lo stage alla Procura della Repubblica di Monza. Ha iniziato l’anno scorso e finirà a ottobre. Due volte alla settimana parte da Peschiera Borromeo e si fa 3 ore di mezzi pubblici. “Prima andavo in Tribunale quattro volte alla settimana. Poi al tirocinio in Procura, che reputo un’esperienza molto positiva, ho affiancato quello nello studio legale dell’Inps”. In generale, i tirocinanti spendono dalle 20 alle 40 ore settimanali in ufficio. In casi d’emergenza escono dai tribunali alle 20. E molti di loro si portano il lavoro a casa, da completare la sera o nei weekend. Per la gioia di giudici e pubblici ministeri, che possono tirare il fiato. Marta si è laureata alla Statale di Milano col 110 e lode. L’accesso ai tirocini è consentito – e questo è un altro aspetto paradossale della vicenda – soltanto alle eccellenze tra i laureati italiani. E cioè a chi è uscito dall’università con un voto pari o superiore al 105 e con la media del 27 in diritto costituzionale, diritto privato, diritto penale, diritto commerciale, diritto del lavoro, diritto amministrativo, diritto processuale penale e diritto processuale civile. Marta Moroni, uno dei 1.300 tirocinanti presso i tribunali rimasti esclusi dal compenso. “Lo Stato non tutela i suoi studenti migliori – continua Marta – perché è vero che 2.412 laureati riceveranno la borsa di studio, ma altri 1.300 sono rimasti fuori dalla graduatoria. Ho vissuto l’esclusione con un forte senso d’ingiustizia. Quei soldi mi servivano per frequentare la scuola che prepara i laureati al concorso in magistratura, per affrontare l’esame d’avvocatura e per comprare libri e codici”. La soluzione prospettata nella lettera è, sostanzialmente, una: trovare i fondi perché le borse di studio siano garantite a tutti i tirocinanti, indipendentemente dal reddito (quest’anno ne hanno beneficiato quelli con ISEEU inferiore a 42mila euro). A cui si aggiunge un ulteriore suggerimento: modificare l’articolo che istituisce il tirocinio con l’inserimento di un compenso fisso, come succede per le attività extracurriculari. “Ci sentiamo maltrattati dallo stesso Stato presso cui prestiamo servizio con impegno” conclude Marta. Lavorare gratis è, di per sé, un’ingiustizia. Ma allora farlo per il Ministero della Giustizia, che cos’è?
Non c’è giustizia! Il lavoro non retribuito dei tirocinanti nei tribunali, scrive il 23/06/2017 Claudio Riccio su "L'huffingtonpost.it". Ve lo ricordate "il decreto del fare"? Il governo Letta sull'onda del renzismo allora in ascesa varò un decreto che doveva servire - diceva l'allora Presidente del Consiglio - a "dare risposte concrete su economia e lavoro". La nostra storia di ordinaria ingiustizia inizia da lì, da quando cioé sul tavolo del governo fece capolino la derelitta situazione del sistema Giustizia che, gravato da tagli, blocchi del turn over, carenza di personale ed assenza concorsi, necessitava di una vera e propria magia per risollevarsi. E nel 2013 la "magia" non tardò ad arrivare, fornendo "manodopera" al sistema giudiziario. In cosa consisteva questo gioco di prestigio? Per rispettare gli assurdi vincoli europei e delle politiche di austerità lo Stato rinunciava ad investire ad esempio per assumere lavoratori che andassero a colmare il fabbisogno di specifici settori, si tappavano i buchi utilizzando i migliori laureati in giurisprudenza chiamandoli a svolgere tirocini nei tribunali. Parliamo di un esercito di giovani che affiancano il lavoro dei dipendenti, coprendo buchi di organico con mansioni e responsabilità, un impegno di decine di ore a settimana che ha consentito in questi anni di far respirare il farraginoso sistema giudiziario italiano. Lo stesso Consiglio Superiore della Magistratura ha definito il lavoro dei tirocinanti come fondamentale ed indispensabile per lo "smaltimento" dell'enorme arretrato. Per moltissimi questa esperienza è avvenuta a titolo gratuito, senza nemmeno un rimborso per le spese ordinarie (trasporti, cibo, affitto, etc.) a quelle per una polizza assicurativa. Insomma, pagare per lavorare. Ai tempi del "decreto del fare" pochi sollevarono la questione, dando battaglia perché venisse quantomeno riconosciuta una qualche forma di remunerazione. In quella occasione, Enrico Letta disse loro: "state sereni", ma come sappiamo - e come poco dopo ha imparato anche Letta a sue spese - non c'era da fidarsi. Dopo le prime proteste venne introdotta una borsa di studio per i tirocinanti, ma è proprio qui che comincia l'ingiustizia. Ebbene sì, perché quest'anno, dopo aver trascorso ben 18 mesi nei tribunali e nelle procure di tutta Italia, 1.300 ragazze e ragazzi sono rimasti senza borsa, quindi senza quella piccola entrata economica di soli 400 euro mensili su cui, specialmente tanti fuorisede, avevano riposto le proprie speranze per non pesare più sulle proprie famiglie. Si è trattato di un vero e proprio inganno: l'art. 3 del decreto interministeriale Orlando-Padoan del 30 dicembre 2016, infatti, non indicava nel bando il limite massimo di ISEE con cui ottenere la borsa, contrariamente a quanto avviene nella legislazione in materia di diritto allo studio universitario. Così molti tirocinanti sono stati indotti ad inoltrare la domanda di ammissione al bando, convinti di poter rientrare tra i requisiti previsti per l'accesso al beneficio. Un gran numero ha, quindi, intrapreso e portato a conclusione con grande impegno lo stage e solo dopo la sua ultimazione ha appreso, con la pubblicazione dell'elenco provvisorio lo scorso 15 giugno ad opera del Ministero della Giustizia, la propria esclusione dalla platea dei beneficiari. Mentre i tanti neolaureati erano del tutto ignari del trucco, il ministro Orlando era perfettamente consapevole che a migliaia a sarebbero rimasti a mani vuote perché il finanziamento è rimasto di € 8.000.000 come negli anni precedenti, mentre i posti messi a bando per colmare le lacune del sistema sono saliti poco meno di quattromila. Un esercito di giovani non pagati. Andrea Orlando è ritenuto - erroneamente - "quello di sinistra". Dopo aver rincorso la peggior destra con il decreto vergogna scritto a quattro mani con Minniti, ci chiediamo se voglia anche la responsabilità di aver legittimato ulteriormente il lavoro gratuito. Se non vorrà appuntarsi al petto questa ennesima infame medaglia, si preoccupi di trovare subito i soldi per erogare le borse ai ragazzi esclusi, noi a breve lo chiameremo a riferire in Parlamento con un'interrogazione del segretario di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni. Non si tratta di una vicenda isolata, non è un sorprendente scandalo: dall'Expo di Milano, agli Scontrinisti della Biblioteca Nazionale di Roma, c'è un'intera generazione a cui viene chiesto di lavorare gratis, in nome del sacrificio, dell'esperienza, di un rigo in più nel curriculum. È la cosiddetta "economia della promessa", l'idea per cui la gavetta possa giustificare ogni forma di sfruttamento. Una logica troppo spesso accettata tanto nel mondo del tirocinio, quanto in quello del praticantato forense, tanto nella via crucis accademica dei dottorati e degli assegni di ricerca, quanto nel settore del giornalismo o della comunicazione. Non è più tollerabile questa vera e propria guerra sociale che ci vuole disposti a tutto, sempre più sfruttati, sempre più poveri. Serve una lotta a tutto campo al lavoro povero, contro l'uso enorme ed abnorme dei tirocini formativi in favore di contratti veri come l'apprendistato, per l'equo compenso di chi lavora e il reddito minimo che consenta continuità di reddito a chi un reddito non ce l'ha.
PARLIAMO DI SFRUTTAMENTO DEL LAVORO.
I GIUDICI ONORARI - Magistrati onorari, 4.000 precari: svolgono il 20 per cento del lavoro giudiziario, però sono pagati 98 euro lordi a udienza con contratti triennali. I magistrati ordinari prendono di media, invece, 120.000 euro annui.
Lavoratori precari che si autotassano per permettere ad una loro collega di avere un minimo di reddito nel periodo di maternità. Costretta a rimanere a casa da una normativa che le impedisce di riprendere il lavoro dopo aver partorito ma non le riconosce le forme di assistenza e di previdenza che la legge riconosce ai lavoratori dipendenti.
La precaria di questa storia però non lavora in un call center o in una agenzia di lavoro temporaneo.
E non è neppure un operaio dell’800, quando i lavoratori senza diritti fondavano le società di mutuo soccorso per darsi un minimo di tutela l’un l’altro. La precaria di questa storia, che chiameremo Luisa, amministra la giustizia oggi a Torino. Per 73 euro netti al giorno, senza indennità di malattia, senza ferie pagate, senza tutela se decide di avere un figlio, rappresenta la pubblica accusa, cioè lo Stato, in tribunale. È la «co.co.co. della giustizia».
Luisa fa la viceprocuratore onorario a Torino. Resta incinta e nell’ultimo periodo della gravidanza si astiene (volontariamente) dal lavoro. Un mese fa il lieto evento, dà alla luce un bel bambino, un maschietto dai capelli scuri. Decide di tornare sul suo posto di lavoro, cioè il tribunale di Torino. Solo che il suo posto di lavoro non c’è, almeno per ora e fino a che non saranno trascorsi tre mesi dal parto, come prescrive il Testo unico in materia di tutela della maternità. Una delibera del Consiglio superiore della magistratura del luglio 2006 stabilisce che ai «precari della giustizia» - i giudici di pace, i viceprocuratori onorari e i giudici onorari di tribunale - vanno applicati gli stessi obblighi dei lavoratori dipendenti, ovvero devono restare in aspettativa obbligatoria in caso di maternità, come un lavoratore dipendente. Ma ovviamente non le riconosce il diritto a percepire l’indennità per le giornate di lavoro perse, come viene accade ai lavoratori dipendenti. Col risultato che Luisa resta sì a casa ad accudire il suo bimbo, ma senza l’unica fonte di reddito.
Il caso di Luisa stabilisce un precedente a livello nazionale, sottolineano i rappresentanti della categoria, perché di fatto «si prende atto che gli obblighi di prestazione che fanno capo al magistrato onorario non consentono di equipararlo ad un qualsiasi lavoratore autonomo - spiega Paola Bellone, la collega di Luisa che ha promosso questa Mutua del nuovo millennio -. Il paradosso è che al magistrato onorario non sono estese le forme di previdenza e di assistenza di cui beneficia il lavoratore dipendente, e quindi la tutela della prole, a cui è ispirata la delibera del Csm, non è effettiva».
Così i magistrati onorari di Torino hanno preso carta e penna e scritto ai parlamentari, hanno sollevato il caso di Luisa tra le ragioni dell’ennesimo sciopero della categoria - il secondo dall’inizio dell’anno - e alla fine si sono infilati le mani in tasca e hanno deciso di rinunciare ad una parte dei loro compensi, per costituire un fondo in favore di Luisa e del suo bambino. L’iniziativa dei «magistrati co.co.co» torinesi ha avuto anche un’eco nazionale, con gli iscritti alla Federmot, una delle associazioni della categoria, che si stanno organizzando per un fondo nazionale di solidarietà a favore di tutte le future madri come Luisa.
I magistrati onorari hanno, anche, scioperato. Da allora, al di là delle molte promesse e della solidarietà di tanti magistrati togati - quelli veri, ufficiali, che hanno diritto alla maternità e alle ferie pagate - che riconoscono il loro ruolo nel tenere in piedi lo scoraggiante carrozzone dell’amministrazione della giustizia in Italia. Perché, senza questi precari, la giustizia italiana sarebbe in una situazione ben peggiore di quella attuale.
Due numeri, solo per chiarire di cosa stiamo parlando. In tutta Italia i giudici onorari e i magistrati onorari sono in quattromila. A loro è delegata l'ordinaria amministrazione dei tribunali: per reati come scippo, furto semplice e aggravato, rapina semplice, ricettazione, truffa, spaccio, calunnia, diffamazione a mezzo stampa la pubblica accusa può essere rappresentata dai Vpo. Ma anche per alcuni reati ambientali, i maltrattamenti in famiglia, le lesioni personali. E per tutti i reati previsti dalla Bossi-Fini, che hanno gonfiato il lavoro dei tribunali. Per reati più lievi, quelli che dal 2002 sono di competenza del giudice di pace, Got e Vpo svolgono addirittura le indagini. In molte procure i Vpo sostengono l'accusa davanti al giudice di pace nel 100% dei casi. La percentuale è superiore al 90% anche per i procedimenti con il giudice monocratico. A Torino, per esempio, il 97% delle udienze monocratiche (che fa il 78% del totale) è tenuta da un «onorario». Tutto questo per 73 euro al giorno, senza ferie, senza malattia, e se fanno un figlio l’unica risorsa è la solidarietà dei colleghi. Come nell’Ottocento.
Toh, ma allora esistono anche loro. I quattromila magistrati onorari dei tribunali italiani. Per il fatto che a Bologna una di loro è finita nella bufera per non avere convalidato il decreto di allontanamento di un cittadino comunitario romeno che 6 mesi dopo ha commesso uno stupro, ecco che «si scopre» l'esistenza di questo ircocervo della giustizia italiana: la categoria dei magistrati per funzioni ma non per carriera, reclutati per titoli anziché per concorso, a tempo ma continuamente prorogati, pagati a cottimo e senza pensione- malattia-ferie come precari del diritto, teoricamente solo di supporto ai magistrati togati ma in realtà ormai insostituibili nei Tribunali italiani.
Quanti sono. Già i numeri lo segnalano. A fronte di un ruolo di 8.790 magistrati togati, ve ne sono 7.833 onorari: 6.048 giudicanti (quasi quanti i 6.526 giudici di carriera) e 1.785 requirenti (a supporto dei 2.264 pm usciti dal concorso). Se si tolgono (per la loro differente specificità) gli oltre 3.900 giudici di pace, i magistrati onorari restano appunto quasi 4mila: 2.081 sono i giudici onorari di tribunale (got) e 1.785 i viceprocuratori onorari (vpo).
Chi sono. Il loro reclutamento avviene per valutazione dei titoli (la laurea in legge è ovviamente il prerequisito), con nomina fatta dal Csm e ratificata dal ministro della Giustizia. Il primo paradosso è che l'incarico sarebbe dovuto essere triennale, come previsto dalla legge Carotti che nel 1998 arruolava giudici e pm onorari «al limitato scopo di esaurire i giudizi pendenti alla data del 30 aprile 1995»: ma nella realtà, di proroga in proroga, le funzioni onorarie si sono protratte, e l'ultima proroga del 2008 fissa il teorico ultimo termine al primo gennaio 2010. Gli unici a esaurirsi davvero sono stati i giudici onorari aggregati (goa) nati nel 1997 per smaltire l'arretrato civile pre-1995: dovevano durare cinque anni, hanno cessato di esistere solo il primo gennaio 2007. Per legge c'è incompatibilità assoluta a svolgere, entro il medesimo circondario, le funzioni di magistrato onorario e la professione di avvocato: tuttavia, in quelle province dove ci sono più (piccoli) circondari, accade che giudice onorario e avvocato possano scambiarsi le casacche nel raggio di qualche chilometro, situazione che lascia unicamente al loro scrupolo morale la risoluzione di palesi conflitti di interesse e anche già soltanto di possibili reciproci condizionamenti psicologici.
Cosa fanno. In materia civile i giudici onorari concorrono ad assorbire il contenzioso di primo grado senza limiti di valore; in materia penale può essere loro la quasi totalità dei reati di competenza del tribunale ordinario, dove celebrano i processi e li decidono con sentenza, proprio come i loro colleghi di carriera. Quanto ai viceprocuratori onorari, essi rappresentano la pubblica accusa in udienza (al posto dei pm togati, che così possono dedicarsi in ufficio alle indagini oppure seguire i dibattimenti più delicati) nella quasi totalità dei procedimenti per reati di competenza del giudice monocratico (che vuol dire discutere di pene sino a 10 anni di carcere), nonché per i reati minori decisi dai giudici di pace.
Quanto pesano. Per avere un'idea di quanto ormai la giustizia italiana non possa più fare a meno di loro, bisogna guardare gli ultimi dati ufficiali che, come tutti in questo settore, sono stagionati al 2003: i giudici onorari si sono visti assegnare il 12% dei procedimenti civili (254mila cause) e hanno svolto il 20% delle udienze (61mila). Nel penale, i giudici onorari hanno smaltito il 23% dei processi nazionali, con 19mila udienze per 90mila fascicoli. Ancora più alta l'incidenza del lavoro dei vpo, ai quali sono stati assegnati il 39% di tutti i procedimenti delle Procure, attraverso la delega a trattare 569mila fascicoli e a rappresentare l'accusa in 73mila udienze. In una grande sede come Milano, c'è già stato il «sorpasso»: nei primi 10 mesi del 2008 i pm di professione hanno sostenuto 3.141 udienze (davanti a gup, Tribunali, Corti d'Assise) e hanno potuto svolgere almeno un po' di indagini solo grazie al fatto che, al posto loro, sono stati i vpo ad andare a rappresentare l'accusa in altre 3.820 udienze, sostenendola nel 78% dei reati di competenza monocratica e nel 90% di quelli davanti ai giudici di pace.
Il corto circuito. Sfrangiata da Procura a Procura è invece la collocazione dei vpo nella fase pre-dibattimentale. Qui non ha aiutato negli anni l'ondivaga attitudine delle varie consiliature del Csm: l'attività inquirente svolta fuori udienza nei procedimenti di competenza del giudice di pace è stata ammessa ma poi non più retribuita, così come è stata infine negata (dopo essere stata consentita) la redazione delle richieste di emissione dei decreti penali di condanna. Confusione anche sui got, visto che le circolari Csm prima hanno negato, poi ammesso, poi di nuovo negato che i giudici onorari potessero partecipare ai collegi giudicanti penali. Il risultato è una serie di corto circuiti. Al got è fatto divieto di giudicare i reati che arrivano dall'udienza preliminare, però il vpo può rappresentare l'accusa in quegli stessi processi; il vpo non può svolgere attività di indagine sui reati di competenza del tribunale, però quando questi reati approdano in aula può ricoprire l'accusa proprio nella fase decisiva del dibattimento. Ma è anche vero che non di rado proprio i capi degli uffici giudiziari, alle prese con gravi carenze d'organico della magistratura professionale, hanno aggirato le circolari restrittive del Csm, per esempio inserendo ugualmente giudici onorari nei collegi penali con una interpretazione molto elastica del concetto di «mancanza o impedimento » dei giudici togati. Di rammendo in rammendo, peraltro, anomalie nell'assetto generale dell'ordinamento sono ormai evidenti: i magistrati onorari svolgono le loro funzioni senza quella selezione che invece attraverso il concorso screma e prepara i magistrati di carriera, il periodo di tirocinio è molto più breve (4 mesi per i got e 3 per i vpo) dei 2 anni dei togati, le verifiche di professionalità oggettivamente più tenui.
A cottimo. Tasto dolente, da molto tempo, quello dei compensi: non stipendi (non se ne parla proprio perché per le legge esercitano soltanto funzioni onorarie, senza un inquadramento stabile, senza uno statuto), ma indennità lorde di 98 euro a udienza: anche qui con un profluvio di ordini e contrordini dal ministero della Giustizia, come quando nel 2007 una circolare di via Arenula ha riconosciuto la retribuibilità anche dei patteggiamenti, dei riti abbreviati e delle dichiarazioni di non luogo a procedere, e l'anno dopo un'altra circolare ha invece non soltanto rifiutato di corrispondere gli arretrati nel frattempo chiesti dai magistrati onorari, ma ha posto forse le basi anche per la restituzione di quanto nel frattempo già percepito a quel titolo. Più di tutto, però, pesa ai magistrati onorari di essere dei precari del diritto, non soltanto pagati a cottimo ma privi di contributi previdenziali, retribuzione nei giorni di malattia o ferie, assistenza in maternità. Rivendicazioni alla base delle tornate di sciopero proclamate nell'ultimo anno.
Le prospettive. Progetti di legge di ogni genere, per una riforma della magistratura ordinaria, si sono via via affastellati e contraddetti: da quelli che ritagliano una fetta specifica di giurisdizione a quelli che invece immaginano per got e vpo un ruolo vicario nel futuribile «ufficio del processo» in chiave di supporto al magistrato togato. Ma la Federmot, l'organizzazione di categoria, non condivide «progetti che vorrebbero trasformare questo genere di incarico in una sorta di Kindergarten per neolaureati o, all'opposto, in una nuova edizione di un'attività per pensionati, già malriuscita in passato. Sono idee che, se realizzate, porterebbero ad un ineguale scontro in aula fra giudici e pubblici ministeri inesperti od esausti da una parte e le migliori forze dell'avvocatura dall'altra».
I GIUDICI DI PACE - Attualmente la magistratura di pace gestisce un contenzioso enorme (circa 1.800.000 procedimenti l’anno), con tempi di definizione delle cause molto rapidi, mediamente meno di un anno, a fronte dei 5 anni occorrenti ai Tribunali, e con un impegno lavorativo praticamente a tempo pieno (che ha costretto la maggior parte dei colleghi ad interrompere, o comunque a diminuire drasticamente la propria attività professionale di avvocato). Il Giudice di Pace, pur avendo le medesime responsabilità e doveri dei magistrati di carriera (nonché carichi di lavoro equiparabili), non gode di nessun diritto, sia sotto il profilo dello status giuridico (irragionevolmente assimilato al funzionario cd. “onorario”, il quale, per definizione, ha carica elettiva o discrezionale, laddove il GdP è nominato sulla base di un concorso vincolato per titoli e deve superare un periodo di tirocinio), sia, cosa ancora più grave, sotto il profilo della totale carenza di qualsiasi forma di tutela previdenziale e assistenziale: i Giudici di Pace, integralmente retribuiti “a cottimo” sulla base del lavoro effettivamente svolto, non maturano il diritto alla pensione, non hanno diritto a indennità di malattia o maternità (con dispensa d’ufficio nel caso in cui l’impedimento si protragga oltre i 6 mesi), non percepiscono il trattamento di fine rapporto, non hanno tutele e agevolazioni per i familiari a carico, né la moglie del giudice deceduto percepisce indennizzi, assegni di reversibilità o quant’altro, non sono coperti dall’assicurazione per infortuni sul lavoro (pur operando, per lo più, in luoghi insalubri a causa delle scarse risorse economiche destinate agli uffici), né le indennità percepite possono essere assimilate ai redditi derivanti da altre attività professionali eventualmente svolte, con la conseguenza che anche i più fortunati e stacanovisti, i quali riescono, con enormi sacrifici, ad esercitare, in altra sede (per incompatibilità), l’attività di avvocato, nel caso in cui non raggiungano i minimi reddituali – piuttosto alti per gli avvocati (circa 20.000 Euro) – restano sforniti di tutela previdenziale.
I VERBALIZZANTI GIUDIZIARI - Probabilmente termini quali “verbalizzatori, stenotipisti, trascrittori, fonici” significano poco o nulla per molti, ma nella realtà descrivono figure importanti nello scenario della Giustizia praticata nei Tribunali italiani. Agli inizi degli anni 90, a garanzia del cittadino, venne introdotta nel processo penale la resocontazione integrale del dibattimento, ovvero le udienze dovevano essere registrate (con registratori che col tempo si sono evoluti da analogico a digitale), poi riascoltate, trascritte, riviste, stampate e impaginate, cosicché il prodotto finale entrava quale parte integrante del fascicolo del dibattimento. In alternativa, sempre rispettando il principio dell’integralità del parlato, la ripresa avveniva per mezzo di sistemi stenotipici, che altro non sono che una forma di stenografia computerizzata. Tutto questo per la imprescindibile necessità di non stravolgere il senso delle testimonianze, come invece poteva avvenire con la verbalizzazione riassuntiva e manuale che evidentemente non poteva rispettare i tempi del parlato.
La gara di appalto nazionale, dopo una vigenza di operatori territoriali, è stata indetta in periodo di regola dedicato al riposo, il 17 agosto 2005, e allora tutti con ansia a formare entità che potessero coprire l’intero stivale.
Le nuove modalità nazionali si concretizzano comunque il 16 novembre 2006, lasciando a spasso la metà di tutti gli operatori italiani, ossia i più piccoli, i professionisti in proprio, quelli che non avrebbero mai potuto superare lo scoglio economico della quota associativa, molto elevata, imposta dal raggruppamento temporaneo di impresa risultato poi vincitore dell’appalto. Lo Stato Italiano indice quindi questa gara con una base d’asta che rispecchia la spesa dell’anno in corso, ma la gara è al ribasso e viene vinta con un 30% in meno. In gara si sono ritrovati due gruppi e ciascuno rispecchiava grosso modo il 50% del territorio, nessuno dei due gruppi poteva vantare la copertura nazionale, e chiaro che se operi in 50 per coprire il 100, diventa fatale accumulare ritardi su ritardi, poi errori per mancanza del tempo da dedicare alla revisione dei testi, e poi e poi… è stata una valanga. A gara vinta si è scoperto come, per coprire i buchi, ci si sia accontentati di personale declassato: i verbalizzatori, i fonici, i trascrittori, gli stenotipisti erano assimilabili, dopo un mese di contratto, a studenti universitari con lavoretti part-time, ad anonimi che lavoravano a casa loro, che trattavano materia tanto delicata come quella processuale, senza controlli sulla loro adeguatezza a rendere tale servizio, persone senza cognizione di cosa stessero scrivendo. Udienze intere rinviate per mancanza del verbale trascritto; processi in prescrizione e quindi detenuti in libertà; personale sottopagato a causa del budget insufficiente, oltreché ad un continuo viavai di persone all'interno degli Uffici e delle Aule giudiziarie senza alcun giuramento di rito, peraltro richiesto dal contratto.
Addirittura si verificano casi di dipendenti sottopagati o, addirittura, «a nero».
I PRATICANTI PROFESSIONALI - In Italia, per chi termina gli studi universitari e intenda intraprendere la professione forense, o altro, è difficile trovare uno Studio professionale, che lo accolga per l’effettuazione del praticantato dei due anni. Praticantato che serve per poter poi partecipare all’esame di abilitazione. E’ quasi impossibile se non si ha un parente od un amico, che ti sostenga. Tutto ciò per garantire l’omertà sugli abusi del sistema.
La legge e la deontologia prevede la remunerazione e la contribuzione in favore dei Praticanti, che, durante le pratica, proficuamente lavorano per il dominus. In realtà nessun praticante è remunerato, nonostante, spesso, sia sfruttato. Ogni tanto scappa per qualcuno una regalia, ma è in nero. Naturalmente tutte le spese per disbrigare gli oneri di scartoffie e spostarsi da un ufficio ad un altro sono a carico del Praticante. Lo sfruttato tace, speranzoso che prima o poi arriverà il suo turno, meditando rivalsa sui praticanti che verranno.
GLI ASSISTENTI PARLAMENTARI - Neanche in Parlamento si sfugge al lavoro nero. Più del 60% dei portaborse dei deputati lavora senza contratto, a rivelarlo è un servizio della trasmissione di Italia 1, Le Iene, andata in onda venerdì 27 marzo 2009.
Con il governo Prodi (centro sinistra) dei 683 collaboratori accreditati alla Camera, infatti, solo 54 avevano un contratto regolare. I giornalisti de Le Iene hanno intervistato 629 "portaborse" i quali hanno dichiarato di percepire dai 750 ai 900 euro al mese, tutti in nero, e di non avere riconosciuto alcun diritto. E solo alcuni dei deputati intervistati ha ammesso di avere collaboratori a titolo non oneroso (pagati in nero o addirittura non pagati).
Secondo i dati forniti dalla Camera dei Deputati durante il governo Berlusconi (centro destra), su 516 portaborse solo 194 ha un contratto e, quindi, uno stipendio. Gli altri 322, cioè il 62%, non sono legati al loro parlamentare da un contratto, quindi sono senza stipendio, cioè ufficialmente risultano lavorare gratis.
Le Iene hanno intervistato due di questi portaborse che ufficialmente lavorano gratis.
Ecco una portaborse che lavora attualmente al Senato.
Filippo Roma: Che fai nella vita?
Intervistata: Faccio l'assistente parlamentare per un senatore.
Filippo Roma: Da quanti anni?
Intervistata: da cinque anni.
Filippo Roma: Sei in regola?
Intervistata: No, assolutamente no.
Filippo Roma: In che senso?
Intervistata: Nel senso che prendo 700 euro al mese senza contratto, quindi senza versamento di nessun contributo.
Filippo Roma: Tutto in nero?
Intervistata: Tutto in nero.
Filippo Roma: Quante ore lavori al giorno?
Intervistata: Lavoro 9-10 ore al giorno senza nessuna interruzione, quindi senza pausa pranzo e spesso anche nei week-end.
Filippo Roma: E che diritti hai?
Intervistata: Nessuno. Non ho il versamento di contributi, quindi non avrò una pensione, non ho la malattia, non ho le ferie pagate, non posso avere la maternità.
Filippo Roma: Come fai ad entrare al Senato se non hai un contratto?
Intervistata: Abbiamo una badge rilasciato dall'ufficio di Questura richiesto dai senatori. Ogni senatore può avere al massimo due collaboratori, però non viene chiesto se c'è un contratto o meno.
Filippo Roma: il Presidente Marini aveva promesso a suo tempo una "leggina" per risolvere questo problema. Questa "leggina" è stata fatta o no?
Intervistata: No, assolutamente. Non è stato fatto nulla, non è cambiato niente. Continuiamo ad entrare tranquillamente senza che nessuno controlli se abbiamo un contratto o meno.
Filippo Roma: I tuoi colleghi portaborse sono in regola o sono in nero?
Intervistato: Ma, io ne conosco decine e decine. Di tutti questi nessuno ha un contratto.
Ecco le dichiarazioni di un ex collaboratrice parlamentare della Camera dei deputati:
Filippo Roma: Tu che fai nella vita?
Intervistata: Sono disoccupata.
Filippo Roma: E perché?
Intervistata: Perché prima lavoravo come assistente parlamentare alla Camera dei deputati, ma sono stata costretta ad andare via.
Filippo Roma: E come mai?
Intervistata: Perché non ero regolarmente contrattualizzata. Il mio deputato dopo promesse e promesse, non mi aveva comunque mai messo in regola.
Filippo Roma: Per quanto tempo hai lavorato per questo deputato?
Intervistata: Circa cinque mesi.
Filippo Roma: E quanto ti pagava?
Intervistata: 500 euro al mese, in nero ovviamente.
Filippo Roma: Quante ore lavoravi al giorno?
Intervistata: Quando c'era aula entravo alle otto del mattino e non si andava via mai prima delle nove alla sera, mentre il lunedì e il venerdì, che erano giornate un po' più libere diciamo, comunque mi costringeva a stare lì fino alla diciotto del pomeriggio.
Filippo Roma: E tu che diritti avevi?
Intervistata: Nessun diritto, né ferie, né malattie. Infatti, quando chiesi all'Onorevole come comportarmi nel momento in cui fossi stata male, mi disse che quello sarebbe stato un problema.
Inoltre esercitava mobbing nei miei confronti alzando al voce… era anche parecchio maleducato.
Filippo Roma: Il Presidente della Camera Bertinotti ci aveva garantito che sarebbero entrati soltanto gli assistenti con regolare contratto di lavoro.
Intervistata: È falso perché comunque io riuscivo ad accedere all'ufficio dell'Onorevole con un permesso che mi veniva firmato settimanalmente da lui stesso. Lasciavo il mio documento all'ufficio passi, che veniva registrato e mi veniva dato un badge da ospite. In più spesso lui dimenticava, partendo, di firmarmi questo permesso, per cui ero io stessa a firmarlo e ad accedere in questa maniera.
Filippo Roma: I tuoi colleghi portaborse alla Camera, sono in regola o sono in nero?
Intervistata: Per quanto ne so io la maggior parte sono in nero.
Le iene si erano infatti occupate del problema anni fa, con il governo Prodi. Allora risultava che solo alla Camera su 683 portaborse solo 54 avevano un contratto. Qualche parlamentare aveva ammesso il lavoro nero.
Dopo le polemiche sui giornali, Fausto Bertinotti e Franco Marini, allora rispettivamente Presidenti di Camera e Senato, avevano preso un impegno preciso per risolvere questa questione.
Estratto del servizio andato in onda il 12/3/2007 - Franco Marini: Io sono d'accordo con i Questori del Senato di procedere alla definizione di una leggina che risolva questo problema.
Estratto del servizio andato in onda il 12/3/2007 - Fausto Bertinotti: La Camera riconoscerà come collaboratori soltanto coloro che esibiranno, e depositeranno alla Camera, un contratto di lavoro.
Da allora al Senato non hanno preso alcun provvedimento. Alla Camera hanno cambiato il regolamento d'accesso, continuando però a consentire che potessero entrare anche i collaboratori a titolo non oneroso, cioè senza un contratto.
Filippo Roma si è recato, inoltre, dal senatore Antonio Paravia.
Filippo Roma: Molti portaborse sono ancora in nero.
On. Antonio Paravia: Penso proprio di sì.
Filippo Roma: E lei come ha risolto il problema?
On. Antonio Paravia: Io l'ho risolto innanzitutto perché avevo una serie di consulenti disponibili che mi hanno suggerito l'unico contratto possibile che era quello dei collaboratori degli studi professionali. Ho scritto in proposito al Ministero del Lavoro, all'Inps, all'Inail… Mi hanno, diciamo, confortato in questa decisione e quindi ho sottoscritto col mio precedente collaboratore e poi con quello attuale, un contratto di lavoro, ovviamente subordinato, perché il collaboratore parlamentare fa un'attività subordinata e regolata da orari e da quant'altro che stabilisce il parlamentare.
Filippo Roma: Ma il contratto a progetto potrebbe essere adatto per i portaborse?
On. Antonio Paravia: Io credo francamente di no. Credo che il contratto a progetto lo si faccia esclusivamente per pagare meno contributi.
Deputati e senatori avrebbero quindi potuto risolvere il problema adottando diverse soluzioni tra cui quella scelta dal senatore Paravia, cioè attraverso un contratto di lavoro subordinato con tutti i diritti e le garanzie del caso.
Inoltre, la iena Filippo Roma intervista telefonicamente uno dei portaborse dell'On. Santo Versace, che ha un contratto a progetto e ammette: "La cosa su cui io mi focalizzerei è la retribuzione, perché non è corretto che ci sono molti colleghi che sicuramente percepiscono una retribuzione irrisoria".
Filippo Roma: E qual è questa retribuzione?
Portaborse On. Santo Versace: In media può andare da 300, 400, 500, 600, 700. Queste solo le medie di netto mensile che un collaboratore, tra virgolette non propriamente in regola, percepisce.
Filippo Roma: Quindi lei ci dice che l'Onorevole Versace è uno dei pochi che tiene in regola il suo collaboratore.
Portaborse On. Santo Versace: Sicuramente sì, questo è facilmente verificabile. Ripeto, sono uno dei pochi, probabilmente insieme a qualcun altro fortunato, che riceve un trattamento regolare e tutto dichiarato.
Filippo Roma: Perché scusi, gli altri parlamentari che fanno?
Portaborse On. Santo Versace: La stragrande maggioranza dei parlamentari… chi ha un collaboratore sicuramente non dichiara completamente quello che il collaboratore guadagna.
Filippo Roma: Quindi sono in nero, diciamo?
Portaborse On. Santo Versace: Sì, sì, sì ma è rimasto quello… lo avete già fatto in un servizio.
2015. I portaborse: "Siamo sfruttati e umiliati". Intanto l’onorevole fa la cresta sul rimborso. Collaboratori costretti a pagare le bollette. Altri inquadrati come colf per pagare meno contributi. Malgrado i parlamentari ricevano oltre 3500 euro al mese per regolarizzarli. E adesso gli assistenti chiedono di modificare la normativa. Per una maggiore trasparenza nell’uso dei soldi pubblici, scrive Paolo Fantauzzi su “L’Espresso”. Marta tutte le mattine varca l’ingresso della Camera dei deputati. Consegna la sua carta d’identità e riceve il badge di “ospite”. In realtà sarebbe una collaboratrice parlamentare a tutti gli effetti. Una portaborse, insomma. Per l’onorevole con cui lavora scrive discorsi, comunicati e prepara le interrogazioni. Ma lui non ne ha voluto sapere: troppi contributi da pagare. E così Marta si è dovuta piegare e ha firmato un contratto da colf, che prevede invece oneri fiscali e previdenziali bassissimi. Collaboratrice sì, ma familiare. E per andare al lavoro, nel tempio della democrazia, deve sottoporsi quotidianamente all’umiliazione della finta visitatrice accreditata come ospite. Nel luogo in cui si fanno le leggi Marta (il nome è di fantasia) è in buona compagnia: sia alla Camera che al Senato sono diverse le ragazze, tutte laureate come lei, formalmente assunte con un contratto da donna delle pulizie. Eppure i loro datori di lavoro ricevono in busta paga un apposito “rimborso delle spese per l’esercizio del mandato parlamentare” (quindi esentasse) con cui pagare i collaboratori, oltre che gestire l’ufficio e affidare consulenze e ricerche. Non si tratta di spiccioli: 3.690 euro al mese per i deputati e addirittura 4.190 per un senatore. Moltiplicando per il totale degli eletti, fanno 44 milioni l’anno. E il bello è che per avere diritto a queste somme basta rendicontare metà delle spese, il resto viene erogato forfettariamente. Insomma, come nel caso del finanziamento pubblico ai partiti formalmente abolito ma di fatto reintrodotto con un altro nome - si tratta di rimborsi di nome ma non di fatto. Ma proprio per questo l’onorevole con cui lavora Marta si comporta così: perché tutto quello che risparmia, se lo può mettere in tasca. Ed è grazie a questo perverso meccanismo che, nel tempio dove si fanno le leggi, ancora accade che i portaborse siano lavoratori in nero, inquadrati con finti contratti a progetto o pagati con stipendi da fame. Nel 2012 un’inchiesta dell’Espresso fece luce sul modo in cui venivano spesi questi soldi extra e scoprì tanti “furbetti” che facevano la cresta su questi fondi. Oggi non molto sembra essere cambiato, come racconta Andrea (nome di fantasia), che alla soglia dei 40 anni lavora per un parlamentare dell’opposizione a 600 euro al mese: «Pago regolarmente le sue bollette ma mi è anche capitato di andare a ritirare pacchi natalizi che gli avevano spedito. E non è nemmeno il peggio che possa capitare. Un collega è costretto a fare la spesa per la deputata che lo ha assunto e un altro ha perfino presentato delle pratiche di invalidità, come se fosse un’agenzia di servizi». Adesso qualcosa forse si muove. Stanchi di questa situazione, i collaboratori parlamentari si sono riuniti in associazione (Aicp, un’ottantina gli aderenti) e hanno deciso di uscire allo scoperto, chiedendo espressamente una modifica della normativa. Così da tutelare il loro lavoro, spesso indispensabile all’attività legislativa degli onorevoli, e far gestire in maniera trasparente i soldi pubblici. «Non abbiamo modo neppure di sapere quanti siamo esattamente» spiega Francesca Petrini, portavoce dell’Aicp al Senato: «Per far rilasciare ai loro assistenti il badge per l’accesso a Montecitorio o Palazzo Madama, i parlamentari devono depositare i contratti. Ma gli uffici di Questura, formalmente per motivi di privacy, non ci hanno mai voluto dare il numero preciso». Il modello vagheggiato è quello del Parlamento europeo: un contratto con maternità, ferie, contributi previdenziali pagati e livelli retributivi rispettosi delle mansioni svolte. Senza più dover dipendere dalla magnanimità del politico di turno né doversi ridurre a fare i collaboratori familiari, più che parlamentari. La soluzione sarebbe semplice: l’onorevole indica il collaboratore da contrattualizzare ma a pagare sono direttamente Camera e Senato. Risultato: niente più cresta né abusi. Soprattutto, senza spendere un euro in più di quanto avviene nella giungla attuale perché basterebbe prevedere come soglia massima lorda quella già attualmente erogata sotto forma di rimborso. Ci vorrebbe anche poco, fra l’altro, in virtù dell’autonomia che i due rami del Parlamento rivendicano ogni vota che si tratta di toccare qualche privilegio: una delibera degli Uffici di presidenza, come accaduto con la revoca dei vitalizi ai condannati. Del resto l’Italia, al contrario di Francia e Regno Unito, è l’unico Paese dove vige ancora il far west: per gli assistenti non è previsto alcun nessun riconoscimento giuridico, nessuna voce di spesa specifica o vincolata, controlli solo formali e in particolar modo zero trasparenza. Facile immaginare, però, che le resistenze sono fortissime, perché quei soldi extra fanno comodo a tutti: a chi se li mette in tasca così come a chi li versa ai partiti di appartenenza, a corto di risorse col taglio dei contributi pubblici (che finiranno definitivamente nel 2017). Non a caso il Parlamento sta facendo di tutto per non muovere un dito. Nel 2012 a Montecitorio fu approvata una proposta di legge che cercava di mettere ordine, ma a causa delle elezioni anticipate il provvedimento non è stato ratificato dal Senato. Nel 2013, con la nuova legislatura, si è deciso di seguire la strada degli ordini del giorno in occasione dell’approvazione dei bilanci. Ne sono stati approvati addirittura 4 per “disciplinare tempestivamente” la materia ma sono rimasti tutti lettera morta. Stessa scena l’estate scorsa al Senato, dove è stato approvato un generico odg della maggioranza per “valutare ulteriori misure idonee a disciplinare in modo trasparente il rapporto coi collaboratori”. Ma la valutazione evidentemente è ancora in corso…
I MEDICI SPECIALIZZANDI - in Italia vi sono circa trentamila medici specializzandi, che, pur essendo iscritti al rispettivo ordine professionale, vengono considerati a tutti gli effetti degli studenti. Detti medici frequentano le scuole universitarie nei vari reparti per conseguire, alla fine di un lungo percorso, la specializzazione. Durante questi anni essi vengono utilizzati a tutti gli effetti come medici, ma con una retribuzione da studente, senza contributi previdenziali, non tutelati nel periodo di maternità e senza ferie e malattie pagate oltre i 30 giorni annui. Nel nostro Paese, diversamente da tutta Europa, si continua a considerare gli specializzandi come studenti, mentre si sottopongono ai turni di guardia e di servizio, visitano i malati, formulano diagnosi, prescrivono cure, attuano terapie. Insomma fanno i medici seguendo un percorso formativo teorico-pratico, che, alla fine della specializzazione (4-5 anni) dovrebbe costruire la loro professionalità. Spesso i medici specializzandi operano all'interno delle rispettive unità con un carico di lavoro ben superiore a quello previsto dal contratto formativo: 60/70 ore settimanali svolte mediamente a fronte delle 38 previste, svolgendo frequentemente compiti che non competono loro.
I GIORNALISTI - L’inchiesta che non leggerete mai sui giornali è quella che mette in luce alcuni aspetti del giornalismo dei nostri tempi e che tocca molto da vicino, chi più chi meno, tutti gli editori. Tali imprenditori sfruttano i lati deboli di un “sistema” creato da consuetudine e leggi vaghe o sbagliate. Le vittime sono tante; la più importante è la verità.
«Fare il giornalista è sempre meglio che lavorare», si diceva.
In effetti fino agli anni 80 i giornalisti facevano parte di una categoria-casta ben pagata, che deteneva di sicuro le leve del potere. Negli anni 90 le cose iniziano a cambiare, le testate giornalistiche aumentano sempre più, si consolidano le reti televisive e radiofoniche locali. I grandi gruppi investono nel locale sviluppando redazioni regionali. Aumenta la richiesta dei giornalisti e gli iscritti all’albo, in maniera esponenziale. I giornali aumentano la foliazione e c’è bisogno di più lavoratori.
Si crea, all’interno della casta dei giornalisti, una netta separazione: ci sono i giornalisti assunti, (quelli con la propria scrivania, in redazione, con stipendi che superano i 2000 euro, spese, trasferte, straordinario, tredicesima e quant’altro preveda il contratto nazionale).
Ci sono poi i cosiddetti “collaboratori”.
Nel frattempo è intervenuta la legge Biagi che ha flessibilizzato ulteriormente il lavoro dei collaboratori.
In sostanza il giornale che prima si faceva con giornalisti con contratto e diritti, oggi si fa soprattutto con collaboratori, che vengono pagati meno e soprattutto non hanno alcun diritto.
Il problema diventa rilevante perché il lavoro dei giornalisti è strettamente dipendente con i diritti più importanti: il diritto costituzionale ad essere informato correttamente.
Secondo la legge che istituisce l’Ordine e regola la professione giornalistica (3 febbraio 1963 n. 69), «sono professionisti coloro che esercitano in modo esclusivo e continuativo la professione di giornalista. Sono pubblicisti coloro che svolgono attività giornalistica non occasionale e retribuita anche se esercitano altre professioni ed impieghi».
Per poter diventare pubblicisti occorre aver pubblicato un pugno di articoli, essere stati retribuiti in qualche modo (non importa se molto o poco).
Per diventare professionisti, invece, bisogna essere dotati di un contratto da praticante, esercitare continuativamente la pratica giornalistica per almeno 18 mesi e superare l’esame di Stato, che si tiene a Roma due volte l’anno.
Tuttavia poiché degli editori hanno fatto ampio ricorso agli strumenti, che la legge mette a disposizione, sfruttando al massimo la flessibilità, è diventato in sostanza impossibile ottenere i contratti da praticante, poiché per l’azienda molto onerosi.
Così la maggior parte degli “operatori dell’informazione” saranno pubblicisti.
Iniziare a scrivere sul giornale non è poi particolarmente difficile. Diventa ostico se si pretende di essere pagati per il lavoro che si svolge. Chissà perché il giornalismo è l’unico mestiere che si può fare “per hobby”.
Assolutamente impossibile è oggi essere regolarizzati, che significa semplicemente avere un contratto e dunque diritti.
Il ragazzo che si avvicina a questa professione, avendo un’idea romantica della professione, si scontra immediatamente con la realtà che, nella migliore delle ipotesi, è un contratto annuale di collaborazione, o a progetto.
Oggigiorno si fa ampio ricorso a contratti flessibili, che ogni collaboratore esterno deve obbligatoriamente, ma “liberamente” firmare. Tale accordo privato imposto dall’editore ha il solo obiettivo di svincolare l’azienda da ogni sorta di legame con il collaboratore, che rimane dunque esterno all’azienda.
Per la legge formalmente tale lavoratore opera «in proprio» e «senza alcun vincolo di subordinazione».
Il collaboratore lavora «sulla base di singoli incarichi professionali di volta in volta conferiti». Non c’è rimborso spese, non ci sono ferie, riposo o diritti riconosciuti. I contratti imposti dalla parte più forte sono accordi stipulati «nella più ampia libertà e facoltà delle parti».
Seguendo pedissequamente il dettato contrattuale il collaboratore dovrebbe proporre un pezzo al giornale quando ne ha voglia, il giornale lo pubblica se ne ha voglia.
I problemi seri iniziano quando, sfruttando la legge, si riescono a creare interi giornali basandosi esclusivamente, o per la maggior parte sul lavoro dei collaboratori. Con il non trascurabile vantaggio di costare molto poco al “padrone”.
Questo implica di fatto un lavoro quantitativamente e qualitativamente diverso del collaboratore, che dovrà assicurare nella pratica un certo numero di articoli utilizzando un certo numero di ore della sua giornata. Si crea così un certo “obbligo sottinteso” alla prestazione, che si allontana dalla iniziale statuizione e si trasforma di fatto in un rapporto, che dal punto di vista giuridico diventa in molti casi subordinato, che andrebbe regolato dal contratto nazionale dei giornalisti molto, ma molto più costoso per l’editore.
Il vincolo c’è, la dipendenza pure, ma non si vedono a fine mese nella busta paga.
Oggi la percentuale dei collaboratori di un giornale si aggira intorno al 75%. Questo vuol dire che i giornalisti contrattualizzati sono appena il 25% dell’intero organico e di solito hanno compiti di coordinamento, di impaginazione, di verifica dei pezzi.
Per le tv locali le cose non vanno meglio: il ricorso ai giovanissimi di primo pelo (che non pretendono, ma nemmeno assicurano professionalità) è sempre maggiore, così come a società esterne, troppo pochi i veri professionisti con regolare contratto di categoria che possono garantire la qualità del prodotto.
Moltissimi “operatori part time dell’informazione”, per sopravvivere offrono la loro prestazione professionale, creando servizi legati a quello che viene chiamato “ufficio stampa”.
“Fare l’ufficio stampa di” significa veicolare in sostanza il messaggio ai media di politici, enti, aziende, associazioni predisponendo comunicati stampa, organizzando conferenze stampa.
Cosa succede se lo stesso giornalista cura l’ufficio stampa di qualcuno e scrive anche sul giornale o lavora in tv? La risposta più corretta è: dipende.
In gergo si chiama conflitto di interesse e nuoce inevitabilmente alla salute della verità e della obiettività. Infatti, la legge vieta questo genere di commistione esplicitamente.
Peccato che nessuno faccia rispettare la norma.
Chi dovrebbe controllare non sa e non vuole vedere (e poi perché impedire a giornalisti precari di portare alla fine del mese uno stipendio per sopravvivere dignitosamente?)
Così abbiamo giornalisti che scrivono anche su quotidiani molto diffusi o in tv che vengono pagati per fare i portavoce di politici.
Saranno poi naturalmente prontissimi a “far passare” articoli sul giornale per il quale lavorano.
Poi ci sono quelli che sono “pagati dal sindaco”, che li ha “assunti”, e continuano a scrivere sul giornale, magari lavorano in tv o rivestono ruoli organizzativi, per cui possono influire persino sul taglio da dare a certe notizie o a tutte le notizie.
Ma in questo caso di precaria c’è solo la verità, che inevitabilmente ne viene fuori, visto che per eccezioni come queste vengono fuori compensi oltremodo dignitosi.
Sta di fatto che, capito il gioco, i politici (ma anche aziende, enti pubblici e non) hanno fatto a gara ad “accaparrarsi” le prestazioni delle firme più autorevoli (ma non contrattualizzati), per fare a volte anche giochi poco corretti.
Tutto ruota intorno ai “buoni rapporti” e alla simpatia e alle credenziali che il giornalista può giocarsi.
E ci sono giornalisti che lavorano per aziende, enti pubblici, organizzazioni e che di queste scrivono poi sui giornali chiamati ad essere obiettivi creando un numero enorme di conflitti e generando un groviglio di interessi inestricabile.
Casi di questo genere sono migliaia a tutti i livelli, generati proprio da un sistema che non garantisce diritti al giornalista precario.
E se manca la verità e l’obiettività, manca quel controllo che il vero giornalismo è chiamato a fare, scoperchiando quanto andrebbe per missione scoperchiato ed offrire uno strumento importante al cittadino, non fosse altro perché garantito dalla Costituzione.
Certo il nostro sistema offre alcuni rimedi per i giornalisti in cerca di giustizia, che smaniano di uscire dal precariato. E sono sempre più le cause di lavoro in materia. E quale giustizia può arrivare in questi casi, se si incappa nelle maglie di un sistema giudiziario ingolfato?
GLI INSEGNANTI. Da un’inchiesta del “Il Corriere della Sera” si scopre la tacita regola imposta ai docenti. Tutti sanno, ma nessuno denuncia. Insegnare per anni gratuitamente nelle scuole private. È il destino che accomuna centinaia di giovani docenti che lavorano in istituti paritari, senza ricevere compenso o al massimo ottenendo solo una piccola parte del salario. Esiste ormai da anni una regola tacita imposta dai dirigenti di tante scuole private ai docenti freschi di abilitazione all'insegnamento che entrano nel mondo della scuola attraverso il canale degli istituti privati: le scuole paritarie assumono con un regolare contratto i giovani insegnanti permettendo loro di accumulare punteggio e scalare le graduatorie provinciali d'insegnamento (condizione necessaria per lavorare un giorno nella scuola pubblica e ottenere il fatidico posto fisso). I docenti in cambio accettano di lavorare gratuitamente o per poche centinaia di euro nelle scuole private. È raro che un giovane insegnante si ribelli a questa prassi: nelle regioni meridionali il numero dei docenti precari è molto alto e le scuole private non hanno problemi a trovare insegnanti pronti a tutto pur di ottenere un incarico annuale.
Secondo i dati Istat, oltre il 20% delle scuole italiane sono private e dei 9 milioni di studenti italiani almeno uno su dieci frequenta un istituto privato. In Campania le scuole non statali riconosciute sono oltre 2 mila: la maggioranza sono istituti per l'infanzia o elementari, ma nel corso degli ultimi anni si sono moltiplicati i licei e gli istituti tecnici. Con la legge del 2000 le scuole paritarie sono state equiparate in tutto e per tutto alle scuole pubbliche e ricevono sussidi e finanziamenti dallo Stato (la legge di bilancio 2008 ha stanziato oltre 530 milioni di euro a favore delle scuole private per l'anno 2008/2009). Ma, a differenza degli istituti pubblici, le scuole paritarie non assumono gli insegnanti prendendo in considerazione le graduatorie nazionali e provinciali, ma contrattando con il docente compenso e condizioni lavorative. L'unico obbligo che le scuole paritarie hanno è quello di assumere insegnanti che hanno superato il concorso di abilitazione all'insegnamento. Per tanti giovani alle prime armi che vivono nell'Italia meridionale è davvero difficile ottenere una supplenza in una scuola pubblica a causa del gran numero di insegnanti presenti nelle graduatorie provinciali: proprio per questo si rivolgono alle scuole paritarie. Tanti istituti paritari propongono ai docenti il medesimo accordo: punteggio annuale in cambio di lavoro gratis o sottopagato.
M. è una trentenne che da quasi tre anni lavora in un istituto primario paritario che si trova nell'agro nocerino-sarnese, area a metà strada tra Salerno e Napoli. Non vuole che il nome della sua scuola sia divulgato perché teme di perdere il lavoro. «Come tanti giovani insegnanti meridionali per cominciare a lavorare ho dovuto fare una scelta», dichiara. «O emigravo al Nord con la speranza di ottenere qualche supplenza nella scuola pubblica oppure dovevo accettare di restare a casa e lavorare gratis per qualche istituto privato. Grazie alla raccomandazione di un mio parente (la maggioranza delle scuole paritarie locali assumono solo persone di cui si possono fidare) sono stata presentata alla preside di una scuola privata della zona e ho cominciato a insegnare. Già il primo giorno è stata chiara: mi ha detto che a fine mese avrei dovuto dichiarare di aver ricevuto il compenso ordinario firmando la busta paga, ma mi sarebbero stati concessi solo 300 euro. Sono costretta a firmare e a dichiarare il falso perché questa finta retribuzione garantisce il pagamento dei contributi previdenziali, condizione necessaria per l'attribuzione dei 12 punti annuali in graduatoria. I 300 euro mensili mi permettono di pagare la benzina e l'autostrada che ogni giorno prendo per raggiungere la scuola». Durante questi tre anni, M. non ha ottenuto nessun aumento salariale, mentre le ore a scuola sono aumentate e spesso la sua giornata lavorativa si conclude nel tardo pomeriggio. «Io amo insegnare e per me non è un peso passare intere giornate con i bambini. Certo se fossi pagata il giusto sarei più felice. Lavorare gratuitamente nelle scuole private può apparire uno scandalo ai più, ma qui in Campania è la regola. Nell'istituto dove insegno ci sono decine di giovani colleghe che si trovano nella mia stessa condizione. Con la riforma del maestro unico presentata dal ministro Gelmini, per gli insegnanti elementari la situazione è destinata a peggiorare: aumenteranno i maestri senza lavoro e diminuiranno i posti a disposizione. Non mi stupirei se fra qualche anno le scuole paritarie ci chiedessero di offrire un contributo simbolico per lavorare».
C'è chi come S. dopo tanti anni di lavoro gratuito è riuscita a liberarsi dal ricatto del punteggio diventando un'insegnante di ruolo in una scuola pubblica. Oggi lavora in un liceo di Salerno, ma ricorda ancora con rancore e rabbia gli anni di docenza in un famoso istituto privato della città campana: «I primi anni insegnavo solo italiano e latino», dichiara S., che oggi ha poco più di 30 anni. «Poi ho cominciato a fare lezione anche di storia e geografia. Lavoravo fino a 30 ore alla settimana e a fine mese l'istituto mi pagava solo 200 euro. Questo calvario è durato ben sei anni». S. dichiara di non aver mai parlato di compenso con il preside del liceo, ma di aver sempre saputo che se voleva lavorare in quella scuola bisognava accettare la somma esigua che le offrivano: «La cosa più degradante avveniva a fine mese. Entravo nella stanza del preside e fingevo di volerlo salutare. Lui capiva e mi metteva in mano duecento euro. Anche altri insegnanti erano costretti a ripetere questa sceneggiata. Nella scuola vi erano oltre trenta docenti e la maggioranza si trovava nelle mie stesse condizioni. Poi ogni tanto ti chiamavano e ti facevano firmare in blocco le buste paga. Quando hai bisogno di lavoro e denaro fai mille compromessi, alla fine se penso a quegli anni mi sembra di aver rimosso tante cose spiacevoli e tristi». S. racconta che dopo aver passato sei anni in quella scuola privata finalmente tre anni fa ha ricevuto la chiamata per la prima supplenza in una scuola pubblica: «Avevo accumulato un buon punteggio e ho deciso di lasciare l'istituto privato. Dopo varie supplenze sono diventata di ruolo. Il giorno che ho ricevuto il primo stipendio regolare è stato indimenticabile». Tuttavia S. non rinnega il passato: «Mi dispiace dirlo, ma senza i compromessi accettati nella scuola privata, oggi non lavorerei in un istituto pubblico. Chi sfrutta giovani docenti dovrebbe vergognarsi. Ma ciò che più sconcerta è il fatto che dai sindacati agli insegnanti di ruolo tutti accettino questa realtà facendo finta di niente».
G. ha 27 anni ed è alla sua seconda esperienza in una scuola privata del salernitano. L'anno scorso ha insegnato in un istituto alberghiero del Cilento, mentre quest'anno è stato chiamato come docente di materie letterarie in un liceo sociopsicopedagogico di Salerno. Non riceve alcun compenso (lavora 18 ore alla settimana), ma naturalmente ogni mese firma la sua busta paga. «L'anno scorso ho lavorato l'intero anno e poi non mi hanno più chiamato. Non ricevevo nemmeno un euro come adesso, ma dovevo fare quasi 50 km in macchina per arrivare a scuola». G. non è ancora abilitato e ricevere questo incarico gli sembra una benedizione: «Prima di me numerosi professori, visto che la mia scuola non paga nulla, hanno rifiutato l'incarico. Sono stato fortunato: ho presentato la domanda e, dopo aver visto che accettavo le loro condizioni, mi hanno subito assunto. Mi rendo conto che non è il massimo, ma questo lavoro non remunerato mi permetterà, dopo un anno e mezzo di sacrifici, di fare il concorso all'abilitazione. Se riesco a superarlo, potrò cambiare scuola e almeno comincerò a guadagnare qualcosa». Il segretario provinciale Uil-scuola, Gerardo Pirone, conosce bene la situazione drammatica delle scuole private, ma afferma: «Sono nel sindacato scolastico di Salerno dal 1987 e in oltre vent'anni ho ricevuto solo due denunce da parte d'insegnanti di scuole private che si lamentavano della retribuzione offerta dai loro datori di lavoro. In queste due occasioni ci siamo mossi e siamo riusciti a ottenere dalle scuole che gli insegnanti ricevessero quello che gli spettava. Il nostro compito è far rispettare i contratti, ma se nessuno denuncia, noi non possiamo fare molto».
I LAVORATORI SUBORDINATI - Su un totale di oltre 2 milioni e 850mila lavoratori irregolari presenti nel nostro paese, oltre 1 milione e 352mila (47,4%) sono donne. In pratica 1 lavoratore su 2 fra quelli sommersi, è donna. Emerge da uno studio presentato a Roma dall’Isfol, su «Le donne nel lavoro sommerso». In valori assoluti, la quota più consistente di donne che lavorano in condizioni irregolari o illegali si trova al Nord (oltre 685mila). Al Centro le irregolari sono circa 287mila, al Sud 380mila.
Ciò significa che al Nord, sul totale dei circa 1 milione e 100mila lavoratori irregolari presenti nell’area, più di 6 su 10 sono donne. Per quanto riguarda i settori di attività, l’occupazione irregolare femminile si concentra nel settore dei servizi, dove sono attive circa 1 milione e 150mila donne senza contratto o con un contratto disapplicato. Le donne rappresentano il 57% dell’occupazione irregolare del settore dei servizi. Molto inferiore la quota di donne sommerse nell’industria (85mila) e nell’agricoltura (120mila).
L'Isfol ha anche presentato una ricerca dal titolo «Dimensione di genere e lavoro sommerso. Indagine sulla partecipazione femminile al lavoro nero e irregolare», curata dall’area Sistemi Locali e Integrazione delle Politiche. L’indagine ha coinvolto quasi mille donne, italiane e straniere che lavorano in 3 città (Torino, Roma, Bari) con un contratto di lavoro irregolare o in nero. L’indagine ha messo l’accento su alcune caratteristiche dell’occupazione irregolare femminile. La tipologia più diffusa di irregolarità è l’assenza di contratto scritto che interessa quasi due terzi delle lavoratrici (64%) seguita da parziale o totale disapplicazione delle norme contrattuali (28%).
Altro dato significativo è quello relativo al titolo di studio. Il 36% delle intervistate afferma di possedere un diploma di scuola media superiore, il 13% un titolo universitario, l’8% la qualifica professionale, il 31% la licenza media e il 6% quella elementare.
Un dato che, secondo l’Isfol, evidenzia come «il titolo di studio non costituisca uno strumento di salvaguardia rispetto all’accettazione di un lavoro nero».
Un dato in comune fra lavoro regolare e lavoro sommerso, sembra essere quello dell’accesso. L’Isfol, infatti, sottolinea come anche i lavoratori irregolari trovino un’occupazione attraverso il passaparola e le conoscenze. Il 65% di chi lavora senza contratto ha avuto accesso al lavoro grazie alla rete informale di relazioni personali e amicali, mentre solo il 10% ha avuto una proposta diretta e solo il 4% si è trovato sommerso dopo aver risposto a un annuncio per un lavoro regolare.
Le lavoratrici in nero tendono a considerare la loro condizione difficilmente mutabile. Infatti il 42% degli intervistati ha dichiarato che continuerà a rimanere nell’irregolarità, finché non troverà un impiego regolare, mentre il 31% lo farà finché non troverà un lavoro regolare e a condizioni più vantaggiose. Tra coloro che dichiarano di non essere in cerca di altra occupazione è significativo che il 17% si ritiene soddisfatto dell’attuale occupazione e questo soprattutto per il bisogno di una certa continuità del reddito che, paradossalmente, il lavoro irregolare comunque assicura.
Inoltre la permanenza nell’irregolarità, dice l’Isfol, diminuisce la fiducia nelle proprie capacità. Sulla durata del lavoro irregolare, il 67% delle intervistate dichiara di svolgere un lavoro sommerso da più di un anno. Una conferma, secondo gli autori dell’indagine, che il lavoro irregolare non ha una natura occasionale né, tantomeno, di breve durata. Per le donne siamo, cioè, di fronte a un lavoro irregolare con caratteri di stabilità, di sicurezza e di continuità nel tempo maggiori rispetto al lavoro regolare e più per le straniere che non per le italiane. Le lavoratrici straniere, infatti, svolgono prevalentemente attività di cura presso famiglie come colf e badanti, con prospettive di maggiori stabilità e continuità rispetto alle italiane, impegnate in altri settori di attività. In ogni caso, conclude l’Isfol, siamo di fronte a una domanda strutturale e permanente presente nel nostro mercato del lavoro.
E, per le donne, il sommerso non è una condizione transitoria, ma anzi un lavoro permanente, tanto che l’Isfol parla di «trappola del sommerso» nella quale rischiano di rimanere impigliate soprattutto le lavoratrici con minori risorse personali.
CAPORALATO IN AGRICOLTURA - Il 90% degli intervistati non ha il contratto di lavoro, oltre il 60% vive in strutture abbandonate, senza servizi igienici, senza acqua corrente e senza riscaldamento. Sono dati e informazioni mutuati da "Una stagione all'inferno", il rapporto-denuncia di Medici Senza Frontiere sulle drammatiche condizioni, umane e sanitarie, dei lavoratori stagionali immigrati impiegati in agricoltura nelle campagne del meridione d’Italia.
Per intenderci, quelli per cui teoricamente dal sito “interno.it” i datori di lavoro avrebbero potuto chiedere la regolarizzazione. La realtà è invece tutt'altra che 'regolare' e sono invece praticate nei loro riguardi vessazioni e violenze indicibili. Chi si ribella viene punito in modo esemplare dal "caporale" che lo ha reclutato, anche per "educare" gli altri.
CAPORALATO NELL'EDILIZIA - Per i disperati il salario arriva a bordo di una station-wagon o di un Fiorino. Chi offre il lavoro a domicilio ha gli abiti che profumano di fresco e due telefonini cellulari per mano. Modi sbrigativi, poca voglia di parlare. Ma non sbagliatevi: non si tratta di un imprenditore o di un selezionatore di personale. Lui è un caporale del nord dell’Italia.
Vite sospese su di un'impalcatura, senza caschi di protezione, senza imbracature e soprattutto senza una vera assunzione con relativa assicurazione. Sono le cinque e mezza del mattino. Il buio e il freddo invernale sembrano indurire ulteriormente i loro volti. Fumano. In mano una busta con il pranzo. E aspettano. Poi arriva lui, il caporale. C'è chi lo conosce già e c'è chi invece deve chiedere dieci ore di lavoro, quasi come se stesse elemosinando. Il caporale carica la “merce umana” sulla vettura e parte. Chi avrà fortuna tornerà a casa con una misera paga giornaliera. Altrimenti diventerà un articolo di cronaca, da leggere l'indomani sul quotidiano cittadino.
CAPORALATO E COOPERATIVE - Immaginiamo una cooperativa con quasi un centinaio di soci lavoratori che eseguono "ufficialmente" lavori di facchinaggio nelle imprese delle lavorazione delle carni e dei salumi, ma nella realtà eseguono lavori del ciclo produttivo. Viene naturale pensare ad impresa con una struttura che sostiene una sede, se non prestigiosa almeno dignitosa con computer telefoni e fax, un apparato di dirigenti con impiegati e segretarie. Ci possiamo immaginare, insomma, di avere di fronte un’impresa a tutti gli effetti.
Niente di tutto questo. La cooperativa di cui sopra, che possiamo benissimo definire “falsa cooperativa”, è un esempio che può rappresentare benissimo altre imprese del genere. Queste false cooperative spesso hanno formalmente la loro sede legale presso l’abitazione del presidente, a volte un semplice prestanome extracomunitario, oppure, per dare una parvenza di legalità, presso un polveroso ufficio di pochi metri quadrati che funge da ripostiglio, in cui manca la strumentazione minima per qualsiasi impresa: fax, telefono e computer, oltre che il personale che vi lavori dentro.
Gli unici recapiti di queste imprese fantasma, in maggioranza false cooperative, sono anonimi cellulari. Un esercito di false cooperative che gestiscono lavoratori stranieri grazie al prezioso lavoro di consulenti, o commercialisti, delle imprese committenti. Imprese committenti che attraverso pseudo appalti di servizi, ne utilizzano la manodopera.
Cooperative che cambiano nome repentinamente, per sfuggire ai controlli. Consulenti che spesso sono gli stessi consulenti dell’impresa committente. Consulenti che si sono creati in famiglia la loro cooperativa di facchinaggio per somministrare manodopera nelle aziende dei loro clienti. Ma non è tutto! Associazioni degli imprenditori che di giorno predicano bene contro l’illegalità del lavoro, ma di notte razzolano male perché, attraverso società terze direttamente controllate, gestiscono decine di false cooperative.
Al peggio però non c’è mai fine: imprese committenti che si costruiscono la propria cooperativa in casa, con presidente un familiare dell’amministratore delegato dell’impresa committente, oppure lo stesso amministratore delegato della cooperativa che è lo stesso dell’azienda committente.
LE DONNE IMMIGRATE PER I GIORNALISTI? MEGLIO SCHIAVE CHE PUTTANE.
Processo alla stampa. Un nuovo capitolo riempie il saggio “MEDIOPOLI. DISINFORMAZIONE. CENSURA ED OMERTA’”. Il libro di Antonio Giangrande.
La cronaca è fatta di paradossi. Noi avulsi dalla realtà, manipolati dalla tv e dai giornali, non ce ne accorgiamo. I paradossi sono la mia fonte di ispirazione e di questo voglio rendere conto.
In Italia dove tutto è meretricio, qualche ipocrita fa finta di scandalizzarsi sull’esercizio della professione più antica del mondo. L’unica dove non si ha bisogno di abilitazione con esame di Stato per render tutti uniformi. In quell’ambito la differenza paga.
Si parla di sfruttamento della prostituzione per chi, spesso, anziché favorire, aiuta le prostitute a dare quel che dagli albori del tempo le donne danno: amore. Si tace invece della riduzione in schiavitù delle badanti immigrate rinchiuse in molte case italiane. Case che, più che focolare domestico, sono un vero e proprio inferno ad uso e consumo di familiari indegni che abbandonano all’ingrato destino degli immigrati i loro cari incapaci di intendere, volere od agire.
Di questo come di tante altre manchevolezze dei media petulanti e permalosi si parla nel saggio “Mediopoli. Disinformazione. Censura ed omertà”. E’ da venti anni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti all’economia ed alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it.
Un esempio. Una domenica mattina di luglio, dopo una gara podistica a Galatone in provincia di Lecce, nel ritorno in auto lungo la strada Avetrana-Nardò insieme a mio figlio ed un altro amico intravediamo sedute sotto il solleone su quelle sedie in plastica sul ciglio della strada due figure familiari: le nostre vicine di casa. Non ci abbiamo mai parlato, se non quando alla consuetudinaria passeggiata serale di uno dei miei cani una di loro disse: che bello è un chow chow! Ciò me li rese simpatiche, perché chi ama gli animali sono miei amici.
Poi poverette sono diventate oggetto di cronaca. I loro nomi non c’erano. Ma sapevo trattarsi di loro.
“I carabinieri di Avetrana hanno denunciato un 31enne incensurato poiché sorpreso mentre prelevava due giovani rumene dal loro domicilio di Avetrana per condurle a bordo della sua autovettura, nella vicina località balneare di Torre Lapillo del comune di Porto Cesareo (Le), dove le donne esercitavano la prostituzione - scrivevano il 22 agosto 2014 “La Voce di Manduria” e “Manduria Oggi” - I militari, che da diversi giorni monitoravano gli spostamenti dell’uomo, ieri mattina, dopo aver pedinato a bordo di auto civetta, lungo tutto l’itinerario che dal comune di Avetrana conduce alla località balneare salentina, decidevano di intervenire bloccando l’autovettura con a bordo le due giovani ragazze ed il loro presunto protettore, proprio nel punto in cui le donne quotidianamente esercitavano il meretricio. Accompagnati in caserma, le rumene di 22 anni sono state solo identificare mentre l’uomo è stato denunciato in stato di libertà alla Procura della Repubblica di Taranto, con l’accusa di favoreggiamento della prostituzione. Lo stesso è stato inoltre destinatario del foglio di via obbligatorio dal comune di Avetrana per la durata di tre anni.”
Tutto a caratteri cubitali, come se fosse scoppiato il mondo. E’ normale che succeda questo in una Italia bigotta e ipocrita, se addirittura i tassisti sono condannati per aver accompagnato le lucciole sul loro posto di lavoro e ciò diventa notizia da pubblicare. Le stesse ragazze erano state oggetto di cronaca anche precedentemente con un altro accompagnatore.
“Ai domiciliari un 50enne di Gallipoli per favoreggiamento della prostituzione. Le prostitute, che vivono ad Avetrana, venivano accompagnati lungo la strada per Nardò,” scriveva ancora il 18 luglio 2014 “Manduria Oggi”.
“Accompagnava le prostitute sulla Nardò-Avetrana in cambio di denaro. Ai domiciliari 50enne gallipolino”, scriveva il 17 luglio 2014 il “Paese Nuovo”.
“I militari della Stazione di Nardò hanno oggi tratto in arresto, in flagranza di reato, MEGA Giuseppe, 50enne di Gallipoli, per il reato di favoreggiamento della prostituzione. Nell’ambito dei controlli alle ragazze che prestano attività di meretricio lungo la provinciale che collega Nardò ad Avetrana, i Carabinieri di Nardò, alcune settimane orsono, avevano notato degli strani movimenti di una Opel Corsa di colore grigio. Pensando potesse trattarsi non di un cliente ma di uno sfruttatore o comunque di un soggetto che favorisse la prostituzione, i militari hanno iniziato una serie di servizi di osservazione che hanno permesso di appurare che il MEGA, con la propria autovettura, accompagnava sul luogo del meretricio diverse ragazze, perlopiù di etnia bulgara e rumena. I servizi svolti dai militari di Nardò hanno permesso di appurare che quotidianamente il MEGA, partendo da Gallipoli, si recava in Avetrana, dove le prostitute vivevano e ne accompagnava alcune presso la provinciale Nardò – Avetrana, lasciandole lì a svolgere il loro “lavoro” non prima però di aver offerto loro la colazione in un bar situato lungo la strada. Per cui, avendo cristallizzato questa situazione di palese favoreggiamento dell’attività di prostituzione, nella mattinata odierna i militari di Nardò, dopo aver seguito il MEGA dalla sua abitazione e averlo visto prendere le due prostitute, lo hanno fermato nell’atto di lasciarle lungo la strada e lo hanno portato in caserma assieme alle due ragazze risultate essere di nazionalità rumena. Queste ultime hanno confermato di svolgere l’attività di prostituzione e di pagare il MEGA per i “passaggi” che offre loro. Viste le risultanze investigative, il MEGA è stato tratto in arresto per favoreggiamento della prostituzione e, su disposizione del P.M. di turno, dott. Massimiliano CARDUCCI, è stato posto ai domiciliari presso la sua abitazione”.
Come si evince dal tono e dalla esposizione dei fatti, trattasi palesemente di una velina dei carabinieri, riportata pari pari e ristampata dai giornali. Non ci meravigliamo del fatto che in Italia i giornalisti scodinzolino ai magistrati ed alle forze dell’ordine. E’ un do ut des, sennò come fanno i cronisti ad avere le veline o le notizie riservate e segrete.
Fatto sta che le povere ragazze appiedate, (senza auto e/o patente) proprio affianco al dr Antonio Giangrande dovevano abitare? Parafrasi prestata da “Zio Michele” in relazione al ritrovamento del telefonino: (proprio lo zio lo doveva trovare….). Antonio Giangrande personaggio noto ai naviganti web perché non si fa mai “i cazzi suoi”. E proprio a me medesimo chiedo con domanda retorica: perché in Italia i solerti informatori delegati non fanno menzione dei proprietari delle abitazioni affittate alle meretrici? Anche lì si trae vantaggio. I soldi dell’affitto non sono frutto delle marchette? Silenzio anche sui vegliardi, beati fruitori delle grazie delle fanciulle, così come il coinvolgimento degli autisti degli autobus di linea usati dalle ragazze quando i gentili accompagnatori non sono disponibili.
Un fatto è certo: le ragazze all’istante sono state sbattute fuori di casa dal padrone intimorito.
Che fossero prostitute non si poteva intuire, tenuto conto che il disinibito abbigliamento era identico a quello portato dalle loro italiche coetanee. Lo stesso disinibito uso del sesso è identico a quello delle loro italiche coetanee. Forse anche più riservato rispetto all’uso che molte italiane ne fanno. Le cronache spesso parlano di spudorate kermesse sessuali in spiaggia o nelle piazze o vie di paesi o città. Ma questo non fa scandalo. Come non fa scandalo il meretricio esercitato dalle nostre casalinghe in tempo di crisi. Si sa, lo fanno in casa loro e nessuno li può cacciare, nè si fanno accompagnare. Oltre tutto il loro mestiere era usato dalle ragazze rumene per mangiare, a differenza di altre angeliche creature che quel mestiere lo usano per far carriere nelle più disparate professioni. In modo innocente è la giustifica per gli ipocriti. Giusto per saltar la fila dei meritevoli, come si fa alla posta. E magari le furbe arrampicatrici sociali sono poi quelle che decidono chi è puttana e chi no!
Questa mia dissertazione non è l’apologia del reato della prostituzione, ma è l’intento di dimostrare sociologicamente come la stampa tratta alcuni atteggiamenti illegali in modo diseguale, ignorandoli, e di fatto facendoli passare per regolari.
Quando il diavolo ci mette la coda. Fatto sta che dirimpettai a casa non ne ho. C’è la scuola elementare. Ma dall’altro lato della mia abitazione c’è un vecchio che non ci sta più con la testa. Lo dimostrano le aggressioni gratuite a me ed alla mia famiglia ogni volta che metto fuori il naso dalla mia porta e le querele senza esito che ne sono conseguite. Però ad Avetrana il TSO è riservato solo per “Zio Michele Misseri”, sia mai che venga creduto sulla innocenza di Cosima e Sabrina. Dicevo. Queste aggressioni sono situazione che hanno generato una forte situazione di stalking che limita i nostri movimenti. Bene. Il signore in questione (dico quello, ma intendo la maggior parte dei nostri genitori ormai inutili alla bisogna tanto da non meritare più la nostra amorevole assistenza) ha da sempre delle badanti rumene, che bontà loro cercano quanto prima di scappare. Delle badanti immigrate nessuno mai ne parla, né tanto meno le forze dell’ordine hanno operato le opportune verifiche, nonostante siano intervenuti per le mie chiamate ed abbiano verificato che quel vecchietto le poverette le menava, così come spesso tentava degli approcci sessuali.
Rumene anche loro, come le meretrici. Ma poverette non sono puttane e di loro nessuno ne parla. In tutta Italia queste schiave del terzo millennio sono pagate 500 o 600 euro al mese a nero e per 24 ore continuative, tenuto conto del fatto che sono badanti di gente incapace di intendere, volere od agire. Sono 17 euro al giorno. 70 centesimi di euro all’ora. Altro che caporalato. A queste condizioni non mi meraviglio nel vedere loro rovistare nei bidoni dell’immondizia. A dormire, poi, non se ne parla, in quanto il signore, di giorno dorme e di notte si lamenta ad alta voce, per mantenere sveglia la badante e tutto il vicinato. Il paradosso è che il signore e la sua famiglia sono comunisti sfegatati da sempre, pronti, a loro dire, nel difendere i diritti del proletariato ed ad espropriare la proprietà altrui. Inoltre non amano gli animali. Ed è tutto dire.
Le badanti, purtroppo non sono puttane, ma semplici schiave del terzo millennio, e quindi non meritevoli di attenzione mediatica.
Delle schiave nelle italiche case nessuno ne parla. Perché gli ipocriti italiani son fatti così. Invece dalle alle meretrici. Zoccole sì, ma persone libere e dispensatrici di benessere. Se poi puttane non lo sono affatto, le donne lo diventano con l’attacco mediatico e gossipparo.
SIAMO TUTTI PUTTANE.
Pro porno e pro prostituzione: ecco il femminismo di Annalisa Chirico in "Siamo tutti puttane", scrive “Libero Quotidiano”. "Siamo tutti puttane". Un titolo spiazzante quello che Annalisa Chirico, giornalista e compagna di Chicco Testa, politico di sinistra e dirigente industriale italiano, ha deciso di dare al suo ultimo libro. Ma già se si legge il sotto titolo ci si potrebbe fare un idea del concetto che sta alla base della lettura: "Contro la dittatura del politicamente corretto". Un libro che ha come bersaglio i perbenisti di sinistra e le femministe alla "Se non ora quando". La Chirico rivendica il sacrosanto diritto di farsi strada nella vita come ognuno può e vuole, e quindi, anche diventando una puttana. Un femminismo pro sesso, pro porno e pro prostituzione, sia per le donne sia per i maschi. Un dibattito a suo avviso che "ha diviso il Paese tra un popolo di sinistra moralmente irreprensibile e uno di destra, gaglioffo e sciocco". L'ispirazione dal processo Ruby - In un'intervista a Formiche.net del 7 maggio, la stessa giornalista alla domanda "È Berlusconi ad averla ispirata?", non risponde esplicitamente, ma il riferimento è chiaro. "Ho seguito da cronista il processo Ruby - afferma Chirico - dove nel tribunale di Milano, non di Riad o della Kabul talebana, trentatré ragazze sono state vivisezionate nella loro vita privata in qualità di semplici testimoni, senza alcun capo di imputazione a loro carico. Quando una democrazia smette di distinguere tra peccato e reato, si getta al macero l'abc della civiltà giuridica". Dunque nulla di male.
Tutto per apparire - Le famose "Olgettine", da Via Olgettina, le ragazze indagate dalla Procura di Milano per il caso Ruby, non hanno, a suo parere, la colpa di aver "conosciuto Silvio Berlusconi, il tycoon d'Italia, il capo di un impero mediatico, il presidente del Consiglio italiano". Un'occasione ghiotta di farsi notare e farsi apprezzare, per entrare nel mondo dell'apparire, della tv e dell'estetica da vendere. "E' stato un pornoprocesso, un rito a elevato tasso moraleggiante, oltre che erotico".
La donna può decidere come utilizzare il proprio corpo - Poi dal porno si passa all'erotico e a quelle foto di Paola Bacchiddu, il capo comunicazione della lista L’Altra Europa con Tsipras, che qualche giorno fa ha pubblicato una foto in bikini suscitando clamore. "Mi è sembrata la trovata goliardica di una ragazza intraprendente. In Italia ne sono nate le solite polemiche perché va di moda l’idea boldriniana che il corpo vada nascosto in un sudario di pietra. Per cui i concorsi di bellezza che si fanno in tutto il mondo da noi andrebbero proibiti. La donna invece è un soggetto che decide come usare il proprio corpo, sono le pseudofemministe a rappresentarla come un oggetto". Poi attacca Barbara Spinelli, candida la paladina delle donne e della guerra contro la mercificazione del loro corpo per Tsipras. "E' un esemplare del livello di oscurantismo che caratterizza il femminismo nel nostro Paese. Sono le donne che strumentalizzano le altre donne. La campagna talebanfemminista 'Se non ora quando' aveva l’unico obiettivo politico di colpire l’allora presidente Berlusconi, ci ha fatto credere che il suo indomito fallo fosse il principale assillo delle donne italiane". Infine la frecciatina a Renzi incalzata dalla giornalista di Formiche.net che gli chiede se la convince "il femminismo alla Renzi": "Non esiste un femminismo alla Renzi - ha risposto la Chirico - ma una strategia comunicativa renziana. il premier ha capito che la sinistra del presunto primato morale era perdente. Perciò si è abilmente smarcato dalla linea dei suoi predecessori. E li ha rottamati".
"Siamo tutti puttane" di Annalisa Chirico è la risposta al fanatismo del "se non ora quando", scrive Dimitri Buffa su “Clandestino Web”. - “Siamo innanzitutto puttane, in senso figurato, perché cerchiamo tutti, ciascuno come può, di districarci nel complicato universo dell’esistente, vogliamo arrabattarci, sgomitiamo per conquistare il nostro posto nel mondo”. La “summa philosphica” dell’Annalisa Chirico pensiero, da brava giornalista, l’interessata la mette nel primissimo capitolo introduttivo del proprio libro “Siamo tutti puttane”, da poco uscito per i Grilli di Marsilio editore anche in e-book. E nelle prime parole articolate in concetto. Non si tratta quindi tanto di una semplice difesa d’ufficio o di fiducia del mestiere più antico del mondo, che la Chirico da buona radicale comunque svolge, quanto di una presa d’atto dell’impazzimento di un intero paese, quello italiano, dove, complice e alibi il contraccolpo di venti anni di berlusconismo nel bene e nel male, la sinistra ha dismesso i panni del progressismo sessuale e si è incartata in una sorta di talebanismo di ritorno. In perfetta malafede intellettuale e ideologica, peraltro. Il libro in questione, ben scritto e ancora meglio documentato, ricorda una per una tutte le conquiste degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, dal divorzio all’aborto passando per il travagliato brevetto della pillola anti concezionale, ed è l’ideale risposta all’isterico e ideologico (e disonesto intellettualmente) movimento coagulatosi intorno alla piazza di quelle mezze esaltate del “se non ora quando”. I riferimenti e le punzecchiature contro le vetero-femministe e le discepole vestali di oggi in seno ai vari movimenti tipo 5 stelle e dintorni, compresi i popoli viola et similaria, fatti da Annalisa Chirico (che cita Plutarco e Marcuse, Madonna e Cleopatra, Pasolini e tutti i mostri sacri dell’immaginario catto-comunista di ieri e di oggi con la stessa nonchalance e la stessa precisione) sono tutti alle conquiste del passato rinnegate nel presente. Secondo la logica del fine che giustifica i mezzi. Il fine era fare fuori mediaticamente e politicamente Berlusconi come adescatore di minorenni e sfruttatore seriale di prostituzione minorile, il mezzo era il neo moralismo para talebano di quelle che negli anni ’60 andavano in piazza a dire che “l’utero è mio e me lo gestisco io”. Ovviamente dietro un fenomeno politico, pensato dai maschi della sinistra estremista e forcaiola e fatto interpretare alle femmine del branco, c’è anche un completo “misunderstanding” dell’afflato libertario della cosiddetta rivoluzione sessuale. Giustamente la Chirico parla di una sorta di classismo verso le veline e le “olgettine” che vengono dipinte come “puttane” e come “dementi” solo perché la danno all’uomo ricco e non al dirigente Rai o al direttore di un grande quotidiano o al filosofo di grido. Entrambe le tipologie, la puttana oca e quella intellettuale o pseudo tale hanno invece pari dignità secondo il Chirico pensiero. Avendo il comune fine di valorizzare il proprio corpo per promuoversi socialmente, cosa che la Chirico ritiene non solo giusta ma anche necessaria. Però le prime non hanno diritto di cittadinanza nei salotti buoni della sinistra e della borghesia e le seconde invece sì. Per non parlare della prostituzione, anche al maschile, del proprio cervello che forse è ben più squallida di quella animale del sesso. Insomma non si sa se è peggio adulare un imbecille o andarci a letto. Il pamphlet di Annalisa Chirico farà sicuramente “incazzare” tante portavoce del nulla che hanno visto esaurire la loro carica propulsiva di utili idiote dopo la condanna di Berlusconi in primo grado per prostituzione minorile. Reato commesso, se mai è stato commesso, con una “ragazzina” che dimostrava molto più dei propri anni cui nessuno in un dato contesto avrebbe chiesto i documenti prima di scoparci. E “ictu oculi” non si poteva considerare una povera creatura corrotta da un orco cattivo. Sarebbe come venire arrestati per avere fatto a botte, prendendocele di santa ragione, allo stadio con un cristo alto uno e novanta, tatuato e violento, tipo Genny ‘a carogna, salvo venire a sapere che, dopo averti fatto a pezzi, ti denuncia per sovrappiù in quanto “minorenne”. Anche questa eccessiva iper protettività verso i minori senza giudicare caso per caso è purtroppo una delle trovate legislativo ideologiche del centro destra che per la legge del contrappasso sono state applicate nella maniera più plateale proprio contro chi si era battuto per trasformare in legge simili obbrobri. Da Cosimo Mele all’episodio che recentemente ha coinvolto il marito di Alessandra Mussolini la storia recente è tutta una grottesca antologia di questa aneddottica da contrappasso dantesco. Ma questo non significa che siano gli intellettuali, e le vetero femministe di cui sopra, autorizzati, oggi, a mettere in mostra la massima disonestà intellettuale possibile nel deprecare le abitudini sessuali e lo stile di vita di un ex cumenda della politica e della tv. Intendiamoci: nel libro della Chirico il caso di Berlusconi è citato al massimo un paio di volte. E sarebbe stato ipocrita da parte sua, giornalista di “Panorama”, se non lo avesse fatto. Ma la citazione, come quelle da Plutarco, da Shakespeare e da Francis Bacon, è finalizzata ad esorcizzare il candore che lei definisce “apollineo” di quelle che in tv si battono il petto contro la mercificazione del corpo femminile dopo essere state in gioventù convinte baldracche. Oltre alle Lidia Ravera e alla presidente della Camera Laura Boldrini, gli esempi negativi di donne di sinistra che trattano le cosiddette olgettine come dementi oltre che come prostitute, il discorso si allarga a quei maschi compagni di partito da considerare i mandanti di questo neo puritanesimo di sinistra. Coloro che adesso utilizzano il moralismo di ritorno, sospetto anche un po’ di acidità da menopausa, delle femministe di ieri per farne un’arma di battaglia politica. Sia come sia, il libro di Annalisa Chirico non va raccontato o recensito, ma semplicemente letto. Perché è esattamente il genere di libro che ognuno di noi avrebbe voluto scrivere e fare materializzare in pochi minuti nelle proprie mani oltre che nella propria mente ogni qual volta ha preso la parola ad “Annozero” negli ultimi quattro anni una come Giulia Innocenzi, cinica interprete e sobillatrice dell’invidia, anche “del pene”, di tante ragazze di sinistra che non sopportavano (o fingevano di non sopportare) la narrazione della vita sessuale dei potenti, specie se di centro destra. Nella fiera dell’ipocrisia che abbiamo dovuto sorbirci negli ultimi tre o quattro anni dal caso Noemi in poi, queste rare perle di saggezza e di analisi storico filosofica sono sempre le benvenute. Dopo avere dovuto sopportare il fatto che l’ex attrice di teatro Veronica Lario fosse eretta a monumento nazionale vivente, insieme alla sua mentore Maria Latella, del politically correct made in piazza Indipendenza (oggi in largo Fochetti) questa soddisfazione ci era proprio dovuta.
“Siamo tutti puttane”, Chirico: nel mio libro smaschero un’Italia ostaggio del moralismo, scrive Monica Gasbarri su “Clandestino Web” – “Siamo tutti puttane”, edito da Marsilio, e nelle librerie dal 7 maggio, è un pamphlet che si scaglia contro l’ipocrisia e contro il perbenismo imperanti nel nostro paese e parte da un assunto che, in tempi di “politically correct”, farà storcere il naso a quanti ancora si aggrappano all’immagine edulcorata della natura umana: l’interesse personale è democratico. Titolo d’effetto, spirito caustico e provocatorio, il libro racchiude al suo interno un’anima politica e una più pop come racconta l’autrice a Data24News. “Non è certo il memoire di una prostituta a fine carriera” ci spiega Annalisa Chirico, giovanissima giornalista di Panorama, “è un libro sul sacrosanto diritto di farsi strada nella vita come meglio si può, nei limiti del lecito ovviamente. Se non ci trovassimo in un paese perbenista come il nostro non ci sarebbe bisogno del mio libro per ribadire quello che dovrebbe suonare persino scontato: ognuno ha diritto di mettersi in gioco e di valorizzare le doti che ha. Ma l’Italia è afflitta da un moralismo asfissiante”.
Di chi è la colpa?
«Una grossa colpa va imputata, in questi ultimi venti anni, alla sinistra che ha spostato lo scontro dal terreno della politica a quello della morale. Di fronte alla “variabile imprevista”, Berlusconi, la sinistra si e’ illusa di potersi affermare non per quello che faceva ma per quello che pensava di essere: moralmente superiore».
Le responsabilità sono tutte a sinistra?
«La sinistra ci ha raccontato una storia che non si reggeva in piedi, in realtà il primato morale della sinistra non esiste. La destra non ha mai vantato un primato morale. Berlusconi ha anzi esibito e ostentato il suo essere un uomo come tutti gli uomini, entrando così in empatia con l’elettore. Berlusconi non si è mai proposto come Grande Pedagogo, la sinistra sì. Pensi a D’Alema che ci ha raccontato per anni che la sinistra rappresentava “la parte migliore del Paese”. Nel libro intitolo un capitolo al “bunga bunga di Pasolini”, con giovani persino “più minorenni” della minorenne anagrafica Ruby. Mi soffermo sulle sregolatezze sessuali di un’altra icona gauchiste come J F Kennedy. Il fronte cosiddetto progressista è passato dagli slogan sessantottini a favore della liberazione sessuale all’ipocrisia dei giorni nostri, ai bigottismi bindiani e ai diktat boldriniani. Per cui l’ardore e la sfrontatezza di alcune giovani ragazze (che cercano di farsi strada nella vita e che non commettono reati, ma hanno l’unica colpa di frequentare un uomo potente) diventano il perno di una campagna mediatica che è tutta politica. Le donne sono ridotte a strumento, pretesto, vittima sacrificale. Il bersaglio vero è Berlusconi».
Il suo è un saggio rigorosamente politico.
«Io incarno il mio libro che non può non essere politico. Esalto figure come Cleopatra e Madonna, donne fatali che non subiscono ma dominano il desiderio sessuale maschile. Per le femministe americane degli anni ’80 Madonna è una traditrice del genere femminile perché sbaraglia il femminismo mainstream che considera i maschi un nemico».
Ecco introdotto dunque un tema centrale, quello del femminismo. Quanto spazio ha nel suo testo?
«Io sono un’appassionata del genere, anche per motivi accademici. Sono cultrice di studi di genere alla Luiss. Nel libro metto a confronto femminismi diversi, italiani e stranieri. Dalle seguaci di Diotima alle libertarie americane meno conosciute in Italia».
In quale si riconosce di più?
«Nel femminismo della seconda ondata, quello delle grandi battaglie sui diritti civili, per questioni concreti, per guadagnare maggiori spazi di autonomia. Oggi, invece, il femminismo è corporativo, avviluppato su se stesso, tutto concentrato in una battaglia intellettualistica, quasi metafisica. E’ un femminismo antimodernista».
Non condivide, dunque, le idee delle italiane di “Se non ora quando”…
«Il movimento “Se non ora quando” ha delle basi filosofiche assolutamente fragili e ha strumentalizzato la battaglia delle donne per fini politici. Come se l’assillo principale delle donne italiane fosse l’ “indomito fallo del premier”. Invece le battaglie da portare avanti sono ben altre: i tetti di cristallo nel mondo del lavoro, la salute riproduttiva, la fecondazione assistita, l’accesso alla contraccezione, tematiche di cui si parla troppo poco in Italia».
Certo che, con un titolo del genere, il suo libro è destinato a generare polemiche…
«Ben vengano. La polemica è un esercizio retorico ed intellettuale finissimo. Non è da tutti. Nel libro rivendico il diritto di ciascuno a “darla” per interesse e convenienza, ma parlo anche di prostituzione in senso stretto. Spiego per esempio come funziona in Austria e in Germania, dove il sesso a pagamento è regolato e i sex worker pagano le tasse come ogni altro lavoratore. In Italia invece le prostitute e i prostituti non possono perché non é riconosciuta loro alcuna dignità professionale».
Da giornalista quanto è difficile rompere questo tabù del politicamente corretto?
«L’Italia è afflitta dal moralismo e dal conformismo imperante. E’ difficile prendere posizioni contrarie a quello che è il pensiero dominante. In questo devo dire che hanno un grande ruolo i mezzi di comunicazione, ma anche la classe dirigente, non solo politica. C’è un completo appiattimento. Io non ho difficoltà a definirmi una puttana, tra le puttane e i puttani d’Italia. Cerco di coltivare le relazioni personali che possono essermi utili: l’interesse personale è democratico e muove il mondo».
Tornando all’attualità, cosa pensa della polemica delle ultime ore sulla Bacchiddu? Una questione che sembra calzare a pennello con i temi del suo libro…
«Si tratta delle solite polemiche italiane sul nulla. Quella della candidata di Tsipras è una trovata efficace sul piano della comunicazione. Il sesso e la seduzione del corpo femminile fanno parte della natura. Il corpo è parte di me non meno delle mie doti intellettuali, e questo vale per tutti. Quindi brava la Bacchiddu, della quale altrimenti non sapremmo nemmeno il nome. Giocare con il proprio corpo non è disdicevole. Evviva chi osa. Siamo in Italia, non a Riad. Teniamolo a mente».
“Siamo tutti puttane”, Chirico: nel mio libro smaschero un’Italia ostaggio del moralismo. Siamo tutti puttane non è un coito interrotto. La Rai è l’alcova del puttanizio, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. Se Michele Emiliano è in grado di spiegare il ‘Siamo tutti puttane’ alle femministe imbestialite, vuol dire che di questo libro c’era un gran bisogno. Dovevate vederlo lo scorso sabato a Lecce, il sindaco di Bari, quasi estasiato, spiegava e declinava il messaggio profondo del ‘Siamo tutti puttane’. Ne tesseva l’elogio e l’imponenza, ‘non sono stato abbastanza puttana’, ha ammesso senza celare un filo di rammarico. E va bene che gli economisti austriaci non vanno di moda in Italia, e va bene che il panegirico dello scambio e del compromesso non va di moda in tempi di guerra grillin-guerreggiata. E va bene il negoziare mai, e va bene che il titolo è un’efficace provocazione, e va bene che ‘puttane’ è una parola che non si confà alle educande ben insediate nel circolo elitario dell’intellighenzia all’amatriciana. Va bene tutto. Ma davvero qualcuno può pensare che il ‘Siamo tutti puttane’ equivalga ad un coito interrotto? In molte hanno replicato con altisonanti ed elaborati ‘Io non l’ho mai data a nessuno. Puttana sarai tu’ o ancora ‘Facci sapere a chi l’hai data ché gliela diamo pure noi’. Fantastico. Mi perdonerete se di costoro non mi occuperò, per il bene loro prima che per il mio. Non compilerò alcuna lista, anche perché sarebbe lunga assai e alle stesse eleganti signore potrebbe appalesarsi una bruciante verità: se nessuno te l’ha mai chiesta, un motivo c’è. Passiamo invece alle critiche da prendere sul serio, quelle che meritano. E’ vero, finora ‘Siamo tutti puttane’ è stato trattato con i guanti dalla stampa di centrodestra, da Panorama (la testata per cui lavoro) al Giornale a Libero, il Foglio ha dedicato un’intera pagina, Alessandra Di Pietro ne ha scritto su La Stampa Top News (come del libro che ‘onora le battaglie femministe negli ultimi due secoli’). Si sono moltiplicate le interviste sui siti d’informazione online, gli inviti a presentarlo di qua e di là (farò del mio meglio). Dagospia lo ha esaltato come solo Dago può. Seguiranno ulteriori recensioni, e mi auguro che le voci dissonanti afferrino la penna più acuminata per sfornare argomenti su argomenti contrari alle mie tesi. Del resto, quando abbiamo programmato il lancio de libro, ho richiesto per prima cosa alla casa editrice Marsilio che una copia venisse spedita a ciascuna delle talebanfemministe citate nel mio libro. Le Concite, le Spinelli, le Comencini, tutte. Per la prima presentazione del libro a Lecce ho invitato la presidente della Camera Laura Boldrini che dopo qualche giorno di meditazione ha declinato l’invito. Dunque l’autrice di Siamo tutti puttane non si sottrae al confronto. Lo agogna. Sul blog di IoDonna ho letto il post di Marina Terragni. Lei non è citata nel mio libro. Le critiche sono mosse in via preventiva, ossia pregiudiziale, dacché la stessa ammette candidamente di non aver letto il saggio. Spero che almeno dopo la pubblicazione del post Terragni si sia decisa a leggerlo. Ad ogni modo a lei qualche risposta desidero darla. Io non dico che per riuscire nella vita devi darla a qualcuno. Anche perché sono così brava che per scrivere una simile minchiata mi sarei fatta bastare 3 pagine, non 286. E’ questa una banalizzazione che non fa onore a chi se la intesta. Io dico che, se nel gioco a dadi con la sorte tu scegli di scambiare qualcosa di te con l’altro, hai il sacrosanto diritto di farlo. Avviene ad ogni latitudine, è sempre accaduto e sempre accadrà. Si chiama libertà. E Terragni, che è donna di mondo, lo sa bene. A questo punto si possono muovere due obiezioni. La prima riguarda la prostituzione fisica, che ci infastidisce e ci indigna assai più di quella intellettuale, verso la quale siamo sorprendentemente benevolenti. La seconda, più insinuante, riguarda il merito. Qui la questione è semplice. In ambito privato, se uno assume un incapace, maschio o femmina, solo per meriti extraprofessionali, quel datore di lavoro se ne assume la responsabilità e il costo. Nel pubblico invece esistono meccanismi di selezione basati sul merito e sulla competizione tra le persone. Ma se il sistema scelto consente l’arbitrio della selezione, è inevitabile che si aprirà la gara a chi offre di più, chi con le cosce, chi con le mazzette, chi con la forza. Criminalizzare colui o colei che c’ha provato significa guardare il dito e non la luna. Significa cercare il capro espiatorio per non cambiare nulla. Così hanno agito le talebanfemministe quando hanno puntato il dito contro le Minetti di turno, contro le vergini del Drago, contro le sfrontate che accettano inviti galanti, come se il problema fosse un batter di ciglia. Io difendo il batter di ciglia. Piuttosto, basta con questa idea che se sei un po’ gnocca devi essere per forza scema. La gradevolezza fisica si accompagna spesso alle rinomate doti intellettuali. Non esiste una secca alternativa, per fortuna. Pensate ai giornalisti televisivi, di solito non sono dei cessi. Qualche eccezione, a dire il vero, c’è, ma ai piani alti della Rai, che è il luogo del puttanizio per antonomasia. Quando sei in sella da un numero imprecisato di decenni e vai in video a dispetto di ogni legge di gravità, vuol dire che hai puttaneggiato ad arte prima, costruendo relazioni e simmetrie che ti hanno permesso di fare quel che fai. E sai farlo meravigliosamente, sia chiaro, perché anche il merito abbisogna di puttanizio.
IL FALLIMENTO DEI CENTRI PER L'IMPIEGO.
Il sospetto già lo avevamo, ma ora arriva anche la certificazione dell'Eurostat. Nel Belpaese tre persone su quattro, quando devono cercare un posto di lavoro, bussano alla porta di amici, parenti o sindacati: qualcuno che possa dargli una mano. Insomma, qualcosa di molto simile al nepotismo, almeno nei casi in cui ci si rivolge ad amici e parenti nella speranza, magari, di avere accesso a una corsi preferenziale, una spintarella che possa lubrificare gli ingranaggi del mercato del lavoro. Il 76,9% degli italiani sceglie questa strada, una quota superiore alla media del continente (68,9%) e doppia rispetto a Germania (40,2%), Belgio (36,8%), Finlandia (34,8%). Tanti ma, secondo i dati diffusi dell'istituto di statistiche, non siamo neppure sul podio. Fanno peggio di noi Irlanda e Spagna e sul primo gradino del podio troneggia la Grecia. Atene stravince: il 92,2 per cento di chi cerca un posto di lavoro non prova nemmeno a seguire i metodi tradizionali.
Ufficio di collocamento, annunci su giornali e siti web o invio a raffica di curriculum? Neanche per sogno: si suona il campanello di amici e parenti già sistemati. Tutta una questione di metodo e di curriculum. In Europa si presta molta attenzione alla diffusione delle proprie conoscenze e del percorso di studi, in Italia no. Emerge anche questo dai dati dell'Eurostat: solo il 63,9 per cento dei nostri connazionali pubblicizza le proprie credenziali. Perché? Per sfiducia nei confronti degli annunci, innanzitutto, ma anche perché molto spesso non si è disposti ad accettare lavori che richiedano una precisa prestazione. E anche in questa abitudine siamo nella parte bassa della classifica europea.
Non solo chi cerca lavoro, ma anche chi offre lavoro si affida alla conoscenza diretta.
Altro che curriculum 6 aziende su 10 assumono in base alle conoscenze. Secondo l'ultima indagine Excelsior di Unioncamere e ministero del Lavoro, nel 2010 6 aziende su 10 hanno usato il canale della "conoscenza diretta e segnalazioni personali". Infatti, per assumere, le imprese preferiscono affidarsi a conoscenze personali piuttosto che a curriculum, società di lavoro interinale o centri per l'impiego. Secondo l'indagine, nel 2010 oltre sei imprese su dieci per la selezione del personale hanno fatto ricorso al cosiddetto canale informale, "conoscenza diretta in primo luogo e segnalazioni personali", attraverso conoscenti o fornitori. Soprattutto, rispetto all'anno precedente l'utilizzo del canale informale ha registrato un forte aumento, passando al 61,1% dal 49,7% del 2009. "Il clima economico ancora incerto spinge evidentemente le imprese alla massima cautela nella selezione di nuovi candidati: la conoscenza diretta, magari avvenuta nell'ambito di un precedente periodo di lavoro o di stage, e il rapporto di fiducia da essa scaturito diventano quindi premianti ai fini dell'assunzione", si legge nel rapporto. Nel 2010 è anche cresciuto il ricorso da parte delle imprese a strumenti interni, ovvero alle banche dati costruite dalle stesse aziende sulla base dei curriculum raccolti nel tempo (al 24,6% dal 21,5%), ma la quota resta limitata a poco più di due imprese su dieci. Perdono invece terreno le modalità di reclutamento "tradizionali" (annunci su quotidiani e riviste specializzate), preferite solo nel 2,3% dei casi. Sono pochissime e in diminuzione anche le aziende che utilizzano intermediatori istituzionali, come società di lavoro interinale, di selezione (5,7%) e quelle che si affidano a operatori istituzionali, ovvero ai centri per l'impiego (2,9%). Ma se si guarda alla dimensione d'impresa il quadro cambia, dopo i 50 dipendenti le aziende iniziano a fare più affidamento sulle loro banche dati interne e a basarsi sul curriculum. Ecco che, quindi, al crescere della dimensione d'impresa il rapporto diretto del candidato con il datore di lavoro o tramite conoscenti perde importanza. Basti pensare che nelle realtà con più di 500 dipendenti il ricorso al canale informale scende al 10,2%, mentre l'utilizzo di strumenti interni sale al 48,9%.
Ad accorgersi della loro esistenza non sono i 642 mila italiani con meno di 25 anni che stanno disperatamente cercando un lavoro. Né quel milione e 706 mila disoccupati di lungo periodo, cioè a spasso da almeno un anno, censiti dall’Istat, scrive Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera”. Che i centri per l’impiego pubblici siano vivi e vegeti ne hanno contezza soprattutto i loro 9.865 dipendenti nonché il Tesoro, che secondo un rapporto dell’ufficio studi Confartigianato ogni anno tira fuori in media per mantenere quelle strutture la bellezza di 464 milioni di euro: somma per tre quarti destinata agli stipendi. Ovvero una cifra, per capirci, nettamente superiore al gettito dell’Imu sui terreni agricoli che sta facendo ammattire il governo Letta, alla disperata ricerca delle coperture per eliminare quella tassa. Qualcuno potrà sbandierare i dati Eurostat, per i quali la nostra spesa pubblica per i servizi sul mercato del lavoro tocca appena lo 0,03 per cento del Prodotto interno lordo, meno di un decimo rispetto a Germania e Regno Unito, un ottavo della Francia e un terzo della Spagna. Il problema, però, sono i risultati. E i numeri, come quasi sempre, rappresentano una sentenza inappellabile. Negli ultimi sette anni hanno trovato occupazione attraverso i centri per l’impiego mediamente non più di 35.183 persone ogni dodici mesi. Questo significa che ciascun posto di lavoro è costato oltre 13 mila euro. L’equivalente di un’annualità del reddito di cittadinanza proposto dal Movimento 5 Stelle. Con tanto di tredicesima. Tanto basterebbe per decretare un’immediata e radicale riforma. Vedremo ora quella cui sta lavorando il ministro Enrico Giovannini, già sapendo che è destinata a rincorrere il mostro galoppante della disoccupazione. L’Ocse ha appena diffuso dati raccapriccianti sullo stato del nostro mercato del lavoro. A settembre i giovani italiani di età compresa fra 15 e 24 anni in cerca di occupazione hanno raggiunto la spaventosa quota del 40,4 per cento, con un aumento di oltre 5 punti e mezzo rispetto all’anno precedente. E quel che è più grave, il tasso dei giovani senza lavoro risulta superiore di oltre due terzi rispetto alla media dei paesi sviluppati, pari nello stesso mese al 24,1 per cento. Tutto questo mentre la cancrena della disoccupazione dilaga senza particolari riguardi nemmeno per l’età. Dice la Confartigianato nel suo studio basato su dati dell’Unioncamere e del ministero del Lavoro che il numero di quanti erano rimasti a casa da oltre un anno alla fine di giugno scorso risultava superiore di 911 mila unità a quello del giugno 2008, quando la crisi è esplosa. L’aumento è del 114,6 per cento: complice anche una crescita da 400 mila a 810 mila dei disoccupati di lungo periodo under 35. Il che fa apparire ancora più avvilenti certe performance degli uffici incaricati di mettere una pezza a una situazione così pesante. Tanto avvilenti che il nuovo presidente dell’organizzazione degli artigiani, Giorgio Merletti, scongiura il governo di astenersi anche soltanto dal pensare «di attribuire altri soldi per uno strumento che esce bocciato dall’esame dei dati, perché errare è umano ma perseverare diabolico. Piuttosto, destiniamo le risorse straordinarie disponibili dal primo gennaio 2014 ai giovani che vanno in azienda a fare tirocini o stage, anziché impiegarle per creare altri posti inutili in quegli uffici pubblici». Basta dire che soltanto il 2,2 per cento delle imprese italiane gestisce le assunzioni passando attraverso i centri per l’impiego. Una quota infinitesima, di poco superiore rispetto a quella degli annunci sulla stampa specializzata (1,5 per cento), e decisamente inferiore a quella appannaggio di società di lavoro interinale e internet (5,2), alle banche dati aziendali (24,4) e soprattutto alle segnalazioni di conoscenti e fornitori che rappresentano il canale in assoluto più utilizzato con il 63,9 per cento del totale. Per giunta, negli ultimi tre anni il peso di questi centri è drammaticamente crollato. Dal 2010 a oggi è passato infatti dal 6,3 a poco più del 2 per cento. Al Sud, poi, è letteralmente inesistente: appena l’1,1 per cento delle imprese si rivolge alle strutture pubbliche. In Calabria siamo all’1 per cento. In Campania, Basilicata e Sicilia addirittura allo 0,8. Calcolando il rapporto fra le 31.030 aziende che nel 2013 hanno utilizzato i centri e gli 8.781 dipendenti di quelle strutture pubbliche materialmente destinati alle attività di inserimento lavorativo, la Confartigianato arriva alla conclusione che ciascun addetto segue un’azienda ogni tre mesi e dodici giorni. Gestendo allo stesso ritmo da lumaca l’accesso al lavoro dei disoccupati: uno a trimestre. E con una spesa che è andata crescendo in modo abnorme pure rispetto agli altri apparati pubblici. Negli anni compresi fra il 2005 e il 2011 il costo per il personale dei servizi per l’impiego è lievitato da 309 a 384,5 milioni di euro, con una progressione irresistibile: +24,4 per cento. Il triplo dell’incremento messo a segno dalle retribuzioni degli impiegati pubblici, salite invece complessivamente nello stesso periodo dell’8,3 per cento. Per non parlare della differenza enorme di produttività fra gli uffici del Sud e quelli del resto del Paese. Gli addetti nelle regioni meridionali sono ben 5.093, contro 2.099 del Centro, 1.503 del Nord Est e 1.336 del Nord Ovest, dove peraltro si riscontra il miglior livello di efficienza: se soltanto tutte le strutture funzionassero così, argomenta il rapporto degli artigiani, «per gestire gli utenti di tutti i centri italiani sarebbero necessarie 3.692 unità di meno». Con un risparmio quantificabile in 141 milioni di euro, cinque volte lo stanziamento al fondo per l’infanzia previsto dalla legge di stabilità.
Centri per l'impiego, che flop. A rischio anche i fondi europei. Solo il 3 per cento di chi si rivolge ai servizi degli ex uffici di collocamento trova lavoro. E mentre i disoccupati restano, le strutture pubbliche si ingrossano di dipendenti. Il caso estremo è la Sicilia, con 1582 funzionari in 65 strutture. Ecco cosa dice l'ultimo rapporto del ministero del Lavoro. E perché preoccupa Bruxelles, scrive Gloria Riva su “L’Espresso”. Dovrebbero essere il trampolino di ri-lancio dell'occupazione, moli sicuri da cui far ripartire la vita, e la carriera, di milioni di disoccupati. Ma gli attuali centri per l'impiego, gli ex uffici di collocamento, sono diventati piuttosto dei carrozzoni di inamovibili: soprattutto al Sud, le agenzie locali sostenute con i soldi delle regioni sembrano servire più ad ingrossare le fila dei dipendenti pubblici che non ad agganciare nuove aziende disposte ad assumere. I risultati (scadenti) si vedono: solo il tre per cento degli iscritti riesce a trovare un posto grazie ai loro servizi. L'ultima – ed ennesima – critica al sistema dei centri per l'impiego arriva dal ministero del Lavoro, che ha condotto un'indagine approfondita per preparare l'arrivo dei fondi europei destinati al contrasto della disoccupazione giovanile, quelli dell'atteso progetto “European Youth Guarantee”. Per spronare gli inattivi, ma soprattutto i “neet”, i ragazzi che non studiano e non lavorano, a rimettersi in gioco, i tecnici del governo avevano intenzione di puntare molto sulle agenzie pubbliche per l'impiego, diffuse e radicate su tutto il territorio. Ma dopo aver concluso il monitoraggio, anche i burocrati di Roma si sono resi conto che i denari europei rischierebbero di finire sprecati, se inviati a pioggia nel sistema già traballante dei centri. La causa del ritardo non è certo imputabile alla mancanza di forze. Le persone all'opera per trovare opportunità a chi è senza lavoro non mancano. Anzi, abbondano: il caso estremo è la Sicilia, che per i suoi 65 uffici ha 1582 dipendenti. In tutta Italia sono 8713: significa che uno su cinque lavora sull'isola. E il rapporto fra funzionari e richieste è completamente sbilanciato: gli oltre 1500 impiegati siciliani si devono infatti occupare di 181mila iscritti al servizio. In Lombardia invece 323mila disoccupati sono serviti in tutto da 577 addetti: significa che un dipendente dei centri per il collocamento lombardi aiuta da solo più di due persone al giorno, mentre nella regione di Rosario Crocetta il funzionario medio ne aiuta uno ogni due giorni. Non è tutto. L’indagine diffusa dal ministero rivela anche che la Sicilia ha la quota più alta di personale dedicato al back-office (51 per cento rispetto a una media nazionale del 29), ovvero di dipendenti che non lavorano a diretto contatto con i disoccupati in difficoltà. E quale sia il loro compito, in un centro che serve proprio a favorire il rapporto tra chi cerca e offre lavoro, non è chiaro. A pesare, sull'efficienza delle strutture isolane, c'è infine anche il basso livello di scolarizzazione: solo il nove per cento degli impiegati ha una laurea. Quello siciliano è indubbiamente un caso estremo, ma la situazione non è molto diversa in altre zone. Ne sa qualcosa Romano Benini, esperto di servizi e consulente del ministero del Lavoro, che a proposito di disoccupazione ha da poco scritto il libro “Nella tela del ragno”: «Il sistema dei centri per l’impiego è talmente debole e sbrindellato che difficilmente riuscirà a dare qualche buon risultato», spiega Benini. Questo perché ogni regione adotta una propria politica a favore dell’occupazione e non tutte funzionano. Esistono realtà locali, come Trentino Alto Adige, Lombardia, Piemonte, Toscana, Liguria, Veneto ed Emilia Romagna che si sono date da fare con progetti e iniziative a favore della formazione e della ricerca attiva di nuove occasioni di lavoro, mentre nel resto d’Italia regna l’immobilismo. Attraverso la European Youth Guarantee in Italia arriveranno 1,4 miliardi di fondi per far ripartire l’occupazione: «In realtà solo 300 milioni saranno destinati ai servizi per l’impiego nel 2014, che si sommeranno ai 500 milioni che già ci mette lo Stato», commenta Benini. Circa 700 milioni in tutto, dunque, mentre la Germania spende 9 miliardi per evitare che i tedeschi restino nel limbo dell’inoccupazione, senza un lavoro e senza un percorso di formazione per cercare una nuova via d’accesso al mondo del lavoro. Eppure, secondo Benini, non è solo di una questione di quattrini, ma si tratta soprattutto di una reale mancanza di servizi: «Al Sud i soldi ci sono, ma mancano gli strumenti. Non c’è un progetto serio per rilanciare l’occupazione e neppure un piano per sollecitare le persone a cercare un nuovo impiego, magari anche sperimentando nuove strade, come quella del tirocinio, dell’apprendistato, o dell’auto imprenditorialità», sostiene l'esperto: «I servizi sono affidati a personale vecchio e con scarso livello di scolarizzazione. I risultati sono ovviamente deludenti e si rischia di aggravare ulteriormente la situazione in quelle aree già depresse, come il Sud Italia, dove i centri per l’impiego fanno acqua». Così, anche se i fondi europei sono in viaggio per l’Italia, potrebbero restare inutilizzati, perché se le Regioni non saranno in grado di dimostrare di saperli usare bene, l’Europa se li riprenderà. Ecco perché alcune amministrazioni, come quella del Lazio, anziché affidarsi ai suoi 600 operatori, sta pensando di rivolgersi alle più efficienti agenzie esterne.
Com'è difficile cercare lavoro. Centri per l'impiego sovraffollati, che non riescono a dare spazio agli under30. Servizi che funzionano solo a macchia di leopardo. Pochissimi fondi per chi si occupa di loro. Ecco il labirinto che devono affrontare i ragazzi alla ricerca di un posto fisso, scrive Maurizio Maggi su “L’Espresso.” Hanno collaborato Paolo Fantauzzi, Fabio Lepore e Michele Sasso. «If the kids are united, they will never be divided». Se i ragazzi sono uniti, non saranno mai divisi. Il ritmatissimo titolo-slogan del brano degli Sham 69, ruvido gruppo punk inglese di fine anni Settanta, non s’è realizzato. Soprattutto per i “kids” italiani. Che nel sempre più frustrante tentativo di trovare un posto di lavoro, ancorché sottopagato e precario, sono infatti molto divisi. «Innanzi tutto dai propri coetanei europei: nel 2011, per il personale e le strutture dei servizi per il lavoro l’Italia ha speso 500 milioni di euro, contro i 5,5 miliardi dell’Inghilterra e i quasi 9 della Germania. E sono assai divisi pure tra di loro, dal momento che sull’argomento il sistema italiano è incredibilmente segmentato, perché con la legge sul federalismo lo Stato ha decentrato la politica del lavoro alle Regioni, che a loro volta la fanno gestire alle Province», spiega Romano Benini, docente alla Link Campus University, esperto di politiche del lavoro e membro della “Struttura di missione”, cioè l’organismo che deve definire in questi giorni le linee guida con cui l’Italia attuerà, dal primo gennaio 2014, l’attesa “Youth Guarantee”, la Garanzia Giovani. Un’iniziativa europea che destina fondi per 1,5 miliardi di euro, nel biennio 2014-2015, per qualificare i giovani che da almeno quattro mesi non studiano e non lavorano. La coperta italiana dei fondi da spendere a scopo sociale non è stata sufficiente a tutti i bisogni. E da quando è esplosa la crisi, nel 2008, circa 8-9 miliardi sono stati destinati a strumenti, come la cassa integrazione in deroga, per aiutare gli adulti messi ai margini del mercato del lavoro. E ai giovani sono rimaste le briciole. Nel 2011, per formazione, incentivi e sgravi l’Italia ha messo sul piatto 4,8 miliardi. La Francia 16, la Germania 11,6, la Spagna 7,1. Nel mirino della critica finiscono spesso i Cpi, i Centri provinciali per l’impiego: sono circa 700 (sedi secondarie comprese) e dovrebbero essere uno dei loro primi punti riferimento. Secondo la rilevazione Unioncamere-ministero del Lavoro, nel 2012 appena il 2,9 per cento delle imprese italiane li ha utilizzati per selezionare le persone da assumere (contro il 6,3 per cento del 2010). Alcuni sono efficienti e il personale (spesso affiancato da quello delle agenzie private che vincono appalti per rimpolpare l’insufficiente numero di addetti) prova a fare le nozze con i fichi secchi, altri viaggiano a scartamento ridotto. A Milano, per esempio, gli sportelli sono aperti 30 ore alla settimana; nel potentino si scende a 19 ore nel capoluogo e a 12 ore in provincia (a Villa d’Agri). A Roma, la media è di 21,5 ore. E il Cpi di Roma Tre, sull’Ostiense, che eroga servizi solo per universitari e laureati, è aperto per tre ore e mezza tre giorni alla settimana. Sommersi da disoccupati e immigrati, sono impegnati soprattutto in attività amministrative e per i giovani fanno pochino. Non frequenta i Cpi, per esempio, la stragrande maggioranza dei cosiddetti “Neet”, acronimo inglese che sta per “Not engaged in education, employment or traning”, ragazzi che non studiano, non lavorano e non si preparano a lavorare. I Neet, in Italia, sono quasi 1,2 milioni, un terzo dei quali concentrato in Campania e Sicilia. «Il sistema dei Cpi è un carrozzone costoso che in Italia è ancora centrale e che ha pochi strumenti», sostiene Fabio Costantini di Randstad, una delle multinazionali attive nelle agenzie private per il lavoro, che aggiunge: «Sulla carta, incentivi, finanziamenti e sgravi pro-giovani ce ne sono, ma orientarsi è difficile per le aziende, figuriamoci per loro». Le diverse declinazioni locali di strumenti come l’apprendistato e il tirocinio ne depotenziano l’efficacia sul campo: «Alcune regioni hanno lavorato meglio di altre, ma l’Italia deve assolutamente riprendere a fare una politica nazionale per l’occupazione giovanile. La Garanzia Giovani è l’occasione per farlo», dice ancora Benini. Per cominciare il gioco dell’oca all’inseguimento di un’opportunità lavorativa i ragazzi devono sapere quali “doti” possono far “ingolosire” le imprese, alla ricerca di modi per pagare meno la forza lavoro. Gli incentivi sono classificabili in tre categorie: quelli fiscali (sconti sui contributi), quelli retributivi (l’azienda paga meno il lavoratore) e quelli legati alla condizione del lavoratore, che può “ricadere” in varie fattispecie (disoccupato di lunga durata, lavoratore svantaggiato). Per orizzontarsi, dicono gli esperti, si può partire dai siti Web degli uffici del lavoro provinciali e delle associazioni imprenditoriali; oppure recarsi personalmente ai Centri per l’impiego (pubblici) o in una delle 2.700 agenzie per il lavoro private. In molte aree del Sud, per esempio, le agenzie private sono scarsamente presenti. Non investono nelle zone in cui è assai difficile fornire lavoratori in affitto e, Lombardia a parte, non c’è interessante remunerazione quando si fornisce a un’azienda una persona da assumere. Benini si augura che, nell’applicazione della Garanzia Giovani, il concetto del pagare chi procura un lavoro vero, pubblico o privato che sia, emerga con forza. Peraltro, lo stesso esperto mette in guardia dalle facili generalizzazioni. E sventola una tabella per dimostrare che, nel piazzare lavoratori, non ci sia molta differenza tra pubblico e privati. Il foglietto che ha in mano riguarda i risultati della Dote Unica Lavoro della regione Lombardia nei primi sei mesi del 2013, destinata a ricollocare cassintegrati in deroga. La Lombardia è l’unica a equiparare pubblico e privato, remunerando i Cpi e le agenzie private “a risultato”, sia per i cosiddetti “procedimenti” (presa in carico, orientamento, talvolta avvio a corsi di formazione) sia per la vera e propria ricollocazione, quindi l’assunzione dell’ex disoccupato. Ebbene, l’analisi dice che i migliori risultati li ha ottenuti la Provincia di Bergamo (quindi, un organismo pubblico), che ha ricollocato 51 dei 143 lavoratori di cui si è occupata (il 35,66 per cento), seguita da Umana (privata) con il 29,37 per cento e dalla Workopp (privata) con il 28,78. Percentuali basse, eppure le migliori di un sistema – quello lombardo – giudicato tra i più efficienti. «Se si tiene conto che la platea è quella dei cassintegrati, non sempre troppo disposti a trovare nuove motivazioni, il risultato non è da disprezzare», sostiene Stefano Zanaboni, presidente di Workopp, società fondata nel 2005 dagli enti di formazione della Lega Coop. Ma che aria tira, davvero, nei Centri per l’impiego? Al Cpi del Lorenteggio, a Milano, visitato da “l’Espresso”, di under 30 se ne vedono pochini, anche se con l’inasprirsi della crisi economica i frequentatori sono cresciuti in maniera esponenziale. «Da una media di 170 persone al giorno, siamo saliti a 500, con picchi di 600-700», spiega un’impiegata, «e tutti i nostri sforzi sono concentrati sulla riqualificazione di chi ha perso il posto di lavoro». «Siete tutti sulla stessa barca e a meno che non partano progetti specifici non ci sono corsie preferenziali per i giovani», ammette l’addetta al giornalista che si finge in cerca di lavoro. Unico consiglio pratico: «Tieni d’occhio le offerte sul sito Web della Provincia». Vanessa, la sola under 30 incontrata in due ore d’attesa, è venuta perché per fare uno stage in una scuola di teatro le hanno chiesto di iscriversi alle liste del Cpi. In uno dei più grandi Cpi di Roma, quello di Primavalle, alle 9 del mattino fuori c’è già la folla. Ma dentro non succede niente di buono. Anzi, non succede proprio niente, perché quasi tutti gli addetti sono a un’assemblea sindacale. E i tanti disoccupati, tra cui molti romeni, sono infuriati. Un quarto d’ora prima dell’apertura del Cpi torinese di via Bologna sono già stati distribuiti oltre 180 numerini. In mezzo a tanti africani e europei dell’Est sono in coda anche parecchi italiani. «Stiamo cercando un posto dall’estate scorsa, proviamo anche col Cpi, ma non abbiamo molta fiducia. Se non succede nulla entro qualche settimana magari emigriamo», dicono all’unisono tre sconsolati ragazzoni, neodiplomati di un istituto tecnico. Il centro è organizzato bene (pochi minuti dopo l’apertura sono già in corso 12 colloqui di preselezione) eppure gli happy end scarseggiano. Nel primo semestre del 2013 sono arrivati qui in 30.540, oltre 6 mila sotto i 24 anni (il 7,4 per cento in più rispetto al 2012). Però nella fascia 15-24 anni le assunzioni sono calate del 18,9 per cento, in provincia. A livello regionale il calo ha superato il 20 per cento. Di strumenti che funzionato ce ne sono, ma a macchia di leopardo. Dalla Toscana (dove la Regione finanzia la carta Ila per i progetti formativi) alla Workexperience della provincia di Terni, dove una formazione di massimo 50 ore seguita da un tirocinio formativo di sei mesi retribuito con 800 euro al mese ha portato all’assunzione del 61 per cento dei 200 tirocinanti coinvolti. Buono il risultato anche dell’iniziativa Porta Futuro, promossa dalla Provincia di Roma: il 30 per cento degli 11 mila che si sono formati utilizzando i servizi proposti ha trovato un impiego. Crescono anche i “job matchpoint”, gli incontri organizzati dopo preselezioni fatte in collaborazione tra Cpi, associazioni imprenditoriali e privati. In provincia di Milano ne sono stati programmati cinque, in collaborazione con l’organizzazione Città dei mestieri. Alla fine saranno 7 mila i colloqui fatti sul posto, con un esito positivo atteso del 30 per cento. Il più recente dei jobmatch è stato a San Donato, a sud della città, pochi giorni fa: presenti 40 aziende, con con 140 posti a disposizione. Hanno inviato i curriculum in 3.800 e i colloqui tra candidati e imprese sono stati 420. Qualcuno verrà assunto. Si replica l’11-12 dicembre, a Milano città.
Le mancate risposte dei centri per l’impiego, scrive il 18 settembre 2014 il "Corriere della Sera". “A conti fatti, dunque, sembrerebbe che i giovani (perché è prevalentemente di loro che dobbiamo occuparci) preferiscano restare nell’ombra, piuttosto che tentare di manifestarsi sul portale governativo e, magari, essere chiamati per un colloquio finalizzato a una successiva esperienza lavorativa”. Leggo le parole di Angelo Zambelli e le condivido, così come condivido la scelta di chi rimane nell’ombra. Sono una neolaureata, ho 25 anni e alle spalle una carriera da stagista. D’accordo, non sono proprio il prototipo di giovane sfiduciata a cui si rivolge il piano europeo. Ma attualmente ho terminato gli studi, non lavoro e ingrosso la fetta di giovani disoccupati. Quindi ho fatto l’errore di pensare che Garanzia Giovani fosse anche per me. Il 13 maggio mi sono iscritta ad un Centro per l’Impiego della Regione Lazio. Al momento dell’iscrizione ho chiesto all’addetta, molto gentile, qualche informazione in più sul piano di occupazione. Mi ha fatto un sorriso, mi ha allungato un bigliettino ingiallito con scritto: “Garanzia Giovani, e mi ha invitato a rivolgermi a una sua collega in un altro ufficio. Mi ha accolto un’altra funzionaria molto gentile: mi ha chiesto di cosa avessi bisogno e abbiamo visitato insieme il sito. Si è stupita quando le ho detto che avevo già letto il portale da cima a fondo e che chiedevo qualche informazione in più. Che informazioni? Loro non sapevano nulla di più di quello che si trovava on line. La conversazione si è conclusa con un consiglio accorato: “Signorina, si muova autonomamente, non le conviene procedere con il piano Garanzia Giovani, non è per persone intraprendenti come lei”. Ho rivisto la stessa funzionaria il 18 luglio insieme ad altri ragazzi, per la seconda convocazione. Ci ha illustrato una serie di informazioni reperibili sempre sul portale e ha risposto alle nostre domande. Ci ha mostrato le offerte di lavoro già presenti su clic lavoro e ha sottolineato: “Ci sono gli annunci, ma non si sa ancora come procedere”. Inoltre Garanzia Giovani nel Lazio prevede varie possibilità, tra cui il «contratto di collocazione», un’opzione allettante per chi cerca un’occupazione. Un ente pubblico o privato si impegna a trovare, entro 4 mesi, delle offerte di lavoro in linea con la formazione del giovane disoccupato, il quale porta in dote un voucher proporzionale alla difficoltà di essere impiegato. Il 18 luglio, dopo 2 mesi e mezzo dalla partenza di Garanzia Giovani, al centro per l’impiego non hanno saputo dare nessuno risposta sugli enti accreditati e sul valore effettivo del bonus occupazionale. In compenso avrei potuto firmare il contratto e far partire già da luglio i 4 mesi di ricerca assistita del lavoro. Quale ricerca? Quale assistenza? Amareggiata e infastidita ho consigliato ai miei coetanei di non affidarsi a Garanzia Giovani perché non c’è bisogno di essere intraprendenti per essere più efficienti di un sistema che arranca ancor prima di partire.
A cosa servono gli uffici di collocamento visto che sono stati sostituiti dalle agenzie interinali? Scrive l'11 Dicembre 2015 Lucio Marengo su "Metro Notizie". Nei giorni scorsi ci siamo recati presso l’Ufficio provinciale del lavoro di Bari in via De Vito, come sempre assediato da tanti giovani che credono ancora che le assunzioni passino per detti uffici per passacarte che rilasciano su richiesta solo certificati di disoccupazione. Abbiamo chiesto a circa una quindicina di giovani se avessero mai avuto una sola possibilità di occupazione ed abbiamo rischiato di essere noi stessi vittime della rabbia di tanti giovani in coda per ore senza nulla ricavare. L’ex ufficio di collocamento si trova proprio a due passi dagli uffici della Regione Puglia, ma ovviamente nessuno delle decine di consiglieri regionali si è accorto mai di nulla, e neppure quella che dovrebbe essere l’opposizione. C’è poi il grosso bubbone delle agenzie che utilizzano i fondi europei per finanziare tutta una serie di progetti sui quali andrebbe promossa una seria inchiesta finalizzata prima di tutto a quantificare l’entità dei fondi per il periodo 2014/2020 per quanto stabilito nella delibera della Giunta Regionale n° 1498 approvata nel corso di una seduta straordinaria alla fine praticamente della scorsa consigliatura. Quante sono oggi le agenzie che gestiscono i fondi europei per conto della regione? ne abbiamo scelta una a caso che si chiama Puglia sviluppo con unico azionista la Regione Puglia. Con il 100% di partecipazione praticamente la Regione risulterebbe essere la padrona dell’Agenzia che ha un direttore generale, dei funzionari e non pochi impiegati in una sede principesca nella zona industriale di Bari. Questa agenzia ha promosso un bando nidi, che vuol dire Nuove iniziative d’impresa Regione Puglia. Nidi è lo strumento con cui la regione offre un aiuto per l’avvio di una nuova impresa con un contributo a fondo perduto ed un prestito rimborsabile. L’obiettivo Nidi sarebbe quello di agevolare l’autoimpiego. Non riteniamo per il momento di rivelare altri particolari sulle modalità di ottenimento dei contributi, che non sono così semplici come sembrerebbero, ma quello che ci ha sconcertato è stato l’atteggiamento di alcuni consiglieri regionali di presunta opposizione che si sono dimostrati quasi infastiditi delle nostre richieste di chiarimenti al punto che non abbiamo più compreso da che parte stessero. Resta il fatto comunque che siamo curiosi di sapere da chi vengono pagati i dipendenti di Pugliasviluppo e se una volta esaurito questo loro compito diventeranno impiegati regionali. Che pena, Non si fanno più concorsi ma assunzioni pilotate con vecchi stratagemmi, e contro legge, perchè negli enti pubblici si è assunti per concorso senza passare attraverso le segreterie politiche. Ritorneremo sull’argomento con dovizia di particolari e se sarà il caso organizzaremo una manifestazione di disoccupati davanti al Palazzo di Giustizia per sollecitare prima di tutto chiarezza e poi…..si vedrà.
IL COLLOCAMENTO FAI DA TE...
Il lavoro si chiede ad amici e parenti, il fallimento del collocamento italiano, scrive Fabio Bonasera su “L’Eco del Sud". Per trovare lavoro in Italia è sempre bene rivolgersi agli amici degli amici. Magari a qualche parente. Lo certifica Eurostat, dimostrando come nel Bel Paese si vada avanti per paradossi. E utopie. Tale sembra risultare l’Anpal, la nuova agenzia per il lavoro prevista dal Jobs Act. Un’autentica scatola vuota, almeno finché non entrerà in vigore – se lo farà – la riforma costituzionale Boschi-Renzi. Il collocamento, infatti, è attualmente di competenza regionale. Unico potere spettante al nuovo istituto, quello di revocare l’indennità di disoccupazione, la cosiddetta Naspi, a chi rifiuta una nuova occupazione. Insomma, nessun rischio concreto di vedersela portare via, visto il periodo di vacche magre e la totale inefficienza dei centri dell’impiego. Un’inefficienza talmente diffusa e conclamata che solo il 28,2% degli italiani nel 2015 ha deciso di richiederne i servigi. La media, nell’Unione europea, è del 48,4%. In Francia del 59,1%, in Germania del 77,7%. Ancora più bassa la percentuale di chi si è rivolto ad agenzie di lavoro private: 16,5%, contro il 23% di media dell’Ue. Ad ammettere di essersi rivolto a parenti, amici e sindacati è l’84,8% degli italiani intervistati. Tra i Paesi membri dell’Unione, fanno peggio solo in Grecia (94,3%). La Germania si attesta sul 39,3%, la Svezia sul 24,7%. L’extracomunitaria Svizzera addirittura sul 16,3%. Sempre secondo Eurostat, nel periodo della crisi la percentuale di italiani sfiduciati al punto da preferire le vie informali al collocamento, pur di trovare lavoro, è cresciuta di quasi dieci punti, dal 75,1% del 2008 all’84,8% attuale. Con grande frequenza ci si propone perfino direttamente ad aziende e quant’altro. Lo fa il 70% dei disoccupati, contro il 57,3% del 2008, il 62,1% della media Ue e il 22,8% della Germania. Per rendere virtuoso un sistema che, fino a ora, si è rivelato tortuoso e inefficace, il Governo ha introdotto nel Jobs Act la costituzione dell’Anpal, l’Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro, operativa dal prossimo giugno, malgrado manchi ancora, come ammette il presidente, Maurizio Del Conte, il decreto di trasferimento delle risorse e delle dotazioni organiche, fermo alla Corte dei Conti. Lo scopo è di ridare fiducia in un sistema pubblico capace di far incontrare domanda e offerta occupazionale. L’inghippo, tuttavia, è dietro l’angolo. I centri per l’impiego sono di competenza delle Regioni e fino a quando la riforma costituzionale non entrerà in vigore l’Anpal non potrà fare azioni sul territorio. L’unico potere che avrà fino a qual momento sarà di revocare l’indennità di disoccupazione a chi rifiuta opportunità di lavoro e di formazione, magari perché pur percependo l’assegno di ricollocazione lavora in nero. Insomma, invece che mettere in piedi un processo capace davvero di rivitalizzare il mercato del lavoro, fino a questo momento si è riusciti solamente a escogitare l’ennesimo sistema repressivo. Oltre che vetusto. L’ente che eroga la Naspi, l’Inps, è diverso da quelli che dovrebbero ricollocare i lavoratori. Mentre in Germania i centri per l’impiego si occupano di entrambe le cose. Come riferisce Del Conte all’Ansa, il problema “si potrà risolvere quando saranno a disposizione in tempo reale i dati Inps sui percettori della Naspi. L’Anpal può controllare in tempo reale se la persona che non si presenta al corso di formazione (o non accetta un lavoro) prende la Naspi. Avvertiremo in questo caso l’Inps che dovrebbe togliere almeno una parte del sussidio. Finora questo è successo solo in casi eccezionali”. In realtà, la condizione per cui il sussidio vada percepito solo qualora ci si sottoponga a un percorso formativo di reinserimento esiste da anni. Il rapporto tra le due cose, adesso, dovrebbe essere solo rinforzato. A fronte, almeno per ora, di servizi scadenti esattamente come prima. Eloquenti e impietosi, i numeri: nei Centri per l’impiego italiani lavorano 7mila persone, in Germania 100mila. Non disponendo di risorse per aumentare il contingente, l’alternativa è di ridurre quanto più possibile la corresponsione dell’indennità di disoccupazione, già di per sé irrisoria ed estremamente limitata nel tempo. Soprattutto in relazione al contesto di forte crisi occupazione e, come emerge una volta di più, istituzionale.
Lavoro, il fallimento dei centri pubblici per l'impiego, scrive Carlo Sala il 10 maggio 2016 su "Today". I centri pubblici per l’impiego non sono certo il metodo più seguito da chi cerca un impiego, secondo quanto certifica l’Eurostat, l’istituto di statistica della Ue; in Italia, infatti, prevalgono ancora amicizie e passaparola. Peraltro, mentre la sorte dei centri pubblici è in alto mare (dovrebbero confluire nell’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro), che però ancora non esiste, le agenzie per il lavoro (private) risultano molto più efficienti. Solo il 25,9% dei disoccupati italiani si rivolge a centri per l’impiego pubblici, l’84,3% dei disoccupati preferisce rivolgersi ad amici, parenti e conoscenti: rappresentano l’84,3% del totale. In Germania, le percentuali si invertono con il 75,8% dei senza lavoro che si rivolge ai centri pubblici per l’impiego e appena il 39,6% che chiede a conoscenti. Nell’Unione europea a 28 il 46,7% dei disoccupati utilizza i centri pubblici per l’impiego mentre il 71,1% afferma di chiedere anche ai conoscenti. Ciascun addetto dei centri pubblici trova lavoro a 4 persone in un anno contro i 43 dei colleghi delle agenzie private, secondo quanto risulta facendo una media tra le 8.429 unità di personale dei centri pubblici che hanno trovato lavoro a 33.414 persone e le 10.740 persone in servizio in strutture private che hanno trovato impiego a 465.939 disoccupati. I centri pubblici restano in attesa dell’Anpal, l’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro, la cui istituzione era prevista dal Jobs Act ma non ha ancora avuto luogo. Nell’attesa, ciascuna Regione si sta muovendo in proprio per tenere in vita questi centri, un tempo sotto la gestione delle Province.
Il grande caos dei centri per l’impiego, scrive il 17 giugno 2016 Laura Bonani su "Il Corriere della Sera". Sono 536 i Centri per l’impiego. E sono nel caos. Più che un lavoro, le persone che s’incontrano in coda cercano assistenza per avere gli ammortizzatori sociali. A Roma, Claudio un ragazzo iscritto al Centro da 5 anni, dice di non aver mai avuto una proposta. Una signora sui 50, invece, ammette che a lei son serviti perché l’hanno aiutata ad avere ‘la mobilità’: “…e adesso, ho due anni pagati” conclude. Un uomo coi capelli brizzolati ironizza: “…ma con la penuria di lavoro che c’è, che speranza abbiamo di trovarlo proprio qui? Fino ad oggi, ho fatto qualcosa ai call center. E non grazie a loro”. Ma i Centri per l’impiego non dovrebbero servire proprio a dare una mano a chi non sa cavarsela da solo? “Sulla carta!”, dicono in coro. E’ un fatto che in quelle sale, l’acronimo che più si sente ripetere è Did: dichiarazione immediata di disponibilità al lavoro. Una volta certificata, si ottiene lo ‘stato di disoccupazione’…e si può ricevere l’indennità come la Naspi. “Sì, a noi interessa solo riuscire a prendere il sussidio – rispondono due ragazze sui 30 -: il lavoro ce lo cerchiamo noi”. Pensare che il Jobs Act ha istituito (in astratto) l’Agenzia Nazionale per le politiche attive del lavoro proprio per gestire in toto i servizi per l’occupazione. La realtà attuale, però, conta meno di 9mila dipendenti pubblici che devono seguire 9.692.000 tra disoccupati e inoccupati. E su 100 persone che si rivolgono a un Centro per l’impiego, solo 3 trovano un posto (fonte Isfol). Sempre a un Centro per l’impiego di Roma, lampeggia il numero 39: si presenta un giovane 30enne. “L’unica cosa che posso dirle è di andare su un sito internet dei nostri Centri e consultare le proposte” – dice l’addetta –. “Come le bacheche qui fuori, allora?” – replica il ragazzo –. “Sì”. “La ricerca, insomma, la devo fare io senza filtri vostri?”. “Il Centro per l’impiego non funziona come i vecchi Uffici di collocamento – ribatte la signora -. Dovete attivarvi voialtri: mediante interinali, mediante conoscenze, mediante il sito”. “Ma voi che siete il pubblico, mi mandate alle agenzie interinali che sono provate?…” “Lei può andare dove vuole” – taglia corto l’impiegata –. Nel concreto, un esercito d’italiani oggi è in ginocchio per i disservizi degli ex Uffici di collocamento. L’abolizione delle province (cui facevano prima capo) li ha fatti passare sotto le regioni. E il governo si era impegnato a garantire fondi sia per il personale che per la cancelleria. In Calabria, però, Mimmo Bevacqua consigliere regionale, denuncia di non pagare da mesi i dipendenti perché i conti sono in rosso. Di non avere nemmeno moduli/documenti perché non ci sono le stampanti. E la Calabria segna il record di disoccupazione giovanile: 60%. In Sicilia, la ‘logica locale’ vuole invece che i Centri siano diventati bacini occupazionali da riempire nei periodi elettorali. Al momento, c’è un gran movimento per far confluire l500 lavoratori regionali proprio nei vecchi uffici di collocamento. In Umbria, il passaggio dalle province alla regione, ha portato rallentamenti infiniti. L’ufficio di Orvieto è sguarnito: per qualche giorno al mese, è seguito nella sede di Terni. Ma si vive in questa specie di agonia nei Centri di tutte e 20 le regioni italiane? No. Alcune regioni hanno saputo gestire il passaggio di consegne con criterio. Ma sono pochissime: meno delle dita di una mano. Da mesi (comunque), c’è un punto fermo: il nome del presidente dell’Anpal, la futura agenzia che dovrebbe centralizzare i servizi per l’occupazione. Si chiama Maurizio Del Conte.
AGENZIE PER IL LAVORO.
Agenzie per il Lavoro: cosa sono e come funzionano, scrive il 14 novembre 2016 "Bianco Lavoro". Che cosa sono le agenzie per il lavoro, e quali sono i vantaggi che possono garantire alle aziende e ai lavoratori. Le Agenzie per il lavoro sono enti autorizzati dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali a offrire servizi su domanda e offerta di lavoro. Iscritte ad uno specifico albo informatico, si tratta principalmente delle ex società di fornitura di lavoro temporaneo, delle società di Ricerca e Selezione del Personale, delle agenzie di intermediazione lavoro. Cerchiamo dunque di comprendere cosa facciano, come verificare se un’agenzia sia o meno autorizzata, e quali sono i requisiti per qualificarsi come operatore professionale per il lavoro.
Cosa fanno le Agenzie per il lavoro?
Come intuibile, le Agenzie per il lavoro sono operatori professionali in grado di somministrare sia lavoro a termine che a tempo indeterminato, o ancora effettuare iniziative di intermediazione per la manodopera, o ulteriormente condurre attività di ricerca e di selezione del personale per conto terzi, o progettare interventi di reinserimento professionale.
Vantaggi delle Agenzie per il lavoro per aziende e lavoratori?
Con la descrizione di sintesi che sopra abbiamo avuto modo di delineare, appare molto chiara quale sia la natura di tali agenzie e quali siano i vantaggi che possono essere replicati in favore di aziende e lavoratori.
Per le prime, il ricorso all’Agenzia per il lavoro permette di esternalizzare – in tutto o in parte – il nucleo di attività relative alla ricerca, alla selezione e, eventualmente, alla gestione dei rapporti di lavoro, sgravando la propria organizzazione dalle complessità e dalle competenze che sarebbe necessario acquisire in seno all’area delle risorse umane.
Per i secondi, i benefit sono naturalmente legati alla possibilità di potersi aggiudicare molteplici opportunità di lavoro, avendo come controparte un unico, qualificato, operatore. Pertanto, se siete interessati a trovare un nuovo posto di lavoro, la prima cosa da fare è certamente quella di recarsi con il proprio Curriculum, lettera di presentazione e una foto in una delle agenzie autorizzate o, se preferite, gestire l’intero iter online, attraverso i servizi dei rispettivi portali delle agenzie per il lavoro.
Comunicati i dati all’Agenzia (potete farlo in riferimento a una specifica ricerca di lavoro o senza collegare l’invio del vostro CV a una specifica candidatura), l’Agenzia elaborerà i vostri dati e li archivierà in un database dinamico. Oltre al database, il personale vaglierà di volta in volta la corrispondenza tra i curriculum “gestiti” e le esigenze delle aziende che si rivolgono alle agenzie per il lavoro per la ricerca di personale.
Una volta considerati idonei a ricoprire una posizione aperta, si potrà procedere con la stipula del contratto, che nella maggior parte delle ipotesi sarà a termine. Non è comunque escluso che il rapporto sia a tempo indeterminato, che dunque l’azienda possa assumere direttamente il lavoratore.
Albo per le Agenzie per il lavoro: chi può iscriversi?
L’Albo informatico delle Agenzie per il lavoro, disponibile sul sito internet del Ministero competente, è suddiviso in cinque sezioni sulla base delle tipologie di appartenenza. Tra le più importanti ricordiamo:
Agenzie di somministrazione di tipo “generalista”: si tratta di operatori che svolgono delle attività di somministrazione di manodopera, di intermediazione, di ricerca e di selezione del personale, di attività di supporto alla ricollocazione professionale.
Agenzie di intermediazione: si tratta di agenzie che offrono attività di mediazione tra la domanda e l’offerta di lavoro: tra le varie attività, spiccano quelle di raccolta dei curricula, preselezione, promozione e gestione dell’incontro tra domanda e offerta, formazione.
Agenzie di ricerca e selezione del personale: svolgono attività di consulenza finalizzata all’individuazione di candidature idonee a ricoprire posizioni lavorative su specifico incarico del committente.
Agenzie di supporto alla ricollocazione professionale, che effettuano attività su specifico incarico dell’organizzazione committente.
Come trovare l’Agenzia per il lavoro più vicina?
Numerosi sono i servizi utili per poter trovare l’Agenzia per il lavoro più vicina alla vostra area di competenza. Tra i vari e più aggiornati, vi suggeriamo quello di Cliclavoro, il portale unico della rete nazionale dei servizi per le politiche del lavoro, qui accessibile. Trovare l’Agenzia che fa per voi è molto semplice: nella pagina aperta dal precedente collegamento, potrete navigare nella mappa interattiva o utilizzare i campi di ricerca.
Lavoro in affitto: cosa sapere se ti assume un’agenzia, scrive Adriano Lovera il 27 maggio 2016 su "Donna Moderna". Mezzo milione di italiani sono impiegati in un'azienda ma non sono dipendenti diretti. Ecco cosa prevedono i contratti di lavoro in affitto con un'agenzia. Sei giovane e in cerca di occupazione? Con buone probabilità, chi ti aprirà la porta sarà un’agenzia di somministrazione lavoro. Quelle che abitualmente chiamiamo interinali. Si ricorre sempre di più ai lavoratori “in affitto”: oggi sono 465.000 persone e il 60% è under 30. «Grazie agli sgravi contributivi che il governo concede dal 2015, in un anno sono raddoppiati gli assunti a tempo indeterminato presso queste agenzie, circa 45.000» spiega Alberto Russo, ricercatore di Diritto del lavoro della Fondazione Marco Biagi (università di Modena e Reggio Emilia). Certo, però, non è un mondo privo di ombre. Si lavora in un’azienda, ma si riceve la busta paga da un’altra. Con l’aiuto degli esperti facciamo chiarezza.
QUALI SONO LE FORME PIU' USATE DI LAVORO IN AFFITTO? Nella stragrande maggioranza dei casi è il contratto a termine, seguito da quello a tempo indeterminato (circa il 10% sul totale) e dal rapporto “a chiamata”, in cui il lavoratore viene utilizzato in caso di necessità: basta un preavviso di almeno 24 ore. «Quest’ultima è una modalità ormai scarsamente utilizzata anche tra gli stagionali del turismo o della ristorazione: è sostituita dal voucher, meno oneroso per le aziende» dice Andrea Siletti, direttore commerciale dell’agenzia per il lavoro Adecco in Italia.
CHI E' IL DATORE DI LAVORO? Tecnicamente è l’agenzia. Che è responsabile di tutti gli aspetti legati ad assunzione, retribuzione e fine del rapporto. Ed emette i bonifici per pagare lo stipendio. Quella in cui si viene mandati a prestare la propria opera si chiama impresa utilizzatrice, con cui il lavoratore non firma alcun contratto.
A QUALE STIPENDIO HA DIRITTO CHI E' ASSUNTO TRAMITE AGENZIA? Gli spetta lo stesso trattamento economico di coloro che sono assunti direttamente dall’azienda: uguale stipendio, Tfr, ferie, contributi previdenziali ed eventuali premi di produzione. Se si svolge un’attività regolata da un contratto nazionale di categoria, si deve essere inquadrati secondo quelle regole e beneficiare di quanto previsto, come la quota di iscrizione a una cassa assistenziale.
PERCHE' QUESTO CONTRATTO CONVIENE ALLE AZIENDE? Un lavoratore in affitto costa di più all’impresa che, oltre all’ammontare della busta paga, versa una commissione all’agenzia per ogni ora lavorata. Però l’impresa ci guadagna in flessibilità. Non ha compiti burocratici da sbrigare e può impiegare il personale solo finché ne ha bisogno, «per esempio, per far fronte a picchi di produzione» dice Alberto Russo della Fondazione Marco Biagi. E se la missione termina, ma mancano ancora alcuni mesi alla scadenza del contratto, spetta all’agenzia trovare una collocazione al lavoratore. «Paragonata all’ufficio interno delle risorse umane, l’agenzia permette di selezionare una figura necessaria in meno tempo e scegliendo tra un elenco ampio» aggiunge Siletti di Adecco.
IL LAVORATORE IN AFFITTO HA DIRiTTO ALLA DISOCCUPAZIONE? Sì. Può accedere alla Naspi (l’indennità di disoccupazione dell’Inps), avendone i requisiti. Ma ci sono forme di sostegno in più erogate da due enti specifici (Ebitemp e Forma.temp): una somma una tantum di 750 euro, dopo 45 giorni di disoccupazione e almeno 5 mesi di lavoro nell’ultimo anno; e un assegno di maternità di 2.250 euro, per le donne cui scade il contratto interinale nei primi 6 mesi di gravidanza, ma che non hanno i requisiti per la maternità Inps.
QUANDO IL LAVORO IN AFFITTO E' VIETATO? Se serve a sostituire personale in sciopero o usare risorse in unità produttive interessate da licenziamenti collettivi o procedure di cassa integrazione.
UN CONTRATTO CON UN'AGENZIA PUO' ESSERE MEGLIO DI UN CONTRATTO DIRETTO? Se si è assunti a tempo indeterminato, sì. Il Jobs Act, dal 2015, di fatto consente di licenziare una persona per motivi di natura economica, dietro il pagamento di un risarcimento. Questo succede se viene soppresso un reparto e non c’è più bisogno di quella particolare figura professionale. «Se invece si lavora per un’agenzia, tale situazione in pratica non succede mai, perché sarebbe impossibile di fronte al giudice dimostrare che non ci siano altre opportunità di utilizzo. Quindi, in questo caso, il lavoratore è più tutelato» dice Siletti di Adecco.
Ed ecco le testimonianze di 4 persone che hanno sperimentato un contratto di lavoro somministrato.
«Non mi hanno dato lo stipendio previsto». Tiziana, 31enne della provincia di Milano, racconta: «Ho lavorato con un contratto di lavoro in affitto presso uno dei Padiglioni di Expo. Avrei dovuto essere inquadrata con il contratto del commercio, ma a me e altri ne è stato applicato un altro con una differenza di retribuzione di quasi 200 euro al mese. Dicevano che era una questione di budget. Ora sono partite le cause tramite il sindacato e speriamo che ci diano quanto dovuto».
«Dicono che a me non spetta il premio di produzione». Vito ha 25 anni, vive vicino a Potenza e dice: «Sono operaio, a tempo indeterminato, in uno stabilimento della Basilicata. Ma fino all’anno scorso ero un interinale. L’azienda distribuisce i premi di produzione legati ai risultati del 2015, che spetterebbero a quanti abbiano contribuito a quegli utili. Però li sta ricevendo solo chi era assunto direttamente. Finora l’agenzia e l’impresa si rimpallano le responsabilità. La prima dice che non era informata, la seconda che non ha competenza sulle paghe degli interinali. Io voglio che mi riconoscano il premio».
«Solo grazie al sindacato ho ricevuto il bonus asilo per mio figlio». Lucia, 35 anni, della provincia di Varese, spiega: «Durante il primo anno di vita di mio figlio ero dipendente a termine di una società di marketing. Parlando con una collega, ho saputo che chi è assunta in somministrazione ha diritto a un bonus asilo di 100 euro al mese, fino al terzo anno del piccolo, quando abbia almeno 3 mesi di lavoro alle spalle nell’ultimo anno. Era il mio caso, ma l’agenzia non me l’aveva segnalato. Con l’intervento del sindacato ho ottenuto, a posteriori, un anno intero di questo sostegno che mi spettava».
«Preferisco il contratto con l’agenzia a quello con un’azienda». Paola, 49enne milanese, racconta: «Sono l’assistente del direttore di una multinazionale del lusso. Anche se nel 2015 mi hanno proposto l’assunzione diretta in azienda, ho preferito tenermi il contratto a tempo indeterminato con l’agenzia. Non voglio legarmi a una sola situazione, ma affrontare nuove esperienze ogni 2-3 anni. Ammetto di essere un profilo ricercato: parlo due lingue straniere, ho anni di esperienza e non temo di restare a casa».
Come trovare un lavoro con un’agenzia interinale
Come funzionano, cosa aspettarsi, i servizi offerti e come scegliere quella giusta al momento giusto. A cura di Lidia Baratta in collaborazione con Adapt l’11 Maggio 2015 su “L’Inkiesta". Se l’obiettivo è trovare un lavoro e non ci si riesce inviando curriculum e presentandosi puntuali alle selezioni, resta la strada delle agenzie interinali o agenzie per il lavoro. L’ottava puntata di Domani Lavoro. 10 domande e 10 risposte per trovare un’occupazione (e tenersela), la guida al lavoro de L’inkiesta e Adapt, è dedicata al funzionamento di queste entità a metà tra un datore di lavoro e un ufficio di collocamento. A rispondere alle nostre domande sono i ricercatori di Adapt. Prima regola: scegliere l’agenzia sulla base delle ricerche aperte in quel momento.
Cos’è un’agenzia interinale?
Un’agenzia interinale, o più correttamente un’agenzia per il lavoro, è un operatore privato che opera nel mercato del lavoro con diverse funzioni che hanno a che fare in senso ampio con l’intermediazione tra la domanda e l’offerta di lavoro. Secondo alcuni, le loro origini risalirebbero addirittura all’antico Egitto. Quello che è certo è che la necessità di “intermediare” domanda e offerta di lavoro sia risalente nella storia.
Quando sono nate?
Difficile dire quando siano nate. Secondo alcuni, le loro origini risalirebbero addirittura all’antico Egitto. Quello che è certo - sebbene comunemente gli studiosi siano concordi nel ritenere che le prime agenzie per il lavoro in senso moderno sarebbero nate solo dopo la prima metà degli anni Cinquanta - è che la necessità di “intermediare” domanda e offerta di lavoro sia risalente nella storia. In Italia nell’immediato dopoguerra l’attività di intermediazione di manodopera è stata espressamente vietata ai soggetti privati fino alla fine degli anni Novanta, in quanto si riteneva che questa attività rispondesse a un interesse pubblico e che pertanto dovesse rimanere nella sfera di controllo dello Stato. Era previsto l’obbligo di iscriversi alle liste di collocamento per chiunque aspirasse a lavorare alle dipendenze altrui. Tuttavia, nonostante la regolamentazione particolarmente rigida e burocratica, lo Stato non è riuscito a svolgere il ruolo immaginato di unico attore e garante del funzionamento del mercato del lavoro: il modello imperniato su monopolio della gestione statale si è dimostrato fallimentare costituendo un freno alla crescita dell’occupazione e alla costruzione di un mercato del lavoro moderno. Quale risposta alle inefficienze di questo modello, a partire dai primi anni Novanta iniziano a fare comparsa anche nel nostro Paese le prime norme sperimentali sulla fornitura di personale da parte di operatori privati e con il Protocollo d’intesa del 23 luglio 1993 si riconosce che il lavoro interinale potrebbe aumentare l’occupazione e rendere più efficiente il mercato del lavoro. Il percorso di legittimazione della fornitura di lavoro da parte degli operatori si concretizza però solo nel 1997 con l’approvazione del cosiddetto pacchetto Treu che riconosce la liceità delle agenzie per il lavoro quali operatori privati del mercato del lavoro ammettendo il cosiddetto lavoro interinale e ponendo fine al divieto di intermediazione privata. È solo con il decreto legislativo n. 276 del 2003 che le agenzie per il lavoro diventano quelle che oggi conosciamo. Mentre nel regime precedente (legge numero 196/1997) le agenzie interinali potevano occuparsi solo della fornitura di manodopera che costituiva per loro “oggetto sociale esclusivo”, a partire dal 2003 le agenzie si trasformano in agenti vitali e polifunzionali del mercato del lavoro e che possono svolgere, in virtù di un’autorizzazione ministeriale preventiva, diverse attività (ricerca e selezione, formazione, supporto alla ricollocazione e somministrazione) funzionali ad un mercato del lavoro moderno, presiedendo a 360 gradi l’attività di intermediazione intesa come insieme di attività dirette all’incontro tra domanda e offerta di lavoro e finalizzata alla somministrazione.
Come funzionano le agenzie e il lavoro somministrato?
Il decreto legilsativo n. 276/2003 individua due categorie di agenzie per il lavoro, quelle generaliste, autorizzate allo svolgimento della somministrazione di lavoro a tempo determinato e indeterminato, e quelle di tipo specialista, abilitate a svolgere la somministrazione di lavoro a tempo indeterminato. Queste attività vengono sottoposte a un regime “autorizzatorio” diverso, volto a tutelare i diritti delle persone che con queste entrano in contatto in particolare quando le agenzie di lavoro agiscano come datori di lavoro nell’ambito della somministrazione. Il lavoro in somministrazione è caratterizzato da un rapporto trilaterale tra agenzia di lavoro, impresa utilizzatrice e lavoratore. L’agenzia assume attraverso il contratto di somministrazione concluso con un’impresa utilizzatrice l’obbligo di provvedere ai servizi di ricerca e selezione di lavoratori competenti. Il lavoro in somministrazione è caratterizzato da un rapporto trilaterale tra agenzia di lavoro, impresa utilizzatrice e lavoratore. In questo rapporto “triangolare”, l’agenzia assume attraverso il contratto di somministrazione concluso con un’impresa utilizzatrice l’obbligo di provvedere ai servizi di ricerca e selezione di lavoratori competenti (dove è possibile anche prevedendo alla formazione di tali lavoratori), inviandoli in missione presso un impresa utilizzatrice. L’agenzia provvede al pagamento dei lavoratori, alla trattenuta dei contributi previdenziali e alla deduzione delle tasse dai loro stipendi conformemente alle norme di legge. L’agenzia all’interno di questo rapporto viene spesso definita “datore di lavoro formale” perché, pur assumendo formalmente il lavoratore, concede all’impresa utilizzatrice la possibilità di dirigerlo. Il lavoratore assunto dall’agenzia in forza di un contratto di lavoro a tempo determinato o indeterminato, è obbligato in questo modo a lavorare sotto le direttive dell’impresa utilizzatrice, che perciò viene detta “datore di lavoro sostanziale”. Il rapporto di lavoro in somministrazione è quindi regolato da due contratti, uno di somministrazione – si tratta di un contratto commerciale sottoposto alle norme di diritto comune e che può essere a tempo determinato o indeterminato che lega l’agenzia per il lavoro all’impresa utilizzatrice - e uno di lavoro stipulato tra agenzia e lavoratore.
Come faccio a iscrivermi? Devo fare un colloquio?
Per accedere ai servizi che un’agenzia per il lavoro può offrire a una persona non è né richiesta un’iscrizione né esiste una procedura standard uguale per tutte le agenzie. Le agenzie per il lavoro svolgono la loro attività di intermediazione accanto ai centri per l’impiego pubblici, ma a differenza di questi non operano secondo protocolli che prevedono un iter predefinito (iscrizione-colloquio-sottoscrizione del patto di servizio). Le loro attività muovono da richieste di aziende clienti che con le attività di ricerca e selezione devono evadere per pervenire alla conclusione normalmente di una somministrazione di lavoro. La loro attività di placement, differentemente da quanto accade per i centri per l’impiego, muove da un’esigenza imprenditoriale concreta che guida la loro attività di ricerca delle candidature, selezione e valutazione dei profili da presentare all’azienda committente. Le filiali delle agenzie per il lavoro si occupano del contatto con le persone che cercano lavoro, raccolgono i loro curriculum e procedono a forme di pre-selezione per la costituzione di appositi data-base in cui vengono inserite tutte le candidature. Normalmente a una prima fase di accoglienza in cui i lavoratori vengono accolti e informati delle attività delle agenzie per il lavoro, segue l’inserimento dei dati anagrafici e del curriculum vitae in un data-base e un successivo colloquio di pre-selezione. Se il profilo viene ritenuto coerente rispetto alle ricerche aperte il candidato viene presentato all’azienda o inserito in un percorso formativo ad hoc. Se l’azienda ritiene la candidatura in linea con le proprie esigenze, si perviene normalmente alla sottoscrizione di un contratto di somministrazione di lavoro che può essere a tempo pieno o determinato. Le agenzie per il lavoro svolgono la loro attività di intermediazione accanto ai centri per l’impiego pubblici, ma a differenza di questi non operano secondo protocolli che prevedono un iter predefinito (iscrizione-colloquio-sottoscrizione del patto di servizio).
In Italia ce ne sono tante: come faccio a scegliere l’agenzia giusta?
La finalità per cui le attività delle agenzie per il lavoro vengono svolte è la conclusione di un contratto di somministrazione di lavoro. Le loro ricerche e le loro selezioni muovono da un interesse concreto di un’azienda che le agenzie per il lavoro devono soddisfare per realizzare il loro scopo. A partire da questo tratto caratterizzante, è quindi consigliabile scegliere l’agenzia cui recarsi sulla base delle ricerche in quel momento aperte. Normalmente sulle vetrine delle agenzie per il lavoro e sui loro siti internet (1) è possibile consultare un elenco delle posizioni aperte nei diversi territori, è consigliabile candidarsi e quindi contattare l’agenzia per il lavoro che presenta ricerche aperte coerenti rispetto al proprio profilo professionale e alle proprie aspettative lavorative scegliendo quella del territorio a cui gli annunci fanno riferimento e recandosi personalmente presso la filiale con un proprio curriculum aggiornato e una lettera di presentazione. Questo consente al candidato maggiore possibilità di successo perché consente a monte una pre-finalizzazione della ricerca e una più elevata possibilità di successo del matching.
Devo pagare?
Assolutamente no. La legge vieta alle agenzie per il lavoro di esigere e in ogni caso di percepire alcun compenso diretto o indiretto dai lavoratori coinvolti nelle attività di somministrazione, intermediazione, ricerca o selezione o ricollocazione. Chiunque nell’ambito di un’agenzia per il lavoro esiga o comunque percepisca direttamente o indirettamente dei compensi (non soltanto in denaro) da parte del lavoratore per avviarlo a prestazioni di lavoro mediante contratto di somministrazione è punito con arresto o ammenda. La legge vieta alle agenzie per il lavoro di esigere e in ogni caso di percepire alcun compenso diretto o indiretto dai lavoratori coinvolti nelle attività di somministrazione, intermediazione, ricerca o selezione o ricollocazione.
Ci sono servizi specifici per chi cerca il primo impiego e altri per chi invece è rimasto senza lavoro?
Certamente, le agenzie per il lavoro svolgono diverse funzioni. La più ampia delle attività svolte è la somministrazione di lavoro di cui abbiamo già detto. L’elemento tipico di questa attività consiste nella possibilità per l’agenzia di obbligarsi verso un corrispettivo pattuito a fornire uno o più lavoratori ad un’azienda (impresa utilizzatrice) senza che tra quest’ultima e il lavoratore si instauri alcun contratto di lavoro. Accanto a questa attività, che costituisce comunque il core delle agenzie per il lavoro alla quale tutte le altre sono orientate, esse sono degli intermediari ed in questo senso operano nel mercato del lavoro svolgendo diverse attività ricerca e selezione, formazione e outplacement orientate in modo specifico ai lavoratori. In senso ampio potremo dire che le agenzie per il lavoro si occupano di “intermediare” la domanda e l’offerta di lavoro. L’intermediazione può essere definita come l’insieme di tutte le attività strumentali allo svolgimento della somministrazione e quindi comprensiva della delle attività di raccolta dei cv, preselezione dei cv, gestione di una banca dati, orientamento professionale e formazione, avvio del rapporto di lavoro (comunicazioni obbligatorie, assunzione, adempimenti connessi allo svolgimento del rapporto di lavoro e cessazione), accompagnamento al lavoro. Ogni agenzia per il lavoro si fa promotrice di specifiche iniziative rivolte a particolari target. Per esempio, per quanto riguarda i giovani alla ricerca del primo impiego è importante dire che le agenzie per il lavoro fanno parte del sistema Garanzia Giovani. Ci si può recare presso di loro per iscriversi al programma e ricevere le prime informazioni ed essere inseriti in percorsi di accompagnamento e orientamento al lavoro che possono concludersi con l’inserimento nel mercato del lavoro ovvero in percorsi di formazione professionalizzanti. Le agenzie per il lavoro possono poi svolgere attività di ricollocazione professionale, il c.d. outplacement. Le modalità tipiche di questa attività si articolano essenzialmente in tre fasi: supporto psicologico del candidato al fine di motivarlo mediante interventi tesi a valorizzare la sua personalità ed esperienza. In seguito il candidato riceve una specifica formazione relativa alla propria presentazione ed autopromozione del mercato de lavoro. Infine il candidato viene aiutato a mobilitarsi per individuare l’attività e il posto che più gli si addicono. Tale attività viene svolta dalle agenzie nell’ambito di uno specifico incarico dell’organizzazione committente anche sulla base di accordi sindacali finalizzati alla ricollocazione nel mercato del lavoro di prestatori di lavoro collettivamente o individualmente considerati. In alcuni territori, come il Lazio, tale attività può essere svolta dalle agenzie a favore dei lavoratori non nell’interesse di un particolare committente ma nei confronti di persone che rispondano a determinati requisiti nell’interesse pubblico del loro reinserimento nel mercato del lavoro (contratto di ricollocazione).
Che tipi di contratti mi possono offrire?
Le agenzie per il lavoro possono assumere i propri lavoratori a termine o a tempo indeterminato (compreso il contratto di apprendistato). Esse possono inoltre farsi “promotrici” di tirocini e work experience. Ciò che conta è che ai lavoratori somministrati si applicano le stesse condizioni e lo stesso trattamento che si applicherebbe loro nel qual caso essi fossero assunti direttamente dall’impresa utilizzatrice. Con riferimento al contratto di lavoro, sia esso a termine o a tempo indeterminato, il legislatore ha predisposto un robusto nucleo di norme predisposte al fine di evitare pratiche discriminatorie o tese a ribassare la tutela dei lavoratori assunti con questa tipologia contrattuale. Le agenzie per il lavoro possono assumere i propri lavoratori a termine o a tempo indeterminato (compreso il contratto di apprendistato). Esse possono inoltre farsi “promotrici” di tirocini e work experience.
Che differenza c’è rispetto ai centri per l’impiego?
Le agenzie per il lavoro generaliste seguono una strategia diversificata delle attività rispetto ai centri per l’impiego: accanto e oltre alla somministrazione in sé e per sé considerata, le agenzie per il lavoro si occupano della ricerca e dell’individuazione del lavoratore più adatto, perché capace e competente, a soddisfare le specifiche esigenze dell’impresa utilizzatrice cliente che ha aperto con loro una ricerca, normalmente finalizzata ad una somministrazione. Per soddisfare la richiesta dell’impresa cliente l’agenzia per il lavoro si occupa di esaminare analiticamente le esigenze imprenditoriali, definisce un programma dettagliato di ricerca delle candidature, seleziona e valuta i profili, individua una rosa di candidature da sottoporre all’azienda cliente eventualmente occupandosi della loro formazione e presiede il loro inserimento nell’organizzazione aziendale. La connessione o meglio l’integrazione dell’attività di intermediazione con quella di somministrazione spiega le differenze tra le attività di placement svolte da un centro per l’impiego e da un’agenzia per il lavoro.
Che differenza c’è tra un lavoratore interinale e uno assunto direttamente dall’azienda?
Nessuna. Il cosiddetto principio della parità di trattamento, articolato alla stregua del noto principio costituzionale di uguaglianza e legalmente codificato nel decreto legislativo n. 276/2003, provvede a porre un riparo concreto contro usi impropri della somministrazione. Con l’espressione parità di trattamento si intende far riferimento tanto al trattamento economico che a quello normativo applicato al lavoratore e potrà dirsi rispettato solo con riguardo all’interezza dello status del lavoratore. La legge mira cioè ad assicurare al lavoratore in somministrazione tramite il principio della parità di trattamento un agevole inserimento anche sociale del lavoratore nella collettività dell’impresa utilizzatrice consentendogli una reale fruizione delle posizioni giuridiche attive fissate dal contratto collettivo e dalla legge. In questo senso il lavoratore somministrato deve essere considerato per tutta la durata della missione parte integrante dell’impresa utilizzatrice e trattato in tutto e per tutto come un dipendente diretto.
Come fare uno stage senza essere sfruttati? È giusto chiedere una retribuzione? Come comportarsi per essere assunti? Domande e risposte nella nostra guida in collaborazione con Adapt. A cura di Lidia Baratta, il 13 Aprile 2015 su “L’Inkiesta". Stage e tirocini sono lo spauracchio di tanti giovani, ma spesso anche l’unico strumento per capire come funziona davvero il mercato del lavoro. E, perché no, possono essere una via d’accesso nelle aziende. La sesta puntata di Domani Lavoro. 10 domande e 10 risposte per trovare un’occupazione (e tenersela), la guida de Linkiesta in collaborazione con il centro studi Adapt, è dedicata al mondo degli stagisti. I ricercatori di Adapt rispondono alle nostre domande, sfatando tutti i miti su quello che - dicono - non è un contratto di lavoro ma un modo per acquisire competenze che poi possono essere utilizzate nel mercato del lavoro. L’importante è non finire a fare fotocopie. Ma siamo sicuri di saper usare bene la fotocopiatrice?
Quando si fa uno stage? È previsto nel percorso scolastico e universitario?
Esistono due tipologie di stage/tirocinio classico (detto di formazione o orientamento): curriculare ed extracurriculare. Lo stage curriculare può essere svolto durante il percorso formativo di uno studente, alcuni piani di studio universitari lo considerano obbligatorio. Non è obbligatorio che lo svolgimento di uno stage curriculare porti all’ottenimento di crediti formativi. Per attivare un tirocinio curriculare è necessaria la presenza di un ente promotore come una Università o una istituzione universitaria, un’istituzione scolastica o un centro per l’impiego pubblico o accreditato. Lo stage extracurriculare è pensato invece per i giovani laureati durante il primo anno dopo il conseguimento del titolo di studio. Non è infatti possibile svolgerlo oltre i 12 mesi dalla data conclusiva del percorso di studio. Per coloro che hanno superato questo termine, esistono i tirocini di inserimento/reinserimento che sono pensati per i disoccupati e inoccupati. Esiste inoltre una ulteriore tipologia di tirocinio che è quello di orientamento e formazione o di inserimento/reinserimento per persone con disabilità e in condizione di svantaggio.
Qual è lo scopo di uno stage?
Questa è una domanda fondamentale poiché c’è molta confusione in Italia sull’utilizzo dello stage, e soprattutto sono quotidiani i fenomeni di abuso di questo strumento. Uno stage non è un contratto di lavoro, e questo proprio perché ha uno scopo diverso. Chi svolge uno stage lo fa per affacciarsi sul mercato del lavoro e iniziare a conoscerne le dinamiche. Particolarmente utile per questo è lo stage curriculare attraverso il quale un giovane studente può iniziare a vedere nell’esperienza concreta i risvolti pratici di quello che sta studiando. Il fatto che la retribuzione sia minore o assente non è dato dal fatto che un giovane debba essere sottopagato o sfruttato, la ragione sta nella dimensione formativa dello stage, grazie alla quale il ragazzo o la ragazza acquisiscono metodi e competenze che possono essere equiparati a una retribuzione in termini di investimenti per il futuro. L’abuso dello strumento non deve per questo far passare l’eccezione come un fenomeno normale. Esistono altri contratti di lavoro, come l’apprendistato, che possono essere il vero ingresso nel mercato del lavoro da parte di un giovane, mentre lo stage offre, come detto, solo una prima panoramica.
Quanto deve durare per evitare che si trasformi in un contratto mascherato?
Il fatto che uno stage diventi un contratto mascherato non è semplicemente una questione di durata ma anche di contenuto formativo o meno delle mansioni assegnate. Per quanto riguarda la durata uno stage formativo o di orientamento ha una durata massima di sei mesi. È importante che il contenuto del tirocinio sia effettivamente un’attività che porti a conseguire nuove competenze, non elementari, che possano essere poi spendibili nel mercato del lavoro. Il fatto che le aziende oggi ricorrono spesso ai tirocini anche per mansioni che non hanno valenza propriamente formativa può far sì che ci si ritrovi in un’azienda che vi richiede ruoli non coerenti con quello che pensavate ma è importante che, nel rapporto con il vostro tutor e con l’ente che ha promosso il tirocinio, tutti questi problemi vengano sollevati.
Come si fa a scegliere lo stage giusto senza finire a fare fotocopie? Come si riconoscono le aziende affidabili?
Intanto siamo sicuri di saper usare bene una fotocopiatrice? L’importante non è tanto non svolgere mansioni che richiedono una bassa specializzazione, ma acquisire tutte quelle competenze che vengono richiesta a un determinato profilo professionale. Secondo le linee guida, il tirocinio non può essere utilizzato per tipologie di attività lavorative che non richiedono un periodo formativo. L’azienda dovrebbe offrire proprio la possibilità di formarsi in modo completo rispetto a tutte le mansioni richieste a una determinata qualifica. Se questa qualifica richiede che si sappiano fare correttamente le fotocopie, ben vengano anche, ma non solo, le fotocopie. Altrimenti il tirocinio non si giustifica come periodo formativo e diventa semplice uso di manodopera non qualificata a bassissimo costo. Per scegliere lo stage giusto è quindi importante capire quale tipo di esperienza l’azienda offre e cercare di conoscere in anticipo le mansioni che vi saranno affidate. Nulla toglie che queste potranno poi cambiare in meglio o in peggio, ma una conoscenza preliminare può sicuramente aiutare la scelta.
Cosa si fa durante uno stage? È giusto fare le stesse cose di quelli assunti? Possono inserirmi nei turni?
La regolazione sui tirocini è a macchia di leopardo essendo definita a livello regionale. La possibilità di sottoporre il tirocinante a orario di lavoro dipende quindi da cosa prevedono le regioni sul punto. Ciò che viene predisposto dalle linee guida è solo che i tirocinanti non possono comunque sostituire i lavoratori con contratti a termine nei periodi di picco delle attività né sostituire il personale del soggetto ospitante nei periodi di malattia, maternità o ferie. Le attività variano da stage a stage sia a seconda dell’azienda in cui si viene inseriti sia a seconda dell’area della azienda presso la quale presterete servizio. Il fatto che le mansioni possano essere le stesse di dipendenti regolarmente assunti è positivo perché consente un impatto vero e non parziale con il mondo del lavoro. Per il resto il tirocinante ha l’obbligo di attenersi a quanto previsto nel progetto formativo e deve quindi svolgere le attività concordate con il tutor. La cosa più importante è proprio che nella propria attività si sia affiancati da un tutor.
Quindi devo avere un tutor dedicato che mi segue?
Sì: la tutorship è prevista dalle linee guida del 2013 ed è condizione necessaria per l’attivazione del tirocinio. Non è solo un onere burocratico ma deve essere la garanzia della natura formativa dell’esperienza. Avere un “maestro di lavoro” è il miglior modo per acquisire correttamente e rapidamente una professionalità. Il tutor deve essere individuato dal soggetto ospitante e deve essere in possesso di competenze professionali adeguate e coerenti con il progetto formativo individuale. Al tutor è richiesto di instaurare un rapporto non unidirezionale, bensì di collaborare alla stesura del progetto formativo, monitorare l’andamento del tirocinio e confrontarsi su di esso con il tirocinante.
È prevista ed è giusto chiedere una retribuzione?
Per quanto riguarda i tirocini, non essendo contratti di lavoro, non si parla di retribuzione ma di indennità. A partire dalla legge Fornero del 2012 i tirocini extracurriculari prevedono una indennità minima fissata dalle singole regioni. In questa mappa potete trovare tutte le retribuzioni delle singole regioni: Indennità di partecipazione: Blu scuro: 500 - 600 euro; Grigio: 400 – 450 euro; Viola: 300 – 350 euro. Sebbene l’ammontare dell’indennità sia appunto differenziato su base regionale, è importante sapere che il mancato pagamento è contrario alla normativa sui tirocini. Nonostante ciò potrebbe accadere che vi propongano uno stage non retribuito e starà a voi ricordare all’azienda che quanto vi stanno dicendo è contro la legge. Non esiste invece l’obbligo di retribuzione per i tirocini curriculari in quanto solitamente portano all’acquisizione di crediti formativi o risultano comunque come un investimento dello studente per il suo futuro lavorativo.
Quali sono i segreti per sfruttare al meglio uno stage? È giusto chiedere una lettera di referenza e/o una certificazione delle competenze acquisite una volta andati via?
Il segreto numero uno è: cercare di imparare e lavorare il più possibile. Per farlo, tanto dipende anche dalla capacità di essere propositivi e proattivi: questo vuol dire non limitarsi a “eseguire” quanto viene richiesto, ma cercare di proporsi nello svolgimento di più compiti e attività. Lo stage è un’occasione fondamentale per mettersi alla prova e imparare, questo vale per entrambe le parti: serve al giovane per crescere e nello stesso tempo serve all’ente ospitante per valutarlo. La serietà inoltre ripaga sempre: oltre a essere professionali e puntuali, è importante prendere sul serio il tirocinio, nel rispetto delle ore da svolgere, ad esempio, o nella cura e precisione con cui si lavora. Ricordiamoci però che il tirocinio è una prima esperienza formativa per il ragazzo: chiedere consigli e chiarimenti e osservare il contesto lavorativo nonché il modo di lavorare dei colleghi più esperti sono altri segreti da tenere sempre a mente. Una volta terminata l’esperienza è possibile, nonché opportuno, richiedere all’ente ospitante una certificazione attestane quanto svolto. Verba volant, scripta manent: certificazione e lettera di referenza testimonieranno, nel caso in cui dovessero richiedervelo (ad esempio, in caso di partecipazione a concorsi) quanto avete indicato sul vostro curriculum vitae.
Quali sono i segreti per farmi assumere alla fine dello stage?
Dimostrare durante il percorso di essere una persona seria e affidabile, volenterosa di imparare, competenze trasversali: mentre le competenze tecniche si acquisiscono nel tempo, l’attitudine allo svolgimento di un lavoro è determinante, e non è qualcosa che si può imparare. È per questo importate intraprendere percorsi fin da subito in linea con le proprie abilità e interessi. Questi sono gli elementi vincenti, ma è pur vero che tanto dipende anche dalla disponibilità economica dell’impresa in quel determinato momento.
E se, finito lo stage, mi chiedono un prolungamento dello stage?
Nel caso si tratti di un tirocinio per studenti iscritti a corsi di studio, l’ente ospitante può richiedere una proroga e deve farlo almeno tre giorni prima della fine dello stage, inviando la richiesta di all’Ateneo di riferimento. Lo stage per gli studenti iscritti a corsi di studio, non può comunque superare i 12 mesi complessivi. I tirocini post-laurea non possono invece superare la durata di 6 mesi. Non vengono autorizzate proroghe che superino questi limiti. Questo in linea generale: ogni Regione infatti ha la propria legge di riferimento, in quando è di sua competenza stabilire come meglio regolare la materia in base alle esigenze del territorio.
LA LOBBY DEI SINDACATI. DECISIVA E POLITICAMENTE IRRESPONSABILE.
La lobby dei sindacati, decisiva e politicamente irresponsabile, scrive Patrizia Sterpetti il 3 giugno 2010 su "Libertiamo". La complessità che caratterizza gli attuali rapporti politici, istituzionali, sociali ed economici richiede una riflessione sulla nuova fisionomia assunta dal sistema democratico. Oggi si assiste ad una verticalizzazione del sistema politico e delle sue dinamiche interne. Una verticalizzazione favorita dalla crisi delle strutture intermedie e dell’intero assetto istituzionale. E’ cambiato il processo decisionale: il ruolo del Parlamento è fortemente ridimensionato, sia per il rafforzamento del potere degli organi comunitari, sia per il ricorso costante alla decretazione d’urgenza. La permeabilità delle istituzioni alle influenze esterne è fortemente condizionata da questi mutamenti. Lo spostamento del potere effettivo dalla sede legislativa ad altri luoghi alimenta l’influenza degli interessi settoriali. I gruppi di interesse, pur non essendo investiti di potere politico formale, spesso, nondimeno, sono in grado di esercitare un potere politico sostanziale: potere politico, cioè, che si afferma nella realtà di fatto incidendo sull’azione dei pubblici poteri, condizionandola e producendo effetti suscettibili di riflettersi sull’intera collettività. Influenza che riverbera sul modo di operare delle istituzioni democratiche e che denuncia le carenze del sistema rappresentativo. La consistente identità collettiva che da sempre ha caratterizzato i partiti ha lasciato il posto alla negoziazione. L’emergere di gruppi corporativi e settoriali che, non di rado, avanzano pretese, richieste e rivendicazioni al di fuori dei partiti ha portato ad una crescente difficoltà degli stessi a rappresentare gli interessi di cui essi dovrebbero, astrattamente, essere portatori. In questo quadro è necessario operare una riclassificazione dei rapporti tra Stato e società civile. Consultazione o negoziazione? Oggi, associazioni di categoria e sindacati sono divenuti interlocutori “privilegiati” capaci di negoziare e di blindare le decisioni politiche. L’associazione di rappresentanza è uno degli strumenti organizzativi di influenza più importante. Dotato di soggettività istituzionale formale è, in quanto tale, legittimato ad esercitare la contrattazione. Ormai è di larga diffusione la pratica delle associazioni di riunirsi in Confederazioni che rappresentano la forma più elevata della rappresentanza di categoria. In questo modo semplificano il sistema di rappresentanza, riducono la frammentazione degli interessi e generano lobbies potenti in grado di compiere l’assalto alla diligenza. E che dire del sindacato? Parte negoziale ed interlocutore esclusivo dello Stato. Associazione di fatto che è riuscita ad acquisire un’autonoma e crescente posizione di potere nella società civile, concorrendo a determinare la politica nazionale. Si è giunti nel corso degli anni ad una “istituzionalizzazione” del ruolo dei sindacati dei lavoratori e dei datori di lavoro quali “interlocutori negoziali” e quindi in sostanza veri e propri “soggetti” dei procedimenti prelegislativi ed anche legislativi per l’adozione di misure tali da rivestire un particolare interesse per le predette categorie sociali. Dalle prime consultazioni delle forze sociali, per lo più in sede governativa, si è successivamente passati alla istituzionalizzazione di fatto di “incontri” e “conferenze triangolari” tra Governo, imprenditori e sindacati in vista dell’adozione di misure legislative di carattere economico – sociale. Le grandi forze sindacali hanno sempre respinto qualunque ingerenza da parte del potere politico sul tema “lavoro”. Fonte esclusiva di regolamentazione del rapporto di lavoro, dovrebbe essere il contratto in quanto frutto della concertazione tra la rappresentanza dei lavoratori e la rappresentanza degli imprenditori. Ma la realtà è assai meno suggestiva. Questo paritetico rapporto negoziale spesso degenera in un estenuante braccio di ferro capace di paralizzare il sistema. Nel solco della miglior tradizione neocorporativista il sindacato, ormai, è coinvolto direttamente nel processo decisionale. Per inserirsi nella gestione del potere politico utilizza gli strumenti della lotta sindacale; e principalmente si avvale del diritto di sciopero. Attraverso questo strumento riesce ad influenzare e condizionare le scelte degli organi costituzionali, traendo dalla lotta di classe legittimazione per determinare le scelte del paese. Nulla da obiettare circa le istanze meritorie avanzate, espresse a tutela delle guarentigie dei lavoratori ma è inutile nascondere il fatto che il sindacato entra ormai direttamente nel sistema come soggetto di azione politica. Al coinvolgimento diretto di questa “parte negoziale” nel processo decisionale non segue, però, la condivisione della responsabilità politica. Questa l’anomalia del sistema. Ancora una volta emerge la discrasia del sistema politico. Lobbies leggere e lobbies pesanti. Anche con riferimento ai sindacati si pone il problema di una sede istituzionale deputata alla sintesi e al confronto delle istanze che provengono dalla società civile. L’attività dei gruppi di interesse, in un regime democratico, può rappresentare un fattore di equilibrio nelle dinamiche delle società moderne ma perché ciò avvenga è necessario garantire un acceso egualitario a tutti gli interlocutori.
Autore: Patrizia Sterpetti. Nata a Catania nel 1980, laureata in Giurisprudenza, con tesi in Diritto Costituzionale. Ha conseguito una specializzazione in “Comunicazione e gestione delle Relazioni istituzionali”. Dal 2010 si occupa di Relazioni Istituzionali.
Vittorio Feltri 6 giugno 2014 “Libero Quotidiano”: maledetti comunisti, avete reso l'Italia un inferno. Maledetti comunisti, avete rovinato l'Italia. E' l'anatema di Vittorio Feltri su quel quarto di italiani che per anni, secondo il fondatore di Libero, è stato la zavorra del Paese. Un Paese, dicono i dati economici, sempre più in calo tra quelli industriali, superato anche dal Brasile. "E la marcia del gambero ci porterà ancora più in basso in futuro", è la profezia di Feltri sul Giornale. Il perché è presto detto: i nostri imprenditori "non sono stupidi" ma soffrono le conseguenze di una "campagna anti-capitalistica iniziata quarant'anni fa e portata avanti con tenacia fino ad oggi da coloro i quali consideravano il denaro lo sterco del demonio oppure, peggio ancora, uno strumento per opprimere il proletariato". In una parola: la sinistra italiana. Dalla politica ai sindacati rossi - "Gli stessi comunisti si vergognano di esserlo stati - prosegue Feltri - ma la mentalità pauperistica è rimasta e non ha cessato di provocare danni". Risultato: in Italia è impossibile fare impresa o artigianato, aprire un'azienda, essere liberi professionisti senza essere considerati "sfruttatori, evasori fiscali se non addirittura ladri". E anche lo Stato, influenzato da alcuni partiti di ispirazione marxista, non aiuta con tutta una serie di vincoli burocratici, lacci e lacciuoli. E i sindacati "hanno completato l'opera, contribuendo ad avvelenare i rapporti tra datore di lavoro e dipendenti", trasformando le fabbriche in "luoghi d'odio e di lotta violenta", per "umiliare i padroni e il personale non ideologizzato". Il combinato disposto di questo attacco continuo da parte di politica e sindacati di sinistra da un lato e crisi economica globale dall'altro è la bandiera bianca alzata da molti imprenditori italiani, costretti a chiudere bottega. L'Italia, dunque, è "un inferno" per i volenterosi. "Serve una rivoluzione culturale opposta a quella di Mao - è l'appello conclusivo di Feltri -, per rieducare gli italiani. Finora siamo stati bravi soltanto a distruggere le fabbriche, è assurdo avere la velleità che dal cimitero industriale si ricavino stipendi, benessere e stabilità sociale".
Sindacati, tutti li odiano. Landini e Camusso, fate qualcosa, scrive Antonio Padellaro il 28 luglio 201 su "Il Fatto Quotidiano". “I sindacati hanno rovinato l’Italia”, era la frase che quando cominciavo a fare il giornalista andava di moda nelle intemerate della cosiddetta maggioranza silenziosa che marciava al soldo del padronato più becero, intrisa di revanscismo postfascista. Robaccia che sarebbe stata rapidamente sconfitta dalla storia. Qualche giorno fa, alla stazione Termini, mentre in pieno sciopero bianco con una folla di altri disperati aspettavo un convoglio della metro che non sarebbe mai arrivato ho sentito tanti, troppi, inveire contro “i sindacati di merda”. Parole non diverse saranno echeggiate venerdì scorso a Fiumicino durante l’agitazione Alitalia e all’ingresso di Pompei con i cancelli sbarrati per un’assemblea “selvaggia” del personale mentre lunghe file di turisti giunte da mondi civili cuocevano sotto il sole, pentiti probabilmente di avere scelto il Belpaese come meta del loro viaggio. Per questo mi rivolgo a Landini e Camusso, e a quanti come loro difendono i diritti del lavoro sotto le più diverse bandiere e chiedo come sia stato possibile che la gloriosa parola sindacato venga pronunciata oggi con tanto livore e disprezzo, confusa con le mille sigle di un sindacato ricattatorio che spadroneggia nei pubblici servizi imponendo a milioni di cittadini disagio e infelicità. Qui non m’interessa entrare nelle dispute contrattuali e do quasi per scontato che conducenti, custodi e piloti abbiano le loro ragioni da fare valere contro manager e funzionari di sovrintendenze e municipalizzate che per inettitudine, malafede o peggio meriterebbero di essere cacciati a calci nel sedere. Né mi convince la reazione del leader Cisl, Annamaria Furlan che accusa di “demagogia” e “polveroni” Renzi perché dopo la scandalo Pompei e lo sciopero Alitalia una volta tanto ha detto la cosa giusta e cioè: “Dovremo difendere i sindacati da se stessi”. Ma è proprio così. E anche se il premier approfittasse dell’occasione per mettere fieno in cascina nella sua personale guerra contro l’ala dura di Cgil e Fiom, pensare di cavarsela, cara Furlan, con il solito sindacalese del “prendere le distanze da comportamenti che non condividiamo” serve soltanto a lasciare le cose come stanno, anzi a peggiorarle ancora. Non ci si rende conto che il disfacimento dei servizi di pubblica utilità (compresa la non raccolta rifiuti che espone Roma all’universale ludibrio) sta creando situazioni di ribellismo sempre più incontrollato e il sindacato responsabile, se ancora ne esiste uno, non se ne può lavare le mani dicendo: non ci riguarda. E invece vi riguarderà eccome, cari Landini e Camusso se il sindacato, buono o cattivo che sia, nel clima di esasperazione generale verrà individuato come il nemico pubblico da abbattere. Anche perché la crisi dell’istituzione sindacale, purtroppo, non si ferma qui. Nel lontano 2008, un bravo giornalista dell’Espresso, Stefano Livadiotti pubblicò con Bompiani un libro dal titolo: L’altra casta, che documentava “privilegi, carriere, misfatti e fatturati da multinazionale” di Cgil, Cisl e Uil. Ripensavo a quell’inchiesta sabato scorso a Savona quando dopo un dibattito sulla criminale centrale a carbone di Vado Ligure (protetta da politici e affaristi e chiusa per ordine della magistratura), a me e a Ferruccio Sansa raccontavano degli strani silenzi di certi sindacalisti, casualmente favoriti dal sistema dei distacchi e delle relative prebende. Così simili ad altri silenzi di altri sindacalisti a Taranto, Ilva. Nessuno può discutere il contributo decisivo del sindacato al consolidamento della nostra democrazia: dalla lotta al terrorismo, alla concertazione con i governi che negli Anni 90 impedirono il default del Paese, allo straordinario impegno per la difesa dei diritti e del lavoro culminato nella grande manifestazione del Circo Massimo del 2002 guidata dalla Cgil di Sergio Cofferati. Proprio per questo colpisce il declino di un’organizzazione che da troppo tempo non è più capace di farsi carico, come si diceva una volta, degli interessi generali del Paese. Concentrata sulla difesa dei propri iscritti: pochi lavoratori produttivi e soprattutto pensionati e pubblico impiego. Rinchiusa nelle proprie roccaforti e indifferente al degrado della cosa pubblica. E adesso indicata come il male da cui liberarsi. Fate qualcosa. Il Fatto Quotidiano, 28 luglio 2015
Sindacati e privilegi, aboliamoli, scrive il 27 febbraio 2017 Andrea Pasini su “Il Giornale”. Vado sul dizionario del Corriere della Sera, per essere al di sopra delle parti. Cerco la parola esempio. Leggo. “Chi o ciò che costituisce un caso significativo rispetto a una categoria morale e in quanto tale è proposto come modello da imitare o da evitare”, mi fermo qui. Spesso penso alla realtà produttiva italiana. Spesso ne scrivo nei miei articoli. Raramente mi sono soffermato sul senso, ma anche sul significato, dei sindacati. Dovrebbero essere un punto d’incontro, una valvola, fondamentale, attraverso la quale dirigenti ed operai possano confrontarsi, anche lottare e discutere animatamente, eppure utile al fine di favorire i diritti dei funzionari. Lo leggiamo anche sulla Costituzione all’articolo 1: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Eppure non tutti sono pronti a prodigarsi per i lavoratori.
Settembre 2016. Carmelo Barbaglio, ex segretario generale della Uil, e Luigi Angeletti sono stati coinvolti, per questo finiranno a processo, in un giro vorticoso di note spese gonfiate. Da crociere a Swarovski, tutto “offerto” gentilmente dalle tasche dei tesserati dell’Unione Italiana del Lavoro. Angeletti ha avuto l’ardire di dichiarare: “Le crociere indicate avevano lo scopo di consentirci di discutere in maniera approfondita e per più giorni di importanti tematiche relative principalmente al blocco dei contratti del pubblico impiego e delle politiche previdenziali dei governi in carica, l’esito è stato ovviamente utile per i successivi confronti in seno alla segreteria”. E io pago, anzi gli iscritti pagano. Non sarebbe stato sufficiente accamparsi in un ufficio. Non sarebbe stato congruo chiudersi nelle sale riunioni di una delle sedi dell’Uil. No, servivano viaggi e gioielli. Mancanze di rispetto inaudite a fronte di chi bagna con il sudore un misero salario.
Passiamo a gennaio di quest’anno. Questa volta la protagonista recita il nome di Cgil. Susanna Camusso, flessibile come sempre, qualche tempo fa tuonò così: “Non si tratta di modificare alcune regole, si tratta di farle scomparire perché non solo offendono, come quelle sui voucher, la dignità delle persone, ma creano un precariato ancora più insopportabile di quello che si doveva eliminare”. Poi vai a Bologna e scopri che lo Spi, Sindacato Pensionati Italiani, associazione capace di raggruppare oltre 100mila tesserati in città, paga i lavoratori con i voucher. Bellezza è il lavoro e tu non puoi farci niente. Novelli Humphrey Bogart si vestono da capitalisti, recitando la parte dei difensori del proletariato. Spettacolo raccapricciante. Bruno Pizzica, segretario regionale Spi, ci mette una pezza: “La disposizione prevede che l’utilizzo fosse limitato solo ai pensionati che svolgono attività di poche ore al mese. Per intenderci: se lei venisse anche solo due giorni a settimana, ma tutte le settimane, nelle nostre sedi a dare una mano, io le farei un contratto. Secondo la circolare, non potrei utilizzare i voucher. Chi lavora in maniera continuativa nello Spi Cgil ha un contratto”. Una scusa è per sempre, come i diamanti e si ritorna al paragrafo sopra.
Potremmo andare avanti ancora, entrare maggiormente nel mondo della triade Cgil-Cisl-Uil, ma ci fermiamo. Facendo un favore alle nostre coronarie. Ma non è stato sempre così. Per esempio Filippo Corridoni, eroe durante il primo conflitto mondiale, fu appassionato sostenitore del sindacalismo rivoluzionario. In prima fila nei comizi e pronto a spendersi per i sommi diritti dei lavoratori. Tullio Masotti, nel volume Corridoni, scrisse: “Egli fu invero più poverello del Poverello, al quale forse non mancò mai il nutrimento elementare. Era spettacolo strano vedere Pippo che in un certo momento comandò la ricca e prosperosa Milano con le ginocchia fuori dei pantaloni. Corridoni fu raro esempio di assoluto e pieno distacco dalle cose materiali, dalle necessità concrete e comuni della vita”. Oppure ricordiamo le parole di Stefano Livadiotti, in una delle sue inchieste, definì in poche righe quello che è lo sfacelo dei sindacati ai giorni nostri: “L’immagine del sindacato come di un soggetto responsabile, capace di farsi carico degli interessi generali del paese, agli occhi degli italiani si è disciolta ormai da tempo. Lasciando il posto a quella di un’arrogante casta iperburocratizzata e autoreferenziale che, sotto la guida di funzionari in carriera solleticati dalla voglia del grande salto nel mondo della politica, ha via via perso il contatto con il mondo reale. Un apparato che, presentandosi come legittimo rappresentante di tutti i lavoratori, in nome di una concertazione degenerata in diritto di veto, pretende di mettere becco in qualunque decisione di valenza generale. E che in realtà fa gli interessi dei soli suoi iscritti, sempre più marginali rispetto al sistema produttivo nazionale, ai quali sacrifica il bene collettivo, mettendosi ostinatamente di traverso a qualunque riforma rischi di intaccarne uno status quo fatto di privilegi”.
I sindacati hanno barattato il futuro dei lavoratori per una, loro, poltrona. L’invidia sociale li ha mossi, non la rabbia e la voglia di creare un altro mondo, un mondo più equo. Il tasso di sindacalizzazione negli anni ’60 era del 25%. E’ schizzato alle stelle tra gli anni ’70 e ’80, superando il 50%, mentre oggi, nel nostro paese, si assestata intorno al 33,8%. Un lavoratore su tre ha una tessera in tasca, ma tutto continua. Soldi fagocitati, privilegi, sogni spezzati e castelli di sabbia. Quelli che non mollano sono i pensionati. Secondo Treccani, dato aggiornato al 2010, il 52% degli iscritti a Cgil sono dipendenti a riposo. La Cisl recita 48,5%, mentre la Uil 30%. Una schiera di sacche vuote attraverso cui nutrirsi, tenutasi in vita per farsi spillare soldi. Soldi rubati ad una delle ultime colonne portanti di un ormai fatiscente Stato sociale. Siamo in ginocchio davanti alla finanza, davanti al servilismo politico e all’inedia anche per colpa dei sindacati. Enti che hanno fallito e devono essere rottamati, cancellati e rivisti ai fini di un’equità che deve diventare simbolo, e traguardo, per i lavoratori di ogni angolo d’Italia. Lo vediamo ogni giorno, anche nelle proteste dei tassisti e degli ambulanti, servono uomini capaci di assumersi responsabilità e sputare sangue. Uomini d’acciaio, non uomini da sindacato.
Stacanovisti, solidali e poco sindacalizzati: ecco i giovani italiani under 35, scrive sabato 10 ottobre 2015 "Il Secolo d’Italia". Flessibili, con tanta voglia di lavorare a tutti i costi e anche senza i diritti sindacali acquisiti con le lotte dei padri, generosi con il crowfounding, solidali, green oriented, perennemente connessi, ottimisti verso il futuro e soprattutto imprenditori. È lo stile di vita dei Millennials italiani, i giovani tra i 18 e i 34 anni, secondo la fotografia di generazione scattata dal Censisper il Padiglione Italia di Expo. I risultati della ricerca Vita da Millennials: web, new media, startup e molto altro se da una parte confermano quel che era ovvio, ossia la loro digital life – (il 94% è utente di internet; l’87,3% è iscritto almeno a un social network; l’84,7% utilizza lo smartphone sempre connesso in rete contro il 52,8% medio; il 61,4% ha acquistato almeno un prodotto o un servizio sul web) – dall’altro riservano più di una sorpresa, spazzando via una volta per tutte quel famigerato choosy bamboccioni, con cui sono stati a torto raccontati. Innanzitutto emerge la loro voglia di impresa: quasi 32.000 nuove imprese nate nel secondo trimestre del 2015 fanno capo a un under 35, cioè sono nate più di 300 imprese al giorno guidate da giovani, con una crescita del 3,6% rispetto al trimestre precedente a fronte del +0,6% riferito al sistema d’impresa complessivo. E ai giovani si deve più della metà (il 54%) del saldo tra imprese nate e cessate nel periodo. Lo stock complessivo di imprese di giovani è oggi pari a 594.000, cioè costituiscono il 9,8% del tessuto imprenditoriale del Paese. La voglia di impresa è inoltre trasversale ai territori, inclusi i più critici, perché anche nel Mezzogiorno il 40,6% delle imprese nate nel trimestre è riconducibile a un giovane, con un tasso di crescita del 3,5% rispetto al trimestre precedente. La flessibilità inoltre sembra un dato acquisito: un milione di Millennials, emerge dalla ricerca, ha cambiato almeno due lavori nel corso dell’anno. Anche con tutti gli effetti negativi del caso: 2,3 milioni svolgono un lavoro di livello più basso rispetto alla propria qualifica; 1,2 milioni dichiarano di aver lavorato in nero negli ultimi dodici mesi, 4,4 milioni hanno fatto stage non retribuiti. E poi sono gran lavoratori: più di 3,8 milioni di loro lavorano oltre l’orario formale (il 17,1% in più rispetto ai Baby Boomers). Di questi, 1,1 milioni lo hanno fatto senza ricevere il pagamento degli straordinari. A 1,1 milioni di Millennials capita di lavorare anche di notte, a quasi 3 milioni durante il weekend.
PARLIAMO DI INFORTUNI SUL LAVORO.
1 milione l'anno gli infortuni sul lavoro. 1.000 i morti: 1 ogni 7 ore. Quando gli incidenti sul lavoro sono circa un milione l’anno e i morti più di mille, quando ogni 7 ore muore un lavoratore, non si può dire che in Italia un fondamentale diritto della persona, ossia il diritto alla vita e alla sicurezza di ciascuno nel normale svolgimento della propria attività, sia garantito. Non si tratta infatti di un fenomeno marginale e in via di estinzione, bensì di un effetto perverso che sembra profondamente innervato nel modo di produzione e nello stesso modo di essere della modernità. In realtà, siamo in presenza di un fenomeno sociale di massa, sebbene la società non lo riconosca come tale.
Di certo una vera e propria guerra a bassa intensità, che di regola si svolge nell’ombra e nel silenzio. Una vergogna che macchia il Paese, che ignora il diritto al lavoro e alla sua sicurezza. E’ una contabilità spesso arida e anonima, persino controversa, che non ha sussulti neanche di fronte alla fine di una vita. Resta in ogni caso la preoccupazione e in certa misura lo sconcerto per il fatto che gli enti previdenziali siano considerati, in definitiva, dei semplici strumenti operativi dello Stato - al di là di quanti organi rappresentativi siano presenti al loro interno - dei quali interessa il valore complessivo ed il risparmio complessivo che possano realizzare.
Infortuni sul lavoro: la strage silenziosa. E la vita di un giovane vale duemila euro, scrive Pasquale Notargiacomo su “La Repubblica”. I numeri ufficiali degli incidente (mortali e non) sono in calo. Ma, in parte, dipende dalla crisi e, in parte, secondo fonti diverse dall'Inail, da una serie di sottovalutazioni del problema. Tra fatalismo e tentativi di prevenzione, l'Italia resta in testa alle classifiche europee per le morti e al terzo posto per numero di incidenti. E il registro previsto dalla legge non parte mai. Messi sotto accusa dalla Ue dopo la denuncia di un lavoratore toscano. "Se gli infortuni nel settore edile diminuiscono, è perché si lavora meno. Non sono infortuni che dipendono da tecnologie particolari, per i quali si possono produrre processi di apprendimento... la caduta dall'alto, per esempio è un fenomeno abbastanza primitivo". Chi parla è il presidente dell'Inail, Massimo De Felice. Dalle sue parole "l'ineluttabile fatalità" sembra essere ancora una componente imprescindibile quando si parla di sicurezza sul lavoro (in questo caso nell'ambito dell'edilizia). Eppure ai progetti di prevenzione nella costruzione di edifici l'Inail ha destinato il maggior importo di finanziamenti alle imprese, nel 2011, con circa 23 milioni di incentivi assegnati sui 205 totali (155 l'importo nel bando per il 2012). Stesso settore: cambio di scena. Michele Russo è un sindacalista gambizzato dalla camorra. Attualmente fa parte del Cpt (Comitato paritetico territoriale) di Caserta, un organo che opera grazie a un accordo tra costruttori e organizzazioni sindacali per la prevenzione nei luoghi di lavoro. Il suo territorio, da trent'anni, è compreso tra il Nord della Campania e l'agro aversano: una zona tradizionalmente ad alta densità di imprese edili. Le persone che prova a tutelare sono i favricatori. "Gente per lo più analfabeta" - racconta, "che però ha costruito l'alta velocità". Le prime volte che visitava un cantiere lo scambiavano per un camorrista: "Avevo il codino e la prima reazione immediata era la paura. Poi pensavano che fossi dell'ispettorato e avevano ancora più timore. Quando capivano che non ero neppure quello, la felicità massima. Non teniamo tempo da perdere... lasciateci in pace, mi dicevano. Eppure siamo riusciti a farci aprire cantieri dove non vanno neanche gli ispettori del lavoro". Oggi, però, di grandi cantieri neanche l'ombra: "Non saprei dove portarvi", ammette. La crisi economica morde, con ricadute pesanti anche sul versante della sicurezza. "Se negli ultimi dieci anni qualche miglioramento c'era stato, adesso stiamo tornando indietro. Chi lavora nei cantieri fa cose che aveva imparato a non fare, perché è troppo grande il rischio di essere mandati a casa". La distanza tra De Felice e Russo, lo iato tra fatalismo e prevenzione, incarna la prima contraddizione in cui ci imbattiamo nel nostro viaggio tra infortuni e morti da lavoro. Una strage per taluni ancora 'inevitabile' e troppo spesso silenziosa. La fotografia dell'ultimo rapporto Inail (relativo al 2011): 725mila infortuni denunciati, (-6,6% rispetto al 2010, -5% al netto dell'effetto perdita quantità di lavoro), 920 casi mortali (680 sul luogo di lavoro e 240 in itinere, complessivamente -5,4% rispetto al 2010, -4% tenendo conto della contrazione occupazionale), 46.558 malattie professionali (+9,6%).
Cosa resta fuori? Sempre secondo le stime dell'istituto i circa i 165mila infortuni 'invisibili' derivati da lavoro nero. Il 90% degli infortuni denunciati rientra nella gestione Industria e servizi, il 6% in Agricoltura, il 4% riguarda lavoratori statali. Per quanto riguarda i casi mortali 115 sono avvenuti nell'agricoltura, 425 nell'industria (tra cui 195 nelle costruzioni), 380 nei servizi. Le cause più ricorrenti: caduta dall'alto (33%), caduta di gravi (27%), variazione di marcia del veicolo (13%). Altra notazione: il 60% del fenomeno infortunistico si concentra al Nord, con Lombardia, Emilia Romagna e Veneto che da sole sommano il 42% dei casi. Tentiamo con cautela un raffronto europeo (la materia è spesso gestita diversamente, soprattutto per quando riguarda gli infortuni in itinere, cioè accaduti nel viaggio verso il posto di lavoro). Secondo statistiche Eurostat (aggiornate a dicembre 2012) considerando le attività del Nace-R2 (una sorta di 'paniere' delle 13 attività economiche comuni ai paesi della Ue) l'Italia tra il 2008 e il 2010 è stato per valori assoluti il Paese con più morti sul lavoro (718 vittime nell'ultimo anno considerato, contro le 567 della Germania, le 550 della Francia, le 338 della Spagna e le 172 della Gran Bretagna). Situazione leggermente migliore per gli infortuni con Germania e Spagna, che precedono il nostro Paese, in valori assoluti. Anche in Italia, accanto ai dati ufficiali dell'Inail, altre voci provano a raccontare una realtà differente. Carlo Soricelli è un operaio metalmeccanico in pensione, che vive a Casalecchio di Reno (alle porte di Bologna). Dal 2008 cura l'Osservatorio indipendente di Bologna morti sul lavoro. "Lo faccio da solo, mi danno una mano i miei figli e qualche altro volontario". I suoi dati si discostano sensibilmente da quelli dell'ente pubblico: nel 2011, secondo Soricelli, ci sono stati più di 1170 vittime (+11,6% rispetto al 2010), e anche per il 2012 il valore si manterrebbe costante, con una stima di 1180. Ecco perché non nasconde le sue critiche su quelli che sono ritenuti le statistiche più autorevoli del settore. "L'Inail non tiene conto dei lavoratori che non hanno nessuna assicurazione e muoiono in nero" - spiega l'ex operaio - "senza dimenticare le vittime nei nostri corpi militari o delle forze dell'ordine e la difficoltà di classificare tutte le morti che avvengono sulle strade". Nonostante da tempo sia diventato un punto di riferimento della materia, il suo Osservatorio non trova sponde istituzionali: "I politici non mi rispondono", rivela. Altre polemiche si sono accese attorno alle prestazioni erogate dall'Inail ai familiari di due vittime sul lavoro di quest'ultimo anno: Matteo Armellini, morto a marzo, a Reggio Calabria, sotto il palco di Laura Pausini e Nicola Cavicchi, che ha perso la vita nel crollo di un capannone nel sisma dell'Emilia. Alle loro famiglie l'istituto ha versato soltanto un assegno funerario di 1936,80. "C'è una legge", spiega il presidente dell'Inail Massimo De Felice, "E l'Inail non può non applicarla, non ha gradi di libertà". La norma in questione è il Testo Unico 1124/65. L'art. 85 disciplina, infatti, anche le rendite ai superstiti (che si aggiungono ai 560mila invalidi titolari di rendita per infortunio e ai 150mila per malattie professionali). Punto controverso: la legge in questione non prevede indennizzi in caso di vittime che non abbiano mogli e figli e non partecipino al mantenimento dei genitori. Una norma che ignora, contrariamente a quanto succede nei principali paesi europei, la convivenza more uxorio e penalizza i lavoratori più giovani. Visto che le loro condizioni, infatti, per salari e contratti sono spesso peggiorate rispetto ai loro genitori, mentre il meccanismo di calcolo della rendita è rimasto immutato. Marco Bazzoni, un operaio metalmeccanico (responsabile sindacale della sicurezza nell'azienda dove lavora in provincia di Firenze), ha lanciato una petizione per la revisione del TU. "Valutare la vita di un lavoratore meno di duemila euro è un'elemosina", spiega. Non è l'unico fronte su cui è attivo l'operaio toscano. Nel 2009, grazie a una sua petizione, Bazzoni ha sollecitato l'apertura di una procedura d'infrazione ai danni dell'Italia per le modifiche apportate dall'allora governo Berlusconi, con il dlgs 106/2009, al Testo Unico del 2008. Due i punti sotto accusa. "Hanno stravolto l'impianto della legge con la deresponsabilizzazione del datore di lavoro" - attacca Bazzoni -, "e la proroga del documento di valutazioni dei rischi per le nuove aziende". Il 21 novembre l'Ue ha inviato un parere motivato all'Italia, che ha due mesi di tempo per evitare pesanti sanzioni. La situazione non appare più nitida per le malattie professionali. I dati, a riguardo, indicano un aumento ininterrotto negli ultimi anni (+9,6% nel 2011). E l'Inail stima che i quasi 300 decessi indennizzati relativi al 2011 siano destinati nel lungo periodo ad attestarsi attorno alle 1000 unità (705 nel 2009 e 623 nel 2010). I tumori professionali rappresentano la prima causa di morte (oltre il 90%) per malattia tra i lavoratori: 1200 denunce all'anno più le ulteriori 2000 denunce per patologie tumorali legate all'amianto (e secondo l'Istituto Superiore di Sanità il picco di mortalità per l'esposizione all'asbesto arriverà tra il 2015 e il 2020). Un dato di cui la stessa Inail ammette la probabile sottostima. In forte crescita anche le malattie osteo-articolari e muscolo-tendinee che costituiscono il 66% del totale delle denunce. Resta comunque la percezione di muoversi tra confini ignoti agli stessi addetti ai lavori. Come conferma Vincenzo Di Nucci presidente dell'Aitep (Associazione italiana tecnici della prevenzione): "E' un mondo misconosciuto con una grande zona grigia. Se l'infortunio è un fenomeno che ha un qui e ora, l'esposizione a un agente di rischio può durare anche tutta la vita lavorativa così ricostruire l'inizio del processo diventa molto complicato. Gli epidemiologi ci dicono che sul totale dei morti all'anno per tumore in Italia è possibile stabilire un range tra il 4 e il 10% dovuto a un'esposizione avvenuta sul posto di lavoro". De Felice, nominato ai vertici dell'Istituto dal ministro Fornero a maggio 2012 depotenzia così le polemiche sui dati: "Riteniamo che l'Inail debba essere un fornitore ufficiale, quindi non debba né rispondere a richieste né entrare in dibattiti troppo animati, deve fissare un calendario per la diffusione dei dati e una chiave di lettura, una sorta di Istat, col vantaggio che noi non dobbiamo raccoglierli ex novo". Quello che è fuori di dubbio è che la difficoltà di avere dati omogenei tra tutti operatori del settore è nota da tempo. Per questo tra le novità introdotte dal TU 81/2008 una delle più attese, prevista dall'art.8, riguardava il SINP (Sistema informativo nazionale prevenzione), un flusso di dati comune tra tutti gli operatori del settore (tra gli altri Ministero del Lavoro, della Salute, delle Regioni e delle Province di Trento e Bolzano, Inail, ex Ipsema e Ispesl). Una sorta di database, gestito dall'Inail, costantemente aggiornato con tutte le statistiche relative al fenomeno. A più di 4 anni dall'emanazione del Testo unico il SINP, però, non è ancora partito. "Ne abbiamo sollecitato l'attivazione agli ultimi due ministri del lavoro" - spiega Oreste Tofani presidente della Commissione Parlamentare d'Inchiesta sugli infortuni sul Lavoro - "Ci dicono che è tutto è a posto, però non parte". "Abbiamo avuto un lungo periodo di confronto con il Garante, trattandosi di dati personali" - risponde Giuseppe Piegari, il responsabile Coordinamento vigilanza tecnica del Ministero del Lavoro -,"i ritardi sono dovuti alla delicatezza della materia, e ci sono state anche osservazioni del Consiglio di Stato, ma siamo in dirittura d'arrivo".
Come riscontro di questa sensazione, al di là delle dichiarazioni di commozione, di cordoglio e di solidarietà, ci sono d’altra parte alcuni fatti concreti:
- dall’entrata in vigore della legge 123/07 (nuove norme in materia di sicurezza sul lavoro), i coordinamenti provinciali delle attività ispettive, previsti all’art. 4, stanno appena muovendo, quando va bene, i primi passi;
- si stima che il personale impegnato nella prevenzione infortuni, se dovesse controllare tutte le aziende, ognuna di esse riceverebbe un controllo ogni 23 anni, ed infatti si interviene quasi sempre solo dopo l’infortunio;
- sul fronte penale i reati di omicidio colposo o lesioni conseguenti al mancato rispetto delle norme di sicurezza sul lavoro sono sostanzialmente impuniti per i tempi della giustizia;
- nell’ordinamento giudiziario francese vi è un Pool di Pubblici Ministeri e di giudici istruttori i quali hanno una competenza per quasi tutto il territorio francese sugli affari e i reati di maggiore rilevanza sul piano nazionale che attengono la salute. In Spagna è stata introdotta la figura del Procuratore Speciale per gli incidenti sul lavoro. Nel nostro Paese per le vittime del lavoro ottenere giustizia è purtroppo una timida e quasi sempre disattesa speranza.
D'altronde cosa si può aspettare dai nostri governati. Il servizio del “Trio Medusa” su “Italia 1” documenta come alcuni operai impegnati al rifacimento delle facciate della Camera dei deputati siano senza caschetto protettivo. Immagini poi proposte a Fausto Bertinotti, che in passato aveva definito i lavori in corso nel palazzo di Montecitorio come un "cantiere modello". Prima un uomo al lavoro al dodicesimo piano di una impalcatura, poi un altro al quarto piano, e ancora un altro che sale le scale, uno che scende con l'ascensore, tutti senza caschetto. Le immagini scorrono una dopo l'altra, e vengono poi proposte al Presidente della Camera. Bertinotti le guarda con attenzione, poi dichiara: "L'azienda che assume questo lavoro ne è responsabile sia civilmente che penalmente, e dunque qualunque elemento che mettesse a rischio il lavoratore deve essere indagato dall'ispettorato del lavoro, dalle organizzazioni sindacali e denunciato ovunque esso si trovi". “Le Iene” incalzano, ricordando a Bertinotti che proprio lui aveva dichiarato che quello di Montecitorio era un cantiere modello per tutti i cantieri edili in Italia. "E' disposto a ripeterlo?", chiede la “Iena”.
"Io l'ho detto sulla base della mia esperienza personale" ammette il Presidente della Camera, "e in quel momento era un cantiere dalle garanzie riconosciute. Siccome credo all'inchiesta, quando questa documenterà il contrario sarò pronto a fare marcia indietro. Adesso, di fronte a questa vostra sollecitazione sospendo il giudizio e verificherò. In ogni caso", conclude Bertinotti, "vi invito ad andare dal magistrato". Bertinotti dimentica che lui, come pubblico ufficiale, è obbligato alla denuncia. Se si tira indietro il Presidente della Camera, comunista, figuriamoci gli altri……
IL CAPORALATO DA SPECULARE.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Quando non vogliamo onorare i nostri debiti presentiamo una denuncia per usura contro il nostro creditore se siamo singoli; votiamo a maggioranza un referendum quando siamo una collettività.
C’è chi pensa che l’euro è la causa di tutti i mali…Ma non è solo una moneta? Malevolo è chi si richiama alla moneta per creare sfascio. I Grillini, i leghisti, i comunisti ed i fascisti tutti nel calderone. Perché tutti gli sfascisti non dicono che se un buon padre di famiglia si fa bastare una certa somma di denaro per i bisogni familiari, mentre chi ruba, spreca e spande quella somma non la fa bastare, la colpa non è della moneta che ha in tasca?
Nel momento del soddisfacimento egoistico dei propri bisogni si diventa tutti comunisti: esproprio proletario della proprietà altrui. Tutti con la Grecia, insomma.
Anche noi avevamo le pensioni baby o le pensioni d’oro o l’iva agevolata che si pagavano con l’enorme debito pubblico. Anche noi avevamo una caterva di dipendenti pubblici inetti ed incapaci che, spesso, andavano in pensione con meno di 20 anni di contributi. Quindi i nostri privilegi li pagavano gli altri paesi. Poi abbiamo posto rimedio, diventando buoni padri di famiglia ed entrando nell'euro. Con l’entrata dell’euro chi si strappa oggi i capelli ha permesso la vendita dei prodotti e dei servizi allo stesso valore convertito. Un kg di mele prima 1000 lire, il giorno dopo 1 euro: colpa della moneta?
Se il debito è rimasto ed è intervenuta la crisi non è colpa della moneta ma dei governanti incapaci e ladri di tutti i partiti e di tutti quelli che li hanno votati.
Perché la Germania, pur accorpandosi la Germania dell’est, non ha sofferto la transizione?
Perché noi non possiamo essere come loro, invece di pensare sempre di fottere il prossimo o di essere incapaci di difendere i nostri diritti?
Anche il Portogallo e poi la Spagna e la stessa Italia ha sofferto un periodo nero. Oggi ci troviamo a pagare 100 volte più di 20 anni fa ed ad avere 100 volte meno in termini di servizi. E’ colpa della moneta o di chi ci ha governato e pretende di rigovernarci?
Oggi i greci hanno i privilegi che noi avevamo, ma non ci vogliono rinunciare. Pretendono che quei privilegi siano pagati con i soldi di tutti gli altri cittadini europei, compresi gli italiani che a quei privilegi hanno già rinunciato.
L’Euro è una moneta, l’unione europea è un sistema burocratico parassitario, quindi tutt’altra cosa. Il malgoverno italiano è altra cosa ancora.
Per molti è comodo diventare comunisti, specie nelle sale da barba e nei bar, ma alla fine si diventa solo degli stronzi parassiti. Più stronzi parassiti i governati che i governanti.
Ed appunto la Grecia al referendum del 5 luglio 2015 ha detto oki (no) alla trattativa dei creditori con il 61,3% (3.558.450) a fronte del nai (sì) con il 38,7% (2.245.537). Da tener conto che solo il 65% dei circa 9,8 milioni aventi diritto ha votato.
"Qui ad Atene noi facciamo così.
Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Le leggi qui assicurano una giustizia eguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo mai i meriti dell’eccellenza.
Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento.
Qui ad Atene noi facciamo così.
La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana; noi non siamo sospettosi l’uno dell’altro e non infastidiamo mai il nostro prossimo se al nostro prossimo piace vivere a modo suo.
Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo.
Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati, e ci è stato insegnato anche di rispettare le leggi e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa.
E ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è buon senso.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e benchè in pochi siano in grado di dare vita ad una politica, beh tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla.
Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia.
Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore.
Insomma, io proclamo che Atene è la scuola dell’Ellade e che ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice versalità, la fiducia in se stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero.
Qui ad Atene noi facciamo così. Pericle - Discorso agli Ateniesi, 431 a.C. Tratto da Tucidide, Storie, II, 34-36. Inizialmente era stata indicata la data del 461 a.C., riportata da diverse fonti, ma in realtà il discorso, secondo Tucidide, è stato pronunciato all'inizio della Guerra del Peloponneso (431 a.C. - 404 a.C.).
Invece a Milano fanno così…
La rivolta contro le tasse che insanguinò Milano. Giuseppe Prina era l'uomo di Bonaparte. Portò allo stremo la città e nel 1814 la pagò cara Anche oggi i balzelli possono passare il limite. E la storia ci dice che si rischia grosso, scrive Matteo Sacchi su “Il Giornale”. Il finale è atroce. Perché quando la rabbia del popolo è stata a lungo compressa e, poi, si scatena su una singola persona l'efferatezza è praticamente inevitabile. E quindi in questa faccenda forse è giusto partire proprio dal finale. Nell'aprile del 1814 era ormai chiaro che il regime napoleonico volgeva al tramonto. Se ne stavano rendendo conto anche a Milano, capitale dell'effimero Regno Italico nato all'ombra dell'aquila imperiale. Tutti, dai filofrancesi ai filoaustriaci, si mobilitarono per trovare un nuovo assetto. Magari (utopia!) indipendente. I filofrancesi, capeggiati da Francesco Melzi d'Eril, avrebbero voluto affidare il regno a Eugenio di Beauharnais e convocarono una riunione del Senato per il 20 aprile. In quella mattina piovosa, fuori dal palazzo del Senato, che allora si affacciava sui navigli, si radunò una folla inferocita che brandiva gli ombrelli come fossero mazze. C'erano ombrelli di seta, di nobili e borghesi, e ombrelli di molto più vile cotone, agitati dal popolo minuto, artigiani e operai angariati dalle tasse. Fu subito chiaro che tirava una brutta aria. La riunione venne sospesa. Di restare nell'orbita francese non si parlò più. Nel frattempo la folla penetrò in Senato, devastando l'aula. I senatori si diedero alla fuga in carrozza. Stando ben attenti a non mostrarsi ai finestrini, soprattutto i più vicini alla Francia. Ma alla fine il popolo aveva già identificato un bersaglio univoco: il ministro Giuseppe Prina, responsabile del dicastero delle finanze. In Senato non c'era. Puntarono allora a casa sua. Casa in cui pensavano di trovare enormi ricchezze trafugate. L'unica spiegazione che potevano darsi per imposte, come quelle sulla carta bollata, che avevano messo in ginocchio l'economia dei territori italiani satelliti della Francia. Arrivarono a palazzo Sannazzari, in piazza San Fedele, dove Prina risiedeva, e diedero l'assalto. Devastarono stanza per stanza senza trovarlo, levarono addirittura le tegole dal tetto nella foga di scovare lui o almeno il maltolto (se c'era, non era a palazzo). Poi, in una soffitta, finalmente qualcuno gridò «è trovato, è trovato». Lo estrassero dall'interno della cappa fumaria del camino nel quale si era nascosto, travestito da prete. Cento mani gli strappano l'abito talare, cento mani lo percuotono, lo trascinano, lo gettano da una finestra dei piani inferiori. Per la strada è sottoposto a una tempesta di colpi d'ombrello. Qualcuno è mosso a pietà, interviene, lo strappa alla folla inferocita che lo ha già trascinato sino in via Case Rotte. Un coraggioso vinaio (a Milano i vinai erano uomini d'ordine e spesso facevano parte delle varie guardie civiche, in cambio di qualche esenzione dal dazio) lo accoglie nella sua casa-bottega. Non basta a calmare gli animi, c'è chi minaccia di incendiare la bottega. Da dentro cedono, la porta si apre, trovano Prina seminascosto dietro un tino. «Subito ebbe fracassata la testa, vuotata un'occhiaia, sfiancate le reni, finché spirò». Poi il corpo viene trascinato per ore per le strade verso il Cordusio. Qualcuno gli ficca in bocca un pezzo di carta: «Toh, mangia la carta bollata con cui ci hai succhiato il sangue». Fu uno spettacolo terrificante a cui assistette in prima persona anche il giovane Alessandro Manzoni, allora ventinovenne. Secondo la moglie, per lungo tempo gli provocò orribili sogni. Di certo ispirò la sua descrizione dei tumulti contro il vicario di Provvisione nei Promessi sposi. Ma non solo letteratura, ancora oggi a Milano «fare la fine del Prina» è un'espressione idiomatica che indica cose poco carine. Ma, al di là della pietà umana che resta verso il piemontese trasferito a Milano - e che a Napoleone avevano presentato così: «Ingegno prontissimo, vista estesa, moltissimi lumi teorici e pratici, caratterialmente deciso e superiormente fatto per governare subalterni...» -, che cosa si può imparare da questa vicenda? Probabilmente che esiste una soglia di tassazione oltre la quale anche il popolo più mite si trasforma in belva. Sul tema fa un'analisi serratissima e documentatissima Romano Bracalini in Prina deve Morire. Milano 1814. La prima rivolta antitasse in Italia (Libreria San Giorgio, pagg. 86, euro 12). Il saggio illustra bene sogni e speranze che le armate repubblicane fecero sorgere in Italia al loro arrivo. Liberté , Égalité , Fraternité erano temi che gli italiani capivano bene, almeno quel pezzo di società che aveva subito l'influenza del pensiero dei lumi. Ma ci volle poco a far sì che quelle speranze mutassero in disaffezione prima e in rabbia poi. Dove mettevano piede le armate francesi il saccheggio era garantito. Le richieste economiche erano sempre esorbitanti; se sotto l'Austria mancava la libertà, sotto la Francia iniziò a mancare il pane. Il solo Napoleone, una volta instaurato il regno, si riservava sei milioni di lire d'appannaggio. Il vicerè, Eugenio di Beauharnais, mise in piedi una corte fastosissima. Ma già prima la situazione era diventata molto pesante. In sei anni, dal 1796 al 1802, la tassazione, come spiega Bracalini, era passata dal 28 al 48 per cento. Il 10 settembre 1802, poi, Prina introduceva anche la sua sopracitata «tassa sul bollo della carta». Praticamente gravava su qualsiasi tipo di atto e di scrittura professionale. «Colpiva soprattutto il ceto medio produttivo». Nel 1803 il costo dell'armata francese pagato dagli italiani era salito a 25.458.750 lire, mentre l'esercito italiano costava solo 3.900.000 lire. Insomma, il rischio default, come si direbbe oggi, era alle porte. E in più gli italiani avevano chiaro che stavano andando in bancarotta per pagare guerre altrui. Dovevano ammetterlo anche pubblici ufficiali filo-francesi come Melzi d'Eril: «Ossia è una verità incontestabile che le somme versate dall'Italia alle diverse armate francesi sono state più che doppie dei loro reali e veri bisogni». Idee sintetizzate in maniera mirabile da un paio di versi di una canzoncina molto popolare ai tempi di Carlo Porta: «Liberté, égalité, fraternité,/ I fransé in carozza, i milanes a pè». Anche il certamente fedele Melzi d'Eril era arrivato a segnalare direttamente a Napoleone che gli italiani accettavano di buon grado il passaggio da repubblica a monarchia, ma che avrebbero voluto funzionari italiani e la cessazione dei sussidi forzosi per l'armata francese, «non avendo ancora sentito il vantaggio della loro emancipazione che per un aumento d'imposte». Abbastanza per mandare l'Imperatore su tutte le furie: «E non è giusto che gli italiani paghino almeno in parte l'esercito che versa il sangue per loro?». Una risposta che non teneva conto di tutti gli italiani finiti nelle fosse di mezza Europa combattendo sotto le sue bandiere. Di tutto questo non si avvide o non volle avvedersi Prina. Puntuale, precisissimo, di lui si diceva che si facesse stirare anche le mutande, non oppose mai un rifiuto a Parigi. Anzi... Di certo in piena crisi dell'economia lombarda i ministri avevano pensato bene di aumentare il loro trattamento da 25mila a 50mila lire e lui quanto meno lasciò fare. Lo stesso con la corte vicereale. Né si pose mai il dubbio che le sue lussuose ville aumentavano il pubblico odio. Per il resto era un uomo che sulla finanza aveva anche idee innovative. Fu lui a istituire il Monte Napoleone facendone un istituto finanziario qualificato anche all'emissione di «buoni del Tesoro», per quei tempi una novità assoluta. Parte di quei soldi che dragava finivano nelle sue tasche? Difficile dirlo. Era stato accusato di aver manomesso i libri contabili anche anni prima, quando era al servizio del Re di Sardegna. Ma almeno in quel caso nessuno poté provarlo. I milanesi non si presero il lusso di un processo. Si limitarono a dare corpo a quello che già avevano minacciato con le scritte sui muri: «Prina, Prina, il giorno si avvicina». E del resto esistono anche colpe politiche. Non capire quando una tassazione si trasforma in un capestro lo è. E Prina riuscì a causare la prima vera (e per ora ultima) rivolta fiscale italiana finita nel sangue di un ministro (di norma finiscono nel sangue dei tassati). Ma molti politici e storici di lui preferiscono non ricordarsi. O far finta che tutto sia avvenuto solo per colpa del popolo impazzito. Milano gli ha anche dedicato una via “riparatrice”. Ma i cittadini del 1814 avrebbero da ridire.
In Italia a fare la dittatura non è tanto il dittatore quanto la paura degli italiani e una certa smania di avere, perché è più comodo, un padrone da servire. Lo diceva Mussolini: «Come si fa a non diventare padroni di un paese di servitori?».
E sempre pronti a cambiar padrone…
Vi siete mai domandati perché nell’aprile 1945 il vertice del Pci decise di appendere a Piazzale Loreto i cadaveri di Benito Mussolini, di Claretta Petacci e di qualche gerarca della Repubblica sociale? Scrive Giampaolo Pansa per "Libero Quotidiano". Con il trascorrere degli anni, ne sono passati ben settanta, gli storici e i politici hanno offerto molte spiegazioni di quella scelta barbara che qualche leader della Resistenza, come Ferruccio Parri, il numero uno del Partito d’Azione, definì come un esempio ributtante di «macelleria messicana». Ma tutte le ipotesi sono, o sembrano, aperte e spesso in contraddizione. Credo che esista un’unica certezza. La decisione venne presa da Luigi Longo e da Pietro Secchia, i comandanti delle Brigate Garibaldi nell’Italia da liberare. Dopo aver interpellato il leader del Partito comunista, Palmiro Togliatti, ancora fermo a Roma. Ma perché la presero? Gli storici propendono per un’ipotesi: era l’unico modo per dare sfogo alla rabbia di una parte dei milanesi che voleva vedere il Duce accoppato e appeso come una bestia da squartare. Uno spettacolo che serviva anche a spargere il terrore tra i fascisti repubblicani ancora in libertà. Tuttavia in questi giorni emerge un’altra spiegazione, assai bizzarra. La propone un giornalista che cerca di farsi strada nel terreno impervio della guerra civile. È Aldo Cazzullo che l’ha presentata nella propria rubrica su Sette, il periodico del Corriere della Sera. La sua tesi è la seguente. Nell’Italia del 1945 non c’era la televisione. Per far sapere che il Duce era morto, non esisteva altro modo che mostrarlo appeso ai rottami del distributore di Piazzale Loreto. Conosco bene Cazzullo. È un bravo giornalista, sempre attratto dalla storia contemporanea. Era accanto a me a Reggio Emilia nell’ottobre del 2006 quando venni aggredito da una squadra arrivata da Roma su mandato di Rifondazione comunista per impedire un dibattito su un mio libro revisionista. Il comportamento di Aldo fu esemplare. Invece di scappare dall’Hotel Astoria come fece qualcuno, se ne rimase lì tranquillo, aspettando che la buriana finisse. Subito dopo cominciammo a discutere. Adesso ha pubblicato con Rizzoli una storia della Resistenza. Il suo lavoro dovrebbe dimostrare che la guerra partigiana non fu soltanto un affare dei comunisti. È una verità conosciuta da sempre. Allo stesso modo sappiamo che l’attore principale della nostra guerra civile fu il Pci, grazie alle bande Garibaldi, le più numerose, le meglio armate e le più combattive. È curioso che a ricordarlo sia proprio il sottoscritto, autore di un libro come Il sangue dei vinti. Quel lavoro rivelava la sanguinaria resa dei conti sui fascisti sconfitti. Attuata dopo il 25 aprile 1945 quasi sempre dai partigiani rossi. Il sangue dei vinti venne messo all’indice da tutta la pubblicistica di sinistra. Si disse persino che l’avevo scritto per ingraziarmi Silvio Berlusconi. In compenso il Cavaliere mi avrebbe fatto ottenere la direzione del Corriere della Sera! L’insieme delle vendette ebbe come spettatori entusiasti, e talvolta come esecutori, anche tanti italiani che per vent’anni erano stati fascisti e avevano applaudito i discorsi di Mussolini dal balcone di Palazzo Venezia. Ecco un’altra verità che non amiamo ricordare. Non piace neanche a Cazzullo. Lui arriva a definirla «la solita tiritera». Ma non è così. La grande folla accorsa a piazzale Loreto, per sputare sui cadaveri di Mussolini e della Petacci, nei venti mesi della guerra civile si era ben guardata dall’uscire di casa. Osservata con uno sguardo neutrale, la Resistenza fu una guerra condotta da un’esigua minoranza di italiani che si opposero a un’altra minoranza anch’essa esigua, quella dei fascisti decisi a combattere l’ultima battaglia di Mussolini. Questi potevano contare sul sostegno determinante dell’esercito tedesco. Mentre i partigiani avevano soltanto l’appoggio cauto degli angloamericani che risalivano la penisola con grande lentezza. Negli anni successivi al 1945, il Pci seppe sfruttare con accortezza il proprio predominio sul fronte antifascista. «La Resistenza è rossa» divenne lo slogan più urlato nelle celebrazioni del 25 aprile. In due parole descrivevano una realtà. Certo, a resistere c’erano anche militari, sacerdoti, suore, internati in Germania, partigiani cattolici e monarchici. Ma la massa critica, diremmo oggi, era costituita dalle Garibaldi. Le bande del Pci erano le uniche ad avere una strategia a lungo termine: quella di iniziare un secondo tempo destinato alla conquista del potere. E fare dell’Italia un satellite di Mosca. I comunisti furono anche gli unici a giovarsi subito di una storiografia di parte. Basta ricordare Un popolo alla macchia, il libro firmato da Longo, ma scritto su commissione da un altro autore. E la Storia della Resistenza italiana di Roberto Battaglia, corretto in più parti dallo stesso Longo. Insieme a questi interventi di marketing, ci fu la conquista dell’Anpi, l’associazione nazionale dei partigiani, che vide l’espulsione dei cattolici e dei capi del Partito d’Azione, primo fra tutti Parri. Oggi, nell’anno di grazia 2015, si scopre che soltanto una minuscola pattuglia dei maturandi, appena il 2,5 per cento, sceglie il tema sulla Resistenza. Perché stupirsene? La crisi della memoria resistenziale è in atto da molto tempo, strozzata dalla retorica, da un’infinita serie di menzogne e dall’opportunismo cinico delle sinistre. Ed è diventata il sintomo più evidente della crisi culturale di quel mondo. Esiste un succedersi implacabile di stagioni politiche. Per prima c’è stata la fase staliniana. Poi quella togliattiana. Quindi la berlingueriana. Chi ha visto l’ultima puntata di Michele Santoro dalla piazza di Firenze, si è reso conto che Enrico Berlinguer viene ancora ritenuto un santo da venerare. Infine il caos legato alla dissoluzione dell’Unione sovietica ha prodotto la svolta di Achille Occhetto e la scomparsa formale del Pci. La mazzata decisiva è venuta nel 1992 da Tangentopoli. Una parte della sinistra, quella di Bettino Craxi, è morta. Mentre i resti del Partitone rosso si sono dispersi in tante piccole parrocchie. Adesso, nel giugno 2015, la crisi culturale è diventata identitaria. Racchiusa in una domanda: chi è di sinistra oggi in Italia? Certo, esiste il Partito democratico, ma è un’accozzaglia di politici, di programmi, di stili di vita e di idee, tutti avvolti in una nebbia che impedisce definizioni credibili. Secondo un intellettuale dem come Fabrizio Barca, autore di un’analisi che ha richiesto mesi di indagini, il Pd è anche un partito zeppo di robaccia criminale. Non mancano i militanti e i dirigenti onesti. Però l’insieme ricorda la folla di Piazzale Loreto che osserva con gli occhi sbarrati non il cadavere di un dittatore, bensì quello di una storia politica. Durata per decenni, ma oggi finita per sempre. Per ultimo ecco l’enigma di Matteo Renzi, il premier di un’Italia che, nel mondo globalizzato del Duemila, non sa più dove dirigersi. Il Chiacchierone di Palazzo Chigi è di sinistra, di destra, di centro o un renzista autoritario e clientelare? Per ritornare a Cazzullo che osserva Piazzale Loreto, oggi la televisione esiste. Ma è in grado soltanto di diffondere ansia, incertezze e non poca paura.
L'EQUIVOCO E L'ABBAGLIO SULLA EVASIONE FISCALE.
L’eterno equivoco sull’evasione scrive Carlo Lottieri il 2 gennaio 2016. La classe politica è determinata a difendere lo status quo e tenere in vita un disastro basato su alta tassazione e spesa fuori controllo. Il discorso di fine anno del presidente Sergio Mattarella conferma quanto sia difficile, per la classe politica italiana, capire le reali condizioni della società. Non è sorprendente che gli uomini politici difendano in tutti i modi le prerogative del potere sovrano, ma certo stupisce il constatare quanto essi poco comprendano le sofferenze dei produttori e le devastazioni causate dalla regolazione, dalla tassazione e dai monopoli pubblici (si pensi, in particolare, al crollo del sistema pensionistico). Nel suo intervento Mattarella ha nuovamente messo sotto processo l’evasione fiscale, da lui considerata responsabile della bassa crescita. Ovviamente le cose non stanno così, dato che al contrario è semmai l’ipertassazione a distruggere la possibilità per gli italiani di avere un futuro. Nel suo intervento Mattarella ha nuovamente messo sotto processo l’evasione fiscale, da lui considerata responsabile della bassa crescita. Ovviamente le cose non stanno così, dato che al contrario è semmai l’ipertassazione a distruggere la possibilità per gli italiani di avere un futuro. L’Italia non è in crisi perché gli italiani versano poche tasse, ma semmai perché lo Stato sottrae troppa ricchezza a quanti la producono. Alcuni decenni fa, quando il peso del fisco era ben inferiore, Milton Friedman rilevò che le condizioni dell’economia italiana sarebbero assai peggiori se tutti avessero pagato il dovuto e, di conseguenza, se il ceto politico-burocratico avesse sottratto ancora più risorse a famiglie e imprese. È insomma falso sostenere che l’evasione danneggi la comunità nazionale, anche se certamente danneggia taluni privilegi di casta. Ma quanti sono nei palazzi romani al governo o in altre posizioni non intendono le ragioni di chi si ribella e ignorano le sofferenze all’origine di questa rivolta silenziosa e sotto traccia. Perché chi veramente ci sta negando la possibilità di avere un futuro è il ceto politico, che ha creato un terribile intreccio di ingiusti meccanismi redistributivi i quali sono l’esatta negazione di ogni ordinamento liberale. Continuare a ripetere che le tasse sarebbero più basse se tutti le pagassero significa non considerare la tendenza naturale degli uomini di potere ad allargare sempre più il proprio controllo della società. Significa fingere di non sapere che esistono uomini che comandano e altri che obbediscono, uomini che legiferano e altri che devono abbassare la testa. Nel discorso del presidente c’è insomma una visione angelicata della politica: l’idea che i professionisti del governo lavorino per noi. Essi ci tolgono ricchezza, ma per aiutare la società a farla crescere. Ed è di un certo rilievo anche l’accenno alla tesi del tutto falsa, affermata in questi anni da Thomas Piketty, secondo cui le diseguaglianze indebolirebbero l’economia. Per Mattarella i guai sono causati insomma dai ricchi, e non già dalla casta politica; e quindi bisogna far leva sull’invidia sociale, in modo tale che la gente confidi nel potere e si pieghi alla sua volontà. La classe politica italiana non è liberale e forse non lo è mai stata. Le parole del presidente ci dicono pure quanto essa sia determinata a difendere lo status quo e tenere in vita quel disastro basato su alta tassazione e spesa fuori controllo che sta lanciandoci verso il precipizio. Carlo Lottieri. (Da istituto Bruno Leoni).
Presidente Mattarella, si fidi: azzerando l’evasione le tasse non sarebbero più basse, scrive Giovanni Masini il 4 gennaio 2016. Ci è cascato anche il Presidente della Repubblica: secondo il capo dello Stato estirpando la piaga del sommerso il Paese tornerà a crescere. Ma i dati su lotta all’evasione e pressione fiscale dicono esattamente il contrario. “Ad ostacolare la crescita è l’evasione. Secondo Confindustria l’evasione fiscale contributiva nel 2015 ammonta a 122 miliardi: 7,5 punti di Pil. Lo stesso studio calcola che dimezzando evasione si guadagnerebbero oltre trecentomila posti di lavoro. Gli evasori danneggiano la comunità nazionale e i cittadini onesti. Le tasse sarebbero decisamente più basse se tutti le pagassero.” Con queste parole il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha voluto, nel messaggio di fine anno, affrontare la questione dell’evasione fiscale. Parole che asseverano uno dei più consolidati luoghi comuni in materia: quello secondo cui tutti gli evasori sarebbero dei ladri e per cui riducendo il tasso di evasione calerebbe automaticamente anche il prelievo fiscale. Rincresce criticare il Capo dello Stato già al primo dei messaggi per Capodanno, ma il passaggio sull’evasione lascia scoraggiati anche i più speranzosi. Ai sensi dell’articolo 87 della Carta Costituzionale, il Presidente della Repubblica rappresenta l’unità della Nazione – non dello Stato: sorprende quindi che Mattarella si limiti ad attaccare chi evade le tasse senza citare minimamente le pretese assurde di un Fisco esoso che è espressione, tra l’altro, di uno Stato spesso debitore nei confronti dei cittadini e promotore di bizantinismi legislativi e burocratici. L’argomentazione sottesa alle parole di Mattarella, evidentemente, non è economica ma etica. Se tutti facessero il proprio dovere, intendeva dire il Capo dello Stato, le cose andrebbero meglio. Peccato che abbia detto tutt’altro, azzardando peraltro teorie economiche che sono finite sotto attacco da più punti. Responsabile della mancata crescita del Paese, scrive Carlo Lottieri sul Giornale, non è solo e non è tanto l’evasione fiscale ma anzi l’ipertassazione di chi produce ricchezza e se la vede portare via dallo Stato. “Alcuni decenni fa – spiega Lottieri – quando il peso del fisco era ben inferiore, Milton Friedman rilevò che le condizioni dell’economia italiana sarebbero assai peggiori se tutti avessero pagato il dovuto e, di conseguenza, se il ceto politico-burocratico avesse sottratto ancora più risorse a famiglie e imprese.” In un Paese in cui la spesa pubblica è fuori controllo, la difesa d’ufficio dello Stato nasconde una visione utopistica – la stessa che peraltro è implicita nello studio della Confindustria. Il giorno successivo al discorso di Mattarella, il vicepresidente degli industriali Andrea Bolla ammetteva che i calcoli su un eventuale incremento del Pil sono stati effettuati sulla base dell’ipotesi – tutta da verificare – “che tutto il nero recuperato diventi minor prelievo fiscale”. Quante possibilità ci sono che questa ipotesi si realizzi i lettori possono facilmente immaginarlo. Se non vi riescono, possiamo provare ad aiutarli con alcuni dati. La predica del “se tutti pagassero tutte le tasse, tutti pagheremmo meno” non è un’esclusiva di Mattarella: la aveva già utilizzata a scopi propagandistici anche Matteo Renzi. Ebbene, già nei mesi scorsi gli osservatori più attenti avevano fatto notare al presidente del Consiglio che negli ultimi anni, a fronte di un aumento delle entrate derivanti dal contrasto all’evasione il tasso della pressione fiscale continua a crescere, mostrando poca o nessuna correlazione con la percentuale di evasione. Se nel 2006, quando è stato inaugurato il sistema di misurazione basato sugli incassi, erano stati riscossi 4,3 miliardi di euro, nel 2013 si poteva contare su un’evasione recuperata di 13,1. La domanda è quindi spontanea, scriveva già a settembre Federico Cartelli su Qelsi: dove sono finiti tutti quei soldi? Nel taglio della spesa pubblica, che sarebbe l’unica misura efficace per ridurre la pressione fiscale, non di certo, come Capire davvero la crisi vi ha già dimostrato. Nel frattempo, il taglio delle tasse (si veda quello in programma per la prima casa nella Legge di Stabilità 2016) viene fatto a deficit. Troppo spesso, infatti, la classe politica italiana (anche se non sarebbe giusto attribuire questa responsabilità a Mattarella in persona, che è anzitutto uomo di legge) preferisce gonfiare a dismisura la spesa pubblica pur di estendere la base del consenso, sia pure a spesa delle generazioni future che vengono oberate dal peso del debito. Questo non toglie, naturalmente, che l’evasione fiscale – come anche il preoccupante deficit di etica pubblica – costituisca un problema serio che merita ogni attenzione. Tuttavia, in quel messaggio di fine anno così conciso, gli italiani alle cui “speranze e preoccupazioni” il Presidente della Repubblica ha detto di volersi rivolgere, si sarebbero aspettati di sentire, da parte di Mattarella, anche una parola sui doveri e sugli impegni che quello Stato di cui è capo troppo spesso non riesce – o non vuole – mantenere.
MATTARELLA AMA LE VOSTRE TASSE, LUI E LA CASTA VIVONO DI QUELLE. “L’evasione viola il patto sociale, peggiora il rapporto tra cittadini e Stato e riduce la solidarietà”. Pochi giorni fa è andato in onda, a reti unificate, il primo discorso di fine anno del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, scrive Matteo Orsini. Tra i temi di cui si è occupato, grande rilievo è stato dato all’evasione fiscale. Mattarella ha citato una recente pubblicazione del centro studi di Confindustria, secondo il quale l’evasione ammonterebbe a 122 miliardi, ossia 7.5 punti di Pil. Secondo il CsC, se l’evasione fosse dimezzata il Pil ne trarrebbe grande beneficio, così come l’occupazione. Quello che Mattarella non ha riportato è l’ipotesi su cui si basa la stima del CsC: che l’evasione recuperata si traduca in altrettante riduzioni di tasse. Non mi interessa approfondire la questione dei calcoli fatti dal CsC, anche se nei casi in cui l’evasione sia “di sopravvivenza” (ossia in quei casi nei quali se l’imprenditore pagasse tutto quanto richiesto dallo Stato dovrebbe chiudere i battenti), mi risulta difficile supporre che la sua eliminazione porterebbe benefici netti in termini di Pil e occupazione. Credo sia invece interessante sottolineare l’ipotesi da “Alice nel paese delle meraviglie” alla base delle stime del CsC: ossia che il gettito recuperato da evasione si tradurrebbe magicamente in una riduzione del carico fiscale. Capisco che queste storie le raccontino i governanti (lo stesso Mattarella lo ha detto nel corso del suo messaggio), ma la loro credibilità è pari a zero. D’altra parte, nel fondo per la riduzione delle tasse al quale destinare i denari recuperati dall’evasione fiscale, pur essendo previsto da anni, non è mai entrato neppure un euro. Serve una grande ingenuità per credere che si sia trattato solo di sfortunate circostanze. Ciò detto, secondo Mattarella l’evasione fiscale “viola il patto sociale”. Peccato che il patto sociale in questione sia una finzione giuridica e che nessun cittadino abbia avuto la possibilità di aderirvi volontariamente. Secondo Mattarella l’evasione “peggiora il rapporto tra cittadini e Stato”. Indubbiamente fornisce meno linfa allo Stato, ma mi permetto di supporre che i cittadini, per lo meno quelli che non campano di tasse altrui, non abbiano un rapporto così sereno con lo Stato per via delle tasse, non per via dell’evasione. Infine, secondo Mattarella l’evasione “riduce la solidarietà”. Niente affatto: l’evasione riduce semmai la solidarietà coatta, che non ha nulla a che vedere con la solidarietà autentica, la quale può derivare solo da azioni volontarie. Dal Quirinale, già nei giorni precedenti il messaggio di fine anno, era stato comunicato ai mezzi di informazione che il presidente si sarebbe occupato dei problemi più sentiti dalla gente. Ebbene: che l’evasione sia un problema per i parassiti che campano di tasse altrui è abbastanza credibile, ma che lo sia per tutti quanti direi proprio di no.
L'Evasione Fiscale e la cantonata del Presidente Mattarella sulle tasse, scrive Giuseppe Timpone il 5 Gennaio 2016 su “Investire Oggi”. L'evasione fiscale è realmente il male dell'Italia? Il discorso di fine anno del presidente Sergio Mattarella farebbe propendere per il sì, ma i dati dimostrerebbero altro. Nel suo discorso di fine anno, il presidente Sergio Mattarella ha citato l'evasione fiscale tra i mali, che frenerebbero la crescita dell'economia italiana, riferendosi a uno studio pubblicato da Confindustria, secondo cui l'economia sommersa sottrarrebbe alle casse dello stato 122 miliardi di euro all'anno, pari al 7,5% del pil. Nell'interpretazione del capo dello stato, se tutti pagassero le tasse, pagheremmo di meno. Non solo: sempre citando lo studio di Viale dell'Astronomia, ha affermato che l'evasione fiscale farebbe venire meno 300 mila posti di lavoro. Ora, fatto salvo che pagare le tasse è un obbligo previsto dalle leggi e, in quanto tale, deve essere rispettato e sanzionata la mancata osservanza, ci concentreremo qui su un piano diverso da quello giuridico, ossia economico. L'ex ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, era solito dire che quando a non pagare le tasse è un'ampia fetta della popolazione, il fenomeno non è più penale, bensì sociale. Il senso di questa affermazione ce la spiega forse meglio una battuta dell'economista Milton Friedman, padre del monetarismo, che negli anni Ottanta definì "giusta" l'evasione fiscale in Italia, in quanto reazione dei contribuenti all'inefficienza dei loro malgoverni. Ma già alcuni decenni prima era stato un italiano e, addirittura, un futuro capo dello stato, Luigi Einaudi, a "benedire" il mancato pagamento delle tasse da parte di molti italiani, considerandolo una reazione alla cattiva gestione della spesa pubblica.
Italiani pagano già troppe tasse. Diremmo che sull'evasione fiscale si giochi un dibattito a distanza di 70 anni tra Einaudi e Mattarella, il primo seguace del pensiero liberale, il secondo evidentemente no. L'impostazione dell'attuale capo dello stato è quella che va per la maggiore tra i media e il ceto politico italiano, che ci ripetono a ogni piè sospinto che gli italiani avrebbero il vizio di non pagare le tasse, caricando la pressione fiscale su quelli più onesti. Si tratta di un'affermazione, sconfessata dai dati. I contribuenti del Bel Paese sono da anni proprio i più tartassati d'Europa e al mondo. Secondo l'ultimo rapporto annuale della Banca Mondiale, realizzato in collaborazione con Pwc, l'Italia si colloca al 137-esimo posto su 189 paesi al mondo per convenienza fiscale riguardo alle imprese. La tassazione complessiva, gravante sui loro redditi, è pari al 64,8%, quando la media mondiale è del 40,8%, attestandosi al primo posto in Europa. E non solo il Fisco italiano è più sanguinario, ma anche più farraginoso. Servono 269 adempimenti all'anno per essere in regola in Italia, contro una media mondiale di 261 e di 173 in Europa. La pressione fiscale generale si attesta nel nostro paese sopra al 43% contro una media di circa il 40% nella UE. Ma le distanze con il resto d'Europa aumenterebbero vertiginosamente, se si considerasse solo l'economia ufficiale e non quella sommersa: a quel punto, l'incidenza delle tasse sui redditi schizzerebbe al 52,2%, 2 punti in più che in Danimarca.
Pagare tutti per pagare meno, ma è vero? Ora, i sostenitori del "pagare tutti per pagare meno" potrebbero ribattere che se almeno parte dei 122 miliardi sottratti ogni anno al Fisco fosse recuperata, si avrebbero maggiori risorse con le quali abbattere le tasse per tutti. Ma ci credete davvero? Un altro politico ed economista, Renato Brunetta, ha dichiarato in più di un'occasione che sarebbe un'evidenza in Italia che lo stato più incassa e più spende. Il problema non evidenziato dal presidente Mattarella e che pochi giornalisti, economisti e politici sottolineano nel nostro paese ruota tutto intorno a questo punto: sarebbe realmente in grado lo stato italiano di limitare la spesa pubblica, nel caso in cui aumentassero le entrate? Ovvero, immaginiamo che magicamente nessuno evadesse più le tasse. Il Tesoro registrerebbe a fine anno incassi per 122 miliardi in più. Ciò annullerebbe il deficit e porterebbe i conti pubblici in attivo di quasi il 5% del pil. Ebbene, credete per caso che il governo (quale che sia) sarà in grado di resistere alle sirene di quanti chiederanno più investimenti nelle infrastrutture, aumenti degli stipendi pubblici, crescita della spesa sanitaria, per la scuola, etc.? Alla fine, è probabile che al capitolo della riduzione delle tasse andrebbero spiccioli, mentre la gran parte del maggiore gettito sarebbe destinata a finanziare voci di spesa. Saremmo punto e a capo.
Evasione fiscale è voto di sfiducia degli italiani verso i politici. Non ultimo, resta da affrontare un argomento spinosissimo per i politici, ma centrale nel dibattito: l'evasione fiscale è un voto di sfiducia dei contribuenti verso i loro rappresentanti. Quando una larga fetta della popolazione non paga le tasse, non può il solo malcostume spiegare le ragioni di questo comportamento di massa. E' noto, ad esempio, come l'evasione sia più alta al Sud che al Nord, a conferma finanche del disgusto che i cittadini meridionali nutrono nei confronti delle classi politiche locali, non certo un baluardo dell'efficienza amministrativa. Ai contribuenti, in uno stato di diritto, non può essere chiesto di pagare le tasse, in quanto dovere in sé, ma in cambio dell'erogazione di servizi. E' proprio questo legame flebile tra tasse e servizi a rendere l'evasione fiscale in Italia così accettabile e non riprovevole per la stragrande maggioranza degli italiani, la quale è consapevole che un euro in più pagato allo stato non equivarrebbe automaticamente a un euro in più in servizi diretti o indiretti alla cittadinanza. Infine, siamo così sicuri che un tasso inferiore di evasione fiscale creerebbe nell'immediato più ricchezza? E' evidente che non tutta l'economia sommersa potrebbe emergere e tradursi in economia ufficiale. Un artigiano, magari pensionato, che trascorre ancora qualche ora al giorno presso la sua attività a costruire sedie per arrotondare a fine mese, se fosse costretto a pagare le tasse, quasi certamente rinuncerebbe anche solo ad alzarsi la mattina per andare a lavorare. Risultato: lo stato non incasserebbe ugualmente un euro in più, mentre in circolazione ci sarebbe un po' di reddito in meno, con il quale si alimentano i consumi, sui quali si pagano le imposte.
Meno evasione, più crescita? Altro che stimolo per l'economia. Se l'evasione fosse contrastata in maniera draconiana, si rischierebbe un tracollo dei consumi e della produzione. D'altronde, i dati ci segnalano negli ultimi anni che la "ferocia" mostrata dall'Agenzia delle Entrate con l'arrivo al governo dei tecnici nel 2012 si è accompagnata a una contrazione del pil, oltre che a un aumento paradossale della stessa evasione fiscale. Non è forse anche per questo che il limite all'uso del contante è stato alzato dal governo Renzi da 1.000 a 3.000 euro? Sarebbe meglio che il capitolo dell'evasione fiscale fosse affrontato con una visione più ampia di quella tipicamente ristretta e ipocrita del politico. Il presidente Mattarella voleva richiamare al vincolo di solidarietà, che lega o dovrebbe legare tutti gli italiani. E' stato un discorso alto, sincero, umano, diretto. Solo su questo tema, forse, non ineccepibile.
AZIENDE SUICIDATE. CONTROLLI VESSATORI E SPECULATIVI. ABUSI E PARADOSSI.
In questo Stato è meglio non fare niente e non avere niente. Se lavori in modo regolare devi sottostare al Pizzo di Stato. Se hai risparmiato e hai acquistato qualcosa: ti sanzionano e ti pignorano tutto.
CONTROLLI ISPETTORATO DEL LAVORO: TUTTO QUELLO CHE C’È DA SAPERE. Scrive Studio Tozza il 18 luglio 2016. Oggi parleremo dei controlli che l’ispettorato del lavoro effettua per verificare la corretta applicazione delle normative su lavoro e previdenza, allo scopo di tutelare il lavoratore e combattere l’evasione fiscale. Al fine di esporre nella maniera più semplice possibile l’argomento, lo suddivideremo in vari paragrafi riguardanti i gli aspetti più importanti. Ispettorato del Lavoro: che cosa è?
Per Ispettorato del Lavoro si intende una struttura del Ministero del Lavoro deputata al controllo della corretta applicazione delle norme che regolano lavoro e previdenza sociale. Il suo scopo principale è di controllare l’effettiva correttezza e legalità dei rapporti di lavoro, per garantire un’adeguata tutela del lavoratore. I controlli dell’Ispettorato del Lavoro vengono effettuati in tutti i principali settori professionali, nell’ambito sia del pubblico che del privato, per i quali vengono effettuati accertamenti sia di profilo amministrativo che sia penale.
Ultimamente quest’organo ha cambiato nome: ora è denominato Servizio Ispezione del Lavoro, ed è formato da funzionari appartenenti alle direzioni regionali o provinciali, che hanno la qualifica di poliziotti giudiziari. Ma quali sono effettivamente i suoi compiti, le sue funzioni ed i suoi poteri? Ispettorato del Lavoro: come funziona?
La principale funzione dell’Ispettorato del Lavoro è quella di tutelare il lavoratore e, attraverso i controlli, quella di verificare eventuali violazioni delle normative che regolano i rapporti di lavoro, che sono stabilite per legge. In pratica l’ispettore non è altro che un garante fra datore di lavoro e dipendente. Altro suo compito estremamente importante è quello di combattere l’evasione fiscale, che ogni anno causa allo Stato ingenti perdite.
I poteri dell’Ispettorato si possono dividere in due grossi ambiti: Penale, che segue le regole del codice penale, e che dà diritto al funzionario di acquisire le funzioni di ufficiale di polizia giudiziaria.
Ambito amministrativo, che segue le relative normative specifiche.
Le normative che regolano i controlli dell’Ispettorato del Lavoro hanno subito negli ultimi anni diverse evoluzioni, in modo da rendere più trasparente le attività di verifica e di consentire alle aziende di tutelare i propri interessi.
Ma quali sono effettivamente i poteri ed i limiti degli ispettori del lavoro?
Ispettorato del Lavoro: poteri e limiti.
Oltre che all’Ispettorato del Lavoro, il compito di effettuare controlli nell’ambito delle applicazioni delle norme che regolano lo svolgimento del lavoro spetta anche a:
Uffici ispettivi dei vari enti previdenziali (per gli aspetti contributivi e previdenziali).
ASL (per gli aspetti che riguardano la sicurezza e la salute dei lavoratori).
Guardia di Finanza (per tutto ciò che riguarda la normativa fiscale).
La differenza sostanziale sta nel fatto che gli ispettori del Ministero del Lavoro sono a tutti gli effetti ufficiali di polizia giudiziaria, e solo loro, in presenza di reato, possono compiere le azioni necessarie volte all’identificazione degli autori e alla conseguente sanzione di questi ultimi.
Secondo la normativa vigente, gli ispettori del lavoro possono visitare i luoghi di lavoro in ogni loro parte, a qualunque ora del giorno e della notte: in pratica, il personale ispettivo può accedere nelle aziende e nei cantieri senza preavviso e senza bisogno di un mandato specifico. Questo potere di accesso non è però illimitato, in quanto non può spingersi fino alle dimore private dei cittadini, che restano inviolabili.
Ma in pratica, durante i controlli, gli ispettori del lavoro cosa possono fare? E’ presto detto:
Possono esaminare tutta la documentazione relativa alla legislazione sociale e del lavoro (compresa quella contabile e quella inerente alla sicurezza).
Possono raccogliere le dichiarazioni del datore di lavoro (anche se quest’ultimo non è tenuto a rilasciarle).
Possono intervistare i lavoratori dell’azienda, che verranno sentiti separatamente, e non in presenza del datore di lavoro.
Durante lo svolgimento dei controlli dell’Ispettorato del Lavoro, i funzionari devono però anche rispettare degli obblighi precisi:
Hanno ovviamente l’obbligo di qualificarsi ed esibire il tesserino (senza tesserino l’ispezione non può aver luogo).
Hanno l’obbligo di conferire con il datore di lavoro ed informarlo sul fatto che potrà farsi assistere da un professionista abilitato durante l’ispezione.
Hanno l’obbligo di riportare fedelmente tutte le dichiarazioni rilasciate dal lavoratore, che andranno da quest’ultimo lette e firmate.
C’è da ricordare un punto molto importante: secondo la legge il datore di lavoro non può assolutamente impedire i controlli dell’Ispettorato del Lavoro, pena una salata sanzione amministrativa, o addirittura sanzioni penali a seguito del reato di resistenza a pubblico ufficiale.
Per garantire la trasparenza dei controlli, gli ispettori sono tenuti a rilasciare un verbale di primo accesso, redatto dopo la prima ispezione, e che va consegnato al datore di lavoro, concernente le attività intraprese dagli ispettori, le eventuali dichiarazioni del datore di lavoro e tutte le richieste utili al proseguimento degli accertamenti, oltre all’elenco ed alle mansioni dei lavoratori. La mancata redazione del verbale o la sua incompletezza, potrebbero rendere non valida l’ispezione.
Una volta conclusi tutti i controlli del caso, l’Ispettorato del Lavoro rilascerà un verbale unico di accertamento e notificazione riportante gli esiti del controllo.
Qualora siano stati riscontrati inadempimenti di obblighi di legge, l’Ispettorato provvederà a diffidare il trasgressore alla regolarizzazione delle inosservanze, entro 30 giorni dalla notifica del verbale. Il datore di lavoro, ottemperando alla diffida dovrà pagare una somma pari all’importo minimo previsto dalla legge entro 15 giorni dalla scadenza della diffida, e dovrà fornire la prova dell’avvenuta regolarizzazione delle violazioni accertate, entro 45 giorni dalla notifica del verbale unico.
Servizio ispezioni del lavoro. Scrivono Andrea Mannino Arianna Castelli.
Scheda sintetica. Nel linguaggio comune l’espressione Ispettorato del Lavoro viene utilizzata per indicare quell’istituzione, facente capo al Ministero del Lavoro, deputata al controllo della corretta applicazione della normativa lavoristica, sostanziale e previdenziale, nei luoghi di lavoro. Occorre subito precisare che parlare di Ispettorato del lavoro non è tecnicamente corretto: si tratta, infatti, di un’istituzione soppressa dal 1997. Le sue funzioni sono state assorbite prima dal Servizio Ispezioni del Lavoro delle Direzioni provinciali del lavoro, poi dall’Ispettorato nazionale del lavoro, istituito dal D. Lgs. 149/2015. Originariamente, però proprio l’Ispettorato del lavoro (e solo successivamente la Direzione provinciale del lavoro) rappresentava il soggetto principale nel complesso sistema in cui si articolavano gli strumenti istituzionali di prevenzione, ispezione e controllo della regolarità dell’applicazione delle norme lavoristiche e previdenziali. I suoi compiti principali erano la vigilanza sulla normativa in materia di lavoro e sulla corretta applicazione dei contratti collettivi, l’attività di chiarimento sulle disposizioni vigenti, la vigilanza sul funzionamento delle attività previdenziali e assistenziali compiute da associazioni professionali e da altri enti pubblici e privati (con esclusione delle funzioni esercitate direttamente, per i propri dipendenti da stato, regioni e province), l’effettuazione di inchieste e indagini richieste dal Ministero e le eventuali altre funzioni demandate o delegate dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali. È d’obbligo segnalare come il sistema istituzionale di vigilanza giuslavoristica, da sempre ha coinvolto diversi soggetti con funzioni ispettive e/o accertative tendenzialmente differenti ma talvolta sovrapposte. In tale contesto, solo gli ispettori del lavoro avevano una competenza generale in materia (mentre i restanti organi istituzionali avevano funzioni limitate e specifiche) e assolvevano altresì la funzione di coordinamento in ipotesi di sovrapposizione di competenze e/o funzioni con altri soggetti ispettivi. Tra coloro che operavano in quest’ambito, meritano di essere ricordati:
gli ispettori di vigilanza degli enti previdenziali (principalmente Inps e Inail; tali ispettori, che, al contrario degli ispettori del lavoro non rivestono la qualifica di ufficiali di polizia giudiziaria, hanno poteri ispettivi limitatamente alle proprie competenze e possono emettere provvedimenti di diffida);
gli accertatori del lavoro, con poteri molto simili a quelli degli ispettori e dipendenti anch’essi dalla direzione provinciale del lavoro;
il tecnico della prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro (ovvero uno dei servizi dei dipartimenti di prevenzione istituiti presso ogni ASL);
il corpo dei vigili del fuoco del Ministero dell’interno;
infine, limitatamente alla sicurezza dei lavoratori di tali settori, il personale degli uffici di sanità aerea e marittima e delle autorità marittime, portuali e aeroportuali. L’accennato dedalo di istituzioni operanti in campi analoghi e spesso sovrapposti ha indotto il legislatore a intervenire dapprima con una normativa volta alla semplice razionalizzazione e al coordinamento delle competenze dei soggetti coinvolti nel sistema ispettivo e, successivamente, tramite l’istituzione di un unico organismo cui sono state demandate pressoché la totalità delle funzioni ispettive riguardanti la materia lavoristica. In un primo momento, infatti, al fine di razionalizzare l’intero sistema e superare la disorganicità e la frammentazione dei compiti attribuiti ai diversi soggetti competenti, il D. Lgs. 124/2003 aveva provveduto ad operare una riorganizzazione dell’attività di vigilanza nell’ambito del lavoro e della previdenza sociale esclusivamente tramite la creazione di opportuni meccanismi di coordinamento tra gli stessi. Successivamente, all’interno del più ampio disegno di riforma prefigurato dalla L. 183/2014, è stata istituito l’Ispettorato nazionale del lavoro, ossia un unico organismo che integra i servizi ispettivi del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, dell’Inps e dell’Inail, al fine di semplificare l’intero sistema di vigilanza in materia di lavoro e legislazione sociale, nonché di evitare alla radice ogni possibile sovrapposizione di interventi.
Normativa di riferimento:
Decreto Legislativo 23 aprile 2004, n. 124, “Razionalizzazione delle funzioni ispettive in materia di previdenza sociale e di lavoro”;
Decreto Legislativo 23 dicembre 1997, n. 469, “Conferimento alle regioni e agli enti locali di funzioni e compiti in materia di mercato del lavoro”;
Decreto Legislativo 9 aprile 2008, n. 81, “Tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro”;
Decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 149, “Disposizioni per la razionalizzazione e la semplificazione dell'attività ispettiva in materia di lavoro e legislazione sociale, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183”;
Decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 151, “Disposizioni di razionalizzazione e semplificazione delle procedure e degli adempimenti a carico di cittadini e imprese e altre disposizioni in materia di rapporto di lavoro e pari opportunità, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183.”
Evoluzione storica della normativa in materia di vigilanza. Successivamente a prime esperienze, temporanee o contingenti, di istituzioni con compiti ispettivi di fine ‘800 (per la vigilanza sull’applicazione delle prime “leggi operaie”, la L. 3 aprile 1879, n. 4828, autorizzò l’assunzione di due ispettori delle industrie da parte del Ministero di agricoltura, industria e commercio) e inizio ‘900 (un Corpo di ispettori del lavoro venne istituito, con carattere di provvisorietà, dalla L. 19 luglio 1906, n. 380), si istituì il primo stabile ispettorato, funzionalmente dipendente dal Ministero delle corporazioni, nel periodo fascista, con il R.D. n. 2183 del 14 settembre 1929. Soppresso l’ordinamento corporativo, l’Ispettorato prese la denominazione di Ispettorato dell’industria e del lavoro, alle dipendenze del Ministro dell’industria, del commercio e del lavoro (r.d.l. 9 agosto 1943, n. 748). In seguito alla separazione del Ministero dell’industria e del commercio dal Ministero del lavoro e della previdenza sociale – operata con D.Lgs. luog. n. 474 del 10 agosto 1945 – le competenze dell’Ispettorato furono ripartite tra i due Ministeri. Gli interventi normativi senza dubbio più rilevanti si ebbero nella seconda metà degli anni ’50 e nei primi anni ’60. Sono di questo periodo, infatti, il D.P.R. n. 520 del 19 marzo 1955 (Riorganizzazione centrale e periferica del Ministero del lavoro e della previdenza sociale) e la L. n. 628 del 22 luglio 1961 (Modifiche all’ordinamento del Ministero del lavoro e della previdenza sociale), che hanno rappresentato (seppur con le modificazioni apportate dal D.P.R. n. 616 del 24 luglio 1977, e dalla L. n. 833 del 23 dicembre 1978), la pietra miliare della regolazione delle competenze e delle funzioni dell’Ispettorato del lavoro, quale istituzione funzionalmente dipendente dal Ministero del lavoro. Tale ultimo impianto normativo conferiva la titolarità dell’attività ispettiva agli ispettorati del lavoro, a loro volta organizzati in ispettorati regionali e provinciali. Ad essi era espressamente attribuito il compito della vigilanza, mentre residuava alla competenza ministeriale l’amministrazione, l’organizzazione e il controllo sul personale ispettivo, nonché la fornitura delle direttive. Quarant’anni dopo l’Ispettorato del lavoro è stato soppresso (con il D.Lgs. n. 469/1997) e i suoi compiti sono stati assorbiti dalla Direzione provinciale del lavoro, diffusa su tutto il territorio nazionale e presente in ogni Provincia. La Direzione Provinciale del Lavoro fa capo, dal 2008, al Ministero del Lavoro, della salute e delle politiche sociali, già Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Come accennato, l’esigenza di un efficace coordinamento tra le diverse autorità dettata dalla complessità ed eterogeneità di istituzioni competenti nel sistema ispettivo del lavoro ha indotto il legislatore a intervenire nuovamente sulla materia con il D.Lgs. n. 124/2004, in attuazione delle disposizioni contenute nella Legge n. 30/2003. Con tale intervento si adotta un approccio sistemico di carattere generale e una strategia complessiva volta a sfruttare le sinergie esistenti fra i vari organismi deputati alla vigilanza, in una prospettiva non di unificazione delle competenze, ma in una visione globale delle materie orientata al contrasto delle irregolarità e del lavoro sommerso. Il D.Lgs. n. 124/2004 esordiva conferendo al Ministero del lavoro il compito di coordinare, a livello centrale e decentrato, tutte le iniziative di contrasto al lavoro sommerso e irregolare, di vigilanza in materia di rapporto di lavoro e di prestazioni riguardanti i diritti civili e sociali. Presso il Ministero, ai fini del miglior svolgimento dei compiti di coordinamento, era stata istituita una nuova Direzione generale che si occupava di sovrintendere le attività ispettive svolte da tutti i soggetti coinvolti nella vigilanza in materia di lavoro, nei confronti delle Direzioni regionali e provinciali, nonché verso i servizi ispettivi di altri istituti (Inps, Inail e gli altri enti previdenziali). L’art. 3 del decreto prevedeva l’istituzione, sempre a livello centrale, di un altro organismo: la Commissione centrale di coordinamento delle attività di vigilanza, presieduta dal Ministero del lavoro e composta dal Direttore generale della Direzione generale, dai Direttori generali di Inps e Inail, dal Comandante generale della guardia di finanza, dal Direttore generale dell’agenzia delle entrate, dal Coordinatore nazionale delle ASL e dal Presidente della commissione nazionale per l’emersione. Questa commissione si riuniva nell’ipotesi in cui si rendesse opportuno coordinare a livello nazionale tutti gli organi impegnati sul territorio, con il compito di individuare gli obiettivi strategici e le priorità degli interventi ispettivi. Analoga previsione era dettata a livello periferico attraverso la costituzione della Commissione regionale di coordinamento dell’attività di vigilanza, che operava insieme con la Direzione regionale, la Direzione provinciale e i Comitati per il lavoro e l’emersione del sommerso. Il decreto individuava poi una serie di strumenti volti a dare efficacia all’azione di vigilanza: una banca dati telematica, istituita presso il Ministero del lavoro e facente parte di una sezione riservata della borsa continua nazionale del lavoro, attraverso cui era possibile consultare le informazioni sui soggetti ispezionati; la possibilità di istituire gruppi di intervento straordinario, qualora si rendessero necessari specifici interventi; l’adozione di un modello unificato di verbale di accertamento, al fine di semplificare le procedure di rilevazione degli illeciti.
La semplificazione dell’attività ispettiva ex D. Lgs. 149/2015. Da ultimo, come accennato nel paragrafo precedente, la normativa in materia di vigilanza è stata profondamente modificata dal D. Lgs. 149/2015 che ha operato una razionalizzazione e semplificazione del sistema previgente. L’obiettivo perseguito dal legislatore è stato quello di accorpare in un unico organismo le funzioni di vigilanza in materia di lavoro, di legislazione sociale e di diritto previdenziale. Mentre il D. Lgs. 124/2004 si era limitato a operare un coordinamento tra gli enti cui erano affidate tali funzioni (senza però incidere sull’originaria separazione delle stesse), la riforma del 2015, invece, ha sancito il passaggio della totalità di queste funzioni in capo all’Ispettorato Nazionale del Lavoro così da evitare la sovrapposizione tra le sfere di intervento dei diversi soggetti istituzionali. A tal fine, l’Ispettorato è demandato a svolgere le attività ispettive in passato già svolte dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, dall’Inps e dall’ Inail. Coerentemente a tale premessa, il personale ispettivo del Ministero del lavoro, nonché quello dei suoi uffici periferici (DTL e DIL), è stato trasferito all’Ispettorato, mentre quello facente capo all’Inps e all’Inail è stato inserito solo in via transitoria in un ruolo ad esaurimento, pur continuando ad operare presso tali enti. In ogni caso, tutto il personale che svolge questi compiti (cioè sia quello impiegato presso l’Ispettorato, sia quello impiegato presso l’Inps o l’Inail) deve godere delle medesime prerogative al fine di garantire l’omogeneità operativa: pertanto, è stato espressamente previsto che, ad oggi, anche ai funzionari ispettivi dell’Inps e dell’ Inail spettano le medesime prerogative assegnate al corrispondente personale del Ministero del lavoro, compresa la qualifica di ufficiale di polizia giudiziaria (con il conseguente potere di elevare contravvenzioni). Oltre a ciò, il D. Lgs. 149/2015 ha provveduto anche a riorganizzare il Comando dei carabinieri per la tutela del lavoro, al cui personale ispettivo vengono riconosciuti gli stessi poteri attribuiti a quello dell’Ispettorato. L’Ispettorato è dotato di autonomia organizzativa e contabile ed è posto sotto la vigilanza del Ministero del lavoro che ne monitora periodicamente gli obiettivi e la corretta gestione delle risorse finanziarie.
L’Ispettorato esercita le seguenti attribuzioni:
esercita e coordina su tutto il territorio nazionale, sulla base di direttive emanate dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, la vigilanza in materia di lavoro, contribuzione e assicurazione obbligatoria, nonché legislazione sociale, compresa la vigilanza in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro;
si occupa degli accertamenti in materia di riconoscimento del diritto a prestazioni per infortuni su lavoro e malattie professionali, della esposizione al rischio nelle malattie professionali, delle caratteristiche dei vari cicli produttivi ai fini della applicazione della tariffa dei premi;
emana circolari interpretative in materia ispettiva e sanzionatoria, sulla base di un parere conforme del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, nonché direttive operative rivolte al personale ispettivo;
propone, sulla base di direttive del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, gli obiettivi quantitativi e qualitativi delle verifiche ed effettua il monitoraggio sulla loro esecuzione;
cura la formazione e l’aggiornamento del personale ispettivo, compreso quello Inps e Inail;
svolge attività di promozione e prevenzione della legalità presso enti, datori di lavoro e associazioni finalizzate al contrasto del lavoro sommerso e irregolare;
esercita e coordina le attività di vigilanza sui rapporti di lavoro nel settore dei trasporti su strada, i controlli previsti dalle norme di recepimento delle direttive di prodotto e cura la gestione delle vigilanze speciali sul territorio nazionale;
svolge attività di studio e analisi relative ai fenomeni del lavoro sommerso e irregolare e alla mappatura dei rischi, al fine di orientare l’attività di vigilanza;
gestisce le risorse assegnate al fine di garantire l’uniformità delle attività di vigilanza, delle competenze professionali e delle dotazioni strumentali in uso al personale ispettivo;
svolge tutte le attività connesse allo svolgimento delle funzioni ispettive demandategli dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali;
riferisce al Ministero del lavoro e delle politiche sociali, all’Inps e all’Inail le informazioni rilevanti ai fini della programmazione e dello svolgimento delle attività istituzionali di tali amministrazioni;
si coordina con i servizi ispettivi delle aziende sanitarie locali e delle agenzie regionali per la protezione ambientale in modo tale da assicurare l’uniformità di comportamento ed una maggiore efficacia degli accertamenti ispettivi.
Occorre precisare però che, anche in seguito alla riforma, la competenza dell’Ispettorato in materia di vigilanza non diviene generale, in quanto per ciò che attiene la sicurezza del lavoro essa è limitata a quei settori che comportano rischi particolarmente elevati, ossia nel caso di attività nel settore delle costruzioni edili o del genio civile, di lavori effettuati mediante cassoni in aria compressa e lavori subacquei, nonché di ulteriori attività individuate con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministero del lavoro, adottato sentito il Comitato per la valutazione delle politiche attive e per il coordinamento nazionale delle attività di vigilanza in materia di salute e sicurezza sul lavoro e previa intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano. Infatti, analogamente a quanto accadeva in passato, in via generale, la vigilanza sull’applicazione della normativa in materia di sicurezza sul lavoro spetta ancora alle Aziende sanitarie locali competenti per territorio, mentre una competenza residuale permane in capo alle autorità marittime a bordo delle navi ed in ambito portuale, agli uffici di sanità aerea e marittima, alle autorità portuali ed aeroportuali, per quanto riguarda la sicurezza dei lavoratori a bordo di navi e di aeromobili ed in ambito portuale ed aeroportuale, nonché ai servizi sanitari e tecnici istituiti per le Forze armate e per le Forze di polizia e per i Vigili del fuoco. Infine, il D. Lgs. 149/2015, nel ridisegnare l’assetto istituzionale dei soggetti deputati all’attività di vigilanza, è intervenuto anche in riferimento alla Commissione centrale di coordinamento dell’attività di vigilanza istituita, come si è detto nel paragrafo precedente, dall’art. 3 del D. Lgs. 124/2004. Ad oggi, infatti, al fine coordinarne l’operato con il nuovo Ispettorato, è stato espressamente previsto che quest’ultima elabori indirizzi, obiettivi strategici e la scala di priorità degli interventi ispettivi proprio sulla base di rapporti annuali presentati dall’Ispettorato.
Funzioni e prerogative. Le funzioni ispettive, svolte secondo il riparto di competenze delineato nel paragrafo precedente, possono essere evase tramite accessi nei luoghi di lavoro; tali accessi non sono subordinati ad autorizzazioni da parte del datore di lavoro o di un magistrato. L’esercizio dei poteri di indagine include la possibilità di raccogliere dichiarazioni spontanee da parte di chi operi sul luogo di lavoro, esigere tutta la documentazione utile alle indagini, nonché chiedere informazioni a tutti gli uffici pubblici, oltre che ai Consulenti del lavoro, ai patronati e agli istituti di previdenza (Inps, Inail, Inpdap, ecc.). I verbali di accertamento così redatti sono fonti di prova relativamente agli elementi di fatto acquisiti e possono essere utilizzati per l’adozione di eventuali provvedimenti sanzionatori, amministrativi e civili, da parte di altre amministrazioni interessate. In particolare, al termine del primo accesso viene rilasciato al datore di lavoro o alla persona presente all'ispezione -in questo caso con l'obbligo della tempestiva consegna al datore stesso- il verbale di primo accesso ispettivo contenente: l’identificazione dei lavoratori presenti e delle modalità del loro impiego, l’indicazione delle attività svolte dal personale ispettivo, le eventuali dichiarazioni rese dal datore di lavoro, da chi lo assiste, o dalla persona presente all'ispezione e ogni richiesta, anche documentale, utile al proseguimento dell'istruttoria finalizzata all'accertamento degli illeciti. Nel caso in cui durante il primo accesso non sia invece possibile completare le attività di accertamento, viene rilasciato un verbale interlocutorio in cui vengono esplicate le ragioni legittimanti il differimento delle operazioni; in ogni caso, al termine di tutte le attività ispettive, qualora venga rilevata un’inosservanza delle norme di legge o del contratto collettivo in materia di lavoro e legislazione sociale e qualora il personale ispettivo rilevi inadempimenti dai quali derivino sanzioni amministrative, viene notificato al trasgressore e all’eventuale obbligato in solido un verbale unico di accertamento e notificazione contenente l’esito dell’attività, la diffida a regolarizzare le irregolarità constatate, l’indicazione delle modalità con cui estinguere gli illeciti e quelle con cui opporsi a tale atto. Per quanto concerne le dichiarazioni rese dai prestatori di lavoro, esse devono essere acquisite in assenza del datore di lavoro o di altri superiori gerarchici, in modo tale che i lavoratori non subiscano pressioni indebite; oltre a ciò, sempre nell’ottica di garantire la correttezza e la neutralità delle operazioni, l’attività di accertamento deve essere svolta conformemente ai principi contenuti nel codice unico di comportamento del personale ispettivo. L’accesso al luogo di lavoro al fine di svolgere tale attività ispettiva può essere sollecitato anche da parte dei lavoratori o delle associazioni sindacali. Come anticipato, la seconda categoria di poteri riconosciuta agli organismi addetti all’attività di vigilanza comprende, innanzi tutto, ex art. 13, D.Lgs. n. 124/2004, la possibilità di diffidare il datore di lavoro alla regolarizzazione delle inosservanze normative (sanabili) riscontrate. L’ottemperanza alla diffida –da effettuarsi entro trenta giorni dalla notificazione del verbale unico –, comporta l’assoggettamento alla sanzione nella misura del minimo previsto dalla legge o di un quarto della misura stabilita in misura fissa. Il pagamento, effettuato entro 15 giorni dalla scadenza del termine fissato dalla legge per ottemperare alla diffida, estingue il procedimento sanzionatorio. Occorre precisare che si può ricorrere allo strumento della diffida solo nei casi in cui l’illecito sia ancora materialmente sanabile, ciò tuttavia non avviene in tutte quelle ipotesi in cui gli adempimenti richiesti - pur se astrattamente possibili - in concreto non possono più essere effettuali dal datore di lavoro. L’ispettore può, inoltre, diffidare il datore di lavoro al pagamento di crediti patrimoniali certi in favore del lavoratore. Presupposto dell’esercizio di tale potere è che l'ammontare del credito sia non solo certo per quanto attiene l’esistenza del diritto, ma anche già quantificato. Successivamente al ricevimento della notifica della diffida, in questo caso, il datore di lavoro può decidere di adempiere versando direttamente la somma al lavoratore, oppure può proporre una conciliazione presso la sede territorialmente competente dell’Ispettorato del lavoro, entro trenta giorni dalla notificazione della diffida. Se questa va a buon fine, viene firmato un verbale e il procedimento perde efficacia; il lavoratore percepirà dunque la somma concordata -che in astratto può essere anche inferiore a quella a cui avrebbe diritto-; i relativi obblighi contributivi però saranno parametrati sulla somma dovuta per legge. In caso contrario (oppure se il datore faccia decorrere inutilmente il termine entro cui era possibile promuovere la conciliazione), la diffida accertativa acquisisce il valore di accertamento tecnico con valore di titolo esecutivo. Avverso tale diffida è ammesso ricorso innanzi al Comitato per i rapporti di lavoro istituito presso la sede territorialmente competente dell’Ispettorato del lavoro. Il ricorso sospende l’esecutività della diffida. In caso di inottemperanza ai provvedimenti di diffida, è possibile provvedere alla contestazione o alla notificazione al datore di lavoro dell’illecito amministrativo per violazione di una o più disposizioni giuslavoristiche (art. 14, L. n. 689/1981), sulla base di quanto emerso durante le ispezioni. Il datore di lavoro conserva la possibilità di ottemperare a quanto previsto dalla contestazione o dalla notificazione, incorrendo nelle sanzioni previste dalla legge. Uno dei poteri conferiti agli ispettori dal D.Lgs. n. 124/2004 è quello di poter provvedere ad effettuare una conciliazione monocratica (art. 11) in ipotesi di controversie con il datore di lavoro, qualora vi sia stata una richiesta di intervento da parte del lavoratore, ovvero in sede di ispezione, sempre che non vi siano a prima vista - o si suppongano – gli estremi di reato. In genere si tratta di rivendicazioni di natura economica (retribuzioni non pagate, straordinari, ecc.). Se il tentativo di conciliazione ha esito positivo e si giunge a un accordo, deve essere redatto un apposito verbale che può essere dichiarato esecutivo con decreto dal giudice, su istanza della parte interessata. I versamenti dei contributi previdenziali e assicurativi, riferiti alle somme concordate in sede conciliativa in relazione al periodo lavorativo riconosciuto dalle parti, e il pagamento delle somme dovute al lavoratore estinguono il procedimento ispettivo. In seguito alla riforma del 2015 la competenza in materia spetta a tutto il personale ispettivo dell’Ispettorato. Deve infine essere ricordato un ulteriore potere attinente la possibilità di sospensione dell'attività imprenditoriale ai sensi dell'art. 14 del D.Lgs. n. 81/2008. Introdotta per combattere più efficacemente il c.d. “lavoro nero”, all'inizio tale misura operò solo per il cantiere edilizio, ai sensi dell'art. 36 bis della legge 248/2006, successivamente venne estesa a qualunque attività imprenditoriale, ai sensi dell’art. 5 della legge n. 123/2007. Infine, tale facoltà è stata completamente rivista dal nuovo Testo Unico Sicurezza Lavoro, il D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, in vigore dal 15 maggio 2008 e modificato dal D. Lgs. 151/2015. Il provvedimento consiste in una sostanziale chiusura dell’attività e può essere adottato dagli organi di vigilanza dell’Ispettorato, oppure, nel caso di reiterate violazioni in materia di sicurezza sul lavoro dal personale ispettivo delle ASL (salvo il caso in cui si tratti di dei settori particolarmente rischiosi di cui si è detto in precedenza). Presupposto per l'emanazione di tale provvedimento può essere o la presenza di lavoratori irregolari (c.d. "in nero") in percentuale pari o superiore al 20% del totale dei lavoratori presenti sul luogo di lavoro, oppure la presenza di grave e reiterate violazioni in materia di tutela della salute e della tutela sul lavoro. Il provvedimento di sospensione nelle ipotesi di lavoro irregolare non si applica nel caso in cui il lavoratore irregolare risulti essere l’unico occupato dall’impresa. Sempre nei casi di sospensione per lavoro irregolare, inoltre, gli effetti della sospensione possono essere fatti decorrere dalle ore dodici del giorno lavorativo successivo oppure dalla cessazione dell’attività lavorativa in corso che non può essere interrotta, salvo che non si riscontrino situazioni di pericolo imminente o di grave rischio per la salute dei lavoratori o dei terzi. In entrambe le ipotesi, la sospensione può però essere applicata esclusivamente nei confronti delle attività imprenditoriali. Il provvedimento di sospensione è notificato direttamente al datore di lavoro, nonché comunicato all'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di cui al D. Lgs. 12 aprile 2006, n. 163 e al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, al fine dell’adozione, da parte di quest’ultimo di un provvedimento interdittivo alla contrattazione con le pubbliche amministrazioni ed alla partecipazione a gare pubbliche. Il mancato rispetto della sospensione è punito con l’arresto fino a sei mesi nelle ipotesi di sospensione per gravi e reiterate violazioni in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro e con l’arresto da tre a sei mesi o con l’ammenda da 2.500 a 6.400 euro nelle ipotesi di sospensione per lavoro irregolare. Ai fini della revoca della sospensione irrogata dall’Ispettorato del lavoro, il datore di lavoro deve regolarizzare gli illeciti riscontrati e versare una somma di € 2.000 nelle ipotesi di lavoro irregolare e di € 3.200 nelle ipotesi di reiterate violazioni in materia di tutela della salute. Nell’ipotesi in cui il provvedimento di sospensione sia stato emanato dall’organo di vigilanza delle ASL, esso potrà essere revocato solo se, oltre al ripristino delle regolari condizioni di lavoro, il datore di lavoro provveda al pagamento di una somma unica pari a Euro 3.200 In ogni caso, tali importi si sommeranno alle altre sanzioni irrogate. Il D. Lgs. 151/2015 ha stabilito che, su istanza di parte, la revoca è altresì concessa subordinatamente al pagamento del venticinque per cento della somma aggiuntiva dovuta. L'importo residuo, maggiorato del cinque per cento, è versato entro sei mesi dalla data di presentazione dell'istanza di revoca. In caso di mancato versamento o di versamento parziale dell'importo residuo entro detto termine, il provvedimento di accoglimento dell'istanza costituisce titolo esecutivo per l'importo non versato.
Avverso i provvedimenti di sospensione emessi dai funzionari dell’Ispettorato è ammesso ricorso, entro 30 giorni, alla sede territorialmente competente dell’Ispettorato stesso, mentre i provvedimenti emessi dagli organi delle Aziende Sanitarie Locali, al Presidente della Regione. Questi si pronunciano nel termine di 15 giorni dalla notifica del ricorso, ma decorso inutilmente il termine il provvedimento di sospensione perde efficacia. La giurisprudenza non è unanime nel riconoscere al provvedimento natura sanzionatoria o cautelare, tale incertezza si riflette anche nell’individuazione dell’organo competente in caso di impugnazione dello stesso. Infatti, laddove gli si attribuisca natura sanzionatoria, l’impugnazione dovrebbe essere presentata al giudice ordinario, mentre in caso contrario la competenza spetterebbe al giudice amministrativo.
Meritano di essere ricordate, infine, le ulteriori estrinsecazioni dei poteri sanzionatori degli ispettori. Proprio in tema di lavoro nero si registrano le sanzioni più pesanti. In tali casi una sanzione era stata originariamente prevista dalla legge n° 73/2002, come modificata dalla legge n° 248/2006. Successivamente era intervenuta la L. 183/2010 che aveva modificato i meccanismi applicativi della sanzione, valorizzando l’esistenza della preventiva comunicazione di assunzione, e poi la L. 9/2014 che ne aveva invece ridefinito gli importi. Da ultimo, il D. Lgs. 151/2015 è intervenuto nuovamente sulla materia, stabilendo che tale sanzione può essere irrogata esclusivamente nel caso di lavoratori subordinati (esclusi i lavoratori domestici) rispetto ai quali non è stata effettuata proprio la preventiva comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro da parte del datore. Tuttavia, la sanzione non trova applicazione in due ipotesi: nel caso in cui il datore abbia assolto le obbligazioni contributive correlate al rapporto di lavoro in modo tale da rendere manifesta la sua volontà di non occultarlo e quando abbia provveduto spontaneamente a regolarizzarlo nonostante l’omessa denuncia iniziale. Laddove non ricorrano queste condizioni, è prevista una sanzione il cui importo varia a seconda della durata dell’utilizzo del prestatore: da € 1.500 a €9.000 in caso di impiego del lavoratore fino a 30 giorni di effettivo lavoro; da € 3.000 a € 18.000 nel caso di impiego del lavoratore da 31 a 60 giorni; da € 6.000 a € 36.000 nel caso di impiego del lavoratore per più di 60 giorni. Le sanzioni vengono aumentate del 20% se il lavoratore irregolare è uno straniero privo del permesso di soggiorno, con permesso scaduto o revocato o annullato, oppure un minore di età. In ogni caso è possibile che l’illecito venga estinto tramite la cd. diffida. Infatti, si estingue il procedimento sanzionatorio se, in relazione ai lavoratori irregolari ancora in forza presso l’impresa e fatta salva l'ipotesi in cui risultino regolarmente occupati per un periodo lavorativo successivo, il datore di lavoro proceda alla stipulazione di un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, anche a tempo parziale con riduzione dell'orario di lavoro non superiore al cinquanta per cento dell'orario a tempo pieno, o di un contratto a tempo pieno e determinato di durata non inferiore a tre mesi, nonché garantisca il mantenimento in servizio degli stessi per almeno tre mesi. In particolare, il datore è tenuto a fornire prova della regolarizzazione dei lavoratori entro 120 giorni dalla notifica del verbale unico e deve aver regolarizzato anche il precedente periodo di lavoro in nero. Sanzioni ugualmente pesanti erano poste nel caso di non tenuta dei registri obbligatori presso la sede di lavoro. Pare opportuno ricordare come però il D. Lgs. 151/2015 abbia sancito l’abolizione del registro infortuni a partire dal 23 dicembre 2015 e, dunque, anche dell’obbligo della relativa registrazione, pur restando fermo l’obbligo di denunciare gli eventi infortunistici verificatesi all’Istituto competente. Per quanto concerne invece il Libro Unico del Lavoro, introdotto dalla L. 133/2008, la mancata tenuta era già originariamente punita con la sanzione pecuniaria amministrativa da 500 a 2.500 euro; mentre l'omessa esibizione agli organi di vigilanza era punita con la sanzione pecuniaria amministrativa da 200 a 2.000 euro. Il D. Lgs. 151/2015 ha stabilito che a partire dal 1 gennaio 2017 sarà obbligatoria la tenuta dello stesso in modalità telematica presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, stabilendo un regime sanzionatorio transitorio operante nelle more dell’attuazione del LUL telematico nei casi di omessa e infedele registrazioni delle informazioni. Tale scadenza è stata rimandata al 1 gennaio 2018 dal D. L. 244/2016 convertito in L. 19/2017. Pertanto, ad oggi, continua ad applicarsi il regime sanzionatorio secondo cui, salvo i casi di errore meramente materiale, l'omessa o infedele registrazione dei dati previsti dalla legge, che determini differenti trattamenti retributivi, previdenziali o fiscali, è punita con la sanzione amministrativa pecuniaria da 150 a 1.500 euro. Se la violazione si riferisce a più di cinque lavoratori ovvero a un periodo superiore a sei mesi la sanzione va da 500 a 3.000 euro. Se la violazione si riferisce a più di dieci lavoratori ovvero a un periodo superiore a dodici mesi la sanzione va da 1.000 a 6.000 euro.
Il paradosso: un ispettore “dell’Ispettorato del Lavoro”, timbrava per un collega assente, scrive il 24 gennaio 2017 "Fatti e avvenimenti Sciacca". Un paradosso che lascia basiti. Il fatto in se stesso, non sarebbe nulla di eccezionale, anzi rientrerebbe nella “norma”, ma diventa eclatante perché compiuto da un soggetto pagato per fare rispettare le norme sul lavoro. Un dipendente dell’Ispettorato Provinciale del Lavoro di Agrigento, avrebbe timbrato il cartellino di un collega assente, che invece in questo modo risultava presente in ufficio pur essendo fuori. Il “timbratore” inoltre, pare che sia recidivo ed al momento è stato sospeso dall’attività lavorativa per 30 giorni. L’uomo infatti, è finito sotto processo in un caso analogo, dove risulta coinvolto in una indagine risalente al 2013, nella quale era stato “beccato” dalle forze dell’ordine. Ora proviamo a capire il senso di rabbia, che possa provare un qualsiasi titolare di attività commerciale, che ha avuto la “visita” di un ispettore del lavoro ed è stato multato. Certamente non bisogna fare di tutta l’erba un fascio, ma qualcosa che non funziona a monte, c’è. Ora il “furbetto del cartellino”, che è un dipendente regionale, secondo quanto previsto dalle nuove normative di legge rischia anche il licenziamento.
Controlli Finanza, INPS, Ispettorato del Lavoro: la mia esperienza, si legge sulla rete (Forum-Termometro Politico). «Cari utenti di PIR, vi racconto come vengono eseguiti i controlli dalla finanza, dall'INPS e dall'ispettorato del lavoro, per esperienza. Ovviamente, quello che scriverò non è valido per tutti, ma è la MIA esperienza.
Iniziamo con un quadro generale della situazione: Ho avuto a che fare con diversi finanzieri, ispettori del lavoro e dell'INPS. E' gente che, nel 90% dei casi, non è molto contenta di prendere 1.200 € mensili e pensa che se uno fa l'imprenditore è ricco, e quindi un pezzo di merda, a prescindere che evada o meno. Non lo fanno apposta o perchè sono cattivi... Inoltre c'è da dire che dall'alto, a questi controllori, arrivano direttive ben precise: non esiste che un'attività sotto accertamento non paghi qualcosa: se è tutto in regola, è necessario contestare cose che sono effettivamente in regola ma che, per disperazione, l'imprenditore preferisce liquidare piuttosto che mettersi in causa con lo stato. Questo è successo a me e ad altri che conosco. La mia attività si articola in un import, in un magazzino/produzione, in un punto vendita. Alcuni mesi fa ho avuto il piacere di essere chiamato dalla dogana che mi comunicava che il mio container, appena arrivato a Livorno e che io aspettavo con trepidazione per rifornire alcuni clienti che attendevano i miei prodotti da parecchio tempo, sarebbe stato svuotato dalla finanza e che sarebbe stato contato fino all'ultimo pezzo. In tutto questo, naturalmente, io sono stato costretto a recarmi a Livorno. Una volta arrivato, ho dovuto spiegare ai finanzieri cosa significassero i codici in fattura e a cosa corrispondessero...! Vabbè, appurato che tutto era in regola, come se dipendesse da me il contenuto caricato da un'azienda estera, ho sborsato SOLO 1.500 € per pagare le spese del controllo che ho subìto e sono tornato a casa. Hanno fatto anche controlli antidroga con i cani e con lo scanner, ma questo è la norma.
Tiriamo le somme:
- Spese di viaggio Roma - Livorno - Roma
- Giornata persa: questo mi fa veramente incazzare!
- Fastidio nel constatare che le mie tasse servono per pagare gente che ha bisogno del MIO AIUTO per svolgere il proprio lavoro.
- 1.500 € di spese per il controllo, che, per chi non lo sapesse, PAGA SEMPRE L'IMPRESA CHE VIENE CONTROLLATA!
- Alcuni prodotti sono stati rovinati durante tutte queste operazioni - no comment.
Andiamo avanti. La settimana scorsa, l'intero centro commerciale dove ho il punto vendita, è stato visitato dalla finanza, dall'INPS e dall'ispettorato del lavoro. I finanzieri sono andati dai cinesi, gli hanno fatto chiudere il negozio e fatto appendere un cartello con scritto: chiuso per inventario. Sono entrati la mattina e sono usciti la sera. Non mi risulta che i cinesi abbiano avuto problemi...Un negozio vicino al mio, mi raccontava il proprietario, è stato controllato dagli ispettori del lavoro, sentite questa: il commesso era in regola con un contratto a tempo indeterminato che la maggior parte de la gente se lo sogna. Gli chiedono le mansioni che svolge e risulta che, in alcuni momenti, tipo 5 minuti al giorno, utilizza il computer per verificare la disponibilità di prodotti in magazzino. Secondo gli ispettori, tale mansione non era in linea con il livello del contratto e che avrebbe dovuto avanzare di uno scatto o due. Risultato? Una simpatica ammenda e l'avanzamento per il dipendente. A voi giudicare se è stato giusto o meno. Ma andiamo ancora avanti: vengono da me: ispettori del lavoro e INPS. Mi contestano che la ragazza che lavora con me, con contratto a progetto, non svolge realmente un progetto ma esegue mansioni di commercio. La realtà è che il progetto c'è eccome e io avevo assunto questa ragazza, che nel suo ruolo ha una grande esperienza, per insegnarmi alcune cose. Risulta che devo pagare un'ammenda. Parlo col consulente del lavoro e mi spiega che se la ragazza è d'accordo NESSUNO PUO' CONTESTARE UN CAZZO, questo dice la legge! La ragazza naturalmente, non solo è d'accordo, ma è ben contenta di lavorare con me e di come la tratto, lei stessa era disgustata nei confronti di questi ispettori. Ora sapete in che situazione mi trovo? O pagare un'ammenda ingiusta o andare in causa con lo stato, pagherò l'ammenda ingiusta - no comment. Passiamo all'INPS. Mi contestano il fatto che, per il mio ruolo, è necessaria la previdenza sociale. Spiego loro che per conto mio, privatamente, pago una previdenza privata. Loro rispondono che non gli interessa e che devo pagare l'INPS per forza. Risultato: quasi 3.000 € + ammende e interessi. Ora, questo è l'unico caso in cui hanno applicato come si deve la legge ed è giusto che io paghi, ma il punto è questo: CHE LEGGE DI MERDA, con la scusa della pensione (che io mi pago per conto mio), lo Stato vuole i miei soldi perchè STA CON LE PEZZE AL CULO e gli servono per pagare OGGI le cazzate fatte in passato. Che altro...Ad un altro negoziante lo hanno rovinato. Aveva 5 persone tutte in nero. Dire che è fottuto è dire poco. Lì è roba da 100.000 € in su...Un altro che aveva parecchie persone in nero si è salvato dicendo che era già sotto accertamento e gli ispettori gli hanno creduto senza verificare. A parte i cinesi e quello che ha inventato la cazzata che era già sotto accertamento, non c'è stato uno, dico uno, che si è salvato, tutti hanno dovuto pagare il pizzo allo Stato. Questo è quanto».
Accanimento su Fincantieri: un'ispezione ogni tre giorni. Nello stabilimento di Monfalcone 280 controlli solo negli ultimi 30 mesi. Oggi Cdm, senza soluzioni il prefetto pronto a riaprire il ciclo produttivo, scrive Lodovica Bulian, venerdì 3/07/2015 su "Il Giornale". Che la si chiami «manina anti-imprese», o gogna burocratica, con Fincantieri ci è andata pesante. E il sequestro preventivo disposto dal tribunale di Gorizia su alcune aree del cantiere di Monfalcone costringendo l'intero stabilimento allo stop produttivo per un presunto illecito sulla gestione degli scarti, è la cronaca di una tempesta annunciata. Non un fulmine a ciel sereno, ma l'affilatissima punta dell'iceberg di un'intensiva azione di controllo avviata dalla Procura di Gorizia sul colosso della cantieristica navale. Lo stabilimento è stato oggetto di 280 ispezioni in appena due anni e mezzo. Si tratta di controlli relativi a sicurezza e ambiente disposti tra giugno 2011 e marzo 2015. Al primo posto ci sono gli ispettori delle Asl. Sono 102 i blitz effettuati nel 2013, 94 nel 2014 e 61 solo nei primi mesi del 2015. Poi ci sono gli ispettori del lavoro, che sono piombati a Monfalcone 31 volte nel 2013, 21 nel 2014 e 6 in questi mesi. L'Inail? Ha effettuato 15 controlli nel 2013, 24 l'anno scorso, e 5 nel 2015, mentre l'Inps che ha varcato i cancelli di Panzano 15 volte nel 2013 e18 nel 2104. Numeri spaventosi quelli sventolati dal deputato goriziano Giorgio Brandolin (Pd), che ha gridato alla magistratura «provocatoria e vessatoria» nei confronti di Fincantieri e chiesto al ministero della Giustizia «un intervento ispettivo sul comportamento della Procura». Intanto a Monfalcone le giornate scorrono interminabili, il tempo è scandito dalla tensione migliaia di lavoratori che protestano in piazza, mentre un'intera filiera in ginocchio attende con il fiato sospeso il Consiglio dei ministri di oggi, dove potrebbe concretizzarsi quel «percorso per una soluzione in tempi rapidi» annunciato dal Mise per riaccendere i motori della produzione. Che più resta in panne e più compromette la competitività del gruppo italiano guidato da Giuseppe Bono. Ottimista sì, ma con un occhio a una timeline sempre più stretta per evitare perdite milionarie. Anche per il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti «quello che è successo in un cantiere con 5mila persone è un segnale molto problematico se vuoi investire nel mio Paese devi poter stare tranquillo di non essere più a rischio». E se il Governo dovesse tardare, allora a riaprire i cancelli ci penserà il prefetto di Gorizia, Vittorio Zappalorto, che si dice pronto a soluzioni casalinghe d'urgenza. D'altra parte sono bastate 24 ore di chiusura per scompensare i ritmi serratissimi della gigantesca macchina industriale che ora si trova di fronte a «emergenze gestionali di notevole complessità», fa sapere l'azienda in una nota. Infatti, sta solcando l'Adriatico, diretto a Monfalcone, dove è atteso per il fine settimana, un troncone da 100 metri e oltre 2.700 tonnellate, proveniente da Castellammare di Stabia, per la costruzione della Princess Cruise. Ma il bacino è ancora occupato dalla Carnival Vista, che proprio in queste giornate avrebbe dovuto terminare le operazioni di varo. «I tecnici del cantiere stanno approntando insieme alla Capitaneria di porto e un dettagliato piano di intervento che consenta le due attività». Che sono gestionali, precisa il gruppo, non di certo produttive.
"I controlli della Finanza ben vengano ma l'importante è non accanirsi". Caccia all'evasore. Ippaso, Confcommercio: «Tre volte nella stessa città è una persecuzione». Replica del colonnello Pastore, scrive Alessandro Mazzanti su “Il Resto del Carlino” il 27 febbraio 2012. Saranno troppi, questi controlli della Finanza? Tre in una settimana a Fano; altri (dopo quello che il 21 scorso, per martedì grasso, ha interessato gran parte della provincia), potrebbero arrivare a Pesaro, mentre in Italia, i blitz, ormai sono all’ordine del giorno. Commercianti tartassati? Categoria in rivolta? No, ma qualche segnale di malumore c’è. Dice ad esempio Davide Ippaso, segretario comunale Confcommercio: «I controlli della Finanza ben vengano, ci mancherebbe. Ma a noi i blitz non piacciono. E tre volte nello steso posto non è un segnale, è un accanimento. Vorremmo che quella delle Fiamme gialle fosse un’attività di controllo continuo e che soprattutto non si risolvesse in una caccia all’untore. Insomma un po’ di buon senso. Esempi. Primo: se un negoziante mi fa 180 scontrini in un giorno, e 2 se li dimentica, diventa un accanimento multarlo come se non ne avesse fatto neanche uno. Secondo, mettiamo un evento come la Notte bianca. Se la Finanza mi mette qualcuno davanti a un negozio, e in pratica per via dei controlli non lo fa lavorare o quasi in una giornata in cui quel bar o ristorante incassa come nel resto dell’intero mese, allora questo non diventa più prevenzione, ma un problema. Bisognerebbe eliminare il concetto che il commerciante è un parassita, o ancora peggio uno spacciatore del nero. Anche perchè, nel caso, sarebbe in ottima compagnia: i liberi professionisti quante tasse pagano? E certe statistiche dicono che solo il 5% degli imprenditori è in attivo. L’altro 95% ha sicuramente ottimi commercialisti».
Il comandante della Guardia di Finanza, colonnello Francesco Pastore, replica precisando: «I nostri controlli, in questo momento è vero che sono intensificati, ma sono mirati. Il che vuol dire che non sono blitz, come li chiamano i ‘media’, ma che vengono fatti dopo un lavoro di indagine e di consultazione della banca dati: insomma, non andiamo a colpo sicuro, ma quasi. Mi è capitato di vedere nei giorni scorsi le dichiarazioni dei redditi di un commerciante che dichiarava 1 euro, imprenditori che dichiarano 9 euro. Chiaro quindi che noi poi andiamo a controllare queste attività, che già dalla banca dati risultano altamente sospette. Lungi da noi l’idea di criminalizzare nessuno. L’altro ieri siamo andati al mercato di Fano ma certo non ce l’abbiamo con gli ambulanti di Fano. Riguardo poi al negozio che non faremmo lavorare per colpa dei controlli serrati sugli scontrini, preciso che la Finanza non fa il presidio di cassa, che invece è un’attività dell’Agenzia delle entrate. Quindi non vedrete un finanziere che sta lì per ore a controllare il flusso degli scontrini. Infine, per quanto riguarda il buon senso, noi siamo obbligati, e non possiamo fare diversamente, ad applicare la norma: quindi, se il negozio mi salta due scontrini su 180, non ci è consentito chiudere gli occhi su quei due scontrini».
Nel dibattito si inserisce anche Roberto Borgiani, direttore Confesercenti: «La Finanza fa il suo mestiere, constato che in poche settimane siamo passati da evasore uguale furbo a evasore uguale criminale. I controlli, anche sugli scontrini, non lo vedo come un atto persecutorio. Ma è bene chiarire che ai fini dell’imposizione fiscale sono gli studi di settore che contano, più degli scontrini, anche se è vero che la mancata emissione può portare sanzioni o addirittura la chiusura dell’attività. Ma soprattutto: qualcuno si ricorderà nella compilazione degli studi di settore che da circa un mese nei negozi della provincia, tra la fine dei saldi (che sono andati male) e la neve, non s’è visto nessuno? Chiediamo fortemente di discutere di questa cosa e un provvedimento ad hoc che consideri tale anomalia».
Maxi multe e controlli in piena notte. "Accanimento sulla nostra azienda". Il calvario dei titolari del franchising empolese "La Taverna di Poldo", scrive il 7 ottobre 2016 Fabrizio Vincenti su "La Nazione". Sei punti già avviati in Toscana, con la sede legale proprio a Empoli, una decina di possibili nuove aperture in regione. Con relativi posti di lavoro. Ma, per ora, hanno deciso di tirare il freno e bloccare i nuovi punti vendita, schiacciati dal peso di una macchina burocratica opprimente e vessatoria. I titolari de "La Taverna di Poldo", un franchising che è una sorta di risposta toscana ai fast food delle multinazionali, lanciano il loro grido di allarme dopo l’ennesima visita subìta da dipendenti della Direzione territoriale del lavoro nel punto vendita di Lucca. Che è giunta dopo una multa di 6000 euro per una supposta evasione contributiva di 95,36 euro, a cui è seguito il rifiuto di mostrare il verbale di contestazione per potersi difendere in giudizio. Soprattutto a Lucca, ma anche a Livorno e a Montecatini la musica è la solita. Con non pochi problemi e visite ispettive, proprio mentre la catena, che vanta circa 35 dipendenti, ha in programma altre aperture a Firenze, Pistoia, Pisa, Prato, Grosseto, Massa e Livorno. I titolari parlano senza mezzi termini di accanimento e sono intenzionati a bloccare le nuove aperture e dirigere le loro attenzioni all’estero. La goccia che ha fatto traboccare il vaso? Un controllo in piena notte, il primo ottobre scorso. Due funzionari arrivano nel locale di Lucca e dispongono a sospensione dell’attività imprenditoriale con decorrenza 3 ottobre, con riserva di annullamento qualora si accerti entro lo stesso termine, la regolare occupazione, al momento dell’accesso ispettivo dei lavoratori presenti. «I due funzionari – spiegano i titolari – non erano stati per motivi tecnici in grado di verificare telematicamente che i lavoratori presenti erano regolarmente iscritti e quindi nel dubbio hanno scelto di chiudere la nostra attività. Con riserva. Ci hanno fatto pure presente che la colpa era nostra in quanto non avevamo in negozio le ‘credenziali’ (user e password) per effettuare una verifica che loro avrebbero potuto fare per loro conto. Non esiste alcun obbligo che imponga di detenere tali riservate credenziali sul luogo di lavoro. Ma così hanno deciso. Lunedì mattina 3 ottobre abbiamo consegnato a nostre spese tutto il necessario a consentire la dovuta verifica». È abbastanza. «Denunciamo questo accanimento. Lo facciamo a nostro rischio e pericolo. L’azienda – aggiungono – ha infatti già deciso di non investire più un euro che uno sul territorio italiano. Avendo verificato ed apprezzato nuove e più interessanti opportunità di investimento in Paesi esteri quali ad esempio la Repubblica Ceca dove l’accoglienza e la lealtà nei confronti delle imprese, piccole o grandi che siano, non sono minimamente paragonabili alla bieca ottusità della nostra burocrazia».
Agenzia Entrate, premio di produzione fa il funzionario rapace e aggressivo, scrive "Blitz Quotidiano" il 29 luglio 2014. Agenzia Entrate, premio di produzione fa il funzionario rapace e aggressivo. Nel 2011 (ultimo rilevamento noto) la parte fissa dello stipendio dei i dirigenti di seconda fascia è costata all’Agenzia delle Entrate 30 milioni di euro, quella variabile 25: significa che la retribuzione varia a seconda dei risultati, con bonus legato alle somme recuperate passate in giudicato. Questa forma di incentivo serve a garantire professionalità di alto livello (quelli bravi vanno pagati), ma rischia di favorire l’aggressione fiscale. Federico Fubini su Repubblica riferisce di un dibattito in corso (oggi il nuovo capo dell’Agenzia Rossella Orlandi sarà ascoltata per la prima volta in Parlamento e potrebbe chiarire cosa ne pensa) e di un paio di esempi davvero poco edificanti di accanimento immotivato su un paio di imprenditori. Che quello degli incentivi sia una procedura quantomeno discutibile e potenzialmente vessatoria lo dice anche l’ex ministro delle Finanze Vincenzo Visco e, soprattutto, Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità anticorruzione. Cantone lamenta la circostanza per cui si paga qualcuno di più solo perché faccia il suo dovere. Visco vede rischi inevitabili: “Spero che Orlandi, il nuovo direttore, cambi linea rispetto al passato: pagare gli ispettori in base ai risultati può portare ad atteggiamenti molto aggressivi. Si costringono sotto ricatto gli imprenditori a fare adesioni (patteggiamenti sulle multe, ndr) in base a violazioni che in parte non c’erano o non c’erano per niente”. L’odissea di Umberto Angeloni, imprenditore, sembra confermare l’esito cui conduce un eccesso di zelo motivato anche da interesse personale. Angeloni ha rilevato nel 2007 la Caruso Menswear di Parma, un’azienda di 600 addetti che produce moda da uomo per alcuni dei grandi gruppi globali del lusso. In quattro anni l’ha riportata in utile, ha fatto entrare con il 35% Fosun, il più grande fondo privato cinese, e ha sviluppato un marchio proprio. Fino a quando l’Agenzia delle Entrate ha suonato alla porta questa primavera. I controlli in azienda sono durati due mesi, e al termine le accuse si sono concentrate su certi incarichi per la comunicazione affidati nel 2009 a consulenti esterni. Le imprese di moda di solito spendono in promozione fra il 5% e il 10% del fatturato, la Caruso appena l’1%. Ma l’Agenzia delle Entrate nel suo verbale giudica il piano di comunicazione della Caruso «non determinante per la strategia aziendale» e definisce le prestazioni dei consulenti «impersonali e generiche», tali che «potrebbero essere attribuite a qualunque soggetto sia esso esterno o anche interno alla stessa struttura aziendale». Suona come una valutazione di merito sugli spazi pubblicitari comprati dalla Caruso, ma su questa base è partita una richiesta di versare al fisco circa 100.000 euro in più. Per l’Agenzia delle Entrate, in altri termini, quell’investimento in comunicazione era «non determinante» e dunque fittizio. «Mettere in discussione la strategia dell’azienda per poi rigettarne le spese viola lo spirito della legge, lascia l’impresa vulnerabile all’abuso e distrugge la fiducia fra l’autorità fiscale e il contribuente» ribatte Angeloni, che nel frattempo ha speso già 50 mila euro per difendersi. (Federico Fubini, La Repubblica).
Striscia la notizia, Agenzia Entrate querela: “Istigano alla violenza contro di noi”. La trasmissione: “Ci ringrazino”. La campagna della trasmissione satirica di Canale 5 contro le modalità "discutibili" con cui l'Agenzia delle Entrate conduce gli accertamenti su case e terreni dei contribuenti va avanti da qualche settimana e adesso finisce a carte bollate. A far scattare la querela della direttrice Orlandi contro il tg satirico, il vademecum anti ispettori mandato in onda da Striscia. Che attacca: "Dovrebbero ringraziarci, hanno accolto i nostri rilievi", scrive "Il Fatto Quotidiano" il 16 maggio 2016. L’Agenzia delle Entrate contro Striscia la Notizia, Rossella Orlandi (direttrice dell’Agenzia) contro Antonio Ricci. La campagna della trasmissione satirica di Canale 5 contro le modalità “discutibili” con cui l’Agenzia delle Entrate conduce gli accertamenti su case e terreni dei contribuenti va avanti da qualche settimana e adesso finisce a carte bollate. La Orlandi, infatti, ha comunicato in audizione davanti alla Commissione Finanze di aver querelato Striscia: diffamazione e istigazione e delinquere le sue accuse alla trasmissione, che avrebbe “attaccato un’istituzione creando rischi di violenza. Ricordo bene quando una collega a Torino fu assalita con una scimitarra”, ha detto. Spiegando: “Non siamo mai stati interpellati né ci hanno mai chiesto di poter verificare la correttezza delle affermazioni riportate nei vari servizi”. Da marzo fino a qualche giorno fa, “subissati dalle segnalazioni di contribuenti disperati” – affermano dalla trasmissione – una lunga serie di servizi ha dato voce alle “vittime” degli accertamenti fiscali condotti dall’Agenzia delle Entrate. In sovrimpressione, il tg satirico ha anche dato conto dei suggerimenti che i telespettatori avrebbero dato per superare tutto l’aggravio di burocrazia a cui li costringerebbe l’Agenzia per colpa di suoi stessi errori di valutazione. Una sorta di vademecum anti ispettori: “Denunciare il funzionario per estorsione”, “obbligare il funzionario ad acquistare l’immobile al prezzo della valutazione fatta da lui”, o ancora “darsi fuoco per far conoscere l’ingiustizia subita”. Che avrebbe suggerito invece, secondo la Orlandi, delle vere e proprie azioni di rivalsa. E non tutte legittime: fra le alternative “proposte” da Striscia, infatti, la direttrice dell’Agenzia delle Entrate cita anche “trovare l’indirizzo del funzionario che ha firmato e bruciargli la casa”. Nella puntata di giovedì 12 maggio, Ficarra e Picone hanno replicato alle accuse della Orlandi accusando a loro volta l’Agenzia delle Entrate di portare avanti contro il tg satirico una “vessatoria campagna di bugie e minacce”: “La dottoressa Orlandi vuol far credere che abbiamo aizzato i cittadini contro i funzionari dell’Agenzia e che ‘solo per difendere i suoi dipendenti’ lei avrebbe deciso di farci causa per diffamazione e istigazione a delinquere. È vero il contrario. Ci siamo limitati a mostrare, stigmatizzandoli ogni volta, dieci sfoghi arrivati dai nostri segnalatori, che danno la misura di un’esasperazione sempre più diffusa. Soltanto la disperazione può spingere un contribuente a proporre quelle cose”. Gli episodi citati dalla Orlandi, cioè le aggressioni dei contribuenti ai danni del personale dell’Agenzia, “sono anteriori di anni ai nostri servizi sul fisco”, replicano da Striscia la notizia. Che ammette: “Abbiamo solo dato voce a un malessere che c’era da tempo”. Quindi il contrattacco. Come spiegato nei servizi mandati in onda nelle ultime settimane, Striscia sostiene che i controlli vengono effettuati sulla base di parametri virtuali calcolati su immobili o terreni analoghi. Senza alcun sopralluogo sul posto, nel fare l’accertamento, a dirimere ogni dubbio. Con una circolare del 28 aprile, fanno sapere dalla trasmissione Mediaset, l’Agenzia delle Entrate ha – nonostante le accuse e la querela alla trasmissione – di fatto accolto i rilievi del tg di Ricci, “invitando i funzionari a recarsi sul posto e documentare la pratica con fotografie”. Per poi, pochi giorni dopo, procedere per le vie legali. “Dovrebbe ringraziarci e invece ci denuncia”, chiosa il Gabibbo.
La moglie lo aiuta in negozio: pizzaiolo multato per 2mila euro si toglie la vita. Tragedia a Casalnuovo, in provincia di Napoli. L'uomo temeva che gli chiudessero il negozio, scrive “Libero Quotidiano”. Aveva paura che se non avesse pagato subito quella multa, gli avrebbero chiuso il negozio. Ma era anche arrabbiato, per quella multa da duemila euro. E così ieri mattina il 43enne Eduardo De Falco, che tutti conoscevano a Casalnuovo in provincia di Napoli come il pizzaiolo Eddy, è salito in auto come tutte le mattine. Ha messo in moto ma non è uscito dal box per andare al lavoro. E' rimasto lì, ad aspirare i gas di scarico, finchè ha perso i sensi. Quando lo hanno trovato, non c'era più nulla da fare. La "colpa" di Eddy, la ragione di quella multa da duemila euro ricevuta dagli ispettori del lavoro, era quella di aver fatto lavorare la moglie nella sua pizzeria "Speedy pizza" senza un regolare contratto d'assunzione. Lei gli dava una mano nelle ore di maggior afflusso a servire i clienti. Ma nell'Italia che tollera che migliaia e migliaia di lavoratori cinesi lavorino ammassati in capannoni fuorilegge finchè un incendio fa scoppiare il bubbone, questo non si può fare. E' contro la legge. E allora, multa. Eddy si è stancato di vivere in un paese così.
Eduardo De Falco si è ucciso a 43 anni dopo aver ricevuto una multa di duemila euro dall'Ispettorato del lavoro per la presenza della moglie, priva di regolare contratto, nella sua pizzeria."Vergogna, lo avete assassinato", scrive “La Repubblica”. "Scrivetelo che l'hanno ucciso, scrivetelo. Lo hanno ucciso": attimi di tensione ai funerali di Eduardo De Falco, il commerciante di 43 anni che si è ucciso davanti alla sua abitazione a Pomigliano d'Arco (Napoli), dopo aver ricevuto una multa di duemila euro dall'Ispettorato del lavoro per la presenza della moglie, priva di regolare contratto, nella pizzeria a taglio di cui l'uomo era titolare a Casalnuovo. Il suocero di Eddy, al termine della cerimonia religiosa, ha urlato il proprio dolore alle telecamere presenti davanti la gremitissima chiesa Santissima Maria del suffragio, dove amici, parenti, e commercianti di Pomigliano e Casalnuovo, si sono riuniti attorno alla famiglia del 43enne, distrutta dal dolore per la perdita del proprio caro. L'uomo brandiva una busta con alcune centinaia di euro che, ha spiegato ai giornalisti, gli sono stati dati da una pensionata che ha voluto esternare così la propria solidarietà alla moglie ed ai tre figli del commerciante suicidatosi ieri con i gas di scarico della propria vettura. Rabbia, dolore, e tanta commozione per un gesto che nessuno dei presenti pare avesse presagito. "Era molto orgoglioso - raccontano i vicini di casa - una bravissima persona, rispettosa, discreta, che non voleva dare fastidio a nessuno. Lavorava da quando era bambino, e forse non voleva subire l'umiliazione di farsi prestare i soldi. Non aveva detto a nessuno delle sue difficoltà. Come faranno ora Lucia ed i bambini". Parole confermate da una zia di Eddy, che aveva racimolato i soldi necessari per pagare la multa entro le 24 ore necessarie per non ricevere altre sanzioni accessorie. "Li avevo pronti per darglieli - spiega tra le lacrime - e invece lui non c'è più". Rabbia nelle parole dei commercianti di Casalnuovo, che oggi hanno effettuato una serrata in segno di solidarietà e protesta e che, all'uscita della bara dalla chiesa, hanno inveito contro i politici presenti, tra i quali il sindaco di Casalnuovo, Antonio Peluso, alcuni assessori e consiglieri anche di Pomigliano, presenti alla cerimonia funebre con i gonfaloni dei due comuni. "Ci stanno uccidendo tutti - hanno gridato i commercianti - i politici si fanno vedere solo quando qualcuno di noi si uccide, o alla notte bianca. Si vergognassero. Non dovevano venire qui. Siamo esasperati, ogni giorno qualcuno chiude, ci si ammazza, e nessuno fa nulla, dalle istituzioni locali a quelle nazionali. Vergogna". Chiusi nel silenzio, invece, la moglie del commerciante, Lucia, che non ha tolto gli occhi dalla bara, in evidente stato di choc, sostenuta da alcuni parenti, a poca distanza dalla figlia maggiore, di appena 14 anni, e dai suoceri ed i cognati. "E' arrivato il momento di dire basta, ora chiamiamoli omicidi" - dichiara il Presidente della Confartigianato di Napoli, Enrico Inferrera."Il gesto del signor De Falco è un grido di disperazione che non possiamo più ignorare l'ennesimo esempio di come la crisi in atto colpisce per lo più i titolari di piccole imprese che da sempre sono il motore dell'Italia". "Il caso del pizzaiolo suicida deve indurre ad accertare i fatti e il verbale ispettivo nonchè a dare un'interpretazione certa della regolazione relativa al coadiuvante familiare. Sarebbe infatti particolarmente assurda l'equiparazione tra la moglie che collabora saltuariamente nell'attività commerciale del marito e il lavoratore subordinato in nero anche ai soli fini della comunicazione obbligatoria agli enti previdenziali o al ministero del lavoro, con conseguenti pesanti sanzioni". Lo afferma il presidente della Commissione Lavoro del Senato, Maurizio Sacconi (Ncd).
Ambulanti BAT: i tanti “Eduardo de Falco” vicini a noi, scrive il 25 febbraio 2014 la Redazione di "Stato Quotidiano". La vicenda di Eduardo De Falco, il panettiere di 43 anni di Pomigliano d’Arco titolare di una pizzeria a Casalnuovo che si è tolto la vita davanti alla sua abitazione dopo aver ricevuto una multa di duemila euro dall’Ispettorato del Lavoro per la presenza della moglie all’interno della sua impresa, ha lasciato tutti sgomenti e increduli. Questo tristissimo episodio, però, può causare sgomento ed incredulità in chi vive poco o non vive proprio quella che è la realtà dei territori perché, altrimenti, di fronte a tali episodi, in questo particolare momento, con tutto ciò che sta accadendo, non ci sarebbe nulla di che meravigliarsi, purtroppo. Sicuramente il gesto del carissimo Eduardo è stato quello finale ed estremo di un’esasperazione con radici profonde. Il fatto in sé del verbale elevato per la presenza della moglie all’interno della pizzeria merita un’analisi tecnica più approfondita e probabilmente avrebbe potuto essere una questione agevolmente risolvibile considerando la Lettera Circolare n. 10478 del 10 giugno 2013 con la quale il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha fornito precisazioni relativamente all’utilizzo senza compenso di collaboratori familiari nelle attività del settore artigianato, agricoltura e commercio. Il Ministero, nel dettaglio, ha fornito alcune istruzioni operative ai verificatori nel caso in cui il soggetto sottoposto a verifica ricorra a parenti, affini o al coniuge per svolgere la propria attività. Pur fissando dei paletti relativamente all’occasionalità della collaborazione, viene precisato che l’utilizzo di collaboratori già occupati a tempo pieno oppure pensionati non comporta, in caso di verifica, l’automatica instaurazione di un rapporto di lavoro. il Ministero del Lavoro riconosce che “nella maggior parte dei casi, la collaborazione prestata all’interno di un contesto familiare viene resa in virtù di una obbligazione di natura “morale”, basata sulla cd. affectio vel benevolentiae causa, ovvero sul legame solidaristico ed affettivo proprio del contesto familiare, che si articola nel vincolo coniugale, di parentela e di affinità e che non prevede la corresponsione di alcun compenso”. La condizione di Eduardo cioè l’estrema esasperazione causata da un sistema talmente vessatorio e persecutorio che induce al profondo e giustificato rigetto è una condizione particolarmente diffusa anche nel nostro territorio provinciale di Barletta Andria Trani e non dobbiamo certo attendere altri suicidi per accorgercene o per avere la lucidità e la consapevolezza di parlarne, apertamente. Senza entrare nel merito delle situazioni completamente “irregolari” per le quali sono previste sanzioni talvolta di entità anche giustificata, se restassimo nell’ambito delle cosiddette “attività regolari” ci accorgiamo che la vessazione è ormai lo strumento abitualmente utilizzato anche per i cosiddetti controlli di primo livello ed ecco che se un venditore ambulante “si permette” di occupare una superficie al mercato di qualche centimetro superiore a quella autorizzata scatta immediatamente una multa di oltre mille euro e altri mille se ha ritardato di lasciare l’area mercatale qualche minuto dopo l’orario prestabilito per la chiusura delle attrezzature di vendita. Poiché la vessazione deve essere non solo di tipo persecutorio ma una precisa strategia per esasperare gli animi e per attuare una scientifica azione di distruzione programmata delle micro e piccole imprese, accade che neanche l’invio di scritti difensivi con tanto di giustificazioni e talvolta anche di dimostrazione dell’assoluta buona fede piuttosto che dell’accidentalità dell’avvenimento porta ad una seppur riduzione dei verbali. Come dire, se devo distruggerti devo farlo fino alla fine, fino in fondo e, possibilmente, definitivamente. Questa si chiama talvolta burocrazia, talvolta accanimento, talvolta spregiudicatezza, talvolta sfida, talvolta e quasi sempre insensibilità rispetto a problemi che ai burocrati non toccano minimamente e dai quali ne stanno comodamente lontani. Noi però non ci stiamo e lungi da noi la difesa di chi opera senza il rispetto delle norme vigenti ma, per carità, basta con l’accanimento perché di queste situazioni, ormai, ne stanno accadendo quotidianamente e proprio lo spirito di emulazione è quello che non vorremmo si verificasse in un contesto dove la vita delle persone, delle brave persone, dei lavoratori e degli imprenditori non può valere meno di un foglio di carta giallo volgarmente chiamato Verbale. Nel nostro territorio si calcola che oltre il 35% dei piccoli commercianti si trova attualmente nella condizione di avere in sospeso il pagamento di verbali elevati per varie ragioni e a volte di entità assolutamente sproporzionate anche rispetto alle infrazioni amministrative commesse. Questa altissima percentuale rappresenta un fortissimo allarme sociale e noi siamo consapevoli che si tratti di una condizione destinata purtroppo ad aggravarsi con conseguenze non sempre prevedibili, quindi anche di questa problematica dobbiamo farcene tutti carico e smetterla di far finta di niente. (Andria, 25 febbraio 2014; Il Presidente UNIMPRESA BAT Savino Montaruli)
Mesagne, braccianti sfoltivano foglie con guanti non a norma, oltre 7mila euro di multa. Sanzione dell'Ispettorato del lavoro: le lavoratrici non avevano neanche gli scarponi. L'imprenditore: non era attività pericolosa, scrive il 29.05.2017 Federica Marangio su "La Gazzetta del Mezzogiorno". Costa decisamente cara una giornata lavorativa - affidata ad un gruppo di braccianti - per un imprenditore agricolo proprietario di un podere nel Mesagnese a pochi chilometri dal confine con il Comune di San Pancrazio Salentino. Una multa da settemila euro gli sarebbe stata inflitta dall’Ispettorato del lavoro, i cui operatori avrebbero trovato non consono alle norme sulla sicurezza l’abbigliamento delle 4 operaie, regolarmente assunte per svolgere alcuni lavori in campagna. Le quattro donne, che stavano lavorando alla spollonatura – ossia sfoltimento e alleggerimento delle foglie delle piante di vite – erano sprovviste (a quanto pare) dei guanti anti-taglio e delle scarpe antinfortunistiche. Il podere inoltre, stando alla relazione dell’ispettore, mancava del bagno chimico. Le operaie avevano i guanti di plastica, ma non è valso a nulla contro la decisione dell’ispettore che si è attenuto ai regolamenti previsti in caso di lavori di questo tipo. Le stesse braccianti, peraltro, si erano sottoposte alla visita medica prevista dal medico del lavoro, procedura imposta per garantire la sicurezza nei luoghi di lavoro. Erano inoltre provviste del DVR, ossia del documento di valutazione dei rischi, previsto dalla legge. L’imprenditore agricolo con molti anni di esperienza nel settore ha fatto ricorso. In realtà, in materia c’è molta confusione circa l’interpretazione delle nuove leggi, poiché “non si comprende se è necessario svolgere la visita medica dopo cinquantuno giorni dall’assunzione e se sì quale imprenditore deve provvedere in caso di più assunzioni”. Al momento l’imprenditore preferisce attendere prima di procedere al pagamento della multa salata, poiché la ritiene «assolutamente ingiusta rispetto alla situazione delle operaie e del contesto nel quale stavano lavorando». La spollonatura, infatti, non è un’operazione pericolosa. “Cadendo semplicemente delle foglie a cosa servono i guanti anti-taglio?”, ha fatto sapere. La normativa non è chiarissima e si presta a varie interpretazioni. Proprio per questo, intende vederci chiaro nella speranza che la sanzione venga annullata o ridimensionata. Di certo, i controlli nelle campagne proseguono e anche nei prossimi giorni gli ispettori del lavoro saranno impegnati in servizi tesi a far rispettare le norme previste a tutto vantaggio dei lavoratori.
Per i comuni mortali non c'è limite all'indecenza. A Manduria multa al nipote tra le vigne durante la vendemmia. Più facile che combattere mafia e burocrazia. In una nazione dove tutto va a catafascio, o come dicono alcuni a scatafascio, ossia alla deriva morale e materiale, il sistema di parassiti le pensa tutte per potersi mantenere vessando in tutti modi i cittadini, sudditi di una classe dirigente (politica ed istituzionale) corrotta ed incapace. Classe dirigente che con i media genuflessi alle cricche induce il paese ad essere governato da nani, ballerine ed oggi anche da comici. Questo da aggiungersi al sistema di potere cristallizzato di mafie, lobbies, caste e massonerie. Si sorvola sul fatto che a riformare l’ordinamento forense ci sono gli stessi avvocati in Parlamento a tutela dei loro privilegi ed a chiusura della concorrenza (salvo che per amici e parenti), i medesimi che, oltretutto, sono periodicamente in sciopero per le riforme da loro stessi predisposte. Ma passiamo oltre. In una Italia dove si sottace l’usura e l’estorsione di Stato, ovvero la nomina e la retribuzione amicale dei consulenti dei magistrati. Una nazione, dove il più onesto merita l’Asinara, ci dimostra che né toghe, né divise possono pretendere l’esclusiva della legalità, né possono permettersi il monopolio del parlarne agli studenti in incontri nelle scuole e nei convegni organizzati dalla sinistra. Detto questo, un fatto merita di essere conosciuto. Quando tutto è perduto, e quel tutto ti accorgi di essere vacuo, non rimane altro che tornare a fare i contadini. Ma ecco qui. Ci impediscono anche di fare questo. Si passa oltre sul fatto che il duro lavoro dei nostri antenati di sanificazione dei terreni da sterpaglie e pietre o di bonifica dalle paludi, al fine di renderli terreni fertili da coltivare, sia stato reso vano dall’invasione su quelle stesse terre di pannelli fotovoltaici e del ritorno delle sterpaglie. Truffaldini intenti ambientalisti di falsa tutela della natura, ma che nasconde l’odio verso gli umani od addirittura speculazioni mafiose, ci impongono l’invasione di alternative fonti di energia e ci impediscono di tagliare le sterpaglie, che oggi sono protette. Oggi tu tagli e pulisci le strade o il podere dai rovi? Giù multe perché tagli piante protette. Ed ancora. Da sempre i contadini hanno bruciato nello stesso campo gli avanzi delle potature degli alberi o le foglie cadute. Oggi tu li bruci? Giù multe perché inquini. Ma il colmo di questa Italia e che in campagna non ci puoi più proprio andare, salvo che accompagnato dal commercialista o dal consulente del lavoro, se no giù multe per violazione di norme sul lavoro. “Vendemmia amara: 5mila euro per aver portato il nipote in campagna” è il titolo del fatto avvenuto e pubblicato su “La Voce di Manduria”. Un fatto che merita di essere conosciuto in tutta Italia, perché fatti analoghi succedono in tutto il “Mal Paese”, ma nessuno si degna di parlarne. “Una multa di cinquemila euro per lo zio e una denuncia penale per i genitori di un quindicenne che prima dell’inizio dell’anno scolastico si era recato nella campagna dei parenti per assistere al taglio dell’uva. Quell’esperienza costerà cara alle due famiglie di agricoltori manduriani che durante la passata vendemmia in uno dei propri poderi hanno avuto la visita degli ispettori dell’Ufficio provinciale del lavoro di Taranto. La sanzione pecuniaria riconosciuta allo zio è per impiego di minore e lavoro irregolare mentre il papà del ragazzo è in attesa di una contestazione di reato penale per sfruttamento di lavoro minorile. L’episodio risale al 6 settembre 2012, ma solo ora è stata notificata l’intimazione a pagare. I protagonisti della vicenda sono due cugini manduriani che per la campagna dell’uva avevano organizzato il cantiere di vendemmia, assumendo regolarmente cinque operai che impiegavano alternativamente nei rispettivamente vigneti. Il 6 settembre si vendemmia dal cugino e il signor M. oltre alla moglie, componente del nucleo lavorativo familiare, porta con sé anche il figlio P. Il giovane oltre a frequentare lo Scientifico di Manduria, studia pianoforte (quinto anno) presso il conservatorio musicale “Paisiello” di Taranto (scuola privata). P. non ha iniziato ancora le lezioni in quanto le scuole non erano aperte alla data del 6 settembre. Decide allora di assistere alla vendemmia. Si mette affianco alla madre senza prendere parte ai lavori. Lo studente di fatto non vendemmia e questo perché il padre è un agricoltore che rispetta la legge. Quel giorno però arrivano in campagna gli ispettori del lavoro (un uomo e una donna), fanno i dovuti controlli e trovano tutto in regola salvo, per loro, la presenza di P. che viene considerato come un lavoratore, in quanto ha in mano delle forbici antinfortunistiche. Il tutto viene contestato dagli ispettori e a domanda al ragazzo se stesse lavorando Piero risponde di no, dice che si trovava affianco alla madre e non su un filare di vite e senza un secchio per la raccolta. A non convincere gli ispettori circa quella casualità è stato l’arnese che aveva tra le mani: le forbici antinfortunistiche che seppure non adatte al taglio dei grappoli sono state comunque considerate come un utensile da lavoro.” Il fatto è successo a Manduria, comune sciolto ed in odor di infiltrazione mafiosa. Eppure, quando una denuncia partì da parte mia, anche in occasione di concorsi pubblici truccati svolti in quel comune, i carabinieri delegati alle indagini scrissero nel rapporto che tutto quanto denunciato non era vero, anzi, erano propalazioni del Giangrande ed il magistrato archiviò. Del fatto si occupò la Gazzetta del Sud Africa e il magistrato per ritorsione denunciò a Potenza il Giangrande per diffamazione. I magistrati a Potenza furono pronti ad incriminare. Vuol dire che è più importate multare i campagnoli che lottare contro i mafiosi. In questa Italia c’è solo da vergognarsi di farne parte. Non sanno più da dove prendere i soldi. Se una famiglia ha un piccolo appezzamento di terreno ereditato dagli avi, coltivato ad uliveto o vigneto o altro tipo di coltura, ed il capo famiglia portasse con sé moglie e figli, per raccoglierne i miseri frutti per i bisogni familiari, e vorrebbe farsi aiutare dai parenti il sabato o la domenica per sbrigarsi prima perché affaccendato in altre mansioni durante la settimana? Non può. Deve passare prima dai burocrati che devono stampargli in fronte il timbro della validazione e pagare tributi e contributi. Aprire la partita iva ed assumere i parenti con tanto di sfilza di norme da rispettare. Se non lo fa: giù multe e processi per caporalato. Ma qui ci impediscono addirittura le salutari scampagnate di una volta. Qui più che non ci sono più le tradizioni di una volta, mi sa che non c’è più religione. Ed allora sì che la campagna viene abbandonata, l’unica vera e certa fonte di sostentamento. Che ci invoglino a rubare e finire in carcere? Almeno lì si mangia e si beve a sgrascio…e multe non te ne fanno. Ben venga allora quel sonoro vaff… di quel comico che, a quanto pare, fa ridere meno dei nostri governanti ed aspira a governare un paese abitato da macchiette colluse e codarde.»
L'episodio a Manduria: il quindicenne aveva accompagnato i genitori e lo zio nel podere di famiglia, prima dell'inizio della scuola. "Sfruttamento di lavoro minorile" per gli ispettori di Taranto, scrive “La Repubblica” il 03 novembre 2012. Una multa di 5mila euro per lo zio, una denuncia penale per i genitori. Si è chiusa così la mattinata in campagna di un quindicenne di Manduria. Il ragazzo era nei vigneti dei parenti, con i genitori al suo fianco, per assistere alla vendemmia quando è arrivata un'ispezione dell'ufficio del lavoro provinciale di Taranto. I funzionari non hanno avuto dubbi: quello era un caso di sfruttamento di lavoro minorile. La vicenda è stata raccontata dal giornale La Voce di Manduria. L'episodio risale allo scorso 6 settembre, ma la notizia si è diffusa solo in questi giorni con l'arrivo dell'ingiunzione a pagare. La scuola non era ancora iniziata e il quindicenne ha accompagnato il parente nei poderi di famiglia per assistere al taglio dell'uva. ll padre del ragazzo e suo cugino avevano organizzato un cantiere di vendemmia, assumendo regolarmente cinque operai che impiegavano alternativamente nei rispettivamente vigneti. Il 6 settembre si vendemmia dal cugino e il padre del ragazzo, oltre alla moglie, impegnata nel lavoro, porta con sé anche il figlio quindicenne. Il ragazzo frequenta il liceo scientifico di Manduria e studia pianoforte da cinque anni al conservatorio Paisiello di Taranto. Al momento dell'arrivo degli ispettori il ragazzo è accanto alla madre ed ha in mano un paio di forbici infortunistiche. Questo basta ai due funzionari per contestare ai suoi familiari il lavoro irregolare e la denuncia di sfruttamento di minore. Lo studente, dal canto suo, ha negato di aver preso parte alla vendemmia. Ma ora della sua posizione dovranno risponderne i suoi parenti.
Vendemmia amara: 5mila euro per aver portato il nipote in campagna, scrive “la Voce di Manduria”. Una multa di cinquemila euro per lo zio e una denuncia penale per i genitori di un quindicenne che prima dell’inizio dell’anno scolastico si era recato nella campagna dei parenti per assistere al taglio dell’uva. Quell’esperienza costerà cara alle due famiglie di agricoltori manduriani che durante la passata vendemmia in uno dei propri poderi hanno avuto la visita degli ispettori dell’Ufficio provinciale del lavoro di Taranto. La sanzione pecuniaria riconosciuta allo zio è per impiego di minore e lavoro irregolare mentre il papà del ragazzo è in attesa di una contestazione di reato penale per sfruttamento di lavoro minorile. L’episodio risale al 6 settembre scorso ma solo ora è stata notificata l’intimazione a pagare. I protagonisti della vicenda sono due cugini manduriani che per la campagna dell’uva avevano organizzato il cantiere di vendemmia assumendo regolarmente cinque operai che impiegavano alternativamente nei rispettivamente vigneti. Il 6 settembre si vendemmia dal cugino e il signor M. oltre alla moglie, componente del nucleo lavorativo familiare, porta con sé anche il figlio P. Il giovane oltre a frequentare lo Scientifico di Manduria, studia pianoforte (quinto anno) presso il conservatorio musicale “Paisiello” di Taranto (scuola privata). P. non ha iniziato ancora le lezioni in quanto le scuole non erano aperte alla data del 6 settembre. Decide allora di assistere alla vendemmia. Si mette affianco alla madre senza prendere parte ai lavori. Lo studente di fatto non vendemmia e questo perché il padre è un agricoltore che rispetta la legge. Quel giorno però arrivano in campagna gli ispettori del lavoro (un uomo e una donna), fanno i dovuti controlli e trovano tutto in regola salvo, per loro, la presenza di P. che viene considerato come un lavoratore in quanto ha in mano delle forbici antinfortunistiche. Il tutto viene contestato dagli ispettori e a domanda al ragazzo se stesse lavorando Piero risponde di no, dice che si trovava affianco alla madre e non su un filare di vite e senza un secchio per la raccolta. A non convincere gli ispettori circa quella casualità è stato l’arnese che aveva tra le mani: le forbici antinfortunistiche che seppure non adatte al taglio dei grappoli sono state comunque considerate come un utensile da lavoro.
Ed ancora....Invita gli amici alla vendemmia, prende una multa da 19.500 euro per lavoro nero. Doveva essere una festa, si è trasformato in un blitz dell’ispettorato. Il sindaco di Castellinaldo d’alba: «Assurdo, in campagna ci si aiuta da sempre», scrivono Valter Manzone e Marisa Quaglia da Castellinaldo D’Alba (Cuneo) su “La Stampa” il 28 settembre 2015. È finita con una multa di quasi 20 mila euro quella che doveva essere una festa tra le vigne di Castellinaldo d’Alba, in provincia di Cuneo. Come faceva spesso, Battista Battaglino, 63 anni, pensionato, mercoledì ha invitato alcuni amici nella sua casa, in località Granera, nel cuore del Roero. È una bella giornata, i filari del suo piccolo podere, un ettaro di terreno in collina, sono carichi di grappoli, barbera e un po’ di nebbiolo. Così i quattro decidono di aiutare Battista a vendemmiare. Uve che il pensionato utilizza per produrre il vino per sé, quello che consuma in casa e con qualche amico. Il tutto si dovrebbe concludere con una cena in allegria. Ma il finale è ben diverso. Lo racconta Ada Bensa, compagna del pensionato: «Stavamo raccogliendo l’uva, ridendo e prendendoci in giro perché in quelle vigne è anche difficile stare in piedi. Ad un certo punto siamo stati letteralmente circondati da carabinieri e funzionari dell’ispettorato del lavoro. Ci hanno chiesto i documenti e hanno redatto un verbale di denuncia di lavoro nero». La multa per Battista Battaglino è di 19.500 euro, 3900 per ognuno dei 4 amici e del pensionato. La donna è indignata: «È assurdo. Volevamo aiutare Battista e gli abbiamo procurato un danno enorme. In campagna è consuetudine aiutarsi l’un l’altro. Si è sempre fatto, senza il timore di essere catalogati come evasori, o peggio ancora, ritenuti dei caporali che sfruttano le persone facendole lavorare in nero». Ada Bensa scrive anche a «Specchio dei Tempi» per denunciare quello che per tutti, cittadini e viticoltori, è una vera ingiustizia. «Battista coltiva da solo quel pezzo di terra, è in pensione e ci passa il suo tempo - dicono gli amici -. Quando l’uva è matura ci chiede di aiutarlo. Bisogna fare in fretta, altrimenti i grappoli marciscono e lui non potrà fare il suo buon vino. Per quello eravamo lì, come facevamo da anni, a turno non sempre tutti, a seconda dei nostri impegni». L’indignazione è quella dell’intero territorio. Il sindaco di Castellinaldo, Giovanni Molino è amareggiato: «Non siamo un paese in cui vige il caporalato. Qui la gente si aiuta, si spacca la schiena tra le vigne, su queste colline. È assurdo che un uomo come Battista, che manda avanti questi pochi filari da solo, con grande sacrificio, venga additato come evasore. Sono terreni che erano già del padre, vigne che avranno 70-80 anni. Lui le cura tutto l’anno ancora con metodi vecchi, quelli di una volta. Non ha neanche i mezzi più moderni per coltivare e raccogliere, tutto viene fatto a mano. È pazzesco che debba pagare una multa del genere». Battista è ancora amareggiato e non ha molto da dire su quanto successo: «Lascerò andare tutto, abbandonando le vigne perché non merita lavorare tanto per poi avere questi bei risultati. L’unica cosa che potevo dare a questi amici era una cena per ringraziarli. Purtroppo non abbiamo neanche fatto quella». Il sindaco lancia una proposta: «Ho intenzione, a novembre, di invitare questi funzionari del lavoro a una riunione con tutti coloro che coltivano un pezzo di terra, dalle grandi aziende di questo territorio ai piccoli agricoltori. Voglio che ci spieghino cosa dobbiamo fare per lavorare senza la paura di dover pagare multe». Mercoledì Battaglino e i suoi amici saranno a Cuneo, convocati dall’Ispettorato del Lavoro. Ribadiranno la loro posizione. «Speriamo sia usato un po’ di buon senso» conclude Ada Bensa.
Vendemmia con amici e parenti? Si rischiano 20mila euro di multa. Coldiretti avverte: "Chi lavora deve essere pagato con i voucher", scrive Rossella Conte su "La Nazione" l'1 ottobre 2015. Sono finiti i tempi delle merende in campagna con amici e familiari, apparecchiate sul campo subito dopo la vendemmia. Si rischia di pagarle salata. E’ già successo a Cuneo, potrebbe accadere in Toscana. La vendemmia, una tradizione che da secoli è considerata un periodo di festa, si può trasformare in una trappola che si definisce lavoro nero. Perché un amico, il fratello o il cugino, potrebbe essere scambiato per persona con diritto al salario. Lo sa bene Battista Battaglino, il pensionato di Castellinaldo d’Alba, che rischia la multa perché sorpreso da alcuni ispettori del lavoro e carabinieri a raccogliere l’uva nella sua vigna insieme a quattro amici. Era una specie di festa, visto che il vino non lo vende ma lo produce per sé, ma si è trasformata in un blitz, con sanzione finale di 19.500 euro per lavoro nero. Bisogna dire che la legge è chiara: "Anche se il prodotto finale non è destinato alla vendita chi lavora deve essere regolarizzato, senza nessuno sconto per gli amici", spiega Tulio Marcelli, presidente di Coldiretti Toscana. Ed è proprio per evitare che scatti l’accusa di lavoro nero che sono nati e si sono subito impadroniti del settore agricolo i voucher, mini assegni da dieci euro l’ora, di cui sette e cinquanta vanno al dipendente e due e cinquanta allo Stato. Del resto i numeri illustrano la portata del fenomeno: solo in Toscana l’agricoltura si serve delle braccia di ben 54mila lavoratori, tra titolari e dipendenti, sia a tempo determinato che indeterminato, con un incremento dell’1,9%, pari a mille occupati, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Le aziende che coltivano la vite sono circa 26mila e più o meno 58mila gli ettari di superficie destinati ai vigneti. Appositamente per la vendemmia, fra studenti, pensionati, disoccupati e extra comunitari pagati con i voucher si sfiorano cinquemila unità. "L’introduzione del sistema dei tagliandi – prosegue Marcelli –, in cui rientrano anche gli amici, sono un valido deterrente contro il lavoro nero". Altra questione però sono i familiari: fino al quarto grado di parentela possono dare una mano in campagna senza bisogno di dover regolarizzare la propria posizione. "I voucher coprono anche i rischi contro gli infortuni – sottolinea il presidente Coldiretti Toscana - Nei campi sono frequenti e a farne le spese sono sempre i proprietari. La legge c’è e va fatta rispettare, poi è normale che chi controlla deve tenere conto delle tradizioni e analizzare i singoli casi". Per Massimo Terreni, responsabile dell’ufficio sindacale del lavoro di Confagricoltura Toscana, "la parola d’ordine deve essere il buonsenso. La vendemmia è sempre stata occasione di festa e nella maggior parte dei casi tutto si risolve con pranzi e cene sull’aia. Laddove non c’è corrispettivo economico non devono esserci sanzioni". Diverso naturalmente il caso delle grandi aziende dove esiste un rapporto di lavoro: "Noi – prosegue Terreni - invitiamo sempre i nostri soci a mettere in regola i lavoratori, a maggior ragione per questioni legate a eventuali infortuni. E’ anche vero che da questo punto di vista l’Italia resta il Paese delle carte e della burocrazia dove un imprenditore agricolo per assumere una persona per un’attività stagionale è costretto a spendere un’infinità di tempo e molto più di quanto poi realizza".
Vendemmia o raccolta delle olive: farsi aiutare da un parente oltre il terzo grado o da un amico provoca una sanzione fino a 27mila euro a persona, scrive domenica 15 ottobre 2006 "Nove". E per la campagna di raccolta uva 2006 sono state un centinaio le ispezioni effettuate nelle aziende vitivinicole di tutta la Toscana con una percentuale di sanzioni di circa il 50 per cento. Le ispezioni a tappeto hanno riguardato alcune aree del senese (Val d’Orcia-Montalcino e Chianti); le campagne fiorentine (l’area empolese, Rufina e Chianti Classico) e il grossetano (area Morellino di Scansano e Pitigliano). La normativa in vigore dal 2003 rappresenta un passo in avanti rispetto al passato, quando non erano permesse prestazioni occasionali neppure per parenti stretti (es. primo grado: padre-figlio), ma per i controlli emergeva un maggiore “elasticità” nel comprendere il rapporto “amichevole” di collaborazione. L’impiego gratuito dei parenti e degli amici in queste attività non trova però pieno conforto nella normativa attuale.
Sono due gli organi pubblici preposti al controllo e alle eventuali sanzioni per quanto concerne le “campagne di raccolta” (ma non solo) in agricoltura: il DPL, direzione provinciale del lavoro (ex Ispettorato del lavoro) che opera tramite il servizio ispettivo, e l’INPS. I controlli possono avvenire dall’uno o dall’altro organo e anche contemporaneamente. Secondo le stime dei dati forniti dalle organizzazioni di categoria nelle tre province esaminate (Siena, Firenze e Grosseto) sono stati effettuati controlli a circa 60 aziende (ci sono aziende che non hanno comunicato il controllo) e circa la metà ha subìto sanzioni. Si tratta di aziende di medie e piccole dimensioni che, per la raccolta stagionale delle uve, hanno usufruito della manodopera di amici o di parenti ma non così stretti tanto da non subire delle sanzioni. Insomma spesso una risposta pronta e disarmante potrebbe allontanare l’attenzione anche se, quando il controllo è in corso, se non si è in regola, è davvero difficile farla franca. Non mancano infatti controlli incrociati con parametri precisi: ettari di superficie vitata-resa-persone impiegate. Probabilmente, come spesso avviene, una maggiore dose di “buon senso” porterebbe alla via di mezzo auspicata dalle aziende intervistate. Perchè che non posso farmi aiutare dall’amico in cambio soltanto di cinque litri di vino? No, non è proprio possibile senza un contratto di lavoro. Ecco allora scattare sanzioni davvero pesanti per le aziende, che sono responsabili per ognuno dei lavoratori impiegati fuori regola. Il recente decreto legge Visco-Bersani (DL del 4/7/2006) stabilisce sanzioni che vanno da 1500 a 12000 euro per ogni dipendente. A questo vanno sommati 150 euro per ogni giornata di lavoro a partire dalla data di inizio vendemmia, più una sanzione in misura forfettaria, più le ritenute fiscali e i contributi Inps. Inoltre la sanzione civile non può essere inferiore a 3000 euro. Di contro un operaio agricolo percepisce uno stipendio mensile di 930 euro lordi, mentre la paga giornaliera per le campagne di raccolta è di 6,61 euro (lordo). Così si sono registrate sanzioni che vanno da 27mila euro a persona a carico dell’azienda per 18 giorni di attività, fino a chi ha dovuto pagare 36mila di euro per tre lavoratori non regolari (nella maggior parte dei casi pensionati o amici) fino a multe più contenute di 500 euro per mancata consegna del registro di lavoro. Ma in nessuno dei casi, è bene specificarlo, si è trattato di lavoro nero. La legge (“legge Biagi”) parla chiaro e definisce con una norma apposita il rapporto tra i titolari delle imprese agricole ed i propri familiari. La norma, in vigore dal 24 ottobre 2003, consente l’apporto di lavoro gratuito da parte dei parenti e degli affini dell’imprenditore agricolo, questo non per forza coltivatore diretto o Iap, entro il 3° grado. Le prestazioni occasionali esulano quindi dal mercato del lavoro non essendo riconducibili né al lavoro subordinato, tanto meno a quello autonomo. Prestazioni, quindi, che non fanno sorgere alcun obbligo contributivo. Ricordiamo che il lavoro dei parenti ed affini entro il 3° grado deve essere prestato rigorosamente a titolo gratuito, fatto salvo il diritto al vitto ed alloggio ed ai rimborsi spese. Una normativa questa che a suo tempo era stata fortemente voluta dalle organizzazioni di categoria. Interpellato da agricultura.it sulla questione, Giordano Pascucci, presidente della Cia Toscana conferma che è necessario rafforzare le azioni di sensibilizzazione verso le aziende al rispetto delle norme, ma che i controlli devono andare nella stessa direzione; controlli in cui sarebbe necessaria, talvolta, una maggiore “duttilità” da parte degli organi ispettivi. In alcune province d’Italia tra cui Lucca (l’unica in Toscana) si stanno sperimentando le prestazioni occasionali di tipo accessorio che riguardano, per la vendemmia, gli studenti ed i pensionati. Prestazioni che, quando saranno applicate a tutto il territorio nazionale potranno ulteriormente ampliare la platea dei soggetti impegnabili nelle attività di raccolta, permettendo, almeno da questo punto di vista, “sonni tranquilli” agli imprenditori. Si tratta però di prestazioni onerose: non è prevista l’assunzione e l’erogazione dello stipendio avviene tramite appositi ticket (si ritira un blocchetto in agenzie o tabacchi) ed al termine del servizio, si riportano i ticket timbrati dall’azienda in cambio di denaro. Ogni ticket vale 7,5 euro, di cui 6 per il lavoratore occasionale (il resto diviso fra agenzia erogatrice, tasse, etc.). Anche la raccolta delle olive rientra appieno fra le cosiddette “campagne di raccolta tradizionali” e presenta alcune problematiche da sciogliere. Nelle campagne toscane, infatti, esiste l’antica usanza di trasformare un lavoro stagionale in una vera e propria festa rurale: la raccolta della olive finiva intorno ad un tavola imbandita di fronte al focolare. Ed il compenso era generalmente sotto forma di prodotto, il 50% di olio proveniente dalle olive raccolte. Con le norme attuali l’olio diventa una forma di remunerazione al pari del denaro. Come riconoscere allora il prodotto “reddito da lavoro” dal momento che il lavoratore (chi raccoglie) è completamente autonomo, nel senso che non è soggetto ad orari e giorni specifici? Inoltre, dal momento che molti raccoglitori sono pensionati ed un contratto di lavoro andrebbe ad “intaccare” la normale retribuzione pensionistica, anche la manodopera tradizionale diventa sempre più difficoltosa da reperire.
INTERROGAZIONE A RISPOSTA ORALE 3/00547 presentata da VASCON LUIGINO MARIO (LEGA NORD PER L'INDIPENDENZA DELLA PADANIA) in data 11 dicembre 1996. Ai Ministri del lavoro e della previdenza sociale e dell'industria, commercio e artigianato. - Per sapere - premesso che: secondo quanto riportato dalla stampa locale (Il Giornale di Vicenza), nei giorni scorsi a Vicenza un incontro al vertice tra il direttore locale dell'Inps, dottor Stefano Moglianesi, e l'ispettore del lavoro, Giuseppe Curatola, è degenerato a tal punto che della questione ora è investita la magistratura; sembra infatti che sul registro degli indagati sia stato trascritto il nome del dottor Moglianesi, con l'accusa di oltraggio a pubblico ufficiale, in quanto avrebbe usato un linguaggio poco edificante nei confronti del funzionario ministeriale; motivo del diverbio è la metodologia di controllo che viene applicata nelle aziende. In particolare, l'ispettorato del lavoro accusa i colleghi dell'Inps di essere stati in talune circostanze fin troppo duri con gli utenti, tali da far presumere una vera e propria persecuzione. Da parte sua l'Inps critica ai colleghi dell'ispettorato del lavoro di essere "troppo arrendevoli" e di non perseguire le manchevolezze riscontrate con la dovuta tenacia; la questione non è nuova nella regione Veneto. Già lo scorso anno si era innescata una polemica tra l'Associazione industriali e l'Api da una parte, e l'Inps dall'altra, a causa del presunto accanimento con cui gli ispettori dell'Inps effettuavano i controlli nelle imprese trevigiane; a supporto di questo accanimento, gli industriali rilevavano in quell'occasione come nella provincia di Treviso agissero ben trentadue ispettori contro i venti presenti a Padova ed i ventiquattro di Verona. Inoltre, secondo gli industriali, ad indurre gli ispettori dell'Inps a questa strategia vi sarebbe anche il motivo che, conseguendo il budget fissato per il recupero crediti, gli stessi beneficerebbero di incentivi economici di produttività; dal canto suo l'Inps replicava che l'istituto intende svolgere soltanto il suo lavoro, e cioè combattere l'evasione e l'elusione contributiva con controlli obiettivi e non persecutori; che il numero degli ispettori da inviare nelle varie province viene determinato in rapporto al carico di aziende operanti nel territorio; che il sistema "budgettario" è esclusivamente uno strumento organizzativo adottato dall'istituto e che il budget di vigilanza non comporta il diretto incremento della retribuzione del singolo ispettore; secondo i dati forniti dall'Inps relativi all'attività di vigilanza espletata nel 1994, il numero delle aziende risultate irregolari nel Veneto è pari a 3.658, mentre, ad esempio, in Campania è pari a 10.996 e in Sicilia a 8.892, dati di per sè già eloquenti, ma che non danno una reale misura del fenomeno di irregolarità al sud, in quanto mancano il numero di ispezioni effettuate nel corso del 1994, il numero delle aziende presenti per regione ed il rapporto tra essi -: quale sia il numero delle ispezioni effettuate negli anni 1994 e 1995 sia dall'ispettorato del lavoro che dall'Inps e quale sia il numero delle aziende iscritte per ciascuna regione, nonchè il rapporto tra le aziende presenti e la quantità di controlli eseguiti, al fine di comprendere meglio le eventuali irregolarità emerse; come sia possibile che in un Paese civile e democratico come il nostro manchi una metodologia di ispezione univoca ed obiettiva; quale sia l'opinione dei Ministri interrogati in merito alla vicenda sopra illustrata e se non considerino vergognoso che i "vigilanti" discutano e litighino circa il tenore dei controlli nelle aziende, anzichè limitarsi ad applicare la legge in maniera equilibrata; se non ritengano che l'evasione contributiva vada combattuta senza estremizzazioni ed eccessi da parte di chi effettua i controlli a solo discapito degli utenti ligi al dovere; se non convengano sull'opportunità di un coordinamento tra ispettorato del lavoro e ispettori dell'Inps, al fine di evitare che talune aziende ricevano la visita di entrambi (e più di una volta), mentre altre non sono ispezionate ne' dai funzionari del ministero del lavoro ne' da quelli dell'istituto previdenziale. (3-00547)