Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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EMILIA ROMAGNA
DI ANTONIO GIANGRANDE
TUTTO SU BOLOGNA E L'EMILIA ROMAGNA
QUELLO CHE NON SI OSA DIRE
I BOLOGNESI E GLI EMILIANI ROMAGNOLI
SONO DIVERSI DAGLI ALTRI ?
Quello che i Bolognesi e gli Emiliani Romagnoli non avrebbero mai potuto scrivere.
Quello che i Bolognesi e gli Emiliani Romagnoli non avrebbero mai voluto leggere.
(*Su Parma c'è un libro dedicato)
di Antonio Giangrande
SOMMARIO
INTRODUZIONE
PARLIAMO DELL’EMILIA ROMAGNA.
"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.
SANITA’: DALLE STELLE ALLE STALLE.
COOP: ROSSE, MA DI VERGOGNA.
EMILIA ROSSA, CUORE NERO, MA CHE SI E' ROTTO IL CA....
DALL'ASTENSIONE ALLA 'NDRANGHETA.
LA RETATA IN SALSA EMILIANA ROMAGNOLA.
AMARCORD DI UNA REGIONE.
LI CHIAMANO AFFIDI. SONO SCIPPI.
UNIVERSITA’. IL MISTERO DELL’AULA C OCCUPATA DA DECENNI.
ERRANI. LA CADUTA DEGLI DEI.
TUTTE LE INCHIESTE DEL SOLO 2013.
BOLOGNA: SI FA MA NON SI DICE. I MAGISTRATI CENSURANO I GIORNALISTI.
BOLOGNA RAZZISTA.
I CONSIGLIERI REGIONALI EMILIANI ROMAGNOLI? COME GLI ALTRI.
BOLOGNA MAFIOSA.
BOLOGNA MASSONE.
INFORMAZIONE LIBERA?
CHIESA, POLITICA E MASSONERIA. PARLIAMO DI MASSONERIA.
STRAGI DI STATO.
POLITICOPOLI.
MALAGIUSTIZIA.
RAPIMENTI DI STATO.
BOLOGNA E I FASCICOLI SPARITI. SALTANO 2.321 PROCESSI.
AFFITTOPOLI A BOLOGNA.
POLIZIOTTOPOLI A BOLOGNA.
IL CASO UNO BIANCA.
BUDRIO ED IL CASO IGOR “IL RUSSO”.
PARLIAMO DI FERRARA
LA MASSONERIA A FERRARA.
MAGISTROPOLI. MAGISTRATI INADEGUATI. IL CASO MINNA.
INGIUSTIZIA. IL CASO ALDROVANDI.
PARLIAMO DI FORLI’-CESENA.
PIERO ISOLDI. GOGNA MEDIATICA E CARNE ED OSSA DA SPOLPARE.
PARLIAMO DI MODENA
GIORNALISMO CONTROCORRENTE: GIORNALISMO MAFIOSO.
LA MAFIA A MODENA.
MAGISTROPOLI. MAGISTRATI CHE DELINQUONO.
MALASANITA'.
CASTOPOLI.
AMMINISTRATOPOLI.
SFRUTTAMENTOPOLI. LAVORO NERO.
CONCORSI TRUCCATI.
PARLIAMO DI PIACENZA
PIACENZA E LA MAFIA.
PARLIAMO DI RAVENNA
COSE DA PAZZI.
RAVENNA E LA MASSONERIA.
RAVENNA MAFIOSA.
PARLIAMO DI REGGIO EMILIA
REGGIO EMILIA E LA MAFIA.
REGGIO EMILIA E LA MASSONERIA.
MAGISTROPOLI. STORIE NEFASTE DI MAGISTRATI.
STORIE DI ORDINARIA INGIUSTIZIA.
PARLIAMO DI RIMINI
RIMINI NERA.
PARLIAMO DI MASSONERIA.
PARLIAMO DI MAFIA.
MAGISTROPOLI.
INTRODUZIONE
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.
Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.
Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
PARLIAMO DELL’EMILIA ROMAGNA.
DI BOLOGNA… Ritorno a Bologna, Amarcord 2.0. I fumetti, la musica, la controcultura. Sotto le Due Torri celebrano i loro miti. Tra autocompiacimento e memoria. Viaggio nel capoluogo emiliano con Enrico Brizzi, Lo Stato Sociale, Otto Gabos, Josephine Yole Signorelli in arte "Fumettibrutti", e altri protagonisti di ieri e di oggi, scrive Emanuel Coen il 12 dicembre 2018 su "L'Espresso". Eravamo rimasti alla Bologna degli anni Novanta, quella adolescenziale di Enrico Brizzi e del suo romanzo d’esordio, “Jack Frusciante è uscito dal gruppo”, al viso sbarbato di Stefano Accorsi, quella del Link in via Fioravanti, cantie re di cultura underground, e di Luther Blissett, lo pseudonimo da cui sarebbe nato il collettivo di scrittori Wu Ming. La Bologna di Stefano Benni, Edmondo Berselli, Carlo Lucarelli, Pier Vittorio Tondelli e tanti altri autori, tra gli Ottanta e il decennio successivo. A Umberto Eco con la fucina del Dams. E, scivolando a ritroso nel tempo, ci eravamo affezionati al naso di Zanardi e agli altri personaggi nati dalla matita di Andrea Pazienza, alla Bologna demenziale degli Skiantos, alla città-rifugio casinista e anarchica dei fuorisede, dei fuori corso e dei collettivi studenteschi, al Pci e al movimento del ’77, ai tanti talenti morti troppo presto. Anni formidabili, a tratti molto violenti, tritati nel frullatore dei ricordi. Tornare oggi a Bologna, venti, trenta o quarant’anni dopo, è come tuffarsi dalla Torre degli Asinelli in uno straripante Amarcord, tanto per restare nella felliniana Emilia-Romagna. Oppure, per usare una metafora bellica, significa stare sul campo di battaglia quando la guerra è finita ma gli eroi sono ancora in piedi e continuano a lottare. Perché questa città, forse più di ogni altra in Italia, omaggia i propri miti, li coccola e li accudisce, li rende immortali e talvolta li addomestica. E magari esagera, scade nell’autocompiacimento, nella sindrome melensa del “come eravamo”. Sono tutti coinvolti in questa operazione-memoria, che ha il sapore della nostalgia ma si spinge oltre, rinasce di generazione in generazione attraverso scrittori e fumettisti, writer e filmaker, editori, librai e agit prop, con mostre, anniversari, festival, concerti. Un’offerta culturale ipertrofica, in parte autofinanziata e spesso sostenuta dal Comune guidato dal Pd. Non sono ancora finite le celebrazioni per Pazienza, scomparso nel 1988 a soli 32 anni, con la riproposizione integrale della sua opera da parte di Coconino Press Fandango, che già inaugura “Sturmtruppen 50 anni” (fino al 7 aprile 2019 in Palazzo Fava), retrospettiva dedicata al genio irriverente di Bonvi, nome d’arte di Franco Bonvicini, il disegnatore che nel 1968 dava alle stampe la prima striscia dei suoi “soldaten”, che diventerà l’esercito a fumetti più sgangherato e famoso del mondo, simbolo dell’antimilitarismo. Oltre 250 opere provenienti dall’Archivio Bonvicini, in gran parte inedite.
ANNI OTTANTA ANDATA E RITORNO. Sotto i portici la macchina del tempo non conosce sosta e contagia la letteratura. Incontriamo Enrico Brizzi in una mattina gelida di fine novembre in vicolo Ranocchi, all’Osteria del Sole, più che un’osteria un monumento cittadino - fin dal 1465! - le pareti tappezzate da memorabilia, foto e quadri, poesie e pensieri in ordine sparso. Un locale alla buona, anzi “alla vecchia” come dicono qui, gli habitué seduti ai tavoli con pane e mortadella comprati nel negozio accanto, il bicchiere già colmo di Lambrusco. Lo scrittore, al centro di una polemica sul mancato versamento di una parte degli alimenti alla prima moglie e alle tre figlie minori, comincia a parlare di ieri, di oggi e del suo nuovo romanzo dal titolo shakespeariano, “Tu che sei di me la miglior parte” (Mondadori), in cui ha riavvolto il nastro fino agli anni Ottanta per raccontare la storia di Tommy Bandiera: orfano di padre, cresce con la mamma Alice e la famiglia di lei, ascoltando i racconti dell’avventuroso zio Ianez. I giochi con gli amici e le prime timide relazioni con le coetanee fino all’apparizione del vero amore, Ester, contesa con l’amico Raul, che di Tommy diventerà la guida e il carnefice. Un viaggio nella memoria dello scrittore 44enne, tra musicassette Tdk e le festicciole delle medie, lo zaino Invicta e la Vespa, sullo sfondo Bologna impastata di speranza e rabbia, amore e sesso. «Sai una cosa? Qualche tempo fa ho scoperto che io e Stefano Accorsi siamo cugini!», comincia: «Mia madre ha incontrato una cugina in un paesino della bassa bolognese, che le ha detto: “Sai Luisa, ho pensato che essendo la zia di Stefano Accorsi, Enrico e Stefano sono cugini”». E così il cerchio si chiude, Brizzi rievoca Jack Frusciante, diventato cult dopo che Umberto Eco ne parlò nella sua rubrica, “La bustina di Minerva”, sulle pagine di questo settimanale, e procede in retromarcia fino agli anni della sua adolescenza, con il nuovo romanzo. «Scriverlo per me ha significato fare i conti con le radici, ma in maniera diversa rispetto al passato. A vent’anni ci sentiamo eroi, alla mia età invece guardo a quegli anni con altri occhi: tante volte sei stato vittima ma tante altre carnefice, hai approfittato delle situazioni, hai bullizzato un ragazzo più giovane. Se si vuole rompere questo cerchio bisogna essere onesti, capire che re e capro espiatorio in fondo sono la stessa persona, come mostra il filosofo francese René Girard nel suo celebre saggio, “Il capro espiatorio”. È come la storia di Mussolini, prima adorato e poi lapidato. Noi italiani dobbiamo smettere di volere i re, adorare un idolo vuol dire prepararsi a lapidarlo alla prima disfatta». Brizzi allarga lo sguardo, racconta dei viaggi a piedi in giro per il mondo con il gruppo di amici Psicoatleti, che hanno ispirato reportage e libri, poi cita Francesco Guccini, la storia della città ribelle da sempre, convinta di poter fare da sola fin dai tempi in cui la Basilica di San Petronio sfidava per dimensioni quella di San Pietro in Vaticano. «Bologna è un posto da cui è bello partire ed è bellissimo tornare. Una città femmina, una mamma che dice al figlio: “S’ti bêl, al mi fangèin!”, “come sei bello, figlio mio!”. Il rischio è che ti protegga troppo».
UN PIANETA DI CARTOON. Un microcosmo concentrato in poche strade che da sole sono un mondo, frequentate da studenti, giovani creativi, artisti, veri intellettuali e aspiranti tali, una piccola folla itinerante e allegra con i suoi vezzi e i suoi tic, immortalata dallo scrittore Matteo Marchesini nel suo “False coscienze - Tre parabole degli anni zero” (Bompiani). Racconti che smontano luoghi comuni, fallimenti umani, svelano ambizioni di giovani adulti proiettati in un’adolescenza infinita. Tornano in mente le descrizioni di uno dei racconti, Rapida ascesa di B. Lojacono: «Eravamo lì riuniti per una di quelle presentazioni conviviali, un po’ cena e un po’ staffetta alcolica, che allora attiravano in città folte truppe di poeti-performer e di aspiranti Chandler (...). Stazionavano a poca distanza alcune ossute interpreti ex damsiane del Teatro di Parola, qualche anoressico assegnista esperto di Carnevalesco o Graphic Novel, e certi esili manipoli di ragazzotti con le code stoppose, l’iPod gracchiante musica irlandese e i regolamenti dei giochi di ruolo nelle tasche, che si riconoscevano subito per narratori fantasy (detti affettuosamente “hobbits”)». I personaggi di Marchesini li incontri nelle piazze e nelle strade che parlano della storia della città, come via Mascarella. Qui l’11 marzo 1977 Francesco Lorusso, studente di Medicina e militante di Lotta Continua, viene ucciso da un carabiniere durante una manifestazione. Nei giorni seguenti si scatena l’inferno, Bologna viene messa a ferro e fuoco. Fa effetto tornare quarant’anni dopo in questa strada protetta dai portici, in occasione di BilBOlbul 2018, festival internazionale del fumetto, 25 mila visitatori in soli quattro giorni, Bologna trasformata in una tavola da disegno con mostre in cinquanta luoghi - tra gli altri il MAMbo, il museo d’arte moderna, e la Pinacoteca Nazionale - e una ragnatela di eventi off in posti come Modo Infoshop, una delle librerie indipendenti più attive, sempre in via Mascarella, all’Ortica o al Moustache, due locali nei paraggi. L’epicentro resta l’Accademia di Belle Arti con il corso di laurea in Fumetto e Illustrazione, che accoglie studenti da ogni parte del globo e continua a sfornare talenti. Le sale sono austere, lontane dal pianeta colorato dei fumetti. Fa gli onori di casaOtto Gabos, alias Marco Rivelli, ciuffo bianco, barba e un elegante cappotto grigio, docente di Arte del fumetto e scrittura creativa e autore di romanzi grafici di successo tra cui “La giustizia siamo noi” (scritto da Pino Cacucci, Bur Rizzoli) e l’ultimo “Il viaggiatore distante - Atlantica” (Coconino Press - Fandango). Un paio di battute e siamo a metà anni Ottanta con Gabos, cresciuto a Cagliari, sbarcato giovanissimo al Dams e nel caos creativo di Frigidaire. Il disegnatore è un fiume in piena, i ricordi riaffiorano in modo casuale mentre visitiamo la mostra “Guido Buzzelli. Anatomia delle macerie”, dedicata al padre del graphic novel italiano (collaborò anche con L’Espresso) scomparso nel 1992. Nella geografia dell’epoca il disegnatore menziona gli amici del Gruppo Valvoline e di Zio Feininger, leggendario corso post-diploma di fumetto e arti grafiche, luoghi scomparsi come il Casalone (adesso Covo Club), nel quartiere San Donato, nato nel 1980 come tempio punk e rock in un’epoca di transizione. «All’epoca Bologna pullulava di collettivi teatrali, gruppi di ricerca artistica, ci sembrava di conquistare il mondo. Per la musica erano anni incredibili, al Casalone passavano tutti, mentre al Q.BO’ ho visto Marc Almond, i Cocteau Twins e altre decine di concerti», racconta Gabos, che oggi ha 56 anni ed è punto di riferimento per autori di ogni età. «Ora i giovani hanno talento, pubblicano libri, si autoproducono. Per molti Bologna resta una città-taxi, di passaggio, ma non è un male, non ho mai amato la retorica della fuga dei cervelli», conclude il fumettista: «Rispetto alla mia generazione quella attuale è meno legata ai luoghi, la tecnologia permette di lavorare dappertutto. Un tempo se nascevi a Cagliari o a Palermo eri obbligato a partire».
NOSTALGIA DELLA BOLOGNINA. Sarà, ma proprio da Catania è arrivata (fuggita) pochi anni fa una delle allieve più promettenti di Gabos: Josephine Yole Signorelli, classe 1991, in arte “Fumettibrutti”, dopo aver conquistato il web ha pubblicato per Feltrinelli Comics “Romanzo esplicito”, il suo esordio editoriale. Disegni autobiografici duri, spiazzanti, malinconici, tavole monocromatiche («il giallo è una risata amara, il blu primario la malinconia, il rosso passione, il nero è il mio segno») per raccontare il lato oscuro di sé, le difficoltà economiche, il lavoro nei night club per sbarcare il lunario, il sesso consumato in fretta, la solitudine. «Vedo i ragazzi della mia età che pensano all’amore. Mentre io scopo nelle macchine e nei campetti abbandonati», scrive Signorelli. «Appena arrivata a Bologna, per un anno e mezzo ho trascorso qui intere giornate a divorare libri e fumetti, era il mio rifugio silenzioso», racconta mentre sorseggia un caffè nel bar di Salaborsa, la biblioteca nel trecentesco Palazzo d’Accursio, davanti alla fontana del Nettuno. Usciamo insieme dal centro, avvolgente e rassicurante, e ci spostiamo in periferia, alla Bolognina, dove l’autrice ha abitato per due anni e mezzo e tuttora porta nel cuore. Oggi il quartiere passato alla storia per la “svolta” del Pci annunciata da Achille Occhetto nel 1989 è una zona di frontiera, enclave multietnica e simbolo di riqualificazione, con la stazione dell’Alta Velocità e i nuovi uffici del Comune in vetro e acciaio, gli edifici residenziali in costruzione e uno storico spazio sociale autogestito, l’XM24, sotto minaccia di sgombero da parte del Comune, dove la fumettista è di casa. «La periferia di Bologna è brutta, ma questa parola non ha un’accezione necessariamente negativa, un po’ come per i miei “Fumettibrutti”. La convivenza con gli stranieri? Siamo tutti disperati, a prescindere dal colore della pelle. A Bologna anche io a volte da siciliana mi sono sentita straniera, e insieme alle mie amiche russe e romene ho combattuto per la sopravvivenza. Per questo forse non ho mai sentito differenze». Spesso le energie migliori circolano in periferia, negli spazi occupati e nei locali per la musica dal vivo come il Locomotiv Club, a pochi isolati dall’XM24. Dentro bar immaginari come il 123, il cui gestore, Andrea, dà il titolo al romanzo grafico scritto dalla band Lo Stato Sociale e disegnato da Luca Genovese (Feltrinelli Comics). Alienato dalla routine quotidiana, Andrea vede passare davanti al suo bancone una Bologna travolta da progetti urbanistici ambiziosi, metafora di un’Italia divisa, e cerca in tutti i modi la fuga. «Quella di “Andrea” è una periferia romanzata, molto simile a quelle in cui siamo cresciuti e dove ci siamo conosciuti. Io ad esempio vengo da San Ruffillo, dove alle nove di sera è tutto chiuso e le due o tre biblioteche di una volta non ci sono più», dice Alberto Guidetti, in arte Bebo, voce e drum machine del gruppo di indie pop, sempre in bilico tra impegno e cazzeggio, mentre beve una birra al bar Fermento, in piena Bolognina, seduto accanto a Genovese e agli altri membri della band. Manca Lodo Guenzi, giudice di X Factor. Malgrado il successo e il secondo posto a Sanremo con il brano “Una vita in vacanza”, Lo Stato Sociale non ha dimenticato le radici e i riferimenti musicali bolognesi: ha reso omaggio agli Skiantoscon “Sono un ribelle, mamma” e a Lucio Dalla con «Com’è profondo il levare”. «Dalla era un grande, ma è stato santificato solo quando è morto. Era omosessuale, quando usciva con le pellicce in piazza Maggiore i benpensanti lo guardavano male, dicevano che era strambo», conclude Bebo. E pensare che pochi giorni fa in via d’Azeglio, la strada in cui abitava il grande cantautore, si sono accese le luminarie di Natale con i versi di “L’anno che verrà”.
1951, FESTA DELL'UNITÀ. Ancora una volta il capoluogo emiliano celebra i suoi eroi e coltiva la memoria. Come la Fondazione Cineteca di Bologna, una delle più importanti d’Europa, con il laboratorio di restauro L’Immagine Ritrovata. Ogni anno in piazza Maggiore si svolge il festival Il Cinema Ritrovato (dal 22 al 30 giugno 2019), rassegna dedicata alla riscoperta di film rari da fine Ottocento ai nostri giorni. Senza contare un altro tesoro meno noto, in via Sant’Isaia: l’Archivio nazionale del film di famiglia, fondato nel 2002 e gestito dall’associazione Home Movies, ha l’obiettivo di salvare le pellicole cinematografiche dimenticate dalle famiglie italiane in soffitte e cantine. Un patrimonio cospicuo, circa 27mila pellicole finora acquisite, dal Piemonte alla Sicilia, in cui le vicende private si intrecciano con un racconto più ampio, artistico e collettivo. Alcuni film sperimentali e d’artista (Arnaldo Pomodoro tra gli altri), realizzati tra il 1966 e il 1976 e custoditi nell’archivio, sono stati proiettati a fine novembre nella rassegna “Quasi un 68 / Almost 68”, in occasione del festival Archivio Aperto. In altri casi, dall’archivio nascono opere originali che consentono di rileggere la storia d’Italia. Il cortometraggio “’51” , con il testo di Wu Ming 2, riprende il film di Angelo Marzadori, cineamatore militante comunista, girato durante la Festa dell’Unità del 1951. Le immagini, realizzate alla Montagnola e riutilizzate dal collettivo di scrittori, aprono a una riflessione sulla cultura del Pci. «La forma nazionalpopolare della festa svela la natura lontana dall’ideologia comunista e il conformismo degli apparati di partito e della loro propaganda in una città simbolo», spiega Paolo Simoni, cofondatore di Home Movies e autore di “Lost Landscapes” (Kaplan edizioni). E così Bologna, con la sua storia e il suo cinema, diventa metafora di una vicenda più ampia. Fino all’avvento del videotape, negli anni ’80. Anzi, al 2 agosto 1980. «La strage alla stazione segna un passaggio reale e simbolico a un diverso immaginario cittadino», conclude Simoni. E il cerchio si chiude. Ancora una volta.
Comune, Bologna: concorso pubblico amministrativo “fatto in famiglia”. Comune di Bologna, Concorso pubblico: 42.700 euro per una sala che il Comune ha già e 22.600 a una società esterna. In pole position i figli dei dirigenti, scrive Antonio Amorosi, Martedì 19 dicembre 2017, su Affari Italiani. Bologna, Concorso al Comune: il sistema italiano funziona così. Tra la fine del 2011 e l'inizio del 2012 raccontai come funzionano i concorsi pubblici al Comune di Bologna, “azzeccando” con settimane di anticipo i nomi di tutti i dirigenti e funzionari che avrebbero vinto le varie gare: 13 dirigenti su 13 vincitori; poi altri 3 dirigenti su 3; infine alla Cineteca comunale 20 funzionari su 21 (il 21esimo non era stato estratto). Il sindaco Virginio Merola reagì sostenendo che erano “solo coincidenze”. L'altro ieri abbiamo mostrato i contorni di un concorso pubblico nel quale per assumere 19 impiegati amministrativi, nel frattempo diventati 32, il Comune affitta una sala per 1500-3000 partecipanti, pagando 42.700 euro, quando è già proprietario di un locale grande il doppio, utilizzato proprio per fare concorsi e che ne contiene 6000 di partecipanti. Ma andando nei particolari della gara, del bando di gara, scopriamo che la società che ha redatto i quiz, la Giunti O.S psychometric srl, è stata pagata 22.600,50 euro per scrivere 60 domande: 377 euro a domanda. Anche quesiti tipo: “Quale dei seguenti non è un sistema di archiviazione? (A. Hard disk, B. CdRom, C. Floppy disk, D. Scanner)”. Domande che qualsiasi dirigente, già profumatamente pagato dal Comune, poteva redigere con un occhio solo. Come segretaria della commissione giudicatrice del concorso invece troviamo Mariella Tampieri, dipendente del Comune e responsabile della “Programmazione e risorse umane”. E' una madre. E chi meglio di una madre può capire i sacrifici di un figlio? Infatti tra i partecipanti al concorso c'è proprio uno dei figli: Marco Depietri che già lavora per il Comune ma con un contratto di categoria C. Il concorso permette di passare alla categoria D e quindi guadagnare di più. E lui partecipa con successo. Su 3131 persone ammesse e 1500 partecipanti effettivi si classifica dopo i quiz, della Giunti, 21esimo. E' solo uno dei due figli di Mariella Tampieri. L'altro, la figlia, Anna Depietri lavora anche lei per il Comune di Bologna: di recente è stata promossa andando ad occupare un'importante posizione organizzativa appena creata dall'ente. Invece al primo posto della graduatoria dopo i quiz, staccando il secondo classificato di diversi punti, c'è Simone Ottani, un impiegato che già lavora per il Comune di Bologna. E indovinate dove? E' un sottoposto della solita Mariella Tampieri: lavora proprio nello stesso ufficio, “Programmazione e risorse umane”. Ma non possiamo certo impedire ai figli e ai sottoposti di chi ha ruoli importanti al Comune di Bologna di partecipare a un concorso. Tanto più impedire a Mariella Tampieri di essere segretaria di quel medesimo concorso. Non vorremmo mica applicare la legge della pubblica amministrazione, la 241 del 1990, che obbliga all'astensione il pubblico dipendente: al fine di “eliminare possibili situazioni di conflitto, determinate da potenziali commistioni tra gli interessi pubblici e quelli personali o dei propri parenti o congiunti”. Sarebbe una disparità inaccettabile. Nelle settimane scorse si sono tenute finalmente le prove scritte della gara. Sulle 15 persone che si sono piazzate nei primi posti, totalizzando dai 28 ai 23,5 punti, 10 lavorano già in Comune: Cinzia Bavieri, Valentina Damiano, Ilaria Daolio, Emanuela Jacca, Elena Gerla, Mimmo Cosimo Mosticchio, Francesca Prezioso, Emilia Roberti, Elisa Russello, Gianluca Vaccari. Nomi che non vi diranno nulla e persone che non hanno fatto nulla di male. Si sono solo sottoposte alle prove che il Comune chiede. Anche se sembra tanto che chi è dentro la struttura sia favorito rispetto a chi dall'esterno partecipi alla gara. Ma c'è un'eccezione, una speranza. Dall'esterno del Comune una figura si staglia oltre le altre, classificandosi al primo posto assoluto nella prova scritta, totalizzando 28 punti. Si chiama Elena Mignani. Ma aspettate un attimo. Il capo dei vigili del Comune di Bologna non si chiama Romano Mignani!? Si, proprio così, Romano Mignani. Ed ha una figlia di nome Elena. Elena Mignani non sarà mica la figlia del capo dei vigili del Comune? “Solo coincidenze”, per parafrasare il sindaco Merola. C'è qualcuno, come il consigliere della Lega Nord di Bologna Umberto Bosco, che invece è convinto che non siano solo coincidenze. Per questo motivo ha deciso di recarsi alla Procura della Repubblica di Bologna e alla Corte dei Conti per presentare un esposto. “Ci sono elementi che richiedono seri chiarimenti, date le pesanti ombre sollevate sul mancato rispetto della legge, sull'opportunità che il concorso sia stato fatto correttamente, visto che si ingenerano aspettative importanti in chi partecipa al concorso e investe il suo lavoro e il suo tempo”, ha dichiarato a Affari il capogruppo di Forza Italia in Comune Marco Lisei. "Lo stile Bologna continua", - commenta il capogruppo in Comune del Movimento 5 Stelle Massimo Bugani,- "Dopo mogli e mariti di esponenti PD nominati in ruoli prestigiosi dal sindaco Merola, ora la parentopoli emiliana continua anche nei concorsi. È un'indecenza ed è ancor più indecente come questo sistema venga protetto. Ciò che in altre città farebbe gridare allo scandalo, a Bologna è prassi silenziosamente accettata. Interrogheremo l'amministrazione su tutta la vicenda." Particolare. Siamo venuti a conoscenza, successivamente alla stesura dell'articolo, che la signora Tampieri non ha sottoscritto i verbali del concorso. La circostanza non modifica la sostanza dell'articolo perché la stessa Tampieri era presente durante lo svolgimento delle prove di preselezione e le seconde prove scritte, gli elaborati dei concorrenti (quelle successive alle preselezioni) sono custoditi negli uffici da lei diretti.
Concorsi truccati all'università di Bologna, le intercettazioni: "I nostri candidati, merce di scambio". Le intercettazioni del professor Di Pietro, agli arresti domiciliari, svelano il sistema. "Inutile che ci nascondiamo, ognuno ha le sue sollecitazioni". Interrogato ieri dal giudice, il docente nega tutto, scrive Giuseppe Baldessarro il 27 settembre 2017 su "La Repubblica". Per lui era soltanto "merce di scambio". Nelle due occasioni in cui il professore Adriano Di Pietro andò a trattare con gli altri componenti della commissione per l’abilitazione all’insegnamento di Diritto Tributario, il docente ha preparato la sua strategia, affermando che bisognava presentarsi con la "merce di scambio". Nomi, in altri termini. Nomi e posti da spartirsi chiarendo le proprie esigenze, come avrebbero fatto anche gli altri. Perchè, diceva lo stesso docente al suo collega Giuseppe Zizzo: "È inutile che ci nascondiamo, ognuno di noi ha le sue sollecitazioni, vediamo di metterle a confronto". Ieri nell’interrogatorio di garanzia il professore si è difeso affermando di non aver mai "fatto scambi". E secondo i difensori, Giovanni Flora e Luigi Stortoni, presenterà una memoria sui fatti. Di Pietro, finito lunedì ai domiciliari nell’ambito dell’inchiesta per corruzione della procura di Firenze, assieme ad altri sei indagati, è considerato uno degli uomini chiave degli imbrogli fatti per avvantaggiare alcuni candidati. "Nulla a che vedere con il merito", dicono gli investigatori della Finanza che lunedì hanno notificato anche un ventina di divieti all’insegnamento - "solo interessi di varia natura". Per gli inquirenti, almeno due concorsi sarebbero stati taroccati. Nelle carte dell’inchiesta ci sono decine di intercettazioni ritenute "chiarissime". C’è ad esempio una telefonata nella quale si parla degli accordi stabiliti già in occasione di una precedente selezione: "… anche se io poi mi dimisi abbastanza presto… avevamo concordato ... concordato chi doveva passare e chi non doveva passare". Secondo gli investigatori le richieste di Di Pietro rispondevano a due esigenze. La prima era quella di "sistemare" due suoi allievi, Thomas Tassani e Marco Greggi, mentre la seconda faceva riferimento agli interessi associativi della Aipdt (Associazione italiana professori di diritto tributario) e della Ssdt (Società italiana studiosi di diritto tributario), in eterno equilibrio tra di loro. Accordi non sempre semplici, visto che ogni commissario aveva i proprio protetti. Una volta fissati quelli, però, la cosa era fatta. E i professori si preparavano a giustificare i giudizi. Quando Di Pietro nel 2015 diventa commissario, arriva ad affidare al suo pupillo, nonchè candidato all’esame Marco Greggi, la gestione dei giudizi degli altri concorrenti. Intercettato, il docente gli chiede di cominciare a fare per suo conto "un po’ di screening delle posizioni, dei concorsuali". Si tratta delle pubblicazioni soprattutto, che determineranno parte del punteggio. Dice Di Pietro: "Se mi fai un’istruttoria, li faccio foglio per foglio per ciascuna, in modo che poi posso dare il giudizio e l’inseriamo". Quindi spiega a Greggi l’obiettivo: "Così mi metto già avanti e il 19 viene fuori, la valutazione dei 10 che… eliminiamo e poi, vedo di portarli avanti a mano a mano che…. Se trovo già l’accordo, ne ho già da… il giudizio. E tutti si adegueranno al mio…". Tutto scritto, tutto già fatto.
Bologna, giudice corrotto. Spuntano vip e imprenditori. Mazzette per aggiustare contenziosi col Fisco, tredici indagati. Nell’inchiesta il re dei salumi Sante Levoni e il commercialista di un personaggio tv, scrive Gilberto Dondi il 10 aprile 2018 su Il Resto del Carlino. Il pm Morena Plazzi ha chiuso l’inchiesta sul giudice tributario Carlo Alberto Menegatti, 74 anni, accusato di due tipi di corruzione (per l’esercizio della funzione e per atti contrari ai doveri d’ufficio), e la novità rispetto a un anno fa, quando è scoppiato il caso, è che gli indagati sono saliti da cinque a tredici. Nei giorni scorsi la Guardia di finanza ha notificato a tutti l’atto di fine indagine, di solito preludio alla richiesta di rinvio a giudizio, e fra loro ci sono nomi eccellenti. Il primo è quello di Sante Levoni, 76 anni, residente a Castelnuovo Rangone (Modena), patron della famosa azienda modenese produttrice di salumi, accusato di aver corrotto Menegatti fra aprile e luglio 2016, regalandogli prosciutti e salami e promettendogli soldi, in cambio di consulenze proibite prestate dal giudice tributario in merito a ricorsi pendenti davanti alla Commissione tributaria regionale per la società Globalcarni Spa e in merito alla decisione di Levoni di trasferire la residenza a Montecarlo. Non solo. Menegatti per l’accusa si sarebbe «anche attivato per fornire alla famiglia Levoni informazioni riservate sulla sezione e sui giudici assegnatari del ricorso», scrive il pm nell’avviso. La difesa di Levoni spiega però che «si tratta di un mero fraintendimento legato ad una vicenda passata che non ha alcuna attinenza con l’azienda. Un fraintendimento che presto verrà chiarito con l’autorità giudiziaria». Il secondo nome eccellente è quello di Giuseppe De Pascali, 75 anni, commercialista bolognese di un personaggio vip della televisione, accusato di aver corrotto Menegatti nel maggio 2016, per il tramite dell’ex dipendente dell’Agenzia delle entrate Alessandro De Troia, pagandogli 800 euro per «consigli professionali e annotazioni», scrive il pm Plazzi. Il tutto in merito a un ricorso davanti alla Commissione tributaria provinciale di Firenze che il vip aveva pendente. Va detto che l’illustre cliente non è indagato, dunque non c’è nessuna accusa a suo carico. Per la Procura l’iniziativa fu messa in atto esclusivamente da De Pascali. Un altro cliente di Menegatti era, secondo il pm, l’imprenditore bolognese Romano Verardi, 76 anni, che avrebbe corrotto il giudice durante «più incontri appositamente organizzati nello studio professionale della ragioniera Valentina Franceschini», pure lei indagata. Menegatti anche in questo caso avrebbe fornito, in cambio di una somma al momento imprecisata, consulenze illecite per ricorsi che la società di Verardi stava per presentare davanti alla Commissione tributaria dell’Emilia Romagna. Menegatti è inoltre accusato di aver fornito la solita consulenza a un contribuente in lite con il fisco, Stefano Mutti, accusato di averlo corrotto con una somma imprecisata. In questo caso il giudice avrebbe fatto anche di più, si sarebbe cioè «adoperato per cercare di realizzare un incontro, per carpire informazioni riservate, con un altro componente della Commissione tributaria regionale». Menegatti infine nel luglio 2016 si sarebbe messo a disposizione di un’immobiliare di cui era socio Ippolito Piersanti (pure lui indagato) in vista di ricorsi che sarebbero stati presentati di lì a breve. Fin qui la posizione del giudice Menegatti. Ma i finanzieri del Nucleo di polizia tributaria, indagando, pedinando e intercettando le telefonate, si sono imbattuti anche in altri presunti reati commessi da un impiegato dell’Agenzia delle entrate, Flaviano Giannangeli, 63 anni, accusato (in concorso con la moglie Valentina Franceschini) di accesso abusivo a sistema informatico e rivelazione ed utilizzazione di segreti di ufficio perché avrebbe consultato illecitamente nelle banche dati del fisco la posizione di una quarantina di persone. Infine, un dipendente di Equitalia è accusato degli stessi due reati, in concorso con Troia, per altre intrusioni nella banca dati del fisco.
Strage di Bologna, così servizi segreti e P2 aiutarono i terroristi, scrive il 28 luglio 2018 L'Espresso". Il capo della P2 Licio Gelli, "i finanziamenti e il misterioso documento Bologna, le protezioni che i servizi segreti hanno fornito ai terroristi neri coinvolti nella strage e l'ombra di Gladio sul curriculum criminale di Gilberto Cavallini", ex Nar attualmente sotto processo a Bologna per concorso nella strage del 2 agosto 1980. A pochi giorni dalle commemorazioni dell'attentato alla stazione ferroviaria del capoluogo emiliano, che uccise 85 persone e ne ferì oltre 200, il settimanale l'Espresso annuncia, sul numero di domenica, propone "un servizio esclusivo con tutte le sentenze e altri documenti, finora inediti, che disegnano la stessa trama nera, una strage di Stato", in cui si intravede "la mano di alcuni uomini dei servizi fedeli non alla costituzione, ma a Licio Gelli, il fondatore della P2". Su Valerio Fioravanti, ex Nar condannato in via definitiva come esecutore materiale della strage, il settimanale riporta le parole di "Vito Zincani, il giudice istruttore della maxi-inchiesta sulla strage", che afferma che "Fioravanti aveva rubato un'intera cassa di bombe a mano, modello Srcm, quando faceva il servizio militare a Pordenone, ed era stato ammesso alla scuola ufficiali quando risultava già denunciato e implicato in gravi reati". Per capire come avesse fatto, prosegue il magistrato, "abbiamo acquisito i suoi fascicoli, e negli archivi della divisione Ariete abbiamo trovato un documento dell'ufficio i, cioè dei servizi militari, che indicava Fioravanti e Alessandro Alibrandi (altro appartenente ai Nar, ndr) come responsabili del furto delle bombe, poi utilizzate per commettere numerosi attentati". Cavallini, scrive l'Espresso, "è al centro di un caso ancora più inquietante, il mistero di una banconota spezzata". Il 12 settembre 1983, si legge, i carabinieri "perquisiscono a Milano un covo di Cavallini, e tra le sue cose c'è il reperto numero 2/25, una mezza banconota da 1.000 Lire, con il numero di serie che termina con la cifra 63". Secondo la ricostruzione del periodico, però, potrebbe non essere una banconota come le altre. Tra le migliaia di atti ufficiali di Gladio, la rete militare segreta anticomunista, l'Espresso "ha infatti recuperato le foto di banconote da 1.000 Lire, tagliate a metà, e i fogli protocollati in cui si spiega che erano il segnale da usare per accedere agli arsenali e prelevare armi o esplosivi, in particolare dalle caserme in Friuli". Come se non bastasse, "su una foto si legge il numero di una mezza banconota, le cui ultime due cifre sono 63, le stesse delle 1.000 Lire spezzate di Cavallini". Infine c'è il ruolo di Gelli, "a carico del quale, oggi, emergono nuovi fatti, su cui indaga la Procura generale di Bologna nell'inchiesta sui mandanti: tra le sue carte emerge un documento classificato come 'piano di distribuzione di somme di denaro'". Si parla di "milioni di dollari usciti dalla Svizzera tra luglio 1980 e febbraio 1981, e il documento ha l'intestazione 'Bologna - 525779 xs', numero e sigla che corrispondono a un conto svizzero di Gelli". Altre note, scritte a mano dal capo della P2, "riguardano pacchi di contanti da portare in Italia: solo nel mese che precede la strage, almeno quattro milioni di dollari". Ora, resta da capire "a chi erano destinate le somme indicate nel documento Bologna.
Strage di Bologna, la mano dei Servizi segreti: i documenti inediti sull'Espresso in edicola. Nuovi elementi rivelano le complicità dello Stato e il ruolo di Licio Gelli nell'attentato che il 2 agosto del 1980 è costato la vita a 85 innocenti. Ve li raccontiamo nel numero in edicola da domenica 29 luglio, scrivono Paolo Biondani e Giovanni Tizian il 27 luglio 2018 su "L'Espresso". Il capo della P2, i finanziamenti e il misterioso documento “Bologna”. Le protezioni che i servizi hanno fornito ai terroristi neri coinvolti nella strage e un secondo covo rimasto finora segreto. L'ombra di Gladio sulle sul curriculum criminale del quarto neofascista sotto processo con l'accusa di essere uno degli esecutori. Insomma, sulla bomba del 2 agosto 1980 alla stazione dei treni di Bologna che ha ucciso 85 innocenti, i misteri sono ancora molti. Conosciamo gli esecutori, ma non i nomi degli ideatori politici. Per questo attentato, il più sanguinario, c’è un processo in corso contro un terrorista di destra accusato di essere il quarto complice, dopo i tre stragisti già condannati. E c’è una nuova indagine, ancora aperta, sui mandanti occulti. A 38 anni dalla strage, L’Espresso in edicola a partire da domenica 29 luglio, pubblicherà un ampio servizio esclusivo sull’attentato: con tutte le sentenze e altri documenti, finora inediti, che disegnano la stessa trama nera, una strage di Stato. La mano di alcuni uomini dei servizi fedeli non alla Costituzione ma a Licio Gelli, il fondatore della loggia segreta P2. Prendiamo, per esempio, Valerio Fioravanti, il terrorista di destra condannato in via definitiva come esecutore materiale dell’attentato alla stazione. Vito Zincani, il giudice istruttore della maxi-inchiesta sulla strage, ricorda bene le vecchie carte ora ritrovate da L’Espresso: «Fioravanti aveva rubato un’intera cassa di bombe a mano, modello Srcm, quando faceva il servizio militare a Pordenone. Era stato ammesso alla scuola ufficiali quando risultava già denunciato e implicato in gravi reati. Per capire come avesse fatto, abbiamo acquisito i suoi fascicoli. E negli archivi della divisione Ariete abbiamo trovato un documento dell’Ufficio I, cioè dei servizi militari: indicava proprio Fioravanti e Alessandro Alibrandi come responsabili del furto delle Srcm. Quelle bombe sono state poi utilizzate per commettere numerosi attentati. Sono fatti accertati, mai smentiti».
C'è poi l'imputato del nuovo processo di Bologna, Gilberto Cavallini. Al centro di un caso ancora più inquietante. Il mistero di una banconota spezzata. Il 12 settembre 1983 i carabinieri perquisiscono a Milano un covo di Cavallini. Tra le sue cose, elencate nel rapporto, il reperto numero 2/25: una mezza banconota da mille lire, con il numero di serie che termina con la cifra 63. Tra migliaia di atti ufficiali dell’organizzazione Gladio, la famosa rete militare segreta anticomunista, L'Espresso ha recuperato le foto di banconote da mille lire, tagliate a metà, e i fogli protocollati che spiegano a cosa servivano: erano il segnale da utilizzare per accedere agli arsenali, per prelevare armi o esplosivi, in particolare, dalle caserme in Friuli. Su una foto si legge il numero di una mezza banconota: le ultime due cifre sono 63. Le stesse delle mille lire spezzate di Cavallini. Infine il ruolo del Gran Maestro della P2: Licio Gelli, morto nel 2015, senza aver scontato neppure un giorno di carcere per il depistaggio ordito dopo la strage di Bologna. A suo carico, oggi, emergono nuovi fatti, su cui indaga la Procura generale nel filone sui mandanti. E che L'Espresso è in grado di rivelare: tra le sue carte dell’epoca sequestrate a Gelli ora emerge un documento classificato come «piano di distribuzione di somme di denaro». Milioni di dollari usciti dalla Svizzera proprio nel periodo della strage e dei depistaggi, tra luglio 1980 e febbraio 1981. Il documento ha questa intestazione: «Bologna - 525779 XS». Numero e sigla corrispondono a un conto svizzero di Gelli. Altre note, scritte di pugno da Gelli, riguardano pacchi di contanti da portare in Italia: solo nel mese che precede la strage, almeno quattro milioni di dollari. A chi erano destinati quelle somme indicate nel documento “Bologna”? Paolo Bolognesi, il presidente dell’associazione dei familiari delle vittime del 2 agosto 1980, è convinto di una cosa: «Mani esterne hanno sempre lavorato contro la verità. Esiste ancora un pezzo delle nostre istituzioni che rema in direzione contraria alla verità».
Bologna, scontri all'Università: studenti sgomberati dalla biblioteca occupata.
Dopo giorni di proteste contro i tornelli installati alla biblioteca di Lettere, culminate mercoledì con una porta a vetri letteralmente portata via dai collettivi, giovedì l’Ateneo ha chiuso le porte. E gli attivisti le hanno riaperte, passando dall’interno. Qualche ora dopo, improvvisa, la carica della polizia all’interno dell’edificio. Video di Maria Centuori, Corriere di Bologna Tv 9 febbraio 2017.
Caos all'Università di Bologna: la polizia ha sgomberato la biblioteca di Lettere, al 36 di via Zamboni, caricando due volte gli studenti dei collettivi asserragliati all'interno. Le proteste sono nate dopo che ieri gli attivisti hanno letteralmente "smontato" i tornelli voluti dall'Ateneo per regolare gli accessi in biblioteca. Oggi hanno deciso di occupare lo spazio, fino all'arrivo degli agenti in tenuta antisommossa. Uno studente è stato bloccato dagli agenti in tenuta antisommossa, durante la guerriglia in zona universitaria di oggi pomeriggio a Bologna. Gli scontri sono nati dopo l'occupazione della biblioteca di Lettere da parte dei collettivi, per protestare contro i tornelli che regolano gli accessi, e il conseguente sgombero della polizia. Video di Caterina Giusberti, Repubblica tv 9 febbraio 2017.
Bologna, protesta anti tornelli a Lettere, guerriglia in zona universitaria, scrive Maria Centuori su "Il Corriere della Sera", il 9 febbraio 2017. Scontri in via Zamboni, dopo il «sabotaggio» delle porte di sicurezza in biblioteca. L’Ateneo aveva chiuso l’accesso, i collettivi l’hanno riaperto. Poi, improvviso, l’arrivo del reparto mobile chiamato dall’università. Lanci di bottiglie e nuove cariche in piazza Verdi: due fermati poi rilasciati. I collettivi sfileranno venerdì in corteo alle 16. Scontri all’Università di Bologna: al culmine delle proteste dei collettivi contro i tornelli installati alla biblioteca di Lettere, la polizia è entrata all’improvviso nell’edificio di via Zamboni 36 e ha caricato. Gli attivisti parlano di feriti. Dopo giorni di proteste, e dopo che mercoledì i collettivi avevano sabotato nuovamente i tornelli sistemati all’ingresso della biblioteca, letteralmente smontando una grande vetrata, giovedì mattina l’Ateneo ha fatto trovare il portone chiuso. «Riaprire le porte dove loro le chiudono», è stato subito lo slogan di Cua, il collettivo universitario autonomo. Insieme al collettivo Lubo e altre sigle studentesche e a un centinaio di studenti, gli attivisti nel primo pomeriggio hanno riaperto le porte della biblioteca di Discipline umanistiche al 36. Lo hanno fatto dall’interno da un accesso degli altri spazi universitari. La biblioteca durante la mattinata è rimasta chiusa al pubblico, un cartello sulla porta comunicava recitava «per seguire le lezioni e sostenere gli esami nei laboratori piccolo e grande si entra da via Zamboni 34». «L’università oggi ha dimostrato cosa vuol dire interruzione di pubblico servizio, non si possono chiudere le porte di un luogo pubblico, non andremo via fino a quando l’Ateneo comunicherà qual è la propria intenzione sull’accesso alla biblioteca. Staremo qui anche di notte», rivendicavano a metà pomeriggio i ragazzi. Poi, verso le 17.30, dentro l’edificio è arrivata all’improvviso la polizia, chiamata dall’Ateneo, caricando. Le forze dell’ordine in antisommossa hanno fatto irruzione all’interno del 36, la biblioteca di Discipline umanistiche. C’è stata una prima carica all’ingresso che ha tentato di respingere gli studenti e gli attivisti che in quel momento erano all’interno degli spazi dell’Università, occupati dalle 14.30. All’interno il corri corri generale e un lungo parapiglia. L’ingresso del 36 è stato distrutto dagli scontri: piante e cartelloni divelti, panchine e sedie rovesciate e l’ingresso, quello dei tornelli più volte sabotati nei giorni scorsi, è diventato un tappeto di cocci. Un gruppo di ragazzi dopo la carica si è barricato all’interno dell’aula studio, e lì c’è stato un nuovo respingimento. È volata qualche manganellata e sono volate sedie. All’interno del 36 non è rimasto nessuno mentre un’ottantina di ragazzi e ragazze si è barricata all’interno del 38 e ha detto di volerci rimanere a oltranza. Le forze dell’ordine hanno respinto attivisti e studenti nel frattempo arrivati all’esterno di Lettere, in via Zamboni, fino a piazza Scaravilli e lì dopo un quarto d’ora di stallo c’è stata una nuova carica di respingimento, fino a via Belle Arti. Scontri anche in piazza Verdi dopo quelli nella Biblioteca di Lettere con barricate, lanci di bottiglie e nuove cariche delle forze dell’ordine. La protesta da via Belle Arti si è in seguito spostata nel cuore della zona universitaria, davanti al Teatro Comunale e i manifestanti hanno eretto barricate rovesciando le campane del vetro presenti tra la piazza e via Petroni. La polizia è partita con una lunga carica e ha sostanzialmente liberato la piazza. Molte persone si sono rifugiate nei locali per ripararsi dal lancio di oggetti e dalle manganellate. I ragazzi, una volta dispersi, si sono divisi tra largo Respighi, via Zamboni e via Petroni, che dopo gli scontri è rimasta tappezzata di cocci. Due persone sono state fermate, identificate e poi rilasciate. Saranno denunciate una volta accertate le posizioni di ognuno. Gli studenti universitari guidati dal Collettivo universitario autonomo si sono poi spostati sui viali e hanno sfilato per confluire di nuovo verso il centro di Bologna, creando forti disagi al traffico. Dopo aver attraversato via Rizzoli si sono radunati in piazza Nettuno, davanti alla Sala borsa. Gli studenti hanno dato appuntamento a venerdì, con una conferenza stampa alle 12 in piazza Verdi, e un corteo che partirà alle 16 sempre da piazza Verdi.
Guerriglia all'Università di Bologna: la polizia sgombera la biblioteca occupata. Le barricate degli studenti in zona universitaria a Bologna. Devastata aula studio dopo le cariche degli agenti e le barricate dei collettivi. Scontri in piazza, rovesciati cassonetti, tavoli e sedie. Persone nei locali per ripararsi dal lancio di oggetti. Le proteste nate dai "tornelli" per regolare gli accessi in facoltà. Salvini: "Zecche rosse in galera". Il caso in Parlamento, scrive Caterina Giusberti il 9 febbraio 2017 su "La Repubblica". Scontri e caos all'Università di Bologna, dentro e fuori le aule dell'ateneo. Gli agenti in tenuta antisommossa hanno sgomberato la biblioteca di Lettere, occupata dagli studenti dei collettivi dopo due giorni di proteste contro i "tornelli" che l'ateneo ha installato per limitare e controllare gli accessi. Biblioteca devastata. Al culmine di una giornata di tensione, la polizia ha caricato gli studenti e liberato l'aula, che alla fine è stata devastata dalla guerriglia, come mostrano anche i video realizzati all'interno. Gli agenti sono entrati nel palazzo di Via Zamboni 36, sede della biblioteca di Lettere, e ha fatto uscire gli occupanti, i quali hanno opposto resistenza anche barricandosi con sedie, banchi e panche, anche questi tirati fuori dall'edificio e al momento appoggiati sotto il portico. Violenti scontri in strada. Ma le proteste e gli scontri sono proseguite anche e soprattutto fuori dalle aule, lungo le vie del centro e infine in piazza Verdi, il cuore della zona universitaria. Lungo il corteo i manifestanti hanno lanciato più volte sanpietrini e altri oggetti contro la polizia, che ha risposto con le cariche, fino all'arrivo in piazza Verdi, quartier generale degli attivisti. Qui i manifestanti hanno rovesciato cassonetti, tavoli e sedie creando delle vere e proprie barricate, spazzate via dalle forze dell'ordine con violente cariche. Le reazioni, Salvini: "Zecche rosse in galera". Il caso in Parlamento. "Scontri fra polizia e "studenti" (zecche rosse dei centri a-sociali) all'università di Bologna, aule danneggiate, barricate e sassi contro gli agenti. Spero che qualche figlio di papà abbia avuto la lezione che merita e che certa gentaglia passi qualche giorno nelle italiche galere. Quanto farebbe bene la reintroduzione del servizio militare obbligatorio" dice il leader della Lega Nord Matteo Salvini. "Ancora scontri nella zona universitaria per colpa dei "soliti". Il questore inizi a dare i fogli di via a questa gente" dichiara Lucia Borgonzoni della Lega Nord. "Le cariche di polizia dentro una biblioteca universitaria sono un fatto grave e inaccettabile, persino inimmaginabile. Eppure è successo - scrive il parlamentare di Sinistra italiana Giovanni Paglia -credo che il ministero dell'Università e il ministero dell'Interno debbano dare delle spiegazioni". I tornelli smontati. La situazione è degenerata ieri, quando gli studenti dei collettivi (Cua e Labàs in particolare) hanno smontato con un cacciavite la porta a vetri al 36 di via Zamboni, portando pure i "resti" in Rettorato, in segno di sfida. Questa mattina la porta della biblioteca era stata sbarrata dall'ateneo, e i collettivi, per tutta risposta, sono entrati lo stesso, occupando dunque l'aula studio. "L'università vigliacca chiude il 36", recitavano i cartelli appesi dagli studenti, che si sono dati appuntamento lì di fronte per un'assemblea. "Il 36 torna libero. Chiediamo da subito che l'università ci dia delle risposte concrete" il messaggio dei collettivi universitari. Che annunciano: restiamo qui dentro finché qualcuno dell'ateneo non verrà a parlarci.
Teppistelli rossi e sovversivi, la verità: chi sono davvero (umiliati), scrive “Libero Quotidiano" il 10 febbraio 2017. Teppista ma con la paghetta di papà. E' questo il ritratto del sovversivo moderno tracciato da una ricerca dell'intelligence tedesca, il BfV (l'Ufficio Federale per la Protezione della Costituzione), e pubblicata dal settimanale Bild. Come riporta il Tempo, la ricerca analizza i reati a sfondo politico commessi a Berlino nel periodo dal 2009 al 2013. In tutto 1523 reati, la maggior parte dei quali compiuti da rappresentanti dell'estrema sinistra. Divertente, si fa per dire, sapere che il 92 per cento dei teppistelli vive ancora sotto lo stesso tetto di mamma e papà. Insomma, fuori temibili antifascisti, dentro cucciolotti e bamboccioni. Secondo la ricerca, il profilo del sovversivo è maschio (84%), di età compresa trai 18 e 29 anni (72%), studente o disoccupato (uno su tre), con istruzione bassa (34% licenza media, 29% diploma di maturità). I reati commessi dal contestatore antifascista di oggi sono violenza, aggressione, incendio doloso, resistenza a Pubblico ufficiale; più raramente tentato omicidio. Il suo obiettivo sono per lo più perso ne fisiche (60%), prevalentemente poliziotti ma non disdegna l'avversario di destra.
"Mai più un '68 a Bologna. Difenderemo i veri studenti". Il professore guida da due anni l'ateneo nel mirino dei centri sociali. Ieri nuovi scontri e cariche in piazza, scrive Nino Materi, Sabato 11/02/2017, su "Il Giornale". Il blitz dell'altroieri da parte della polizia era ormai inevitabile. Bisogna infatti ripristinare la legalità nella biblioteca di Lettere: un luogo di cultura che una minoranza di «autonomi» (riuniti nei collettivi Cus e Lubàs) pretendeva di tenere ostaggio del degrado. Sono gli stessi giovani che ieri hanno continuano a scontrarsi con la polizia dopo che giovedì sera le forze dell'ordine avevano liberato l'edificio di via Zamboni 36. Il giorno prima i più violenti avevano divelto i tornelli di accesso fatti installare dall'università. Nel corso dell'irruzione in biblioteca è volata qualche manganellata. Poi, dopo lo sgombero, gli scontri sono proseguiti in piazza Verdi in un clima che ha ricordato (ma, fortunatamente, molto alla lontana) le barricate sessantottine. Ieri il telefono del rettore, Francesco Ubertini, fuori Bologna per un impegno accademico, è stato bollente. Tutti a chiedergli se fosse «pentito» o «dispiaciuto». Nessuna intervista ufficiale, ma dal suo entourage filtra una posizione netta: «Il rettore è dispiaciuto, ma non pentito. Abbiamo dovuto chiedere l'intervento della polizia per tutelare gli studenti da una minoranza violenta che impediva loro di usufruire della biblioteca in maniera corretta». Ieri, in ateneo, anche una conferenza stampa con il prorettore Mirko Degli Esposti che ha risposto al fuoco di fila dei giornalisti. Una posizione comune concordata col rettore che ribadisce i concetti espressi nei giorni scorsi in un'altra conferenza stampa.
C'è chi sente aria di '68. Bologna deve preoccuparsi?
«No. All'Università non c'è nessun clima di violenza, ma esattamente l'opposto. Grande collaborazione tra rettorato, corpo docente e studenti».
Gli studenti sono infatti stati i primi a condannare i soprusi che avvenivano nella biblioteca di Lettere.
«Infatti si è deciso di far intervenire le forze dell'ordine proprio per tutelare gli studenti ai quali era stato sottratto un luogo di studio».
Ma vedere gli scontri tra giovani e polizia non è mai una bella scena.
«È vero. In questi casi è una sconfitta per tutti. Ma noi avevano fatto ogni sforzo per dialogare. Come risposta abbiamo trovato i tornelli d'ingresso divelti e una porta sradicata».
A questo punto avere chiamato la polizia.
«Non potevamo lasciare un patrimonio come quello della biblioteca in mano a queste persone».
La struttura ha subìto danni?
«È devastata: per ora resta chiusa e non so dire quando riaprirà. Valuteremo con calma».
Quando riaprirà?
«Lo faremo a tempo debito e nelle modalità giuste. Nell'interesse degli studenti. Quelli veri, che voglio studiare. E di cui l'Università di Bologna è orgogliosa».
Il rettore più giovane d'Italia che ha battuto i vecchi baroni. Quarantacinque anni, ingegnere perugino, si è imposto con una parola d'ordine: rinnovamento, scrive Nino Materi, Sabato 11/02/2017, su "Il Giornale". Da quando (era il primo novembre di due anni fa) Francesco Ubertini si è seduto sulla poltrona scomoda - ma prestigiosissima - di rettore dell'Alma Mater Studiorum di Bologna l'aria è cambiata. Decisamente in meglio. Ubertini è infatti l'esatto contrario di quanti lo hanno preceduto alla guida di uno degli atenei più antichi e blasonati d'Italia. Ubertini il «rinnovatore» contro il conservatorismo dei vecchi baroni. Già al momento dell'insediamento Ubertini ha già potuto contare su un «magnifico» record: essere, a 45 anni, il rettore più giovane del nostro Paese. Ma a Ubertini (docente di Scienza delle costruzioni ed ex direttore del Dipartimento di Ingegneria civile, chimica e ambientale), più che il record anagrafico, sta a cuore il record dell'efficienza e dalla modernità. Per questo ha deciso di puntare, senza compromessi, sul rinnovamento e sulla collaborazione degli studenti che rappresentano la principale risorsa del suo ateneo. E in questi primi due anni di attività, l'ateneo bolognese è rifiorito a nuova vita. Con l'intera città che pare averne beneficiato. Ottimi rapporti il rettore li ha anche con la procura, il sindaco e le forze dell'ordine. Ma in cima alle sue priorità restano sempre loro: gli studenti. Ed è proprio per tutelare questa componente fondamentale che il rettore ha chiesto che lo spazio della biblioteca di Lettera tornasse nella disponibilità degli studenti veri, quelli che studiano e di cui Ubertini è orgoglioso. È una Bologna che appare matura quella del day after. Rettorato, cittadini, procura e sindaco concordano con il blitz delle forze dell'ordine che giovedì sera hanno liberato l'edificio di via Zamboni 36. E oggi il 90 per cento degli studenti ringrazia il rettore. La biblioteca di Lettere era diventa infatti un incubo: impiegati e utenti minacciati, spaccio di droga, danneggiamenti, sporcizia; insomma il caos assoluto in un clima di anarchia e senso di impunità che avevano ampiamente superato il limite di guardia. Una situazione di cui avevano motivo di dolersi gli stessi studenti (quelli seri, cioè la maggioranza), stufi di imbattersi in presunti «colleghi» che bivaccavano birre, cani e spinelli. I padroni erano diventati loro, facevano quello volevano, compreso sradicare i due tornelli di ingresso che il rettore aveva fatto installare all'ingresso nel tentavo di monitorare minimamente gli ingressi in biblioteca. Un accesso libero ma che, opportunamente, l'università intendeva «filtrare» attraverso un badge rilasciato dall'ateneo. Ma tra gli studenti ci sono «mele marce» sono poche? «Smettiamo di chiamare studenti persone che con la nostra università non hanno nulla a che fare», ha detto ieri il prorettore in conferenza stampa.
Il rettore si piega ai violenti: via i tornelli dalla biblioteca. Dopo il contestato blitz della polizia, il senato accademico cede alle pressioni del ministro Fedeli. Vincono i black bloc, scrive Nino Materi, Venerdì 17/02/2017, su "Il Giornale". «Martedì quasi certamente si deciderà di riaprire la biblioteca, ma senza più installare i famigerati tornelli». A rivelarlo al Giornale è un autorevole membro del senato accademico che martedì ascolterà la relazione del rettore, Francesco Ubertini, sugli «incresciosi fatti» che da quattro mesi stanno avvelenando l'Università di Bologna. Si è cominciato a ottobre con gli scontri per la mensa a «prezzo autoridotto», si è proseguito con uno stillicidio di conflitti culminati due settimane fa con il clamoroso blitz della polizia chiamata dal rettore per «liberare» la biblioteca di via Zamboni 36 trasformata ormai in una piazza di spaccio: una struttura universitaria dove c'era gente che «andava a bucarsi», come ha anche ammesso il sindaco, Virginio Merola. Il rettore, impotente davanti a tanto degrado, aveva fatto istallare dei tornelli all'ingresso, prontamente divelti dai «pacifici» antagonisti del Cua (Collettivo universitario autonomo) che poi, due settime fa, se le sono date di santa ragione con i poliziotti che avevano fatto irruzione nell'edificio. Cariche che sono proseguite in piazza Verdi (territorio «autogestito» del movimento antagonista) ancora oggi presidiata da blindati di polizia e carabinieri. Intanto la biblioteca dello scandalo è stata chiusa: pare sia «devastata», ingentissimi i danni. La data della riapertura resta un mistero, anche perché pare che si vogliano prima «far calmare le acque». Tradotto: il portone rimarrà serrato ancora per molto. Ma, quando tornerà ad essere spalancato, quasi certamente non ci saranno più i contestatissimi tornelli della discordia che tutto questo caos hanno scatenato. Una retromarcia imbarazzante da parte dell'ateneo bolognese che voleva accreditarsi come apripista per un nuovo corso all'insegna della legalità e che invece si ritrova a venire a patti - se non a piegarsi del tutto - con chi la legge è abituato solo a metterla sotto i piedi. Una delusione enorme per una città, ma anche per tutti quegli studenti che nell'opera di «bonifica» del rettore più giovane d'Italia credevano davvero. Ora, invece, spunta l'ombra del bluff. Un dietrofront spacciato per «apertura al dialogo» (pare sollecitato anche dal ministro dell'Istruzione, Valeria Fedeli) che, se fosse confermato, finirebbe invece col veicolare un messaggio pericolosissimo: la prepotenza di chi ha sradicato i tornelli per poi scaraventandoli (a mo' di ulteriore prova di forza e arroganza) davanti al rettorato vince su chi deve far rispettare le regole. Insomma - esagerando (ma poi neanche tanto) - è il male che si impone sul bene. Per i collettivi sarebbe una vittoria storica. Riappropriarsi - senza più «barriere» - della biblioteca di Lettere vorrebbe dire avere zittito non solo il rettore, ma anche tutti quegli studenti che «pretendevano» di non imbattersi in spacciatori nelle sale e in siringhe sporche di sangue nei bagni; per non parlare delle minacce, dei furti e degli atti di vandalismo. Un inferno che aveva portato Ubertini a decidere di «filtrare» in qualche modo gli ingressi monitorando gli accessi attraverso il rilascio di un badge. Ora la biblioteca potrebbe riaprire all'insegna della deregulation più assoluta. Che poi significherebbe tornare al vecchio caos. Inutile chiedere conferma al rettore di Bologna. Dal lui arriva solo l'ennesimo «no comment». Anche all'indomani dell'irruzione della polizia al «36» di via Zamboni (una notizia che fu rilanciata con grande risalto dai tutti i media) il rettore decise di non partecipare alla conferenza stampa di «chiarimento». Come se la cosa non lo riguardasse.
Bologna, i collettivi linciano su Fb la bibliotecaria Emilia. Dopo la denuncia del degrado nella biblioteca di ateneo, l'autrice della denuncia, Emilia, viene linciata online dal rancore dei collettivi, scrive Ivan Francese, Lunedì 13/02/2017 su "Il Giornale". Emilia ha ventidue anni e molto coraggio. Perché ci vuole una bella dose di fegato a mettersi contro i collettivi universitari proprio all'interno di quegli atenei in cui i "kompagni" si comportano ancora come se fossero onnipotenti, denunciandone soprusi e degrado. E la giovane bibliotecaria dell'Alma Mater che ha detto "basta" allo scempio degli spazi di studio dell'ateneo felsineo ora si trova a dover pagare proprio per quel coraggio. Dopo gli scontri fra polizia e collettivi che protestavano per l'installazione dei tornelli, diverse testate hanno raccolto la testimonianza di una giovane impiegata dell'accademia, che ha svelato una realtà sconcertante. Siringhe, risse, furti e abusi sessuali: tutto all'ordine del giorno dopo la chiusura degli uffici, quando in università resta aperta solo la biblioteca. E i collettivi la fanno da padroni, mal sopportando chi, come Emilia, osa squarciare il velo di Maya su questo degrado silenziato dall'omertà. La bibliotecaria non ha fatto a tempo a denunciare la situazione in cui versa l'ateneo bolognese che subito è stata raggiunta da una ridda di insulti e parole minacciose proprio da parte di quei collettivi che non sopportano critiche ai propri abusi. La pagina personale della ragazza è stata bersagliata su Facebook dal Collettivo Universitario Autonomo, che l'ha messa nel mirino perché militante del Pd. Come se la legalità e il decoro fossero valori di una parte piuttosto che di un'altra. Nel dubbio, Emilia è stata definita "bugiarda e infame". Con tanto di foto segnaletica, come per una gogna dove esporla al pubblico ludibrio.
"Droga, sesso, violenze, furti: l'ateneo in balia dei collettivi". La bibliotecaria minacciata per aver denunciato il degrado nell'università di Bologna: "Una volta un tizio si è masturbato davanti a una ragazza", scrive Giovanni Neve, Lunedì 13/02/2017, su "Il Giornale". "Siringhe in bagno, spaccio e furti agli studenti. Oltre ai punkabbestia poi sono comparsi i collettivi anarchici: risse, minacce e insulti erano all'ordine del giorno". Emilia Garuti studia all'università di Bologna e fa il tirocinio alla biblioteca dell'ateneo. In una intervista al Corriere della Sera, Emilia racconta come è stata ridotta la biblioteca nei giorni degli scontri tra i collettivi studenteschi e le forze dell'ordine. "Un giorno - continua - un tizio si è masturbato davanti a una ragazza, all’interno della biblioteca, come se niente fosse. Lei è scappata fuori in lacrime mentre dentro scoppiava un pandemonio. Un’altra volta ho avvertito una ragazza che la stavano derubando: sono stata inseguita e minacciata di botte". Nell'intervista con il Corriere della Sera, Emilia Garuti racconta come le condizioni della biblioteca dell'università di Bologna siano degenerate nel corso del tempo. "La biblioteca nel corso degli anni ha prolungato i suoi orari, prima oltre le 17, poi fino alle 24 - spiega - uno sforzo compiuto proprio per garantire a tutti la possibilità di studiare. Ma dal pomeriggio il personale se ne va, restano solo i custodi". E in quelle ore le stanze diventano terra di nessuno. "O meglio - puntualizza Emilia - hanno cominciato a entrare i punkabbestia e gli altri gruppi che stazionano nella piazza lì davanti, facendo i loro comodi". Nei giorni degli scontri, oltre ai punkabbestia, sono comparsi i collettivi anarchici. "Sono cominciate le occupazioni, le assemblee, le risse tra gruppi rivali - continua Emilia Garuti - minacce e insulti erano all'ordine del giorno. Un inferno". Tutto il resto fa parte della cronaca della scorsa settimana. Quando i vertici dell'università di Bologna decidono di installare i tornelli all'ingresso della biblioteca, scoppia il putiferio. In un primo momento, gli antagonisti provano a sabotare i dispositivi installati all'ingresso, poi li smontano e occupano la biblioteca. A quel punto il rettore chiama la polizia che sgombera i collettivi di sinistra.
«Quella biblioteca era una piazza di spaccio». Racconto choc della direttrice della biblioteca dell'università di Bologna: «Far West tra violenza, droga, siringhe, furti e minacce», scrive Nino Materi, Domenica 12/02/2017, su "Il Giornale". Ci sono dei giovani fantasmi che si aggirano attorno all'Università di Bologna. Sono ragazzi che vorrebbero montare sulla macchina del tempo per fiondarsi nell'anno '68, quando la contestazione studentesca era una cosa drammaticamente «seria». Invece devono accontentarsi di vivere ai nostri giorni, illudendosi di ripetere quelle «mitiche» (almeno per Mario Capanna) lotte. Ma, come diceva Marx, la storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa. Ma anche le farse, a volte, possono (ri)trasformarsi in tragedie. E per questo bene ha fatto giovedì scorso il rettore dell'Alma Mater a chiedere l'intervento della polizia per sgomberare la biblioteca della facoltà di Lettera da un manipolo di studenti (?) antagonisti che l'aveva trasformata in un Far West senza legge, eccetto quella della prepotenza. A parlare di «Far West» non sono i «fascisti» nemici dei «comunisti» del Cua (Collettivo universitario autonomo) che quel «Far West» sono accusati di averlo creato, bensì una integerrima funzionaria statale, Mirella Mazzucchi, che da anni è la responsabile della biblioteca dello «scandalo» in via Zamboni 36. «Non capivamo le ragioni dei cassoni dello scarico sempre rotti, poi abbiamo trovato le graffette con le dosi e abbiamo capito» ha raccontato Mazzucchi a vari organi di informazione. Una situazione di degrado che si trascina da tempo: «Dal 2012 la nostra biblioteca si era trasformato in una piazza Verdi riscaldata (piazza Verdi è il tradizionale luogo d'incontro dei collettivi ndr). Ho ricevuto due minacce negli ultimi mesi, una volta perché era stata sorpresa una ladra con le mani nella borsa di una ragazza. I furti qui sono frequenti, l'ultimo di 1300 euro risale a poche settimane fa». E poi: «Abbiamo trovato bustine di droga nelle cassette dei bagni e siringhe per terra. Non ci sentiamo al sicuro e anche gli studenti hanno più volte chiesto di porre rimedio alla situazione». Insomma, la riprova che il problema della sicurezza è stato ala base della scelta di istallare i famigerati tornelli della discordia che, dopo essere stati divelti da quelli del Cus, hanno reso inevitabile il blitz della polizia; da quell'episodio sono scaturiti una serie di scontri tra giovani e forze dell'ordine che da giorni stanno infiammando Bologna. Ma gli studenti dell'aeneo hanno isolato del tutto i collettivi, schierandosi sulla linea della legalità voluta dal rettore: oltre 5 mila firme sono state raccolte in difesa dell'intervento della polizia che ha liberato la struttura di via Zamboni 36. Che però resta chiusa a oltranza, considerati gli ingenti danni provocati dai rivoltosi. «La biblioteca è devastata, ma il danno maggiore è per tutti noi che ci lavoriamo e per tutti gli utenti ai quali è stato sottratto un luogo di studi», testimonia Mazzucchi. E la delusione è tangibile anche tra numerosissimi studenti: «Un gruppo di esterni molto politicizzato aveva trasformato questo luogo in un centro sociale, stravolgendo completamente la funzione culturale della biblioteca - ci dice Laura, terzo anno della facoltà di Lettere -. Qui ormai si mangiava, si beveva birra, si sentiva musica ad alto volume, si dormiva, si portavano addirittura i cani. Per non parlare dei furti, delle intimidazioni, dei vandalismi e della droga. Gli accessi controllati dovevano servire a ristabilire un minimo di sicurezza e normalità. Ma le cose, alla fine, sono andate come tutti hanno visto: tornelli divelti, porte sfondate, cariche della polizia e biblioteca chiusa per inagibilità. Intanto fuori le cariche della polizia continuano e il Cua annuncia: «Zamboni 36, parola d'ordine: sabotaggio sempre». Il futuro è nero. Anzi, rosso.
Bologna: "Io, intimidita sul web per le denunce sulla violenza in biblioteca". Il racconto di Emilia Garuti, studentessa di Lettere e tirocinante: "Ho assistito a furti e a risse. E un giorno una ragazza è venuta da noi in lacrime, perchè era stata pesantemente molestata". Il Cua la attacca su Facebook: "Hanno messo una mia foto con la scritta 'Eccola', per intimidire", scrive Caterina Giusberti il 13 febbraio 2017 su "La Repubblica". "Voi lì non c’eravate. Voi che parlate di libertà e rivoluzione non avete visto cosa succede alla biblioteca di via Zamboni 36. E io sono una di sinistra". È durissima l’invettiva che Emilia Garuti, studentessa di Lettere e consigliera Pd a Rolo, ha scritto venerdì su Facebook. Ha solo ventidue anni, ma ha già pubblicato un libro, che si intitola “Le anatre di Holden sanno dove andare” e parla della difficoltà dei giovani a diventare grandi. Negli ultimi anni nella biblioteca di via Zamboni 36 non ha solo studiato, ma anche lavorato, lo scorso anno. Per queste parole, il Cua ha attaccato Garuti su Facebook: "Questa sedicente studentessa, che ha fatto il giro del web, pare farsi portavoce della versione più accreditata dagli studenti in merito alla “situazione 36”. "Scrutando un po’ lo stesso web a lei (e a tanti altri sciacalli) molto caro, si scopre che la studentessa fa parte della segreteria regionale del Partito Democratico, nel ruolo di, guarda un po!, responsabile alla legalità! Nessuno è più di sinistra di te, ma per piacere, proprio tu che stai al soldo di Poletti". E lei denuncia: "Hanno messo un post su Facebook con il mio volto e la scritta "Eccola", che sembra "Wanted", un tentativo di intimidazione. Hanno chiesto se il Pd mi paga, ovviamente no. Io comunque non me la prendevo con loro (gli attivisti del Cua, ndr) ma con il degrado della biblioteca".
Garuti, cosa ha provato vedendo le immagini della biblioteca distrutta?
"Molta rabbia: le persone non sanno minimamente cosa succede lì dentro".
E che cosa succede al 36?
"Ci può entrare a chiunque, soprattutto i “punkabbestia” che vivono sotto ai portici del Teatro Comunale. La scorsa primavera, quando ho fatto tirocinio lì, un tizio è entrato, si è masturbato su una ragazza seduta accanto a lui, poi è uscito. Lei si è messa a urlare, è venuta da noi al front desk in lacrime".
Ricorda altri episodi?
"Un’altra sera hanno fatto una rissa, spaccando le vetrine che separano l’ala ingresso da quella ristoro. E una mattina, quando stavo iniziando il turno, ho visto uno sfilare di tasca il cellulare ad una ragazza. Ho urlato per avvertirla e lui mi è venuto addosso, minacciando di picchiarmi".
Era d’accordo con l’idea dei tornelli all’ingresso, allora.
«I tornelli non erano per quelli del Cua, ma per tenere fuori il degrado. Se gli autonomi trovassero una maniera non violenta per controllare la situazione ben venga: la verità è che non li ho mai visti occuparsi del problema. L’Università usa mezzi disperati per una situazione disperata».
I collettivi dicono di rappresentare voi studenti.
"Appunto. E noi siamo stufi che parlino per noi, non ne possiamo più, non è questo il modo. Usano parole come “libertà” e “rivoluzione” senza sapere minimamente cosa significhino. Si dicono di sinistra ma ci impediscono di essere liberi, non hanno rispetto per gli altri, usano la violenza, sono anarchici nel senso peggiore del termine. Mi fa tutto molta rabbia".
Come andrà a finire?
«Finirà che tra qualche giorno si smonterà tutto, quelli del Cua troveranno un altro motivo per cui fare casino e si dimenticheranno dei tornelli. E il degrado in via Zamboni continuerà».
Scusi ma lei perché continua a frequentarlo, il 36?
"Perché Lettere è una facoltà che mi piace, i professori sono bravi e si respira davvero un bel clima, di giovani che possono fare qualcosa. C’è energia, speranza nelle persone che incontri. Peccato per tutto il resto".
«Io, bibliotecaria minacciata per aver denunciato droga e violenze in Ateneo a Bologna». La tirocinante: si viveva tra siringhe in bagno, spaccio e furti. «Una volta è successo che un tizio si è masturbato davanti a una ragazza... Un’altra ho avvertito una ragazza che la stavano derubando: sono stata inseguita e minacciata di botte», scrive Claudio Del Frate il 12 febbraio 2017 su “Il Corriere della Sera”. «È successo anche questo: un giorno un tizio si è masturbato davanti a una ragazza, all’interno della biblioteca, come se niente fosse. Lei è scappata fuori in lacrime mentre dentro scoppiava un pandemonio. Un’altra volta ho avvertito una ragazza che la stavano derubando: sono stata inseguita e minacciata di botte». Storie di tutti i giorni negli spazi della biblioteca della facoltà di Lettere a Bologna, negli stessi luoghi che nei giorni scorsi sono stati teatro dei tafferugli tra i collettivi studenteschi che occupavano i locali e imponevano la loro legge e le forze dell’ordine. Emilia Garuti, 22 anni, per aver reso pubblico quello che in tanti sapevano ma tacevano, è diventata subito bersaglio di dileggio e velate minacce. Da ieri nella sua pagina Facebook vengono «depositate» frasi e giudizi poco rassicuranti. «Spero di non dover cambiare le mie abitudini di vita, per questo». In realtà non è sola. Le ultime violenze sembrano aver compattato un fronte di studenti e personale universitario che ha deciso di dire basta. Una petizione in questo senso sul sito «change.org» ha raccolto in poche ore 6.500 adesioni e altri, dopo Emilia, hanno deciso di far sentire la loro voce. A dispetto di quanti, ad esempio la Cgil di Bologna o altre associazioni, hanno criticato l’intervento della polizia nei locali dell’università e altre misure di scurezza. «Ma se queste persone passassero qui una sola mattinata, vi garantisco che cambierebbero idea al volo». Emilia ha un legame particolare con la biblioteca di Lettere: la frequenta assiduamente in quanto iscritta alla facoltà di arti visive. Ma per quattro mesi ha svolto lì dentro anche un tirocinio come bibliotecaria, per ottenere crediti formativi; quegli spazi, insomma, sono un po’ una sua seconda casa. E allora proviamo a descrivere l’aria che tira. «La biblioteca nel corso degli anni ha prolungato i suoi orari, prima oltre le 17, poi fino alle 24. Uno sforzo compiuto proprio per garantire a tutti la possibilità di studiare. Ma dal pomeriggio il personale se ne va, restano solo i custodi. E in quelle ore le stanze diventano terra di nessuno. O meglio: hanno cominciato a entrare i punkabbestia e gli altri gruppi che stazionano nella piazza lì davanti, facendo i loro comodi». Da lì poi, per chi vuole dedicarsi ai libri, la situazione diventa insopportabile: «I bagni vengono usati come luoghi di spaccio o per drogarsi — racconta Emilia — più volte sono state trovate siringhe usate e i servizi sono rimasti chiusi per giorni. I borseggi e i furti sono all’ordine del giorno, i materiali della biblioteca danneggiati, persino i libri». E quando il rettorato decide di introdurre misure di controllo, ad esempio facendo arrivare guardie giurate, la situazione peggiora: «Oltre ai punkabbestia — racconta ancora la studentessa — sono comparsi i collettivi anarchici: sono cominciate le occupazioni, le assemblee, le risse tra gruppi rivali; minacce e insulti erano all’ordine del giorno. Un inferno». Il culmine viene raggiunto quando l’ateneo bolognese si convince a installare dei tornelli all’ingresso della biblioteca: chi entra, deve avere un badge. È cronaca dei giorni scorsi: prima gli antagonisti decidono di sabotare i dispositivi all’ingresso, poi li smontano e occupano la biblioteca. A quel punto il rettore chiama la polizia e fa sgomberare i locali con la forza. Gesto che non suscita in città reazioni unanimi, diciamo così: vengono rievocate le atmosfere del ‘77, la Bologna del sindaco Zangheri che diventa un campo di battaglia, la repressione ordinata da Cossiga. Altri tempi. Più banalmente la biblioteca e i suoi frequentatori sono ostaggi di una ventina di persone, non di più. «Anche noi studenti avremmo fatto a meno di vedere i poliziotti fare irruzione — confessa ancora Emilia — ma al punto a cui eravamo giunti, che alternative c’erano? I collettivi ci dicono che deve essere garantito il diritto allo studio, ma loro sono i primi a negarcelo, impedendoci l’uso della biblioteca, spaccando tavoli e strappando i libri che altri hanno contribuito a pagare. Troppo comodo criticare i tornelli e le misure di sicurezza appellandosi a principi astratti. Calatevi nella realtà e poi ne riparliamo».
Bologna, il sindaco: "In biblioteca la gente si bucava. Dai collettivi comportamenti da delinquenti". Merola durissimo dopo le barricate in zona universitaria: "Basta alla politica fatta con la violenza". Sinistra italiana, interrogazione a Minniti: "Perché la polizia è stata così aggressiva?". Salvini: "Idranti in piazza Verdi". Cortocircuito in ateneo sulla chiusura delle aule studio, scrive "La Repubblica" il 14 febbraio 2017. "Sono comportamenti violenti, da delinquenti. Mi fa piacere che finalmente il grosso degli studenti abbia preso le distanze da questa storia". Il sindaco di Bologna, Virginio Merola, torna a condannare il comportamento dei collettivi universitari, Cua in particolare, al centro della guerriglia dei giorni scorsi attorno a piazza Verdi dopo lo sgombero del "36" di via Zamboni. Il primo cittadino ne ha parlato questa mattina su Radio24. "Quello che sta avvenendo è il risultato finale di persone che pensano di fare politica dicendo "questo territorio lo controllo io". Finalmente a Bologna dopo tanti tabù c'è una procura che interviene facendo la propria parte: ci sono pendenti centinaia di procedimenti che molto spesso finiscono in prescrizione. Con il nuovo procuratore si sta dando una svolta e questo è molto importante. Il rettore a malincuore ha dato l'ok all'intervento in università. E' la prima volta dopo tanti anni che la polizia entra all'università, ma mi metto nei panni del rettore". Del resto, osserva Merola, "queste sono persone che vivono quando vengono represse. I tentativi di dialogo sono stati fatti continuamente, a questo punto bisogna prendere atto che hanno scelto come metodo la violenza, il sopruso e la prevaricazione". E ancora: "Una biblioteca dove, approfittando degli studenti, entrano spacciatori e persone che si bucano non si può tollerare. Io mi auguro che Bologna sani un po' le sue ferite". Sotto le Due torri "qualche volta succede qualcosa e i giornali tirano fuori il 1977. Ma stiamo parlando di 40 anni fa. Qui abbiamo persone che pensano di fare politica attraverso la violenza. Questo non si può accettare". Per Merola, insomma "è una questione di elementare democrazia. Non si può pensare che con la violenza uno possa fare quello che gli pare".
Il caso al governo. Per quale motivo le forze dell'ordine non hanno cercato "il dialogo necessario a stemperare la tensione che evidentemente si era venuta a determinare nei giorni scorsi"; su quali presupposti "di fatto e di diritto" il rettorato dell'Università ha chiesto il blitz degli agenti; e soprattutto: per quale motivo le forze di polizia hanno "adottato metodi tanto aggressivi in un luogo così palesemente inadatto, tanto dal punto di vista della funzionalità quanto del carico simbolico, anche considerando che al momento dell'intervento era frequentata da studenti". Sono le tre domande su cui i deputati di Sinistra italiana esigono risposte dal ministro dell'Interno, Marco Minniti, e da quello dell'Università, Valeria Fedeli.
Salvini: "Idranti in piazza Verdi". Il leader della Lega Nord Matteo Salvini si scaglia nuovamente contro i collettivi, chiedendo uno "stop ai delinquenti nell'Università di Bologna", e la "chiusura immediata dei centri sociali, coacervo di violenza che molti a sinistra continuano a giustificare". Annuncia "agli amici bolognesi che ci vedremo presto in piazza Verdi". In particolare, il segretario del Carroccio insiste sulla necessità di "mandare in galera chi commette reati", sottolineando come finora, "a fronte di quasi 4.000 denunce non ci sia stato nemmeno un processo e una condanna, mentre quel poco che è iniziato è finito in prescrizione. Sono intollerabili violenze dei figli di papà contro l'università e contro tutti gli studenti per bene, moltissimi dei quali ci hanno scritto per chiedere aiuto. Ripuliamo la città, e riprendiamoci piazza Verdi con gli idranti e le retate".
Cortocircuito biblioteche. Nel pomeriggio cortocircuito sulle biblioteche della zona universitaria, con la Paleotti che viene prima chiusa poi riaperta attorno alle cinque per ragioni di sicurezza. Idem la Bigiavi di via Belle Arti. "Ordini del rettore, sicurezza preventiva". fa sapere il personale all'ingresso. Ma dall'ufficio stampa dell'Ateneo negano: "La chiusura con un'ora di anticipo è dovuta ad un aggiornamento dei cataloghi, programmato da tempo".
Bologna, la verità degli agenti: "Così i collettivi ci hanno bersagliato". Sinistra Italiana e Cua contestano il blitz ordinato dal questore: "Inammissibile". Un poliziotto che ha partecipato allo sgombero: "Hanno lanciato di tutto", scrive Giuseppe De Lorenzo, Mercoledì 15/02/2017, su "Il Giornale". C'era anche lui giovedì sera nella squadra di poliziotti che ha sgomberato la biblioteca della facoltà di Lettere dell'Università di Bologna. Paolo, il nome è di fantasia per proteggerne l'incolumità, ricorda bene quei momenti: l'ingresso in ateneo, la reazione dei collettivi, il lancio di oggetti e la successiva guerriglia in strada. Scene di ordinaria follia. La vicenda è nota. Un manipolo di studenti, o presunti tali, la settimana scorsa occupa l'aula per protestare contro la decisione di installare dei tornelli all'ingresso. Evidentemente annoiati dagli studi, pensano di avviare una contestazione per riaffermare chissà quale libertà negata. Quando il Rettore, Francesco Ubertini, chiede al questore di liberare la facoltà dal Collettivo Universitario Autonomo (Cua), Paolo e gli altri eseguono gli ordini. "All'inizio - spiega l'agente - gli studenti normali sono usciti senza problemi. Poi però il Collettivo ha reagito con violenza, lanciandoci addosso di tutto. Ci hanno bersagliato". Altro che irruzione con "metodi aggressivi", come denunciato da Sinistra Italiana nell'interrogazione presentata al ministro Minniti. In un secondo momento gli scontri si sono spostati nella piazza antistante la sede universitaria: "Sono entrati nel portone successivo, il 38, hanno portato fuori dei mobili per accatastarli sotto al portico. Poi hanno rovesciato le campane di raccolta del vetro per trovare bottiglie e batterie da scagliarci contro. A quel punto siamo stati costretti a spingerli indietro". Nei giorni successivi il Cua si è dato appuntamento in biblioteca per riparare "i danni causati dall'irruzione della Polizia". Checché ne dicano i loro rappresentanti, però, i primi a ribaltare sede e tavoli non sono stati gli agenti. Ma loro. "Ci hanno scagliato contro qualsiasi cosa trovassero, pure i libri. Noi non siamo entrati per distruggere qualcosa o per provocare. Ho letto molte cose in questi giorni, tutte false". Il passato a Bologna conta molto. E non parliamo del famoso '77 del cui fantomatico ritorno tanto si discute oggi, ma dei numerosi episodi di violenza contro le forze dell'ordine realizzati periodicamente da anarchici, collettivi e centri sociali. "L'ordine pubblico a Bologna è difficile da gestire", spiega Paolo. "Piazza Verdi chiede sempre la massima attenzione, tra spacciatori, ubriachi e malviventi. Se una pattuglia interviene per sedare una rissa, c'è sempre il pericolo che venga accerchiata". Col rischio di lasciarci le penne: "Il timore è che qualcuno perda la testa e vada oltre il lancio di oggetti. È successo e può succedere. In quei momenti non pensi alla morte, ma lo sai bene che ogni bottiglia o bomba carta può diventare l'oggetto che ti uccide". Sui muri di via Zamboni non si contano i graffiti con insulti alla polizia. Il motto "All Cops Are Bastard" è il classico esempio di quanto siano odiate da quelle parti le forze dell'ordine. "Il loro primo nemico siamo noi", sorride amaro Paolo. Non bisogna stupirsi allora se le manifestazioni finiscono in rissa. I facinorosi "recidivi" sono ben noti agli investigatori, ma nessun giudice ha mai emesso un foglio di via contro chi negli anni ha collezionato più denunce che esami. Così ogni tornello, ogni visita di Salvini o di qualche altro politico diventa occasione buona per menar le mani. "Sempre la stessa storia: i manifestanti cercano di forzare il cordone a difesa del politico di turno, noi li blocchiamo e loro iniziano a lanciarci addosso di tutto. Vi assicuro che le pietre di porfido sono pericolose, così come le bombe carta che esplodono sotto i nostri piedi. Chi non l'ha mai provato non può capirlo: quando ci troviamo sotto una pioggia di oggetti, non bastano gli scudi. Siamo costretti a caricare. Non è vero che manganelliamo gli studenti, né che siamo noi i primi ad attaccare. I collettivi fanno le vittime, ma sono dalla parte del torto".
Black bloc, settimana corta. Rivoluzione fino al venerdì. Poi si va in pausa-weekend. Scontri, assemblee, volantinaggi, striscioni, slogan e cortei. Ma soltanto nei giorni feriali, scrive Nino Materi, Lunedì 20/02/2017, su "Il Giornale". Gli antagonisti dell'Università di Bologna odiano i tornelli all'ingresso della biblioteca della facoltà di Lettere, ma «timbrano» regolarmente il «cartellino». Da lunedì al venerdì. Perché il weekend è sacro anche per i «rivoluzionari»: una congerie di anarco-figli di papà che nei primi cinque giorni della settimana si dilettano in assemblee, occupazioni e scontri con la polizia, per poi riposarsi il sabato e la domenica. È la figura, un po' patetica, da barricadero impiegatizio, che emerge dall'analisi del materiale sequestrato dalla Digos in casa degli ultrà del Cua (Collettivo universitario autonomo) arrestati per gli scontri con la polizia durante il blitz al «36» in via Zamboni. Un'irruzione sollecitata dall'ateneo perché ormai in quella biblioteca avveniva di tutto: spaccio di droga, furti, minacce, atti vandalici. «Lì c'era gente che andava per bucarsi» (Virginio Merola, sindaco di Bologna, dixit); «Giovani predisposti alla violenza (...)» (tratto dall'ordinanza di conferma degli arresti). Ma torniamo agli appunti pseudo-insurrezionalisti ritrovati dalle forze dell'ordine nelle case medio-borghesi dei travet della contestazione dei giorni feriali. Nei festivi, infatti, cortei e manifestazioni risultano subire una sospetta pausa di riflessione, come fosse un rigenerante pisolino postprandiale in attesa di riabbuffarsi a colpi di slogan contro la «repressione di Stato». Dura la vita dell'autonomo professionista che emerge dal decalogo elaborato dai cervelli del Movimento studentesco: si comincia il lunedì con «volantinaggio in piazza Verdi» (la piazza che sta agli antagonisti come Lourdes sta alla Madonna); si prosegue il martedì con «assemblea in aula magna»; si arriva al mercoledì con «richiesta dimissioni di rettore e questore»; giovedì «preparazione striscioni e slogan per corteo»; il clou è venerdì con «scontri e attività di controinformazione». Gli «scontri» sono quelli con la polizia, mentre la «controinformazione» è quella contro i «giornalisti di regime». Quale «regime»? Boh. Ma dopo ben cinque giorni di indefesso «lavoro», ecco arrivare, meritatissimo, il weekend del guerriero: riposo interrotto, al massimo, per mettere giù la bozza del programma della settimana successiva. Che poi è, sostanzialmente, identica a quella appena trascorsa: volantinaggio, assemblea, richiesta di dimissioni, manifesti, scontri. Un attivismo inversamente proporzionale al mutismo assoluto che in questi giorni sta caratterizzando la strategia comunicativa (o meglio, incomunicativa) del rettore Francesco Ubertini che - dopo aver avuto il coraggio di installare i tornelli al «36» e aver sollecitato l'intervento della polizia contro chi li aveva divelti - pare ora intenzionato a un clamoroso dietrofront, riaprendo la biblioteca dello scandalo priva senza i contestati tornelli. Se davvero fosse così, passerebbe un messaggio pericolosissimo: la violenza vince sulla legalità.
Fiera di mia figlia che delinque, scrive Concita De Gregorio il 19 febbraio 2017 su “La Repubblica”. Bologna. Scontri di piazza fra studenti e polizia durante le proteste per i tornelli “da banca” fatti mettere dal rettore Francesco Ubertini al 36 di via Zamboni, la biblioteca di Discipline umanistiche: i tornelli consentono di entrare solo chi sia in possesso di badge. Tornelli “neo-liberali”, “tornelli Gelmini” nelle cronache dei collettivi. Il 36 è luogo “aperto” della città, “luogo d’incontro e di diritto allo studio” – scrivono gli studenti di Univ-Aut sul sito dell’Antagonismo universitario. “E’ un luogo dove entrano persone che spacciano e si bucano”, replica il sindaco Virginio Merola, Pd, che appoggia il rettore. Due ragazzi arrestati per “forte propensione a delinquere”, parole del giudice Roberto Mazza, moltissimi identificati dai filmati e “attenzionati” dalla polizia. Molte lettere. Tra tante quella della madre di Ilaria, 19 anni, di Cremona, fuorisede a Bologna, matricola a Filosofia. Si definisce “la madre di una delinquente”, avverto istintiva diffidenza. L’intervento dei genitori (certi genitori) a tutela dei figli è spesso per i ragazzi una sventura aggiuntiva. Quei padri che alle elementari si riuniscono perché imparare a memoria le tabelline per i bambini è stressante, alle medie si parlano in chat tutto il giorno facendo un caso di ogni infantile parola, alle superiori vanno a portare le palle di Natale per l’albero, durante l’occupazione. Se i genitori togliessero le mani. Chiamo dunque Marina Ricci con qualche diffidenza. Ha scritto: “Giornali e tv danno notizie distorte di quello che sta succedendo. Quando ho visto la brutalità delle cariche e della irruzione della celere in biblioteca ho provato per un attimo dolorosissimo il desiderio, da madre che vuole proteggere l’incolumità fisica della sua “bimba”, il desiderio di avere una figlia “al sicuro”, una che pensi ai propri interessi e si preoccupi solo di quelli. Sono invece felice che mia figlia si associ a delinquere con altri che sanno alzare la testa dai libri pur amandoli come lei li ama”. E’ una frase cruda, ne parliamo a lungo al telefono. Marina Ricci è medico, neuropsichiatra dell’età evolutiva. Contraria, certo, a ogni forma di violenza. Sua figlia non fuma neppure tabacco, studia con profitto, vuole fare l’insegnante. Ha frequentato il liceo classico e un centro sociale, a Cremona. In entrambi i luoghi circolavano droghe, forse al liceo di più, dice. I venditori si arricchiscono nell’illegalità, sono ovunque ci siano consumatori: fuori e dentro le scuole, le università, le discoteche, i concerti sulla spiaggia. Qualcuno vende qualcuno compra, qualcun altro no. Dipende da come sei fatto, da chi sei: nessun tornello impedisce lo spaccio. In piazza Verdi, fuori dalla Facoltà, c’è la polizia e ci sono gli spacciatori. Non barriere fisiche ma culturali è quello che dobbiamo costruire. Le alternative esistenziali al senso di smarrimento che causa qualunque dipendenza. Dice Marina: “Sono spaventata e orgogliosa insieme. Temo per mia figlia, certo, ma sono fiera che sappia combattere contro un sistema che vuole ragazzi passivi consumatori di università-azienda e biblioteche-banche. Sono fiera che abbia la passione di pretendere un mondo che apre, non chiude”. Ha ragione Marina. La passione è un antidoto più potente dei tornelli. Non è la droga che genera il vuoto, è il contrario.
Concita e le mamme cattive maestre di pessimi studenti. Così la De Gregorio difende l'indifendibile, scrive Nicola Porro, Lunedì 20/02/2017, su "Il Giornale". Avete presente quel film di Verdone, in cui lei masticando la gomma americana, figlia dei fiori stile anni '70, dice strascicando la voce a un favoloso Mario Brega: fascista...e lui risponde agitando un doppio pugno: «Io so' communista cosí». Avete presente? Se ve lo foste dimenticato, leggetevi le letterine di Repubblica curate da Concita de Gregorio, e ritornate in quel clima. Brava, a essere onesti, nello scovare le debolezze di Fedez, comunista col Rolex, che firma autografi solo dietro prova di acquisto. Ieri Concita ci ha portato a Bologna. La storia la conoscete. Il rettore mette dei «tornelli» all'ingresso della biblioteca, e nel contempo ne amplia gli orari di apertura. Bibliotecari e utilizzatori della biblioteca ne sono ben contenti. Quel posto era diventato un casino, tra punkabbestia e droghette nei bagni. I collettivi e qualche studente (secondo la polizia, sono una minoranza) si ribellano e occupano tutto. Fanno quello che fanno sempre i collettivi di sinistra, occupano ciò che non è loro. E se infastiditi, si buttano a terra piagnucolando e fingendo il fallo da rigore. Il rettore, per una volta, invece di mollare la presa, chiama la polizia, che fa il suo mestiere e sgombera. Qualche fermo, alcuni identificati. E così arriviamo alla madre di Maria, studentessa di Cremona di anni 19, matricola di filosofia. A Concita, dice di essere orgogliosa di una figlia «delinquente» e si dice «felice che combatta contro un sistema che vuole i ragazzi passivi consumatori di un'università azienda e biblioteche banche». Intanto verrebbe da chiedersi se abbia scoperto una macchina del tempo che l'ha teletrasportata da una comune degli anni '70 a oggi. Concita si fa comunque convincere. In fondo combattere contro un sistema è sempre chic. Ma qui non c'è Stalin, non c'è Castro (ah no, forse quello le piaceva), c'è un rettore che tutela il diritto allo studio. Non tutti hanno una madre come Maria, che fa il medico, il neuropsichiatra; ci sono anche studenti che non hanno mammà che paga i conti e per i quali studiare non è un hobby. Per loro il «sistema» è quello dei collettivi che parlano di biblioteche-banche, mentre loro in banca sperano di lavorarci. Per loro il «sistema» è quello dell'università-parcheggio in cui le tante Marie possono restare a vita, mentre loro hanno bisogno di entrare in azienda, quella tanto odiata dalla mamma di Maria, il prima possibile. Per loro le mamme sono come quella mamma di Baltimora che divenne celebre perché, ripresa dalle telecamere, diede uno schiaffone al figlio Michael che lanciava pietre alla polizia. «Vai a studiare, invece di fare il teppista». Da noi la mamma è sempre la mamma. E invece di spiegare a sua figlia che i luoghi pubblici non si occupano e che regolamentare l'accesso a una biblioteca pubblica non è un assalto al diritto allo studio, vuole spiegare a noi che la figlia sta combattendo un sistema liberticida. Ma de che? A communista. Con due emme come quelle del romanaccio Mario Brega, ma senza la sua simpatia. Garantito che questa mamma e sua figlia ce le troveremo a manifestare contro il prossimo governo, di qualsiasi colore esso sarà, per la disoccupazione giovanile al 40 per cento.
Bologna, annuncio razzista: "Non si affitta agli africani". Una bacheca di annunci in università. La storia denunciata da una studentessa del Camerun in cerca di una stanza in città: "Da non credere, mi ha fatto davvero male". Gli autori dell'annuncio: "Ci dispiace, non volevamo offenderla", scrive Ilaria Venturi il 3 febbraio 2017 su "La Repubblica". "Da non crederci". Sandra Vero Kameni, 23 anni, studentessa universitaria venuta dal Camerun quattro anni fa, non trova le parole. Da due anni a Bologna, si è messa in cerca di una stanza tutta per sè. E l'aveva trovata, a Borgo Panigale, in periferia. Ha risposto all'annuncio, ha preso contatti ed è andata a vederla. "Ti facciamo sapere", la risposta. Poi più nulla. Il giorno dopo la sorpresa: quello stesso annuncio, pubblicato sul sito "Subito.it" era stato modificato con una frase in fondo: "Sì russi ecc...no africani". Poi, dopo le rimostranze degli amici della ragazza, è stato cancellato. Rimane la ferita per un episodio di razzismo nella città universitaria. La storia è stata resa nota da un servizio pubblicato sulla rivista Left. Sandra Vero vive a Bologna, ma studia Economia aziendale all'università di Modena-Reggio Emilia. Ospitata prima in un alloggio della Caritas ed ora da un'amica, la giovane aveva deciso di trovare una stanza. "Studio e faccio qualche lavoretto, ora sto cercando anche un lavoro più stabile per mantenermi", racconta. "Ero in biblioteca, guardando gli annunci ho risposto a quello di una stanza a Borgo Panigale". Costo: 290 euro, spese comprese. Sandra Vero chiama, si mette d'accordo con una ragazza per vedere l'appartamento quella sera stessa. "Ero in autobus e già la ragazza al telefono mi aveva anticipato: ma ho un cane, è lo stesso? Ma così lontano dal centro ti va bene? Sì, sì, studio a Modena, per me la posizione è anche più comoda, arrivo e ne parliamo". Una volta arrivata la ragazza che l'accoglie le mostra la camera e le richiede se il suo cane pitbull le dà fastidio. "Ho notato un certo imbarazzo, forse perchè non si immaginava la mia pelle nera, il mio nome l'avrà confusa. Poi però non ci ho fatto più caso. Tutto ok, ho risposto, per me la stanza va bene, se è libera la prendo". "Aspetta, è venuta una ragazza stamattina a vederla, ti faccio sapere". Sandra Vero se ne va. "Il giorno dopo, alla sera - continua - non ricevendo risposta mi metto a cercare altri annunci e cosa vedo: quello stesso annuncio ripubblicato con la scritta 'no africani'. Ci sono rimasta malissimo, mi sono sentita male, ero stanca e arrabbiata, senza nemmeno la forza di reagire". La giovane si confida con gli amici, uno di loro chiama l'appartamento per protestare contro quell'annuncio razzista e si sente rispondere che "è colpa dei coinquilini che non hanno voluto". Dal portale l'annuncio è stato tolto. Sandra Vero ha però trovato il coraggio di denunciare. "Tanti anni che sono in Italia non mi era mai capitata una cosa del genere. Solo una volta, mentre stavo camminando in centro a Bologna, in via dell'Indipendenza, una signora mi ha insultato: 'sporca negra'. Io mi sono messa a ridere, che dovevo fare?". Stavolta la storia non è passata sotto silenzio. La ragazza che le ha mostrato la stanza libera nell'appartamento si scusa. "Vorrei parlarle, è vero abbiamo modificato l'annuncio, ma non era contro di lei. Ha la mia età, non ero imbarazzata per il colore della sua pelle, figuriamoci. Capisco che non bisogna fare discriminazioni, ma io volevo evitare telefonate di uomini, anche marocchini. Insomma, mi dispiace, l'annuncio dopo un paio di ore l'abbiamo tolto, non è bello scrivere così, lo sapevamo anche noi. Ma non volevamo offenderla".
Ma per i poveri cristi meridionali questo non è voto si scambio mafioso? Bologna - Per Affittopoli, "Il Tempo Passa. La Prescrizione Avanza", scrive l'11 novembre 2008 l'agenzia "Dire". Torna l'ombra di "Affittopoli" su Bologna. Questa volta per mano degli Amici di Beppe Grillo che rispolverano l'affaire che portò alle dimissioni dell'assessore comunale alla Casa di allora Antonio Amorosi, il grande accusatore dei clientelismi. Promettono che domani sera proietteranno tutta la documentazione raccolta in un incontro a cui sono invitati il sindaco Sergio Cofferati, l'ex sindaco Giorgio Guazzaloca (entrambi non hanno ancora risposto), Amorosi e il presidente dell'Acer bolognese Enrico Rizzo (che invece ha già declinato l'invito). Ma chiederanno anche conto alla Procura di Bologna del procedere "lento" dell'indagine (a giugno 2009 i reati ipotizzati d'abuso d'ufficio andranno in prescrizione), con una richiesta di ispezione e verifica al Consiglio superiore della magistratura (Csm). Al tempo stesso denunciano un conflitto d'interesse del presidente Rizzo... "Perchè la Procura non ha proceduto nel 2004? - chiede Christian Abbondanza, presidente della Casa della Legalità durate una conferenza stampa - e alla Corte dei conti è arrivata la denuncia nel 2008?". E ancora: "Perchè lasciare fermo tutto e poi allargare le braccia di fronte all'abuso d'ufficio che va in prescrizione dopo cinque anni?". Il Csm "deve provvedere - dice Abbondanza, che invierà una richiesta ad hoc - e procedere a verifiche". In piazza Trento e Trieste "ci possono essere tanti problemi: quello dell'organico o un procuratore capo che bloccale inchieste, ma non spetta a noi giudicare". I tempi della prescrizione intanto vanno avanti. "A giugno dell'anno prossimo-fa notare Agnese Ferrero- va in prescrizione tutto". Comunque da domani sera, sarà "tutto pubblico - dice il presidente della Casa della legalità - dalle lettere di consiglieri che indicano chi ha il diritto all'emergenza abitativa e chi no". Coinvolti? "Tutti gli assessori dal 1986 ad oggi e tutti i consiglieri della commissione casa fino a che non è stata sciolta". Vent'anni, insomma. E, sottolinea Abbondanza, "se sono morti in 19 nei primi posti della graduatoria in due anni, in attesa della casa, figuriamoci in tutto quel periodo". E non ha ancora pagato nessuno, afferma il Meet Up, c'è una richiesta di archiviazione, ma l'inchiesta non è stata archiviata. Solo "un amministratore comunale è stato condannato in primo grado ma poi il reato è caduto in prescrizione". Per i grillini dunque a Sotto le Due Torri si è agito nell'illegalità più totale (come diceva Amorosi). A partire dal fatto, dice Abbondanza, che "la legge proibisce che siano i politici a gestire le assegnazioni". La commissione casa di Palazzo d'Accursio, denunciata anche in video su youtube, è composta dai consiglieri Valerio Monteventi, Niccolò Rocco di Torrepadula, Sabrina Sabattini, Francesco Osti e Claudio Merighi. Nel filmato si leggono anche le firme in calce al documento: Franco Morelli e Stefano Noli, responsabile dell'ufficio casa.
Virus - Il contagio delle idee. Puntata 11 febbraio 2016, 22:25. In studio c'è Antonio Amorosi: "Mi hanno eletto assessore della casa a Bologna. Durante il primo giorno di lavoro, un uomo ha minacciato di darsi fuoco perchè veniva sempre sorpassato in graduatoria. Sono andato all'ufficio casa e ho scoperto le assegnazioni "politiche" delle case. Così le altre persone venivano sorpassate in graduatoria. Il sindaco Cofferati, all'epoca, non fece nulla. Ho portato tutto alla procura della Repubblica. Dopo un anno, tutto è stato archiviato".
Assessore alla Casa, primo giorno il contatto con un cittadino che dopo una colluttazione con i vigili si presenta davanti a me e mi piazza due bottiglie di benzina sul tavolo e un accendino il mano e mi dice "se lei non mi spiega perchè io vengo scavalcato da 5 anni quando io sono nei primi 5 posti delle graduatorie io mi dò fuoco davanti a lei". Io ho chiamato i dirigenti. I dirigenti mi han spiegato che questa persona era in graduatoria che poteva stare tranquillo che entro un paio di settimane avrebbe avuto la casa. Quindi il problema era risolto, però ho aperto l'assessorato, essendo un cittadino comune, e ho cominciato ad incontrare persone. Persone in grave difficoltà, anziani soli che dormivano in macchina per strada con redditi inesistenti, famiglie disagiate, anziani con la bombola di ossigeno, persone che volevano suicidarsi. Però aumentavano quelli che mi dicevano: "Ma lei mi faccia, anche persone che poi non erano in queste condizioni, ma lei mi faccia una firmetta e poi mi assegna la casa. Lo può fare. C'è la Commissione". Io dicevo, mah, che Commissione? "C'è una Commissione che lei presiede che dà gli alloggi. Lei non lo sa, lei è giovane". Ma guardi che un politico non può dare alloggi. E questi mi dicevano; "No! Lei non ha capito". Ad un certo punto quando son diventati 10, 20, 30, 50 persone sono andato all'ufficio casa e all'ufficio casa, dopo le mie insistenze, una funzionaria si è messa a piangere e mi ha fatto vedere una parete, un armadio. Bologna civilissima nella sua capacità di coprire. Nell'armadio c'erano le assegnazioni politiche dal 1986 fino al 2004. Le assegnazioni politiche che il comune faceva. Esisteva una Commissione che dovevo presiedere io, che presiedeva l'assessore con tutti i consiglieri comunali di maggioranza ed opposizione. Uno per partito con nome del partito e consigliere comunale. IL consigliere comunale assegnava su sua discrezione, usando una parolina fantastica che è "L'Emergenza" a chi lui credeva possibile e quindi scavalcavano queste persole quelle che erano in graduatoria. Nell'armadio c'erano le schede annuali. Ogni anno c'erano 100, 150 assegnazioni fatte in questo modo, quando erano la metà delle assegnazione che il Comune riusciva a fare. Ovviamente il Comune non aveva una mappatura di dove erano le case, chi era dentro le case, a che titolo stavano dentro le case. Quindi noi abbiamo immediatamente cercato di capire qual era la situazione. Quindi abbiamo trovato persone che abitavano nelle case del comune con redditi a 140.000 euro, 500.000 euro di patrimonio. Affitti a 39 euro, 50 euro. Quindi, io tutti i giorni avevo queste persone. Io ero l'assessore, ma non vuol dire che il politico partecipa, comunque, a queste cose. (Nell'assegnazione) c'era il nome del consigliere comunale. Per esempio l'assessore che era venuto prima di me, che poi era anche un civico, assegnavo una casa ad una signora, una pittrice lettone e scriveva nel verbale "poichè esalta i rapporti tra Lettonia ed Italia". Cosa aveva fatto questa signora che non ha. Cosa aveva fatto questa signora. La signora aveva eseguito un quadro con un quarto di manzo del Sindaco. Perchè il Sindaco era Guazzaloca ed era stato un macellaio e quindi per esaltare questa figura, e quindi la signora non aveva la dichiarazione dei redditi e c'era scritto: "e che importa, la porterà la prossima volta". C'era scritto nel faldone, nella relazione. Cioè, prima di votare, una settimana prima del voto del 2004 sono arrivate una valanga di assegnazioni di emergenza: 54. E nel Comune di Bologna sono tante. Perchè Bologna è un quartiere di Roma. E' piccola. Tutte emergenze. Tutte assegnate. Perchè in Italia. Poi c'era la maga. La famosa maga di Bologna. Era una ex consigliera di quartiere del PCI che si era autoassegnata l'alloggio. Lei poi era diventata chiromante. Il Comune aveva avuto un contenzioso, quindi tutto chiara. L'Ufficio Legale doveva sgomberarla, mandarla via. Erano 20 anni che ci provava. Ma nessuno firmava l'atto di sgombero della signora, perchè ad un certo punto i legali hanno detto. "Guardi che la signora ogni volta viene qui, ci minaccia con degli anatemi astrali". Il problema era che era tutto scritto. Io ho fatto prima un'altra cosa. Pensando di avere la verità rivelata dentro di me sono andato all'Ufficio Legale, all'Ufficio contenzioso del Comune di Bologna e gli ho chiesto "scusate, ma come è possibile una cosa del genere?" Perchè un politico non può assegnare case ai cittadini. E lo mi hanno detto: "Effettivamente lei ha ragione. E' tutto illegale". Allora ho chiesto ma, questo per iscritto, c'è stato uno scambio per iscritto, non verbale. Ok, mi spiegate perchè è illegale? Allora mi hanno fatto una lista di leggi aggirate, ma di tutti i tipi, dicendomi "nessuno ci ha chiesto". Vado prima da Cofferati, il Sindaco che mi aveva dato la delega dicendogli "qui c'è una situazione gravissima". Lui mi ha detto "Sì, effettivamente" - dopo aver guardato i documenti - "dobbiamo fare una campagna sulla legalità". Non ha fatto nulla. Ha fatto una campagna sulla legalità che era quella sui lavavetri, contro i poveracci che dormivano sul lungo Reva. E questo gli ha permesso di andare in TV. Io ho visto che la situazione era seria, perchè io in 6 mesi ho cercato e recuperato queste persone che avevano questi redditi abnormi: 550 persone in 6 mesi. Abbiamo fatto delle operazioni, perchè si può fare. Io ho detto no. Guardate io torno alla mia vita. Questa Giunta non è una Giunta seria e voi non fate le cose serie, arrivederci. Porto, perchè ero un pubblico ufficiale, tutto alla Procura della Repubblica e la Procura della Repubblica mi dice "noi indagheremo, verificheremo, ecc.". Dopo un anno archiviano, riconoscendo tutti i miei rilievi, erano tutti fondati. Lo mettono tutto per iscritto. Ma dicono lo stesso che avevano indagato per abuso di Ufficio ma non i politici, ma due assegnatari delle case. Poi, dopo del tempo, quando il Procuratore Capo è andato in pensione, ha spiegato questo rapporto che esiste in Emilia, a Bologna. Ed ha messo anche questo per iscritto con una intervista con un bravissimo giornalista, dove lui dive che il rapporto tra istituzioni è un rapporto che deve stare in armonia. Non esiste una separazione dei Poteri in Emilia, ma una distinzione dei poteri. Quindi, quando accade qualcosa, lui dava una lettera alle Pubbliche Amministrazioni. Poi ho scoperto che non mandava alcuna lettera, mandava solo decreti di archiviazione. Ma la cosa più bella è che diceva "noi dobbiamo risolvere i problemi, per quello che non c'è separazione dei Poteri. Il cittadino non può aspettare 10 anni, perchè poi il cittadino dà ragione a Berlusconi. Quindi la Magistratura perde e Berlusconi risolve". Io Faccio il giornalista.
Giustizia impazzita, prima la sentenza poi l’udienza…, scrive Errico Novi il 24 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Il tribunale del riesame di Bologna spedisce in galera l’imputato. Ma il collegio non si era ancora riunito. Prima l’ordinanza, poi l’udienza. Prima decidiamo: poi, se volete, vi facciamo pure parlare. Così, tanto per darvi soddisfazione. Sembra la scena di una corte seicentesca, ai limiti del premoderno. Invece è successo nella dotta Bologna, a un avvocato che difendeva uno straniero accusato di furto, e nel Tribunale presieduto da Francesco Caruso, il magistrato che collocò i sostenitori del sì al referendum «inesorabilmente dalla parte sbagliata, come chi nel ’ 43 scelse male, pur in buona fede». Ed è successo precisamente che il 28 novembre scorso un collegio del Riesame presso il tribunale distrettuale di Bologna abbia notificato al difensore un’ordinanza su una misura cautelare il giorno prima dell’udienza. Ebbene sì, il giorno prima: quando cioè il collegio non si era ancora riunito e neppure il pm non si era presentato a spiegare le ragioni del suo ricorso, cioè il motivo per cui riteneva di doversi opporre all’ordinanza del gip. Il quale giudice per le indagini preliminari aveva deciso di respingere la richiesta di custodia cautelare nei confronti di uno straniero accusato di furto all’aeroporto del capoluogo emiliano. E ancora, quella notifica al difensore è stata trasmessa quando lui, il difensore stesso, ovviamente non aveva ancora varcato la porta dell’aula né aveva esposto al collegio del Riesame le osservazioni in base alle quali riteneva infondato il ricorso del pm. Il caso è deflagrato la settimana scorsa, grazie alla segnalazione della Camera penale di Bologna. Che ne ha fatto un esposto indirizzato al ministro della Giustizia, al procuratore generale presso la Corte di Cassazione, al Csm, al procuratore generale di Bologna e al presidente del Tribunale, il dottor Francesco Caruso appunto. «Il Tribunale», si legge nel documento dei penalisti, «fissava l’udienza di discussione in camera di consiglio dandone avviso al difensore. Lo stesso difensore riceveva a mezzo di posta certificata, il giorno precedente l’udienza fissata, notifica del provvedimento decisorio con apposte in calce le firme del giudice relatore e del presidente del Collegio, e con sigla in ognuna delle pagine da parte del giudice relatore». Particolare decisivo, questo, e oggettivamente sconcertante. «La decisione era, peraltro, di contenuto infausto per l’indagato e totalmente recettiva della richiesta formulata dalla Procura». Perché appunto il Riesame ha ribaltato la decisione del gip e, in accoglimento del ricorso avanzato dalla Procura, ha ordinato l’applicazione della misura cautelare, seppure sospesa in vista di un possibile ricorso in Cassazione da parte dell’indagato. Inspiegabile, tanto che verrebbe da pensare a un atto di deliberata negazione del principio di oralità nel contraddittorio: i magistrati del collegio hanno deciso senza sentire le osservazioni dell’avvocato, il che è esattamente il contrario di quanto dovrebbe avvenire con un rito accusatorio qual è quello previsto dal codice. In udienza naturalmente l’avvocato ha fatto notare che la sua stessa presenza davanti al collegio rischiava di equivalere a una finzione teatrale più che costituire un passaggio formalmente rilevante. A quel punto i giudici, colti da un comprensibile imbarazzo, hanno chiesto di potersi astenere. Il presidente Caruso ha accolto la richiesta, affidato il fascicolo a un altro collegio, che ha fissato una nuova udienza in camera di consiglio. Esito uguale, e qui siamo a una settimana fa: accoglimento del ricorso della Procura, ordinanza di custodia cautelare sospesa in attesa dell’eventuale ricorso in Cassazione. La motivazione, invece, era diversa. Se non altro, a differenza della prima – quella notificata magicamente senza che neppure l’udienza avesse avuto luogo deve aver tenuto conto delle osservazioni dell’avvocato. La Camera penale “Franco Bricola” di Bologna «ribadisce come i principi basilari del sistema processuale penale non possano essere aggirati con macroscopiche violazioni del diritto di difesa, ignorando il principio dell’oralità, del contraddittorio e della collegialità delle decisioni necessari, a maggior ragione, in fase cautelare’. Lo si legge nell’esposto inviato a pg di Cassazione, Csm e vertici della magistratura bolognese e del quale i penalisti hanno informato tutte le Camere penali del distretto, l’Ucpi e il Consiglio dell’Ordine. La sezione emiliana dell’Anm ha di fatto minimizzato: «Non c’è alcun elemento che possa mettere in dubbio la buonafede dei magistrati coinvolti». E si aggiunge che il diritto di difesa «in concreto» non avrebbe subìto «né danni né limitazioni» . La versione filtrata informalmente dal Tribunale è che quella notificata non era altro che una specie di brutta copia, di bozza buttata giù in attesa della decisione da prendere il giorno dopo. Peccato che fosse firmata in calce da presidente del collegio e relatore. E notificata via pec. Avrà sbagliato il cancelliere? Può darsi. Sarà un parossistico effetto dei carichi di lavoro pesantissimi a cui anche il Riesame deve far fronte? Indubitabile. Fatto sta che la decisione era già stata presa. E l’avvocato, la mattina dopo, sarebbe andato lì a esporre le ragioni dell’indagato inutilmente. Sarà il Csm a stabilire se si tratta della negazione di un diritto – dunque di un illecito – oppure no. Certo è che non si tratta di una best practice meritevole di segnalazione da parte dell’organo di autogoverno dei magistrati.
DI PIACENZA…Piacenza, 50 indagati al Comune: "Timbravano e andavano a fare la spesa". Perquisizioni e sequestro di carte a Palazzo Mercanti. Lavoratori pedinati e filmati, scrive il 28 giugno 2017 "La Repubblica". Cinquanta dipendenti del Comune di Piacenza indagati per falso e truffa in un'indagine contro i cosiddetti furbetti del cartellino: secondo la Procura della Repubblica i lavoratori erano soliti timbrare il cartellino in ufficio per poi uscire "a farsi i fatti propri": "Chi andava in palestra e chi andava a fare spesa", affermano Salvatore Cappelleri, capo della procura piacentina, e il sostituto Antonio Colonna. Si ipotizzano anche alcuni casi di peculato: qualcuno che avrebbe utilizzato mezzi di servizio per scopi non lavorativi. Dei cinquanta dipendenti indagati, dieci sono a piede libero. Uno è agli arresti domiciliari, gli altri 39 sono stati fotosegnalati in caserma e poi sottoposti all'obbligo di firma. Gli inquirenti avrebbero filmati e pedinamenti, effettuati nel corso degli ultimi mesi, che dimostrerebbero la condotta dei dipendenti infedeli. Questa mattina è scattato il blitz di Fiamme gialle e Polizia municipale a palazzo Mercanti: agenti in divisa e in borghese si sono presentati negli uffici e hanno perquisito e sequestrato materiale "concordando le modalità con il Segretario generale e la dottoressa Laura Bossi, dirigente delle Risorse umane", precisa il Comune. Negli ultimi giorni due dipendenti comunali dell'ufficio manutenzione erano stati arrestati. In mattinata è giunta nel palazzo comunale anche la neosindaca Patrizia Barbieri, oltre al sindaco uscente Paolo Dosi che così ha commentato: "E' una vicenda che danneggia l'immagine della città e il Comune, che già opera tra mille difficoltà, che avvilisce e fa sentire tutti quanti traditi". Sulla vicenda intervengono il segretario generale della Cgil di Piacenza, Gianluca Zilocchi, e la segretaria generale Fp-Cgil, Stefania Bollati: "Se tali comportamenti dovessero essere confermati e verificati non possiamo che ribadire, come sempre fatto in analoghi casi, che per la Cgil e la Funzione Pubblica i lavoratori responsabili devono essere chiamati a rispondere in prima persona dei loro atti. Atti che, lo sottolineiamo con forza, danneggiano il lavoro onesto e quotidiano di migliaia di lavoratori pubblici e loro colleghi".
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io...
Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.
(Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)
Lasciatemi votare
con un salmone in mano
vi salverò il paese
io sono un norvegese…
IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.
Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?
Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.
Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.
Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’ estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche ”il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro. Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna , dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile »: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le ”scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo? ». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la ”liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era ”la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati ”belli” del Nord e quelli ”brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente ”disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati ”belli” del Nord restano del Nord; quelli ”brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale », parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;
2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la ”Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama ”New Company”.
L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già ”meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce ”isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce ”Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce ”Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è ”rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo.
SANITA’: DALLE STELLE ALLE STALLE.
Sanità in Emilia-Romagna: dalle stelle alle stalle, scrive Giovanni Cristiano su “Infooggi”, (fonte: La Bologna che c'è). Una sanità che sta cadendo a pezzi in Emilia Romagna. Questa è stata l’opinione condivisa dai vari ospiti che lo scorso 10 dicembre 2014 hanno partecipato al dibattito promosso dal gruppo “La Bologna che c’è”. “La sanità emiliano romagnola – ha detto Fabio Garagnani, portavoce del gruppo “La Bologna che c’è” – sta perdendo la sua eccellenza per due motivi principali: mancanza di un’offerta pluralista e una politica troppo ingombrante che penalizza il cittadino con disservizi che vanno dalle lunghe lista d’attesa al depotenziamento di molti ospedali”. Giuliano Bugani, coautore del documentario “Mani sulla Sanità” ha condotto il dibattito portando i presenti ad evidenziare numeri e fatti che la maggior parte dei cittadini non sa, anche per uno scarso interesse da parte dei media che preferiscono avere altre priorità. Tra i grandi assenti la CGIL che non ha risposto all’invito, l’assessore alla sanità Emilia Romagna uscente e l’assessore alla sanità del Comune di Bologna. L’articolo 32 della Costituzione Italiana ribadisce il diritto alla tutela della salute del cittadino, ma siamo sicuri che questo venga rispettato? “Lo scorso 17 luglio, - ha ricordato Daniele Bedetti, del sindacato Fials Nazionale - c’è stato il cosiddetto patto della salute 2014- 2016 un accordo finanziario e programmatico tra il Governo e le Regioni in merito alla spesa e alla programmazione del Servizio Sanitario Nazionale, finalizzato a migliorare la qualità dei servizi. Lo stanziamento prevedeva un aumento del finanziamento del Fondo Sanitario Regionale tale da portare le risorse nel 2014 a 109,928 mld di euro, aumentarle nel 2015 a 112,062 e nel 2016 a 115,444 mld di euro. Per la sola Regione Emilia Romagna questo avrebbe rappresentato una dotazione maggiore di risorse di circa 250 milioni di euro nel 2015 ed altrettanti per il 2016. Passata l’Estate il Governo decide di tagliare di 4 mld di euro il finanziamento alle Regioni il cui bilancio è mediamente composto per il 75% dalla spesa sanitaria. Se la legge di stabilità verrà confermata così come proposta dal Governo questo si tradurrà inevitabilmente in una drastica riduzione dell'offerta sanitaria pubblica mettendo in crisi i vari modelli sanitari regionali. I tagli hanno avuto il risultato di ricadere sul cittadino, poiché gli operatori del settore non sono più nelle condizioni di offrire qualità nelle prestazioni, visto il perpetrare del parziale blocco del turn over associato all'ennesimo rinvio dei rinnovi dei contratti di lavoro. In questo modo i cittadini sono sempre più tassati ricevendo in cambio meno servizi e gli operatori sempre più mortificati dal proprio datore di lavoro”. “Solo in Emilia Romagna in alcuni ospedali - ha evidenziato Nicola Zagatti, del Coordinamento Civico Sanità Emilia–Romagna di Ippocrate, - sono stati spesi miliardi di euro per la ristrutturazione di alcuni ospedali, stanziati nel 2010 durante il governo Errani. Solo per dare alcune cifre: 28 milioni di euro per l’ospedale di Porretta Terme, 13 milioni di euro per l’ospedale San Camillo di Comacchio. Oggi: all’ospedale di Porretta è stato tolto il reparto nascite e quello di Comacchio è diventato una Casa della Salute”. A cosa sono serviti tutti quei soldi investiti, peraltro soldi dei cittadini? 45 anni fa arrivava a Bologna Giancarlo Pizza, Presidente dell’Ordine dei Medici della provincia di Bologna perché attratto dall’alta professionalità che investiva i poli sanitari di Bologna. Il S.Orsola-Malpighi aveva il 45-50% di attrattività nei confronti del paziente fuori regione, oggi, riporta che è scesa ad un irrisorio 16%. Pizza accusa i politici di aver depauperato il patrimonio sanitario emiliano romagnolo perché a suo avviso non c’è una cabina di regia che metta insieme la ricerca, l’insegnamento e l’attività sanitaria. Le varie fondazioni, secondo Pizza, distribuiscono i loro contributi per conoscenza e il “filo rosso” che fino ad ora ha collegato l’ideologia all’attività non ha funzionato. Perché non c’è la CGIL stasera? Questo si è chiesto Alfredo Sepe, Responsabile Fials Regionale. Secondo lui perché è un sindacato che nasce da un partito politico al governo in questo momento. La CGIL è il maggiore imputato di quello che sta succedendo perché a suo avviso non ha fatto abbastanza opposizione alle scelte del Governo, non accogliendo in questo modo le istanze di quanti ne fanno parte. Sepe è convinto che la CGIL è un’organizzazione che non ha libertà d’azione e non tutela i lavoratori, lo ha definito come il sindacato della casta. Altro imputato nel declino sanitario, secondo Garagnani è la mancanza di opposizione di un centro destra asservito, in questa regione, alla sinistra. Cita il recente protocollo d’intesa in cui le cooperative si occuperanno della parte assistenziale sanitaria. Gli ultimi scandali sulle cooperative parlano chiaro di dove si arriverà. Qualcuno si è chiesto cosa sono le Case della Salute? Zagatti in proposito è stato molto duro dicendo che sono una menzogna per prendere in giro la gente. Laddove gli ospedali si depotenziano diventano Case della Salute, quindi ex-ospedali che svolgono prestazioni di primo livello (attività ambulatoriale). Sembra che in Emilia Romagna ci siano 11 Case della Salute, ne sono in programma 23 e l’obiettivo è arrivare a 43. In merito alla riorganizzazione della sanità bolognese si è espresso Sepe dicendo che non è condivisibile concentrare la maggioranza dell’attività di cure specialistiche in un unico presidio sanitario HUB (ospedale Maggiore) depotenziando gli ospedali della provincia, (detti presidi ospedalieri Spoke). A questi ultimi si demanda l'assistenza di bassa complessità, con l’inserimento delle case della salute (piccole -medie -grandi) a seconda del territorio. Questo meccanismo crea un intasamento e un allungamento delle liste di attesa, visto che i cittadini bisognosi di prestazioni di alta specializzazione si rivolgono al presidio HUB che non ha risorse umane e logistiche per smaltire questa grande mole di richieste. Inevitabilmente, la cittadinanza, considerando i lunghissimi tempi di attesa si rivolge al privato accreditato, e chiede una prestazione a pagamento che dovrebbe, invece, essere garantita dal pubblico. Un altro “successo” si fa per dire, dell’Emilia Romagna è l’ospedale Cona a Ferrara, definito come uno dei grandi scandali della sanità nazionale. Iniziato nel 1990, con la benedizione della prima pietra da parte di Giovanni Paolo II, costato qualcosa come 500 milioni di euro, inaugurato solo nel 2012. C’è un processo in corso perché è un progetto che fa acqua da tutte le parti sia strutturalmente parlando che in tutta l’organizzazione manageriale coinvolta. Sotto processo è la qualità del calcestruzzo utilizzato nella costruzione. E se la procura avrà ragione cosa succederà? Succede che il calcestruzzo avrà una scadenza dopo 50 anni anziché 100 come previsto per le grandi opere.
COOP: ROSSE, MA DI VERGOGNA.
Lo scandalo degli ipocriti.
Il pozzo nero di Roma. Una Lega trema, un'altra vola, scrive Sandro Vacchi su “Economia
Italiana”. E ci stupiamo? No, gente, qualcuno cade dalle
nuvole, oppure finge di farlo, alle notizie sulla tratta di denaro, che a Roma
soffiano tanto spesso quanto il Ponentino? Da Marziale a Plauto, e poi via via
nei secoli, sino a Ennio Flaiano, è stata composta un'enciclopedia più ponderosa
della Britannica a proposito dei vizi della capitale; anzi, della
Capitale con la C maiuscola, come si picca ancora di scrivere orgoglioso qualche
giornale capitolino, mentre la C, di maiuscolo, ha solamente la Corruzione. E
torna inevitabile alle orecchie il vecchio "Roma ladrona, la Lega non perdona"
di bossiana memoria, che risuonava nella notte fra la prima e la seconda
repubblica. La sua attualità non è mai scemata. Anzi. Fingano pure di scoprire,
Lor Signori, che il Palazzo è marcio dalle fondamenta; che il vero cancro del
Paese non è Napoli, e nemmeno Palermo, e neppure la Calabria, ma la Città
Eterna, che di eterno ha i monumenti, ma anche il cinismo, l'amoralità e il
"fancazzismo" di torme di suoi abitanti e frequentatori. Tentino anche di
insabbiare lo sterco, di nascondere cose inconfessabili, come fanno con le
fruscianti banconote (570 mila euro!) murate nelle intercapedini di
un'abitazione dei ladri. Si barcamenino finché vogliono per difendere i soci in
affari attraverso i giornali amici, per salvare il salvabile, per dire "lui è
più ladro di me", per sostenere che il mostro viene partorito adesso ma è stato
concepito da altre giunte, da altri politici, da altri faccendieri, da altri
cialtroni: "Il primo segno della corruzione dei costumi è il mettere al bando la
verità. E la verità di oggi non è ciò che è, ma ciò che si fa credere agli
altri" diceva Montaigne cinquecento anni prima di Buzzi e Carminati, Alemanno e
Marino, la Metro C (altra C di Corruzione) e il grande affare dell'immigrazione,
più o meno clandestina. «È tutto uno schifo!» commenta il premier Matteo Renzi,
neanche fosse un pisquano qualsiasi al bar mentre sorbisce il caffè. Eh no! Lei
è il presidente del Consiglio dei Ministri, anche se nessuno l'ha eletta, tutto
teso a deprecare il populismo strisciante, e si abbandona a considerazioni di
tale acutezza politica? Lei è quello che manda la fatina Maria Elena a dare del
fascista a Matteo Salvini e non si accorge che da due anni quello sbraita contro
il grande e sporco business dell'accoglienza, di Mare Nostrum e delle
"zingarate"? Oppure, signor Renzi, finge anche lei di cadere dalle nuvole come
una qualunque casalinga di Voghera, ma in realtà non aspettava di meglio per la
resa dei conti nel suo partito allo sbando? Se un decimo di quanto è accaduto e
sta accadendo nella Capitale Immorale fosse successo a Biella o a Trani, ad
Aversa oppure a Ventimiglia, i consigli comunali sarebbero stati non sciolti e
commissariati, ma rottamati, inceneriti e dispersi al vento. Ignazio Marino non
c'entra, non c'era e se c'era dormiva? Non ha mai visto né sentito parlare di
Salvatore Buzzi, nonostante un intero album fotografico dimostri il contrario?
Intanto si dimetta, lasciando che l'inchiesta faccia il suo corso, e se non
c'entra nulla, la magistratura gli darà senz'altro ragione: non è in fondo
sempre così in Italia? O la sedicente sinistra osa nutrire qualche dubbio sulle
capacità, l'indipendenza e l'onestà dei giudici, virtù che tanto esalta, invece,
ogni qual volta le toghe colpiscono un nemico? Tanto per non far nomi, Silvio
Berlusconi. I 5 Stelle sbugiardano da giorni il sindaco più falso di Pinocchio,
il multato della Panda Rossa, l'allegro chirurgo che nulla sa ma tutto può. E
Matteo Salvini, l'uomo che ha portato in una sola stagione la Lega Nord a
scavalcare Forza Italia, prima ha liquidato la candida Boschi dandole del
Cappuccetto Rosso che crede alle favole, e l'ha invitata a fare quelle riforme
che da tempo promette, invece di sparare banalità, poi ha ricordato alcune opere
di Miss PD e di Mister Ercolino Renzi, i quali hanno tolto fondi ai ciechi e ai
disabili per dirottarli a non meglio identificati immigrati e varare una Legge
di Stabilità che si traduce in tagli e ancora tasse. «Noi l'abbiamo combattuta e
ci danno dei fascisti», sbotta il leghista. È l'eterna tiritera dei compagnucci
della parrocchietta: chi non è come loro è fascista. «Io farei a cambio fra
Putin e Renzi domani mattina» aggiunge Matteo Due, che è già ormai Uno e Mezzo,
arrivato al punto di proporre come cura per Roma un sindaco leghista. Fino a
poche settimane fa sarebbe stato come nominare Papa Francesco a capo degli
integralisti islamici, ma in Italia, signori, la rivoluzione butta tutto
all'aria in tempi rapidissimi. Sì, perché se non ce ne fossimo ancora accorti,
viviamo in piena rivoluzione: dei costumi, della morale, della politica,
dell'economia. Non mi dilungo in analisi, ognuno è in grado di riflettere sui
fatti, basta che si guardi attorno. Soltanto una cosa, però: la disaffezione, il
disincanto della gente, a che cosa sono dovuti? Non si va più a votare, e Renzi
faccia altrettanto, se è vero che giudica tutto uno schifo. Oggi, se si tornasse
alle urne, non ho la minima idea di quanti voti prenderebbe chi quello schifo lo
denuncia da sempre, e che ancora non c'è finito dentro, ma immagino che
sarebbero tanti e tanti ancora. Tutti fascisti, signorina Boschi? Allora lei ha
proprio capito tutto dell'Italia e degli italiani. Guardi che a Striscia la
notizia si sta liberando il posto di Velina bruna, potrebbe concorrere, ce
la manderebbe anche Rosy Bindi, sua compagna di partito che tanto l'apprezza.
Nel 1992 la giovane ministra era in quinta elementare, quando un certo Mario
Chiesa del milanese Pio Albergo Trivulzio, ospizio (guarda la coincidenza!) fu
sorpreso mentre cercava di liberarsi di sedici o diciassette milioni di lire
buttandoli nel water. Spiccioli, ma di lì partirono Tangentopoli, Mani Pulite,
la fine della prima repubblica e di tutti i partiti eccetto quello comunista che
aveva da poco cambiato connotati, come un camaleonte, dopo l'abbattimento del
Muro di Berlino e il fallimento davanti alla storia di un sistema che aveva
dominato la Russia per settant'anni e l'Europa dell'Est per mezzo secolo. Gli
eredi del PCI erano a mezzo passo dalla stanza dei bottoni anche in Italia,
quando spuntò un grandissimo rompiscatole con il suo "partito di plastica":
Silvio Berlusconi. Per la bellezza di un ventennio li ha stoppati, bloccati,
inchiodati, facendoli schiumare rabbia e rendendoli incapaci di far altro che
non fosse escogitare sistemi per farlo fuori. Sembravano il Vilcoyote con Bip
Bip: patetici ogni anno che passava, invisi ai loro stessi adepti. Ci sono
voluti un po' di tanga e di "cene eleganti" per mettere in soffitta il Grande
Nemico ormai ottuagenario, ma il Partito si è consumato negli anni. E oggi sta
morendo a sua volta: diviso, senz'anima, senza idee. E corrotto. Altroché la
superiorità morale di cui cianciava Enrico Berlinguer! Questi sono ladri due
volte, e peggio dei "destri": perché rubano ma continuano a sostenere, persino
credendoci, di essere onesti. Domandina, compagni: credete davvero che gli
italiani siano venuti giù con la piena del Bisagno? Credete che non vedano lo
schifo (parole del vostro segretario Renzi) dovuto in primis all'ipocrisia che
vi domina fin dalla nascita? E il risentimento e l'invidia che da sempre vi
muovono contro il "ricco", l'autonomo, il professionista, per ciò stesso
evasori, secondo la vostra vulgata demenziale? Vi stupite che la gente non vi
voti più, che non vada più alle urne e che, semmai ci andasse, voterebbe per la
Lega? Ma dove sono i vostri rinomati politologi, e sociologi? Legioni di
studiosi dell'Istituto Gramsci, e di Nomisma, e del Cattaneo non vi hanno detto
niente? Ohibò! Ma non eravate e non siete i migliori, i più intelligenti, i più
acculturati, i più svegli a cogliere le occasioni? So io, e tanta gente, quali
occasioni siete svelti a cogliere. E lo sa anche Standard & Poor's, agenzia di
rating che in concomitanza con lo Scandalissimo ha declassato l'Italia da BB,
che non significa Bed and Breakfast, a BBB, che vuol dire invece Bufale Belle e
Buone. Quelle che gli amici degli amici si ingegnano a mettere insieme per
dimostrare come il marcio romano sia Mafia e Destra, delinquenza comune ed ex
picchiatori neri, e come la Sinistra de Noantri sia invece quasi una vittima,
sfiorata appena dal venticello malefico. Sveglia! Almeno dai tempi di Giusva
Fioravanti (strage di Bologna) il terrorismo nero dei "fasci" romani è sempre
andato a braccetto con la delinquenza comune. Banda della Magliana, per
intenderci. Oppure qualcuno pensava che i camerati capitolini fossero degli
Yukio Mishima, samurai dell'onore e della patria? Ma va'! Chi ha amministrato
Roma, però, per decenni? Partiamo da una quarantina di anni fa, ma si potrebbe
arretrare quasi a Romolo e Remo. Lo storico dell'arte Carlo Giulio Argan regge
Roma dal 1976 al '79: era del PCI. Tocca poi a Petroselli, e dopo a Vetere,
entrambi a capo di giunte rosse. Signorello resta in carica fino all''88, con
una giunta democristiana, seguito da Giubilo, Barbato e Carraro, stesso colore.
Comincia il bello degli anni nostri. Rutelli governa dal 1993 al 2001, Veltroni
dal 2001 al 2008, Marino è in carica e ci è andato nel 2013. Fra lui e Veltroni,
dal 2008 al 2013, c'è stato Gianni Alemanno, marito di Isabella Rauti, anche lei
più nera che non si può, figlia di Pino Rauti. Comunque, cinque anni in tutto
per il camerata messo in Campidoglio con uno scandalo almeno pari a quello di
Giorgio Guazzaloca a Bologna dopo decenni di amministrazioni rosse. Vabbè,
d'altronde Veltroni non era comunista, sosteneva: unico caso di non comunista
già a capo dei giovani del PCI. Chissà, forse era un infiltrato dei suoi
amatissimi Kennedy, io propendo più per l'ipocrisia di partito.
Possibile che tutto l'ambaradan di questi giorni qualcuno crede che possa averlo
montato un uomo solo in così poco tempo? "'A Mandrake!" commenterebbero i
romani. Il PD si è reso conto che più di tanto non poteva darla a bere agli
elettori (quelli rimasti), così si sono "autosospesi" tre consiglieri: Daniele
Ozzimo, Mirko Coratti ed Eugenio Patanè. E tutti a lodarne la lealtà
democratica, mentre non è che una mossa per far piazza pulita nelle correnti
antirenziane e blindare un sindaco, Marino, che più sputtanato non si può,
paradossalmente salvato proprio dallo Scandalissimo. Comunque, gli antirenziani
del Lazio adesso rosicano, e il fiorentino fa l'indignato, lontano com'era dagli
affaracci del Mondo di Mezzo. La parola d'ordine, certo non palese, ma ovvia, è
"Non ne so niente, non li conosco". Chi mai volete che conoscesse Salvatore
Buzzi, piddino con tanto di tessera, da anni sulla breccia dopo essersi fatto un
bel periodo dietro le sbarre condannato per omicidio? Omicidio, non furto di
carrube! Era lui l'anello di congiunzione tra i neri (delinquenti per
definizione) e i rossi (delinquenti per aspirazione) amministratori della cosa
pubblica. E a nessuno che sia venuto in mente di chiedergli un curriculum, al
factotum della cooperativa 29 Giugno? Al galantuomo che assicurava che con gli
immigrati e gli zingari (lui li chiama così, madame Boldrini, se ne faccia una
ragione) c'è da guadagnare più che con la droga? Eh sì, perché gestire immigrati
rende cinquecento milioni l'anno, come a dire mille miliardi di vecchie lirucce.
Capito, adesso, perché le nostre (beh, mica tanto nostre) città pullulano di
questa gente, Roma in particolare? Facendo la cresta su pasti, schede
telefoniche e annessi e connessi, sembra che per ogni immigrato adulto gli
intermediari intaschino dieci euro sui trentacinque messi a disposizione dallo
Stato, cioè da noi. Se l'"assistito" è minorenne, mamma Italia tira fuori una
novantina di euro, e la cresta diventa un cappello piumato, una feluca. Soltanto
in quest'anno che non è ancora finito sono sbarcati, da Lampedusa in su, la
bellezza di 140 mila migranti, profughi, clandestini che dir si voglia. Sono
stati finora più di 2.500 i poveracci toccati a Roma quest'anno: dieci volte più
del dovuto, come rivela in un'intercettazione Luca Odevaine, già collaboratore
di Walter Veltroni. E 35 milioni abbondanti di euro se ne sono andati finora,
nel 2014, per i centri profughi e l'assistenza dei richiedenti asilo sbarcati a
Roma. Per i minori immigrati in riva al biondo Tevere si sono spesi in dieci
mesi 831 mila euro, e altri 274 mila per assistere gli immigrati disabili. Nello
stesso tempo sono stati tagliati i fondi per i disabili italiani, detto per
inciso. In pochissimi anni la cooperativa di Buzzi associata alla Lega è balzata
da un fatturato irrisorio a quaranta milioni di euro. «Gli utili li facciamo
sugli zingari, sull'emergenza abitativa e sugli immigrati» ha spiegato il grande
capo, come lo chiamava nelle mail Micaela Campana, responsabile welfare del PD e
già compagna di Ozzimo, la quale gli mandava anche tanti baci. Milioni di
italiani gli stanno mandando altri tipi di omaggi, con tutto il cuore. E questa
gente non saprebbe niente, se c'era dormiva, non ha mai incontrato Buzzi e
continua a raccontare la barzelletta della superiorità morale del Partitone? E a
negare l'evidenza, come Marino davanti alle fotografie sbandierate dai grillini
che lo ritraggono col manovratore del grande ladrocinio? Ma per piacere! Facile
tirare in ballo la teppaglia nera dei Massimo Carminati e affini, come l'addetto
al "recupero crediti" che minacciava di spezzare i pollici ai cattivi pagatori.
Facile scovare la marmaglia che fa ritrovare in un attimo i quattro milioni di
euro rubati in casa al cantante Gigi D'Alessio: e tanti complimenti per i
gorgheggi, viene da dire. Facile scoprire la burinaggine mafiosa di chi promette
protezione al calciatore della Roma, Daniele De Rossi, disturbato al night. E
qui ci si attacca subito alla storia altrettanto fresca della ex moglie
arrestata per estorsione e minacce di morte a un imprenditore non meglio
definito; signora che, peraltro, è figlia di un malavitoso ammazzato anni fa
sempre per storie di usura. Ma c'è qualche scemo, o cieco con il prosciutto
dell'ideologia sugli occhi, che possa pensare che un Comune rosso da sempre come
quello di Roma, se si esclude il quinquennio di Alemanno, possa essere guidato e
controllato dai "fasci", dai Nar, dai malavitosi coatti delle periferie? E in
Campidoglio le povere innocenti creature della Razza Superiore che cosa
facevano? Forse intascavano 117 mila euro come Odevaine, sua moglie e suo
figlio. Da chi? Non c'è mica più l'oro del Cremlino. È che qui il superbusiness
riguarda maneggioni e ladri di diverso colore, ma di pari delinquenza. Eppure il
Partito da un lato nega (Marino), dall'altro si libera di gente non gradita
(Renzi) e dal terzo lato nasconde (Bianca Berlinguer ha infilato in fondo alla
scaletta del suo TG3 lo scandalo romano appena è emerso il coinvolgimento della
Chiesa di cui suo padre fu venerato segretario). E mentre il PD romano viene
commissariato, ma il Comune no - per carità, non possiamo mica sputtanarci del
tutto! - l'ineffabile Buzzi apre le cateratte e rivela di aver dato soldi a
tutti, addirittura a quel vecchio comunistone di Armando Cossutta, un santo per
il PCI dei tempi di Togliatti, uno che prendeva ordini direttamente da Mosca e
li girava a Roma. Fuochi d'artificio degli indignati, minacce di querele. Ma la
declamata onestà va a farsi benedire, perché nell'epoca del web e dei
social-network spuntano le fotografie dell'eurodeputata Simona Bonafè accanto
all'onnipresente Buzzi prima delle elezioni europee; e quella che ha mandato in
bambola l'ex presidente nazionale della Lega delle cooperative, quindi capo del
Buzzi stesso, Giuliano Poletti, oggi ministro del Lavoro, seduto a una tavolata
di rossi, neri e delinquenti. Gli è venuto un mezzo coccolone, s'è indignato a
morte, la candida frangetta gli si è tutta scompigliata e il faccione
intristito. Spiega l'ex assessore della giunta di Gianni Alemanno, Umberto
Croppi, che quella foto del 2010 fu scattata durante una "magnata" organizzata
dal Comune di Roma per procurare una trentina di milioni di euro alle
cooperative, comprese quelle sociali. Insomma, per foraggiare le coop rosse da
parte dell'amministrazione nera di quegli anni, visto che il Campidoglio era a
secco. «Ci si inventò un meccanismo per cui i soldi alle coop venivano
anticipati dalle banche con la formula del "pro soluto", con cui il Comune si
faceva garante del debito e lo rifondeva con gli interessi». Lo dice Croppi, ex,
neo, parafascista in affari con l'ex, vetero, paracomunista Giuliano Poletti da
Imola. Domanda: vi risulta che qualche impresa privata, non cooperativa, goda
normalmente di simili agevolazioni? Poi hanno il coraggio di dire che non
esistono corsie preferenziali per le coop, che sarebbero imprese sociali, in
affari per fratellanza e scopi umanitari. Pensate a cosa deve succedere in
Emilia-Romagna, dove non si muove foglia che le coop non vogliano; e che cosa
poteva accadere a Roma prima e dopo la parentesi nera di Alemanno, all'epoca
della quale fu scattata la foto degli allegri mangioni. E siamo ad Alemanno,
sbattuto di nuovo e giustamente in prima posizione dal TG3 appena è saltato
fuori che avrebbe portato in Argentina dei bei valigioni imbottiti di soldi.
Buenos Aires, "buen retiro" da settant'anni di nazifascisti di ogni risma, dai
gerarchi di Hitler, agli sterminatori dei lager, al Giovanni Ventura sospettato
della strage alla Banca dell'Agricoltura di Milano, continuerebbe dunque a
essere rifugio sicuro anche dei fascisti di oggi, o almeno dei loro quattrini. E
poi qualcuno si stupisce che gli italiani, poveracci, continuino a dire che i
politici sono tutti uguali? E che le elezioni siano sempre più considerate Cosa
Loro? E che il populismo dilaghi? Qui è pieno di gentaglia che incamera denaro a
palate sulla pelle di poveri cristi sui quali piovono lacrime ipocrite di
giornali e istituzioni. Ma, soprattutto, si arricchisce sulla pelle degli
italiani che dovrebbe tutelare e aiutare per primi, e che invece manda alla
rovina. Qualcuno si stupisce ancora che, per una Legacoop travolta dal ciclone
dello scandalo, ci sia un'altra Lega che prende il volo nelle preferenze degli
italiani? Non deve far niente: semplicemente aspettare che i Migliori e i
Peggiori, alleati fra loro nel Mondo di Mezzo per taglieggiare, rapinare e
scippare chi sta sotto, continuino a farlo. E tanti auguri all'Italia, la solita
Italia sputtanata a morte davanti a quell'Europa che non gliene perdona una.
Figuriamoci questa.
Tutti gli scandali del sistema di potere sinistro in Emilia Romagna, scrive “Il Fazioso”. Regioni Rosse, queste sconosciute… Dove tutto (politica, economia, giustizia ecc) ha un obiettivo comune: favorire gli interessi della sinistra. Toghe che archiviano in continuazione procedimenti per speculazioni colossali per favorire le casse del partito, sui dipendenti del partito assunti dalle coop e contestualmente messi in aspettativa per scaricare sull’ente pubblico i versamenti Inps, sui finanziamenti illeciti ai partiti di sinistra, sullo scandalo Coopservice (la coop di Reggio Emilia specializzata in servizi alle imprese organizzò un giro di azioni tramite una finanziaria lussemburghese e costituì nel Granducato un tesoretto di 36 milioni di euro destinato ai vertici aziendali, con tanti saluti allo scopo mutualistico e non speculativo delle coop). Ma anche parcelle milionarie a un solo studio legale, esterno all’amministrazione. Parcelle che tra l’altro oltre a essere spropositate riguardano procedimenti per i quali si poteva agire in modo diverso e che hanno provocato un danno erariale enorme. Insomma una nazione a parte dove tutto si fa in favore della sinistra di nascosto, con la complicità di giudizi, professionisti e dell’economia locale…
Il Pdl denuncia: col governo Errani parcelle milionarie a uno studio legale, scrive “Il Giornale”. La regione Emilia Romagna dispone di un corposo ufficio legale con decine di dipendenti, tuttavia preferisce spendere fior di quattrini in consulenze esterne. In particolare, c'è una colossale parcella di 3.262.139 euro versata a un unico studio legale esterno all'amministrazione nell'arco dei dieci anni in cui è stato governatore Vasco Errani. Lo denunciano il deputato Pdl Enzo Raisi e il consigliere Alberto Vecchi che dopo mesi di insistenze hanno ricevuto dalla regione una corposa documentazione. Due faldoni molto voluminosi «in cui appare sempre lo stesso nome, destinatario di un elenco di oltre duemila pagamenti per altrettante cause sostenute in difesa della regione». Il contenzioso riguarda i destinatari di trattamenti di invalidità civile. «La vicina regione Toscana - spiega Raisi - dopo i primi interventi non si è più costituita in giudizio, risparmiando sulle parcelle e coprendo le spese legali se soccombente. Ma in Emilia non hanno tanto a cuore i soldi dei loro contribuenti. Oltre ai tre milioni abbondanti di euro già versati, che presto saliranno a cinque, hanno pagato il 50 per cento delle spese legali se soccombenti in giudizio. Un danno erariale enorme». Per denunciare questo spreco di risorse pubbliche il parlamentare e il consigliere regionale hanno presentato un esposto alla Corte dei conti. Non è semplicemente una questione di soldi. «Bisogna puntare l'attenzione sull'operato della Direzione generale centrale Affari istituzionali e legislativi - dicono Raisi e Vecchi - sulla quale presentammo una denuncia penale già quattro anni fa. Anche allora emerse una strana gestione delle consulenze, oltre quattro milioni di euro destinati a parenti di funzionari interni. L'esposto fu archiviato con insolita rapidità, ora lo riproporremo». Per inciso, capo della procura di Bologna era il dottor Enrico Di Nicola che adesso, da pensionato, oltre a partecipare a convegni promossi da Pd e Idv, ha ricevuto una consulenza proprio da quella Direzione centrale («un incarico di prestazione d'opera intellettuale per l'elaborazione di uno studio di fattibilità finalizzato all'analisi e al monitoraggio della criminalità economica e mafiosa nella regione Emilia Romagna»). Gli uffici regionali riconoscono che si tratta di «dati aggregati cospicui», ma che tutto dipende dagli effetti della legge Bassanini che scaricò sulle regioni l'onere di attribuire gli assegni di invalidità. La Bassanini però non imponeva di utilizzare la consulenza di studi legali esterni, ai quali invece l'amministrazione Errani ha fatto abbondante ricorso considerata «l'enorme mole delle cause».
In Emilia sentenze creative salva-compagni. Dalle speculazioni per le casse del partito allo scandalo Coopservice: ogni volta che politici e dirigenti rossi finiscono nel mirino le toghe romagnole archiviano tutto. D’Alema fu coinvolto per i finanziamenti illeciti: niente di fatto perché poteva non sapere, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. In questo mondo di regole violate ed eccezioni benedette, c’è un rito che sopravvive a se stesso. È il rito giudiziario emiliano-romagnolo. Una particolare versione dei codici legislativi applicata nella regione più rossa d’Europa agli amministratori pubblici di sinistra. Un’interpretazione non scritta ma assai più in voga di quella autentica, una giurisprudenza «creativa» e a senso unico, impensabile fuori dai confini della regione governata da Vasco Errani dove gli intrecci fra partiti, cooperative rosse, enti pubblici avviluppano anche chi deve amministrare la giustizia. È successo, per esempio, che terreni agricoli acquistati per quattro soldi da prestanomi del Pci-Pds-Ds siano poi stati trasformati dalle amministrazioni rosse in aree commerciali o residenziali con una cubatura moltiplicata a dismisura e guadagni adeguati. Speculazioni colossali per finanziare le bisognose casse del partito. In uno di questi casi (la compravendita dell’area del Campazzo tra Modena e Nonantola) ci furono denunce e processi. Sindaco e assessore furono assolti con una motivazione che lascia di sasso: «La manovra speculativa su aree fabbricabili attuata da un partito politico (indirettamente attraverso l’interposizione di un soggetto economico) alla stregua di privati proprietari può porsi a un severo giudizio di moralità pubblica» ma «non necessariamente implica comportamenti individuali penalmente sanzionati». Speculare per il partito è lecito. Quando la Cassazione le fece a pezzi, la sentenza era ormai prescritta. Altro caso. Negli anni Novanta una legge vietò ai dipendenti dei partiti diventati amministratori pubblici di raddoppiare le indennità di carica e lasciò a carico del partito il versamento dei contributi previdenziali. Una scoppola per i funzionari del Pci-Pds che facevano i sindaci o i consiglieri. Ma la grande famiglia rossa sistemò tutto: i dipendenti del partito furono assunti dalle coop e contestualmente messi in aspettativa (per scaricare sull’ente pubblico i versamenti Inps). Scattarono denunce in tutta Italia. In Emilia Romagna furono indagati 66 amministratori rossi. A Vercelli l’ex sindaco socialista Fulvio Bodo fu condannato a un anno e otto mesi per l’assunzione fittizia; in Emilia tutti assolti: per il gip di Modena «l’assunzione corrispondeva a una opzione professionale» in base a «lodevoli ragioni di opportunità politica». Negli anni di Tangentopoli Nino Tagliavini, manager reggiano presidente del colosso cooperativo Unieco, raccontò di aver portato 370 milioni di lire non dichiarati a Botteghe Oscure e messi in mano del tesoriere Marcello Stefanini. Massimo D’Alema fu raggiunto da un invito a comparire per finanziamento illecito come si usava a quel tempo. Ma il futuro premier fu prosciolto. Tagliavini rivelò di aver partecipato a una riunione con molti presidenti di coop in cui D’Alema fece loro presente i problemi finanziari del partito avvertendo che Stefanini li avrebbe chiamati. Ma per il gip di Reggio Emilia «una richiesta di aiuto finanziario non costituirebbe determinazione o istigazione a commettere falsi in bilancio». Quindi l’allora segretario conosceva e controllava la situazione finanziaria del partito, ma non ha responsabilità nel finanziamento illecito. A differenza che nel resto d’Italia, in Emilia Romagna un capo di partito poteva non sapere. Più recente è lo scandalo Coopservice. In vista della quotazione in Borsa di una società controllata (Servizi Italia), la coop di Reggio Emilia specializzata in servizi alle imprese organizzò un giro di azioni tramite una finanziaria lussemburghese e costituì nel Granducato un tesoretto di 36 milioni di euro destinato ai vertici aziendali, con tanti saluti allo scopo mutualistico e non speculativo delle coop. Nonostante un rapporto della Guardia di finanza segnalasse 46 nomi, il procuratore capo di Reggio indagò soltanto i due personaggi di vertice. Egli riconobbe il marcio nell’operazione: «Non si voleva che le plusvalenze venissero distribuite tra tutti i soci ma a un numero ridotto di persone», un tradimento pieno dello spirito cooperativo e delle leggi che lo regolano (più favorevoli rispetto alla normativa sulle spa). Tuttavia il Pm ha chiesto l’archiviazione per i due indagati: «Si può parlare di insider trading solo se le società è già stata ammessa alla quotazione in Borsa». Il trionfo del «rito emiliano».
Coop, affari da compagni. Emilia: dal crac di
Argenta al caso Errani, scrive Francesco Mura su “Lettera 43”. La vicenda
giudiziaria che ha coinvolto il governatore dell'Emilia Romagna, Vasco Errani,
accusato di falso ideologico per aver favorito, attraverso un mutuo regionale,
il fratello Giovanni - presidente della cooperativa agricola Terremerse - ha
aperto un nuovo squarcio sul fianco cooperativistico emiliano romagnolo e non
solo. Il presidente si è difeso e ha urlato al mondo intero la sua onestà, il
partito si è schierato prontamente intorno all'uomo di punta convinto della sua
assoluta innocenza, ma la vicenda ha rinfocolato la polemica, che dura ormai da
decenni, sull'asse tra le cooperative emiliano romagnole, conosciute come “coop
rosse” e Partito democratico (Pd). Un potere trasversale che detta le regole,
soprattutto economiche. In Emilia, Legacoop può contare su oltre 1500 unità,
quasi 3 milioni di soci, 145 mila lavoratori e un fatturato che sfiora i 50
miliardi di euro. Solo nella regione, le coop si aggiudicano un appalto ogni
quattro e controllano quasi il 70% della grande distribuzione alimentare. Una
vera e propria anomalia nel mondo dell'impresa, un intreccio tra economia e
politica che garantisce poltrone che contano, un elettorato fedele ma, a volte,
qualche guaio. Nel settore non sono mancati, infatti, scandali, bancarotte e
intrecci mafiosi. Come nel caso della defunta Coopcostruttori di Argenta.
Fallita in un mare di debiti nel 2002, l’ammiraglia di Legacoop è finita sotto
inchiesta insieme con il presidente e ad alcuni suoi collaboratori con l'accusa
di fare affari con la camorra campana, compresa quella casertana dei Casalesi.
Un crac miliardario i cui numeri fanno venire i brividi anche a distanza di
anni: 198 milioni di debiti verso i cosiddetti creditori privilegiati, ovvero i
lavoratori, le banche e i professionisti; 137 milioni di fatture inevase e 63
milioni di cambiali accumulate nei confronti di migliaia di ditte, artigiani,
fornitori; 80 milioni di euro i debiti dei 300 soci sovventori e prestatori. In
tutto, 9 mila persone sono finite sulla strada. Vecchie storie, si potrebbe
obiettare, se non fosse che sono legate a doppia mandata con le vicende dei
nostri giorni. Storie di finanziamenti facili, appalti e tangenti delle quali la
vicenda che ha coinvolto Vasco Errani, ancora tutta da provare, non è altro che
la punta dell’iceberg. Che unisce, ancora una volta, l’asse Legacoop-Pci-Pds-Pd.
Un’alleanza di ferro che ha resistito al tempo e alle inchieste, dal caso
Unipol-Bnl fino a Terremerse. «Sebbene siano vicende diverse», ha fatto sapere
Alberto Vecchi, consigliere regionale e coordinatore provinciale del Popolo
della libertà (Pdl), l'episodio che ha coinvolto Errani è la dimostrazione che
le cooperative rosse gestiscono a loro piacimento il mercato e si accalappiano
gran parte degli appalti». Non da oggi, naturalmente. Non bisogna dimenticarsi,
infatti, che l’intreccio tra cooperative rosse e il Partito democratico della
sinistra (Pds) venne alla luce già nel 1993, nella stagione di Tangentopoli.
Allora, il pool di Mani pulite non riuscì a dimostrare che le tangenti finite
nei conti del 'compagno G', all’anagrafe Primo Greganti, fossero a disposizione
del Pds. Tuttavia nelle sentenze di condanna, ormai definitive, si parla di un
sistema in cui le coop amiche venivano favorite nell’assegnazione di appalti
pubblici. Non solo. Dagli interrogatori di Bruno Binasco, allora amministratore
delegato della Itinera, risulta che quando Antonio Di Pietro gli chiese se era
sicuro di non avere mai versato soldi al Partito comunista, lui rispose
semplicemente che i rapporti col Pci prima e con il Pds poi erano mediati
attraverso quattro grandi consorzi di cooperative: Ccpl di Reggio Emilia, Cmb di
Carpi, Ccc di Bologna e Coopcostruttori di Argenta. Un caso anche questo? A
distanza di quasi 20 anni dal “compagno G”, a confermare l’asse Coop-Pd e
chiamare in causa alcune cooperative dell’Emilia Romagna, ci ha pensato il
“compagno P”, all’anagrafe Filippo Penati. Una carriera folgorante e ricca di
soddisfazioni quella di Penati, che prima di accomodarsi sulla poltrona di vice
presidente del Consiglio regionale lombardo è stato sindaco di Sesto San
Giovanni dal 1994 al 2001, segretario della federazione provinciale milanese dal
2001 al 2004 e presidente della Provincia di Milano dal 2004 al 2009. Fino alle
dimissioni e al suo recente De Profundis politico. Anche le vicende
legate a Penati, accusato di aver agevolato imprenditori edili e del campo dei
trasporti, conducono tutte alle Cooperative rosse dell’Emilia Romagna. Dalle
rivelazioni dell’imprenditore Giuseppe Pasini, oltre alle tangenti pagate ai
politici democratici, è venuta alla luce anche una pista che porta direttamente
al coinvolgimento del Ccc di Bologna, il Consorzio di cooperative di costruzione
nell’orbita Legacoop. Non solo.
Pasini ha assicurato che circa 2 milioni e 400 mila euro sarebbero stati versati
dallo stesso ad altre due cooperative che gli inquirenti identificano nella
Fingest di Modena e nella Aesse di Ravenna, due piccole società di consulenza.
Intrecci complessi, di fronte alle quali la vicenda che ha coinvolto Vasco
Errani è veramente poca cosa. La sua storia sembra assolutamente diversa dalle
precedenti e non ha nulla a che vedere con i grossi scandali delle Coop o con le
cosche mafiose. Ma di certo, se venisse provata, sarebbe la prova che il tempo,
gli scandali e gli arresti avvenuti negli anni non hanno minimamente scalfito
l’asse di ferro tra gli ex Pci, ex Pds ora Pd e le cooperative.
Toh, Poletti s'accorge delle coop fuorilegge. Il ministro del Lavoro, ex capo di Legacoop, ammette alla Camera che nel 2014 sei imprese su dieci sono risultate irregolari ai controlli, scrive Francesca Angeli su “Il Giornale”. «Irregolari». Il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, finalmente fulminato sulla via di Damasco, scopre l'acqua calda ovvero che nella maggioranza delle cooperative si lavora in nero e la gestione del lavoro non è trasparente. È il deputato leghista Emanuele Prataviera, a rendere note le dichiarazioni del responsabile del dicastero di via Veneto che è stato ascoltato ieri in audizione dalla commissione Lavoro di Montecitorio. Prataviera ha pubblicato uno stralcio del resoconto delle dichiarazioni di Poletti. «Su circa 5.000 cooperative verificate circa 3.200, pari al 64 per cento, sono risultate irregolari. In particolare sono stati rilevati: circa 7.200 di lavoratori irregolari di cui più di mille in nero e oltre 3.300 casi di somministrazione». Affermazioni nuove per l'ex presidente della Legacoop che ha sempre continuato a difendere questo mondo anche dopo l'esplosione dello scandalo di Mafia Capitale. La tesi sua e di tutto il mondo che ruota intorno alle cooperative rosse, che hanno il loro fulcro in Emilia Romagna, è sempre stata quella della mela marcia. Anzi dopo la pubblicazione della foto del ministro, allora ancora presidente di Legacoop, seduto accanto a Buzzi nel 2010, l'autodifesa di Poletti e delle coop si è condita di pesante indignazione. Quella foto non significa nulla, hanno protestato le cooperative. In effetti Poletti non è coinvolto in alcun modo nell'inchiesta, non è indagato e dunque nonostante fossero molti i politici che ritenevano opportune le sue dimissioni o che chiedevano almeno dei chiarimenti sui rapporti la questione si è chiusa così: normale che Poletti come presidente della Legacoop si trovasse a quella cena. Normale anche che in tutti gli anni della sua gestione non avesse mai rilevato niente di irregolare nella complicata rete costruita da Buzzi grazie alle tante complicità? Per la Lega non tanto normale. E per la verità anche per molti iscritti al Pd, Rosy Bindi, ad esempio, che all'indomani dell'esplosione dello scandalo ha ripetutamente chiesto conto a Poletti di quella cena e di quei rapporti. Adesso la Lega riparte all'attacco perché il problema non si limiterebbe alla gestione criminale di personaggi come Buzzi ma a condizioni di illegalità diffusa come quella del lavoro in nero. I controlli, sottolinea il leghista, sono stati eseguiti nel 2014 e confermano una realtà assai poco limpida, una galassia mai monitorata fino in fondo che ha agito come un mondo a parte e nella quale sono potuti fioriti fenomeni aberranti come quello delle cooperative gestite da Salvatore Buzzi senza che nessuno intervenisse. «Il sistema cooperativo è inquinato. Il dato sulle irregolarità è sconvolgente - accusa Prataviera -. Molte coop hanno rapporti border line con vere e proprie associazioni criminali e che molto spesso operano speculazioni sui soggetti più deboli e bisognosi». Per Prataviera la spiegazione è semplice. «Il settore è marcio per troppi anni ha goduto di protezioni politiche da parte di certa sinistra - prosegue il leghista -. Ora la situazione è degenerata. Nel mondo delle coop ci sono troppe metastasi è chiaro che va riformato e che i privilegi anche fiscali di cui ha goduto per decenni si sono rivelati pericolosi incentivi a delinquere». Nelle irregolarità finalmente «scoperte» da Poletti non c'è sicuramente soltanto la questione fiscale ma anche quella dell'inquadramento dei soci dipendenti che, grazie allo status privilegiato delle coop, non godono di tutte le tutele previste dalla legge e possono subire in alcuni casi iniqui trattamenti salariali. E tutto questo proprio sotto gli occhi di chi dovrebbe vigilare ovvero sempre Poletti questa volta nel ruolo di ministro del Lavoro.
Scandalo Coop rosse: si paga per lavorare. Dipendenti costretti a versare 4000 euro per essere assunti da una cooperativa, scrive Giorgio Mottola “Il Corriere della Sera”. Quanto sareste disposti a pagare per avere un lavoro da seicento euro al mese? Non serve arrovellarsi troppo, una cooperativa sociale di Padova ha stabilito la cifra congrua: 4000 euro. Questa è la somma che la Codess, membro della Legacoop sociali, chiede ai propri dipendenti neoassunti. Che, almeno sulla carta, sono molto più che semplici dipendenti. In molti casi, la Codess preferisce infatti che i propri lavoratori divengano automaticamente soci della cooperativa. Anzi, «è la condicio sine qua non per essere assunti», spiega Chiara, che per poco più di 600 euro al mese, fino a poche settimane fa, lavorava come educatrice in un asilo nido pubblico di Modena gestito dalla coop padovana. Ed è diventando soci che il posto di lavoro diventa particolarmente “caro”. A prescindere dall’ammontare dello stipendio, che mediamente si aggira tra i 600 e i 1200 euro al mese, un socio lavoratore deve sborsare innanzitutto 3000 euro per comprare la propria quota sociale (molto salata rispetto a quanto chiedono le altre cooperative), soldi che vengono restituiti solo nel caso in cui il contratto di lavoro venga rescisso e il socio chieda di riavere indietro il proprio denaro. Altri 1000 euro devono invece essere versati alla Codess a fondo perduto (quindi senza possibilità di poterli mai rivedere), a titolo di tassa di ammissione soci. Niente paura, però, i 4000 mila euro non bisogna consegnarli subito e in contanti. La cooperativa li scala in piccole e comode rate mensili dalla busta paga. Non parliamo di piccole cifre. La Codess ha infatti circa 3000 dipendenti di cui oltre l’80 per cento è anche socio. In questi anni la cooperativa è cresciuta molto, diventando una tra le più grandi nel settore sociale, capace di aggiudicarsi appalti pubblici in tutta l’Italia centro settentrionale, dal Veneto al Piemonte, passando per l’Emilia Romagna e la Toscana. Lo scorso anno è riuscita a raggiungere un fatturato che supera gli 85 milioni di euro con un utile di 250 mila euro. Ma non è tutto oro quello luccica, ci tengono a sottolineare i vertici di Codess, che in passato hanno fatto parte del direttivo regionale di Legacoop in Veneto: le amministrazioni locali pagano con molto ritardo e per questo la società è “costretta” a chiedere i soldi ai propri dipendenti, è la spiegazione che ci hanno fornito nella nota scritta che ci hanno inviato. Ai soci lavoratori di Modena il “prelievo” dalla busta paga non è andato giù. Tramite la Cgil modenese, hanno contestato i mille euro della tassa di ammissione soci e, dopo una lunga trattativa, la Codess ha preferito restituire i soldi ai dipendenti, evitando un processo davanti a un giudice. Quello emiliano è tuttavia l’unico caso di restituzione della tassa in Italia. Il prelievo sulla busta paga degli altri lavoratori della Codess, per ora, continua.
Cooperative Rosse: cosa sono e perché sono sempre meno sociali? Si chiede Kati Irrente su “Nano Press”. Con l’ultimo scandalo che riguarda una cooperativa sociale di Padova, per entrare nella quale i suoi dipendenti devono versare una somma di 4.000 euro, tornano alla ribalta le cosiddette Cooperative Rosse, società costituite per gestire in comune un’impresa. Il mondo delle coop rosse è cresciuto nel Dopoguerra per volere del Pci, che ne teneva le redini attraverso la Legacoop, nominalmente un sindacato d’impresa (come Confindustria), che si è invece rivelata esere una sorta di holding attraverso la quale la politica sceglieva strategie e manager. Ma cosa sono le Coop Rosse, nello specifico? Le cooperative nascono in origine per tutelare gli interessi dei soci, siano essi consumatori, lavoratori, agricoltori, operatori culturali. In teoria, è bene dirlo, alla base del sistema cooperativo ci sono dunque i principi di mutualità, solidarietà, democrazia. Il fatto che il sistema delle Cooperative sia da lungo tempo al centro di critiche e di polemiche deve fare riflettere. Difatti, con il passare del tempo, le cooperative sociali si sono trasformate in un meccanismo sempre meno sociale, rivolto piuttosto al profitto, al pari di una qualsiasi impresa privata, o di una banca. E a questo punto ci si chiede per quale motivo le cooperative non siano oggetto degli stessi controlli rivolti alle aziende private o agli Istituti bancari. Perchè le cooperative sono sempre meno sociali? Nel mirino c’è la Lega Nazionale delle Cooperative e Mutue, talora abbreviata in Lega delle Cooperative o Legacoop, ovvero l’associazione di tutela e rappresentanza delle cooperative ad essa aderenti. Il motivo principale delle critiche verso le coop risiede nel fatto che esse godono di agevolazioni fiscali notevoli rispetto alle normali imprese. Queste agevolazioni vengono riconosciute perché le Cooperative si dichiarano essere senza scopo di lucro e dimostrano di avere scopo mutualistico. Quella che però sembra venire alla luce in questi ultimi anni è una prassi diversa: sebbene molti soci affermino che è normale pagare una cifra (talvolta anche molto alta) per associarsi, il vero problema risiede altrove, ad esempio nei contributi versati al 50%, nella non retribuzione delle ore di malattia, nella gestione non sempre corretta dei giorni sottratti al lavoro a causa di infortuni, e poi le retribuzioni orarie più basse, le 48 ore settimanali di lavoro obbligatorie contemplate dal regolamento di alcune coop, o il pagamento degli stipendi posticipati a 90 giorni. La domanda che sorge naturale a questo punto è: chi comanda le Cooperative? L’assemblea dei soci lavoratori o soltanto alcuni dirigenti? In definitiva, queste aziende mutualistiche (ma solo sulla carta), sono davvero senza scopo di lucro, o servono ad arricchire qualcuno? Dai dati ufficiali del 2009 elaborati dal Centro Studi Legacoop, le cooperative aderenti sono oltre 15000, con otto milioni e mezzo di soci, e sviluppano un fatturato attorno ai 56 miliardi di euro, dando occupazione ad oltre 485.000 persone. Gli scandali più eclatanti. L’ultimo scandalo in ordine di tempo ha coinvolto la Codess, membro della Legacoop sociali, che di norma chiede ai propri dipendenti neoassunti la cifra di 4.000 euro per divenire soci della cooperativa. Il tutto per un lavoro retribuito dai 600 ai 1.200 euro al mese. Inoltre 1000 euro devono essere versati alla Codess a fondo perduto, a titolo di tassa di ammissione soci. Qualche anno fa, invece, la Coopservice, grossa cooperativa emiliana specializzata in servizi alle imprese, in vista della quotazione in Borsa di una sua controllata costituì, tramite una fiduciaria in Lussemburgo, un tesoretto di 36 milioni di euro destinato ai vertici aziendali. Ed è proprio in Emilia Romagna, patria del Pd, e sede anche della Unipol, che l’attività della Legacoop ha il suo fulcro. Ad Argenta (Ferrara), la Coopcostruttori, facente parte della Legacoop, è naufragata nei debiti dopo essere finita sotto inchiesta con l’accusa di fare affari col clan dei Casalesi. A Milano, l’affaire EXPO ha evidenziato il ruolo giocato dalle cooperative rosse. Si guardi al gigante Manutencoop Facility Management e al suo presidente Claudio Levorato, iscritto nel registro degli indagati per concorso in turbativa d’asta e utilizzazione di segreti d’ufficio.
La grande torta delle coop rosse tra scandali e soldi dagli amici. La galassia delle aziende legate al Pd è finita spesso nel mirino dei pm per tangenti e appalti sospetti. Ma con le imprese di sinistra le procure chiudono un occhio, scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. «Quasi mezzo milione di occupati e un giro di affari globale vicino ai 60 miliardi di euro». Si presenta così, sotto il titolo «Come coniugare etica e affari», la Legacoop, casa madre di tutte le coop rosse, un sistema di 15mila imprese che fanno affari da nord a sud e in tutti i settori: edilizia, grande distribuzione, servizi, assicurazioni, banche. Una galassia da sempre parallela al partito - prima Pci, poi Ds, ora Pd - con intrecci di vario tipo: nomine, travaso di dirigenti (che diventano sindaci o anche ministri, come il renziano Poletti ex capo di Legacoop), favori, appalti da amministrazioni amiche. Etica e business, ma ogni tanto, e nemmeno raramente, qualche scandalo. Quando scoppia il bubbone, di quelli grossi, scavi e ci trovi dentro una coop. Nel giro di mazzette attorno all'Expo ecco spuntare Manutencoop, colosso bolognese da 1 miliardo di euro l'anno di fatturato (per il 60% arriva dal pubblico), guidato da sempre dall'ex Pci Claudio Levorato, indagato dalla Procura milanese come presunta sponda a sinistra della cricca. Levorato era finito già nei guai a Brindisi, l'estate scorsa, anche lì per una storia di appalti (la Manutencoop si occupa di pulizia), stavolta alla Asl della città pugliese dove «negli anni la cooperativa emiliana di area Ds - scrive la Gazzetta del Mezzogiorno - ha preso 70 milioni di appalti». Quando si scoprono le magagne il sistema si chiude a riccio, in difesa, e il Pd si scopre garantista ad oltranza (vedi Bersani sul Fatto: «Se la magistratura accerta reati trarremo le conseguenze...»). Eppure i buchi neri del sistema sono frequenti, anche se spesso le Procure archiviano. Qualche anno fa la Coopservice, grossa cooperativa emiliana specializzata in servizi alle imprese, in vista della quotazione in Borsa di una sua controllata ha costituito, tramite una fiduciaria in Lussemburgo, un tesoretto di 36 milioni di euro destinato ai vertici aziendali. La Guardia di Finanza ha scoperto tutto e segnalato 46 nomi alla Procura di Reggio Emilia, che ne ha indagati due, riconoscendo la finalità dell'operazione: «Non si voleva che le plusvalenze venissero distribuite tra tutti i soci ma a un numero ridotto di persone». Condannati? No, perché poi il pm ha chiesto l'archiviazione. Coop rosse anche nel «sistema Sesto», quello che ruotava attorno a Filippo Penati, presidente della Provincia di Milano, capo del Pd lombardo ed ex braccio destro di Bersani. Lì la coop rossa in questione è il Consorzio cooperative costruttori di Bologna, che avrebbe imposto consulenze fittizie da 2,4 milioni di euro a Giuseppe Pasini, l'immobiliarista proprietario delle aree ex Falck, elargite come «condizione per compiacere la controparte nazionale del partito», racconterà proprio Pasini ai pm. Anche lì coop rosse e lieto fine. Al vicepresidente della Ccc bolognese, insieme ad altri due rappresentanti delle coop, tutti accusati di concussione, è andata infatti bene: prescritti. Affari dappertutto, ma cuore pulsante in Emilia Romagna, vero ombelico della vecchia «ditta» Pd, sede anche della Unipol (a Bologna, Via Stalingrado...), quella della tentata scalata a Bnl per opera di Consorte, finita male («abbiamo una banca?»). Lì le coop si aggiudicano un appalto su quattro e hanno un monopolio di fatto nella grande distribuzione (70%). Ne sa qualcosa Bernardo Caprotti, fondatore di Esselunga, che ha ingaggiato una battaglia sanguinosa, a suon di denunce, con Coop Estense, che gli ha impedito l'apertura di due supermercati in provincia di Modena, abusando della sua «posizione dominante». Si è dovuti arrivare al Consiglio di Stato (che ha sanzionato la coop per 4,6 milioni di euro), dopo che il Tar aveva accolto il ricorso della società emiliana. Una battaglia durata 13 anni. Ancora in Emilia-Romagna, ad Argenta (Ferrara), la Coopcostruttori, una delle corazzate di Legacoop, è naufragata in un mare di debiti dopo essere finita sotto inchiesta con l'accusa di fare affari col clan dei Casalesi. Fuori dai guai, invece, il governatore piddino Vasco Errani, finito in mezzo al cosiddetto «scandalo Terre Emerse», dal nome della cooperativa agricola che per la costruzione di una cantina vinicola a Imola aveva beneficiato di un finanziamento regionale di 1 milione di euro. Piccolo dettaglio: il presidente della coop è Giovanni Errani, suo fratello. Ma tutto è finito bene per Vasco Errani, accusato di falso ideologico in atti pubblici: assolto dal giudice «perché il fatto non sussiste». Ma il potere coop si ramifica molto lontano dall'Emilia. «Si respira un clima pesante attorno alla struttura di prima accoglienza di Lampedusa» disse il presidente di Legacoop Sicilia dopo lo scandalo suscitato dalle riprese del Tg2 sui maltrattamenti in un centro di accoglienza per i clandestini, a Lampedusa, gestito da una coop. Un «business» da 2 milioni al giorno, in cui non potevano mancare anche loro. E nemmeno nelle grandi opere. Al nodo Tav di Firenze lavora la Coopsette, altro gigante degli appalti pubblici. Anche di loro si sta occupando la Procura di Firenze, che ha messo sotto indagine 36 persone, tra cui l'ex presidente Pd della Regione Umbria, la dalemiana Lorenzetti. Il sospetto è che si siano usati materiali scadenti, in business addirittura con la camorra. E meno male che lo slogan è «coniugare etica e affari».
Coop rosse di vergogna tra inchieste e lotte sindacali. Ora nel mirino della Cgil, scrive Giorgio Meletti su “Il Fatto Quotidiano”. L'indagine sulle tangenti per l'Expo milanese fotografa un mondo allo sbando. Orfano della politica, ostaggio di padri-padroni inamovibili. Il coinvolgimento nell'inchiesta del gigante Manutencoop e del suo presidente Claudio Levorato non sorprende. La settimana scorsa un duro attacco era arrivato dal segretario generale Susanna Camusso: “Sappiamo bene che veniamo dalle stesse radici, ma proprio per questo ci indigniamo di più quando non si riesce a dare risposta al tema della falsa cooperazione". Altro che magistrati. L’attacco più duro alle coop cosiddette rosse è venuto dal capo della Cgil, Susanna Camusso. La settimana scorsa, chiudendo il congresso di Rimini, il segretario generale del primo sindacato italiano ha riservato alle cooperative parole al vetriolo: “Sappiamo bene che veniamo dalle stesse radici, ma proprio per questo ci indigniamo di più quando non si riesce a dare risposta al tema della falsa cooperazione, quando si usano appalti alla qualunque e non si firmano i contratti, quando si disdettano gli accordi come una qualunque catena straniera della grande distribuzione. Ci indigniamo non per la presenza di soci lavoratori, ma se sono tali solo per non applicare i contratti, che lo si faccia nella cooperazione industriale o in quella sociale, non va bene”. I fendenti di Camusso sono in parte strumentali, giusto per castigare un po’ il ministro del Lavoro Giuliano Poletti che ha appena lasciato la presidenza di Legacoop per farsi interprete del verbo renziano sul mercato del lavoro. Ma non nuovi. Negli anni 90 il suo predecessore Sergio Cofferati già parlava di cooperative “che considerano il lavoro come occasione di profitto sulla pelle dei giovani”. Insomma, è da almeno vent’anni che le coop hanno scoperto il mercatismo e sciolto ogni legame con i valori laburisti e solidaristi. Rivendicano di essere aziende come le altre, e si comportano di conseguenza. Non solo calpestando quando serve i diritti dei loro dipendenti – che molto spesso non sono nemmeno soci, cosicché la cooperative che li assume più che di lavoratori si potrebbe definire di datori di lavoro. Ma anche infischiandosene del codice penale nella stessa misura delle normali imprese private, sebbene pretendano di vedersi ancora riconosciuta una superiorità morale. Il coinvolgimento del gigante Manutencoop e del suo presidente Claudio Levorato nell’inchiesta sulle tangenti per l’Expo milanese non sorprende. La presunzione d’innocenza è fuori discussione, naturalmente, ma l’interessato deve invocarla anche per lo scandalo degli appalti della Asl di Brindisi, per il quale proprio la settimana scorsa sono state chiuse le indagini, e Levorato è uno dei 51 indagati. Il referente locale di Manutencoop, Mauro De Feudis è finito ai domiciliari e, secondo la procura di Brindisi, citata dalla Gazzetta del Mezzogiorno “candidamente afferma di aver richiesto l’intervento del legale rappresentante della Manutencoop Facility Management spa per risolvere la problematica relativa alla mancata assunzione di soggetti segnalati dal consigliere regionale De Leonardis che nel frattempo garantiva loro l’aggiudicazione illecita di appalti in tutto il territorio pugliese”. Il gigante delle costruzioni Cmc di Ravenna, che oggi deve la sua fama all’appalto per il tunnel di servizio dell’alta velocità in Val di Susa, è all’onore delle cronache per il caso del “porto fantasma” di Molfetta, cantiere aperto – secondo l’ipotesi accusatoria della procura di Trani – per incassare i contributi pubblici poi stornati verso altri impieghi. Il costruttore Enrico Maltauro e il faccendiere Sergio Cattozzo, intercettati prima di essere arrestati dai magistrati milanesi per l’Expo, mostrano di conoscere bene la vicenda. Dice Maltauro: “Il casino di Molfetta, non è solo un fatto di corruzione, ma c’è un fatto di truffa ai danni dello Stato”. Specifica Cattozzo: “Per cui i soldi per fare il porto li hanno utilizzati per altre cose”. A fine 2013 la Cmc è stata coinvolta nell’inchiesta sulla bonifica dell’area Rho-Pero, che fa parte dell’operazione Expo, con l’accusa a un suo esponente di aver corrotto il direttore tecnico del cantiere perché non ostacolasse il sereno dispiegarsi del lavoro della cooperativa. C’erano di mezzo questioni di rispetto dell’ambiente anche nell’inchiesta sul tunnel dell’alta velocità di Firenze, per la quale l’anno scorso fu arrestata la presidente di Italferr (gruppo Fs) Maria Rita Lorenzetti, ex presidente della regione Umbria. In quel caso i magistrati hanno ipotizzato un’associazione a delinquere il cui scopo principale era soccorrere una coop con i conti in difficoltà: “Pianificavano una serie di interventi a vasto raggio per influire e determinare le varie amministrazioni coinvolte, in maniera da superare ogni possibile ostacolo e intralcio agli obiettivi dell’associazione: ovverosia favorire al massimo in termini economici Nodavia e tramite essa Coopsette (di cui si teme la prossima insolvenza) a scapito dei costi dell’appalto e a danno delle casse dello Stato”. In effetti la Coopsette e la Unieco, due giganti del mattone cooperativo emiliano, hanno attraversato l’inferno del concordato preventivo e adesso si preparano a fondersi nella nuova Unisette per salvarsi. Evidentemente il ricorso al doping della corruzione, abbastanza tipico per le imprese italiane, è un vizietto che non risparmia le coop, soprattutto adesso che gli affari non vanno per niente bene. Storia antica anche qui. L’idea che esista un blocco compatto chiamato “coop rosse” e unito ai partiti della sinistra è superata nei fatti da un ventennio. Dopo la svolta della Bolognina è scomparso dalla scena il Pci che garantiva alle coop le loro quote di mercato al tavolo della spartizione degli appalti pubblici. I boiardi rossi hanno allora imparato ad arrangiarsi da soli, al grido di “ognuno per sé e tangenti per tutti”. Già il pool Mani pulite, indagando su Tangentopoli, scoprì con una certa sorpresa che era in corso una guerra feroce tra le coop emiliane e quelle lombarde per l’accesso al mercato della Lombardia, che le seconde impedivano alle prime. In uno scenario del genere la Legacoop si è trasformata da holding di fatto, quale era ai tempi del Pci a una pressoché inutile Confindustria delle coop. Poletti, per esempio, è stato tenuto rigorosamente all’oscuro dei traffici in corso tra le grandi coop del consumo per organizzare la scalata alla Fonsai da parte dell’Unipol di cui sono azioniste. E Poletti, come il suo successore Mauro Lusetti, si limitano a minimizzare come “casi isolati” gli scandali che coinvolgono grandi e piccole imprese cooperative. Non sorprende quindi che il risultato della “balcanizzazione” sia stato il consolidamento dei padri-padroni delle singole coop. Personaggi che già vent’anni fa l’allora presidente di Legacoop Lanfranco Turci, poco prima di essere fatto fuori, accusò di “spinte cesaristiche”. Gente come Levorato, presidente di Manutencoop da trent’anni, o come Turiddo Campaini, alla testa di Unicoop Firenze dal 1973, due anni prima della nascita di Matteo Renzi, o come Pier Luigi Stefanini, presidente di Unipol da otto anni dopo una vita alla Coop Adriatica. Logica conseguenza di questa parabola e di queste logiche spietate è ciò che rileva Camusso. Le coop si stanno sempre più spesso qualificando come datori di lavoro efferati. Sul Fatto del 16 marzo scorso Marco Palombi ha raccolto un florilegio di casi incredibili: “Sulla scheda di valutazione di un dipendente abbiamo letto che l’interessato non può essere promosso. Motivo? Fa il sindacalista. Non manca nemmeno l’ordinario marchionnismo: dal delegato Rsu trasferito o demansionato fino alla schedatura fotografica degli scioperanti”.
Le mille zone grigie delle cooperative rosse, scrive Ruben Razzante su “la Nuova BQ”. Già nel 2007 Bernardo Caprotti, patron della catena di supermercati Esselunga, dando alle stampe il volume Falce e carrello. Le mani sulla spesa degli italiani, provò a scoperchiare il pentolone delle cooperative rosse, ricco di esempi di malaffare, di conflitti di interessi, di appoggi incondizionati da parte delle giunte “rosse”. In quel libro, l'autore raccontò la storia della sua azienda e dei contrasti con le cooperative rosse, criticando il sistema di agevolazioni fiscali e denunciando appoggi politici alle cooperative da parte di amministrazioni locali o istituzioni di centrosinistra. Caprotti documentò in quel volume le scorrettezze messe in atto dalle cooperative che gestiscono i supermercati Coop, in particolare in Emilia Romagna, al fine di impedire l'espansione di un concorrente "scomodo" come Esselunga. L’attacco frontale da parte di Caprotti fu catalogato frettolosamente dalla stampa più influente come una rivendicazione “pro domo sua” e ciò impedì di abbattere quel muro di ipocrisia e di omertà che da decenni avvolge il sistema delle cooperative rosse, ancora pieno di zone d’ombra. Lo scandalo di Mafia Capitale ha evidenziato gli imbarazzanti legami tra il mondo cooperativo di sinistra e la criminalità organizzata e il sistema di diffusa impunità che riguarda le coop. Penoso il ping-pong tra giornali di destra e giornali di sinistra all’indomani dell’apertura di quell’inchiesta, come se dalle carte non fosse nitidamente emerso il carattere trasversale del malaffare. La giunta Alemanno, unica di centrodestra negli ultimi vent’anni di governo romano, si è indubbiamente avvitata su pratiche spartitorie e sulla gestione affaristica dei soldi pubblici, riproducendo dinamiche già collaudate dai governi cittadini precedenti. E le cooperative rosse, come emerge dai trascorsi di Carminati e Buzzi, hanno concluso affari indifferentemente con le giunte rosse o con le giunte nere. Ma anche in altre parti d’Italia, come il Friuli Venezia Giulia di Debora Serracchiani, la governance delle cooperative annaspa; si sono registrati buchi milionari in due cooperative di Udine e Trieste che, attraverso incaute operazioni di prestito sociale (simili ai libretti di risparmio postali), hanno dilapidato i risparmi di 20.000 persone. Se certo giornalismo ha affrontato nelle settimane scorse le notizie su Mafia capitale con le lenti deformanti dell’ideologia e del preconcetto, alcuni esponenti della politica e del management hanno riacceso i riflettori sulle torbide manovre che hanno consentito al mondo delle coop di saccheggiare risorse pubbliche, contando su appoggi politici in tutti i partiti, soprattutto, ma non solo, quelli della sinistra. Sta per uscire un libro di Giovanni Consorte proprio su queste trame oscure. Ex presidente e amministratore delegato di Unipol, realtà di riferimento della finanza rossa, diventato celebre per la famosa intercettazione con l’allora segretario Ds, Piero Fassino, che esultava (“Abbiamo una banca”), Consorte nei giorni scorsi ha rilasciato un’intervista al quotidiano Libero e ha denunciato la mancanza di controlli sulle coop e sulla loro gestione, che ha potuto determinare casi di corruzione come quelli smascherati dall’inchiesta su Mafia capitale. D’altronde, l’attuale sistema, così com’è, non può funzionare: i sistemi di controllo sono affidati alla stessa Lega coop, in una logica di autoreferenzialità e di autarchia non più tollerabili. La revisione dei bilanci non può essere interna. Il ministero del Lavoro dovrebbe intervenire. Consorte ricorda nell’intervista che Unipol ha ristrutturato la situazione finanziaria della direzione dei Ds dal 2002 al 2004, un debito da 300 milioni che i Ds avevano anche sulla base delle fideiussioni rilasciate a favore delle banche, accumulatesi nel tempo da parte dei segretari. Ancora più illuminante in tal senso appare l’edizione aggiornata del volume di Fabrizio Cicchitto L’uso politico della giustizia, che riproduce il profilo assai spregiudicato dei dirigenti coop collusi e dei quali parla sorprendentemente lo studioso comunista Ivan Cicconi ("In essi – si legge nel volume di Cicchitto- c’è da un lato l’interesse economico di moltiplicare il fatturato della loro azienda senza guardare troppo per il sottile, dall’altro lato la convinzione che un comunista può fare affari anche con il diavolo senza sporcarsi le mani perché in ultima analisi quello che fa porta vantaggi al partito e al mondo cooperativo"). E’ verosimile che un tale sistema di disinvolta gestione del potere sulle spalle dei cittadini si sia perpetuato per decenni all’insaputa dei vertici del maggiore partito della sinistra italiana? Cicchitto si spinge oltre: "E’ possibile che il gruppo dirigente del Pci non si sia reso conto a suo tempo di questa 'spregiudicatezza' affaristica delle cooperative rosse nel rapporto con la mafia e la camorra? O il gruppo dirigente comunista è stato di una straordinaria 'ingenuità' , oppure fra le dichiarazioni di principio dei dirigenti sulla questione morale e la pratica seguita specie sul terreno degli affari c’era un’enorme contraddizione". Queste domande che Cicchitto alimentano un atroce sospetto. Non è che in Italia le strumentali polemiche sui conflitti di interesse più visibili ma, tutto sommato, anche meno pericolosi, sono in realtà la foglia di fico per coprire le commistioni di interesse più gravi e avvolgenti, quelle che hanno provocato sistematiche e infamanti distorsioni sul mercato dei beni e servizi e nella distribuzione delle risorse collettive?
COOPERATIVE. SOLDI E CORRUZIONE. UNA MANGIATOIA IN CUI TUTTI SI DANNO DA FARE. LAICI E CATTOLICI, BIANCHI E ROSSI SPESSO CON UN UNICO INTENTO INCONFESSABILE. (a cura di Claudio Prandini su “Parrocchie”)
INTRODUZIONE. Negli anni Settanta li chiamavano
«boiardi rossi», quasi a rivendicare il peso del Pci negli appalti pubblici ai
tempi d'oro dell'Italstat di Ettore Bernabei. Poi, con la svolta di Achille
Occhetto nel 1989, sono arrivati i primi «cesaristi», i padri-padroni delle
coop, che lentamente cominciavano a sfilarsi dal controllo e dall'inquadramento
politico di Botteghe Oscure; quindi la lunga stagione di Tangentopoli che ha
restituito al Paese un gruppetto di aziende sottocapitalizzate e senza più numi
tutelari. Che cosa è rimasto oggi di questo ritratto ingiallito delle coop
rosse? Assai poco. Il fil rouge della solidarietà nazionale, i principi
mutualistici e il radicamento al territorio hanno resistito negli statuti delle
imprese cooperative, così come i nomi dei signori dell'economia sociale. Tutto
il resto è una storia ancora da scrivere. A cominciare dai protagonisti e dalle
partite che si stanno giocando sul tavolo dei futuri assetti economici in
Italia. Da Sesto San Giovanni alla rossa Emilia. Un viaggio non particolarmente
lungo, che in queste ore i magistrati, che indagano sul presunto giro di
tangenti, che vedrebbe tra i protagonisti il vice presidente del consiglio della
Regione Lombardia, Filippo Penati, del Partito Democratico, stanno
intraprendendo. Infatti la Procura di Monza ha fiutato una pista che porterebbe
direttamente alle coop rosse.
Circa due milioni e quattrocento mila euro sarebbero stati versati da Giuseppe
Pasini, indagato, imprenditore edile ed esponente del centrodestra, a due
cooperative. Per gli inquirenti si tratterebbero della Fingest di Modena e la
Aesse di Ravenna, due piccole società di consulenza. In tutto sarebbe stato
fatto attraverso maxi rate. È il 2002: quattro versamenti da 619 mila euro
ciascuno, giustificati con delle fatture riguardanti lavori mai compiuti. I due
pm, Walter Mapelli e Franca Macchia, stanno ricostruendo il tutto. Partendo
proprio dall'area Falk. Pasini,interrogato dai magistrati, avrebbe raccontato
che dopo aver comprata l'area, pagando 380 miliardi di vecchie lire, arrivò
l'accordo con Penati, che amministrava la "Stalingrado italiana". Non dovevano
esserci intralci burocratici sui progetti riguardanti le nuove costruzioni da
realizzare nell'ex Falk. Ecco perché sarebbe stata versata una tangente da venti
miliardi. Inoltre l'accordo prevedeva l'intervento della Ccc di Bologna per dei
lavori nell'area. Infine quei due milioni e quattrocento mila euro, partiti
dalla Lombardia e arrivati in Emilia e di cui gli inquirenti vogliono scoprirne
la destinazione finale e capire che cosa si nasconde realmente dietro tutta
questa vicenda. Ma in questo dossier vedremo anche che lo "sterco del diavolo"
fa gola anche ai cattolici della Compagnia delle Opere....
COMPAGNIA DELLE OPERE. DIETRO GLI INTENTI RELIGIOSI, GLI AFFARI DEL DIAVOLO. Fonte “L’Infiltrato”. Centro propulsore del potere ciellino rimane il perfetto connubio con la Compagnia delle Opere, braccio economico di Cl. Ed è proprio questa associazione imprenditoriale che dirotta soldi e favori, gestendo, in questo modo, grosse fette dell’economia nazionale e non solo. Ci si ammanta di intenti religiosi, ma in realtà i numeri parlano da soli: 70 miliardi di euro, 35 mila aziende e professionisti, il 69% delle quali opera nel Nord-ovest italiano. L’associazione ha la finalità di “promuovere lo spirito di mutua collaborazione e assistenza per una migliore utilizzazione di risorse ed energie, per assistere l’inserimento di giovani e disoccupati nel mondo del lavoro, in continuità con la presenza sociale dei cattolici e alla luce degli insegnamenti del Magistero della Chiesa” (dall’art. 4 dello Statuto). Ci si ammanta di intenti religiosi, ma in realtà i numeri parlano da soli: 70 miliardi di euro, 35 mila aziende e professionisti, il 69% delle quali opera nel Nord-ovest italiano. L’adesione alla Cdo, inoltre, cresce con ritmi esponenziali: 10% in più ogni anno. Ma è presto spiegato il motivo: chiunque voglia fare affari (soprattutto in quelle aree nelle quali l’organizzazione attecchisce maggiormente) deve entrare nei meccanismi ciellini e, dunque, nella Compagnia delle Opere. Ma, come detto, il controllo economico non avviene solo in Italia: la Cdo ha già uffici in 12 Paesi stranieri e ci si prepara allo sbarco negli Stati Uniti. Non è un caso, d’altronde, che, dopo Vittadini e Raffaello Vignali, l’associazione sia oggi presieduta dal tedesco Bernhard Scholz. L’organizzazione della Cdo è semplice: ogni settore ha una sua associazione, ognuna di queste piccole associazioni fa capo alla setta che le guida e le istruisce. Principali partner sono Bombardier, Finmeccanica, Sai e Intesa Sanpaolo. Insomma, una struttura gerarchica. Massonica dunque. Ma chi sono gli uomini legati alla Cdo? Un ottimo (e attendibile) termometro è l’analisi dei presenti all’ultimo meeting di Rimini: da Cesare Geronzi (Generali) a Corrado Passera (Intesa), a Ettore Gotti Tedeschi (Ior, la banca del Vaticano), mentre mancava all’appello Alessandro Profumo (Unicredit) che, tuttavia, era presente l’anno precedente. Altra questione. Come funziona la Cdo? Ci sono diversi “gradini” tra gli affiliati. Il primo è quello di chi utilizza l'associazione per avere facilitazioni burocratiche in attività che, per le pmi, sarebbero troppo onerose da affrontare. Non è un caso, infatti, che la Cdo svolge anche un ruolo molto spesso di “medium” tra due o più aziende per concludere affari e trattative. E, in questo, si appoggia a partner pubblici. Per esempio, Coexport, il consorzio della Cdo per l'esportazione, è punto operativo della Regione Lombardia in Argentina, Cile, Cuba, Germania, Kazakhistan, Romania e Stati Uniti. Il secondo gradino è invece quello di chi trova nella Cdo occasioni di business, incontrando altre aziende che poi diventano clienti, fornitori, o, addirittura, soci. Ma la Cdo presenta anche un aspetto che rimane, per molti aspetti, ancora oscuro. Cerchiamo di capire meglio. Giorgio Vittadini, quando lascia la guida della Compagnia delle opere, si dedica anima e corpo ad un nuovo progetto: la fondazione per la Sussidiarietà, legata comunque alla Compagnia delle Opere (molti compaiono nello “staff” sia dell’una che dell’altra: lo stesso Schulz è collaboratore nell’Area Formazione della fondazione di Vittadini). Si legge nel sito della fondazione: “La Fondazione è mossa dall’interesse in chiunque desideri cercare la verità e affermare la libertà di ogni singolo uomo. Ha costituito in questo modo un’ampia trama di collaborazioni multidisciplinari a livello nazionale e internazionale”. Ma quanto vale questo “desiderio” che nutre la “Sussidiarietà”? A livello nazionale risulta molto complesso avere una stima precisa perché appalti, delibere, finanziamenti sono divisi tra migliaia di sigle, spesso riferibili alle stesse persone. Sappiamo, però, che in Lombardia otto dei 16 miliardi di euro di spesa sanitaria sono passati ai privati. E pare che di questi otto, una grossa fetta è finita nelle mani di ciellini legati alla “Sussidiarietà” lombarda. Ma Cdo e Cl non sono attivissimi solo in Lombardia: si stanno espandendo con forza anche nel Veneto (dove possono contare sull’appoggio della Lega), in Emilia Romagna (dove c'è un asse con le cooperative rosse), ma anche in Piemonte, in Lazio e sempre di più al Sud. Ed è proprio qui che gli affari economico-politici pare convergano con quelli delle criminalità organizzate. Molti, infatti, sostengono che prospettare un’intesa tra membri del Cdo e mafie non sia affatto una fantasia. Alcuni mesi fa, in piena estate, alcuni imprenditori, potendo contare su un appoggio politico, hanno partecipato ad un convegno sulla “Sussidiarietà”. Per quanto detto sinora si penserebbe: nulla di strano. Ma se l'imprenditore è Ivano Perego della ”Perego General Contractor”, recentemente finita sotto inchiesta per i suoi rapporti con la ‘ndrina capeggiata da Salvatore Strangio, e il politico è Antonio Oliverio, ricoprente, secondo gli inquirenti, un ruolo centrale nei rapporti tra imprenditori e cosche della ‘ndrangheta, allora la questione si fa molto più interessante. Ma d’altronde Cl e Cdo sono finite diverse volte nel mirino degli inquirenti: la vicenda delle bonifiche di Santa Giulia, scandalo scoppiato all’inizio dell’anno e che ha già interessato diversi politici ciellini vicinissimi al governatore Roberto Formigoni (inchiesta nella quale si accertano anche infiltrazioni di diverse ‘ndrine). Tra questi ricordiamo la moglie di Giancarlo Abelli. E chi è costui? Coordinatore regionale del PDL, deputato ciellino di Forza Italia, già assessore alla Sanità in Lombardia, anche lui è stato toccato da inchieste su possibili rapporti con le criminalità organizzate (i direttori delle Asl di Monza e di Pavia, entrambi coinvolti nella maxi inchiesta dei 300 arresti per infiltrazioni di ‘ndrangheta, spedivano mail con su scritto “votate Abelli“). E ancora Giuseppe Grossi, socio della Signora Abelli, imprenditore legato – chiaramente - alla Cdo, finito sotto inchiesta per presunte dazioni di denaro. Ma di Cdo si parlò anche in “Why Not”: nell’inchiesta che portò alla ribalta Luigi De Magistris, iscritto nel registro degli indagati anche Giorgo Vittadini, di cui abbiamo già ampiamente parlato. Ma, ancora, di ciellini, si parla nell’inchiesta “Oil for food”. Originariamente questo era il nome di un programma inaugurato dall’Onu nel 1996 e avrebbe dovuto permettere all’Iraq di vendere petrolio in cambio di forniture umanitarie, cibo e medicinali. Ma in realtà cosa accadde? Le trattative furono occasione di favoritismi nei confronti di politici e società internazionali ritenute “amiche” del regime. E ciò si verificò anche in Lombardia, dove al Presidente della Lombardia, o meglio, alle società da lui indicate, sarebbero stati assegnati 24,5 milioni di barili di greggio a prezzi decisamente “competitivi” (come riportato nel documento “Report on program manipulation” in cui si dedica un intero capitolo al caso-Formigoni). Tra i “beneficiari” del trattamento privilegiato persone vicine a Formigoni e – neanche a dirlo – a Comunione e Liberazione: una di quelle aziende, la Cogep, faceva capo ai fratelli Catanese, amici di vecchia data del Presidente della Lombardia e, soprattutto, tra i padri fondatori della Compagnia delle Opere. Coinvolto, ancora, Marco Mazzarino De Petro, uomo-chiave della vicenda secondo il rapporto dell’Onu (il suo è uno dei nomi più ricorrenti), e soprattutto, insieme all’amico Formigoni, tra i primi iscritti a Comunione e Liberazione. Insomma, una fitta rete tra religione, strutture massoniche, interessi economici, rapporti con l’alta finanza senza disprezzare quelli con le criminalità organizzate. Il tutto per arricchirsi e arricchire l’organizzazione, puntando sempre più spregiudicatamente al controllo dei punti nevralgici del potere.
Corsi e ricorsi delle coop rosse. Intanto il coinvolgimento nell’inchiesta del mondo cooperativo fa tornare vecchi fantasmi. Fonte “Europa Quotidiano”. Sono passati quasi quattro anni dalla nascita del Partito democratico, ma il Pd potrebbe dover fare i conti con una delle eredità della fusione fra Margherita e Ds: il collateralismo fra la vecchia Quercia e il mondo delle cooperative rosse. Una cinghia di trasmissione, quella fra Legacoop e Botteghe oscure, che ha funzionato con grande efficienza fino al 2007, scaraventando però più di una volta i vertici diessini sotto i riflettori per diverse inchieste giudiziarie e dando più di un argomento a chi ha sempre attaccato la sinistra evidenziando come la berlingueriana “questione morale” sia più che mai trasversale. Nell’inchiesta della procura di Monza che ha portato alle doppie dimissioni del dem Filippo Penati, emerge una pista che porta direttamente al coinvolgimento del Ccc di Bologna, il consorzio di cooperative di costruzione nell’orbita Legacoop. L’imprenditore edile Giuseppe Pasini accusa l’ex sindaco di Sesto San Giovanni di alcuni fatti precisi: nei primi anni Duemila, per ottenere dal comune una deroga al piano regolatore che gli consentisse di costruire più del previsto nell’area ex Falck, sarebbe stato costretto a dare degli appalti per alcuni lavori proprio alla Ccc bolognese. Inoltre, nello stesso affare, sarebbe stato il vicepresidente del consorzio cooperativo, Omer Degli Esposti, a indicare due società di consulenza per commissioni da due milioni e 400 mila euro, soldi che secondo i pm brianzoli non sarebbero serviti a pagare lavori effettivi ma a finanziare illecitamente i vertici nazionali dei Ds. Il sospetto dei giudici Mapelli e Macchia deve ovviamente essere ancora dimostrato, e nel frattempo Degli Esposti smentisce ogni passaggio della ricostruzione di Pasini, dicendo di non aver mai imposto a nessuno alcuna consulenza e soprattutto di escludere che quei soldi fossero poi finiti ai Ds. In ogni caso, a prescindere da come finirà la vicenda giudiziaria, dal mondo cooperativo arriva un’altra grana per il centrosinistra. E non è un caso che Bersani arriva a minacciare azioni legali contro chi si permette di infangare la trasparenza e la correttezza degli amministratori democratici. La Seconda repubblica ci presenta altre due occasioni in cui l’eccessiva vicinanza fra cooperative e Pds-Ds ha nuociuto e non poco all’immagine del partito e dei suoi leader. Il 2005 è l’anno dei furbetti del quartierino e della doppia scalata bancaria Antonveneta-Bnl. A dicembre salta fuori un’intercettazione telefonica destinata a rimanere impressa nell’immaginario collettivo, quell’«Allora, abbiamo una banca?» con il quale Piero Fassino (allora segretario Ds) si rivolge a Giovanni Consorte, presidente Unipol e deus ex machina della scalata delle coop rosse alla Bnl. Scalata che vuole garantire il salto di qualità nell’economia che conta alla Legacoop, ma che per i magistrati viene portata avanti con metodi tutt’altro che puliti e rispettosi delle regole di Borsa: i pm milanesi hanno chiesto quattro anni e sette mesi per Consorte (già condannato per Antonveneta) e poco meno al suo vice dell’epoca, Ivano Sacchetti, a conclusione della requisitoria nel processo Unipol-Bnl. Come poi dimenticare il coinvolgimento del mondo cooperativo rosso nella stagione di Tangentopoli? Il pool di Mani pulite non è riuscito mai a dimostrare che le tangenti finite nei conti di Primo Greganti, il famoso compagno G, fossero a disposizione del Pds. Tuttavia nelle sentenze di condanna, ormai definitive, si parla di un sistema in cui le coop amiche venivano favorite nell’assegnazione di appalti pubblici.
Coop padane, il buco reggiano della Lega Nord. Fonte di Flavio Maiocco su “Reggio 24 ore”. Lo scandalo delle cooperative padane, il tentativo leghista della fine degli anni '90 di convertire il sistema delle coop “di sinistra” a favore dell’ideale padano, ha prodotto alla fine dei conti solo un buco da diverse centinaia di milioni di lire e una serie di fallimenti a catena, oltre alla scia di delusioni e debiti lasciati in giro che ha lambito anche l’Emilia, e nemmeno troppo marginalmente, avendo toccato in prima persona la stessa militanza reggiana del partito del Nord. La vicenda, raccontata ora dal giornalista Leonardo Facco - ex redattore del quotidiano verde "La Padania" - nel suo ultimo libro “Umberto Magno, la vera storia dell’imperatore della Padania” (edizioni Aliberti) risale all'ultimo scorcio del secolo scorso e coinvolge direttamente i big del Carroccio, a partire dal senatùr e gran capo della Lega Nord, Umberto Bossi, fino all'attuale ministro per la Semplificazione normativa Roberto Calderoli. La strategia delle cooperative leghiste, tra le tante iniziative promosse dal partito con l’obiettivo di finanziarsi, pubblicizzare e dare concretezza al progetto indipendentista padano, ha visto fin da subito nomi illustri: se l'idea viene dallo stesso vertice del movimento politico, infatti, all’atto costitutivo - sottoscrittori di quote per centomila lire - figurano anche i nomi dei parlamentari Davide Caparini e Paolo Grimoldi e di Ludovico Maria Gilberti (amministratore del quotidiano "La Padania" e vicepresidente della prima coop di Paderno Dugnano), Piergiorgio Martinelli (già sindaco di Chiuduno e amministratore della Lega lombarda), Davide Boni (oggi presidente del Consiglio regionale lombardo ed ex presidente della Provincia di Mantova), Andrea Angelo Gibelli (parlamentare e vicegovernatore della Regione Lombardia). Non manca naturalmente Roberto Calderoli, a quel tempo segretario della Lega lombarda, in veste di legale rappresentante e presidente della neonata società cooperativa a responsabilità limitata.
Falce e carrello. Le mani sulla spesa degli italiani è un libro pubblicato da Marsilio Editori nel mese di settembre 2007, scritto dall'imprenditore Bernardo Caprotti, patron di Supermarkets Italiani (Esselunga). I ricavi dalla vendita del libro sono devoluti in beneficenza.
II Parlamento, il governo, l'Unione Europea, le Corti di giustizia. Non soltanto questi soggetti si sono occupati della Lega delle Cooperative. Anche le Procure della Repubblica, soprattutto negli anni '90. L'inchiesta "madre", per molti aspetti, fu quella condotta dal pubblico ministero veneziano Carlo Nordio. Il magistrato indagò i segretari nazionali del PDS, Achille Occhetto e Massimo D'Alema, e li prosciolse. Dagli atti emerge chiaramente la funzione delle Coop rosse, e delle finanziarie controllanti-controllate, come braccio economico dell'ex Partito Comunista. Il meccanismo fu messo in luce da Giuliano Peruzzi, consulente delle Coop e braccio destro di Primo Greganti, responsabile amministrativo del PDS. Sui rapporti economici tra Coop e PCI-PDS in quegli anni fu alzato un vero fuoco di sbarramento, teso a negare l'esistenza dell'asse tra "partito" e aziende. Nei mesi scorsi, invece, nel turbine dello scandalo Unipol, il giudizio è mutato. Si è detto che «il collateralismo è finito», non che non è mai esistito. Che i legami tra la parte politica e il suo braccio economico si sono allentati rispetto al passato: dieci anni prima, invece, si negava tutto, anche l'evidenza. Ora la linea è cambiata. «Il rapporto era organico, con finanziamenti indiretti ma occulti», ha spiegato il pm Nordio. «Furono raggiunte prove evidentissime del fatto che le Coop rosse finanziassero il "partito", ma per il Codice la responsabilità penale è personale. E io non ho mai accettato il principio secondo cui chi sta al vertice "non può non sapere". Una cosa sono i finanziamenti al "partito", altra cosa la responsabilità penale individuale rispetto al finanziamento clandestino e continuativo delle società cooperative, dimostrato dall'inchiesta». Peruzzi svelò come funzionavano l'economia nascosta del "partito" e gli intrecci tra Finsoe, Finsoge e PCI-PDS. Il magistrato Veneto arrivò a calcolare l'esistenza di un patrimonio immobiliare della Quercia dell'ordine di mille miliardi di lire, ma a Botteghe Oscure non spiegarono come si fosse potuta accumulare una fortuna del genere, che riconduceva a decine di società immobiliari e a intestazioni fittizie: centinaia di prestanome, fedeli militanti del "partito" che ne era il vero proprietario. Era stata la Procura della Repubblica di Milano nel 1993, durante una perquisizione a Botteghe Oscure, a scoprire una stanza piena di fascicoli relativi agli immobili posseduti dalla Quercia, ma la documentazione per un errore non fu sequestrata subito. E il giorno dopo era sparita: un episodio sul quale si aprì un'inchiesta. «Avevamo fatto uno "screening" degli organigrammi di Coop e PCI-PDS verificando come i vertici delle aziende fossero interscambiabili con quelli della Quercia», ha raccontato Nordio. «Poi scoprimmo che le assunzioni fittizie fatte dalle Coop servivano a favorire il trattamento economico-previdenziale dei dipendenti del "partito". Fatti ampiamente confermati ai magistrati inquirenti di Milano, Napoli e Venezia da chi vi aveva lavorato. Il primo canale di finanziamento del PCI era quello che veniva dall'Unione Sovietica, un Paese che teneva i suoi missili puntati su di noi. Inoltre il "partito" incassava provvigioni sul commercio con i Paesi dell'Est». E le Coop? «Esse avevano una riserva rigorosa di appalti pubblici frutto di accordi politici spartitori a livello nazionale e regionale», ha ricostruito il magistrato. «In questo senso non c'era alcuna differenza tra DC, PSI e PCI: si erano divisi equamente tutto, con qualche briciola per gli alleati minori. Democristiani e socialisti sponsorizzavano le imprese amiche, i comunisti le Coop. Ai primi due partiti giungevano contributi in denaro con i quali si pagavano i funzionari e le altre spese; a Botteghe Oscure i funzionari erano pagati dalle Coop, ma lavoravano per il "partito". Risultato identico attraverso strumenti diversi. Anche dal punto di vista penale: la mazzetta integra il reato di corruzione, il sistema del PCI no. Un altro modo di finanziamento era quello della pubblicità inesistente: le Coop pagavano cifre enormi per farsi pubblicità sui giornaletti del "partito". Spesso le inserzioni, pagate, non venivano nemmeno pubblicate». Anche la Procura di Napoli condusse lunghe indagini con i Reparti Operativi Speciali dei Carabinieri. Un'inchiesta sterminata: migliaia di documenti, testimonianze, bilanci, intercettazioni telefoniche; il solo riassunto finale occupa 1.200 pagine. Le carte parlano di bilanci falsi, fondi neri, licenze edilizie "facili", collusioni con la camorra, finanziamenti illeciti, truffe allo Stato, tangenti, società di comodo. «La Lega delle Cooperative», si legge in un passo della relazione conclusiva dei ROS, «beneficiando dell'apporto incondizionato dell'organismo politico, accrescerebbe la propria forza economi coimprenditoriale garantendo ai partiti di riferimento il mantenimento economico e riversando, mediante alcune società, finanziamenti stornati, soprattutto illecitamente, dalle imprese del movimento cooperativo». E più avanti i ROS spiegano così il successo di Unipol: «La compagnia comincia la sua crescita inarrestabile, forte del consenso di tutti i sindacati italiani che senza esclusione partecipano al capitale sociale e garantita dalla protezione politica del PCI che impone a tutte le sue amministrazioni locali di sinistra di stipulare esclusivamente con Unipol qualsiasi polizza assicurativa di loro competenza». Lo scandalo giudiziario più clamoroso che ha investito Legacoop, dopo quello Consorte-Unipol, ha come protagonista un ragioniere di Argenta (Ferrara), Giovanni Donigaglia, finito stritolato negli ingranaggi del "partito" che aveva fedelmente servito per tutta la vita. Un uomo che si accontentava dello «stipendio di un capomastro» (1.500 euro al mese), che per 43 anni ha guidato la Coopcostruttori, quarta impresa nazionale dopo Impregilo, Astaldi e Condotte, che era arrivata a fatturare 680 milioni di euro nel 2001 e a stipendiare 2.518 dipendenti impegnati in decine di cantieri in mezza Italia: i giornali l'avevano battezzata «la perla dell'universo rosso». Poi il crac. Il primo gruppo edilizio del pianeta Legacoop crollò sotto l'insostenibile peso di 870 milioni di euro di debiti. Donigaglia per decenni fu il principale collettore di finanziamenti verso il PCI-PDS-DS. Negli anni di Mani Pulite fu arrestato cinque volte, passò 12 mesi in carcere, subì 32 processi finiti con 32 assoluzioni. Ma la sua creatura era finita: 900 lavoratori licenziati, altri 1.100 in cassa integrazione, senza contare il disastro finanziario per migliaia di famiglie - a cominciare dalla sua - che avevano investito tutti i loro risparmi nella Coop costruttori e li hanno perduti. Tra manifestazioni di piazza, assemblee di "partito", comitati spontanei si creò un clima di forte tensione. A casa di Donigaglia fu recapitato un pacco-bomba. Nel Ferrarese la cooperativa era vista al pari di una banca tale era la sua solidità e l'investimento nel prestito sociale, peraltro ottimamente remunerato, era considerato un punto d'onore. Qualche dipendente confessò che quasi si faceva riguardo a ritirare lo stipendio a fine mese. Chi aveva già raggiunto la soglia massima di deposito investiva attraverso i parenti oppure sottoscriveva le "azioni a partecipazione cooperativa" emesse più volte da Donigaglia per fronteggiare le crisi di liquidità, spesso senza avvertire i risparmiatori che si trattava di capitale di rischio. Nell'aprile 2004 il giornalista Stefano Lorenzetto convinse il ragioniere ferrarese a parlare per la prima volta. L'intervista uscì su Panorama. Donigaglia raccontò che la Legacoop o direttamente il "partito" (il PCI ad Argenta era arrivato al 78%) gli avevano ordinato di salvare per convenienza elettorale, dal 1975 in poi, la CERCOM di Porto Garibaldi, la COPMA, la Felisatti e la GEI di Ferrara, e la CMR (Cooperativa Muratori Riuniti) di Filo d'Argenta, tutte destinate al fallimento. La Costruttori fu obbligata a rilevare perfino la GIR Costruzioni di Rovigo, cassaforte dei dorotei vene-ti, per fare un favore al ministro democristiano Antonio Bisaglia.Questo patto consociativo, aggiunse Donigaglia, spalancò a Coopcostruttori le porte dell'edilizia pubblica: strade, ferrovie, ponti, dighe, viadotti, parcheggi, porti, trafori, scuole, ospedali, municipi, carceri, caserme, musei, centri sportivi, inceneritori, depuratori, opere di difesa ambientale, pozzi, discariche, centrali elettriche e del gas, reti fognarie, mattatoi. La terza corsia dell'autostrada Serenissima, l'alta velocità ferroviaria Roma-Napoli, l'aeroporto di Malpensa 2000, la ferrovia Firenze-Empoli, la Salerno-Reggio Calabria, il porto di Gioia Tauro. La Lega delle Cooperative, riferì ancora l'imprenditore, pretese da lui un obolo cospicuo per l'acquisto del Molino Moretti di Argenta, che aveva tra i suoi pro-prietari il marito dell'alierà sindaco diessino Silvia Barbieri, la quale sarebbe poi entrata nello staff del segretario nazionale Piero Passino e successivamente diventata senatrice e sottosegretario. Per ordine di scuderia Donigaglia nel 1990 dovette persine acquistare la Spal, la squadra di calcio di Ferrara: bisognava dare una mano al Comune, amministrato dal PDS. Su sollecitazione del "partito" distribuiva quattrini a tutti, compresi organi di informazione e parrocchie. «Ero diventato il refugium peccato-rum», spiegò. «E il "partito" come ricambiava?», gli chiese Lorenzetto. «Vigeva il consociativismo. La Lega-coop otteneva la sua bella quota di lavori in ciascuna opera pubblica. Ma per costruire c'è bisogno che la pratica segua un iter regolare, che gli espropri siano tempestivi, che le concessioni edilizie arrivino. Serve la politica per questo. E l'amicizia». «Quando ho lasciato», rievocò Donigaglia, che adesso amministra una ditta nel Ragusano, «i debiti verso le banche ammontavano a 327 milioni di euro ma in portafoglio c'erano ordini per 1.086,5 milioni». Se la situazione non era così drammatica, perché la Costruttori fallì? Egidio Checcoli, presidente della Legacoop regionale ed ex sindaco comunista di Argenta (nonché ex dipendente della Coopcostruttori), ha sempre proclamato: «Noi, a differenza delle società di capitali, non abbandoniamo i nostri soci in caso di crac». Eppure nel caso della Coopcostruttori la Lega delle Cooperative si chiamò fuori, limitandosi a puntualizzare che la sua funzione di vigilanza era limitata «alla verifica del rispetto dei requisiti di mutualità», che le banche valutavano la possibilità di intervenire e che era stata avviata «un'azione di solidarietà in due direzioni: verso i lavoratori e verso i soci risparmiatori». «Io ho sempre aiutato il "partito", ma nel momento del bisogno, quando il peso della crisi si abbattè tutto sulle mie spalle, il "partito" non ha aiutato me», è l'accusa di Donigaglia. «Io ho effettuato sottoscrizioni elettorali, sponsorizzazioni, ho comprato pubblicità sul-l'Uni fa e affittato spazi a festival e congressi. Tutto legale, tutte spese fatturate e messe a bilancio». Nel 1997 la Legacoop inizia un'opera di ricostruzione e riorganizzazione delle cooperative uscite ammaccate da Tangentopoli, e tra queste c'era anche quella di Argenta. «Consorte studiò un piano di ristrutturazione finanziaria e organizzativa che fu abbandonato dopo qualche mese», rincara oggi la dose Donigaglia. «Quando la situazione si aggravò, il pool di tre banche era pronto a finanziare il progetto industriale, ma la Lega-coop disse che i soldi sarebbero arrivati a patto che io lasciassi. Obbediente, mi dimisi. Però alla fine l'Unipol negò l'appoggio al piano di salvataggio. E fu il tracollo. Consorte aveva soldi per tutti fuorché per la Costruttori. Noi non fummo aiutati, e poi abbiamo visto che tipo di fideiussioni si scambiava con Giampiero Fiora-ni della Banca Popolare di Lodi... C'è da farsi venire il voltastomaco. Io non ho mai rubato, ho creato posti di lavoro, ho aiutato il "partito". Invece il capo di Unipol trafficava in proprio con l'appoggio della Lega delle Cooperative, che nel frattempo aveva mollato me». L'ultimo scandalo giudiziario ha come teatro sempre il settore delle costruzioni e una regione rossa, ma lo sfondo è diverso: non l'Emilia, bensì l'Umbria. Il 30 maggio 2006 sono finiti in carcere il costruttore perugino L. G. (legato alle Coop) e un architetto di Foligno, Raffaele Di Palma. G. ha costruito gli Ipercoop di Collestrada e di Terni, super-mercati a Spoleto e Chianciano, immobili dell'Unipol, edifici pubblici. Il suo fatturato è "esploso" nel 1997, in coincidenza con gli appalti del dopo terremoto. Secondo le accuse, l'impresario avrebbe messo in piedi un sistema di fondi neri grazie alle sue attività con la Coop Centro Italia, il cui presidente Giorgio Raggi è stato sindaco diessino di Foligno ed è vicepresidente della Banca Popolare di Spoleto in rappresentanza di Montepaschi. L'immobiliare ICC della Coop affidava alla società SG Capital Sri di G. gli studi di fattibilità per la realizzazione di centri commerciali, super-mercati, parcheggi, pagando prezzi superiori a quelli di mercato; poi aziende compiacenti facevano figurare con fatture false spese inesistenti a carico della SG: ed ecco la provvista in nero. Che secondo gli inquirenti serviva anche a pagare tangenti a politici. Il terremoto in Umbria non fu tra i più disastrasi registrati in Italia. A questo punto v'è da chiedersi che cosa sarebbe potuto accadere in passato se le Coop avessero avuto mano libera nel Belice, in Friuli, in Irpinia... È proprio il caso di dirlo: la provvidenza c'è. Un bel quadretto, mai smentito.
Soldi al partito e coop rosse. L’inchiesta Penati punta su Roma. Fonte “Il Fatto Quotidiano”. Il ruolo del Consorzio costruzioni nell'affare Falck. Numerosi imprenditori hanno ammesso di avere versato contributi per il Pd all'ex vice presidente del Consiglio regionale lombardo. Un nome blasonato nel mondo delle coop rosse: Ccc, Consorzio cooperative di costruzioni. Il colosso di Bologna è l’unico operatore sempre presente nell’affare immobiliare delle ex aree Falck di Sesto San Giovanni, che in dieci anni è passato attraverso tre diverse cordate. È un vecchio schema noto fin dall’inchiesta Mani pulite: la presenza di una coop rossa in un grande affare garantisce la quota di interessi del Pci e dei suoi derivati, oggi il Pd. Fu per primo l’imprenditore Giuseppe Pasini, oggi grande accusatore di Filippo Penati, a subire l’imposizione della Ccc come futura protagonista dell’edificazione delle aree Falck quando le acquistò nel 2000. Quando Pasini vendette all’immobiliarista Luigi Zunino, nel 2005, il ruolo della Ccc non fu messo in discussione. E quando l’anno scorso a Zunino è subentrato Davide Bizzi, nella eterogenea squadra dei suoi partner (con Paolo Dini di Paul&Shark e il fondo coreano Honua) si è ripresentata l’immancabile Ccc, stavolta addirittura come socio. L’inchiesta del pm di Monza Walter Mapelli sull’ex sindaco di Sesto, nonché ex braccio destro del segretario del Pd Pierluigi Bersani, punta a Roma. C’è una pista fatta di indizi che induce i magistrati a sospettare Penati di essere al centro di un sistema intrecciato con le esigenze di finanziamento del partito. E infatti tra i reati per i quali è indagato, oltre a concussione e corruzione, c’è anche l’illecito finanziamento ai partiti. L’inchiesta, che ha subito un’improvvisa accelerazione due giorni fa con una raffica di perquisizioni tra cui quelle negli uffici di Penati, sembra destinata a esplodere, come dimostrano i toni quantomeno prudenti, per non dire timorosi, con cui gli esponenti del Pd lombardo hanno dato la solidarietà di rito all’esponente indagato. Questa mattina Penati, accompagnato dal suo difensore Nerio Diodà, si presenterà nell’ufficio di Mapelli per chiarire e spiegare. Sarà un confronto difficile per l’ex presidente della Provincia di Milano. Dallo scorso mese di gennaio, quando l’inchiesta avviata nel luglio del 2010 dalla pm di Milano Laura Pedio è passata per competenza territoriale agli uffici giudiziari di Monza, Mapelli ha interrogato decine di imprenditori. Numerosi tra essi hanno ammesso di aver versato contributi al Partito democratico, non registrati in bilancio, su sollecitazione di Penati o di uomini a lui vicini. Il filo che gli inquirenti stanno seguendo è quello che lega i numerosi reati ipotizzati e la carriera politica di Penati. Si punta dunque a ricostruire i meccanismi di un vero e proprio sistema di potere che partendo da Sesto San Giovanni (Penati è stato sindaco dal 1994 al 2001) ha proiettato l’ex professore di scuola media verso il ruolo di braccio destro di Bersani. La caratteristica dell’inchiesta di Monza è proprio la molteplicità degli spunti investigativi. Proviamo a elencarli. C’è il costruttore Pasini che accusa Penati di concussione per aver preteso nel 2001 prima il pagamento di 4,5 miliardi di lire (in due tranche da 2 e 2,5) in cambio di un occhio di riguardo nell’operazione di sviluppo edilizio delle aree ex Falck; e poi di ulteriori 1,2 miliardi di lire, con la stessa finalità, per le aree ex Ercole Marelli; i magistrati considerano queste “dazioni” sufficientemente provate. Ci sono poi episodi di corruzione riguardanti altri affari e altri imprenditori. Un troncone dell’indagine attiene all’affidamento dei trasporti pubblici locali, e vede coinvolto il titolare della Caronte, Piero Di Caterina, indagato non solo come presunto corruttore di Penati, ma anche come collettore di tangenti destinate al leader del Pd lombardo. Di Caterina è un personaggio chiave dell’inchiesta. Perquisendo gli uffici della Cascina Rubina, società veicolo per l’operazione Falck ceduta da Pasini a Luigi Zunino, gli inquirenti hanno trovato alcune fatture a fronte di prestazioni inesistenti emesse proprio dal titolare della Caronte. Ci sono due possibili spiegazioni: o Di Caterina fungeva da “cartiera” per consentire a Zunino la costituzione di fondi neri destinati anche al pagamento di tangenti; oppure, come testimoniato nel caso dei 2 miliardi consegnatigli da Pasini in Svizzera, Di Caterina incassava direttamente il denaro destinato al finanziamento di Penati, per il quale fungeva, a quanto ipotizzano gli inquirenti, anche da collettore. Quel che è certo è che proprio Di Caterina è stato protagonista di una rottura piuttosto velenosa con Penati dopo essere stato per anni in squadra con lui. Infine c’è la storia mai chiarita dell’autostrada Milano-Genova. Penati, come presidente della Provincia di Milano, acquistò nella primavera 2005 dal costruttore Marcellino Gavio, un pacchetto di azioni che gli dettero la maggioranza assoluta del capitale. L’allora sindaco di Milano, Gabriele Albertini, che con il suo pacchetto di azioni garantiva comunque il controllo pubblico dell’arteria, accusò Penati di aver fatto solo un regalo a Gavio, pagando 8,93 euro l’una azioni che diciotto mesi prima l’imprenditore piemontese aveva pagato 2,9 euro. Albertini, per dare un senso a un’operazione altrimenti inspiegabile, ipotizzò che costituisse la contropartita, voluta da una parte del Pd, per convincere Gavio a partecipare con la Unipol alla scalata della Bnl. Albertini consegnò il tutto a un esposto alla magistratura.
EMILIA ROSSA, CUORE NERO, MA CHE SI E' ROTTO IL CA....
“Emilia rossa, cuore nero”. È il titolo del nuovo documentario del regista e videomaker modenese Gabriele Veronesi, già autore del discusso “Modena”, pellicola sulla cementificazione in città costata a suo tempo a Veronesi una querela da parte del sindaco Giorgio Pighi, scrive E.S. su “La Gazzetta di Modena”. Nel nuovo film, il giovane regista, dal 2009 collaboratore di Fuori.tv, racconta le contraddizioni politiche della nostra Emilia: un viaggio in regione di 50 minuti partendo da due universi contrapposti, Cavriago e Predappio, continuando con Bologna, Reggio Emilia, Modena e Parma, fino a Rimini in Romagna, tra manifestazioni, contestazioni e scontri all’insegna del fascismo e dell’antifascismo. Tra gli episodi raccontati, anche gli incidenti con i gruppi autonomi dei centri sociali andati in scena all’hotel Europa nell’ottobre 2011, quando Fiamma Tricolore organizzò in città un convegno per celebrare la marcia su Roma e parlare delle opere sociali del fascismo. C’è, inoltre, un approfondimento su Sassuolo, considerato come un esempio di come lo scontro tra ideologie diverse pervada i diversi aspetti della vita politica del nostro Paese. Il film – un’inchiesta condotta senza voci fuori campo - è stato finanziato con le risorse personali del regista.
Emilia rossa cuore nero, un documentario sulla terra di partigiani e fascisti, scrive Giulia Zaccariello su “Il Fatto Quotidiano”. C’è una regione, in Italia, in cui Lenin e Mussolini distano poco più di 150 chilometri uno dall’altro. Ossia la strada che separa Cavriago, 10 mila anime cresciute all’ombra del busto del padre dei bolscevichi, da Predappio, comune ai piedi dell’appenino forlivese, noto per i pellegrinaggi alla tomba del duce. È la terra in cui convivono, a fatica, pugni chiusi e braccia tese , in cui si incontrano e si scontrano Casapound e centrisociali, Fiamma tricolore e antagonisti proletari. È la patria dell’antifascismo che si guarda allo specchio e si scopre nostalgica. E che oggi diventa protagonista di un documentario “Emilia rossa, cuore nero”, realizzato dal giovane regista modenese, Gabriele Veronesi, e presentato in anteprima nazionale venerdì 8 novembre al Via Emilia Doc Fest. “L’idea di raccontare questo tema nasce all’indomani degli scontri, avvenuti a Modena nel 2011, in occasione di un convegno organizzato da Fiamma tricolore” racconta il regista. Giornalista e videomaker, nonostante i ventotto anni ancora da compiere, Veronesi ha all’attivo diversi progetti, tra cui “Modenaalcubo”, inchiesta sull’urbanistica modenese, che ha fatto infuriare l’amministrazione Pd. “La mie intenzione era dare vita a un lavoro che non fosse un semplice documentario contro il fascismo, ma un progetto che ascoltasse le ragioni di entrambi. Andando a toccare questioni come la libertà d’espressione, l’apologia di fascismo e lo scioglimento delle realtà politiche che si ispirano al Ventennio. Il tutto con uno sguardo il più imparziale possibile”. Realizzato con un budget limitato, in tutto circa 1500 euro, e completamente autoprodotto, il documentario è un viaggio nel paradosso emiliano: la regione rossa per eccellenza, costretta a confrontarsi con i camerati del nuovo millennio. “Una contrapposizione raffigurata in modo emblematico in una fotografia, che è stata di grande ispirazione per tutto il documentario e che raffigura il busto di Lenin a Cavriago, totem del comunismo emiliano, colpito da una goliardata, rivendicata dai ragazzi di Casapound. Un colpo al cuore, quasi un atto simbolico che dimostra come non ci siano più zone inibite a questi movimenti e partiti”. L’obiettivo è andare oltre la semplice antitesi, rossi contro neri, creando un punto di partenza per un confronto, e per una riflessione più ampia. “Sono convinto che il puro conflitto sia sempre negativo. E che l’antifascismo migliore non sia quello che spacca le vetrine, ma quello che si fa a scuola, quello che produce ricerca e documentazione. Ma allo stesso tempo penso che in Italia, nonostante l’assenza della politica, siano rimasti gli anticorpi contro gli estremismi e il fascismo”. Nel video si alternano immagini delle manifestazioni antifasciste organizzate dai centri sociali a Bologna, Modena e Reggio Emilia, a quelle dei pellegrinaggi dei nostalgici che ogni anno, a luglio e a ottobre, invadono Predappio al grido di “lunga vita al duce”. E poi interviste, tra gli altri, al sindaco di Sassuolo, Luca Caselli, avvocato ex missino oggi alla guida del comune modenese, al sindaco di Predappio, Giorgio Frassineti, e a Saverio Ferrari, esperto di neofascismo.
Domenica 23 novembre 2014. La pecora nera. C’era una volta la Regione rossa per eccellenza, quella terra che ha dato i natali a molti leader politici di sinistra, dove il PCI era una religione e dove era blasfemo appartenere ad altri partiti, Ermanno Cecconetto su “Alessandria News”. In una parola sola c’era una volta l’Emilia-Romagna, terra di gente generosa che ha sempre fatto ciò che il partito gli chiedeva e dove è giusto date atto che la sinistra è riuscita a realizzare tante cose belle. Tra i doveri che un partito chiede alla sua gente c’è ovviamente il voto negli appuntamenti elettorali, ma domenica scorsa sembra che questo comandamento sia venuto meno. Sicuramente ha pesato il clima avvelenato con cui se n’è andato Errani, ma è un fatto pesante che solo il 37.7% degli aventi diritto è andato a votare, contro il 68% del 2010. Sor Matteo pare non preoccuparsene e cinguetta: ”Due a zero. L’affluenza è un problema secondario”. Ovviamente ha ragione perché per la nostra normativa non esiste un quorum che invalidi una elezione (ci hanno visto lungo i nostri padri fondatori…) se non quella amministrativa, ma dovrebbe destare un po’ di perplessità se quasi due terzi degli elettori hanno deciso di disertare le urne, a maggior ragione se quella Regione rappresenta da sempre il bacino maggiore del proprio partito. Ragionando in termini di voti, se si guarda il precedente europeo, in sei mesi Renzi ha perso ben 677mila voti; non sono certo pochi, visto che notoriamente le Regionali sono più sentite delle Europee, ma per Stefano Folli, su Repubblica, “è anche un elemento di modernità e di normalità nella tendenza all’astensione”. Sarà pure un elemento di modernità, ma a me sembra un brutto colpo d’arresto per la democrazia. Meno gente va a votare e meno si è legittimati a governare un’istituzione, ma se vogliamo ragionarla puramente in termini di vittoria numerica allora ha ragione Renzi: due a zero e palla al centro! Matteo nel suo tirare dritto sembra sempre più il Marchese del Grillo alle prese col suo famoso detto: “io so’ io e voi nun siete un ca..o!” Anzi sono convinto che a Renzi in fondo gli stia bene così e del resto pensiamoci un attimo: meno persone al voto significa dover prendere meno voti per vincere e nel bene o nel male il PD è l’unico partito che ha ancora uno zoccolo duro abbastanza ampio su cui fare affidamento e potrà far leva sullo spauracchio delle elezioni anticipate per rimettere al loro posto la maggior parte dei dissidenti. Nessun partito ha vero interesse nell’andare al voto.
L’astensionismo in Emilia-Romagna ha riguardato tutti. E soprattutto il M5S, dicono i dati dell'istituto Cattaneo. Come dopo ogni elezione in Italia, il centro studi indipendente “Carlo Cattaneo” ha diffuso le sue analisi sui dati e i flussi elettorali riguardo le recenti elezioni amministrative in Emilia-Romagna e in Calabria. La lettura degli studi è particolarmente interessante perché dopo il voto si è discusso molto dell’altissima percentuale di persone che hanno deciso di astenersi, soprattutto in una regione dall’affluenza storicamente alta come l’Emilia-Romagna. A differenza del 2010, il 23 novembre si votava in due sole regioni (oltre all’Emilia-Romagna la Calabria), aspetto che ha contribuito ad affievolire l’attenzione mediatica nazionale sull’evento. Inoltre, nel caso dell’Emilia Romagna emergeva chiaramente, dai sondaggi elettorali, la percezione di non contendibilità della regione, storicamente appannaggio del centro-sinistra e in cui, quindi, la capacità del singolo elettore di essere decisivo con il suo voto restava assolutamente irrisoria. Detto questo, il risultato uscito dalle urne è clamoroso. Sin dalle prime elezioni del dopoguerra, l’Emilia-Romagna è sempre stata ai primi posti nella graduatoria nazionale della partecipazione, e questo è continuato ad avvenire anche in occasione delle elezioni più recenti in cui l’affluenza è diminuita. La partecipazione elettorale è stata letta, da molti studiosi, come una componente importante del cosiddetto “capitale sociale”, alla base del rapporto di fiducia tra cittadini e amministrazione così come tra cittadini e politica, vera e propria cifra distintiva che connotava la regione rispetto ad altre aree del paese. Il voto del 2014 segnala come questa eccezionalità emiliano-romagnola si sia quantomeno bruscamente interrotta. Mai l’affluenza era scesa in regione sotto il 68%. Il dato di un’affluenza pari ad appena il 37,7% è peraltro più basso di quello registrato alle stesse elezioni in Calabria (44,1%) e rappresenta il livello minimo raggiunto in tutte le regioni italiani chiamate al voto negli ultimi anni in occasione delle varie elezioni di diverso ordine (anche inferiore al precedente valore minimo del voto regionale in Sardegna nel 2014, dove si erano recati alle urne il 40,9% degli elettori). Riguardo la provenienza degli elettori che hanno deciso di non votare in Emilia-Romagna, e le loro preferenze elettorali alle ultime elezioni europee, l’istituto Cattaneo è arrivato a queste conclusioni: Notiamo che, sebbene tutti i partiti abbiano perso verso l’astensione, il M5S è il partito che maggiormente soffre di questa emorragia: verso il non-voto si dirige una percentuale fra il 63% (Bologna) e il 74% (Reggio Emilia) di chi aveva scelto i 5 stelle alle europee. Il Partito democratico e Forza Italia perdono voti verso l’astensione in maniera più contenuta ma pur sempre assai rilevante, e sostanzialmente nella stessa misura (media delle quattro città attorno al 43% del proprio elettorato). La Lega è la forza che riesce a limitare maggiormente i danni, subendo flussi verso l’astensione compresi fra il 20 e il 30% del proprio elettorato delle europee. Tutte le altre dinamiche elettorali possono considerarsi secondarie rispetto alla frana collettiva verso l’astensione. Si tratta comunque di segnali importanti sui quali val la pena di soffermarsi. Consideriamo in primo luogo il successo (indubbio) della Lega: è noto il fatto che nell’intera regione la Lega ha avuto il doppio di voti di Forza Italia, e questo risultato è pure sorprendente, in quanto prima delle elezioni era in dubbio l’eventuale sorpasso di Lega su FI. Il successo della Lega appare determinato da quattro dinamiche. In primo luogo, la maggiore tenuta (anche se non assoluta, come abbiamo già detto) verso l’astensione. Poi un voto proveniente da Forza Italia: flusso è presente in tutte le città con una accentuazione a Parma, dove addirittura gli elettori di FI che hanno votato Lega sono superiori a quelli che hanno confermato il voto a FI. Una terza componente è un flusso di origine M5S, non rilevantissimo, ma significativo in quanto presente in tutte le città analizzate. Sappiamo che il successo di M5S nel 2013 fu determinato anche da elettori ex leghisti che avevano visto nel partito di Grillo un canale di protesta più credibile della Lega di allora: di fronte alle attuali difficoltà dei 5 stelle è facile ipotizzare un loro parziale “ritorno a casa”. Infine notiamo che a contribuire al successo leghista c’è – in tutte le città – un flusso di voti dal Pd. Si tratta di un movimento elettorale a prima vista inaspettato. Tuttavia è possibile che l’appello di destra esplicita di Salvini (in particolare i toni aggressivi verso le minoranze etniche) abbia avuto una certa accoglienza presso frange popolari ed esposte al primo impatto con la marginalità sociale (ricordiamo come in Francia il lepenismo si sia avvalso di questa dinamica catturando simpatie presso ceti popolati già di sinistra). Tornando al Partito democratico, rileviamo in tutte le città analizzate un flusso di voti verso l’area che abbiamo chiamato della “sinistra radicale” (Sel + L’altra Emilia-Romagna), ed anche, in tre città su quattro, un flusso verso i 5 stelle. Il primo movimento è probabilmente da ricondursi alle resistenze anti-renziane interne al Pd (e forse anche al recente scontro fra Renzi e il sindacato); il secondo potrebbe essere imputabile a ex elettori 5 stelle che nelle europee erano confluiti su Renzi e che ora, disillusi, “ritornano a casa” (ma si tratta – evidentemente – di pure ipotesi).
Elezioni regionali Emilia Romagna: la lunga lista dei motivi dell’astensionismo, scrive Loris Mazzetti, Dirigente Rai, autore e scrittore, su “Il Fatto Quotidiano”. Per la prima volta non sono andato a votare, ho fatto parte del 62,30% degli aventi diritto che in Emilia-Romagna hanno protestato contro le spese folli di 42 politici su 50 eletti nel palazzo della Regione; le inqualificabili intercettazione telefoniche del capogruppo del Pd Monari contro la Gabanelli e come fare per sfuggire alla giustizia; le interviste a pagamento, in particolare dei consiglieri Favia e Defranceschi, quando erano ancora grillini duri e puri, disposti a diventare strumento di manipolazione dell’informazione in cambio di consenso; la candidatura nel M5S del giornalista Patacini, sospeso dall’Ordine dei giornalisti, che gli spazi del tg li vendeva, giustamente punito dagli elettori; la lista potrebbe essere quasi infinita. Se non nasceranno alternative ai leader Renzi, Grillo e al fantasma che sta a capo della sinistra, i delusi che hanno deciso di non votare alle regionali sono destinati ad aumentare sempre più. Il Pd non è più un partito di centrosinistra, Renzi sta costruendo il grande centro, sta facendo piedino alla destra moderata e liberale delusa da Berlusconi. L’ex Cavaliere è politicamente agonizzate, nonostante che illustri politologi sostengano il contrario, le nove vite si stanno esaurendo. E’ un uomo profondamente deluso dal sapere che non potrà mai diventerà presidente della Repubblica (il suo vero obiettivo da quando è sceso in campo), condannato definitivamente dal paese che lui è convinto di aver riformato, anche se in questo momento è distratto dall’impegno di salvare, come sempre, le sue aziende dalla disfatta finanziaria, la priorità del momento è di riuscire nell’operazione di vendere Mediaset Premium a Telecom e di acquisire quote di quest’ultima. Berlusconi sa che il vero business della tv passa attraverso la Rete. Matteo Renzi rappresenta la continuità con l’ex Cavaliere, è il suo delfino, in lui ha trovato ciò che non aveva prima Fini, poi Alfano, nonostante sia sempre alla ricerca come dimostra l’ultimo casting fatto tra i giovani di Forza Italia. Renzi sta dimostrando di essere giovane e innovativo nelle proposte, ma vecchio nel metodo e nel risultato, il disprezzo per i sindacati e i lavoratori che protestano chiedendo rispetto dei diritti, più occupazione e meno precariato, appartiene alla antica ‘Balena Bianca’, con lui a capo della segreteria il Pd ha più correnti che la Dc all’epoca di Andreotti e Forlani. La sinistra non è andata a votare, vive con i fantasmi del passato, spera nel ritorno di Berlinguer, ma questo accade solo nelle serie tv americane, la realtà è che la sinistra non ha un leader, una figura carismatica in cui credere, manca un Alexis Tsipras, il leader greco di Syriza o un Pablo Iglesias, il leader del movimento Podemos quarto partito in Spagna, gli ultimi sondaggi lo danno al primo posto. Tsipras e Iglesias non hanno organizzato le cene con gli industriali o gli incontri nelle fabbriche con i lavoratori obbligati a ferie forzate, hanno cominciato incontrando i cittadini ai super mercati, per capire i bisogni, schierando truppe di giovani volontari che portano viveri a domicilio ai più bisognosi, la spesa alle persone anziane. A Milano e più in generale in Lombardia, l’assistenza la fanno i fascisti del terzo millennio di Casa Poud o i leghisti che, grazie a Salvini e Borghezio, stanno diventando più o meno la stessa cosa, con la differenza che non usano la croce uncinata ma in comune hanno la stessa xenofobia e il razzismo verso gli stranieri, gli studenti e i centri sociali che protestano. A proposito di Lega, Matteo Salvini, che in Emilia-Romagna ha portato a casa un importante risultato soprattutto per aver doppiato i voti di Forza Italia, non sarà mai il leader di tutta la destra, ma solo di quella estrema, radicale. In questo periodo il suo movimentismo, la sua presenza in tutti i talk show, le felpe dai tanti slogan, hanno fatto dimenticare il passato recente della Lega, un partito passato per le mani di ladri, che si distratto nelle istituzioni lombarde consentendo alla criminalità di fare affari con gli appalti. In fine la grande delusione del M5s, il cui declino è inesorabile se alla guida rimarranno Grillo e Casaleggio autori al Parlamento Europeo di accordi con i nazifascisti come il leader dello Ukip Farange e il polacco Iwaszkiewicz che sostiene la legittimità di picchiare moglie e figli. Nessuno vuole negare il merito del duo, l’aver costruito un Movimento capace di raccogliere la protesta ma non capace di tradurla in proposta. Il rischio del M5s è di rimanere la grande incompiuta. Il cancro che condiziona il futuro dell’Italia, il patto del Nazareno tra Renzi e Berlusconi, è anche frutto dell’ottusità di Grillo che avrebbe tutto il diritto di riposarsi e il dovere di far crescere i tanti giovani, come Di Maio, Di Battista, che lui stesso ha valorizzato.
Emilia Romagna, perché fa male "il non voto". L'astensione non ha colpito una regione qualunque, ma la culla delle leghe cooperative, del Pci e suoi derivati. Così la sinistra ha perso il suo patrimonio più prezioso: il radicamento nel territorio, scrive Gigi Riva su “L’Espresso”. Si può fare come Matteo Renzi e dire: “La non grande affluenza alle urne è un elemento che deve preoccupare ma che è secondario”. Oppure prendere il toro per le corna e guardarla da vicino la “non grande affluenza”. In Emilia Romagna dal 68,06 al 37,67. Praticamente la metà. D'accordo che la democrazia non si esaurisce nel voto. Ma il voto ne è il presupposto fondante. Almeno per chi l'avesse a cuore fin dalla radice etimologica del nome. L'Emilia Romagna non è una regione qualunque. Ma la culla delle leghe cooperative, del Pci e suoi derivati, di quel “capitale sociale” tanto osannato anche da studiosi stranieri come Robert Putnam. In una parola, l'Emilia Romagna è sinonimo di partecipazione alla vita pubblica. Per questo faceva male, ieri, fuori dai seggi, osservare la gente che andava a vedere chi “non” andava a votare. A misurare “quanti” avevano disertato perché fosse la massa dell'astensione il dato cruciale e non chi aveva vinto o aveva perso. Nelle “non code” alle urne c'erano sì degli anziani che dicevano: “Mi hanno detto di non votare ma io lo faccio ugualmente. L'Emilia Romagna è troppo importante”. Chi ha detto di non votare? Nessuno in particolare. Ma un collettivo modo di sentire, una disillusione diventata punizione. Per le inchieste che hanno travolto la Regione e i consiglieri di tutti i partiti nessuno escluso. Come nelle altre Regioni, peraltro, ma sancendo la fine di quella “eccezione Emilia Romagna”: il patto non esplicito che legava elettori ed eletti in nome del “bene comune” e della “cosa pubblica”. Questa rottura, trasversale, non è affatto “secondaria”. È sostanza della politica. E se da un lato provoca l'astensione, dall'altro nutre scelte in direzione di quell'altra Lega (non cooperativa) scesa coi colori verdi sotto il Po a promettere sicurezza a cittadini indifesi davanti alla microcriminalità galoppante, a spacciare mirabolanti ricette per sollevare un'economia in affanno persino sulla un tempo opulenta via Emilia. Promesse che fanno mercato, laddove l'ex “partitone” ha rinunciato al suo patrimonio più prezioso: il radicamento nel territorio.
Ecco di chi è la colpa se l'Emilia rossa non c'è più, scrive Andrea Casadio su “Ravenna e dintorni”. L’Emilia rossa non c’è più. Scomparsa, svanita, sommersa sotto il voto di domenica scorsa. Il Primo Ministro Matteo Renzi ha cinguettato felice: “Vittoria netta, bravissimi. L’affluenza è un problema secondario.” Secondario, caro Matteo? Secondario un corno, e lo sai anche tu. Sì, d’accordo, il candidato Stefano Bonaccini ha vinto, con il 49,1 per cento dei voti, ma il 49 per cento di cosa? Ha votato solo il 37,7 per cento della gente, in una regione dove fino a pochi anni fa votava il 95 e passa per cento. E sì, certo, troviamo le scuse, facciamo finta, perché tanto hanno perso tutti i partiti – il Pd, Forza Italia, il Movimento 5 stelle – tranne la Lega. Inutile girarci attorno. L’Emilia era rossa. Il Pd dalle scorse elezioni europee ha perso 677 mila voti. E la colpa è del Pd, solo del Pd. È colpa di Massimo D’Alema, che per anni ha sostenuto che l’Italia è un paese moderato, che quindi era inutile fare politiche di sinistra tanto il popolo beota non l’avrebbe mai votata, la sinistra, e che piuttosto che pensare idee nuove era meglio elaborare tattiche politiche astruse, col risultato che la politica del Pd è diventata soprattutto gestione, neanche troppo trasparente, di nomine, appalti, fondazioni, banche e cooperative. È colpa di Pier Luigi Bersani, che nelle ultime elezioni politiche ha detto che in economia si doveva proseguire con l’agenda Monti, cioè dissanguare il ceto medio. È colpa di Matteo Renzi che sostiene che bisogna fare le riforme con la destra, con la destra di Berlusconi, col risultato che adesso ti votano gli ex di Forza Italia e gli imprenditori, ma non gli operai e poco la gente di sinistra. È colpa di Vasco Errani, che ha preso una condanna in appello per falso ideologico per un finanziamento di un milione di euro alla cooperativa di suo fratello. È colpa di quella del Pd che non so neanche come si chiama che coi miei soldi s’è comprata un sex toy, dicesi vibratore, clitorideo. È colpa di Stefano Fassina, che adesso si sveglia e s’inventa che la colpa è di Matteo Renzi perché “il conflitto sociale alimentato da Renzi contribuisce ad allontanare gli elettori”, ma gli vorrei chiedere dov’era lui quando Bersani perdeva o nominava Vasco governatore dell'Emilia. È colpa di quei centouno che non hanno avuto il coraggio di votare Prodi, perché sì, sarà stato un colpo di maestria politica, ma io lo chiamo piuttosto tradimento. È colpa di quei deputati e senatori del Pd che hanno votato o non si sono opposti con sufficiente vigore a tutte le leggi volute da Silvio Berlusconi, anche le leggi più carogna, come la cancellazione del falso in bilancio o quella che ha allungato la prescrizione, così in Italia un ricco può permettersi uno stuolo di avvocati, prolungare il processo all’infinito e in pratica farla sempre franca. È colpa di Matteo Renzi e di quei deputati e senatori Pd che, oh poverini, adesso si indignano perché 2.200 lavoratori della Eternit di Casale Monferrato sono morti di mesotelioma maligno al polmone, un cancro che ti toglie il respiro, e non c’è un colpevole perché Stephan Schmidheiny, il padrone della Eternit, che sapeva benissimo che l’amianto era cancerogeno, l’ha scampata grazie alla legge sulla prescrizione voluta da quel grande statista con cui stanno facendo ora le riforme. È colpa mia, soprattutto mia, perché ho detto con voce troppo bassa che la sinistra, la mia sinistra, non era capace di elaborare una proposta alternativa, una visione d’una società più giusta, e di parlare al cuore della gente. Bravi. Avete vinto. Abbiamo vinto. Ma è una vittoria che pesa più d’una sconfitta.
Morandi: “Non ho votato. Qui in Emilia siamo tanti più a sinistra di Renzi”. Il cantante: «Se il premier fosse stato leader di un partito negli Anni Cinquanta, io e mio papà forse l’avremmo visto come un rivale politico», scrive Marinella Venegoni su “La Stampa”. Nemmeno Gianni Morandi ha votato, domenica scorsa per le elezioni in Emilia-Romagna. La sua confessione sorprende perché negli ultimi anni non ha mai parlato volentieri di politica e figuriamoci di voti: anche le pietre, intanto, sanno la sua storia orgogliosa di ragazzo figlio del ciabattino di Monghidoro, e di quei pomeriggi della domenica passati insieme a distribuire l’Unità a chi entrava nel cinema Aurora del paese. Si intuisce ora un fiotto di amarezza che gli esce dal cuore, in una serata nata invece tutta calda e affettuosa: all’improvviso le canzoni tacciono e si parla fuori dai denti della sua Regione che ha perso l’onestà; e di una parte nella quale si è a lungo riconosciuto ma che non è più la stessa: «Se ci fosse stato Matteo Renzi leader di un partito negli Anni Cinquanta, io e mio papà forse l’avremmo visto come un rivale politico». Che cambio di atmosfera, alla Eatery, mentre Morandi canta i settant’anni che arriveranno il prossimo 11 dicembre, festeggiati anche con un album di successi dal titolo prudente, «Autoscatto 7.0». Ma la musica, quando ha un senso, anche questo sa fare: confessa. Gianni racconta che da ragazzo la sua preferita era «Un mondo d’amore», il grande prato verde dei ragazzi che si chiamano speranza. Invece ora: «Per il disco, i titoli sono stati scelti dai 1 milione e centomila fans sulla mia pagina Facebook: la più votata, con un grande margine, è stata “Uno su mille”. È una canzone che è un termometro vero di disagio, con il suo testo che fa “Se sei a terra non strisciare mai, se ti diranno che è finita non ci credere...”». Magari allora, nel 1985 quando la canzone fu scritta da Bardotti, proprio pensando ai tempi difficili che Morandi aveva appena passato con l’avvento del rock, ce la faceva uno su mille, caro Gianni Morandi: adesso quante sono le probabilità? La risposta arriva affilata e oscura per un attimo l’idea dell’emiliano giovialone: «Io dico che un momento così non se lo aspettava nessuno in Italia. Non c’è qualche spiraglio, qualche speranza vera a cui appendersi, qualche luce lontana alla quale ispirarsi, a parte le parole che dice ogni tanto Papa Francesco». Il tempo di un sospiro, di rendersi conto che, con la sua storia e il suo mestiere, ha il dovere del tiramisù. E allora prosegue: «Ma io sono ottimista, credo nei giovani, credo che salveranno l’Italia e non solo». In realtà, la delusione per la sua Emilia brucia ancora: «Un mese prima delle elezioni è successo lo scandalo in Regione. Sembrava che a casa nostra non succedessero queste cose, invece anche loro alla fine hanno messo le mani nella marmellata. Ecco, io sono uno di quel 63 per cento che non è andato a votare: ma forse anche perché davo per scontato l’esito, pensavo che alla fine Bonaccini avrebbe vinto e forse non c’era bisogno di grande sostegno». Rimarca che è stata la prima astensione della sua vita: «Certo che ci rimani male. Non so se è Renzi che non ha portato la gente a votare, però in Emilia c’è uno zoccolo duro che sta un po’ più a sinistra di lui». Certo, caro Morandi, la politica di sinistra è molto cambiata... Sorride, riprendendo le sue memorie doverose da compleanno rotondo: «Nella mia vita ho fatto un’excursus ben lungo. Da Togliatti, che mi fa sempre pensare a mio padre quand’ero bambino, a Berlinguer che è stata l’ultima grande figura del partito, uno veramente meraviglioso, serio, sobrio, da classe dirigente... E poi, c’era sempre Andreotti: ci ho convissuto per 45 anni. Lui era ministro e io cantavo a Canzonissima, lui era primo ministro e io continuavo a cantare...».
«L’astensione? È meritata» La politica è sotto processo. Chi non ha votato spiega la scelta nei modi più diversi, ma poi si arriva all’accusa: «Incapaci, si fanno vivi solo per le elezioni. Da loro nessuna risposta alla crisi», scrive Marco Amendola su la “Gazzetta di Modena”. È un viaggio nella città del non voto: «Non ci sono né vinti, né vincitori». E il nuovo presidente della Regione «rappresenterà una minoranza di cittadini». Tra il mercato e piazza Grande, le risposte sul motivo dell'astensione record sono state le più diverse: «Avevo la febbre», «C'era il gran premio di Formula 1 e il derby Milan Inter», «Sono rimasta a casa», «È stata fatta poca informazione», «Ero fuori Modena». Queste le voci dei modenesi, dagli universitari ai pensionati, intervistati ieri mattina lungo la via Emilia. Ma, a parte le scuse, a tenere lontani dalle urne più di 2 milioni di cittadini in tutta la Regione, è stata la «sfiducia nella politica» che è sfociata in un «rifiuto al voto» e in un «emorragia di consenso». Dunque quello che è andato in scena domenica è stato qualcosa di più complesso, strutturato e consapevole rispetto a quello che i sondaggisti chiamano “antipolitica” e “voto di protesta”. C'è chi non è andato alle urne «per non fare aumentare le percentuali dei votanti», ma anche frasi come «Sono tutti uguali», «incompetenti», «spese pazze e indagati» sono state fra le più ricorrenti. Il viaggio nella Modena del non voto inizia dal mercato del lunedì, dove sono soprattutto gli anziani quelli con più sfiducia. Un signore, che preferisce l'anonimato dice: «L'astensione è quello che si meritano. Questi candidati si fanno vedere solo in campagna elettorale poi spariscono. E poi? Poi chi li vede più dopo?», mentre per il pensionato Giovanni Solomita «la politica non sta dando risposte a crisi economica e alla disoccupazione. Io ho votato un po’ titubante ma ho votato e bisogna continuare a votare anche con un clima di sfiducia come questo». Davanti al Foro Boario, sede della facoltà di Economia, sono tanti gli studenti a non aver votato, e a non sapere nemmeno i motivi delle elezioni anticipate. Pietro Simoni di Nonantola spiega che «è andato comunque a votare anche se c'è stata poca informazione». Più informata sulle vicende politiche è invece Ilaria Venturelli: «Ho votato, poi credo che non ci si possa lamentare della classe politica se non si esercita il proprio diritto e dovere al voto. Sono andata è ho cercato di convincere anche i miei amici ad andare». E sull'astensionismo dice: «Per me è un grave problema perché è un segnale di sfiducia e i nuovi consiglieri ne dovranno tenere conto». Anche Martina Luppi ha votato, è «soddisfatta della scelta» e spera di veder «cambiare qualcosa». Francesco Piranesi di Sassuolo è l'unico studente fra quattro amici ad essere andato a votare: «L'astensionismo è imbarazzante. Solo io ho votato tra i miei amici, ed è triste il fatto che gente giovane della nostra età la pensi così insieme alla sfiducia nella politica». In centro le risposte non cambiano. Bruno Andreoli, pensionato, «non ho votato» e «non mi piaceva nessuno. I problemi sono enormi e la politica è piccola». Stesso opinione per Sergio Calliari: «Il 60% non ha votato in Emilia Romagna e ha fatto bene a non andare a votare. È una classe politica penosa. In un partito (il riferimento è al Pd, ndr) tutti i candidati erano persone che non hanno mai lavorato e so di tanta gente anche del Pd che non è andata a votare». In via Sant'Eufemia la studentessa Giada Pasqualini dice: «Ho votato. So che non c'è stata una grande affluenza e penso che l'astensionismo sia la rappresentazione del malcontento generale della popolazione». Invece lo studente Andrea Uccellari era fuori città: «Purtroppo non sono riuscito a votare perché ero via e mi dispiace, infatti». Inutili anche gli inviti al voto dei candidati al consiglio regionali che giravano sui social network durante il silenzio elettorale. I modenesi hanno disertato le urne per i motivi più diversi. «Fondamentalmente non mi sento rappresentata da nessuno di questi politici e da nessuno di questi partiti. Ho sempre votato da quando avevo 18 anni, ma questo giro mi è sembrata una presa per i fondelli. Domenica sono rimasta a casa, e tra spese pazze e indagati significa che ci vuole un cambio netto del modo di fare politica. Io non me la sento più di dare il voto a persone del genere», spiega invece la studentessa Sara Venuta al bar della biblioteca Delfini. Anche in piazza Grande si respira aria di sfiducia nella politica. «Io sono tra gli informatissimi sulla politica e non la ritengo una cosa sporca. Ma voglio dire che molti sono stanchi e sono veramente delusi e arrabbiati con i politici. Io ho sempre votato e chi non vota ha torto automaticamente», osserva Lanfranco F., mentre in via Castellaro Alberto Chierici dice che «L'astensionismo di ieri è uno schiaffo ben dovuto alla politica, ma temo che questo effetto servirà a poco e durerà poco». Sotto il portico del Collegio due amiche studentesse, Alessia Farinetti e Giulia Barani Balli raccontano: «A noi la politica non interessa e non siamo andate a votare perché è stata fatta poca informazione e soprattutto perché non c'erano personalità di spicco». Anche se per Giulia Barani «non è vero che i politici sono tutti uguali perché qualcuno di loro ha delle buone idee». Anche al mercato di via Albinelli molti (soprattutto signore e pensionati) dicono di essersi astenuti, mentre si contano sulle dita di una mano quelli che hanno votato domenica. Per Lorena Rubbiani «è un peccato tutto questo astensionismo ma andare a votare è un diritto. C'è stata mancanza di interesse e adesso il nuovo consiglio regionale ne deve tenere conto», mentre Lidia Saguatti: «Mi sono informata io e sono andata a votare. Io preferisco andare sempre a votare anche se non sempre mi convincono molto i candidati». Di nuovo in via Emilia, il commento sul risultato delle regionali arriva da Michele Campo, residente in Calabria (altra regione al voto la scorsa domenica, ndr) ma a Modena in questi giorni: «L'astensione è un dato che fa riflettere. Spese pazze e indagati hanno condizionato il voto e purtroppo questi casi ci sono stati in tutte le regioni, ma secondo me sono proprio i giovani ad essere disaffezionati alla politica perché non hanno lavoro».
DALL'ASTENSIONE ALLA 'NDRANGHETA.
Dall'astensione all' "altra 'ndrangheta". Ecco quant'è malata l'Emilia oggi. Nella regione rossa in crisi d'identità i clan non sparano, ma soffocano l'economia e cercano di infiltrarsi nelle istituzioni. E una vasta zona grigia li difende. Dal caso Brescello ai contatti con la politica. Con il sospetto che il voto locale sia stato condizionato dalle cosche, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. I carabinieri a Brescello durante un sequestro di beni a Francesco Grande Aracri Peppone e don Camillo potevano litigare su tutto, ma c’era un momento sacro per entrambi: il voto. Invece la loro Brescello ora è diventata una delle capitali dell’astensione. Ai seggi per le regionali infatti si è presentato solo il 27 per cento degli elettori, mentre nel 2010 erano stati il 60 per cento. Ma il paesone bagnato dal Po, appollaiato nel cuore della Valpadana, è un ottimo osservatorio per capire il male che si è lentamente diffuso in queste terre, corrodendo il consenso del popolo rosso fino a spegnerne l’entusiasmo o spingerlo nelle braccia della Lega di Matteo Salvini. Il modello emiliano costruito grazie al benessere in mezzo secolo dai sindaci comunisti alla Gino Cervi d’intesa con i prelati democristiani alla Fernandel si è sgretolato. E sulle sue macerie ha messo radici l’impero della ’ndrangheta emiliana, che contribuisce ad alimentare sfiducia e sospetti verso la politica locale. È una realtà criminale cresciuta negli affari, tanti business protetti dalla fitta nebbia che da queste parti rende ogni cosa invisibile. Gli investigatori la chiamano “l’altra ’ndrangheta” per distinguerla dalle cosche calabresi e da quelle che si sono imposte in Lombardia. In Emilia non spara, ogni tanto appicca un rogo dal sapore di ultimatum, ma è soprattutto una holding, che lentamente soffoca l’economia e cerca di contaminare le istituzioni. E ha sede legale proprio a Brescello, con magazzini e centri operativi nelle province di Piacenza, Parma, Modena, Mantova e Verona. Un mostro con artigli affilati che ha arraffato aziende di costruzione, di trasporto, di videogiochi. Ha riciclato montagne di quattrini. E offre una gamma di servizi perfetta per questi tempi di crisi: dal prestito di denaro al recupero crediti, garantendo manodopera a basso costo e soluzioni rapide per lo smaltimento rifiuti. Dopo il terremoto del 2012 si è ritagliata una fetta rilevante della ricostruzione (vedi box a pag. 50). E tutto fa capo a Cutro, comune del Crotonese che ha assunto un peso sempre maggiore nelle dinamiche della mafia calabrese. L’infiltrazione è silenziosa ma devastante. Qui le cosche non conquistano, seducono. Puntano alla «conquista delle menti dei cittadini emiliani», come ha scritto la procura nazionale antimafia nell’ultima relazione. La sintesi perfetta del quadro disegnato dalle inchieste penali, che proprio per questo procedono a fatica. «Trovo maggiore difficoltà a fare indagini in Emilia Romagna che in Sicilia perché è più difficile distinguere il buono dal cattivo che qui si intrecciano», ha detto due anni fa il procuratore di Bologna Roberto Alfonso. Un’estesa zona grigia dove lecito e illecito convivono pacificamente. Il minimo comune denominatore di questa metamorfosi è il denaro. Ne hanno tanto: in pochi mesi carabinieri e Dia hanno sequestrato 13 milioni. La fitta trama di relazioni serve ai clan per incassare di più e per consolidare le fondamenta dell’impero. Le complicità con gli imprenditori locali permettono ai padrini di entrare nel mercato e ai loro nuovi soci di non affogare nei debiti. Ma come accade al Sud, il tavolo della spartizione richiede un terzo interlocutore: gli appoggi politici per accaparrarsi appalti e subappalti. La fede di Graziano Delrio è granitica. Il braccio destro del presidente del Consiglio è un fervente cattolico. Ma c’è una festa religiosa che gli sta creando più di un imbarazzo politico: la processione del Santissimo crocifisso a Cutro, provincia di Crotone. Un rito avvenuto nel pieno della campagna elettorale del 2009 quando l’allora sindaco di Reggio Emilia correva per un nuovo mandato. In città e in tutto il circondario la comunità d’origine cutrese è talmente numerosa da pesare anche alle urne e quella spedizione in Calabria poteva avere un impatto nel voto. Delrio, all’epoca numero due dell’Anci, non è stato il solo a impegnarsi in questa trasferta: tutti gli altri candidati della zona hanno deciso di presentarsi al cospetto del Santissimo. Ma in certe terre i simboli contano più delle parole: la processione dei primi cittadini emiliani è stata interpretata come un segno tangibile di riconoscenza da tutta la comunità calabrese. Anche da quelle persone che in Emilia alimentano i peggiori traffici. La questione è finita all’attenzione della procura antimafia di Bologna, che ha convocato come testimoni gli illustri partecipanti. Anche Delrio è stato sentito come “persona informata dei fatti”. La sua deposizione è ancora segreta, ma le impressioni degli investigatori che hanno partecipato al colloquio confermano la grande difficoltà di fare luce nella nebbia padana. Gli inquirenti sono rimasti colpiti dalla bassa percezione mostrata dall’attuale sottosegretario di Palazzo Chigi, apparso ignaro delle dinamiche che la ’ndrangheta del Terzo Millennio ha messo in atto nel “cuore rosso” d’Italia. Per Delrio quel pellegrinaggio è stato solo un omaggio agli emigranti onesti che con il loro duro lavoro hanno partecipato alla costruzione del modello emiliano. Opposta è la visione del procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, che poche settimane fa, proprio a Reggio Emilia, ha dichiarato pubblicamente: «Se un candidato vuole rivolgersi ai calabresi, può parlare a quelli che vivono in Emilia. Se vai in Calabria vuol dire sapere che è là che si decide l’elezione, vuol dire che è da lì che deve venire il via libera al tuo sostegno elettorale». Non tutti i vertici del Pd hanno partecipato alla trasferta. Sonia Masini, che in quel 2009 era candidata alla Provincia, ha detto no: «Perché avrei dovuto? Chi mi vuole votare può farlo senza bisogno che io vada a Cutro. Ero candidata in Emilia, mica in Calabria» ha spiegato a “l’Espresso”. Anche la Masini è stata sentita in procura. Dopo dieci anni alla guida dell’ente locale, la sua carriera politica per il momento si è interrotta: il partito ha preferito non puntare su di lei alle regionali, scegliendo - questa la versione ufficiale - volti nuovi e più giovani, da protocollo renziano. I magistrati hanno voluto ascoltare altre figure chiave dell’entourage dell’allora sindaco Delrio. Come Maria Sergio, dirigente del settore urbanistica del Comune di Reggio e ora passata a quello di Modena, originaria di Cutro e sposata con l’attuale sindaco pd della città del tricolore, Luca Vecchi. Un settore strategico quello dell’Urbanistica. E proprio la commissione consiliare Territorio e ambiente per molto tempo è stata presieduta da un altro fedelissimo di Delrio: Salvatore Scarpino. Un punto di riferimento per il sottosegretario nella comunità cutrese, l’unico che ha ottenuto dal partito una deroga per ricandidarsi al terzo mandato in Consiglio comunale. Lui, dicono i ben informati, è il regista della trasferta calabrese. Scarpino oltre a essere un esperto di urbanistica è anche dirigente all’Agenzia delle Entrate di Bologna. La confusione tra legalità e ombre ha il suo epicentro a Brescello. L’erede di Peppone è Marcello Coffrini, diventato sindaco con i voti del Partito democratico. D’altronde ha avuto un grande maestro: suo padre infatti ha guidato la giunta per quasi vent’anni. Per il giovane Coffrini il boss calabrese Francesco Grande Aracri è «un personaggio tranquillo, composto, educato, che ha sempre vissuto a basso livello», come ha risposto al collettivo di giornalisti Cortocircuito autori di una video inchiesta rilanciata dalla Gazzetta di Reggio. Un profilo da libro “Cuore” insomma. Che però dà l’idea della grande strategia di mimetizzazione della ’ndrina, dominata secondo gli inquirenti proprio da Francesco Grande Aracri e dal fratello, il potente padrino Nicolino, detto “Manuzza”. La famiglia d’onore è tra i trenta clan più ricchi della ’ndrangheta. Il cuore a Cutro, il polmone economico a Brescello, da dove irradia la sua influenza fino a Verona e Mantova, restando però ben piantata lungo la via Emilia, da Modena a Piacenza. Una presenza che non fa paura e non crea neppure imbarazzo: il sindaco Coffrini ha reagito con insofferenza alle polemiche nate dalle sue dichiarazioni su Grande Aracri. Qui il clan fa girare i soldi. E lo dimostrano le aziende sospettate dagli investigatori di rapporti con la cosca: due fanno parte della galassia di Confindustria Reggio Emilia. Forse per questo il sindaco di Brescello non è solo nel suo appoggio alla famiglia di Cutro. Anche una parte della cittadinanza difende Grande Aracri e le sue aziende che danno lavoro. C’è persino chi rispolvera motivazioni che neppure al Sud vengono più accettate, sostenendo che «in fondo la mafia è nata per togliere ai ricchi e dare ai poveri». Pure il parroco don Evandro Gherardi si è schierato con Coffrini: durante la processione cittadina ha affermato orgoglioso che Brescello non è mafiosa. Don e sindaco finalmente d’accordo. Ignorando le parole messe a verbale già nel 2007 dal pentito Angelo Cortese: «Brescello rappresenta Cutro, qui vive tutta la famiglia Grande Aracri, e quindi simbolicamente è importante; non che Reggio Emilia sia da meno, ma simbolicamente è Brescello il punto di riferimento». «Quanto è accaduto in quel paese è sintomatico della pervasività della ’ndrangheta emiliana», racconta a “l’Espresso” un investigatore, che aggiunge: «ma i politici che la pensano in quel modo, o peggio che hanno avuto rapporti e si relazionano con il volto pulito della ’ndrangheta emiliana sono numerosi». La procura nazionale antimafia in un’audizione alla Commissione parlamentare ha segnalato un elemento inquietante: «Nel territorio emiliano i contatti con la politica esistono, sono esistiti nel 2007, quando ci furono le elezioni amministrative, e non escludo che ci siano stati anche con riferimento alle elezioni amministrative del 2012». Da quanto risulta a “l’Espresso” la provincia interessata dal sospetto di voto di scambio sarebbe quella di Parma. In particolare nella città ducale i movimenti opachi avrebbero riguardato un gruppo di emissari del clan Grande Aracri e alcuni esponenti del Pdl che si sarebbero mossi per far eleggere nel 2007 il berlusconiano Pietro Vignali, diventato sindaco e poi travolto da un’inchiesta per corruzione. Una notizia sepolta in una vecchia indagine della procura antimafia di Catanzaro, che non ha più avuto sviluppi. Cristallizzata invece in alcuni rapporti dei carabinieri inviati alla prefettura di Reggio Emilia è la cena tra un cartello di imprenditori legato al clan Grande Aracri e tre politici del Pdl. L’incontro avvenuto nel 2012 era stato organizzato nel ristorante Antichi Sapori, di proprietà di Pasquale Brescia, molto in confidenza con questo entourage di uomini d’affari. Alla cena erano presenti Nicolino Sarcone, «referente della cosca a Reggio Emilia e comuni limitrofi» si legge nei documenti inviati al Prefetto, il fratello Gianluigi e Alfonso Diletto, nipote del fratello del boss “Manuzza”. Tra i commensali politici invece viene notato Giuseppe Pagliani: avvocato ed esponente di spicco di Forza Italia in città. Tra un piatto tipico e un bicchiere di vino la discussione è andata a finire sulla frenetica attività della prefettura: le interdittive che stavano lasciando fuori dagli appalti numerose aziende perché indicate come vicine ai Grande Aracri. Una delle imprese colpite è di Giuseppe Iaquinta. E quella sera era presente pure lui. Il costruttore che ha creato un piccolo impero tra Reggio e Mantova è il padre di Vincenzo Iaquinta, l’attaccante della Juve dei record e della nazionale campione del mondo. La passione per il calcio è talmente radicata in casa che due mesi fa sembrava concretizzarsi la scalata di Iaquinta senior al Mantova calcio. Poi non se ne fece più nulla. Nel frattempo papà Iaquinta si è affidato all’avvocato Carlo Taormina: ha denunciato l’ex prefetto di Reggio Emilia Antonella De Miro per abuso d’ufficio. E ha chiesto alla Commissione parlamentare antimafia di essere sentito per la «opportuna valutazione anche politica del prefetto di Reggio Emilia». I nomi di Pagliani e Gianluigi Sarcone, invece, ritornano in un’altra vicenda. Sono stati ospiti nel talk show di un’emittente locale per parlare ancora una volta degli effetti dei provvedimenti della prefettura. A condurre il programma era il giornalista Marco Gibertini. Era l’11 ottobre 2012. Oggi il conduttore è agli arresti domiciliari per la maxi operazione della procura di Reggio Emilia su un giro di evasione e riciclaggio. E agli inquirenti non sfugge una certa familiarità del giornalista con un imprenditore considerato espressione del clan emiliano, coinvolto nella stessa indagine. Mentre Gianluigi Sarcone si sta difendendo in tribunale perché la Direzione investigativa di Firenze ha messo i sigilli alle sue aziende. Invece il rapporto dei carabinieri su Pagliani non ha intaccato la sua carriere politica: la Lega Nord lo ha sempre difeso nel consiglio comunale e nelle consultazioni regionali di domenica l’esponente berlusconiano ha sfiorato l’elezione, ottenendo un record personale di 2.634 preferenze nella lista che sosteneva il leghista Alan Fabbri, l’araldo di Salvini in terra d’Emilia.
Il sindaco Pd sul boss della 'ndrangheta: "Gentile e educato". Bufera in Emilia. Le dichiarazioni del primo cittadino di Brescello in una video inchiesta sui clan in Valpadana scatenano la polemica. Interviene il segretario provinciale dei democratici: "Non si stringe la mano ai condannati per mafia", scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Il boss della 'ndrangheta? «Un uomo gentilissimo, tranquillo, composto, educato e che ha sempre vissuto a basso livello», sostiene il sindaco del Pd. «Ha dato lavoro a diverse famiglie, in fondo la mafia è nata per togliere ai ricchi e dare ai poveri», è invece l'opinione, davvero singolare, di un cittadino seduto al bar del paese. Non siamo a Corleone, né a San Luca o Cutro, né tantomeno a Casal di Principe. Ma nella piazza di Brescello, provincia di Reggio Emilia. Un paesone bagnato dal Po e famoso per aver fatto da set cinematografico alla saga di Peppone e Don Camillo. La persona gentilissima, tranquilla, composta, educata, descritta dal giovanissimo Marcello Coffrini, primo cittadino di Brescello, è Francesco Grande Aracri. Un imprenditore che, secondo i detective dell'antimafia, è il reggente della cosca capeggiata dal fratello Nicolino detenuto al 41 bis. Le dichiarazioni sono finite in un lungo reportage dal titolo “La ‘Ndrangheta di casa nostra. Radici in terra emiliana". Una video inchiesta, firmata dai giornalisti del collettivo Corto circuito, sulla 'ndrangheta e sul potente clan Grande Aracri, che ha provocato reazioni contrastanti: chi solidarizza con i cronisti e chi si mette sulle difensive negando ogni evidenza giudiziaria. Caos anche nel partito democratico, che non ha gradito le parole in libertà dette da Coffrini. Che arrivano a pochi giorni di distanza dalla visita della Commissione parlamentare antimafia a Bologna. Le sue dichiarazioni infatti hanno fatto trasalire il segretario provinciale dei democratici Andrea Costa che ha scritto una nota molto dura con la quale prendeva le distanze dall'amministratore: «Partiamo da quello che deve fare e da quello che non deve fare un sindaco del Pd: i nostri amministratori non stringono la mano ad un condannato per mafia, non lo salutano, non lo frequentano; i sindaci e gli amministratori Pd devono avere un forte senso etico, devono avere ben chiaro che ci sono comportamenti leciti ma non opportuni e, quindi, devono sempre avere molto forti alcuni principi. Noi stringiamo la mano a Ignazio Cutrò, un testimone di giustizia che è venuto a trovarci anche a FestaReggio, non a Grande Aracri». Gli autori dell'inchiesta sono un gruppo di giovani studenti che, da qualche anno, consumano le suole delle scarpe per raccontare il potere della 'ndrangheta emiliana. Si sono spinti fin dentro la pancia della Valpadana, nelle roccaforti del crimine organizzato. Qui, come raccontato due anni fa da “ l'Espresso ”, ci sono i feudi della mafia calabrese. Un presenza che risale a parecchi decenni fa. E di cui stanno parlando numerosi pentiti, almeno cinque, che stanno svelando il sistema Emilia. L'insediamento risale agli anni '70. Eppure, ancora per molti, la 'ndrangheta da queste parti non esiste, o meglio non deve esistere. Gli arresti, i sequestri di beni per milioni di euro, le cene tra politici e pregiudicati, le oltre 50 aziende bloccate dal prefetto perché sospettate di legami con le cosche, sono tutte vicende da minimizzare. Perché in Emilia, nel cuore produttivo dell'Italia, i clan spesso fanno comodo. Stabilire partenership con le loro imprese è conveniente. Dopotutto non si tratta più di sedersi al tavolo con padrini che ostentano l'arroganza di un tempo. Oggi parlano un italiano corretto, sono vestiti bene, girano su costosissimi Suv. Insomma, né più né meno di qualunque altro imprenditore locale. Ma soprattutto hanno tanti soldi. Hanno quattrini che prestano volentieri a chi è in difficoltà. E sono sempre disponibili ad aiutare chi attende con ansia i pagamenti di ditte con l'acqua alla gola. In tempi di crisi, il recupero del credito è un servizio molto richiesto. In queste attività finanziarie la cosca Grande Aracri è specialista. Non a caso il collaboratore di giustizia Angelo Cortese definì Reggio Emilia «il bancomat delle 'ndrine». Da queste parti la mafia ha un marchio ben preciso: sono due cosche, Arena e Grande Aracri, che si spartiscono in armonia la pianura. Nicolino Grande Aracri, detto “Manuzza”, è il capo storico della 'ndrina. Il suo regno è all'apice dello splendore, nonostante si trovi rinchiuso in una cella di massima sicurezza. Ma la detenzione non ha frenato le sue mire. Può contare su uomini d'onore fedelissimi: uno stuolo di luogotenenti e prestanome che vivono stabilmente tra Reggio, Modena, Mantova e Verona. Questi duecento chilometri a Nord di Bologna sono, in pratica, il quadrilatero della 'ndrangheta emiliana. È impressionante il numero di società, con sede in queste zone, che secondo gli investigatori sono riconducibili alle teste di legno di “Manuzza” e ai clan alleati. Già, perché i Grande Aracri sono stati abili sarti nel cucire relazioni con altre famiglie. Una caratteristica che li ha portati in cima alla gerarchia della mafia calabrese. Tanto da vantare solide amicizie con i grandi boss della Jonica e della piana di Gioia Tauro. Oggi a fare le veci di don Nicolino c'è, secondo gli inquirenti, il fratello Francesco, la stessa persona che il sindaco di Brescello ha definito «gentilissimo, educato». Lungo la via Emilia si muove un esercito di affiliati in cerca di nuovi affari. I business vanno dall'edilizia al trasporto, dall'usura al gioco. Le aziende del clan si danno da fare nei cantieri pubblici e in quelli privati. Hanno lavorato nei cantieri dell'Alta velocità, tra Reggio e Parma. Hanno realizzato tangenziali, strade, scuole, palazzine e villette. E sono state protagoniste della prima fase della ricostruzione post terremoto quando sui i camion targati 'ndrangheta sono state caricate tonnellate di macerie. Per gestire così tanto potere però è necessario l'appoggio di una rete di insospettabili. Professionisti, ma anche politici. Le prove di questi contatti sarebbero nelle mani della procura nazionale antimafia, che già in un documento del 2012 segnalava un fatto inquietante: «Nel territorio emiliano i contatti con la politica esistono, sono esistiti nel 2007, quando ci furono le elezioni amministrative di quell'anno, e non escludo che ci siano stati anche con riferimento alle elezioni amministrative del corrente anno, contatti con la politica». Eppure il messaggio è rimasto inascoltato. In tanti continuano a fare finta di niente, a criticare giornalisti e magistrati che, a loro parere, sono colpevoli di allarmismo. Un negazionismo che fa passare inosservata anche una cena tra esponenti del Pdl locale di Reggio Emilia e pregiudicati legati ai Grande Aracri. Di cosa si parlava a quella cena? Secondo le prime ricostruzioni investigative i commensali discutevano di come arginare lo strapotere del prefetto di allora, Antonella De Miro, che in soli tre anni ha sospeso per mafia un numero impressionante di imprese. Un'attività prefettizia che parte del territorio non ha gradito. Nella mischia infatti sono finite pure aziende i cui titolari sono nati in Emilia. E qualcuna di queste è pure iscritta a Confindustria. Ma tutto questo non è stato sufficiente a guarire la miopia che ha trasformato un'isola felice in fortino delle 'ndrine. Così stringere la mano a un vice capo 'ndrangheta è diventato normale. Anche nell'Emilia Felix.
Addio Peppone, ora c'è la mafia. A Brescello, il paese dove Guareschi ambientò l'epopea del sindaco rosso e di don Camillo, si sono insediati i boss calabresi della 'ndrangheta. Che investono nei cantieri, fanno affari, cercano di mettere le mani nella politica, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Da una parte capannoni e latterie, dall'altra casali e campi agricoli. Percorrendo la strada provinciale 358, il contesto non lascia dubbi: è la Bassa padana. Una lingua d'asfalto lunga e dritta collega Reggio Emilia alla provincia di Mantova, sul confine, a due passi dal Po, c'è Brescello. Un borgo di 5 mila anime che nella fortunata serie di film erano contese tra don Camillo e Peppone, tanto che ancora oggi 40 mila turisti vengono in gita sui luoghi che hanno fatto da set ai racconti di Giovannino Guareschi. Negli anni però sono cambiati i personaggi che hanno reso popolare "Bersèl", così lo chiamano gli anziani, in un dialetto tra il francese e l'emiliano. La povertà del dopoguerra è stata dimenticata e ai contadini si sono sostituiti i piccoli impresari. Anche lo scaltro don Camillo è stato scalzato dagli avidi "don" della 'ndrangheta, mentre il trattore sovietico di Peppone sembra dimenticato, soppiantato dai Suv degli imprenditori vicini ai boss. Padrini che qui, a due passi dal Po, si fanno sentire poco ma investono molto. Per i capibastone calabresi questa è terra di denari: le armi vanno tenute nascoste, per non disturbare gli affari. L'unico omicidio di mafia risale al '92. Erano gli anni dello scontro tra le cosche di Cutro, il centro del crotonese da cui tanti sono emigrati in provincia di Reggio Emilia. Ed è tra questi lavoratori che si sono inseriti anche i coloni delle cosche, legati soprattutto al clan dei Grande Aracri. Una presenza consolidata, come dimostrano i rapporti degli investigatori. Ma che tanti a Brescello continuano a non vedere. "È un mondo che non conosciamo, ma è una presenza che ci preoccupa", spiega a "l'Espresso" Giuseppe Vezzani, sindaco Pd di Brescello. Mai iscritto al Pci, e questa è una notizia: la guerra fredda anche qui è un ricordo del passato. Invece il suo predecessore Ermes Coffrini è un veterano del Pci e mette la difesa dell'immagine del paese al primo posto. Anche davanti ai segnali più clamorosi. Quando la titolare del centralissimo bar don Camillo denunciò di essere minacciata dai boss e fissò alle vetrine un cartello con scritto "Chiuso per pizzo", Coffrini ha dichiarato pubblicamente che la 'ndrangheta non c'entrava nulla. Una vicenda che ha spaccato la piazza, tra chi bollava la protesta come "una storia di corna" e chi invece sottolineava la "miopia politica" di fronte al pericolo mafia. Un copione che si ripete spesso a nord della Linea Gotica, dove la penetrazione silenziosa dei nuovi boss che non sparano passa spesso inosservata. Nella nebbia fitta della Bassa i traffici perdono sostanza e non creano allarme. "Andranno a delinquere da altre parti, non so, qui non è più successo nulla", è convinto il vicesindaco Andrea Setti. Invece gli investigatori segnalano come le cosche siano pronte a fare il salto di qualità dagli affari alla politica. Il primo tentativo è stato notato alle ultime elezioni comunali, con la candidatura nella lista civica di centrodestra della figlia di Alfonso Diletto, un imprenditore che gli inquirenti indicano come legato alla 'ndrangheta. Forza Brescello è riuscita a portare nel municipio di Peppone un solo consigliere e la Diletto è stata la prima dei non eletti. Ma i brescellesi originari di Cutro esprimono l'8,8 per cento dei residenti: un pacchetto di voti che fa gola a molti. E quello che interessa oggi ai boss è soprattutto costruire: le loro ditte aprono cantieri senza sosta per strade, case, ville, condomini, centri commerciali. "Alcuni cittadini le hanno utilizzate per lavori privati perché ignorano il problema", riconosce il sindaco. Alfonso Diletto si muove tra edilizia e mediazioni immobiliari in più regioni. È stato indagato nell'inchiesta "Dirty money", l'operazione coordinata dalla Procura antimafia di Milano sull'asse Svizzera-Lombardia-Sardegna. Nel 2010 è stato chiesto il sequestro dei suoi beni ma in prima istanza il Tribunale di Reggio Emilia ha respinto la domanda: la partita non è ancora chiusa. Diletto è il nipote acquisito di un casato potente, i cui signori vivono tra Calabria ed Emilia, tra Cutro e Brescello: il clan dei Grande Aracri. Capo indiscusso è Nicolino, Mister "Mano di gomma" o "Manuzza" per gli affiliati più intimi. A 53 anni può vantare un pedigree mafioso da padrino: è nato con la pistola, cominciando come gregario prima e braccio destro poi del mammasantissima Totò Dragone che fino agli anni Novanta dominava questa parte di Emilia. Fu "Manuzza" a sfidarlo, scatenando una guerra che si è chiusa dopo dieci anni di piombo quando Totò Dragone è stato trucidato a colpi di pistola e Kalashnikov a Cutro. "Mano di Gomma" è tornato in libertà da poco, scarcerato per una questione formale nel calcolo della pena grazie all'abilità dei suoi avvocati. E ora da Brescello il dominio dei Grande Aracri si estende fino a Reggio Emilia, dove hanno investito nell'immobiliare, in locali notturni e bar. I loro alleati sono i Nicoscia di Isola Capo Rizzuto, anche loro di casa nel Reggiano, dove risiede Michele Pugliese, condannato in primo grado a 10 anni nel processo "Pandora". Michele è un businessman che dal cemento si è allargato all'autotrasporto. È nipote del defunto boss Pasquale Nicoscia, ma è imparentato anche con gli Arena, imprenditori dell'eolico e nemici dei Nicoscia: la doppia parentela gli ha permesso di fare da paciere nella lotta tra le due 'ndrine - la più feroce avvenuta in Calabria nel nuovo millennio - e aumentare il suo prestigio. Suo padre Franco è diventato familiare a tutti gli italiani per le foto - pubblicate da "l'Espresso" - che lo ritraevano mentre festeggiava assieme a Gennaro Mockbel e al senatore Nicola Di Girolamo, accusato di essere stato eletto proprio con i voti della cosca Arena. Ad occuparsi di questo sostegno sarebbe stato Pugliese senior, che adesso vive come il figlio tra Santa Vittoria di Gualtieri, provincia di Reggio Emilia, e Viadana, nel Mantovano. A pochi chilometri c'è Brescello. Qui a svelare le connection sono gli intrecci societari. Nella San Francisco Immobiliare per esempio, tra i soci fino al 2007, troviamo Michele Pugliese, Salvatore Grande Aracri, Giulio Giglio e Antonio Muto. Giglio è il fratello di Pino, quello che il pentito Salvatore Cortese definisce "una specie di bancomat per le cosche reggiane". Salvatore Grande Aracri, incensurato e assolto l'anno scorso dall'accusa di spaccio, è il nipote di "Mano di Gomma". Ma anche il padre di Salvatore, Francesco, non scherza. Gli investigatori lo definiscono "referente della cosca per la Bassa reggiana". E ha appena finito di scontare una pena per associazione mafiosa. Ora vive a Brescello con i suoi familiari. E lavora nella ditta ora di proprietà della figlia, ma che fino al 2005 era sua e del figlio Salvatore: la Euro Grande Costruzioni. E non è l'unica azienda riconducibile a Francesco Grande Aracri. Fino a novembre 2011 è stato socio della Santa Maria immobiliare, con capitale sociale di 100 mila euro. E infine, dal 2004 è socio nella G.G.A. immobiliare, insieme ad alcuni familiari. L'amministratore? Un modenese doc. Ma non è tutto. La parola d'ordine per Francesco Grande Aracri è diversificare. "Ha indirizzato i propri interessi anche nella gestione di locali notturni insieme alla stessa famiglia Muto", raccontano le informative. Il locale in questione è l'Italghisa di Reggio Emilia. Discoteca che ha chiuso i battenti un anno fa, ma che attirava ogni fine settimana centinaia di giovani. Musica tecno, elettronica e reggae. Nulla a che vedere con le popolari balere emiliane delle feste dell'Unità. Gli atti delle forze dell'ordine sono pieni di aziende considerate colluse o gestite da amici degli amici. Spesso le prefetture intervengono revocando i certificati antimafia, in modo da tagliarle fuori almeno dagli appalti pubblici: ce n'è persino una con sede alle porte di Brescello che aveva concesso un finanziamento di 5 mila euro alla Lega Nord. Da queste iniziative dei prefetti nascono lunghi contenziosi amministrativi, battaglie di carta bollata che si trascinano fino al Consiglio di Stato mentre le ruspe dei boss continuano a lavorare sotto un'altra sigla. Politici e imprenditori emiliani sembrano accorgersi del problema solo quando scattano le retate. Come nella neve di questi giorni, allora le tracce sporche diventano visibili a tutti. Ma dura poco. E la nebbia cancella i confini tra lecito e illecito. Mentre i clan si fanno più forti. Secondo una serie di elementi di inchiesta, avrebbero addirittura creato una struttura di 'ndrangheta interamente basata a Brescello e dintorni: una "Locale" come la chiamano nel loro gergo. Ha rapporti soprattutto con i potenti baroni calabresi della Lombardia, nei confronti dei quali però avrebbe conquistato un peso di primo piano. In una conversazione intercettata dal Ros un uomo dei clan chiedeva: "Reggio Emilia lo sa?", indicando in questo modo la necessità di informare l'autorità mafiosa nata in quell'area. A confermare l'importanza della colonia emiliana sono le parole del pentito Salvatore Cortese che ha descritto i retroscena di uno dei delitti più inquietanti: quello di Lea Garofalo, la donna uccisa dal marito Carlo Cosco perché stava collaborando con i magistrati e poi fatta sparire nell'acido. Prima di assassinarla, Cosco ha interpellato i Grande Arachi e i Nicoscia per ottenere il loro permesso. Un caso di lupara bianca a Milano, confuso tra la nebbia e l'indifferenza che nascondono i traffici e gli intrecci delle 'ndrine padane.
Emilia, le mani della mafia. Da Piacenza a Rimini, da Parma a Ravenna, la criminalità organizzata sta conquistando anche questa storica 'regione rossa'. Attraverso una rete di politici, imprenditori, professionisti. Che rispondono ai clan e alle 'ndrine, scrive Lirio Abbate su “L’Espresso”. Si sono insediati e infiltrati. Con calma, lentamente, in poco più di un decennio hanno fatto dell'Emilia Romagna l'ultima terra di conquista. Qui le mafie non hanno usato le armi, anzi hanno evitato delitti clamorosi: si sono radicate nel territorio grazie ai soldi, senza bisogno di sparare. L'immagine choc del revolver sul piatto di tagliatelle è lontana dalla realtà: i boss si sono infilati tra la via Emilia e il West sfruttando la crisi di un tessuto economico fatto di coop e piccole imprese mettendo sul tavolo quattrini e collusioni. Così nella nebbia padana hanno creato una zona grigia dove si incontrano professionisti bolognesi e capi siciliani, politici parmensi e padrini casalesi, medici romagnoli e killer calabresi, imprenditori modenesi e sicari campani: uniti per corrompere, riciclare, investire, costruire. Una mano lava l'altra, in un circuito che diventa sempre più ricco, sempre più sporco ed irresistibile. Eppure tantissimi negano l'evidenza o la minimizzano: "La mafia qui non esiste" è uno slogan ripetuto soprattutto da politici e imprenditori, ma che nasce anche da una cultura dell'onestà che non riesce ad accettare il contagio criminale. C'è chi non vuole vedere, per interesse o calcolo. Ma tanti non riescono ad aprire gli occhi, con casi clamorosi di prefetti che ignorano la realtà e persino di magistrati che respingono nelle sentenze l'ipotesi di un radicamento mafioso in questa terra. Una miopia che regala ai boss l'habitat perfetto per alzare il tiro. Lo dimostra la vicenda di Paolo Bernini, ex assessore di Parma e consigliere del ministro Lunardi, che discuteva di affari con Pasquale Zagaria, fratello del re dei casalesi: "Non immaginavo chi fosse, mi è sembrato solo un imprenditore". Bernini è rimasto sulla sua poltrona in municipio nonostante le rivelazioni sulle sue relazioni pericolose: nessuno si è indignato, ma cinque anni dopo è finito in manette mentre intascava tangenti sulle mense degli asili. "Qui le attività illecite delle organizzazioni criminali non creano allarme sociale perché non riflettono il loro "disvalore" direttamente sulla popolazione", spiega un investigatore della polizia di Stato che conosce bene il territorio, "anche se in realtà sono per certi versi ancor più pericolosi sotto il profilo della "contaminazione" del tessuto sociale". E il procuratore capo di Bologna Roberto Alfonso sintetizza il problema: "Trovo maggiore difficoltà a fare indagini antimafia in Emilia Romagna che a Palermo, Napoli o Reggio Calabria. Qui è più difficile distinguere il buono dal cattivo, perché qui si intrecciano". E il magistrato, responsabile dell'inchieste sui clan in tutta la regione, fa la diagnosi delle metastasi criminali: "La presenza della camorra e dei casalesi a Bologna, con amici e parenti del padrino Zagaria. La certezza della presenza della 'ndrangheta, sia lungo il percorso che va da Bologna verso Parma, Reggio Emilia e Piacenza, sia a Bologna stessa, dove abbiamo presenze molto significative e importanti in forte espansione. E poi Cosa nostra, con i catanesi. Insomma, non ci manca nulla". I narcos calabresi hanno messo le tende fra il capoluogo e Reggio Emilia. A Bologna, oltre a trascorrere gli arresti domiciliari nella suite del più lussuoso albergo - come faceva Vincenzo Barbieri poi assassinato nel Vibonese - tiravano fuori dal bagagliaio della Maserati "Gran Turismo" sacchi stracolmi di banconote: i banchieri di San Marino venivano a prelevarli in città per trasportarli nei caveau del Titano. O che dire del primario di Imola che con la complicità di infermieri ha certificato il falso facendo evitare la cella ad un boss catanese che doveva scontare l'ergastolo al carcere duro. E poi geometri e ragionieri, uno di questi iscritto al Pd bolognese, al servizio delle cosche per occultare gli investimenti in immobili di pregio. C'è persino un maresciallo delle Fiamme Gialle che con il denaro sporco di un conoscente calabrese voleva finanziare una squadra di calcio a Rimini. Quando i quattrini non bastano a garantire il risultato, si ricorre alla violenza ma dosandola con cura: attentati e intimidazioni si registrano quasi ogni giorno nei cantieri o negli uffici delle imprese ma restano nelle cronache cittadine. Tanto che il presidente di Confindustria Emilia Romagna, Gaetano Maccaferri di mafia in questa regione non ha mai sentito parlare. È di altro avviso, invece, Matteo Richetti , presidente del parlamento regionale, il quale sostiene che "la politica non può avere l'atteggiamento di chi attende l'esplosione di un fenomeno e alza la guardia per respingerlo solo con i comunicati stampa. Serve la capacità di contrastarlo". È quasi paradossale notare come la denuncia più importante sia venuta da due imprenditori campani trapiantati nel Modenese: hanno fatto arrestare il nucleo locale dei casalesi, incluso il padre del grande capo Zagaria. Peccato che gli emiliani sembrino non aver gradito. Quella di Raffaele Cantile e Francesco Piccolo è una delle tante storie di collusione e contraddizioni che "l'Espresso" ha trovato lungo la via Emilia. Partendo da Nonantola, il centro a dieci chilometri da Modena dove vive una comunità che si è trasferita da Casapesenna: un paesino casertano che si è imposto nell'atlante mafioso come feudo di Michele Zagaria, il superlatitante catturato lo scorso 7 dicembre. I suoi uomini a Nonantola imponevano il pizzo e prendevano il controllo delle aziende. Ma solo i due costruttori campani hanno avuto il coraggio di andare dalla polizia. Raffaele Cantile e Francesco Piccolo hanno 35 e 36 anni: dopo il diploma si sono impegnati nell'edilizia, senza vizi né protezioni. Da più di dieci anni sono residenti in provincia di Modena e su di loro garantiscono gli atti firmati dalla procura di Napoli. "I pm partenopei ci convocarono subito: volevano capire se eravamo dei matti", racconta a "l'Espresso" Raffaele Cantile. Nel 2007 Michele Zagaria, all'epoca latitante, gli aveva chiesto un incontro. Il giovane costruttore si presentò all'appuntamento e dopo aver affrontato gli scagnozzi del boss, li denunciò. "I tre magistrati di Napoli durante l'interrogatorio mi chiedevano: perché fate gli imprenditori a Modena? E perché denunciate? E come mai due giovani riescono a fatturare 20 milioni? Spiegai tutto il percorso imprenditoriale che per più di un decennio, da quando avevamo 19 anni, ci aveva portato in giro per l'Italia a partecipare a centinaia di appalti pubblici e che per un gioco del destino professionale, ma anche per un fattore sentimentale, siamo rimasti a Nonantola". Secondo Cantile "in Emilia Romagna molti vogliono sottacere il fenomeno delle mafie per tenere pulito il nome del territorio o per dimostrare la buona amministrazione. Nessun sindaco vorrà mai ammetterlo, ma la mafia qui c'è". Denunciare i casalesi ha portato Cantile e Piccolo ad essere isolati dalla gente. Vengono tenuti lontani come se fossero loro i camorristi. "Dopo le intimidazioni e le bombe che ci hanno messo nei nostri uffici, e dopo le denunce contro Zagaria, non abbiamo ricevuto alcuna solidarità dall'amministrazione pubblica. Solo Confindustria Modena, l'Ance e la polizia ci sono stati accanto". Anzi, amministratori locali e dirigenti di banca hanno cominciato a calunniarli, a marchiarli come "camorristi", a revocare fidi sulla base di voci false creando un danno alla loro impresa più forte degli attentati. Oggi seduto alla scrivania del suo ufficio a Nonantola, Cantile appare mortificato, ma capace di sferrare attacchi contro chi non fa seguire le azioni alle parole: "I politici organizzano convegni sulle mafie, con tante belle parole per combatterle, ma nei fatti non si concretizzano". L'Emilia Romagna è rimasta indietro rispetto alla Sicilia dove gli imprenditori che si ribellano vengono sostenuti dalla società civile, dalle associazioni di categoria, dalla Federazione antiracket e da Confindustria. "Attenzione a non sottovalutare ciò che avviene nella regione", avverte il presidente onorario della Federazione antiracket italiana, Tano Grasso: "Ciò che si sta verificando nelle aree del Centro-nord è quello che è accaduto agli inizi del Novecento negli Usa, con un'attività estorsiva che aveva un orizzonte di protezione etnica tra gli immigrati, che ha portato alla grande Cosa nostra americana". Pina Maisano, la vedova di Libero Grassi che con il suo sacrificio vent'anni fa animò la prima rivolta contro il racket, da un mese è diventata emiliana. Conosce bene questi posti, dove vivono alcuni suoi familiari, e dopo aver ricevuto la cittadinanza onoraria di Casalecchio di Reno, ha detto: "Proprio al Settentrione è oggi fondamentale diffondere il messaggio di Libero per combattere contro l'omertà di tutti coloro che tacciono di fronte alle infiltrazioni malavitose, nascondendosi dietro il luogo comune secondo cui le mafie sono solo una questione meridionale". Cantile ha compreso subito che il vero obiettivo dei camorristi non è il pizzo: "Quando Zagaria ci ha fatto contattare dalla latitanza abbiamo capito che lo scopo non era imporci la semplice estorsione ma appropriarsi dell'azienda. Perché una volta che mettono la valigetta con i soldi sul tavolo e ti dicono riciclali, in quel momento metti la tua vita nelle loro mani e finisce lì. Finisce da un punto di vista morale ed etico, oltre che professionale, perché diventi al servizio di questa gente. Abbiamo detto no. E siamo andati per la nostra strada con le nostre gambe. Denunciando tutto alla polizia". Altri invece cedono alla tentazione della scorciatoia, per cupidigia o perché strozzati dalla crisi: "I casalesi avvicinano gli imprenditori che lavorano al Nord e gli dicono: cosa ti serve? Vuoi fare la bella vita senza problemi? Vuoi le porte spalancate? Moltissimi dicono di sì. E diventano loro schiavi". È con questi metodi, come sostiene il procuratore di Bologna, Roberto Alfonso, che i mafiosi si sono "radicati" nella regione fino a diventare una "presenza stabile e definitiva sul territorio degli affiliati alle organizzazioni mafiose" e tutto ciò "genera una sorta di colonizzazione da parte delle organizzazioni criminali". È ovvio che non è come la Sicilia, la Calabria o la Campania, perché le mafie "non hanno il controllo militare del territorio", però "è certo che vi svolgono attività illecite e vi fanno affari illeciti". Tutto ciò è provato da decine di indagini avviate in tutte le province. E nuove inchieste toccano anche la politica. Fonti qualificate confermano a "l'Espresso" che "è in campo l'ipotesi investigativa che segnala una significativa e importante presenza di Cosa nostra in primarie attività economiche della regione". Indagini che potrebbero riservare sorprese clamorose. Da mesi gli inquirenti sono anche impegnati ad accertare la natura dei rapporti fra Calisto Tanzi, l'ex patron di Parmalat, l'imprenditore campano Catone Castrese, arrestato dai pm di Salermo a giugno per bancarotta, e alcuni soggetti legati alla camorra: il sospetto è che stessero organizzando un grande riciclaggio. Da quando il procuratore Alfonso ha iniziato a dare impulso alle attività antimafia sul territorio, adottando una strategia che privilegia l'aggressione ai patrimoni illeciti, molti risultati stanno arrivando. Seppur tra mille difficoltà. Perché sono tantissime - ed è anche fisiologico che lo sia - le domande di sequestro di beni bocciate dai giudici. Vengono respinte pure molte richieste di arresto per persone accusate di aver aiutato la mafia. Nella maggioranza dei casi il ricorso alla Cassazione ha poi dato ragione alla procura. I tribunali locali spesso sono apparsi quasi immaturi nel valutare le prove raccolte dalle forze dell'ordine. Se in Sicilia, Calabria o Campania un primario falsifica un certificato per tirar fuori dal carcere boss, il medico finisce sotto processo anche con l'aggravante di aver avvantaggiato l'organizzazione mafiosa. Se accade in Emilia Romagna, i giudici non riconoscono l'aggravante. Ed ecco un altro paradosso: anche l'antimafia viene importata. In Emilia Romagna contro i delitti associativi, ossia i crimini più gravi, intervengono spesso le procure di Napoli, Catanzaro e Reggio Calabria con arresti e sigilli ai tesori. Ai pm bolognesi, che collaborano quasi sempre con i colleghi, rimane il compito di punire solo i reati dei singoli boss sul territorio. E le loro complicità, con un coinvolgimento crescente dei colletti bianchi. Il penalista bolognese Manlio Guidazzi era l'avvocato del narcotrafficante calabrese Barbieri. Per gli investigatori il legale avrebbe ricoperto un ruolo che andava "ben oltre a quello del difensore", perché, si legge negli atti, Guidazzi "è perfettamente consapevole che Barbieri effettuava investimenti immobiliari e commerciali utilizzando fittizi intestatari". E Guidazzi "appare connivente nella realizzazione di tali progetti di investimento". A Modena un altro avvocato, Alessandro Bitonto, per punire due persone dalle quali aveva subito un torto, ha fatto ricorso a clienti "casalesi". Le vittime, convocate nel retrobottega di un bar sono state picchiate a sangue davanti al legale. Quest'ultimo, soddisfatto, il giorno dopo ha chiamato uno degli aggressori: "Devo ringraziarti personalmente perché ieri ho avuto una lezione di vita, nel modo di ragionare".
Emilia, il terremoto è un affare per i clan. Negli ultimi mesi la prefettura emiliana ha bloccato circa 75 aziende implicate nella ricostruzione. Dietro molte di esse ci sono le 'ndrine calabresi basate nella regione emiliana, scrive “L’Espresso”. In un anno e mezzo sono state bloccate dalle prefetture emiliane, su richiesta del gruppo interforze, il Girer, costituito per vigilare sulla ricostruzione post sisma, circa 75 aziende. Tre di queste orbitano attorno alla galassia confindustriale. Insomma, l’affare della ricostruzione fa gola alle ‘ndrine. Grande Aracri e gli alleati Arena di Isola Capo Rizzuto in prima fila. Come rivelato da “l’Espresso” l’anno scorso, i camion targati ‘ndrangheta hanno movimento la maggior parte delle macerie. Anche in questo caso i sospetti sono ricaduti sulle ditte con sede legale in Emilia ma legate ai clan del Crotonese. Eppure l’attività di prevenzione non è piaciuta a tutti. In particolare il senatore Carlo Giovanardi è diventato il paladino delle aziende emiliane interdette. Ha criticato duramente i provvedimenti dei prefetti e l’attività scrupolosa degli investigatori. Arrivando al punto da presentare diverse interpellanze e interrogazioni al ministro dell’Interno criticando l’utilizzo delle interdittive. L’ultima crociata di Giovanardi, insomma, è contro l’antimafia che non si limita a bloccare le imprese del Sud, ma si spinge fino dove nessuno aveva mai osato: le ditte del territorio.
Emilia, i camion dei clan. Lo smaltimento delle rovine dopo il terremoto è finito in mano ad aziende legate alla 'ndrangheta. Un affare gigantesco: migliaia di tonnellate di calcinacci portati via con i soldi pubblici, molti dei quali finiti alla malavita, scrive Giovanni Tizian su “L’espresso”. I padrini delle macerie. Il primo step della ricostruzione post sisma in Emilia inquinato dalla presenza di imprese vicine alla 'ndrangheta. I camion di aziende vicine alle cosche dominano la rimozione delle rovine nei paesi colpiti dal terremoto. "L'Espresso" rivela l'allarme choc dell'Antimafia e dei gruppi investigativi interforze creati ad hoc per vigilare sulla ricostruzione. I primi dossier denunciano l'utilizzo massiccio di mezzi per il trasporto delle macerie intestati a imprenditori "vicini" alla mafia calabrese. Le cosche del Crotonese sono quelle più attive al momento. E non hanno dovuto fare molta strada, da decenni hanno stabilito proprie basi operative proprio tra Mantova, Reggio Emilia, Modena e Bologna. Fino a dicembre sono già state smaltite 242 mila tonnellate di calcinacci, travi, mattoni, cemento e legno: per portarle via sono stati necessari 14 mila viaggi. Molti dei mezzi coinvolti nell'operazione, però, apparterrebbero ad aziende legate alla ndrangheta, che da tempo ha investito nelle province devastate dal sisma. Nelle prime giornate dopo il sisma si pagavano anche cinquanta euro per ogni tonnellata rimossa, mentre da giugno le tariffe oscillano da dieci a venti euro per ogni mille chili. Quello formulato dagli inquirenti è più di un sospetto. Il Girer, un comando interforze creato per vigilare sulla ricostruzione, e la neonata Direzione investigativa antimafia di Bologna stanno monitorando tutto il business delle macerie nelle tre province devastate: l'attenzione è concentrata soprattutto su quella di Modena, la più colpita e anche quella dove le cosche sono più attive. L'analisi adesso si è focalizzata sui contratti assegnati dalla Aimag di Mirandola, un colosso delle municipalizzate che ha gestito quasi il 70 per cento di tutta l'operazione rimozione: si è occupata di far portare via oltre 160 tonnellate di detriti. Raramente ha agito con camion di sua proprietà: si tratta di un gruppo che si occupa di rifiuti e gas, senza strumenti per fronteggiare una simile emergenza. Così ha affidato la missione ad altre ditte che a loro volta hanno noleggiato i mezzi. Ed in questo meccanismo di affitti che si sono infilate le aziende ritenute vicine ai clan calabresi, gli specialisti del movimento terra nei cantieri. Nel mirino degli investigatori, da quanto risulta a "l'Espresso", ci sono già due imprese. Entrambe fanno capo ad Antonio Tipaldi e alla moglie, incensurati con parentele di peso. Antonio è nipote di Pasquale Tipaldi, un imprenditore «affiliato alla cosca Arena». Gli Arena sono una dinastia potente, che da Isola Capo Rizzuto ha creato un impero criminale in Calabria, Emilia, Lombardia e Germania. L'Aimag si è rivolta alla modenese Scaviter e alla mantovana Ge.Co., che hanno lo stesso procuratore e identico dirigente preposto alla vigilanza. Il 14 dicembre la prefettura di Modena ha negato alla Ge.Co. l'iscrizione alla White List, l'albo di fornitori e subappaltatori per la ricostruzione. «Sussistente e attuale il pericolo di infiltrazione mafiosa» che potrebbe condizionare le scelte della ditta per la «contiguità a esponenti della 'ndrangheta crotonese». Scaviter e Ge.Co hanno mosso quasi 70 mila tonnellate di macerie. Metà è stata affidata ai camion della famiglia Tepaldi mentre una piccola quota, circa il cinque per cento, Aimag l'ha concessa alla Baraldi Spa, un nome di spicco in Confindustria dell'Emilia Romagna, anch'essa bandita dalla White List, con un provvedimento che segue l'interdittiva antimafia decisa dal prefetto di Modena un anno e mezzo fa. Adesso il dossier raccolto dagli investigatori è sul tavolo della procura antimafia di Bologna, ma intanto quei camion continuano a lavorare senza sosta.
LA RETATA IN SALSA EMILIANA ROMAGNOLA.
28 gennaio 2015. Un resoconto da tutti i punti di vista.
‘Ndrangheta, 117 arresti in tutta Italia. Risate anche sul terremoto. Nel mirino il clan Grande-Aracri di Cutro (Crotone). In manette l’imprenditore edile di Iaquinta, padre del giocatore di calcio campione del mondo a Berlino nel 2006, scrive “Il Corriere della Sera”. Maxi operazione dei carabinieri contro la ‘ndrangheta in Emilia Romagna, Lombardia, Piemonte, Veneto, Calabria e Sicilia. Centodiciassette gli arresti disposti dalla magistratura di Bologna. Altri 46 provvedimenti sono stati emessi dalle procure di Catanzaro e Brescia, per un totale di oltre 160 arresti. A coordinare l’inchiesta, denominata ‘Aemilia’, la procura distrettuale antimafia di Bologna, che ha ottenuto dal gip un’ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di 117 persone ritenute responsabili, a vario titolo, di associazione di tipo mafioso, estorsione, usura, porto e detenzione illegali di armi, intestazione fittizia di beni, reimpiego di capitali di illecita provenienza, emissione di fatture per operazioni inesistenti ed altro. Tutti reati commessi con l’aggravante di aver favorito l’attività dell’associazione mafiosa. Contestualmente, le procure di Catanzaro e Brescia - in inchieste collegate - hanno emesso altri 46 provvedimenti di fermo per gli stessi reati. E anche in questo caso spuntano intercettazioni agghiaccianti: risate sul terremoto in Emilia, come all’Aquila. Sono in un dialogo citato nell’ordinanza del Gip tra due indagati, Gaetano Blasco e Antonio Valerio del 29 maggio 2012, avvenuta alle 13.29, cioè solo 4 ore e mezza dopo la violenta scossa delle 9.03 che fece crollare diversi capannoni nel modenese: «È caduto un capannone a Mirandola», dice il primo. «Valerio ridendo risponde: eh, allora lavoriamo là.. Blasco: ah si, cominciamo facciamo il giro...», si legge. Nell’elenco delle persone arrestate risultano anche importanti imprenditori del settore edile e fra questi Giuseppe Iaquinta, padre del calciatore Vincenzo campione del mondo nel 2006 a Berlino. Giuseppe Iaquinta è stato arrestato nel reggiano. Tra gli indagati nell’inchiesta Aemilia della Dda di Bologna c’è anche Domenico Mesiano, già autista del Questore di Reggio Emilia. Mesiano risponde di associazione mafiosa e minacce. È lui che avrebbe fatto pressioni sulla giornalista Sabrina Pignedoli, della redazione reggiana del Resto del Carlino, per non pubblicare notizie sulla famiglia di Antonio Muto, il cui nome emerge nell’inchiesta. Oltre a Mesiano ci sono altri rappresentanti delle forze dell’ordine che sono indagati nell’ inchiesta Aemilia della Dda di Bologna. Si tratta di Antonio Cianflone e Francesco Matacera, ex ispettori della polizia in forza alla Squadra mobile di Catanzaro, Domenico Salpietro, ex carabiniere a Reggio Emilia, Maurizio Cavedo, ex sovrintendente della Polstrada a Cremona, Alessandro Lupezza, ex carabiniere a Reggio Emilia e Mario Cannizzo, ex carabiniere. In Emilia, sottolineano gli investigatori, la ‘ndrangheta ha assunto una nuova veste, colloquiando con gli imprenditori locali. Tra gli arrestati nella maxi operazione anche il capogruppo di Fi nel consiglio comunale reggiano, Giuseppe Pagliani. I carabinieri lo hanno prelevato dalla sua abitazione di Arceto di Scandiano (Reggio Emilia). In una delle intercettazioni Alfonso Paolini, ritenuto un elemento di costante riferimento per Nicolino Sarcone, per i Pm a capo dell’organizzazione `ndranghetistica a Reggio Emilia, gli dice: «Giuseppe ti dico sono gente che? i voti ti porteranno in cielo... guarda... però devi essere tu a consigliare e dire quello che bisogna fare...». Nella conversazione i due si mettono d’accordo per incontrarsi anche con Sarcone. Il 2 marzo 2012, annota il giudice, «ha luogo il primo summit tra il politico reggiano, Pagliani, e gli esponenti della cellula reggiana nell’ufficio di Sarcone Nicolino». Poi, il 21, ci sara´ la serata al ristorante Antichi Sapori dove per gli inquirenti fu siglato il patto tra politica e cosche. Il Gip sottolinea per i due, Pagliani e Sarcone, «la convergenza di interessi che è fondamento e giustificazione dell’accordo politico-mafioso». In una telefonata alla fidanzata, è lo stesso Pagliani, al termine della cena, verso mezzanotte, a raccontare: «Non vogliono usare altre linee, vogliono usare il partito, proprio il... il Pdl per andare contro la Masini, contro la Sinistra». E ancora, riferendosi alla Masini: «Adesso le faccio una cura come dio comanda, adesso le faccio fare una curetta giusta». «La situazione che abbiamo davanti è molto chiara: la lotta alla mafia in questa città e in gran parte del nord Italia è la nostra nuova Resistenza»: così il sindaco di Reggio Emilia, Luca Vecchi.«Nicolino Grande Aracri ha esportato il modello di `ndrangheta calabrese in tutta Italia e la cosca di Cutro ha occupato l’Emilia Romagna dal punto di vista criminale», ha sottolineato invece il procuratore capo di Catanzaro, Vincenzo Antonio Lombardo. Lombardo ha evidenziato che gli emissari di Grande Aracri «vanno e vengono da Bologna», mentre «c’è un insediamento del tutto simile alle nostre organizzazioni di `ndrangheta anche a Reggio Emilia, anche se ha limitato potere di autonomia perché le cose più importanti devono sempre avere l’assenso di Nicolino Grande Aracri». Secondo il procuratore di Catanzaro, «Nicolino Grande Aracri era un punto di riferimento per tutte le cosche che operano in questo distretto, come dimostrano anche le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Giuseppe Giampà. Lo stesso Grande Aracri dice che tratta con i reggini a pari livello».
Le mani della 'Ndrangheta sull'Emilia, 117 arresti. Indagati ridevano dopo sisma del 2012. Altri 46 provvedimenti sono stati emessi dalle procure di Catanzaro e Brescia. Ramificazioni all'estero. In manette anche consigliere comunale forzista di Reggio Emilia. E alcuni imprenditori, tra cui il padre del calciatore Vincenzo Iaquinta. Tra gli indagati il sindaco di Mantova Sodano, scrivono Fabio Tonacci e Francesco Viviano su “La Repubblica”. I tentacoli della 'Ndrangheta sono arrivati fino in Emilia. Una maxi operazione dei Carabinieri, denominata "Aemilia", condotta dalla Dda di Bologna ha portato a 117 richieste di custodia cautelare (110 portate a termine, 7 persone risultano irreperibili) e ad oltre 200 indagati, per la maggior parte in Emilia. Altri 46 provvedimenti sono stati emessi dalle procure di Catanzaro e Brescia. Sul campo sono stati impiegati un migliaio di militari con il supporto anche di elicotteri. I provvedimenti di custodia riguardano soggetti ritenuti responsabili a vario titolo di associazione di tipo mafioso, estorsione, usura, porto e detenzione illegali di armi da fuoco, intestazione fittizia di beni, riciclaggio, emissione di fatture false. Il clan al centro dell'inchiesta è quello dei Grande Aracri di Cutro (Crotone), di cui è documentata da tempo l'infiltrazione nel territorio emiliano, soprattutto nella zona di Brescello dove vivono esponenti di spicco della cosca calabrese. Alcuni dei reati hanno carattere transnazionale, interessano Austria, Germania, San Marino. Chiesto il sequestro di beni per 100 milioni di euro. Una parte consistente dell'inchiesta riguarda gli appalti della ricostruzione post terremoto e alcuni imprenditori emiliani. In particolare la "Bianchini costruzioni Srl" di Modena è riuscita ad ottenere "numerosissimi appalti" del Comune di Finale Emilia in relazione - si legge nell'ordinanza - ai lavori conseguenti il sisma del maggio 2012 e altri in materia edile e di smaltimento rifiuti. Per questo Augusto Bianchini è finito in carcere, Alessandro Bianchini è invece ai domiciliari. Tra gli arrestati anche l'imprenditore Giuseppe Iaquinta, padre dell'ex calciatore della Juventus e campione del mondo Vincenzo Iaquinta. E ancora una volta alcuni alcuni indagati, si legge nell'ordinanza del Gip, ridono dopo il terremoto che ha colpito l'Emilia nel 2012 proprio come era accaduto nel 2009 all'Aquila. Le risate sono in un dialogo citato nell'ordinanza del Gip tra due indagati, Gaetano Blasco e Antonio Valerio: "E' caduto un capannone a Mirandola", dice il primo. "Valerio ridendo risponde: eh, allora lavoriamo là.. Blasco: 'ah sì, cominciamo facciamo il giro...'", si legge. "Un intervento che non esito a definire storico, senza precedenti. Imponente e decisivo per il contrasto giudiziario alla mafia al nord", ha commentato il Procuratore nazionale Antimafia Franco Roberti in conferenza stampa. Poi ha aggiunto: "Non ricordo a memoria un intervento di questo tipo per il contrasto a un'organizzazione criminale forte e monolitica e profondamente infiltrata". L'inchiesta, in corso da diversi anni, aveva portato gli inquirenti a sentire come persona informata dei fatti anche l'ex sindaco di Reggio Emilia e attuale sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Graziano Delrio e altri politici locali. Lo stesso Delrio, in un tweet, ha manifestato il suo plauso per l'inchiesta bolognese: "Inchieste Dda Bologna fondamentali per rendere più forti e libere le nostre comunità #Aemilia". Anche la politica locale è coinvolta nell'inchiesta. Gli inquirenti hanno documentato attività di supporto e tentativi di influenzare elezioni amministrative da parte degli affiliati al gruppo criminale in vari comuni dell'Emilia. Lo ha spiegato il procuratore Roberto Alfonso citando i casi di Parma nel 2002, Salsomaggiore nel 2005, Sala Baganza nel 2011, Brescello nel 2009. Tra le persone colpite dai provvedimenti di custodia, il consigliere comunale di Reggio Emilia Giuseppe Pagliani, di Forza Italia. I carabinieri lo hanno prelevato dalla sua abitazione di Arceto di Scandiano, vicino a Reggio Emilia. Tra gli indagati ci sono il sindaco di Mantova Nicola Sodano, che sarebbe accusato di favoreggiamento per una vicenda legata a un appalto in cui è coinvolto un imprenditore arrestato, e Giovanni Paolo Bernini, ex presidente del Consiglio comunale di Parma, allora appartenente a Forza Italia. Per lui la procura aveva chiesto l'arresto, ma il Gip non l'ha concesso. L'accusa a suo carico è di "aver contribuito pur senza farne parte al rafforzamento e alla realizzazione degli scopi dell'associazione mafiosa", perché "richiedeva e otteneva dagli associati voti a suo favore in relazione alla campagna elettorale 2007 per l'elezione del sindaco e del consiglio comunale di Parma". Agli arresti anche Nicolino Sarcone considerato anche da indagini precedenti il reggente della cosca su Reggio Emilia. Sarcone, già condannato in primo grado per associazione mafiosa, è stato recentemente destinatario di una misura di prevenzione patrimoniale che gli aveva bloccato beni per cinque milioni di euro. Dalle carte dell'inchiesta emergerebbe anche il sostegno elettorale imposto dai Grande Aracri ad alcuni candidati emiliani durante le amministrative. L'indagine è condotta dalla procura distrettuale antimafia di Bologna che ha ottenuto dal gip del Tribunale le 117 richieste custodie cautelari in Emilia, ma anche Lombardia, Piemonte, Veneto, Sicilia. Contestualmente si sono mosse le procure di Catanzaro e Brescia che hanno emesso 46 provvedimenti. Nella lista dei nomi colpiti dalle ordinanza di custodia sono finiti anche Ernesto e Domenico Grande Aracri, i fratelli del boss già detenuto Nicolino Grande Aracri, detto "Mano di gomma". Domenico è un avvocato penalista, il suo arresto è stato disposto dalla Dda di Bologna, mentre per Ernesto si è mossa la Dda di Catanzaro. Il centro di questa organizzazione è Cutro, piccola cittadina del crotonese: Nicolino Grande Aracri aveva intenzione di costituire una grande provincia in autonomia. La cosca di Cutro sarebbe riuscita, grazie all'avvocato del foro di Roma Benedetto Giovanni Stranieri (sottoposto a fermo per concorso esterno in associazione mafiosa), anche ad avvicinare un giudice di Cassazione e a fare annullare con rinvio una sentenza di condanna a carico del genero del boss. "Grande Aracri - ha spiegato il procuratore di Catanzaro Vincenzo Antonio Lombardo - si atteggia a capo di una struttura al di sopra dei singoli locali. E' sostanzialmente il punto di riferimento anche delle cosche calabresi saldamente insediate in Emilia Romagna dove c'era una cellula dotata di autonomia operativa nei reati fine. I collegamenti tra Emilia Romagna e Calabria erano comunque continui e costanti e non si faceva niente senza che Grande Aracri lo sapesse e desse il consenso". Intanto emergono dettagli sui tentativi di intimidazione che il clan aveva messo in atto nell'area emiliana. Non solo su imprenditori e istituzioni, ma anche su giornalisti, come nel caso di Sabrina Pignedoli, corrispondente ANSA da Reggio Emilia e cronista del Resto del Carlino. Tentativo però respinto dalla cronista. Un altro giornalista è finito agli arresti: si tratta di Marco Gibertini, cronista di TeleReggio, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa poichè, secondo l'accusa, avrebbe dato una mano agli affiliati della cosca emiliana facendoli andare in Tv e sui giornali. In manette anche sei "talpe", che informavano i Grande Aracri. Si tratta di tre ex carabinieri in congedo e tre poliziotti.
'Ndrangheta, 117 arresti in Emilia Romagna. Associazione mafiosa, usura e riciclaggio. Un'operazione dei carabinieri di Modena, Reggio Emilia e Bologna ha portato all'arresto nella notte di 117 persone e al sequestro di beni per svariati milioni di euro, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Una cellula emiliana della 'ndrangheta. Che ha forza militare, finanziaria e di relazione. Relazioni con la politica e persino con l'informazione. Tra Modena e Piacenza i padrini hanno investito denaro, tanto denaro. E si presentano come imprenditori perbene. «Si è sempre parlato della 'ndrangheta imprenditrice: gli arresti di oggi dimostrano proprio l'esistenza di questo tipo di organizzazione», ha spiegato il procuratore capo di Bologna Roberto Alfonso durante la conferenza stampa in cui è stata illustrata la grande retata denominata “Emilia” che ha portato in carcere 117 persone e al sequestro di beni per un valore di oltre 100 milioni di euro. Un'indagine messa a punto dalla procura antimafia felsinea che ha coordinato i comandi provinciali di Modena, Reggio Emilia, Parma. La parte patrimoniale invece è stata eseguita dalla Direzione investigativa di Bologna e dalla Guardia di Finanza di Cremona. Maxi operazione dei carabinieri contro la 'ndrangheta in Emilia Romagna, Lombardia, Piemonte, Veneto, Calabria e Sicilia. Migliaia gli uomini impiegati. 117 gli arresti disposti dalla magistratura di Bologna, altri 46 provvedimenti sono stati emessi dalle procure di Catanzaro e Brescia, per un totale di oltre 160 arresti. A coordinare l'inchiesta, denominata 'Aemilia', la procura distrettuale antimafia di Bologna. A finire in cella sono capi, organizzatori, complici politici e imprenditoriali della 'ndrina Grande Aracri. Una famiglia originaria di Cutro, ma che da trentadue anni ha “delocalizzato” le proprie attività nella rossa Emilia. Delocalizzato è il termine adatto. Al pari delle grandi aziende multinazionali. Questa holding negli anni è riuscita a diventare sempre più autonoma rispetto alla casa madre calabrese. I detective dell'Arma dopo tre anni di indagini serratissime hanno fotografato l'organigramma della mafia calabro emiliana. Il vertice della cosca è composto, secondo gli inquirenti, da sei persone. A ognuno una zona di competenza. Nicolino Sarcone è il reggente per la zona di Reggio Emilia città. Michele Bolognino supervisiona la bassa reggiana e l'area di Parma. Alfonso Diletto sovraintende i centri di Brescello e comuni limitrofi. A Francesco Lamanna è toccata Piacenza e dintorni. Antonio Gualtieri si è spartito il Piacentino con il collega Lamanna e gestisce parte del territorio reggiano. Infine Romolo Villirillo che si occupava di più zone compreso il cremonese, il mantovano e il veronese. Eccoli i nomi dei nuovi boss che si sono spartiti in parti uguali la via Emilia. Un capo senza quattrini fa poca strada. Per questo il livello imprenditoriale è di primaria importanza per l'organizzazione. Gli inquirenti ne individuano una decina. Dieci personaggi però che non sono semplici complici esterni alla famiglia Grande Aracri, ma sarebbero dei veri e propri affiliati. Gli inquirenti ne hanno contati cinquantasei. Tra questi c'è anche Giuseppe Iaquinta, il padre del calciatore Vincenzo campione del mondo in Germania con la nazionale di Marcello Lippi. È questo il gruppo che assicura il raccordo tra la parte criminale e quella economica. E grazie a loro sono riusciti perfino a costruire un interno quartiere a Sorbolo, provincia di Parma. Duecento appartamenti modernissimi pronti per essere venduti, e che ora sono stati sequestrati su ordine del giudice. C'è tanta politica nel capitale relazionale del clan emiliano. Perché senza appoggi politici tutto diventa più complicato. Due uomini del centro destra regionale finiscono così tra gli indagati. Sono Giuseppe Pagliani, avvocato e consigliere comunale di Reggio Emilia in quota Forza Italia, candidato anche alle ultime regionali, e Giovanni Bernini, ex assessore a Parma e soprattutto ex consigliere dell'allora ministro Pietro Lunardi, che passò alla storia per la dichiarazione “con la mafia bisogna conviverci”. Per entrambi la procura ha chiesto l'arresto con l'accusa di concorso esterno, ma il giudice per le indagini preliminari ha concesso il fermo solo per Pagliani. «Ricorreremo in appello per la posizione di Bernini», ha assicurato il capo della procura bolognese. Con lo stesso capo di imputazione è finito in carcere Augusto Bianchini, titolare di un'importante società modenese che ha lavorato nella ricostruzione post terremoto permettendo alle aziende dei Grande Aracri di inserirsi nei lavori. Ma non finisce qui, perché a disposizione dei boss, secondo gli investigatori, c'è pure un giornalista: Marco Gibertini. Un volto noto delle tv locali che durante una delle sue trasmissioni aveva ospitato il politico Pagliani e il padrino Sarcone. Complice e Boss, dunque, seduti comodamente in prima serata per parlare delle numerose aziende bloccate dal prefetto perché sospettate di inquinamento mafioso. Quando si dice l'imparzialità dell'informazione. L'elenco di chi avrebbe servito il clan è lungo. Ci sono professionisti coma Roberta Tattini, con studio nella centralissima piazza Santo Stefano, che dalle intercettazione sembra quasi affascinata dal potere del capobastone calabrese. E ancora consulenti finanziari, commercialisti, avvocati. Tutti pazzi per i Grande Aracri. Decine di casi di usura, altrettante estorsioni. La cosca come un banca. Ma che poi esige i crediti. Anzi, offre anche agli altri questo servizio molto richiesto in tempi di crisi. La 'ndrangheta per quanto indossi i panni del buon imprenditore, mantiene comunque l'animo feroce e arcaico di sempre. E lo rispolvera quando serve. La procura ha contato oltre 70 casi tra prestiti a strozzo e recupero crediti che celavano estorsioni. Un numero impressionante. Che rende però l'idea di quanto fossero ricercati i padrini calabresi. In molti casi visti come gli unici in grado si salvare l'azienda locale dal fallimento. La 'ndrangheta però non fa nulla gratis. Non è per la beneficenza. Quello che dà lo rivuole indietro. E se non lo ottiene arrivano gli incendi, le botte, le minacce. Intimidazioni di questo tenore: «Ti rompo le ossa, questa volta te lo giuro te le rompo»; «Me la vedo con tua moglie se non rispetti i termini»; «Ti spacco la testa», minaccia a cui sono seguiti i fatti, cioè il rogo di un locale notturno in provincia di Ravenna. Parma, 2007 e 2012. Sala Baganza, 2011. Brescello, 2009. Campegine, 2012. Salsomaggiore Terme, 2006. Tutte queste competizioni elettorali sono state viziate, secondo il giudice per le indagini preliminari, dagli uomini del clan Grande Aracri. È la prima volta che l'Emilia fa i conti con la compromissione di alcuni politici. Certo, i sospetti ci sono sempre stati. Ma ora per la prima volta un politico è in cella con l'accusa di concorso esterno. Primo caso in Emilia. E nessuno degli schieramenti più importanti è immune. Dal Pd alla Lega, passando per Forza Italia. Se da un lato la strategia mediatica del clan prevede l'utilizzo della stampa, e di giornalisti non troppo coraggiosi che stanno al gioco, per costruirsi un'immagine pulita, dall'altra, per fortuna, ci sono cronisti che mantengono la schiena dritta. Così la cosca è costretta a tornare ai vecchi metodi: l'intimidazione. A farne le spese Sabrina Pignedoli del Resto del Carlino. «Se continui ti taglio i viveri» gli avrebbe detto Domenico Mesiano, l'ex autista dell'allora Questore di Reggio Emilia. Una frase che suona come minaccia per un articolo scritto su un suo amico sempre del giro Grande Aracri. Per questo Sabrina, preoccupata, è corsa alla procura antimafia a denunciare il fatto e ora un capo di imputazione riguarda proprio le pressioni subite dalla giovane collega. Un caso isolato purtroppo. Perché dalle carte emerge invece che altri su suggerimento di amici degli amici dei boss hanno tranquillamente pubblicato sproloqui e monologhi dei capi zona. In primis quelli di Nicolino Sarcone, il quale con un suo fedelissimo commentano la forza del Quarto potere: «È un aggeggio che dove tocca fa male il giornalismo». Per questo è meglio saperlo trattare e controllare. Così come spesso ha fatto la 'ndrangheta emiliana.
Il boss preoccupato dall'inchiesta de “l'Espresso”. Sarcone e Alfonso Diletto, a capo della cosca colpita dall'indagine che ha portato a 117 arresti non avevano gradito l'inchiesta del nostro giornale. Vi si svelavano i contatti politici e i tentativi di influenzare elezioni amministrative da parte degli affiliati al gruppo criminale in vari comuni emiliani, continua Giovanni Tizian su “L’Espresso”. «Vedi di prendere questi soldi e andiamocene». Nicolino Sarcone è molto agitato dopo l'inchiesta de “l'Espresso” del febbraio 2012 su Brescello diventato il feudo del clan Grande Aracri. Proprio la 'ndrina colpita nell'ultima inchiesta antimafia della procura di Bologna. Il reportage ripreso da Telereggio manda su tutte le furie Sarcone e Alfonso Diletto, entrambi ritenuti a capo della cosca emiliana. Non solo, l'inchiesta giornalistica dà il via a una serie di conversazioni utili alle indagini. Diletto infatti preoccupato dalle notizie riprese da tutti i giornali locali svela il suo contatto politico: un consigliere comunale, Maurizio Dell'Aglio, eletto nella lista Forza Brescello, la stessa in cui era candidata la figlia Jessica Diletto. E anche di questo aspetto parlavamo nell'articolo. «Prendi la Gazzetta di Reggio Emilia, perché mi stanno tartassando, anche a mia figlia per quella lista lì». Allora Dell'Aglio risponde:«Ho letto l'articolo che c'era ieri su “l'Espresso”...tirano in ballo la lista però io mica ho fatto niente di male, nessuno ha fatto niente di male...c'è una lista e basta fanno nomi e cognomi, che non è molto bello, adesso voglio fare sentire anche al maresciallo cosa dice». E Diletto non contento insiste: «Ma il maresciallo di Brescello che cazzo vuoi che dice...ti do il numero dell'avvocato e ci chiami che sta preparando una diffida così la firma mia figlia e poi magari...». E infine: «Loro vogliono far capire come quando che abbiamo preso i voti dalla 'ndrangheta. Dove sono i voti qua della 'ndrangheta?». La risposta del politico è eloquente, dicono gli inquirenti: «Abbiamo preso l'8 per cento capirai, come se sulle altre liste non ci fosse stato nessuno magari con dei problemi». I dialoghi proseguono sull'asse Emilia-Calabria. Poi Dell'Aglio sembra propendere per una soluzione: dimettersi per lasciare il posto alla figlia del capo clan. Ma quest'ultimo non è d'accordo, perché così avrebbe alimentato ulteriori sospetti. Ma per i Carabinieri che ascoltano l'ultima telefonata è quella più significativa: «Dall'Aglio ascoltami. Allora guarda che sei venuto tu da me, tu da me per fare la lista e allora? Non è che tu adesso dai le dimissioni e mi metti come se questa lista l'ho fatta io. Questi fatti, secondo gli investigatori, «costituiscono ulteriore elemento di prova che l'organizzazione cercava di procurare voti a sé o ad altri in occasione delle competizioni elettorali».
Sono sei le competizioni elettorali condizionate dal clan Grande Aracri. Dal 2006 al 2012. Parma, Bibbiano, Brescello, Campegine, Salsomaggiore Terme. E nella città ducale per ben due volte. Per appoggiare candidati da Forza Italia al Pd continua ancora Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Il procuratore capo di Bologna Roberto Alfonso e il procuratore capo antimafia Franco Roberti Sei competizioni elettorali condizionate dal clan Grande Aracri. Dal 2006 al 2012. Parma, Bibbiano, Brescello, Campegine, Salsomaggiore Terme. E nella città ducale per ben due volte, l'ultima, tre anni fa, ha sostenuto, secondo l'inchiesta, il candidato Pd Pierpaolo Scarpino. Nel 2007 invece hanno vinto con il Pdl. «Il Bernini fa tutto quello che gli dico io. Fra due mesi si deve candidare al Comune di Parma, e io voglio che tu mi capisci, ho preso degli accordi con lui. Gli ho detto che ho tanti amici qua a Parma, perché lui mi ha chiesto una mano, mi ha detto: so che qui hai tanti amici, se mi dai una mano io poi da te so cosa fare». Il monologo è di Romolo Villirillo, accusato di far parte dell'associazione mafiosa emiliana. Era il 2007. Le elezioni erano vicine. Il Bernini di cui parla Villirillo è Giovanni Bernini, Forza Italia e Pdl, già consigliere dell'ex ministro Pietro Lunardi. Per lui i pm hanno chiesto l'arresto per concorso esterno in associazione mafiosa, richiesta rigettata dal gip. Ora i pm faranno ricorso in Appello. Dalle carte dell'indagine “Emilia” emerge una profonda conoscenza tra il gruppo legato a Grande Aracri e alcuni esponenti del centro destra del comune di Parma. Bernini, ma non solo.Tra questi c'è pure Giuseppe Villani, ex capogruppo Pdl in Regione, che, stando agli atti dell'inchiesta, è legato a Giuliano Frijio, “Zio Gino”, imprenditore edile di peso nella galassia dei Grande Aracri. L'altro contatto di Zio Gino sarebbe Paolo Buzzi, ai tempi vice sindaco. Tra le tante intercettazioni riportate nell'ordinanza di custodia cautelare c'è ne una in cui Bernini viene descritto come «persona potentissima», in grado di soddisfare le richieste di chi si è speso per la sua elezione: «Questo qua, si deve candidare a sindaco. Ora noi abbiamo fatto un colloquio ed è una persona disponibilissima». Il politico azzurro avrebbe teso la mano all'organizzazione, scimmiottando Cetto Laqualunque: «Nel senso che mi ha detto “Cos'è che volete?” Io sono sindaco, che cosa è che volete da Parma? Di che cosa avete bisogno? Di lavoro? Venite da me! Di un favore? Dovete mandare qualche... allora ci ha chiesto questo favore, se abbiamo la possibilità, che con Forza Italia sotto a Berlusconi». E ancora, sempre “Zio Gino” dimostra di conoscere gli equilibri politici: «Paolo Buzzi quell'amico mio dovrebbe fare il vicesindaco. Ma Bernini sicuramente farà sempre il capo di Forza Italia». Nel 2006 invece a Salsomaggiore Terme, la città delle Miss, la cosca ha votato per Massimo Tedeschi. Lo scrive chiaramente il giudice nell'ordinanza di custodia cautelare. Tedeschi all'epoca era esponente dei Ds, poi Pd. Ha governato la città per cinque anni. E per un breve periodo ha sostituito Pierluigi Bersani in Parlamento. E quando c'è in ballo un affare è il momento di farsi avanti. Per questo Romolo Villirillo, lo stesso che ha sostenuto Bernini a Parma, suggerisce al sodale di andare dal sindaco e presentarsi come «il fratello di quello che ti ha fatto dare i voti là». La cosca si è interessata anche alle elezioni di quattro anni fa del piccolo comune di Sala Baganza, nel parmense. In questo caso è Villirillo che viene informato «della bella figura, del bel risultato» riferendosi alla vittoria elettorale. C'è poi la competizione elettorale di Bibbiano, provincia di Reggio Emilia, finita sotto la lente degli inquirenti. Qui a farsi avanti e contattare il capo zona emiliano Nicolino Sarcone è tale Luca Bassi. «Ho bisogno di te nel senso che ti devo portare una persona un mio amico in lista a Bibbiano», chiede Bassi. Ma il boss vuole sapere di che schieramento è. «Berlusca» risponde l'altro. «Ah! Sicuramente allora, non c'è problema». Così Sarcone viene rifornito di volantini elettorali da distribuire ai suoi. Il candidato a sindaco da sostenere era Paolo Cattelani della coalizione Lega-Pdl. Infine Brescello. Non ci sono né Peppone né don Camillo a fare campagna elettorale, ma stando all'ordinanza di custodia, un emissario dei Grande Aracri. Correva l'anno 2009. E l'inchiesta “Emilia” non era ancora iniziata. Molte di queste intercettazioni fanno parte di vecchi fascicoli. Ripresi e riletti dal Nucleo investigativo dei Carabinieri di Modena e Reggio Emilia. C'è da chiedersi come mai non si è intervenuti prima per bloccare le presunte infiltrazioni nel voto. Chi ha gestito quei fascicoli prima degli inquirenti bolognesi perché ha non ha aperto un fascicolo ad hoc?
AMARCORD DI UNA REGIONE.
"Spese pazze" in Emilia-Romagna: tutti i gruppi coinvolti. Bonaccini: "Vado avanti", scrive Rai News. Dopo la notizia dell'indagine a carico di due candidati alle primarie del centrosinistra, ora emerge un allargamento dell'inchiesta a tutti i partiti.
10 settembre 2014. Riguarda tutti i gruppi dell'assemblea legislativa l'indagine per peculato sulle spese dei consiglieri dell'Emilia-Romagna. Da ottobre 2013 risultano indagati tutti i capigruppo (Pd, Pdl, Udc, M5S, Ln, Sel-Verdi, Idv, Misto e Fds). Oltre a loro e agli otto del Pd di cui si è saputo da poche ore, nuove iscrizioni riguardano anche altri. Non è chiaro il numero dei consiglieri indagati e ci sono ancora alcune posizioni soggettive da definire, e l'elenco potrebbe aumentare prima della fine dell'inchiesta. "Ero sereno prima, e sono ancora più sereno adesso. Perché penso che abbiamo potuto dare spiegazioni per qualsiasi eventuale addebito". Lo ha detto Stefano Bonaccini uscendo dalla Procura di Bologna aggiungendo di essere "determinato a proseguire perché so come mi sono sempre comportato in questi anni". Il candidato alle primarie del centrosinistra è stato dunque ascoltato dai magistrati dopo la notizia della sua iscrizione nel registro degli indagati. "Ho sentito il sostegno del partito nazionale e di tutto il gruppo dirigente". Così ha risposto ai cronisti Stefano Bonaccini, uscito dall'audizione davanti ai Pm di Bologna. Il segretario regionale emiliano-romagnolo autosospeso per candidarsi alle primarie ha detto di non aver sentito il premier e leader del Pd Matteo Renzi. Al termine dell'interrogatorio di Bonaccini l'impressione che filtra è che la sua posizione si sia molto alleggerita. Il candidato Pd alle primarie dell'Emilia-Romagna è stato sentito in un clima sereno dai pm titolari dell'indagine Morena Plazzi e Antonella Scandellari, dal procuratore aggiunto Valter Giovannini e dal procuratore Roberto Alfonso. Da parte della Procura non c'è nessun commento sull'audizione. Ma, a quanto pare, è di "meno di quattromila euro" la somma contestata dalla Procura a Bonaccini. A dirlo è il suo legale Vittorio Manes spiegando che si tratta di rimborsi chilometrici, pranzi e cene. Tutto, ha precisato Bonaccini, "inerente all'attività amministrativa". Mentre ammontano a 5.500 euro le spese ritenute illecite e contestate dai Pm di Bologna a Matteo Richetti, il deputato Pd che ieri ha annunciato il proprio ritiro dalla corsa alle primarie. Richetti è indagato per peculato nell'inchiesta sui rimborsi dell'assemblea legislativa, di cui è stato presidente. Tra le spese contestate ci sarebbero due notti in albergo a Riva del Garda, circa 500 euro in tutto, in due distinte occasioni. Le più recenti iscrizioni fatte dai pm di Bologna fra cui Bonaccini e Ricchetti, sarebbero state fatte ad agosto, in seguito al deposito delle informative della Guardia di finanza. L'inchiesta della Procura di Bologna rischia di creare un scossone anche per le liste dei candidati al Consiglio regionale, la cui definizione, soprattutto dentro al Pd, era già molto avanti. Molti dei consiglieri uscenti, soprattutto quelli che avevano svolto un solo mandato, avevano espresso la volontà di ricandidarsi e sarebbero stati in linea di massima stati accontentati. Le decisioni riguarderanno i singoli casi e i singoli partiti, dove tutti, comunque, hanno presente il rischio di ritrovarsi, una volta presentate le liste, uno o più candidati indagati in piena campagna elettorale. Sia Matteo Richetti sia Stefano Bonaccini, i due "big" del Pd emiliano indagati per peculato per le spese del Consiglio regionale, hanno avuto la possibilità, attraverso i propri legali, di visionare gli atti e così capire di che cosa sono accusati. Questo anche se la maxi-inchiesta della Procura di Bologna sui rimborsi di tutti i consiglieri non è ancora formalmente terminata con l'avviso di chiusura. Di fatto, le posizioni dei due, ovvero le spese che gli inquirenti hanno valutato di contestargli, sono sostanzialmente definite. Dopo aver fatto istanza, come previsto dal codice di procedura penale, e aver ottenuto la certificazione che ha confermato le iscrizioni, l'avvocato Vittorio Manes per Bonaccini e Gino Bottiglioni per Richetti hanno fatto richiesta di vedere gli atti. Come avviene anche in altri casi, i Pm hanno dato l'ok. L'indagine è suddivisa in fascicoli e ciascun fascicolo riguarda un gruppo consiliare.
Romanzo Emiliano da Finemondo di Marco Damilano. L’ultima puntata, quella di questi giorni, è anche la più deprimente, due candidati alle primarie su tre indagati per peculato, Matteo Richetti e Stefano Bonaccini, entrambi giovani e renziani, sia pure della prima ora (quella della rottamazione) e della seconda (quella del trasformismo), uno si ritira, l’altro no ma si rimette al partito. Il terzo candidato, l’unico non indagato, è lo storico Roberto Balzani, già sindaco di Forlì (sconfisse nel 2008 alle primarie la candidata dell’apparato e sindaco uscente Nadia Masini, ha sfidato con coraggio un sistema di potere, non campa di politica) e di cultura laica, repubblicana. Lui sì che avrebbe storia e titoli per aspirare al ruolo di candidato renziano, se il renzismo esistesse. Ma lo psicodramma di queste giornate è l’ultimo capitolo del Romanzo Emiliano, un incrocio di “Buio a mezzogiorno”, l’atto di accusa di Arthur Koestler contro lo stalinismo (il Partito che sostituisce i concetti morali di buono e cattivo con quelli razionali di utile e dannoso) e “House of Cards”: giochi sporchi. Il primo capitolo risale ad almeno quindici anni fa, il 1999. C’era una volta il modello emiliano, fondato da Palmiro Togliatti in persona, il 23 settembre 1946, nel teatro municipale di Reggio Emilia, nel discorso dei «ceti medi e Emilia rossa», in cui il Migliore teorizzò che lì, in quella regione, «le ragioni del lavoro e quelle del capitale» potevano collaborare «per far vedere al blocco reazionario che i comunisti sono capaci di far stare bene il popolo». Modello emiliano, di quel gran pezzo dell’Emilia, godiamoci insieme l’elenco degli ingredienti by Edmondo Berselli: «Dentro c’erano il culatello di Zibello, il salame di Felino e il prosciutto di Langhirano, la Salvarani e la Barilla, gli egiziani che lavorano alle fonderie di Reggio, i magliai di Carpi, il gusto della meccanica arretrata e avanzata, il parmigiano reggiano, l’Idrolitina e Zangheri a Bologna, le cooperative che diventavano sempre più colossali, le banche laocali dappertutto, le sterminate balere in ogni dove, le notti caldi di Rimini, tutti i birri della Riviera, Amarcord di Fellini, la pace sociale perché il sindacato non tirava troppo la corda, l’ordine generale perché nulla sfuggiva al partito… il più grande zampone economico del mondo» o almeno d’Occidente. Il socialismo più la ricchezza, altro che i soviet e l’elettrificazione. La Cina in Italia, con decenni di anticipo sul miracolo orientale dell’ultimo decennio. Il miracolo emiliano, l’isola felice, il comunismo reale si è infranto negli anni Novanta su un doppio evento di portata storica. La caduta del muro, ovvio, che in Italia fu annunciata da Occchetto da quelle parti, alla Bolognina. E la nascita dell’Ulivo, l’avvento dei post-comunisti al governo trascinati dall’emiliano (ma cattolico, non comunista) Romano Prodi. In Emilia poteva funzionare come presa d’atto, la certificazione che da quelle parti la rivoluzione era stata dimenticata da un pezzo, il riformismo che presupponeva un modello di partito davvero nuovo. E invece quando il modello emiliano è stato esportato sul piano nazionale e la sinistra degli ex Pci ha conquistato il governo del Paese, in Emilia sono cominciati i casini. Grossi. Nel 1999 il primo crollo storico, a Bologna il partitone si dilania, non riesce a designare un candidato alla successione di Walter Vitali, si fanno per la prima volta simil-primarie, passa la rossa Silvia Bartolini ma nel voto vince a sorpresa il civico Giorgio Guazzaloca, il macellaio capo dei commercianti, anima della vecchia città che un tempo rientrava nello zampone emiliano. Presidente del Consiglio è Massimo D’Alema, il primo (e ultimo) ex Pci a Palazzo Chigi. Arrivano i giornali di tutto il mondo a raccontare Bologna la rossa che volta le spalle al Partito. Seguono anni shakespeariani, di tradimenti, abbandoni, inchieste, tragedie. Nel 2004 si candida il papa straniero, l’ex leader della Cgil Sergio Cofferati che doveva diventare il capo della sinistra italiana e che invece senza mai spiegare il vero motivo misteriosamente si candida a Bologna, una città non sua, mai amato, mai accettato, un corpo estraneo. Altrettanto misteriosamente Cofferati lascia quattro anni dopo, senza correre per il secondo mandato, ufficialmente perché nel frattempo ha incontrato una nuova compagna, è diventato papà e vuole trasferirsi a Genova. Nuovo psicodramma, altre primarie, diventa sindaco il numero due della regione Flavio Delbono, area prodiana, professore universitario, il primo non comunista a guidare il centrosinistra a Palazzo D’Accursio. Sembra il ritratto dell’affidabilità, timido e noioso, e invece dopo sei mesi si scopre che Flavio dagli occhi blu (nei manifesti elettorali ha fatto ritoccare il ceruleo delle pupille) ha usato la carta di credito della regione per i viaggi all’estero della sua amante. Si dimette e patteggerà la condanna. Finito? No, non c’è pace, il Romanzo Emiliano copre tutti i generi, dal feuilleton al dramma. Alle primarie per sostituire Delbono si candida ancora una volta il supervotato consigliere regionale Maurizio Cevenini, popolarissimo in città. Sembra destinato a una facile vittoria, invece un malore improvviso lo costringe al ritiro. Si dice che oltre all’ischemia siano state decisive le pressioni del partito che lo vede come un cane sciolto incontrollabile. Il Cev non sopravvive alla fine del sogno. Entra in depressione e una notte si getta dal settimo piano. Una questione privata? No, un’orribile fine pubblica, un atto politico, di denuncia e di protesta. Conta lo scenario scelto per il suicidio: il palazzo della regione. Quasi una profezia: la maledizione del Romanzo Emiliano sta per spostarsi dalla città alla regione. È il 2012, Vasco Errani regna per la terza volta, inamovibile, il suo amico Bersani punta a Palazzo Chigi, la Ditta emiliana sembra egemonizzare il Pd in Italia. Culatello, tortello magico, le metafore emiliane arrivano nella Capitale. E invece è il simbolo di un’epoca finita anche in Emilia. A Parma vincono i grillini di Pizzarotti contro l’usato sicuro del vecchio partito. E cominciano le inchieste sulla regione, quella che porta alla fine della lunga stagione di Errani, quelle sulle spese dei consiglieri regionali che fanno sbandare le primarie di questi giorni. Ora appare chiaro che la Ditta si è dissolta. Ha perso la fede, l’anima, resiste come gruppo di potere incarnato nella rete di cooperative, aziende municipalizzate, amministratori, in un groviglio di conflitti di interessi. Il partito-Ditta non è solo una metafora bersaniana. Il designato iniziale alla successione di Errani, il sindaco di Imola Daniele Manca, è uno stimato amministratore ma è anche il capo del patto di sindacato che controlla la multiutility Hera e nomina il Cda. Un modello stanco, estenuato, senza più alcuno slancio produttivo, dedito all’unica occupazione di un potere in crisi: l’autoriproduzione. Con metodi che fanno assomigliare l’Emilia a regioni più a meridione. Cordate, minacce, intimidazioni (come quelle subite da Richetti, trattato in questi giorni dai suoi compagni di partito, anche renziani, come un caso clinico), mosse ambigue mai spiegate a un popolo di militanti sempre più disilluso. Dell’antico modello resta il rituale appello all’unità che nasconde feroci lotte di potere. E invece questo è il momento della rottura. Spezzare la continuità del vecchio gruppo di potere che si mantiene inalterato nei decenni. Rompere la catena di sconfitte, inchieste giudiziarie, amori e suicidi che ha fatto calare sull’Emilia una mini-cortina di ferro. Come ha detto Balzani, all’Emilia serve una stagione di perestrojka, e di glasnost (trasparenza), dopo anni di stagnazione brezneviana. Il segretario del Pd afferma di non volersene occupare. Invece è materia sua. Tocca a Matteo Renzi scrivere la parola fine sul Romanzo Emiliano.
LI CHIAMANO AFFIDI. SONO SCIPPI.
Li chiamano affidi, ma troppo spesso sono uno scippo. Il più osceno business italiano: il troppo facile affidamento di decine di migliaia di bambini e bambine all’implacabile macchina della giustizia, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. Sembra un uomo pensoso e forse triste, Francesco Morcavallo. Se davvero lo è, il motivo è una sconfitta. Perché, malgrado una battaglia durata quasi quattro anni, non è riuscito a smuovere di un millimetro quello che ritiene un «meccanismo perverso» e insieme «il più osceno business italiano»: il troppo facile affidamento di decine di migliaia di bambini e bambine all’implacabile macchina della giustizia. Dal settembre 2009 al maggio 2013 giudice presso il Tribunale dei minorenni di Bologna, Morcavallo ne ha visti tanti, di quei drammatici percorsi che iniziano con la sottrazione alle famiglie e finiscono con quello che lui definisce l’«internamento» (spesso per anni) negli istituti e nelle comunità governati dai servizi sociali. Da magistrato, Morcavallo ha combattuto una guerra anche culturale contro quello che vedeva intorno a sé. Ha tentato di correggere comportamenti scorretti, ha cercato di contrastare incredibili conflitti d’interesse. Ha anche denunciato abusi e qualche illecito. È stato a sua volta colpito da esposti, e ne è uscito illeso, ma poi non ce l’ha fatta e ha cambiato strada: a 34 anni ha lasciato la toga e da pochi mesi fa l’avvocato a Roma, nello studio paterno. Si occupa di società e successioni. E anche di diritto della famiglia, la sua passione.
Dottor Morcavallo, quanti sono in un anno gli allontanamenti decisi da un tribunale dei minori «medio», come quello di Bologna? Sono decine, centinaia?
«Sono migliaia. Ma la verità è che nessuno sa davvero quanti siano, in nessuna parte d’Italia. Lo studio più recente, forse anche l’unico in materia, è del 2010: il ministero del Lavoro e delle politiche sociali calcolava che al 31 dicembre di quell’anno i bambini e i ragazzi portati via dalle famiglie fossero in totale 39.698. Solo in Emilia erano 3.599. Ma la statistica ministeriale è molto inferiore al vero; io credo che un numero realistico superi i 50 mila casi. E che prevalga l’abbandono.»
L’abbandono?
«Quando arrivai a Bologna, nel 2009, c’erano circa 25 mila procedimenti aperti, moltissimi da tanti, troppi anni. Trovai un fascicolo che risaliva addirittura al 1979: paradossalmente si riferiva a un mio coetaneo, evidentemente affidato ancora in fasce ai servizi sociali e poi «seguito» fino alla maggiore età, senza interruzione. Il fascicolo era ancora lì, nessuno l’aveva mai chiuso.»
E che cos’altro trovò, al Tribunale di Bologna?
«Noi giudici togati eravamo in sette, compreso il presidente Maurizio Millo. Poi c’erano 28-30 giudici onorari: psicologi, medici, sociologi, assistenti sociali.»
Come si svolgeva il lavoro?
«I collegi giudicanti, come previsto dalla legge, avrebbero dovuto essere formati da due togati e da due onorari: scelti in modo automatico, con logiche neutrali, prestabilite. Invece regnava un’apparente confusione. Il risultato era che i collegi si componevano «a geometria variabile». Con un solo obiettivo.»
Cioè?
«In aula si riuniva una decina di giudici, che trattavano i vari casi; di volta in volta i quattro «decisori» che avrebbero poi dovuto firmare l’ordinanza venivano scelti per cooptazione, esclusivamente sulla base delle opinioni manifestate. Insomma, tutto era organizzato in modo da fare prevalere l’impostazione dei servizi sociali, sempre e inevitabilmente favorevoli all’allontanamento del minore.»
E lei che cosa fece?
«Iniziai da subito a scontrarmi con molti colleghi e soprattutto con il presidente Millo. Le nostre impostazioni erano troppo diverse: io sono sempre stato convinto che l’interesse del minore debba prevalere, e che il suo restare in famiglia, là dov’è possibile, coincida con questo interesse. È la linea «meno invasiva», la stessa seguita dalla Corte costituzionale e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.»
Gli altri giudici avevano idee diverse dalle sue?
«Sì. Erano per l’allontanamento, quasi sempre. Soltanto un collega anziano la vedeva come me: Guido Stanzani. Era magistrato dal 1970, un uomo onesto e serio. E anche qualche giudice onorario condivideva il nostro impegno: in particolare lo psicologo Mauro Imparato.»
Che cosa accadeva? Come si aprivano i procedimenti?
«Nella stragrande maggioranza dei casi si trattava di allontanamenti dalle famiglie per motivi economici o perché i genitori venivano ritenuti «inadeguati».»
Che cosa vuol dire «inadeguato»?
«Basta che arrivi una segnalazione dei servizi sociali; basta che uno psicologo stabilisca che i genitori siano «troppo concentrati su se stessi». In molti casi, è evidente, si tratta di vicende strumentali, che partono da separazioni conflittuali. Il problema è che tutti gli atti del tribunale sono inappellabili.»
Perché?
«Perché si tratta di provvedimenti formalmente «provvisori». L’allontanamento dalla famiglia, per esempio, è per sua natura un atto provvisorio. Così, anche se dura anni, per legge non può essere oggetto di una richiesta d’appello. Insomma non ci si può opporre; nemmeno il migliore avvocato può farci nulla.»
Tra le cause di allontanamento, però, ci sono anche le denunce di abusi sessuali in famiglia. In quei casi non è bene usare ogni possibile cautela?
«Dove si trattava di presunte violenze, una quota comunque inferiore al 5 per cento, io a Bologna ho visto che molti casi si aprivano irritualmente a causa di lettere anonime. Era il classico vicino che scriveva: attenzione, in quella casa molestano i figli. Non c’era nessuna prova. Ma i servizi sociali segnalavano e il tribunale allontanava. Un arbitrio e un abuso grave, perché una denuncia anonima dovrebbe essere cestinata. Invece bastava a giustificare l’affido. Del resto, se si pensa che molti giudici onorari erano e sono in conflitto d’interesse, c’è di che capirne il perché.»
Che cosa intende dire?
«Chi sono i giudici onorari? Sono psicologi, sociologi, medici, assistenti sociali. Che spesso hanno fondato istituti. E a volte addirittura le stesse case d’affido che prendono in carico i bambini sottratti alle famiglie, e proprio per un’ordinanza cui hanno partecipato.»
Possibile?
«A Bologna mi trovai in udienza un giudice onorario che era lì, contemporaneamente, anche come «tutore» del minore sul cui affidamento dovevamo giudicare.»
Ma sono retribuiti, i giudici onorari?
«Sì. Un tanto per un’udienza, un tanto per ogni atto. Insisto: certi fanno 20-30 udienze a settimana e incassano le parcelle del tribunale, ma intanto lavorano anche per gli istituti, le cooperative che accolgono i minori. È un business osceno e ricco, perché quasi sempre bambini e ragazzi vengono affidati ai centri per mesi, spesso per anni. E le rette a volte sono elevate: ci sono comuni e aziende sanitarie locali che pagano da 200 a oltre 400 euro al giorno. Diciamo che il business è alimentato da chi ha tutto l’interesse che cresca.»
È una denuncia grave. Il fenomeno è così diffuso? Possibile che siano tutti interessati, i giudici onorari? Che tutti i centri d’affido guardino solo al business?
«Ma no, certo. Anche in questo settore c’è il cattivo e c’è il buono, anzi l’ottimo. Ovviamente c’è chi lavora in modo disinteressato. Però il fenomeno si alimenta allo stesso modo per tutti. I tribunali dei minori non scelgono dove collocare i minori sottratti alle famiglie, ma guarda caso quella scelta spetta ai servizi sociali. Comunque la crescita esponenziale degli affidi e delle rette è uguale per i buoni come per i cattivi. E c’è chi ci guadagna.»
Per lei sono più numerosi gli istituti buoni o i cattivi?
«Non lo so. A mio modo di vedere, buoni sono quelli che favoriscono il contatto tra bambini e famiglie. Ce ne sono alcuni. Io ne conosco 2 o 3.»
Ma, scusi: i giudici onorari chi li nomina?
«Il diretto interessato presenta la domanda, il tribunale dei minori l’approva, il Consiglio superiore della magistratura ratifica.»
E nessuno segnala i conflitti d’interessi? Nessuno li blocca?
«Dovrebbero farlo, per legge, i presidenti dei tribunali dei minori. Potrebbe farlo il Csm. Invece non accade mai nulla. L’associazione Finalmente liberi, cui ho aderito, è tra le poche che hanno deciso d’indagare e lo sta facendo su vasta scala. Sono stati individuati finora un centinaio di giudici onorari in evidente conflitto d’interessi. Li denunceremo. Vedremo se qualcuno ci seguirà.
Quanto può valere quello che lei chiama «business osceno»?
«Difficile dirlo, nessuno controlla. In Italia non esiste nemmeno un registro degli affidati, come accade in quasi tutti i paesi occidentali.»
Ipotizzi lei una stima.
«Sono almeno 50 mila i minori affidati: credo costino 1,5 miliardi l’anno. Forse di più.»
Torniamo a Bologna. Nel gennaio 2011 accadde un fatto grave: un neonato morì in piazza Grande. Fu lì che esplose il conflitto fra lei e il presidente del tribunale dei minori. Come andò?
«La madre aveva partorito due gemelli dieci giorni prima. Uno dei due morì perché esposto al freddo. Che cosa era successo? In realtà la famiglia, dichiarata indigente, aveva altri due bambini più grandi, entrambi affidati ai servizi sociali. Il caso finì sulla mia scrivania. Indagai e mi convinsi che quella morte era dovuta alla disperazione. I genitori avevano una casa, contrariamente a quel che avevano scritto i giornali, ma ne scapparono perché terrorizzati dalla prospettiva che anche i due neonati fossero loro sottratti.»
E a quel punto che cosa accadde?
«Il presidente Millo mi chiamò. Disse: convochiamo subito il collegio e sospendiamo la patria potestà. Risposi: vediamo, prima, che cosa decide il collegio. Millo avocò a sé il procedimento, un atto non previsto da nessuna norma. Allora presentai un esposto al Csm, denunciando tutte le anomalie che avevo visto. E Stanzani un mese dopo fece un altro esposto. Ne seguirono uno di Imparato e uno degli avvocati familiaristi emiliani.»
Fu allora che si scatenò il contrasto?
«Sì. Fui raggiunto da un provvedimento cautelare disciplinare del Csm. Venni accusato di avere detto che nel Tribunale dei minori di Bologna si amministrava una giustizia più adatta alla Corea del Nord, di avere denigrato il presidente Millo. Fui trasferito a Modena, come giudice del lavoro. Venne trasferito anche Stanzani, mentre Imparato fu emarginato. Nel dicembre 2011, però, la Cassazione a sezioni unite annullò quella decisione criticando duramente il Csm perché non aveva ascoltato le mie ragioni, né aveva dato seguito alle mie denunce.»
Così lei tornò a Bologna?
«Sì. Ma per i ritardi del Csm, anch’essi illegittimi, il rientro avvenne solo il 18 settembre 2012. Millo nel frattempo era andato via, ma non era cambiato gran che. Fui messo a trattare i casi più vecchi: pendenze che risalivano al 2009. Fui escluso da ogni nuovo procedimento di adottabilità. Capii allora perché un magistrato della procura generale della Cassazione qualche mese prima mi aveva suggerito di smetterla, che stavo dando troppo fastidio a gente che avrebbe potuto farmi desistere con mezzi potenti.»
Sta dicendo che fu minacciato?
«Mettiamola così: ero stato caldamente invitato a non rompere più le scatole. Capii che era tutto inutile, che il muro non cadeva. Intanto, in marzo, Stanzani era morto. Decisi di abbandonare la magistratura.»
E ora?
«Ora faccio l’avvocato. Ma lavoro da fuori perché le cose cambino. Parlo a convegni, scrivo, faccio domande indiscrete.»
Che cosa chiede?
«Per esempio che i magistrati delle procure presso i tribunali dei minori vadano a controllare i centri d’affido: non lo fanno mai, ma è un vero peccato perché troverebbero sicuramente molte sorprese. Chiedo anche che il Garante nazionale dell’infanzia mostri più coraggio, che usi le competenze che erroneamente ritiene di non avere, che indaghi. Qualcuno dovrà pur farlo. È uno scandalo tutto italiano: va scoperchiato».
UNIVERSITA’. IL MISTERO DELL’AULA C. OCCUPATA DA DECENNI.
Bologna, il mistero dell'Aula C occupata da un quarto di secolo, scrive Antonio Amorosi su “Libero Quotidiano”. «L’Aula C puoi essere tu se non sei un poliziotto in divisa o un poliziotto in borghese. L’Aula C è impenitente, imperterrita, Mafalda e pure un po’ Johnny Rotten». Se ci avete capito qualcosa, questo recita il sito degli anarchici che da 25 anni occupano l’Aula C della Facoltà di Scienze Politiche - Università di Bologna, in strada Maggiore 45, proprio a ridosso del comando provinciale dei carabinieri in via dei Bersaglieri. Uno spazio prima in autogestione e poi occupato. Nato alla fine degli anni ’80, quando nell’Università e nella città praticamente non esistevano spazi di aggregazione per i giovani che diedero così vita ad una stagione di proteste ma presto tramontate. L’Aula è operativa dal 1989, un’esistenza ininterrotta e che ha visto affacciarsi generazioni di studenti con storie sempre più radicali. «Resistenti fino alla fine», c’è scritto in un angolo. I giovani la occupano e la rendono inaccessibile ad eventuali intrusi istituzionali. Si perché l’aula «sarebbe dell’Università ma in pratica non lo è», ci spiega un bibliotecario che vuole restare anonimo. «Ho paura. Abbiamo le chiavi, ma in pratica noi non possiamo entrare se non per emergenze e dentro succede di tutto. Non so se rendo l’idea», racconta. Le feste da sballo con fumo e narghilè o le cene collettive con danze fino all’alba sono la regola. «No foto, no turisti», c’è scritto all’ingresso delle stanze, uno spazio limitato ma che pullula di insegne pro «No Tav» e pro anarchia nel senso più antico del termine. A pochi metri ne campeggiano altre come «ci aggrada il degrado» o la più virulenta «si scrive giornalista si legge infame». Dietro la porta dell’Aula C si apre tutto un mondo che inneggia all’anarchico dell’Ottocento il regicida Gaetano Bresci. «Ogni tanto qualcuno ci dorme», ci spiega un altro custode della struttura. Non è atipico che al protrarsi delle feste notturne si trovi un nugolo di occupanti addormentati e che al mattino, tra bivacchi ed escrementi di ogni tipo armeggi con pentole da caserma e altri strumenti per cucinare. Sembra che fino a qualche tempo fa ci fosse addirittura un bombolone del gas, ma almeno quello è stato sfrattato. Fuori dall’aula sopravvive un cartello con la scritta “biblioteca dell’ammutinamento”. Le attività dell’aula non saranno passate inosservate ai carabinieri dirimpettai tanto che spesso i vicini di casa della Facoltà (la struttura è all’interno del centro storico ed è circondato da abitazioni), si recano proprio in quella caserma per presentare denunce di ogni genere. «Ma che non sortiscono alcun effetto», ci dice Claudio, abitante della strada adiacente. Oggi lo spazio è gestito da un gruppo di studenti iperanarchici, afferenti alla realtà di un vecchio collettivo bolognese chiamato “Fuori Luogo”. «Discuterci è impossibile», ci ripete il solito vicino di casa Claudio: «fanno quello che vogliono. Parlare di sgombero con l’Università è un tabù. Si girano dall’altra parte, tanto ci dobbiamo vivere noi mica loro. Dopo le lezioni tornano a casa a dormire», ci dice. E la strategia estremista fancazzista sembra pagare. Anche perché, di tutti gli spazi autogestiti o governati da gruppi studenteschi nell’Ateneo bolognese, l’unico rimasto in piedi è proprio L’Aula C di Scienze politiche. «Tutti gli altri o sono stati cacciati o sono stati chiusi con la forza», ci spiega il solito custode facendoci l’elenco di ogni esperienza che ha provato a dialogare. D’altronde Bologna ha una lunga esperienza in fatto di occupazione abusive. E l’amministrazione sembra tutt’altro che intenzionata a seguire la linea dura. Tanto che l’altro giorno in consiglio comunale è comparso un pupazzo identico a Merola, seduto su uno scranno e vestito in giacca e cravatta con indosso la fascia tricolore. «Non fare il fantoccio nelle mani degli estremisti, fai il sindaco!», chiedeva l’opposizione. Il caso si è scatenato perché il sindaco prima avrebbe promesso di sgomberare degli occupanti abusivi di uno stabile poi, ricevute da SEL le minacce di rottura della maggioranza che governa Bologna, ha cambiato strategia. Ha indetto un bando che è stato vinto da due associazioni di centro sinistra. Ma per terza si è classificata proprio un’associazione composta da una parte degli stessi occupanti.
ERRANI. LA CADUTA DEGLI DEI.
Le dimissioni di Vasco Errani. 7 luglio 2014. Il governatore emiliano, condannato in appello per falso ideologico nell'ambito del processo Terremerse, lascia la regione dopo 15 anni. "Sono innocente, tutelo l'istituzione che rappresento", scrive “Panorama”. Dopo essere stato condannato in Appello a un anno di reclusione per falso ideologico nell'ambito del processo Terremerse, Vasco Errani, da quindici anni governatore dell'Emilia-Romagna, ha stamane rassegnato le dimissioni, scrive, come gesto di responsabilità per «tutelare l’istituzione» che rappresenta: «Non si faccia nessuna confusione: quanto subisco io personalmente non diventi fango per l’istituzione. Per questo intendo rassegnare subito le mie dimissioni, e nel farlo rivendico il mio impegno e la mia onestà lungo tutti questi anni». Con lui sono stati condannati anche i dirigenti regionali Terzini e Mazzotti, condannati rispettivamente a un anno e due mesi per falso e favoreggiamento, accusa - quest'ultima - caduta nei confronti di Errani perché il favorito - per la Procura - è stato il fratello del governatore, Giovanni. L'inchiesta - che ora produrrà l'effetto politico di commissariare la regione per tre mesi, fino a nuove elezioni - risale al 2006, quando la coop Terremerse, che era presieduta appunto da Giovanni Errani, ricevette un finanziamento da un milione di euro dalla Regione per costruire una cantina vinicola a Imola senza averne i requisiti. Fu nel 2009, dopo l’uscita di un articolo de Il Giornale sul caso, che il governatore dimissionario fece scrivere una relazione dai due dirigenti condannati (Terzini e Mazzotti), inviandola in Procura, dove era scritto non c’erano state irregolarità. Quello, secondo i pm, fu un tentativo di depistare le indagini: Errani avrebbe fatto pressing sui due funzionari per far compilare loro la relazione falsa su Terremerse. Nel novembre del 2012, in primo grado, arrivò l’assoluzione del gup Bruno Giangiacomo a carico di Errani, difeso dall’avvocato Alessandro Gamberini, perché «il fatto non sussiste». Oggi, in appello, quello che è stato il dominus della politica emiliano-romagnola per tre lustri viene condannato. Il suo avvocato parla di sentenza sconcertante. Intanto, il Pd chiede al governatore di rimanere al suo posto fino a nuove elezioni, per evitare il commissariamento della Regione.
Errani condannato si dimette. Un anno per i favori al fratello, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Si è fatto del male da solo, Vasco Errani. Il Giornale aveva svelato lo scandalo della cooperativa agricola Terremerse, presieduta dal fratello maggiore Giovanni, che aveva ricevuto contributi irregolari dalla regione Emilia Romagna per un milione di euro. La procura di Bologna aveva aperto un fascicolo per accertare eventuali responsabilità dell'ente pubblico. Il governatore aveva consegnato ai magistrati una memoria (redatta da due funzionari) a sua discolpa. Ma quella relazione era farcita di contraddizioni. Assolto in primo grado l'8 novembre 2012 con rito abbreviato, il presidente Pd della regione è stato condannato ieri dalla Corte d'appello di Bologna a un anno di reclusione per falso ideologico in atti pubblici. Vasco Errani, che ricorrerà in Cassazione, ha dato le dimissioni dalla guida dell'Emilia Romagna. Dimissioni piombate come un tornado sul Pd già terremotato dall'inchiesta sul Mose. Reati e responsabilità del processo bolognese non sono gravi come quelli ipotizzati dai pm di Venezia, ma gli esiti sono identici: un'altra giunta di sinistra a casa. E che giunta. Poche settimane dopo il sindaco della Serenissima, toglie il disturbo anche il governatore della regione rossa per eccellenza. Errani è un fedelissimo di Pier Luigi Bersani e con le dimissioni per la sentenza Terremerse si toglie anche il peso delle tensioni interne al partito e all'amministrazione per altre situazioni, come le inchieste sui faraonici rimborsi spese. Il Pd, a Roma come in Emilia Romagna, si straccia le vesti in difesa di Errani, che è anche commissario straordinario per le zone terremotate. Se si tratta di governatori come Formigoni e Scopelliti, essi devono sgombrare il campo. Se invece è un tesserato del Pd prevale la legittima presunzione d'innocenza. La segreteria nazionale del partito ha chiesto al governatore di ripensarci. Lo stesso premier Renzi ha fatto sapere di aver chiamato Errani per esprimergli «amicizia e vicinanza», e per dirgli che, nel pieno rispetto della magistratura, spera che il verdetto sia ribaltato in Cassazione. Ma sembra un dovere d'ufficio. In realtà i renziani, molto forti in Emilia Romagna (Delrio, Richetti e Raggi su tutti), si preparano già al voto anticipato senza troppi rimpianti. Alessandra Moretti, europarlamentare pd eletta proprio nel Nordest e molto vicina al premier, ha twittato dei complimenti che suonano come un requiem: «Vasco Errani con le sue dimissioni ha agito da uomo di Stato. Non sono molti a farlo. I passi indietro a volte sono passi in avanti». Come dire: guai se ti rimangi la decisione presa. Lo scandalo è l'emblema di come funzionavano i rapporti tra coop rosse ed enti locali in certe zone d'Italia. Terremerse è una cooperativa che qualche anno fa navigava in brutte acque e decide di fare investimenti a spese della regione, alla quale viene chiesto un finanziamento di un milione di euro per allargare l'attività con una nuova cantina vinicola. L'ente pubblico, presieduto dal fratello del presidente della coop, elargisce. Ma poi non vengono eseguiti i controlli. Lavori abusivi, irregolarità nella realizzazione delle opere, false attestazioni di date e verifiche: tutto documentato dalle carte in mano al Giornale. Giovanni Errani lascia la guida della coop. Le minoranze in regione chiedono le dimissioni di Vasco, il quale alza le spalle sprezzante insultando il Giornale. Ma la procura vuole vederci chiaro e apre un fascicolo indagando i due, oltre ad alcuni funzionari della regione e ai tecnici che fecero eseguire i lavori abusivi. Del governatore si sospettava che avesse ordinato di redigere una memoria difensiva menzognera per coprire il fratello. Che nella vicenda ci siano documenti falsi è attestato dalla condanna inflitta a un funzionario della regione firmatario di alcuni verbali irregolari. I funzionari falsificavano e la coop del fratello del capo intascava soldi senza averne titolo. Vasco Errani in primo grado era stato assolto dal gup Bruno Giangiacomo, uno dei leader di Magistratura democratica, la corrente di sinistra delle toghe. Il governatore dimissionario si professa innocente. Per lui vale la sentenza di primo grado: il fatto non sussiste. Ma i pm non si scompongono: «Abbiamo sempre lavorato con assoluta obiettività, serenità e rigore», ha detto il procuratore aggiunto Walter Giovannini.
Vasco Errani, chi è il governatore che si è dimesso. Condannato a un anno per falso ideologico in atto pubblico, dopo 15 anni di regno si è dimesso Vasco Errani dalla presidenza della Regione Emilia-Romagna. Un "aiutino al fratellino" che gli è costato una condanna e lo ha portato al passo indietro. Cade un feudo, dunque, quello dell'Emilia Romagna, dove Errani governava senza soluzione di continuità dal 3 marzo 1999. Prima di lui governarono l'altrettanto "rosso" Antonio La Foggia e prima ancora Pier Luigi Bersani.
Il curriculum - Errani, nato a Massa Lombarda nel 1955, negli anni '70 aderì al Pci, con il quale divenne consigliere comunale a Ravenna. Eletto in Consiglio regionale emiliano nel 1995, assunse l'incarico di segretario alla Presidenza del Consiglio regionale Presidente della Giunta, ruolo che mantenne fino al giugno del 1996. Nel 1997 fu nominato assessore regionale al Turismo, mentre nel 1999 venne eletto per presidente della regione (fu confermato anche nelle elezioni amministrative del 2005 e del 2010). Tra i suoi incarichi, anche quello di presidente della Conferenza dei presidenti delle Regioni, nel 2005, dopo esserne stato vicepresidente dal 2000. Dal febbraio 2009, inoltre, è responsabile Cultura Scuola e Istruzione del Pd. E' presidente della giunta regionale dell'Emilia Romagna, e ha un'auto blu. E' consigliere, e ha un'altra auto blu, un noleggio da 20mila euro, scrive ancora “Libero Quotidiano”. Con alle spalle quattro mandati, tanto che, dalle parti di viale Aldo Moro, sede della Regione Emilia Romagna, lo hanno soprannominato "mister longevità", Vasco Errani guida la regione, ex rossa da dieci anni. Ma non senza "misteri". Dopo essere finito nella bufera per i soldi alla cooperativa del fratello, assolto in primo grado in giudizio abbreviato (caso tuttavia non risolto in definitiva per l'appello richiesto dalla Procura), ecco che adesso si indaga sui viaggi in auto del presidente. Un'auto di troppo? - Errani, per un totale di 365 giorni l'anno, dispone di un'auto blu, con al volante due autisti che si alternano e oltre 100mila euro di spesa pubblica. Ma non è finita qui. Perché tra il 2010 e il 2011, come se una macchina sola non bastasse, il presidente Pd ha fatto pesare sulla spesa pubblica altri 20mila euro per un secondo noleggio, questa volta in veste di consigliere. E, com'è ovvio, la questione non è andata giù ai magistrati, che hanno chiesto alla guardia di finanzia di appurare se il noleggio della macchina risalga al presidente della regione Emilia o a qualcuno di sua conoscenza: "Aspettiamo una risposta", hanno dichiarato fonti vicine agli inquirenti, "questo è proprio quello che vogliamo sapere, se era davvero lui a usare l'autonoleggio Cosepuri". E ora Errani passa alla fase difensiva: "Una cosa sono gli impegni da presidente, altra cosa sono quelli da consigliere regionale nel gruppo Pd. Altra cosa ancora gli impegni di partito". "Sui costi delle auto a noleggio - continua - sono assolutamente tranquillo. Stiamo parlando di uno strumento di lavoro: per adempiere ai miei compiti, spostarmi da una parte all'altra della regione è normale e anzi, se non lo facessi, non farei bene il mio lavoro, con l'intensità e l'impegno che sono noti a tutti". Peccato che la destinazione dei tragitti compiuti dall'auto noleggiata sia stata spesso Ravenna, città in cui vive il presidente.
Errani, 14 anni di dominio “bersaniano”: dal Pci agli scandali che lo hanno toccato. Il presidente ha governato per tre legislature prima delle dimissioni per la condanna per falso ideologico. Sotto il suo dominio ha dovuto affrontare numerose vicende giudiziarie che hanno avuto un unico comune denominatore, cioè funzionari accusati dalla Procura di essere al servizio di parenti e amici, scrive Davide Turrini su “Il Fatto Quotidiano”. “Se Errani dovesse dare le dimissioni non deciderebbe il partito, ma Errani stesso”. Questo si diceva nei corridoi di viale Aldo Moro, la sede della Regione Emilia Romagna, poco più di due anni fa, quando il governatore era stato coinvolto nel caso Terremerse, e questo è quello che è puntualmente accaduto appena la sentenza d’appello è stata sfavorevole ad uno dei più potenti uomini dell’ex Partito Comunista Italiano poi diventato Pds, Ds e infine Partito Democratico. Una poltrona che resiste da quattordici anni: la Regione rossa per eccellenza ha visto al potere l’uomo fidato di Pier Luigi Bersani per la settima (2000-2005), ottava (2005-2010) e nona legislatura (2010-2015). In questi anni tra amministrazione ordinaria, terremoti e alluvioni succede di tutto. E – anche prima della condanna per falso ideologico – non sono mancati gli scandali con un denominatore comune: funzionari accusati dalla Procura di essere al servizio di parenti e amici. C’è naturalmente la vicenda Terremerse: la cooperative del fratello di Errani ottiene 1 milione di euro di finanziamento dalla Regione, il Giornale ne scrive nel 2009 ipotizzando l’illecito e il governatore fa scrivere una relazione per spiegare la situazione. Il politico è stato condannato per falso ideologico (avrebbe spinto a scrivere cose non vere per depistare le indagini) e così i due funzionari che fisicamente prepararono l’atto Filomena Terzini e Valtiero Mazzotti. Condanna invece per truffa aggravata per Aurelio Selva Casadei, il collaboratore che attestò (dicendo il falso) dopo un sopralluogo che la situazione della cooperativa era in regola per ricevere i fondi. Da ricordare anche la storia che ha per protagonista l’ex segretaria di Pier Luigi Bersani, Zoia Veronesi. Il pm ha chiesto 4 mesi e 20 giorni di reclusione per truffa aggravata per lei e per Bruno Solaroli, l’ex capo di gabinetto del presidente Errani. Proprio grazie a una firma di quest’ultimo, secondo l’accusa, la funzionaria avrebbe lavorato per Bersani pagata con i soldi della Regione (per un totale di circa 140 mila euro dal 2008 al 2010). Per il resto è una legislatura movimentata, con i giudici contabili che hanno contestato spese e scontrini a tutti i gruppi politici. Tanto che a inizio 2014 il capogruppo regionale Pd Marco Monari si è dimesso: su di lui pesava l’accusa di 30 mila euro spesi in soli 19 mesi tra pranzi e cene, rimborsati con soldi pubblici. L’inchiesta che aveva fatto tremare l’intero consiglio regionale, vicinissimo ad un azzeramento e a nuove elezioni, aveva messo in luce decine di rimborsi regionali per le spese più disparate coinvolgendo tutti i capigruppo dei partiti presenti in consiglio regionale. Per Errani c’è invece un’inchiesta su una serie di rimborsi per “auto blu”, intestati a lui come “consigliere regionale” (in quanto eletto nelle file Pd, oltre che governatore) per un totale di 20mila euro da giugno 2010 ad agosto 2011. Molti spostamenti finiti al centro dell’analisi dei pm erano tra la sede della Regione a Ravenna, dove Errani risiede. Errani è nato a Massa Lombarda in provincia di Ravenna il 17 maggio 1955. Il giovane dirigente della Federazione Giovanile dei Comunisti Italiani di Ravenna sul finire degli anni settanta assaporava la lotta dei movimenti giovanili da dentro il partito. Pragmatico Errani nella politica lo è stato fin da subito, tanto che la carica massima dell’esecutivo regionale l’ha ottenuta ricevendo il testimone nientemeno che dalla giunta dell’ulivista convinto Antonio La Forgia, ex dell’esecutivo guidato nel 1995-96 da quel Pierluigi Bersani che diventò ministro. Nel 2000 la percentuale dell’elezione è di quelle consistenti 56,5%, poi si alza al 62,5% del 2005, infine il 52,1% con cui nel 2010 viene rieletto non senza polemiche per via di un “terzo mandato” tecnicamente impossibile. Per capire il modello Errani, quel modello emiliano che almeno fino a due anni fa era rimasto senza pari per ogni governatore italiano anche del centrodestra, bisogna però fare un passo indietro. Errani diventa consigliere comunale Pci a Ravenna nel 1983 e ricopre questa carica fino al 1995. Tra l’ottobre del 1992 e il giugno del 1993 è assessore alle attività economiche nella giunta comunale del sindaco Giovanni Miserocchi. Errani in quei giorni di fermento, quando Occhetto saluta il Pci e costruisce l’arca di Noé che chiamerà Pds si sistema a bordo, ma in posizione di comando. La poltrona di sindaco di Ravenna, sede della più importante cooperativa mondiale, la Cmc, viene lasciata prima al docente D’Attorre poi a Vidmer Mercatali (che nel 2013 oramai da senatore Pd della Cmc stava per diventare presidente), infine dal 2006 all’ex compagno di Fgci, Fabrizio Matteucci. Meglio l’Emilia Romagna anche perché Errani con la sua capacità di mediazione e di aggiustamento tra anime e partiti della coalizione di centrosinistra, che improvvisamente si allarga proprio a metà anni novanta verso il centro cattolico e una parte di Dc sempre stata all’opposizione, diventa il raccordo prima tra bersaniani (a cui apparteneva) e dalemiani, poi tra ex Pci e prodiani. Con lui, Miro Fiammenghi, il coetaneo ravennate che gestisce i rapporti sul territorio romagnolo, e non solo, con il mondo dei piccoli e medi poteri locali, da Hera fino alle Coop passando per Unipol. Fiammenghi è vicinissimo a Bersani, quindi per Bersani è vicinissimo a Errani. Legame che rimane in piedi tutt’oggi, ma che subisce uno scossone proprio quando l’ex segretario nazionale del Pd, prima vince le primarie, poi vince ‘perdendo’ le elezioni del 2013. Finisce la storia di una leadership. Così la presidenza della giunta regionale, che fino a un anno fa sembrava un trampolino di lancio per una carriera di governo a Roma, è diventato spazio vuoto dove si dovrà sedere probabilmente un renziano. Il vecchio Pci dell’Emilia Romagna saluta simbolicamente il suo Novecento politico.
Il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha telefonato al presidente dimissionario della Regione Emilia Romagna Vasco Errani esprimendogli la propria vicinanza e amicizia. Renzi ribadisce la propria fiducia nel lavoro della magistratura auspicando che l’onestà di Errani possa essere riconosciuta in Corte di Cassazione. La Costituzione ci dice, sostiene il capo del governo, che un cittadino è innocente finché una sentenza non passi in giudicato e Renzi intende attenersi a questo principio di civiltà giuridica e costituzionale per Errani come per tutti gli altri.
L'autodifesa della casta. Il Pd difende Errani: "persona per bene". Orfini, la segreteria del partito e perfino Bersani in difesa del governatore condannato a un anno e dimissionario, scrive “Libero Quotidiano”. Hanno sempre rimproverato a Berlusconi e ai suoi di mettere in discussione gli esiti processuali. Di più: di screditare l'obiettività della magistratura. Ma quando a finire sotto processo e persino quando a essere condannati sono i loro, fanno esattamente la stessa cosa. Ricordate Penati? Tutti a difenderlo quando venne indagato e s'è visto poi come è finita. Ora, quelli del Pd ci riprovano col governatore (dimissionario) dell'Emilia Romagna, Vasco Errani. Che a difenderlo e definirlo "innocente" (in attesa di ricorso in appello) siano i suoi avvocati, ci sta, sono lì anche per quello. Che a dirsi "comunque innocente" sia lui, ci sta già un po' meno ma forse risponde all'insopprimibile istinto di sopravvivenza che muove l'essere umano (e ancor di più l'essere politico). Ma che a prenderne le parti in coro contro la magistratura (perchè quello è) sia il Pd fa parte di quel meccanismo per cui la politica fa schifo ai cittadini. Ed è la prova, l'ennesima se mai ce ne fosse bisogno, che al momento della resa dei conti sinistra e destra una cosa sono. "Vasco Errani è una persona perbene e lo dimostrerà. Ha sempre lavorato nell’interesse dell’Emilia Romagna" scrive su Facebook il presidente del Pd Matteo Orifini. E ancora: "Spero ritiri le dimissioni". Gli fa eco la segreteria tutta dei Democratici: "Invitiamo Vasco Errani a riconsiderare le sue dimissioni da presidente della Regione Emilia Romagna". Per i piddini, "proprio le parole con cui ha motivato la sua decisione dimostrano il suo senso dello Stato e delle istituzioni. Tutto il Partito Democratico conferma la stima nei suoi confronti e nel lavoro svolto in questi anni al servizio dei cittadini e della Regione". E ancora, per la serie 'santo subito', ecco la solidarietà del sottosegretario Pd Angelo Rughetti: "Sono sorpreso della decisione della corte d’Appello di Bologna che riguarda il presidente della Regione Emilia Romagna. Ho lavorato con Vasco Errani e so che è una persona perbene. Rispetto le sentenze ma privare la Regione di un presidente generoso ed apprezzato come Errani è un danno per le donne e gli uomini dell’Emilia". E parla pure uno dei dinosauri Pd, nonchè conterraneo di Errani, Pier Luigi Bersani: "Chiunque conosca Errani non può dubitare della sua onestà e della sua correttezza. Con tutto il rispetto che si deve alle sentenze, si dovrà dare rispetto anche alle convinzioni profonde di chi ha avuto a che fare con Errani". Ma Bersani non aveva avuto "a che fare" anche con Penati? Ah già, era solo il suo braccio destro. Errani farebbe bene a iniziare a toccarsi le parti basse...
Certo è che quelli del PD sono molto coerenti.
Sul carro di Matteo Renzi c'è posto per tutti. Ma ecco cosa dicevano di lui i nuovi renziani. Oggi sono ministri, membri della segreteria del Pd, alleati del suo Governo e strenui difensori delle sue riforme. Ma prima che la scalata dell'ex sindaco di Firenze lo portasse al potere, avevano rilasciato le dichiarazioni più dure. Abbiamo raccolto le loro parole che, lette oggi, suonano quasi incredibili, scrive Wil Nonleggerlo su “L’Espresso”. "Irresponsabile. Miserabile. Guascone. Figlio del ventennio berlusconiano. Egocentrico e maschilista. Un grande bluff. Con Matteo Renzi ai vertici, il Partito Democratico sparirà dalla faccia della terra ed il Paese sprofonderà nel caos". No, non sono parole di un post dei Beppe Grillo o del Mattinale di Renato Brunetta, ma dei compagni di partito dell'ex sindaco di Firenze. Dichiarazioni rilasciate da politici Pd dal 2010 all'inizio di quest'anno. Poi Renzi si è preso il partito ed il governo del Paese. Ed ecco l'esodo di massa sul carro del vincitore: un processo costante, inarrestabile, che ha subito un'ulteriore accelerazione dopo la schiacciante vittoria democratica alle Europee del 25 maggio. Molti dei critici più agguerriti si sono ritrovati capilista sopra un volo in direzione Strasburgo o al governo con lo stesso Renzi. Ma ecco cosa dicevano, prima di catapultarsi sul carro.
Gian Luca Galletti, oggi ministro per l'Ambiente nel governo Renzi, 9 gennaio 2014: “Se Matteo decide di mandare a casa il Governo Letta si assume la responsabilità di mandare il Paese nel caos”.
Matteo Orfini, oggi Presidente del Partito Democratico, 6 gennaio 2014: “Capisco che Renzi voglia rimanere ribelle, ma ora basta atteggiamenti provocatori. Faccia il segretario di partito e la smetta con certe guasconate”.
Stefano Fassina, l'esponente Pd che oggi definisce Renzi “l'uomo giusto nel posto giusto”, 19 gennaio 2014: “Da ieri pomeriggio la legge è un po' meno uguale per tutti. Mi sono un po' vergognato come dirigente del Pd nel vedere l'incontro Renzi-Berlusconi...”.
Andrea Orlando, oggi ministro della Giustizia nel governo Renzi (alle ultime primarie Pd era schierato con Cuperlo), dicembre 2013: “Basta passare con Renzi che si diventa nuovi, quando si passa con Renzi si diventa nuovi anche se non lo si è di curriculum”.
Angelino Alfano non fa parte del Pd, ma oggi è ministro dell'Interno nel governo Renzi, ed il 17 dicembre 2013 diceva...“Renzi col suo discorso ha chiarito che è un politico di sinistra-sinistra, ed è perciò incompatibile con i nostri valori”.
Andrea Orlando, oggi ministro della Giustizia nel governo Renzi, dicembre 2013: “Il vero apparato che oggi esiste, inteso come professionismo politico, in questo momento è collocato a sostegno di Renzi".
Beppe Fioroni, 2 dicembre 2013: "Renzi passerà alla storia come quello che ha fatto risorgere Berlusconi col voto anticipato facendogli il più grande regalo. È più destabilizzante Matteo di Grillo e Berlusconi".
Massimo D'Alema, prima di parlare dello “straordinario risultato” ottenuto da Renzi alle europee (40%), 29 ottobre 2013: “Non mi pare che al successo mediatico di Renzi corrisponda una straordinaria ricchezza e novità di contenuti. Mi ricorda un po’ quella pubblicità con Virna Lisi... 'con quella bocca può dire ciò che vuole'...”.
Francesco Nicodemo, responsabile comunicazione Pd, 2 settembre 2013: "Franceschini et similia possono fare tutti gli endorsi che vogliono. Quando Renzi sarà segretario questi non conteranno più una mazza". (Quasi tutti finiranno al governo o al Parlamento Europeo...)
Stefano Fassina, 4 luglio 2013: "Renzi utilizza il vittimismo come marketing congressuale... scriva sul suo blog le regole che vorrebbe. E la data del congresso. Noi poi ubbidiamo. Poi però cominciamo a parlare di lavoro e di Europa". E ancora, su twitter: "Matteo tranquillo. oggi al Pd abbiamo parlato dell'Italia. Fonzie diventa ecce bombo?".
Beppe Fioroni, da luglio 2013 in poi: "Il nostro modello di partito quale sarebbe, quello di David Serra e Flavio Briatore?". E ancora: “Ma serviva Renzi per far risorgere la sinistra?”. “Renzi: ovvero tutto il potere a Mr.Hyde e dr.Jeckyll”.
Stefano Fassina, 3 luglio 2013: "Matteo, sulle regole scialla... ci hai appallato! Dovremmo parlare di lavoro invece sono due mesi che Renzi ci appalla con le regole. Se uno è convinto di stravincere contro una banda di burocrati sbandati, non ha l'ossessione delle regole".
Edoardo Patriarca, deputato Pd, 1 luglio 2013: "Il complottismo di Renzi non conosce confini. Renzi sappia che i vescovi non fanno campagne politiche e non guardano in faccia a nessuno".
Enrico Rossi, presidente Pd di Regione Toscana (un anno dopo dirà: “Da antirenziano sono diventato renziano? Il presidente del Consiglio ha il merito di aver rottamato la vecchia classe dirigente del Pd...”), 30 giugno 2013: "Caro Renzi, il partito non può essere un taxi per la premiership".
Rosy Bindi (un anno dopo dirà “Chapeau Renzi, hai battuto anche la mia Dc”), 30 giugno 2013: "Renzi segretario? Credo che non lo voterò. Non riesco a capire cosa voglia. Non c'ha mai spiegato la sua idea di Pd e di Italia".
Andrea Marcucci, senatore Pd, 30 giugno 2013: "Basta trucchi! Lo statuto del Pd non lo ha inventato Matteo Renzi, ma è in vigore dalla nascita del partito. Errare è umano, perseverare sarebbe diabolico, non si possono cambiare le regole sempre e solo quando all'orizzonte c'è il sindaco di Firenze".
Matteo Orfini, oggi Presidente del Partito Democratico, 29 marzo 2013: “Renzi premier? Una follia. Ma fa bene ad andare da Maria de Filippi, ad Amici, spero dica cose di buon senso”.
Franco Marini, 21 aprile 2013: “Renzi ha un livello di ambizione sfrenata, a volte parla e non si sa quello che dice, cerca solo i titoli sui giornali. Se non modera questa ambizione finisce fuori strada”.
Anna Finocchiaro (oggi presidente della commissione Affari Costituzionali), 15 aprile 2013: “L'attacco di cui mi ha gratificata Renzi è davvero miserabile. Non sarà mai un uomo di stato”.
Stefano Fassina, 15 aprile 2013: “Renzi continua a fare prevalere le sue aspirazioni personali rispetto agli interessi del Paese e mi sembra irresponsabile. Ormai è evidente che i sondaggi creino deliri di onnipotenza”.
Pierluigi Bersani (un anno dopo si congratulerà con Renzi, su twitter, per il risultato elettorale del 25 maggio), 14 aprile 2013: “Renzi ha fatto tutta la sua carriera politica insultando e rottamando i compagni di partito. Si qualifica da solo. È indecente fare qualunquismo in un momento come questo”.
Andrea Orlando, oggi ministro della Giustizia nel governo Renzi, aprile 2013: “Renzi tenta di intercettare il malessere di una parte della società. Ma non deve esagerare. Il problema è che proponiamo soluzioni diverse. Per noi il cambiamento è un governo che provi a ottenere la maggioranza al Senato sulla base di un progetto, lui preferisce la formula del governissimo, legittima, ma già sperimentata in maniera drammatica visto l'epilogo del governo Monti...”.
Pierluigi Bersani, 29 novembre 2012: “La posizione di Renzi si discosta dal baricentro necessario tra cultura di sinistra e cultura liberale”.
Dario Franceschini, oggi ministro dei Beni culturali nel governo Renzi, 28 novembre 2012: “Ai Tg: tra la competenza e l'esperienza di Bersani e la rottamazione di Renzi ci possono essere dubbi su a chi affidare il Paese dopo Monti?”.
Federica Mogherini, oggi ministro degli Esteri nel governo Renzi, 28 novembre 2012: “Ok, Renzi ha bisogno di studiare un bel po' di politica estera, non arriva alla sufficienza, temo”.
Rosy Bindi, 28 novembre 2012: “Vorrei ricordare a Matteo Renzi che ho resistito per vent'anni a Berlusconi, figuriamoci se non resisto qualche settimana a lui...”.
Federica Mogherini, oggi ministro degli Esteri nel governo Renzi, 28 novembre 2012: “Confermo: Matteo, lascia stare la politica estera e di difesa, Obama ed F35 compresi. Ti conviene, dai retta...”. E ancora: “Renzi è un po' troppo sul passato, per essere l'uomo del futuro...”.
Rosy Bindi, 21 novembre 2012: “Renzi dimostra di non avere molti argomenti oltre alla rottamazione. È figlio del ventennio berlusconiano”.
Federica Mogherini, oggi ministro degli Esteri nel governo Renzi, 13 novembre 2012: “Da quel che ho visto su Sky Bersani ragiona da presidente del Consiglio, Vendola è affidabile, Renzi è un po' fuori fase”.
Marianna Madia, oggi ministro della Pubblica amministrazione nel governo Renzi, 12 novembre 2012: “Io voto Bersani: è il miglior Premier che l'Italia possa avere”.
Dario Franceschini, oggi ministro dei Beni culturali nel governo Renzi, 12 novembre 2012: “Bersani ragiona, Renzi recita”.
Marianna Madia, oggi ministro della Pubblica amministrazione nel governo Renzi, 12 novembre 2012: “Ognuno è bravo su qualcosa, ma solo Bersani ha statura da presidente del Consiglio...”.
Massimo D'Alema, 9 novembre 2012: “Il progetto politico di Renzi è di un'inquietante fragilità”.
Pina Picierno oggi è una renziana di ferro: capolista Pd nella circoscrizione Italia Meridionale alle elezioni Europee del 2014 (otterrà l'elezione), nel novembre 2012 scriveva su twitter: “Qualcuno dica a Renzi che l'Onu ha appena stabilito che deve studiare”. “Bella supercazzola di Matteo Renzi sui diritti”, “Lo slogan Adesso di Matteo Renzi? Lo ha lanciato Franceschini nel 2009, mazza che svolta!”, “La soluzione per Matteo Renzi è più discoteche in Iran”, “M’avanzano un sacco di cappellini della campagna di Renzi, che faccio li spedisco a lui o libero il mio garage?”, “Mi avvicino alla fase finale in punta di piedi dice Matteo Renzi. E che piedi c'hai scusa. Mattè?”, “Felice che Bersani visiti i beni confiscati, è l'unico a parlare di lotta alle mafie. Mi piacerebbe che Renzi facesse lo stesso”, “Ma Renzi per chi ci ha preso, per Renziani?!”.
Massimo D'Alema, 8 novembre 2012: “Se si va sulla strada di Renzi si va al disastro politico”.
Rosy Bindi, 31 ottobre 2012: “La battaglia di Matteo Renzi per la rottamazione è una barbarie politica, perché tocca persone senza rispettarle”.
Alessandra Moretti, già bersaniana e cuperliana, diventerà una delle renziane più intransigenti. Ecco cosa diceva tra il 22 ed il 25 ottobre 2012: “Matteo Renzi non sta bene dove può essere messo in discussione, non ama il confronto democratico e si comporta da primadonna, ma ne abbiamo già avuta una e si chiamava Silvio Berlusconi. Renzi è egocentrico e anche maschilista”.
E ancora, sempre Alessandra Moretti: “Chi è più bello tra Renzi e Bersani?... Bersani tutta la vita! Ma avete visto le foto di Bersani da giovane quando aveva i capelli fluenti? Assomiglia a Cary Grant, un possibile attore, e poi è alto e con le spalle larghe. Non c'è paragone con Renzi, che ha pure quel modo di parlare così strano...”.
Pierluigi Bersani, 19 ottobre 2012: “Renzi? Chi a base alle Cayman non potrebbe dare consigli”.
Franco Marini, 16 ottobre 2012: “Renzi è come Grillo, è la personificazione della poca consistenza politica al servizio di interessi terzi”.
Nicola Latorre, senatore Pd ed ex dalemiano di ferro, ci tiene a precisare una cosa... (16 ottobre 2013): "Guardate che io sono diventato renziano convinto 8 mesi fa".
Stefano Fassina, 8 ottobre 2012: “A Renzi dobbiamo cominciare a chiedere i diritti d'autore, anche oggi fa copia-incolla delle proposte Pd, per farle sue”.
Massimo D'Alema, 24 settembre 2012: "Se Renzi vincerà le primarie non esisterà più il centrosinistra. Ha detto che vuole allearsi con il popolo, sono frasi non nuove... poi è andata a finire malissimo".
Piero Fassino, 16 settembre 2012 (qualche tempo dopo dirà “Nessuna giravolta, Renzi sa suscitare speranza”, “Voglio vincere con lui”): “Non mi scandalizzo che Renzi voglia presentarsi alle primarie, ma ho due obiezioni: è sindaco da appena due anni e se il suo programma è 'tutti a casa', non è un programma per governare il Paese”.
Federica Mogherini, oggi ministro degli Esteri nel governo Renzi, 12 settembre 2012: “Renzi sceglie lo slogan che usò Franceschini alle primarie 2009, "Adesso". Come inizio di rottamazione lascia un po' a desiderare...”.
Matteo Orfini, oggi Presidente del Partito Democratico, 6 settembre 2012: “Renzi è l’ultimo giapponese di una linea che in tutto il mondo è stata abbandonata”.
Franco Marini, 26 giugno 2012: “Oggi vedo Renzi perdente. È lui a rischiare di essere rottamato. Non credo abbia la maggioranza nel partito e se andassimo a contarci rischia un flop rilevante. Per questo voglio dargli un consiglio: poiché formalmente non ha ancora deciso di candidarsi alle primarie, si fermi!”.
Matteo Orfini, oggi Presidente del Partito Democratico, 25 giugno 2012: “Renzi mi ricorda i Righeira, gli Europe, certe sue scelte estetico-musicali mi ricordano il mondo dei Paninari”. C'è un'idea della spettacolarizzazione della politica un po' figlia di quegli anni...”
Stefano Fassina, 22 giugno 2012: “Renzi non si capisce nemmeno cosa propone. Ripete a pappagallo le ricette della destra. L'unica cosa certa di Renzi è la sua data di nascita”.
Stefano Fassina, 26 ottobre 2011: “Renzi rimpacchetta come nuove vecchie ricette economiche fallite”.
Stefano Fassina (oggi definisce Renzi “l'uomo giusto al posto giusto, il valore aggiunto, un politico di grande qualità”), 12 ottobre 2011: “Le ricette di Matteo Renzi? Più che un 'big bang', mi sembra un 'big bluff'...”.
Massimo D'Alema, 10 ottobre 2010: “Lo sapete che se mi stuzzicano reagisco. E che se c’è da combattere, combatto. Renzi ha sbagliato, e continua a sbagliare. Ho deciso di restare, e Matteo si farà del male”...
TUTTE LE INCHIESTE DEL SOLO 2013.
Regione, tutte le inchieste degli ultimi 12 mesi. Nel 2014 la procura mostrerà le carte sui 35mila scontrini sequestrati ai consiglieri. Delbono verso l’archiviazione per il reato di corruzione. Da Terremerse alle spese pazze, così viale Aldo Moro è finito sotto accusa, scrive Luigi Spezia su “La Repubblica”. La madre di tutte le inchieste sulla pubblica amministrazione, durata per tutto il 2013, quella sulle spese dei gruppi consiliari della Regione Emilia Romagna, entro poche settimane avrà il suo showdown. La procura mostrerà le sue carte in realtà tabelle fittissime di oltre 35 mila voci di spesa ai consiglieri che hanno speso il denaro pubblico in dotazione dei gruppi per scopi diversi, non coerenti con i compiti istituzionali: cene, pranzi, feste, buffet, viaggi, alberghi, collaborazioni e consulenze. Un totale di 5,5 milioni dalla metà del 2010 alla fine del 2011, come è già emerso nei mesi scorsi, quando addirittura il capogruppo del Pd Marco Monari unico tra i suoi colleghi indagati per peculato si è dimesso sotto l’incalzare delle notizie sulle “spese pazze” a lui attribuite. Le carte saranno mostrate sotto forma di avvisi di fine indagine o magari con inviti a comparire come è stato nel caso di Paolo Nanni dell’Idv, antesignano di questa inchiesta con i suoi 277 mila euro su 450 mila contestati. Il numero degli indagati è destinato ad aumentare. Non solo i nove capigruppo, l’intenzione della procura sembra quella di indagare tutti i consiglieri che hanno fatto spese non funzionali al lavoro politico del gruppo. E quando i pm Morena Plazzi e Antonella Scandellari , che lavorano in pool con la supervisione dei vertici Roberto Alfonso e Valter Giovannini, manderanno la Finanza di nuovo in Regione a notificare gli atti, ci si deve attendere una nuova bufera come quella dell’ottobre scorso, quando la Finanza si era presentata solo per acquisire altre informazioni. Il 2014 sarà anche l’anno del processo di appello per Vasco Errani, nel caso del finanziamento di un milione per la cantina della coop Terremerse del fratello Giovanni. L’udienza non è stata ancora fissata. Il presidente è stato già assolto in primo grado nel novembre di due anni fa dall’accusa di falso. Il 12 marzo 2014 sarà processato il fratello, accusato invece di truffa. Accusa già sanzionata nei confronti di un funzionario regionale, Aurelio Selva Casadei, condannato a settembre a un anno e due mesi per aver dato l’ok alla cantina, in realtà ancora da finire. Nel 2013, il calvario della Regione non è finito lì. Anche la Corte dei Conti ha avuto il suo da dire, valga su tutto la citazione a giudizio per sette capigruppo che negli anni 20092011 hanno speso complessivamente circa 140 mila euro per le interviste a pagamento nelle tv locali, denaro contestato anche dalla procura nella maxiinchiesta di cui sopra. A cavallo tra pubblica amministrazione e incarico politico, la procura ha finito anche l’inchiesta su Zoia Veronesi, la segretaria storica di Pierluigi Bersani dai tempi in cui era presidente della Regione. Per lei è stato chiesto dal pm Giuseppe Di Giorgio il giudizio per truffa insieme all’ex capo di Gabinetto di Errani, Bruno Solaroli: la ex dipendente regionale dovrà dimostrare che a Roma, inviata per fare da raccordo con il Parlamento, ha lavorato per la Regione e non per il ministro Bersani. Oltre alla Regione, nell’anno trascorso hanno lasciato il segno le inchieste sui sistemi di trasporto mai o non ancora realizzati, Civis e People mover, e su un’altra opera da fare, il Tecnopolo, sul quale una perizia ordinata dal pm Antonello Gustapane ha posto una serie di punti interrogativi ancora una volta riguardanti il ruolo della Regione. Il Civis è stato ormai abbandonato come sistema, ma non per questo la procura ha rinunciato all’accusa, dopo aver chiesto l’archiviazione per Giorgio Guazzaloca. E in attesa della fissazione dell’udienza preliminare per sette persone accusate di corruzione, dal presidente di Ccc Piero Collina agli ex vertici di Atc e di Irisbus, si è introdotta a sorpresa di nuovo la Corte dei Conti, la quale, prima di contestare il danno complessivo agli accusati, contesta ad altri protagonisti, Sergio Cofferati e tutta la sua giunta, un danno di oltre un milione per aver mutilato la linea tra il centro e Borgo Panigale, pagando inutilmente le spese del progetto. Infine, il People mover. In quest’altro progetto di trasporto ancora da definire, la procura crede di vedere una responsabilità di Piero Collina del Ccc, Francesco Sutti di Atc, Flavio Delbono e vari funzionari comunali per aver alterato lo svolgimento della gara. Entro breve ci sarà la richiesta di rinvio a giudizio.
BOLOGNA: SI FA MA NON SI DICE. I MAGISTRATI CENSURANO I GIORNALISTI.
Bologna, condannati tre giornalisti per aver pubblicato una notizia vera. Il reato è di “pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale”. Scrissero dell'iscrizione al registro degli indagati di Giovanni Errani, fratello del governatore dell'Emilia Romagna, scrive David Marceddu su “Il Fatto Quotidiano”. Tre giornalisti bolognesi sono stati condannati per avere pubblicato nel 2010 la notizia, vera, di un’inchiesta a carico di Giovanni Errani, fratello del governatore dell’Emilia Romagna, Vasco. I cronisti Paola Cascella di Repubblica Bologna, Gilberto Dondi del Resto del Carlino e Gianluca Rotondi del Corriere di Bologna, sono stati infatti raggiunti da un decreto penale di condanna, richiesto dalla Procura della Repubblica e concesso dal giudice Mirko Margiocco. L’ammontare della pena, la cui richiesta è stata controfirmata dal procuratore capo Roberto Alfonso, è simbolico, 129 euro, ma è stata già preannunciata da parte degli interessati la volontà di fare ricorso per andare eventualmente a un processo pubblico, non previsto in caso di semplice decreto. “Tre condanne senza senso”, le ha definite l’ordine dei giornalisti regionale. Il 22 agosto 2010 le tre testate cittadine scrissero dell’iscrizione al registro degli indagati di Giovanni Errani. L’accusa nei suoi confronti era di avere truccato le carte al fine di ricevere un milione di euro dalla Regione guidata da suo fratello, per la costruzione di una cantina da parte della sua coop Terremerse. Quel milione (che dopo anni la Regione chiese indietro), aveva poi messo nei guai anche lo stesso presidente Vasco Errani. Il governatore infatti presentò in Consiglio regionale e alla stessa Procura della Repubblica una memoria scritta per difendersi dalle accuse politiche dell’opposizione su quella vicenda. Tuttavia alcuni dati riportati su quella relazione lo portarono a essere accusato di falso ideologico. Il governatore poi è stato assolto in primo grado e ora si attende l’appello. Per Giovanni Errani invece il dibattimento si aprirà a marzo 2014. Quando i tre giornalisti riportarono la notizia il 22 agosto 2010, la vicenda Terremerse era stata già resa nota un anno prima, nel 2009, da un consigliere regionale di opposizione e dal quotidiano Il giornale. Che vi fosse una inchiesta a carico di Giovanni Errani era dato per scontato in città, anche se l’indagato non era stato ancora formalmente avvisato. Tuttavia la ‘rivelazione’ non andò giù alla Procura e, nonostante nessuno dei due fratelli Errani abbia mai sporto querela, le indagini contro la stampa partirono lo stesso. Rotondi, Cascella e Dondi sono stati condannati per “pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale”. Durissimo è stato il commento dell’ordine dei giornalisti: “I fatti risalgono a quasi tre anni fa, ma la ‘dura punizione’ arriva solo ora quando già la vicenda è stata raccontata in lungo e in largo. I giornalisti condannati non si sono certo inventati la notizia dell’apertura delle indagini per la vicenda Terremerse. È certo che qualcuno gliel’ha rivelata. Ci auguriamo dunque che la Procura, così solerte nel perseguire i giornalisti per aver svolto bene il loro mestiere, lo sia stata altrettanto nel ricercare la fonte che ha indotto la fuga di notizie. Tre anni di tempo dovrebbero essere stati più che sufficienti”. Poi la nota dell’Ordine prosegue: “In ogni caso, l’attribuzione di reato di ‘pubblicazione arbitraria’ non è giustificata di fronte al diritto-dovere del giornalista, una volta che ne sia entrato in possesso, di informare i propri lettori su una notizia che aveva un indiscutibile carattere di interesse pubblico. E non facciamo (o non dovremmo mai fare) distinzione tra il ‘potente di turno’ e il povero cristo’”.
Giornalisti condannati per aver scritto la verità. Condannati per aver dato una notizia vera, di interesse pubblico rilevante, che riguardava il fratello del governatore dell’Emilia-Romagna Vasco Errani nella vicende Terremerse. L'Ordine: "Tre condanne senza senso", scrive Valerio Baroncini su “Il Resto del Carlino”. Condannati senza processo per aver lavorato bene, forse troppo. Condannati per aver dato, cioè, una notizia vera, di interesse pubblico rilevante, che riguardava il fratello del governatore dell’Emilia-Romagna Vasco Errani e un milione di euro erogati, secondo i magistrati, in maniera illecita alla cooperativa da lui presieduta. Ma, hanno deciso sempre i magistrati della Procura di Bologna ottenendo l’ok del tribunale, quella notizia non andava data. I colleghi Gilberto Dondi del Carlino, Paola Cascella di Repubblica e Gianluca Rotondi del Corriere di Bologna hanno ricevuto infatti come regalo di Natale la notifica di un decreto penale di condanna emesso dal giudice Mirko Margiocco. L’ammenda da 129 euro (che non saranno milioni ma, salvo opposizione, son pur sempre una condanna a tutti gli effetti e rappresentano un grave e quasi inedito precedente per chi lavora nell’informazione a Bologna) è stata chiesta dal pm Rossella Poggioli in un atto controfirmato in prima persona dal procuratore capo Roberto Alfonso. Il capo d’imputazione è l’articolo 684 del codice penale, la pubblicazione arbitraria di un atto giudiziario coperto da segreto. I pm hanno chiesto di condannare tutti i giornali di Bologna perché la notizia sull’iscrizione del fratello di Errani è stata divulgata quando l’interessato non ne era ancora venuto a conoscenza. Intanto bisogna sottolineare come questo, per meccanismi propri anche degli uffici giudiziari, accada spesso, ma il provvedimento viene preso — toh — proprio quando entrano in ballo notizie e protagonisti di un certo tipo. Non risulta essere mai stato preso, invece, con protagonisti meno importanti. Poi è curioso notare come l’indagine nacque per rivelazione di segreto d’ufficio dopo l’articolo del 22 agosto 2010: questo reato si compie in concorso con un pubblico ufficiale (ad esempio un magistrato o un militare). Ma — toh — tutto in questo caso è finito in nulla: sarebbe stato interessante, visto il puntiglio dei pm, capire chi rivelò la notizia. Infine: per questa vicenda l’inchiesta ha portato anche — toh — a una condanna a un anno e due mesi per un funzionario regionale e a un futuro processo per altre tre persone (fra cui il fratello di Errani). La notizia, per noi, andava data. E, proprio perché stiamo solo dalla parte dei lettori, lo faremo ancora.
"Tre condanne senza senso. La notizia della condanna dei tre cronisti di giudiziaria delle maggiori testate cittadine (Repubblica, Resto del Carlino, Corriere della Sera) per "pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale" lascia letteralmente sconcertati. Per i tempi, per i contenuti e per la logica che dovrebbe sottendere a un provvedimento che, seppure contenuto nella sostanza (un’ammenda di soli 129 euro a testa), non è comprensibile. Nè ai lettori, nè agli addetti ai lavori. I fatti risalgono a quasi tre anni fa, ma la ‘dura punizione’ arriva solo ora quando già la vicenda è stata raccontata in lungo e in largo. I giornalisti condannati non si sono certo inventati la notizia dell’apertura delle indagini sui due fratelli Errani per la vicenda Terremerse. E’ certo che qualcuno gliel’ha rivelata. Ci auguriamo dunque che la Procura così solerte nel perseguire i giornalisti per aver svolto bene il loro mestiere, lo sia stata altrettanto nel ricercare la fonte che ha indotto la fuga di notizie. Tre anni di tempo dovrebbero essere stati più che sufficienti. In ogni caso, l’attribuzione di reato di "pubblicazione arbitraria" non è giustificata di fronte al diritto-dovere del giornalista, una volta che ne sia entrato in possesso, di informare i propri lettori su una notizia che aveva un indiscutibile carattere di interesse pubblico. E non facciamo (o non dovremmo mai fare) distinzione tra il ‘”potente di turno e il povero cristo’’. Non risulta che il presidente della Regione si sia lamentato per l’uscita della notizia, la Magistratura sì, seppure con i suoi tempi: tre anni! Va da sé che il Consiglio dell’Ordine dei giornalisti dell’Emilia-Romagna è interamente solidale con i colleghi ingiustamente condannati da un provvedimento che ha ben pochi precedenti e sarà sempre al fianco dei giornalisti nelle battaglie per la libertà di stampa".
BOLOGNA RAZZISTA.
Bologna-Napoli del 19 gennaio 2014, cori razzisti: "Vesuvio, lavali col fuoco", scrive “La Gazzetta dello Sport”. Al Dall'Ara ancora i soliti cori e striscioni beceri contro i tifosi napoletani. La curva bolognese adesso è a rischio chiusura, e la vergogna razzismo negli stadi italiani continua. "Vesuvio lavali col fuoco...". È questo il coro partito dalla curva del Bologna circa una mezz'ora prima del calcio d'inizio della partita del Dall'Ara tra il Bologna e il Napoli. E il vulcano è stato chiamato in causa anche da uno striscione: "Sarà un piacere quando il Vesuvio farà il suo dovere". Da censura. Il coro è stato poi ripetuto anche durante il riscaldamento, nonostante il bel clima creatosi alla vigilia con la musica di "Caruso" di Lucio Dalla amplificata dagli altoparlanti dello stadio: era stato Gianni Morandi il promotore dell'idea, evidentemente non condivisa da alcuni ultrà rossoblù che hanno intonato il coro proprio durante la canzone di Dalla. Il clima è stato dunque rovinato dalla solita vergogna che ormai da tempo accoglie i tifosi napoletani in trasferta in molte città italiane. Da segnalare che al Dall'Ara erano presenti almeno settemila sostenitori azzurri. A questo punto la curva del Bologna è a rischio chiusura.
Dopo i fischi al Caruso di Lucio Dalla al Dall’Ara e gli striscioni contro il Napoli, arriva la durissima condanna di Gianni Morandi. Il cantante annuncia addirittura di essere pronto a rinunciare al suo ruolo di presidente onorario, per quella che definisce una manifestazione di «maleducazione deficiente», scrive Francesco Rosano su “Il Corriere della Sera”. «Ieri allo Stadio di Bologna è successo qualcosa di inqualificabile e di cui mi sono vergognato – scrive il cantante sulla sua pagina Facebook - prima dell'inizio della partita sono comparsi striscioni intollerabili contro la squadra e la città di Napoli e mentre le note di Caruso con la voce di Lucio risuonavano nell'aria, una parte della curva dei tifosi rossoblu ha cominciato a fischiare». «Non credevo che il tifo fosse degenerato a questo punto», si sfoga Morandi, ricordando a malincuore i tempi in cui il Dall’Ara «veniva preso ad esempio per la civiltà e la sportività del pubblico». Un pubblico che sapeva addirittura «applaudire la squadra avversaria quando giocava meglio della nostra». «Non so quanti fossero ieri quegli incivili, capaci di un simile comportamento, razzista ed offensivo – conclude il cantante - spero fossero pochi, ma certamente io non mi riconosco in loro, che oltraggiano la figura di Lucio e insultano gli avversari con questa maleducazione deficiente». Da qui l’amaro annuncio dell’addio: «Essere il presidente onorario, anche se è una carica simbolica e forse inutile, non mi piace più». È duro anche il sindaco di Bologna, Virginio Merola: «I cori non sono accettabili. Si è trattato di comportamenti che nulla hanno a che fare con lo sport. Una violenza verbale inconcepibile, da condannare. Inoltre, così facendo, è stata infangata la memoria di Lucio Dalla, persona che ha sempre amato la sua città e Napoli. Comprendo la scelta di Gianni Morandi, mi unisco alle sue parole di sdegno, mi auguro però che non abbandoni la presidenza onoraria del Bologna FC». Anche l’assessore bolognese alla Legalità, Nadia Monti, aveva poco prima espresso il proprio rammarico: «Le dimissioni di Gianni Morandi da presidente onorario del Bologna sono un gran dispiacere – scrive su Twitter l’ex dipietrista - ma ne ha tutte le ragioni, no al razzismo». E anche il Consiglio Comunale di Bologna, dopo i «vergognosi cori razzisti intonati ieri allo stadio Dall'Ara, stigmatizza ogni forma di espressione di stampo razzista e si scusa con la città di Napoli e con tutti i cittadini che non si sentano rappresentati dal fanatismo ultras». La Procura per ora aspetta: «Aspettiamo gli atti dalla Digos», dice il procuratore aggiunto, e portavoce della Procura di Bologna, Valter Giovannini, a chi gli chiede se sarà aperto un fascicolo d'indagine sui cori e gli striscioni contro i napoletani al Dall'Ara. Anche il leader dell'Udc, grande tifoso rossoblù, sta con Morandi: «Capisco Gianni Morandi. Per noi il Bologna è una fede ma è anche un modo diverso di essere tifosi», scrive su Twitter. «Molta amarezza»: reagisce così il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris: «Da sindaco di Napoli, ringrazio Gianni Morandi, il sindaco di Bologna Merola e tutti coloro che si sono espressi a condanna dei cori razzisti pronunciati ieri, in occasione della partita, contro la nostra città».
Cori razzisti contro i napoletani, Gianni Morandi la presidenza del Bologna. Il cantante si sfoga su facebook: "Mi sono vergognato per i miei tifosi. Non mi piace più fare il presidente onorario...", scrive “Libero Quotidiano”. Gianni Morandi lascia la presidenza onoraria del Bologna. Le dimissioni del cantante arrivano dopo uno striscione apparso sugli spalti durante l'ultima partita casalinga dei felsinei: "Vesuvio lavali col fuoco...". La gara del Dall'Ara tra Bologna e Napoli oltre che per il risultato (2-2) sarà ricordata perché rovinata dall'atteggiamento della curva di casa: mezz'ora prima dell'inizio ha deciso di accogliere i tanti tifosi napoletani con cori, come Vesuvio, lavali col fuoco. Proseguiti anche quando sono risuonate le note di Caruso di Lucio Dalla, un'idea della società rossoblù per stemperare gli animi. E' stato proprio Gianni Morandi a proporre di diffondere la celebre canzone dell'amico cantautore scomparso, per stemperare gli animi, ma le parole sono state quasi coperte da dischi e cori. Prima della canzone dai tantissimi tifosi del Napoli presenti era partito un applauso e l'invocazione Lucio Lucio. E proprio il presidente onorario della società oggi si schiera contro la sua tifoseria: "Ieri allo Stadio di Bologna è successo qualcosa di inqualificabile e di cui mi sono vergognato". I cori contro Napoli dalla Curva del Bologna, sulle note di Caruso di Dalla, fanno indignare Gianni Morandi. "Fare il presidente onorario non mi piace più - ha aggiunto - Non credevo che il tifo fosse degenerato a questo punto".
I CONSIGLIERI REGIONALI EMILIANI ROMAGNOLI? COME GLI ALTRI.
Consiglieri regionali, fondi e spese pazze: pecore, penne e le (proprie) tasse sui rifiuti. In 16 Regioni inchieste per peculato, truffa e concussione sui rimborsi dei gruppi nei parlamentini. Ma indulto e amnistia potrebbero rappresentare un colpo di spugna normativo, caso Fiorito in primis. A deputati e senatori il compito di decidere quali reati condonare.
Nel 2013, intanto, sforbiciate sui fondi: da 47 milioni di euro a 9 milioni. La mappa delle indagini, scrive Michele Scacchioli su “La Repubblica”. Sono finiti sotto inchiesta per peculato, truffa e concussione. Un'indagine che - da nord a sud - si è allargata a macchia d'olio su un 'esercito' di consiglieri regionali. Un pentolone di spese folli che la magistratura ha iniziato a scoperchiare più di un anno fa ma che ora rischia di esplodere in un nulla di fatto in virtù dell'indulto e dell'amnistia. Caso Fiorito in primis (l'ex capogruppo del Pdl in Lazio è già stato condannato in primo grado). Nei giorni scorsi il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, ha invocato provvedimenti di clemenza per scongiurare il sovraffollamento nelle carceri: ma sarà compito di deputati e senatori (serve l'accordo dei due terzi del parlamento) perimetrare tali misure e decidere quali reati infilare sotto l'ombrello del condono (della pena) e dell'oblìo (dei reati). Il dibattito imperversa sulle sorti di Silvio Berlusconi, condannato in Cassazione per frode fiscale, e sulle ripercussioni reali di tali misure. I dubbi, però, ora investono anche lo scandalo sui rimborsi spese dei gruppi consiliari regionali, e serpeggia il timore che la gestione 'allegra' di tali fondi possa chiudersi con un colpo di spugna normativo. Ci si aspetta il braccio di ferro in aula visto che sarà compito di deputati e senatori fare sì che reati considerati di particolare 'allarme sociale' rimangano fuori dalla cornice. Di sicuro c'è che, accanto alle inchieste penali, a spulciare scontrini, fatture e ricevute di dubbia provenienza ci si è messa ovunque la Corte dei conti: ai giudici contabili rimarrà comunque la facoltà di sanzionare coloro che saranno ritenuti colpevoli, e di obbligarli alla restituzione del maltolto laddove ci sarà chi deciderà di costituirsi parte civile. Spalmati lungo tutta Italia, nel 2011 i soldi pubblici a disposizione dei consiglieri regionali eletti sono stati ben 47 milioni di euro. Rimborsi extra destinati ai gruppi, s'intende, che sono andati ad affiancarsi al lauto compenso percepito mensilmente. Ma complici le inchieste giudiziarie che hanno aperto uno squarcio inquietante sulla gestione 'allegra' del denaro versato dai contribuenti e destinato - sulla carta - al funzionamento dei singoli parlamentini, la mannaia normativa ha tentato di ridimensionare la portata dello scandalo sulle 'spese pazze' e di calmierare l'ammontare dei rimborsi elargiti a uso e consumo dei singoli gruppi consiliari. Nell'elenco degli acquisti effettuati negli anni passati col denaro di rappresentanza, infatti, è finito davvero di tutto: dai profumi alle penne d'oro, dalla lap dance alle pecore, passando per il buffet a base di cornetti, paste secche e latte di mandorla offerto, dopo un funerale, ai parenti del caro estinto. Ma c'è stato perfino chi ha usato quei soldi per saldare la propria tassa sui rifiuti. A pagare, in realtà, i cittadini. In Emilia-Romagna le inchieste (che sono più d'una) scuotono tutti i partiti presenti in Regione. Dal pasticcio delle carte sparite dagli uffici dell'Idv alle indagini sul presidente Vasco Errani, accusato di falso ideologico per aver favorito il fratello, e poi assolto. Tutto però è cominciato a emergere nel 2012 con le interviste a pagamento fatte con i soldi dei gruppi consiliari: interviste che hanno coinvolto Pd, M5S, Sel, FdS, Lega e Udc. Nel Pdl, invece, il consigliere Alberto Vecchi è già stato rinviato a giudizio per truffa: deve rispondere degli 80mila euro di rimborsi chilometrici ricevuti dopo aver spostato nel 2006 la residenza da Bologna a Castelluccio di Porretta Terme, a 60 km dal capoluogo. Nel mirino, anche le auto blu del presidente dell'assemblea legislativa, Matteo Richetti (Pd). La lente della magistratura sta scandagliando il budget regionale a partire dal 2005. Sotto inchiesta per truffa, inoltre, è Zoia Veronesi, storica segretaria di Pierluigi Bersani ed ex dipendente della Regione: nei giorni scorsi i magistrati emiliani hanno inviato le carte a Roma per competenza territoriale. Sul conto corrente cointestato con l'ex segretario Pd ora indaga la procura della Capitale. E così, dalla Calabria al Piemonte, la sforbiciata imposta dalla nuova legge varata alla fine dello scorso anno dal governo Monti ha sottratto 37,3 milioni di euro dalle tasche delle singole assemblee legislative. Di fatto, una riforma del finanziamento pubblico ai gruppi politici, dettata da Roma ai territori. Peccato che si sia deciso di 'chiudere la stalla' quando ormai i buoi erano scappati. Tuttavia, a partire dal 1° gennaio 2013 i fondi a disposizione sono, complessivamente, poco più di 9 milioni. Il calcolo è presto fatto: 5mila euro per ciascun consigliere più 0,05 euro per abitante di ogni regione. Da sinistra a destra, dentro allo scandalo ci sono finiti tutti. Ma se dal punto di vista mediatico la stretta sui costi è stata anche un modo per provare a contenere l'indignazione popolare generata negli anni dai diffusi sentimenti anti casta e riesplosa furiosa dinanzi a vicende come il 'caso Fiorito', sul fronte giudiziario le singole procure sono ampiamente al lavoro. Dopo le segnalazioni legate a presunte irregolarità riscontrate negli anni passati e inviate dalla Corte dei conti ai tribunali, 16 Regioni su 20 sono finite, una dietro l'altra, nel mirino della magistratura. Che in queste ore continua ad analizzare le note spese dei gruppi consiliari accusati, a seconda dei casi, di peculato, di truffa e/o di concussione. Il quadro a oggi è complesso e variegato, a partire dalle teste già saltate. In Sardegna, Umbria e Basilicata alcuni politici sono finiti a processo, mentre in Friuli Venezia Giulia talune posizioni sono appena state archiviate. Altrove sarebbe in dirittura d'arrivo l'avviso di conclusione delle indagini. Accade anche che gli indagati fossero già stati rieletti nell'attuale legislatura: sulla base della legge Severino, i consigli voteranno la sospensione (ma non la decadenza) dalla carica qualora arrivassero condanne di primo grado.
La maxi inchiesta sulle spese dei gruppi consiliari dell'Assemblea legislativa della Regione entra finalmente nel curvone finale e dopo un anno si avvia al sospirato traguardo, con lo show down ormai dietro l'angolo e i primi nomi iscritti nel registro degli indagati per peculato, scrive Gianluca Rotondi su “Il Corriere della Sera”. Sono i nove capigruppo di Pd, Pdl, Lega Nord, Idv, Movimento 5 stelle, Misto, Fds, Sel-Verdi e Udc, cioè coloro che hanno gestito i budget e firmato i rendiconto delle spese sostenute dai consiglieri nella legislatura in corso, rimborsi che la Procura ritiene illeciti. Si tratta del primo passaggio formale compiuto dalle pm Antonella Scandellari e Morena Plazzi che da un anno indagano sotto la supervisione del procuratore capo Roberto Alfonso e del procuratore aggiunto Valter Giovannini sull'utilizzo del denaro pubblico da parte dei gruppi. Il numero degli indagati è però destinato a salire con il coinvolgimento dei consiglieri che hanno utilizzato fondi pubblici per fini privati. Le posizioni dei capigruppo (Marco Monari Pd, Luigi Villani Pdl, Mauro Manfredini Lega Nord, Silvia Noè Udc, Gianguildo Naldi Sel, Andrea De Franceschi M5S, Liana Barbati Idv, Roberto Sconciaforni Fds e Matteo Riva del gruppo misto) sarebbero diversificate tra loro e potranno cambiare in funzione di ciò che ciascuno riuscirà o meno a giustificare. Pare infatti che all'interno dello stesso gruppo ci siano consiglieri che non hanno badato a spese e altri che hanno avuto invece comportamenti più sobri. Per esempio c'è chi si sarebbe fatto rimborsare un pasto da Mc Donald's e chi invece avrebbe pranzato a spese della Regione in ristoranti rinomati. A quanto pare tra i consiglieri emiliano-romagnoli non ci sarebbe nessun emulo di batman Fiorito, il vorace consigliere del Pdl alla Regione Lazio arrestato nel 2012, ma nelle quasi 40 mila voci di spesa analizzate in questi 12 mesi dai finanzieri non mancano spese originali fatte pagare ai contribuenti e che poco hanno a che fare col funzionamento dei gruppi. È il caso di scontrini relativi a profumi, medicine, forni a microonde, altri elettrodomestici e libri di narrativa. Che l'inchiesta sia ormai alle battute finali è un fatto confermato in ambienti investigativi e avvalorato dalla visita a sorpresa di ieri della Finanza. Si può immaginare lo scompiglio in viale Aldo Moro quando, poco dopo le 10, proprio mentre era riunito il consiglio, un drappello di dieci finanzieri del nucleo di polizia tributaria ha varcato la porta a vetri di viale Aldo Moro. Cercavano riscontri alle spese sostenute dai partiti dal 2010 alla voce consulenze, un capitolo dove finiscono anche i contratti, a vario titolo e con mansioni diverse, dei collaboratori dei gruppi. Gli inquirenti si sono trovati di fronte a consulenze sostanziose ripetute decine di volte, in un caso cinquanta, sempre dalle stesse persone. Per questo chi indaga vuole capire qual è stato l'esito effettivo degli incarichi esterni e interni che pesano sui budget dei gruppi per centinaia di migliaia di euro l'anno. L'ipotesi è che alcune di queste siano in realtà consulenze camuffate, relative a questioni curiose e materie sorprendenti. C'è poi il sospetto che alcuni collaboratori abbiano lavorato più per il partito che per il gruppo, ipotesi che ricadrebbe nel finanziamento illecito ai partiti. Per questo i finanzieri hanno parlato a lungo con i responsabili di segreterie e tesorerie e acquisito documentazione, mentre i consiglieri sono stati invitati ad accomodarsi fuori. La svolta nell'inchiesta come detto riguarda capigruppo e consiglieri in carica mentre le indagini relative al 2005-2010 sarebbero in stand-by, anche per via delle grande mole di spese da analizzare e per le scarse risorse a disposizione. Pare si sia scelto di contestare condotte più attuali e al riparo dalla prescrizione. Della vecchia legislatura al momento l'unico indagato è Paolo Nanni, allora capogruppo Idv, che nei mesi scorsi ha ricevuto un avviso di fine indagine per peculato. Il 2012 è stato decisamente un anno nero per la Regione, con una serie di inchieste che hanno coinvolto i vertici di viale Aldo Moro: da Terremerse, con il proscioglimento del presidente Vasco Errani nella vicenda del finanziamento da un milione di euro erogato senza titolo alla coop allora guidata dal fratello Giovanni, all'appalto di Intercent-er, passando per il caso di Zoia Veronesi, la storica segretaria di Pier Luigi Bersani pagata dalla Regione mentre lavorava a Roma con l'ex candidato premier del centrosinistra, per finire con il fascicolo nato dall'esposto contro Errani e i vertici regionali della Sanità presentato dal gruppo Garofalo, proprietario della clinica Esperia di Modena, che ipotizza favoritismi nel sistema per gli accreditamenti per l'alta specialità chirurgica.
I politici nella bufera abbassano i toni: “Siamo sereni, per noi è tutto regolare”. Tutti i capigruppo della Regione sono indagati dalla procura. Battesimo giudiziario per i grillini. Monari (Pd): fornito tutte le carte, scrive Beppe Persichella su “La Repubblica”. Per i consiglieri regionali è ottobre il mese più nero dell'anno. Proprio di questi tempi l'anno scorso ci fu il primo blitz della Guardia di finanza che portò via dagli uffici di viale Aldo Moro diversi faldoni con dentro ricevute, fatture e contratti. Si sono ripresentati altre volte per chiedere integrazioni e chiarimenti, compreso ieri quando nove finanzieri hanno di nuovo bussato la porta a tutti i gruppi consiliari, dal Pd al Movimento 5 Stelle. Ma non sono stati gli agenti della Guardia di finanza a informare i capigruppo delle indagini in corso sul loro conto. L'hanno scoperto su internet, e non l'hanno presa bene. E' una vera e propria bufera quella che si è abbattuta ieri sul palazzo dell'Assemblea legislativa, dove - proprio come un anno fa - era in programma la seduta del consiglio regionale. All'ordine del giorno sanità e altri provvedimenti, ma la testa dei consiglieri era altrove. Perché la nuova visita della Finanza sommata alla notizia di indagine nei confronti dei capigruppo significa che l'inchiesta della Procura è in dirittura d'arrivo. Per i grillini è la prima volta che uno di loro finisce indagato, anche se due estati fa Giovanni Favia, prima ancora di essere cacciato da Grillo, era incappato nella vicenda delle interviste a pagamento. Eppure il capogruppo Andrea Defranceschi è il più tranquillo di tutti. "I nostri conti sono on line dal 2010, non so da noi cosa possono trovare. Nel caso, l'avviso di garanzia ce l'avrebbero spedito prima i nostri attivisti" spiega. Di certo, un'inchiesta così lunga di non lo favorisce, e finire nella lente di ingrandimento dei magistrati assieme ai colleghi di Pd e Pdl è l'ultima cosa di cui sentiva il bisogno. "Sarebbe ora che chiudessero" si lascia infatti scappare. Come lui, anche la capogruppo dell'Idv Liliana Barbati è dispiaciuta di essere stata tirata dentro il calderone delle indagini. "Ho sempre cercato di fare le cose nel modo corretto, non ho portato a casa nulla né abbiamo comprato push up - racconta -. C'era un regolamento che ho seguito. Il mio gruppo ha risparmiato anche 230 mila euro, non l'hanno fatto nemmeno i 5 Stelle. Se uno vuole delinquere invece li spende tutti". Per tutta la mattinata gli altri partiti preferiscono limitare al minimo le dichiarazioni. Quella in corso, si affrettano a spiegare tutti, è l'ennesimo controllo di routine. Nulla di nuovo sotto al sole insomma. Non è però proprio così. I finanzieri battono a tappeto tutti gli uffici, chiedono ai gruppi riscontri su collaborazioni e consulenze di questa legislatura. Vogliono capire se dietro a questi incarichi ci sia stato un effettivo lavoro e non un posto al caldo, magari per qualche esponente di partito. E poi ci sono i cespiti. I finanzieri fanno domande su cellulari, pc, e tutti gli acquisti fatti per l'attività quotidiana degli uffici. Se vengono davvero usati è un conto. Ma se non vi è traccia potrebbero essere anche dei regali mascherati, ed è allora un altro conto. Poi, dopo pranzo, la doccia gelata. Dalla Procura arriva la notizia che tutti i capigruppo sono indagati per peculato. Non si può più restare in silenzio o tenere i toni bassi, bisogna rispondere nel merito. "Sono sereno - interviene allora il capogruppo del Pd Marco Monari -. Valuteremo tutte le questioni che ci verranno nel caso addebitate nelle sedi opportune. Ma noi siamo sempre stati attenti al regolamento". Frase di circostanza forse in questi casi, e infatti altri suoi colleghi adottano lo stesso tenore. Ma quando i cronisti gli chiedono come giudica il fatto di aver appreso tutto solo dalla stampa, risponde con un laconico "no comment". Il consigliere regionale Stefano Bonaccini, segretario del Pd dell'Emilia Romagna e capo della campagna di Renzi, va via poco verso la fine della seduta del consiglio. E prima di prendere il treno per Roma dice: "Non sappiamo nulla, ma al gruppo sono convinti di aver sempre fatto le cose con correttezza". Simile il commento del nuovo capogruppo del Pdl Gianguido Buzzoni: "A noi non è pervenuto nulla, ma siamo sereni in attesa dei risultati dell'indagine". Quello del Carroccio invece, Mauro Manfredini, di una sola cosa è contento in questa giornata buia anche per il suo partito: "Mi conforta il fatto di essere tutti sulla stessa barca, perché noi abbiamo solo recepito le regole della Regione".
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!
Stragi. Ma i magistrati di Bologna hanno interrogato Spiazzi? Si chiede Paolo Bolognesi su “Il Fatto Quotidiano”. È morto ad ottant’anni meno un mese Amos Spiazzi di Corte Regia, l’ufficiale delle forze armate italiane coinvolto e poi prosciolto nelle inchieste sul golpismo degli anni Settanta. Era colui che sarebbe poi passato al Sisde e dal lavoro svolto con Roberto Scardova per il libro “Stragi e mandanti” è emerso che, nella nostra richiesta di andare alla ricerca di chi ha ordinato la strage del 2 agosto 1980, sarebbe stato un uomo che avrebbe potuto fornire molte informazioni utili. La mia speranza, dunque, è che i giudici di Bologna abbiano fatto in tempo a interrogarlo. Spiazzi, per la ricerca di verità giudiziaria e storica, era una pedina importante. Quindi era imprescindibile che fosse sentito e se oggi risultasse che non c’è stato modo di porgli domande noi, come Associazione dei parenti delle vittime, la dovremmo considerare una grave lacuna per la ricostruzione di ciò che avvenne non solo il 2 agosto 1980, ma in tutto il periodo dello stragismo in Italia. Non vorremmo pensare a un’omissione da parte degli inquirenti, per questo il nostro desiderio è quello di capire esattamente ciò che è stato fatto dal punto di vista investigativo. Ricordiamo velocemente in proposito il ruolo che Amos Spiazzi ebbe nel far decretare la condanna a morte del neofascista Francesco Mangiameli, ucciso dai Nar il 9 settembre 1980. Accadde che poco tempo prima l’ufficiale parlò all’Espresso di tale “Ciccio” e del suo ruolo di informatore nel mondo dell’estrema destra. E poi, come rileviamo Scardova e io, c’è la vicenda di una struttura chiamata “Nuclei di difesa dello Stato”, una specie di Gladio militare, oltre ai rapporti con importanti esponenti di Ordine Nuovo coinvolti nelle indagini sulle stragi che precedettero Bologna. Tutti questi elementi (e molti altri) non li abbiamo raccontati solo nel libro, ma li abbiamo scritti prima nella memoria presentata in procura all’inizio dell’anno. Dunque adesso ci chiediamo che a Spiazzi, ormai anziano e malato, qualcuno abbia chiesto qualcosa.
Tribunale dei Minori: trasferiti i due giudici dissidenti contro la prassi che vessa i genitori, scrive Mauro Alcamisi. Il presidente del tribunale dei minori, Maurizio Millo, ha trasferito i due giudici "dissidenti" secondo i quali in Tribunale da anni è in uso una prassi nociva per cui i giudici, nei casi di famiglie problematiche, prendono provvedimenti provvisori (non appellabili) con cui limitano la potestà dei genitori, dando poi una delega in bianco ai servizi sociali per controllare la situazione. I magistrati Starzani e Morcavallo che avevano denunciato la situazione son o stati oggetto di trasferimento da parte del presidente che cerca così di insabbiare una questione che allarma non solo alcuni occupanti delle stanze del palazzo di giustizia, ma soprattutto la pubblica opinione ed i genitori bolognesi in attesa di giudizio ed i papà e le mamme di tutta l'Italia. In realtà, ciò che è successo nei mesi scorsi nel Tribunale bolognese è qualcosa di un po’ più complicato rispetto a quello che è passato sui giornali, cioè la lite fra il presidente e due colleghi ‘rompiscatole’, cui il Csm ha dato torto. Quello che è successo, in realtà, è lo scontro fra due modi di concepire la giustizia minorile. Da una parte, gli "eretici" Stanzani e Morcavallo, secondo i quali in Tribunale da anni è in uso una prassi nociva, per cui i giudici, nei casi di famiglie problematiche, prendono provvedimenti provvisori (non appellabili) con cui limitano la potestà dei genitori, dando poi una delega in bianco ai servizi sociali per controllare la situazione. Il tutto senza sentire entro pochi giorni mamma e papà, come invece (secondo Stanzani e Morcavallo) imporrebbe il principio del contraddittorio. La prima udienza è invece fissata a 6-8 mesi. Questi decreti provvisori, poi, vengono prorogati e, di fatto, durano anni. Di proroga in proroga, i figli crescono e i genitori invecchiano, sotto il controllo-minaccia dei servizi sociali, che invece di assistere le famiglie diventano per loro una fonte di paura (paura che vengano tolti i figli). In alcuni casi-limite, questa situazione dura davvero tanti anni, senza che si arrivi mai a una definizione. Senza contare il potere sempre crescente dei giudici non togati, psicologi ed educatori. Morcavallo e Stanzani, invece, hanno tentato di invertire la tendenza, riesaminando i casi pendenti e, sentite le parti, facendo decreti motivati. Cosa che, a loro dire, i colleghi nella maggior parte dei casi non fanno. La versione del presidente Millo è però ben diversa: «Le parti vengono sempre sentite — spiega — e la natura stessa del procedimento minorile impone tempi lunghi per valutare se le soluzioni decise dal giudice producano sulla famiglie gli effetti sperati». Il caso è finito al Csm, Stanzani e Morcavallo hanno avuto la peggio e sono stati trasferiti. Da pochi giorni hanno preso servizio a Modena. Stanzani è un giudice esperto, è stato presidente di sezione e per lui il Csm aveva in serbo un trasferimento per incompatibilità ambientale (non disciplinare). Allora l’interessato ha chiesto di essere trasferito. Morcavallo, al contrario, è poco più che trentenne. Bologna era uno dei suoi primi incarichi. Per lui il Csm ha aperto un procedimento disciplinare e chiesto (evento piuttosto raro) il trasferimento cautelare. Sia Stanzani che Morcavallo hanno presentato un esposto alla Procura generale della Cassazione sulla situazione del Tribunale dei minori di Bologna. Le due visioni diametralmente opposte avevano creato un clima di tensione in Tribunale, con camere di consiglio infuocate. Due i casi simbolo: quello del piccolo Devid Berghi, il bambino morto di freddo in piazza Maggiore, per il quale Millo aveva preso la decisione provvisoria di sospendere la patria potestà ai genitori ma Morcavallo, nella successiva camera di consiglio, ha messo in minoranza il presidente e la potestà è stata ripristinata. Ancora più eclatante l’altro caso, relativo a una bambina che oggi ha 11 anni. L’avvocato dei genitori della piccina, Rita Rossi (ADIANTUM Bologna), ha denunciato il presidente del collegio (uno dei sei giudici dell’ufficio) per falso materiale e ideologico e abuso d’ufficio. Questo perché il giudice avrebbe, secondo le accuse, violato la procedura esautorando in modo irregolare il collega relatore, cioè Morcavallo, facendo sparire dal fascicolo la ‘minuta’ firmata dallo stesso Morcavallo e scrivendo di proprio pugno il decreto. La replica di Millo: «Il presidente del collegio si è avvalso di un potere previsto dalla legge. Quando il relatore stende le motivazioni in modo diverso rispetto alla decisione del collegio, il presidente assume ruolo di estensore della sentenza. La "minuta" di Morcavallo non aveva più alcuna rilevanza». Cos'altro aggiungere se non l'indignazione per come funzionano ancora oggi alcune sezioni dei tribunali italiani? Una vicenda che sarebbe passata sotto silenzio e che coinvolge, stavolta, due magistrati che avevano capito che la tutela dei diritti dei minori e dei loro genitori viene molto prima di qualsiasi meccanismo o prassi per quanto consolidata o, per meglio dire, "comodista".
L’atto era stato depositato, prima che si diffondesse la notizia secondo la quale il Presidente del tribunale dei minori di Bologna Maurizio Millo, insieme ad altri 18 magistrati di altre procure, sarebbe indagato per evasione fiscale. L’interrogazione, che siamo in grado di anticiparvi nel contenuto, è a firma dei deputati radicali (Rita Bernardini, in primis) e riguarda, da un lato, chiarimenti sull’appropriatezza del doppio incarico di magistrato (Italia – San Marino) e, dall’altro, fa seguito alla denuncia dell’avv. Rita Rossi riguardo ai metodi discutibili utilizzati proprio nel tribunale diretto da Millo contro alcune famiglie emiliane, vittime di provvedimenti che hanno creato accese polemiche e numerosi interrogativi sull’operato dei giudici, scrive Adiantum su “Il Giornale di San Marino”
INTERROGAZIONE A RISPOSTA SCRITTA
Al Ministro della Giustizia
Premesso che:
il sito online Giornale.sm ha pubblicato lo scorso 7 settembre un articolo intitolato: “Può un giudice operare in due Stati sovrani? Il caso del Prof. Millo”;
l’articolo riproduce un documento dal quale emergerebbe che il dott. Maurizio Millo, Presidente del Tribunale dei minori di Bologna, sarebbe anche membro del Collegio Garante della Repubblica di San Marino;
l’estensore dell’articolo, tra le altre cose, si chiede se il dott. Millo sia stato autorizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura, così come previsto dall’ordinamento italiano, prima di assumere il ruolo di componente del Collegio Garante della Repubblica di San Marino;
sempre dalla documentazione allegata al citato articolo, emergerebbe l’uso, da parte del dott. Maurizio Millo, del fax in uso al Tribunale dei minori di Bologna al fine di inviare sentenze e provvedimenti al Supremo organo giurisdizionale della Repubblica di San Marino: in pratica il Presidente dei Tribunale dei minori di Bologna avrebbe utilizzato strumenti e risorse pubbliche per soddisfare esigenze proprie del suo ruolo di Giudice a San Marino;
considerato inoltre che:
l’associazione ADIANTUM ha segnalato alla prima firmataria del presente atto la situazione di forte conflittualità esplosa tra i magistrati Guido Stanzani e Francesco Morcavallo, fino a qualche tempo fa assegnati presso il Tribunale dei minori di Bologna, e il Presidente del medesimo Tribunale, dott. Maurizio Millo;
sulla vicenda, lo scorso 9 agosto, è apparso un articolo pubblicato su Il Resto del Carlino, a firma di Gilberto Dondi, intitolato: “La guerra tra toghe che ha spaccato il Tribunale dei minori”, sottotitolo: “L’accusa di due giudici (ormai trasferiti): “Troppo potere ai servizi sociali e fascicoli pendenti da anni”. E un avvocato denuncia”;
dal citato articolo si apprende che secondo i magistrati Guido Stanzani e Francesco Morcavallo all’interno del Tribunale dei minori di Bologna vigerebbe una prassi in base alla quale i giudici, nei casi di famiglie problematiche, prendono provvedimenti provvisori (non appellabili, sempre prorogati e che durano anni) con cui limitano la potestà dei genitori, dando poi una delega in bianco ai servizi sociali per controllare la situazione venutasi a creare, il tutto senza sentire entro pochi giorni i genitori dei piccoli, come invece imporrebbe il principio del contraddittorio (la prima udienza viene fissata sempre a distanza di 6-8 mesi);
i magistrati Morcavallo e Stanzani avrebbero tentato di invertire questa prassi portata avanti dai loro colleghi riesaminando i casi pendenti, sentendo le parti ed emanando decreti motivati. Secondo il Presidente del Tribunale dei minori, invece, le cose non starebbero nei termini riportati dai due magistrati in quanto “i genitori dei bambini vengono sempre sentiti; del resto la natura stessa del procedimento minorile impone tempi lunghi per valutare se le soluzioni decise dal giudice producano sulle famiglie gli effetti sperati”;
la vicenda è finita davanti al Consiglio Superiore della Magistratura il quale ha deciso di trasferire a Modena, su sua richiesta, il magistrato Stanzani. Nell’articolo pubblicato su Il Resto del Carlino, citato sopra, si può leggere la seguente dichiarazione rilasciata dal giudice poi trasferito: “Sono tornato a fare il mio mestiere di giudice del lavoro. Mi sembra di essermi liberato da un incubo. Ho cercato di introdurre varianti nel Tribunale dei minori di Bologna che però sono state completamente rifiutate”;
sul dott. Francesco Morcavallo, invece, il Consiglio Superiore della Magistratura ha aperto un procedimento disciplinare e chiesto (evento piuttosto raro) il trasferimento cautelare;
entrambi i magistrati hanno presentato un esposto alla Procura Generale della Cassazione sulla situazione in cui versa il Tribunale dei minori di Bologna;
infine, sempre leggendo lo stesso articolo, si apprende quanto segue: “Le due visioni diametralmente opposte avevano creato un clima di tensione in Tribunale, con camere di consiglio infuocate. Un caso simbolo: relativo a una bambina che oggi ha 11 anni. L’avvocato dei genitori della piccina, Rita Rossi, ha denunciato il presidente del collegio (uno dei sei giudici dell’ufficio) per falso materiale e ideologico e abuso d’ufficio. Questo perché il giudice avrebbe, secondo le accuse, violato la procedura esautorando in modo irregolare il collega relatore, cioè Morcavallo, facendo sparire dal fascicolo la "minuta" firmata dallo stesso Morcavallo e scrivendo di proprio pugno il decreto. La replica di Millo: «Il presidente del collegio si è avvalso di un potere previsto dalla legge. Quando il relatore stende le motivazioni in modo diverso rispetto alla decisione del collegio, il presidente assume ruolo di estensore della sentenza. La ‘minuta’ di Morcavallo non aveva più alcuna rilevanza»;
più in particolare, in merito alla vicenda della minore undicenne riportata nell’articolo sopra citato, risulta alla prima firmataria del presente atto che:
a) la stessa sia stata allontanata dai genitori ben cinque anni fa, esattamente nel giugno 2006, senza una motivazione tale da giustificare detta privazione della famiglia d’origine, al punto che in tutti questi anni la bambina ha potuto incontrare i genitori per una sola ora al mese;
b) soltanto nel maggio 2009, il tribunale per i minorenni emiliano stabilì che si facesse luogo ad un riavvicinamento tra la undicenne e i suoi genitori con incremento graduale degli incontri, ma in questi ultimi due anni i servizi sociali hanno soltanto aumentato ad un’ora e mezzo al mese il tempo degli incontri medesimi;
c) da ultimo, e questo è l’epilogo gravissimo della vicenda, il dr. Morcavallo aveva svolto un’istruttoria accurata ascoltando gli operatori sociali e alla fine di giugno u.s., il collegio aveva assunto un provvedimento. Il predetto provvedimento, però, risulta sottoscritto dal solo presidente del collegio (dr.ssa Francesca Salvatore) e non anche dal giudice relatore, dr. Morcavallo, mentre in aperto contrasto con la regola fissata dall’art. 119 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile la firmataria non risultava avere assunto le funzioni di estensore;
d) il provvedimento assunto dal collegio, dunque, costituiva una sostanziale arretramento rispetto a quello precedente (del 2009) che aveva stabilito un ampliamento degli incontri tra la bambina e i genitori, affidando una delega in bianco ai servizi sociali nella gestione dei rapporti tra la minore e i genitori, e limitandosi a raccomandare la massima gradualità nel riavvicinamento. Di tutto questo il difensore dei genitori della undicenne ha chiesto chiarimenti sia al Presidente del Tribunale, dr. Millo, sia al giudice che aveva sottoscritto da solo detta decisione, dr.ssa Francesca Salvatore, sia al giudice relatore dr. Morcavallo. Quest’ultimo soltanto rispondeva per iscritto affermando che “alla data del deposito di detto decreto (ovverossia di quello ufficialmente depositato in Cancelleria) non risultava presente in atti il provvedimento redatto e sottoscritto dal giudice relatore”. Tale dichiarazione costituiva conferma della irregolarità verificatasi;
in relazione al caso sopraesposto relativo al provvedimento adottato dal Collegio in merito alla vicenda della bambina undicenne allontanata dai genitori, sono state presentate denuncia penale per falso ideologico, falso materiale e abuso d’ufficio nei confronti della dr.ssa Francesca Salvatore, ed altresì un esposto al CSM e ad altri organi;
gli avvocati del Foro di Bologna lamentano, più in generale, una serie di irregolarità nella gestione dei fascicoli pendenti presso il Tribunale minorile di Bologna, e tra queste, il fatto che i procedimenti vengono regolati con decreti provvisori come tali non impugnabili, che non vengono poi superati da una decisione definitiva, se non a distanza di molti mesi e anche di anni;
a giudizio della prima firmataria del presente atto i fatti sopra rappresentati appaiono di eccezionale gravità e tali da pregiudicare il corretto esercizio della funzione giurisdizionale all’interno del Tribunale dei minori di Bologna;
la metodologia utilizzata presso la struttura giudiziaria in questione appare alla prima firmataria del presente atto un affronto al buon senso in quanto si discosta radicalmente dai migliori orientamenti e sensibilità che in tema di diritti dei bambini intendono promuovere una cosiddetta “giustizia mite”;
considerato, infine, che il Tribunale dei minori di Bologna soffre da tempo di una carenza di risorse finanziarie e di organico, la quale rischia di compromettere il funzionamento amministrativo del tribunale nonché la rapida conclusione dei procedimenti pendenti; risulta anzi, che a seguito dell’allontanamento dei giudici Stanzani e Morcavallo, numerosi fascicoli rimarranno privi di un magistrato in funzione di giudice delegato, con funzioni cioè di impulso e di direzione dei relativi procedimenti, e la gestione di detti procedimenti verrà affidata, del tutto irregolarmente, a dei giudici onorari, non magistrati:
se corrisponda al vero che il dott. Maurizio Millo sia anche membro del Collegio Garante della Repubblica di San Marino e se lo stesso abbia mai usato il fax del Tribunale dei minori di Bologna al fine di inviare sentenze e provvedimenti al Supremo organo giurisdizionale della Repubblica di San Marino così utilizzando strumenti e risorse pubbliche per soddisfare esigenze proprie del suo ruolo di Giudice a San Marino e, in tal caso, se non ritenga di promuovere, con sollecitudine, l’azione disciplinare nei confronti del medesimo magistrato ai sensi dell’articolo 107 della Costituzione;
se, con riferimento ai fatti riportati in premessa e descritti sommariamente nell’articolo pubblicato su Il resto del Carlino sopra citato, il Ministro in indirizzo non ritenga di dover intraprendere una iniziativa ispettiva presso il Tribunale dei minori di Bologna e, se del caso, una volta effettuati gli accertamenti più opportuni, promuovere l’azione disciplinare nei confronti del suo Presidente, dott. Maurizio Millo o di altri magistrati nei confronti dei quali dovessero emergere profili di responsabilità disciplinare;
se non si ritenga di dover intervenire urgentemente al fine di garantire al Tribunale dei minori di Bologna le risorse necessarie per assicurare non soltanto il funzionamento amministrativo della struttura, ma anche la definizione rapida dei processi, in quanto, se è vero che una giustizia veloce dovrebbe essere garantita a tutti i cittadini, questa appare ancora più necessaria nei processi che interessano minori, dato che l’incertezza derivante da una situazione giudiziaria indefinita rischia di turbare permanentemente il fanciullo nella crescita.
Di tutto questo, però, non se ne deve parlare. La Federazione nazionale della stampa (Fnsi) e l'Associazione stampa dell'Emilia-Romagna (Aser) ritengono una limitazione per il giornalista, che ha il diritto-dovere di informare i cittadini sancito dall'articolo 21 della Costituzione, il recente provvedimento assunto dal Procuratore della Repubblica di Bologna, Roberto Alfonso, con il quale viene determinato l'accesso dei colleghi della cronaca giudiziaria all'edificio di via Garibaldi, 6. L'aver adibito un ufficio a sala stampa alla quale i giornalisti possono accedere in un preciso arco di tempo della mattinata è da considerarsi un gesto di cortesia da parte della Procura. Purtroppo, però, il divieto di accedere al piano superiore dove sono gli uffici di numerosi magistrati condiziona pesantemente il lavoro del giornalista di giudiziaria, che ha necessità quotidiana di interfacciarsi con quelle che ritiene essere proprie fonti. L'informazione, anche quando riguarda tematiche molto delicate come quelle in oggetto, non può essere unidirezionale e deve garantire al professionista la possibilità di interloquire con quanti crede possano essere utili al proprio lavoro. E' poi dovere deontologico del giornalista non intralciare o divulgare indagini coperte da segreto e non violare la privacy dei cittadini. Qualora venga meno a ciò, ne risponde in prima persona. Riteniamo, pertanto, che non vi sia bisogno di divieti formali, ma solo del rispetto di regole dettate dal buon senso e dalla professione stessa. Auspichiamo, dunque, che si possa raggiungere una diversa intesa con i vertici della Procura, nella salvaguardia del lavoro reciproco e della riservatezza delle indagini e delle persone in esse a vario titolo coinvolte. Sarebbe sufficiente concedere il libero accesso all'edificio di via Garibaldi in un arco di tempo molto breve della mattinata, fatto salvo divieti anche estemporanei dovuti a particolari istruttorie. Il Sindacato dei giornalisti resta, comunque, disponibile ad ulteriori confronti con i dirigenti della Procura e ad ogni possibile chiarimento.
BOLOGNA MAFIOSA.
A Bologna la mafia c’è scrive Nicola Lillo su “Malitalia”.
A Bologna e in Emilia Romagna se ne parla poco. Eppure c’è stata, e tuttora esiste una presenza mafiosa non di poco conto. I giornali locali raccontano poco e male. I nazionali non se ne interessano. Eppure il fenomeno è in forte crescita. La consapevolezza della gente, invece, è ai minimi livelli. Disinformata, a volte disinteressata. Spesso commette l’errore di sottovalutare un sistema ben oliato. Quello che evoca il termine mafia, nelle regioni del nord, è il classico uomo con “coppola e lupara”. Ma da diversi anni, non è più così. La mafia imprenditrice, infatti, è entrata in tutti i livelli economici e istituzionali. Mimetizzata e in stretti legami con le stesse istituzioni. Rievochiamo, grazie anche all’ottimo e-book “Tra la via Emilia e il Clan” di Amorosi e Abbondanza, due eventi grigi e, purtroppo, poco noti nella storia del capoluogo emiliano, che interessano la piazza principale bolognese e il suo aeroporto.
È il 1992. La Icla di Napoli, società al fianco del colosso CCC (Consorzio Cooperative Costruzioni), conquista l’appalto di Piazza Maggiore. Già due anni prima si occupò della ristrutturazione della Pinacoteca delle Belle Arti, sempre a Bologna. Ma di che società si tratta? La nota integrativa della relazione su TAV e Campania, della Commissione Parlamentare Antimafia, del 1996, ci fa aprire gli occhi. La Icla viene, infatti, ricondotta a un democristiano della Prima Repubblica. Paolo Cirino Pomicino, condannato per finanziamento illecito ad un anno e otto mesi. Ha poi patteggiato due mesi per corruzione relativi ai fondi Eni, mentre risulta prescritto per i procedimenti sulla gestione dei fondi per il post terremoto in Irpinia, fondi che ammontavano a sessantamila miliardi di lire. La Icla nei primi anni del 1980 si trova in grossa crisi economica. “Sono le imprese della Camorra – si legge nella relazione – che di fatto finanziano le società in stato di decozione operanti solo con compiti di copertura. Di qui il duplice effetto gravissimo. Il primo è il riciclaggio effettuato dalla criminalità organizzata attraverso gli investimenti nei lavori dell’Alta Velocità. Il secondo è l’esclusione dal mercato delle imprese sane fatte oggetto di azioni intimidatorie”. “Nell’Icla – prosegue – risultano presenti elementi e società della criminalità organizzata di matrice sia camorrista che mafiosa con la mediazione di personaggi del mondo politico-imprenditoriale coinvolti in gravi episodi di corruzione politica”. E la società si occupa di pubblici appalti e di opere di massima importanza, proprio come la Tav. Sulla tratta Roma-Napoli, infatti, sono impegnate cooperative rosse, come la CCC. Quest’ultima faceva parte del Consorzio rappresentato dal’IRICAV-UNO. Lo Sco, Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato, afferma nella relazione che talune società partecipi del Consorzio avevano “contatti con la criminalità organizzata”. Le garanzie, per l’entrata dell’Icla nella partecipazione del Consorzio, provengono dall’IRI e sono indicate da un altro democristiano: Romano Prodi. Nel 1991 Icla incorpora la società Fondedile. Società che, secondo le indagini della Squadra Mobile di Caltanissetta e del Ros dei carabinieri di Palermo, ha stretti contatti con Cosa Nostra. Legami che vengono sottolineati in un’informativa inviata anche a Giovanni Falcone, allora Procuratore aggiunto a Palermo. I nomi dei boss fanno tremare i polsi. Su tutti Angelo Siino, indicato come “proconsole di Riina”. Il CCC partecipa al Consorzio Iricav-Uno con il tre per cento. Coinvolto anche in indagini della DDA di Napoli, a causa di “collusioni ad alto livello ed in raffinati meccanismi di sviluppo degli appalti”. Negli atti della Commissione si legge, inoltre, che “si tratta di forme deprecabili di consociativismo nella spartizione di appalti di opere pubbliche che hanno coinvolto in passato rappresentanti del governo e dell’opposizione e che hanno indubbiamente favorito l’ingresso del crimine organizzato anche in grandi opere pubbliche, quali l’esecuzione dell’Alta velocità e della terza corsia dell’Autostrada del Sole”. La relazione continua indicando le connessione della società Icla con gli Zagaria, del clan dei Casalesi. Si parla di 18 anni fa. Anni caldi e decisivi per la nostra Repubblica, a causa delle bombe mafiose in Sicilia, e dell’inchiesta Tangentopoli, che ci ha traghettato dalla Prima alla Seconda Repubblica. Ma anche nel nuovo millennio le cose non sembrano essere cambiate. La storia riguarda il Marconi, l’Aeroporto di Bologna. Ed il protagonista è Giuseppe Gagliandro, noto come Andrea Danieli. Gagliandro, proprietario e amministratore della società Doro Group, che dal 2004 al 2007 ha gestito, senza alcuna autorizzazione, i servizi di terra dell’aeroporto, era un uomo di ‘ndrangheta. Condannato per tre omicidi, occultamento di cadavere, spaccio di droga e associazione mafiosa. L’uomo giusto al posto giusto. Una nuova vita che inizia del 2003 con la fondazione del suo nuovo gruppo. Nel 2004 la Marconi Handling, controllata dalla SAB, la Società Aeroporti di Bologna, conferisce al gruppo di Gagliandro l’appalto per i servizi a terra. La concorrenza viene battuta grazie ai contributi non versati e a stipendi non erogati per mesi. Nonostante la mancata autorizzazione per potere lavorare nello scalo. Sante Cordeschi, ad di Marconi Handling, incaricato da Sab, dalla Camera di Commercio, dal comune di Bologna e dalla Provincia di amministrare il settore dei servizi terra, entra in ottimi rapporti con Gagliandro. Quest’ultimo regala all’amministratore delegato una Ford, quattro telefonini, mobili antichi, una Ferrari, 15 mila euro e un mensile di 5 mila euro. Ma il vero “referente istituzionale” è Alfredo Roma. Ex presidente dell’Enac e dal 2006 nominato da Prodi per un progetto sul satellitare alternativo ai Gps americani. Un uomo trasversale, scelto da Berlusconi e poi confermato dal professore bolognese. Anche Roma ha ricevuto diversi regalini: una Bmw, una Ford, due palmari, due portatili e due mobili antichi. Il tutto per ottenere le carte di identità aeroportuale (Cia) per lavorare negli scali. Nell’interrogatorio di Gagliandro le accuse sono pesanti: “Sante Cordeschi era pienamente consapevole che Doro Group e le cooperative consorziate non versavano i contributi previdenziali ed assistenziali in quanto ben sapeva che le tariffe da lui stabilite con Visigalli (uomo di Doro Group) erano sufficienti”. Per il rilascio della Carta d’identità aeroportuale, per il tramite di Roma, si rivolgeranno alla fine all’avvocatessa Anna Masutti (“scavando a fondo ci saranno schizzi di merda per tutti”). Nel 2008 Gagliandro patteggerà 4 anni e mezzo e tornerà in carcere, dove già aveva passato 8 anni e mezzo per i reati di mafia. Chiesti altri 25 rinvi a giudizio, tra cui a Cordeschi, Visigalli, Roma, Masutti.
Mafie a Bologna: chi non le vede, chi le combatte.
In una delle regioni più civili d’Italia la mafia ormai ha ben più che delle semplici teste di ponte. Le istituzioni reagiscono? Ancora troppo poco. Ma soprattutto reagiscono poco i cittadini, cullati nell’illusione di “altrove ma non qui”, scrive Giancarla Codrignani su “I Siciliani”. Mentre a Parma nel carcere di massima sicurezza Provenzano inscenava un tentativo di suicidio, il TAR della stessa città respingeva il ricorso di due ditte edili che erano state escluse da appalti pubblici perché sospettate di infiltrazioni mafiose. La Prefettura della città aveva emesso la contestata interdittiva, confermata ora dai giudici: rapporti familiari e rapporti societari con persone malavitose con precedenti per associazione a delinquere, estorsione, usura, riciclaggio. Notizie attuali, assolutamente non eccezionali: anche in una regione considerata avanzata e civile (e pure di sinistra) roba ormai di ordinaria amministrazione. Sembra non entrarci molto, ma credo che ci siamo persi l’occasione di rifare l’educazione collettiva rivedendo politicamente i 150 anni dell’Unità d’Italia. Se pensiamo che 150 anni fa per andare da Bologna a Modena ci voleva il passaporto (i bolognesi erano soggetti alle leggi del Legato pontificio diverse da quelle dei modenesi sudditi del Duca) e un mercante alla frontiera dava certamente un aiutino al gabelliere del dazio perché chiudesse un occhio, ci rendiamo conto che quelli che realmente interpretano i diritti di cittadinanza sono gli eredi delle minoranze illuministe, patriote, socialiste e, poi, antifasciste e resistenti. Ancora minoranza. Senso dello Stato generalizzato? troppo poco. Ovunque. Siamo, infatti, molto meno lontani fra di noi di quanto non sia lunga la catena degli Appennini. Se il Nord fosse “migliore” o anche solo del tutto diverso, avrebbe opposto alla penetrazione mafiosa quella resistenza morale che si manifesta storicamente solo nei tempi, poi chiamati “eroici”, in cui va a rischio, oltre alla convivenza, la sopravvivenza. Tuttavia dovrebbe essere sempre possibile “prevenire” i guai, quando si sentono arrivare. I Siciliani giovani sanno già molto della nostra realtà e hanno ricevuto parecchia informazione da Bologna, dove non solo le istituzioni democratiche “reggono” e anche all’Università il problema viene studiato e a Giurisprudenza funziona un laboratorio, animato dalla prof. Stefania Pellegrini, che mette a fuoco le infiltrazioni nel settore edile, negli esercizi pubblici (pizzerie, bar, baretti e barettini), nei giochi e, soprattutto, il fenomeno del decentramento nella nostra regione dei sorvegliati speciali. La stessa Procura regionale registra i delitti di specie, come l’usura, le estorsioni, la ripulitura di capitali illeciti, l’acquisizione di quote societarie nelle imprese. Tuttavia è vero che siamo diventati un paese ben strano: mi è stato detto che a Scampia c’è chi si sentirebbe rassicurato dalla ripresa degli ammazzamenti (“se ricomincia la faida e si fanno guerra fra di loro, almeno noi possiamo stare tranquilli”); a Bologna, dove un 5% dei commercianti paga il pizzo, la gente continua a far conto di niente e il Presidente di Confindustria ha candidamente dichiarato di non aver mai sentito parlare di mafie. Eppure la Regione ha disposto interventi importanti (forse meno tempestivi del dovuto: il giornalista Bombonato dice che “la politica ha dormicchiato”) e il Prefetto non ha nascosto le sue preoccupazioni. A Modena Giovanni Tizian – un giovane giornalista precario che tutti dovrebbero conoscere – dal 22 dicembre è stato posto sotto scorta, ultimo segnale di brutte storie, purtroppo non recenti. E’ un precario che rischiava la vita per 4 euro al pezzo. Qualcuno potrebbe chiedersi perché: perché ha il senso corretto della professione giornalistica: non intervistava vittime, ma “informava”. Deve essere perché pochi sono come lui se Réporters Sans Frontières declassa i media italiani, mentre i cittadini non si rendono conto di essere diventati meno liberi. A Modena, infatti, succedevano cose strane, come incendi dolosi (contro ignoti?), seminagione di bossoli nei cantieri, un Zagaria latitante intercettato sul treno Modena-Napoli e non catturato (ed era uno venuto a controllare i suoi affari). A Parma Saviano ha denunciato l’ “aria rarefatta”, irrespirabile perché sa di mafia. A Castelfranco, dice una magistrata, “nel viale principale si parla casalese”. Più o meno la stessa aria attorno a sant’Agata, a Granarolo, a Novellara, a Nonantola, sulla costiera romagnola (diciamo un simbolo per tutti, “viale Ceccarini” di Riccione). Senza contare San Marino, ormai paradiso fiscale e centrale del riciclaggio. Accade così che per la ricostruzione dell’Aquila le mafie siano partite da Reggio Emilia, non da Reggio Calabria. Di fatto le organizzazioni interessate a infiltrare un territorio ricco di quel benessere che rende insensibili e vulnerabili sono state attente a non creare traumi con omicidi e violenze dirette: i reati perseguibili senza particolare rilevanza sono droga, sfruttamento della prostituzione, asservimento. Anche per gli appalti la partecipazione malavitosa si indirizza alla miriade dei subappalti e al bisogno dell’imprenditoria di contare su servizi a basso costo, come possono essere i trasporti (e i relativi padroncini complici dei mercanti di droga), le forniture di calcestruzzo, i rifiuti. Giova lavorare nel sommerso e nel nero, inserire propri fiduciari per acquisire il controllo delle assicurazioni e negli enti pubblici, impegnarsi nell’usura. I mafiosi hanno bisogno del silenzio per poter lavorare nell’indifferenza; per questo rappresentava una minaccia gravissima per la magistratura la volontà del passato governo di limitare le intercettazioni o il rifiuto del ministro Maroni della Direzione distrettuale investigativa antimafia. Le finestre di vulnerabilità sono state aperte tutte, a partire dalla scelta del Nord per il soggiorno obbligato dei malavitosi, che ha consentito il radicamento delle famiglie. Ormai il collegamento Sud-Nord è diventato tramite, attraverso l’Emilia-Romagna e la Lombardia collegate, con l’Europa. La crisi, in questo contesto, diventa cruciale e rafforza i pericoli. Mentre cresce lo spread e l’euro ondeggia, le banche fanno poco credito, le aziende e gli esercizi commerciali hanno bisogno di liquidità, la speculazione immobiliare e perfino i mutui sono alla resa dei conti, cresce la disoccupazione. Si tratta di condizioni che per il potere occulto che fattura 70 miliardi diventano opportunità di acquisire maggior potere. Solo per alto senso del dovere ci diciamo ottimisti. Tuttavia le normative degli Enti locali, i sequestri di proprietà e di beni delle mafie sono diventati occasione di condivisione collettiva e di solidarietà comune. Sarebbe una buona cosa se anche i Siciliani allargassero il loro indirizzario ed entrassero nel nostro territorio con una controinfiltrazione ausiliaria…
BOLOGNA MASSONE.
Via Castiglione: la Massoneria si fa strada, scrive Giovanni Gaudenzi su “La Stefani”. Cento passi, non di più. Fra quella che per anni è stata la sede del Centro studi storici e sociali e quello che ancora oggi è il Centro sociologico italiano. Via Castiglione, pieno centro città. Quindici numeri civici di distanza. Da palazzo Pepoli vecchio, una porticina al civico 6, fino alle porte di un normale condominio, al numero 20. Le due obbedienze massoniche più numerose in Italia, il Grande Oriente d’Italia e la Gran Loggia d’Italia degli Alam (Antichi liberi accettati muratori), sono qui, a Bologna. Oggi, quelli del Goi, sono usciti definitivamente dall’ombra e hanno messo una targhetta, sulla porta della sede, nel signorile palazzo Pepoli. Non permettono di visitare i luoghi di riunione a chi non sia iniziato ma sono facilmente rintracciabili, anche via web. «Il gran maestro Raffi ha avviato una politica di trasparenza, a livello nazionale, e noi ci adeguiamo. Ma preferisco restare anonimo.» Un migliaio, sotto le Due Torri, ventiduemila in tutto il Paese. Non certo numeri da capogiro. «Noi puntiamo alla qualità, non alla quantità. Per entrare in massoneria si viene sottoposti ad un colloquio e ad un percorso iniziatico ben preciso. Chiunque può richiedere di farne parte, ma la selezione è demandata alla gerarchia interna.» Loro negano che sia necessario, ma avere contatti all’interno, prima di presentarsi, rende certamente la strada più agevole. «La mia storia personale, effettivamente, è legata ad una specie di tradizione di famiglia. Siamo massoni da generazioni. Ma anche molti giovani, in questi tempi difficili, si avvicinano a noi perché la massoneria può dare le risposte che i ragazzi non trovano altrove.» L’attività delle logge, presiedute ciascuna da un Maestro Venerabile, può avere i più svariati argomenti. Il calendario dei lavori e dei riti è prestabilito per ciascuna loggia, con cadenze precise. Numerologia, Cabala, tutto quel che possa interessare. Solo di religione e politica, in loggia, non si può parlare. «La massoneria nasce come corporazione dei costruttori di cattedrali. Nel ‘700 ci fu il passaggio dalla massoneria operativa a quella speculativa. Migliorare spiritualmente l’uomo, con lo scopo di costruire una simbolica cattedrale dello spirito. È questo lo scopo dei fratelli muratori.» Scomunicati dalla Chiesa nel 1738, per le loro attività esoteriche, i massoni non sono atei. «Requisito fondamentale per entrare in massoneria è la credenza in un essere supremo, il Grande Architetto dell’Universo.» Una parte del cattolicesimo integralista identifica questo essere supremo con Satana, ma questa lettura appare forzata. Gli scritti ottocenteschi del massone Albert Pike su Lucifero «incarnazione della ragione, dell’intelligenza e del pensiero critico», di certo, non aiutano una riconciliazione che sembra di là da venire. Vengono accettati uomini di tutte le opinioni politiche, e il ruolo della massoneria nella storia d’Italia lo dimostra. Erano massoni Garibaldi, gran maestro del Goi nel 1864, e Nino Bixio, Bissolati, Pascoli, Carducci, Dino Grandi, Pietro Badoglio. «Il periodo più nero resta il fascismo. Palazzi attaccati, logge chiuse, gran parte dei massoni in esilio o al confino». Giovanni Becciolini e Giovanni Amendola sono solo alcuni dei massoni martiri dell’antifascismo. Pacciardi, comandante della Brigata Garibaldi nella guerra di Spagna, apparteneva al Grande Oriente. «Ci sono anche degli ebrei, per una questione di comunanza storica, simbolica, ideologica. L’attuale Gran Segretario del Grande Oriente, ad esempio, è Giuseppe Abramo». Ma le donne non possono entrare. Perché? «Ha mai visto una donna costruire una cattedrale?» rispondono. E se gli si chiede della P2, organizzazione derivata dal Goi che contava tra le sue file molti parlamentari, militari e uomini dei servizi, la questione viene sbrigativamente chiusa: «Errori del passato, abbiamo emendato e recuperato la credibilità». Pochi metri più in là, via Castiglione numero 20, c’è la Gran Loggia d’Italia degli Alam. Al piano terra, con davanti all’uscio un ampio giardino. E lo zerbino con squadra e compasso. 7500 aderenti, in tutta Italia. Nessuna voglia, all’apparenza, di farsi riconoscere. Ed ancor meno di parlare. La sede si cela sotto il nome Centro sociologico italiano. «Non posso dirle molto, non sono autorizzato. La nostra situazione a Bologna è molto difficile. Avremmo a disposizione delle strutture e vorremmo utilizzarle, anche a scopi benefici. A Torino, ad esempio, in alcuni palazzi allestiamo ricoveri per ammalati che non siano ospitati nelle strutture ospedaliere. Qui non ce lo lasciano fare. Abbiamo anche proposto l’idea di acquistare un’autoambulanza, a patto di poterci mettere il nostro simbolo. Ma ci hanno detto no.» Più che solidarietà, sembra proselitismo. Ma loro, almeno, ammettono le donne.
Intreccio tra Logge e Potere. La Massoneria in Emilia.
Intanto i grembiulini si trovano a Rimini da venerdì a domenica, in un clima teso, tra i seguaci di Raffi e quelli che invece non lo vorrebbero più a capo del Goi, scrive Antonella Beccaria su “Il Fatto Quotidiano”. L’Unità d’Italia sarà celebrata in terra di Romagna anche dalla massoneria italiana. Il Grande Oriente d’Italia, ancora spaccato tra i fedelissimi di Gustavo Raffi, il gran maestro, e quelli che invece lo vorrebbero fuori dai giochi. L’appuntamento è, da venerdì a domenica, a Rimini, al Palacongressi, e attende l’arrivo di oltre 20 mila affiliati per raccontare come, secondo loro, andarono i fatti che condussero il Paese ad aggregarsi sotto il Tricolore. Un evento, questo, che però richiama un altro anniversario, caduto sempre il 17 marzo, ma 120 anni più tardi. E che alla vigilia del meeting in riva all’Adriatico consente di ricostruire, almeno per sommi capi, la presenza di cappucci e compassi in Emilia Romagna. In principio fu la P2 – Quando il 17 marzo 1981 la guardia di finanza, su disposizione dei magistrati milanesi Giuliano Turone e Gherardo Colombo, si presentò a Castiglion Fibocchi (Arezzo) suonando alla sede della Giole di Licio Gelli e trovò gli archivi della loggia Propaganda 2, anche Bologna scoprì di avere i suoi affiliati. Erano Danilo Bellei (fascicolo 484), il colonnello Antonio Calabrese (485), Renzo De Grandis (deceduto nel 1981, 433), il tenente Vittorio Godano (226), il generale Vittorio Lipari (capo del gruppo 13, 449), Marco Paola (transitato poi in un’altra loggia, 462), il generale Osvaldo Rastelli (105), Mario Santoro (77) e Aldo Schiassi (924). Il nome più rilevante era quello del colonnello Calabrese. Aiutante del generale dei carabinieri Giovambattista Palumbo in forza alla divisione Pastrengo di Milano, partecipò ad attività piduistiche fin dal 1973 e il 2 agosto 1980, quando esplose la bomba alla stazione uccidendo 85 persone e ferendone oltre 200, comandava la legione carabinieri di Bologna. Danilo Bellei, di simpatie socialiste, invece era direttore generale della Banca del Monte di Bologna e finì impelagato in un’inchiesta sui crediti facili concessi ad aziende che recuperavano petrolio in mare (tra queste, ce n’era una che interessava a Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina). Se la cavò però per una legge che depenalizzava presunti illeciti da parte dei funzionari di banca, legge varata dopo una discussa sentenza della corte di Cassazione che escludeva la categoria dal pubblico servizio. Di Aldo Schiassi parlò nel 1981 Enzo Giunchiglia, pezzo importante della P2 e affiliato alla loggia Emulation di Tirrenia. Giunchiglia disse di aver ricevuto da Licio Gelli alla fine del settembre 1980 alcune lettere di affiliazione, tra cui quella di Schiassi, ma alla fine non se ne fece più nulla perché l’aspirante piduista rinunciò. E poi ci sono coloro che – hanno appurato le indagini – furono vicini alla P2 e fecero da sponda, almeno involontaria, ad alcune attività per lo più condotte a mezzo stampa. Tra questi Antonio Buono, ex presidente del tribunale di Forlì, che smise la toga per la sua amicizia con il venerabile, ma che non mancò di scrivere una serie di articoli contro i magistrati bolognesi che indagavano sulla strage alla stazione e che si stavano concentrando sulla matrice nera, per quanto riguarda gli esecutori. Su questo Buono si mise a duettare con Francesco Salomone, giornalista del quotidiano Il Tempo nel periodo della direzione di Gianni Letta e frequentatore di feste di Capodanno, come accaduto nel 1978, a cui partecipavano personaggi del calibro di Aldo Semarari, il criminologo piduista vicino a Ordine Nuovo e alla banda della Magliana che sarà coinvolto – e poi prosciolto – nelle indagini per la strage del 2 agosto 1980 e infine assassinato il 1 aprile 1982. Poi arrivò il terremoto della Zamboni-De Rolandis - L’ondata lunga della P2 si riverberò sul capoluogo emiliano ancora nel 1984 (proseguendo fino all’inizio del decennio successivo) quando la relazione di Tina Anselmi, presidente della commissione che indagò su Gelli e affiliati, scrisse: «La “Zamboni-De Rolandis” di Bologna e la “Emulation” di Tirrenia sono due esempi di logge realmente funzionanti o rimaste allo stadio di iniziativa “ereticale” […] caratterizzate da particolare regime di riservatezza». Se già tre anni prima la città aveva visto ammaccarsi il mito della città rossa che dal dopoguerra non serbava più al suo interno logge, di cui restavano solo tracce storiche, fu un’esplosione di polemiche. Intanto perché della Zamboni-De Rolandis, fondata nel 1964 in ambienti universitari e afferente al Grande Oriente d’Italia, non si era saputo nulla per vent’anni. E poi anche per il calibro di alcuni suoi iscritti. Tra questi, Mario Zanetti, ai tempi ai vertici della Usl 28, che venne attaccato frontalmente dal comitato di gestione del Pci all’interno dell’azienda sanitaria. Ma anche per il “fronte difensivo”, che comprendeva in primis i socialisti del capogruppo Psi in consiglio comunale Enrico Boselli, ma anche molte altre forze laiche. E il futuro del professor Zanetti non sarebbe stato di ostracismo, dato che nel 1996, divenuto frattanto presidente dell’Agenzia sanitaria regionale, si attribuirà la paternità del capitolo sanitario del programma di Romano Prodi, in vista della campagna per le politiche. Tra gli altri nomi celebri, c’è poi quello di Fabio Robersi Monaco, ex rettore dell’università di Bologna e presidente della Fondazione Cassa di Risparmio, con un curriculum che comprende numerosissimi incarichi, come la presidenza della Fiera, il cda della Treccani e di Allenza Assicurazioni, oltre all’attività forense. Dopo la relazione Anselmi, si saprà, documenti alla mano, che aveva raggiunto il trentunesimo grado del rito scozzese, ma nel 1985, nominato ai vertici dell’ateneo emiliano dove rimarrà per i quindici anni successivi, dichiarerà di essere uscito dalla massoneria e di aver restituito anche la tessera del Partito repubblicano, per quanto nel 1999 si fece tentare dalle elezioni europee e si schierò a fianco del segretario Giorgio La Malfa. La lista dei nomi diffusa dalla commissione P2 comprendeva poi Giuliano Di Bernardo, che andrà all’università di Trento e che nel 1993 sarà protagonista di una scissione dando vita alla Gran loggia regolare italiana. Inoltre vi si incontravano anche giuristi del livello di Franco Bricola, che nel 1988 aveva contribuito al team di esperti chiamati a scrivere la riforma del diritto penale, e Furio Bosello, liberale che dal 1996 al 2001 sarà senatore della Repubblica come indipendente per Alleanza Nazionale. La massoneria oggi – Se alcuni dei nomi già citati sono presenze importanti ancora oggi, ce ne sono altri emersi più recentemente. Come Giovanni Greco, professore ordinario di storia contemporanea all’università, e Gianfranco Morrone, ricercatore in chirurgia toracica ed ex presidente del collegio circoscrizionale dei maestri venerabili dell’Emilia Romagna (l’attuale presidente è un avvocato di Forlì, Giangiacomo Pezzano, e la sede del collegio è tradizionalmente in via Castaglione 6A, accanto all’ingresso principale di Palazzo Pepoli). Sia Greco che Morrone hanno partecipato nel 2008 alla stesura di un libro edito dalla Clueb, “Bologna massonica”, di taglio storico artistico, per festeggiare i cento anni della loggia Ça Ira. E tra le firme che accompagnano la pubblicazione ci sono diversi esponenti del mondo universitario cittadino e delle professioni, soprattutto architetti. Dire esattamente quanti siano i massoni a Bologna è difficile, per quanto si parli di circa 450 affiliati. Vicino alla massoneria viene indicato il medico legale Giuseppe Fortuni, che si occupò di alcune perizie sulla morte del ciclista Marco Pantani, stroncato da un’overdose di cocaina il 14 febbraio 2001 in un residence di Rimini. E lo stesso accade per l’imprenditore Vittorio Casale, uomo di Massimo D’Alema e che, tra le molte opere di cui si è occupato, ha partecipato a progetti di ristrutturazione del patrimonio di Propaganda Fides e di enti religiosi. Appartenenti alla massoneria sono stati sfiorati da indagini giudiziarie più o meno recenti. È accaduto nel 2004 con un’inchiesta su un giro di fatture gonfiate e presunte regalie dall’industria del farmaco. E ancora nello stesso anno c’è stata un’indagine, poi archiviata, su alcuni concorsi universitari che ha visto chiamare in causa l’allora direttore generale del Sant’Orsola, Paolo Cacciari, indicato come vicino al Goi, e il suo successore, Augusto Cavina, benvoluto dagli ambienti di Comunione e Liberazione. Nel 2006, poi, nell’ambito di un’inchiesta sempre condotta in campo sanitario (questa volta si parlava di oculistica) su presunte minacce e su alcuni concorsi, venne effettuata una perquisizione da cui si risalirà alla Gran Loggia Serenissima d’Italia, afferente a piazza del Gesù, e a qualche telefonata per agevolare l’ingresso di giovani medici nella loggia Hiram. Infine diverse polemiche sono divampate a Bologna nel 2008. Dal 3 al 6 dicembre il Goi celebrava in città il sessantesimo anniversario della Costituzione e della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. A far scattare le critiche era stato il patrocinio concesso della Provincia. Da via Zamboni ribatterono di averlo fatto per il valore dei relatori: oltre allo stesso Greco, Antonio Baldassarre, presidente emerito della Corte Costituzionale, Massimo Panebianco, ordinario di diritto internazionale a Salerno, e Paolo Zanca, vicepresidente dell’assemblea legislativa regionale dell’Emilia Romagna. Insomma, se trent’anni fa Bologna si svegliava dal suo sogno di vivere senza massoneria, forse non si è più riaddormentata.
INFORMAZIONE LIBERA?
Monta la polemica dopo la notizia data da Repubblica sui consiglieri regionali che pagano, con i soldi pubblici, interviste che vanno in onda su tv e radio locali dell'Emilia-Romagna. Il sindacato dei giornalisti, aveva sollecitato l'Ordine ad aprire procedimenti contro quei cronisti che avessero preteso pagamenti per ospitare spazi per la politica. Secondo il quotidiano, oltre a esponenti di Pdl, Udc e Sel, sono coinvolti anche i consiglieri 5 Stelle. Il grillino Giovanni Favia, al quotidiano ha ammesso di avere speso soldi del suo gruppo per farsi intervistare da emittenti locali: «L'informazione non è libera, continuerò a pagare per andare in tv», ha detto Favia, aggiungendo che non è una rivelazione, perché quelle spese sono documentate sul sito del Movimento. Beppe Grillo invece aveva sostenuto che chi va in tv scredita l'intero movimento. Un consigliere Pdl, Galeazzo Bignami, ha mostrato una fattura da 1.500 euro per cinque interviste. Francesco Spada, di ÈTv, ha negato, dicendo che avrebbe comunque chiesto alla concessionaria di pubblicità, mentre Dario Pattacini di '7 Gold' ha confermato: «Mi facevo pagare, noi non abbiamo finanziamenti dallo Stato. Chi vuol venire da noi lo sa: sono 200 euro a trasmissione, nessuno si è mai lamentato».
Favia si è poi chiesto il perché Repubblica si sia concentrata su questa cosa «proprio in questi giorni in cui si discute del rinvio a giudizio di Errani». Per il consigliere del Movimento 5 Stelle, «la cosa scandalosa è che si debba pagare per poter raccontare, a chi non ha Internet, le nostre denunce e proposte in consiglio regionale». Acquisti di spazi - ha sottolineato - fatti in piena legalità: «Sono previsti - ha detto - dalla legge 150 del 2000 per la comunicazione istituzionale. Attraverso la stessa legge, le presidenze di giunta e consiglio a targa Pd acquistano all' anno spazio radiotelevisivo 500 mila euro per trasmissioni imbavagliate e organizzate come dicono loro». Favia ha spiegato che il Movimento 5 Stelle cerca di fare tutta la comunicazione tramite il web «ma purtroppo, in una regione con questo digital divide, internet non basta. Noi rispettiamo le leggi e non facciamo contratti durante il periodo di campagna elettorale delle elezioni comunali. Che acquistiamo spazi, l'abbiamo dichiarato sul nostro sito fin dall'inizio».
CONSIGLIERI PAGANO LE INTERVISTE IN TV, ANCHE I 5 STELLE USANO COSÌ I SOLDI PUBBLICI. Silvia Bignami per "La Repubblica - Bologna". Consiglieri regionali che pagano, con soldi pubblici, interviste e ospitate nelle tv e nelle radio locali. Una bufera politica in pieno Ferragosto, che a Bologna coinvolge politici di ogni colore, solo il Pd si chiama fuori, e provoca l'intervento dell'Ordine dei giornalisti pronto ad aprire un'inchiesta. Tra i politici paganti, a sorpresa, c'è pure il grillino Giovanni Favia, che in Regione è stato eletto sull'onda della protesta contro la Casta e che ogni giorno denuncia gli sprechi del palazzo. Favia ha ammesso candidamente di aver firmato un contratto con una emittente locale per garantirsi visibilità, nonostante gli anatemi del suo leader, Beppe Grillo, contro chi va in tv screditando l'intero movimento. Del resto la collega dell'Udc Silvia Noé l'ha spiegato con serenità, "così fan tutti", una piccola quota per avere un ritorno sicuro d'immagine leggendo la rassegna stampa mattutina e commentando come si trattasse di un programma di informazione pura, che pura non è. I soldi vengono presi dalle casse dei gruppi consiliari che ogni anno si riempiono con 3,8 milioni. Il tariffario è vario, si va dai 200 fino ai 500 euro a presenza. C'è chi, come Monica Donini della Federazione della sinistra, si è vista arrivare appena eletta una mail con le proposte di una tv. Finora l'unico ad aver esibito la fattura è il consigliere del Pdl Galeazzo Bignami, 1500 euro per cinque ospitate. I fatti partono dalle ammissioni degli stessi consiglieri, a cominciare dal grillino Favia, ma ne parlano senza problemi anche il leghista Manes Bernardini e Gian Guido Naldi di Sel, insomma pare tutto normale, tutto con "fattura regolare". Ma così non è, si muove l'Associazione della stampa, l'Ordine dei giornalisti annuncia verifiche e il presidente dell'assise regionale, Matteo Richetti del Pd, non usa mezzi termini: "Comportamento immorale sia da parte di chi paga che da parte di chi incassa". A settembre qualche cosa nel regolamento delle spese dei gruppi cambierà, "ma - insiste Richetti - sono i capigruppo che devono usare i fondi con maggiore senso di responsabilità". Favia non ci sta ad essere messo nello stesso gruppo dei partiti che considera la Casta da abbattere. "Parla proprio il Pd che ha un esercito di giornalisti negli uffici stampa della Regione ". La giunta regionale del governatore Vasco Errani dispone di 23 giornalisti, oltre ai 5 del consiglio regionale, e finanzia con 500mila euro all'anno le trasmissioni istituzionali dedicate al lavoro degli assessori e dei consiglieri. Ma a qualcuno non basta, da qui le ospitate extra a pagamento. I consiglieri fanno i nomi dell'emittente "è-tv" della Curia e del circuito "7 Gold". I conduttori presi in contropiede si difendono usando strategie opposte. Nega le interviste a pagamento Francesco Spada di "ètv" "anche se adesso chiederò alla mia concessionaria di pubblicità". Senza peli sulla lingua Dario Pattacini di "7 Gold": "Certo che mi facevo pagare, noi non abbiamo finanziamenti dallo Stato, chi vuole venire da noi lo sa, sono 200 euro a trasmissione, nessuno si è mai lamentato". OdG nazionale: "Che vergogna". "Mi vergogno per quel che leggo. In Emilia Romagna ci sono consiglieri regionali che pagano per essere intervistati dalle tv. E giornalisti che ammettono di prendere il danaro. È informazione, questa? Non credo", commenta il presidente dell'Ordine nazionale dei giornalisti Enzo Iacopino. “Duecento euro un passaggio in tv aiutano a far cassa. Ma il rispetto per i diritti dei cittadini? Mi auguro che l'Ordine regionale si attivi, anche con una riunione straordinaria".
IL GRILLINO FAVIA "SÌ, COMPRIAMO SPAZI IN TV PER NON ESSERE CENSURATI". Beppe Persichella per "La Repubblica - Bologna". «L'informazione non è libera, continuerò a pagare per andare in tv». Giovanni Favia, consigliere dell'Emilia-Romagna del Movimento a 5 Stelle, ha ammesso di aver speso soldi pubblici (del suo gruppo consiliare) per farsi intervistare su alcune emittenti locali. E ora minimizza. «Nessuna rivelazione, tutto è pubblico sul nostro sito, siamo gli unici. I media omettono molte delle nostre denunce e visto che è previsto l'acquisto di spazi per la comunicazione istituzionale, abbiamo deciso di fare noi: un'ora al mese di informazione senza censura». Ma si tratta di interviste a pagamento in programmi di informazione pura. Senza che appaia alcun messaggio per avvertire il telespettatore che si tratta di uno spazio, come sostiene ora, istituzionale. «Ho chiesto che fosse specificato. Il conduttore però informa gli ascoltatori comunicandolo ad inizio trasmissione». Beppe Grillo la pensa diversamente, sul blog ha diffidato chi rappresenta il Movimento ad andare in tv, pena la perdita di credibilità. Lei addirittura teorizza che bisogna pagare pur di apparire. «Condivido le parole di Beppe, il problema sono i talk show nazionali, dove non riesci ad esprimere un concetto, condotti ad arte per disinformare. Lui ci ha sempre consigliato di non andare nelle reti nazionali ma in quelle locali sì, per informare i cittadini su questioni concrete». Il presidente del consiglio regionale dell'Emilia-Romagna Matteo Richetti (Pd) ha giudicato immorale questo comportamento. Lei cosa ne pensa? «Immorale è che non si sappia niente di come il Pd abbia speso l'anno scorso i suoi 67mila euro per la comunicazione, mentre i nostri duecento euro al mese per le tv sono pubblici e trasparenti. Poi capisco che al Pd dia fastidio che ci sia uno spazio in una tv locale non controllato da loro» Continuerà ad andare in tv pagando? «Fino al giorno in cui in Italia non ci sarà un'informazione libera. Quindi presumo che continuerò ».
Favia aggiunge con la sua intervista video al “Fatto Quotidiano”: Non è una rivelazione, perché quelle spese sono documentate sul sito del Movimento 5 Stelle. «La solita operazione di disinformazione di Repubblica nei nostri confronti. Noi non paghiamo nessun giornalista né abbiamo quotidiani amici». «Abbiamo acquistato degli spazi autogestiti per fare un'ora di informazione in diretta con telefonate aperte alle domande dei cittadini e la terzietà era garantita dal fatto che tutte le forze politiche vi partecipavano in regime di Par Condicio. La cosa su cui Repubblica non si interroga è come mai il Pd fosse l'unico a non pagare pur partecipando». Repubblica si è concentrata su questa cosa «proprio in questi giorni in cui si discute del rinvio a giudizio di Errani». «La cosa scandalosa è che si debba pagare per poter raccontare, a chi non ha Internet, le nostre denunce e proposte in consiglio regionale. Acquisti di spazi fatti in piena legalità: «Sono previsti dalla legge 150 del 2000 per la comunicazione istituzionale. Attraverso la stessa legge, le presidenze di giunta e consiglio a targa Pd acquistano all'anno spazio radiotelevisivo 500 mila euro per trasmissioni imbavagliate e organizzate come dicono loro». Il Movimento 5 Stelle cerca di fare tutta la comunicazione tramite il web «ma purtroppo, in una regione con questo digital divide, internet non basta. Noi rispettiamo le leggi e non facciamo contratti durante il periodo di campagna elettorale delle elezioni comunali. Che acquistiamo spazi, l'abbiamo dichiarato sul nostro sito fin dall'inizio». Così è l'informazione in Italia, se vi pare.....
CHIESA, POLITICA E MASSONERIA
PARLIAMO DI MASSONERIA
Giovanni Greco, Bologna massonica. Le radici, il consolidamento, la trasformazione, Bologna, CLUEB, 2007, pp. 346, recensione di Davide Monda.
Questo volume fresco di stampa – pensato e mirabilmente orchestrato da Giovanni Greco, storiografo noto a livello internazionale specie per le pionieristiche, fondamentali ricerche consacrate alla marginalità in età contemporanea – offre una ricca, varia e vasta raccolta di studi su alcune rilevanti questioni – molte delle quali ancora aperte – che attengono alla massoneria nel suo sviluppo storico, in Italia e a Bologna in particolare. Peraltro, leggendo in maniera non distratta i venti saggi che compongono il libro, si ha – più in generale – la viva impressione di osservare da una prospettiva diversa e, per certi versi, affatto nuova la storia degli ultimi tre secoli, tanto appare rilevante ed incisivo il proficuo e fecondo legame delle vicende massoniche con quelle sociali e politiche del nostro Paese. Come Giovanni Greco ha sottolineato con rara limpidezza in un’importante intervista rilasciata di recente a “La Repubblica”, è bolognese la «cosiddetta “Charta di Bologna” del 1248, ove ci si riferisce in maniera esplicita ed univoca a logge felsinee risalenti al dodicesimo secolo. Da quel tempo – e in specie dalla seconda metà del Settecento – fino ad oggi, la vita sostanziale della città appare intrecciata col divenire dell’attività massonica la quale, di fatto, ha saputo sovente fondersi e confondersi virtuosamente con i suoi migliori gangli professionali e istituzionali». In effetti, se nel Settecento il fulcro della massoneria bolognese era costituito da rappresentanti illuminati dell’aristocrazia (fra i quali giova rammentare per lo meno il conte Prospero Ferdinando Ranuzzi, il marchese Luigi Angelelli, il marchese Muzio Spada Bonaccorsi, nonché il ben più celebre e celebrato Ludovico Vittorio Savioli Fontana Coltelli, poeta, storiografo e docente universitario de race), nell’Ottocento e nel Novecento entrarono a farvi parte anche numerosi artigiani, commercianti, insegnanti e impiegati, tutti quanti uniti, prima, dall’intento di unificare il Paese, ed in sèguito fervidamente impegnati nella sua stabilizzazione democratica. Si tratta, beninteso, di un discorso tutt’altro che concluso; anzi, come ha precisato ore rotundo il coordinatore dell’opera nell’intervista testé ricordata, «attualmente, il Grande Oriente d’Italia in particolare sta manifestando uno sforzo di trasparenza mai compiuto prima d’ora». Invero, la massoneria appare oggi – terzo millennio – oltremodo attiva, pragmatica e progettuale, ed anche le differenze e (persino) le nette divergenze, che talora hanno agitato e turbato la sua vita interna, si sono poi rivelate, passate le burrasche e i venti avversi, momenti di arricchimento, raffinamento, potenziamento; ancora, il suo spirito solidaristico, così come i princìpi di fratellanza universale e le animose aspirazioni democratiche, che – com’è risaputo – l’hanno ispirata sin dalle origini più remote, sono ben lungi dal risultare vacui, sterili, anacronistici. Riferendosi specificamente alle finalità del libro in discorso, nel dovizioso e stimolante saggio introduttivo Giovanni Greco rimarca non senza icastica energia che «lo scopo è stato pure quello di lavorare ad una storia costruita da una multiformità di “storie”, i cui confini, talvolta, sfociano gli uni negli altri, aprendo nuove opportunità di ricerca e d’interpretazione, per contribuire a far gettar via alla massoneria il suo burqa». Ed è innegabile che ancora resistano non pochi pregiudizi sulla storia, la cultura ed il senso profondo della ricerca massonica: come non di rado accade in questi tempi funestati da superficialità compiaciute e da apatie raggelanti, si tratta d’ingiustificate, irragionevoli distorsioni spesse volte derivanti da una grave, sostanziale carenza d’informazione, a cui la totalità delle istituzioni formative peraltro sembra – salvo sporadiche eccezioni meritorie ed encomiabili – indifferente e disinteressata. La breve ma densa presentazione al volume di Gianfranco Morrone – Presidente del Collegio Circoscrizionale dei Maestri Venerabili dell’Emilia Romagna – mira essenzialmente a evidenziare la continuità, nell’adeguamento ai tempi che mutano, delle azioni culturali e sociali promosse dalle Logge regionali, fra cui le recenti celebrazioni per il centenario della morte di Giosue Carducci, o quelle per il bicentenario della nascita di Giuseppe Garibaldi, insigni e inobliabili rappresentanti della massoneria mondiale. Da queste righe tutt’altro che occasionali e di circostanza, si evincono apertis verbis sia i notevoli risultati conseguiti dalla nobile tradizione latomistica petroniana, sia le cospicue potenzialità sociali e culturali della massoneria nella Bologna del nostro tempo inquieto e confuso. Alla brillante, ponderata Introduzione di Giovanni Greco, di carattere insieme descrittivo e metodologico, fa seguito la prima sezione della raccolta, che illustra diverse “Questioni dominanti” della storia del latomismo petroniano mediante saggi spesso assai documentati e suggestivi; le tematiche in essi affrontate vanno da I templari a Bologna (Franco Ventura) alle Persecuzioni fasciste contro la massoneria bolognese (Flaviano Scorticati), dalle Donne della massoneria a Bologna (Elena Musiani) a Uno sguardo sulla massoneria bolognese nell’Ottocento (Fiorenza Tarozzi), da L’Aenigma magnum di Aelia Laelia Crispis (Lorenzo Tinti) a I luoghi della massoneria a Bologna (William Brunelli), senza dimenticare le vivifiche relazioni fra certi circoli eterodossi e la massoneria a Bologna nel sedicesimo secolo (Matteo Al Kalak), alcune rilevantissime Suggestioni della massoneria anglosassone a Bologna nel Settecento (Fabio Martelli), nonché i rapporti fra il latomismo e le sette segrete nella Bologna del Risorgimento (Alessandro Boselli). Possiamo così ripercorrere, fra l’altro, la drammatica avventura africana con lo stravagante Lord Bruce del pittore settecentesco Luigi Balugani, poi coinvolto in una misteriosa vicenda dai contorni quasi “noir”; ci è dato ragionare della controversa partecipazione delle donne alle attività delle officine felsinee nel Sette e nell’Ottocento, oppure ripercorrere i luoghi e i momenti salienti dell’intensissima attività delle logge massoniche a Bologna durante il Risorgimento. Ma questo libro offre molto, molto di più: per dirla giusta, siamo dinanzi ad un vero e proprio mare magnum di elementi, spunti e suggestioni tanto significativi quanto insospettati e accattivanti che, nella presente sede, è davvero impossibile anche solo nominare in toto. La seconda sezione del volume, “Profili storici”, accoglie invece studi volti a far luce su vicende ed aspetti spesso negletti o poco noti relativi ad alcuni illustri bolognesi (o ad italiani che comunque operarono incisivamente nella città) appartenenti alla massoneria nei secoli XIX e XX: così Ugo Bassi, Giosue Carducci, Giovanni Pascoli, Andrea Costa, Ugo Lenzi, Quirico Filopanti, Olindo Guerrini e parecchi altri nomi di spicco rivivono in queste pagine dotte e coinvolgenti in una veste davvero nuova e, forse, imprevedibile per la maggior parte dei cosiddetti “profani”. Chiude tale policroma e talora briosa rassegna – che consente inter alia ai bolognesi e, più in generale, agli italiani di meglio conoscere una città ben più affascinante, complessa e sfuggente di come non cessano di rappresentarla certi stereotipi pigramente diffusi e non di rado fuorvianti – un’inattesa quanto preziosa appendice intitolata Breve ma veridica storia della loggia “Ça ira”. Fondata a Bologna nel 1908 e formata, in origine, quasi esclusivamente da artigiani, tale officina fu oppressa e de iure annichilita dal fascismo nel 1923, insieme con tutte le altre logge d’Italia; risorgerà poi nel 1992 con rinnovate, fervide istanze positive e propositive. Non per caso s’è accennato poc’anzi ai “profani”, destinatari par excellence di Bologna massonica, inquantoché oggi più che mai, come ha ribadito con distacco e lucidità esemplari Gustavo Raffi: «La massoneria non può essere ripiegata su se stessa e nelle sue dinamiche interne, come un corpo estraneo alla società civile, altrimenti rischia di ritrovarsi marginalizzata come un contenitore incomprensibile e sterile, oppure, e questo sarebbe peggio, invischiata in interessi molto profani, sebbene ammantati di sacertà esoterica» (p. 27).
L'INCHIESTA: Chi comanda nelle grandi città. Cofferati e i tre poteri di Bologna di Alberto Statera su "La Repubblica".
"Eccoti, sei tu, sei proprio tu che tanto tempo fa mi hai affibbiato sul giornale questo nomignolo di Cinese che mi rimane attaccato da quindici anni....". "Signor sindaco, per carità, se vuole mi pento, ma che dio glielo conservi quel nomignolo: meglio Cinese che Cinico". Cinico? Sergio Cofferati, liscio, levigatamente ieratico nel biancore del perfetto taglio di barba e nell'eloquio soave, compie cinquantanove anni e accogliendoci a Palazzo d'Accursio, dove regna da due anni e mezzo, stappa sobrio un paio di spumantini offerti dai collaboratori. Ieraticamente, l'ex Cinese che da segretario generale della Cgil faceva quasi piangere uno come Lamberto Dini, accusandolo di "macelleria sociale" per la miniriforma delle pensioni prodotta da ministro del Tesoro, finge di non sapere che nella città ex "affettuosa" che oggi cerca di governare all'insegna di "law and order", l'accusa di cattiveria si ribalta su di lui e ben altri sono gli appellativi che si è guadagnato per la sua "deriva thatcheriana". In un crescendo che va da Conservatore a Podestà, da Despota a Kofferati, con il "K" che veniva usato negli anni di piombo per Francesco Cossiga ministro dell'Interno. O - orrore - "fascista di merda", intonato nei cori dei centri sociali del Parco Nord, cui - peraltro con scarso successo - fu inibito persino il consumo di birra in confezioni di vetro alla "Street Rave Parade", che il suo predecessore di destra Giorgio Guazzaloca lasciava invece consumare, con occhio benevolo per ogni giovanile sregolatezza. Bologna da capitale della goduria a capitale dei divieti? Cofferati da Robin Hood della classe operaia a conculcatore delle libertà civili, del keynesismo confortevole e della società morbidamente consociativa? All'inizio, quando "bizzarramente", come disse Massimo D'Alema, Cofferati fu catapultato sotto le Torri, era soltanto una questione di campanile. "E' come andare a comprare i tortellini in Svezia", disse Luca Cordero di Montezemolo, essendo nato il futuro sindaco a Sesto ed Uniti, in provincia di Cremona. Allibirono i sindaci e i dignitari di partito quando, in una cena nella Bassa, lo videro versare un bicchiere di vino rosso nel brodo dei tortellini. Lui, per difendersi ieraticamente, raccontò senza convincere gli stupefatti astanti, che è una vecchia e nobile tradizione contadina chiamata "Sorbir d'agnoli" mischiare il vino col brodo per poi sorbirlo in piedi, con le spalle rivolte all'interlocutore, in segno di rispetto, visto che la mistura rilascia un odore piuttosto acre. Edoardo Raspelli gli dà ragione. Ma oggi la questione non è più soltanto culinaria, il mugugno non è più sulla bolognesità o l'emilianità, ma sull'algida intransigenza, sulla scarsa propensione negoziale, che lo espone al fuoco incrociato da sinistra a destra, fino all'invettiva di Pier Ferdinando Casini contro "il peggior sindaco della storia di Bologna". Il peggiore? "Sergio è evaso dalla sua vita precedente", divisa il segretario bolognese della Fiom Bruno Papignani. Da Cinese a Cinico anche la valutazione del segretario della Camera del Lavoro Cesare Melloni che, con i segretari sindacali, annuncia - massima ingiuria - manifestazioni contro l'aumento dell'addizionale Irpef in piazza Maggiore proprio sotto le finestre del sindaco - sindacalista che deve raschiare 19 milioni per coprire il buco finanziario in un bilancio comunale da 500 milioni. Con il suo successore alla Cgil Guglielmo Epifani è sceso il gelo. Per non dire di Rifondazione Comunista, che con il segretario Tiziano Loreti, spalleggiato a Roma da Franco Giordano, giura che mai e poi mai nel 2009 Cofferati sarà di nuovo il candidato sindaco. Fausto Bertinotti, l'antico avversario nelle battaglie interne alla Cgil, dal più alto scranno di Montecitorio tace, ma silenziosamente è con i suoi contro il Cinese. Vuoi vedere allora che in questo viaggio nelle città d'Italia alla ricerca del potere che quasi sempre si disperde in rivoli, nella "Bologna sazia e disperata", come la definiva il cardinal Giacomo Biffi, o in quella "gaia e nichilista", che descrive oggi il suo successore Carlo Caffarra, ben distante da quella pasoliniana "consumista ma comunista", abbiamo scovato finalmente un "potere politico" che cerca ancora di farsi sentire sul serio nelle vesti di sindaco algidamente "anaffettivo", che ha in uggia i "riformisti tra le nuvole", che va per la sua strada con gli sgomberi dei clandestini sul fiume Reno - i quali sarebbero finiti affogati nell'esondazione - che rompendo antiche tradizioni tacita i partiti nella spartizione delle poltrone pubbliche? Una "Stalingrado in preghiera" disse qualcuno della Bologna di Dozza, Dossetti, Lercaro, e poi di Fanti, Zangheri, Imbeni, sede di un "compromesso socialdemocratico", come lo chiama Edmondo Berselli, che durava da cinquant'anni o, se vogliamo, di una vecchia melassa consociativa. Oggi si contano gli orfani più che di Stalingrado, di via Stalingrado. Da dove Giovanni Consorte, nato a Chieti, ma adottato a Bologna, coltivava con l'Unipol e le scalate dei furbetti il suo sogno di potenza e di ricchezza. Il successore Pierluigi Stefanini, ex operaio, ex sindacalista ed ex segretario del Pci cittadino sta asserragliato in via Stalingrado a ricostruire l'onore perduto. In giro si vede poco, ma col sindaco anaffettivo dialoga assai. Sono tanti i potenti o presunti tali che si vedono meno, soprattutto da quando Romano Prodi siede a Palazzo Chigi. Basta salire sull'Eurostar del lunedì mattina verso Roma per trovarvi più o meno al completo l'establishment cittadino, come si diceva una volta. Quelli che restano, fino al sabato successivo raccontano le presunte confidenze prodiane dopo la messa a Santo Stefano con la signora Flavia, che i giorni feriali va a far la spesa col carrellino, ma non trascura di ascoltare le donne teo-dem sui Pacs e di condannare i sessantenni che corrono via dalle mogli per impalmare ragazze giovani, come a Bologna - e altrove - è tutt'altro che infrequente anche nei palazzi del potere. E' chiusa la villa di Montezemolo in collina, nonostante le peristalsi in corso alla Fiera, di cui egli è rimasto presidente. Cofferati vuole liquidare le quote municipali sia nella Fiera che nell'aeroporto. Il governatore Vasco Errani vuole prendersele, tra le proteste di Giancarlo Sangalli, presidente della Camera di Commercio, che denuncia il conflitto d'interessi tra azionista e regolatore. Fiera e aeroporto sono le aziende pubbliche più importanti della città, dopo Hera, l'azienda multiservizi che Tommaso Tommasi di Vignano, il quale il lunedì mattina fa con l'Eurostar il percorso inverso da Roma a Bologna, ha quotato in Borsa e portato in tre anni da una capitalizzazione di meno di un miliardo a 3,3 miliardi e a un Mol, margine operativo lordo, di 380 milioni, facendone la terza multiutility d'Italia e candidandola forse a diventare la seconda, se andranno in porto le fusioni che bollono in pentola. Solo un nano un po' cresciuto, rispetto al colosso Enel verso cui da Bologna corre ogni lunedì il presidente Piero Gnudi, principe dei commercialisti e soprattutto principe sommo dei "trasversali". Amico di Prodi e del coté di Beniamino Andreatta, l'ultimo padre nobile dei cattolici bolognesi che giace da anni in coma, lo è altrettanto di Pier Ferdinando Casini e di Gianfranco Fini. E' lui il piccolo Cuccia bolognese, il nume tutelare degli imprenditori locali, i Maramotti, i Gazzoni. E' lui che fece la fusione tra il Credito Romagnolo e la Banca del Monte, portando infine Rolo Banca in Unicredit, che adesso installerà a Bologna la direzione Retail. Senza di lui, senza il commercialista che anche i nemici giurati condividono come fosse un barbiere, qualche volta combinano guai. Giuseppe Gazzoni Frascara, che da presidente del Bologna si impalmò cavaliere bianco contro il calcio corrotto, l'altro giorno con Mario Bandiera, titolare del marchio "Les Copains", è stato indagato di bancarotta fraudolenta per il crac di Victoria 2000, la società che controllava il Bologna prima dell'era Cazzola. Cresciuto dai salesiani della Bolognina, Alfredo Cazzola, creatore del Motor Show, è titolare di Promotor International, uno dei maggiori gruppi in campo fieristico, ma soprattutto, dopo la Virtus Pallacanestro, due anni fa è diventato azionista di riferimento del Bologna. Come sempre, il calcio tira il cemento e Cazzola non fa eccezione: su 280 ettari alle porte della città vuole costruire la "Romilia", nuovo stadio, un parco acquatico, un parco dell'auto, un parco sull'Europa, un centro tecnico, un campo da golf e un parcheggio per 16.700 auto. Investimento 500 milioni, posti di lavoro promessi 2000, nella città con un tasso di disoccupazione del 2,5 per cento, tra i più bassi d'Italia. Titolare di un gruppo di costruzioni è anche il presidente degli industriali Gaetano Maccaferri, entrato al 50 per cento nell'Editoriale "Corriere di Bologna", che edita il nuovo dorso di cronaca bolognese, con Gino Cocchi della Carpignani, Alberto Vacchi dell'Ima, e Maurizio Marchesini del Marchesini group. Andrea Riffeser, nipote di Attilio Monti, il mitico nonno "Cavalier Artiglio" che gli lasciò "Il Resto del Carlino" e tante altre cose, non si scompone e riempie le suite dei suoi alberghi con le copie di "Cavallo Magazine", "Lo Sperone" e, come se non bastasse, "Cavallo Sport", la carta stampata vera la luce dei suoi occhi.
Dicono in città che non si può capire Bologna se non si completa la triade del potere: comunismo, finché c'era e ora quel che ne resta, chiesa e massoneria. Il Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia Gustavo Raffi, ravennate, è appena venuto, ma non si sa se ha incontrato quello che da decenni è considerato il Cagliostro locale. Fabio Roversi Monaco, rettore storico della più antica Università d'Italia, ricca di 70 mila studenti, adesso da presidente della Fondazione della Cassa di Risparmio, distribuisce denari, per cui è più potente di prima, tanto più che fa ticket col parente Marco Cammelli, dirimpettaio del Monte. "Dalla massoneria mi dimisi nel 1985, in tredici anni ho incontrato solo galantuomini, ma dall'essere massone ho avuto un danno enorme", giura Roversi Monaco. Andate, per favore, a raccontarlo al suo successore Pier Ugo Calzolari, per il quale i tre pregressi lustri roversiani sono un incubo, non foss'altro che per le decine lauree ad honorem clientelari che l'università distribuiva a piene mani. Si vede meno anche Angelo Rovati in piazza Maggiore - clandestini elemosinanti e signore in pelliccia a prendere il sole d'inverno al caffè Savoia - dopo l'incidente del progetto Telecom rovatiano che fece traballare Prodi il Cinese, in quei giorni in missione governativa a Pechino. Ma il Rovati c'è. E' lui che, con 822 sponsor dichiarati, finanzia francescanamente "Ulibo", acronimo di Università libera di Bologna, laboratorio politico, think thank del Partito democratico di Filippo Andreatta, e Salvatore Vassallo, inaugurato da Prodi in persona e da Giuliano Amato. A Sasso Marconi, Cà Vecchia, tanto per gradire, gli farà concorrenza la scuola di formazione politica dei diesse, con lezioni di Vittorio Prodi, uno dei fratelli presidenziali, Mauro Zani e Walter Vitali. Un buon inizio - non c'è che dire - per il partito unitario, di cui Bologna, non si capisce bene perché, si sente l'autentico laboratorio nazionale. Avvertite, per favore, se vedete sotto le Torri Bibi Ballandi, megaproduttore tivù, terza media, figlio di tassista, perché lui, il vero potere cittadino e ormai internazionale, solo lui sa mettere insieme comunisti e chiesa, Bob Dylan e Santo Padre, Orietta Berti e Stefano Bonaga, Siusy Blady e Pierferdi Casini, De Gregori, Morandi, politica, affari e spettacolo e arti varie. Bibi latita un po', perso a Roma nel suo business miliardario, dicono che è diventato un po' antipatico e arrogante. Stefano Benni se ne è già andato alla Bocconi, divorziando da Bologna e segnalando al pubblico ludibrio i "ruffiani culturali" bolognesi. Ce l'avrà forse con Angelo Guglielmi, l'assessore alla Cultura che fu inventore della terza rete Rai, anche lui in fredda con il Cinico sindaco "anaffettivo", che ha perso persino il fedele portavoce Massimo Gibelli, ex craxiano non pentito? Pierluigi Cervellati, da Venezia, dice che sì, che a Bologna è vero che si investono 6 miliardi e mezzo di euro in infrastrutture - tram, alta velocità, collegamenti - ma mancano le idee. Se le ha lui, le dica. E allora, in quest'orgia di rivendicazionismo western, sapete che c'è? C'è che occorre conservare a lungo il Cinese, persino il Cinico, nel biancore perfetto della sua barba, se è lui in qualche modo a sbriciolare cinicamente, come si conviene, le conventicole di provincia, se finalmente è lui a fluidificare un po' la grande, appiccicosa melassa della magnifica Stalingrado masson-chiesastica sotto le Torri, sordo persino al primo "collettivo frocista" d'Italia, nel segno, se non di Tex Willer, di Philip Dick, l'amato autore di "Minority Report", che della minoranza in fondo fa una forza.
STRAGI DI STATO
Trenta anni di indagini e sentenze da un resoconto ANSA.
Ecco un riepilogo della lunga inchiesta giudiziaria, tra depistaggi di servizi deviati e colpi di scena, su quel 2 agosto 1980, quando una bomba esplose nella sala d'aspetto di seconda classe della stazione di Bologna causando 85 morti e 200 feriti. Quello di Bologna è stato l'attentato più grave della storia italiana ed è avvenuto poco più di un mese dopo la strage di Ustica sull'aereo partito da Bologna.
28 AGO 1980: arrestate diverse persone sulla base delle rivelazioni del pentito Giorgio Farina. Gli ordini di cattura sono 47 in tutto. Nella primavera del 1981 per competenza territoriale Bologna passa a Roma le indagini su 44 dei 47 indagati. Nell'aprile 1986 Roma scagiona tutti dall'accusa di associazione sovversiva.
6 FEB 1981: arrestato Giuseppe Valerio 'Giusva' Fioravanti, accusato anche di concorso nella strage di Bologna.
1 GIU 1981: si forma l'Associazione dei familiari delle vittime della strage.
5 MAR 1982: arrestata Francesca Mambro, colpita, tra le altre accuse, da un mandato di cattura per concorso nella strage. Lei e il suo compagno Fioravanti sono stati accusati da Massimo Sparti.
14 GIU 1986: 20 persone sono rinviate a giudizio per la strage.
19 GEN 1987: comincia a Bologna il processo di primo grado. L'11 luglio 1988 la seconda corte d'assise condanna all'ergastolo per il reato di strage Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Massimiliano Fachini e Sergio Picciafuoco, per calunnia pluriaggravata a 10 anni di reclusione Licio Gelli (cinque anni condonati), Francesco Pazienza, il generale Pietro Musumeci e il colonnello Giuseppe Belmonte (tre anni condonati ciascuno). Otto le condanne per banda armata.
25 OTT 1989: comincia il processo d'appello. Il 18 luglio 1990 la corte d'assise d'appello annulla i quattro ergastoli inflitti in primo grado a Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Massimiliano Fachini e Sergio Picciafuoco e li assolve dall'accusa di essere gli autori materiali della strage. La sentenza condanna per concorso nel reato di calunnia Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte a tre anni di reclusione ciascuno, tutti condonati. Per banda armata Valerio Fioravanti è condannato a 13 anni, Francesca Mambro a 12 anni, Gilberto Cavallini a 11 anni ed Egidio Giuliani a otto anni.
12 FEB 1992: la Corte di Cassazione a sezioni unite annulla la sentenza d'appello con rinvio ad un processo d'appello bis.
16 MAG 1994: una sentenza della prima corte d'assise d'appello di Bologna condanna all'ergastolo per la strage Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Sergio Picciafuoco, mentre assolve Massimiliano Fachini. Per il depistaggio delle indagini la corte condanna a dieci anni per calunnia aggravata da finalità di terrorismo Licio Gelli e Francesco Pazienza, a otto anni e cinque mesi Pietro Musumeci e a sette anni e 11 mesi Giuseppe Belmonte. Cinque le condanne per banda armata.
23 NOV 1995: le sezioni penali unite della corte di Cassazione confermano la sentenza d'appello che condanna all'ergastolo Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, confermate anche l'assoluzione per Massimiliano Fachini e le condanne per Licio Gelli, Francesco Pazienza, Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte. Per Sergio Picciafuoco la corte di Cassazione dispone l'annullamento della sentenza con rinvio a Firenze.
18 GIU 1996: la corte d'assise d'appello di Firenze assolve Sergio Picciafuoco ''per non aver commesso il fatto'' dall'accusa di strage. Il 15 aprile 1997 la Cassazione conferma l'assoluzione.
30 GEN 2000: una sentenza del tribunale dei minori di Bologna assolve Luigi Ciavardini, ex appartenente ai Nar, dall'accusa di aver partecipato alla strage, ma lo condanna a tre anni di reclusione per banda armata. Ciavardini all'epoca della strage aveva 17 anni.
17 NOV 2005: la procura di Bologna conferma di aver dato vita ad un'inchiesta bis sulla strage, nata dalle risultanze della commissione Mitrokhin. Al centro dei nuovi accertamenti (il fascicolo è contro ignoti) il terrorismo palestinese e due personaggi: il terrorista internazionale Carlos, conosciuto anche come 'lo sciacallo', e Tomas Kram, delle 'Revolutionaere Zellen' tedesche, esperto di esplosivi e legato a Carlos, che pernottò a Bologna nella notte tra l'1 e il 2 agosto, peraltro registrandosi in albergo col proprio nome.
11 APR 2007: la sentenza della Cassazione chiude la stagione dei processi contro Ciavardini. Per la Suprema Corte, che conferma la condanna di Ciavardini a 30 anni di carcere, l'ex Nar ha aiutato Mambro e Fioravanti nell'esecuzione della strage e vi ha partecipato materialmente. Il 24 marzo 2009 a Ciavardini è concessa la semilibertà.
APR 2009: al termine dei cinque anni di libertà condizionata che ha estinto la pena, Fioravanti torna in libertà. Il 7 ottobre 2008 il tribunale di sorveglianza di Roma aveva concesso la libertà condizionale alla Mambro fino al 2013. Mambro e Fioravanti hanno sempre negato di aver messo la bomba alla stazione di Bologna.
POLITICOPOLI
L'ex sindaco di Bologna Flavio Delbono condannato a un anno e sette mesi per il Cinzia-gate. Il resoconto su “Il Sole 24 ore”.
Si chiude la partita del primo filone del Cinzia-gate, l'inchiesta che ha inizio nel 2010 ed ha fatto capitolare l'ex sindaco di Bologna Flavio Delbono dopo neanche sei mesi alla guida di Palazzo D'Accursio. Il Gup di Bologna, Bruno Perla, ha accettato l'accordo di patteggiamento che era stato raggiunto a dicembre fra i legali dell'ex primo cittadino e il pm Morena Plazzi, a proposito dell'uso illecito – secondo l'accusa – di denaro pubblico per pagare spese personali e viaggi fatti da Delbono con l'allora segretaria ed ex fidanzata Cinzia Cracchi, fra il 2003 e il 2008, quand'era vicepresidente della Regione Emilia-Romagna. In questo filone Delbono rispondeva dei reati di di truffa aggravata, peculato, intralcio alla giustizia e induzione a rendere false dichiarazioni ai magistrati. Per l'ex sindaco Pd di Bologna è arrivata dunque la condanna patteggiata a un anno, sette mesi e 10 giorni. Essendo la pena inferiore ai tre anni Delbono si è risparmiato l'interdizione dai pubblici uffici che lo avrebbe obbligato a lasciare l'incarico all'università, dove insegna alla facoltà di Economia. Contestualmente alla proposta di patteggiamento, l'ex sindaco aveva inoltre versato un assegno di oltre 46mila euro alla Regione Emilia-Romagna a titolo di risarcimento: una cifra comprensiva di danno patrimoniale, danno d'immagine, interessi. Nell'ambito della stessa tranche d'inchiesta è stata invece assolta, per non aver commesso il fatto, l'ex assessore comunale al Welfare, Luisa Lazzaroni, fedelissima di Delbono, in giudizio (con il rito abbreviato) con l'accusa, parimenti a Delbono, di aver esercitato pressioni sulla Cracchi e quindi, tecnicamente, accusata di induzione a rendere false testimonianza e intralcio alla giustizia. Il patteggiamento per questo primo filone del Cinzia-gate non chiude comunque i conti di Delbono con la giustizia. A breve è attesa la richiesta di rinvio a giudizio da parte della Procura felsinea per la vicenda del "bonus" mantenuto in busta paga a Cinzia Cracchi dopo il suo passaggio (a quanto sembra non condiviso dalla Cracchi) in pianta stabile dalla Regione al Cup, centro di prenotazione sanitaria controllato da Viale Aldo Moro. Per questa vicenda Delbono, il direttore generale del Cup Mauro Moruzzi, l'ex direttore generale del Comune Gaudenzio Garavini hanno ricevuto l'avviso di fine indagine per abuso d'ufficio (Delbono è accusato di concorso esterno). All'ex sindaco di Bologna viene infine contestata, in un altro filone d'inchiesta ancora aperto, anche l'ipotesi di corruzione per i suoi rapporti con Mirko Divani, consulente e fornitore del Cup e intestatario del bancomat che Delbono affidò per anni alla Cracchi per permetterle di prelevare denaro.
MALAGIUSTIZIA
IL CASO DEL CARCERE. Raccontato da “Il Corriere della Sera”. Bufera su Pratello. Indagano due Procure. Violenze, coinvolti 25 minori. E ora anche i dirigenti rischiano.
Quattro tentativi di suicidio, un presunto abuso sessuale in cella nei confronti di un ragazzino di 15 anni da parte di due detenuti poco più grandi e altre violenze sfumate per un niente. Poi risse, agenti della polizia penitenziaria percossi, lesioni, atti di nonnismo, pesanti scherzi da caserma, estorsioni, danneggiamenti e incendi. Succedeva di tutto nel carcere minorile del Pratello e lì restava, tra le quattro mura di quello che la relazione degli ispettori mandati a Bologna dal ministro della Giustizia Paola Severino, dopo la segnalazione del procuratore dei minori Ugo Pastore, descrive come un girone infernale. Una terra di nessuno, un mondo a parte, gestito in modo autoreferenziale, dove tutto ciò che accadeva veniva annotato nel registro disciplinare, ma mai segnalato alla magistratura.
Una «diffusa e persistente violazione di obblighi di correttezza gestionale», secondo l’analisi del ministero. Trentasei episodi dal gennaio 2010, e 25 ragazzi ora indagati ma mai denunciati dai vertici. È uno scenario inquietante quello ipotizzato dagli ispettori del Dap e scoperchiato dall’inchiesta del procuratore Pastore iniziata mesi fa, ma deflagrata dopo la lettera mandata da due assistenti sociali ai dirigenti del carcere sulla presunta violenza sessuale, a settembre, ai danni di un 15enne. Il 16enne e il 17enne indicati come responsabili furono puniti con due giorni di sospensione dalle attività comuni, ma nessuno ha denunciato il reato: né il direttore Lorenzo Roccaro, né il capo della penitenziaria Aurelio Morgillo, né il provveditore Giuseppe Centomani. Succedeva sempre così, una sorta di gestione familistica: «Per non rovinare i ragazzi», dice ora qualcuno. Pastore ne è venuto a conoscenza per vie indirette, solo grazie al magistrato di sorveglianza, e a quel punto ha fatto arrestare e trasferire i due. E mercoledì, a seguito degli accertamenti del capo degli ispettori del Dap, Francesco Cascini, è scattata la rimozione per Centomani, Morgillo e Roccaro.
«Appena venuta a conoscenza della situazione ho agito con fermezza e determinazione», ha fatto sapere la Guardasigilli appena insediata. Il procuratore Pastore ha affidato le indagini ai carabinieri di Porta Lame. Agli atti ci sono i referti sanitari dei ragazzi che riportano traumi e lesioni anche di 30 giorni. Fatti sovrapponibili a quelli contenuti nel registro disciplinare del carcere poi acquisiti dai carabinieri. All’esterno della struttura, secondo gli 007 ministeriali, non uscivano nemmeno gli spifferi. Ma qualcosa che non quadrava c’era già. Nel marzo 2011 il procuratore aveva invitato la polizia giudiziaria a seguire le procedure previste in caso di reati, cioè ad applicare la legge. A quanto pare alcuni agenti cercavano di comportarsi correttamente, tanto che sono state trovate segnalazioni che, però, erano rimaste al Pratello. Quando il 6 dicembre 2011 gli ispettori si sono presentati a sorpresa, i detenuti hanno descritto uno scenario da brividi: scarso cibo, un utilizzo eccessivo della cella d’isolamento e punizioni sopra le righe, con i manganelli, da parte degli agenti. Aspetti che andranno verificati dalla Procura ordinaria, interessata immediatamente da quella dei minori, che ha aperto un fascicolo per ora contro ignoti per omesso rapporto. Non è escluso che siano ipotizzati reati a carico degli agenti che però, siccome annotavano nei registri le punizioni, forse non agivano nella consapevolezza di commettere illeciti. Se i fatti fossero confermati i tre dirigenti e gli agenti rischierebbero grosso. Per il procuratore Pastore l’intervento del ministero è stato «tempestivo e risolutivo,un segnale che fa ben sperare in una prospettiva di maggiori garanzie di legalità e tutela dei detenuti».
La versione di “La Repubblica”. IL CASO: Stupri, pestaggi, risse e terrore, le verità taciute del carcere del Pratello. Venticinque ragazzi protagonisti di episodi di bullismo verso i coetanei, gli agenti lasciavano correre senza fare rapporto: è quanto ha stabilito l'ispettore ministeriale dopo la segnalazione della Procura dei minori. Episodi annotati sul registro disciplinare ma mai comunicati all'autorità giudiziaria. Il ministro Severino ha rimosso i direttori. Francesco Cascini si è fatto aprire le celle del Pratello alle otto e mezzo. Otto di sera, non di mattina. Un orario strano, fuori ordinanza. L'hanno preso per un padre, un confessore, un salvatore, quell'ispettore spedito d'urgenza a Bologna. Lui stava a sentire le sofferenze di ragazzi che non avevano fino a quel momento trovato o la forza o le persone giuste per confidarsi. Per qualche detenuto, dopo quell'incontro, forse l'ennesima notte chiuso in cella sarebbe stata meno terribile. La relazione finale del super-ispettore, inviata sia alla Procura ordinaria sia a quella dei Minori, è la storia di un clima di terrore e di sopraffazione al carcere minorile di Bologna in cui erano immersi alcuni degli ospiti del Pratello, già provati dalla privazione della libertà. Episodi che però non sono mai stati comunicati all'autorità giudiziaria. Per questo il ministro Severino ha rimosso i direttori dell'istituto carcerario. Sono trenta i casi di abusi presi in esame dalla Procura dei Minori negli ultimi due anni. Sono venticinque i ragazzi che di volta in volta - anche più di una volta - sono stati protagonisti di azioni di bullismo e di violenza nei confronti di altri ragazzi magari più piccoli o più deboli o di un altra etnìa (ci sono stati anche scontri tra slavi e nordafricani). Se un caso di estorsione capita davanti a una scuola, se una baby gang sequestra il telefonino di un ragazzo per strada, ci si indigna, si fa una denuncia e si apre un'inchiesta. Ma se un ragazzo che magari aveva già compiuto 18 anni e costringeva un compagno di cella a cedergli sotto minaccia di botte il poco cibo che conservava per sé perché aveva mangiato solo un piatto di minestra alla mensa, questo passava inosservato. Al massimo, si segnava l'infrazione sul libro disciplinare, ma nulla trapelava all'esterno. La vittima che pativa la fame perché passava il suo cibo all'altro non meritava considerazione diversa dal suo "nemico". E anche se è un aspetto apparentemente secondario, gli ispettori hanno rilevato che alla mensa non veniva seguita nessuna regola alimentare precisa. In celle che sono state trovate sporche e dove si accovacciavano anche quattro ragazzi - perché un intero piano dell'istituto dopo la ristrutturazione veniva lasciato vuoto ufficialmente per carenza di personale - le estorsioni erano ancora più odiose, nell'ambiente chiuso di un carcere, senza nessuno cui chiedere aiuto. Dalla somma degli episodi, emerge il quadro di una situazione in cui "nonnismo" e "bullismo" venivano tollerati pensando che un atteggiamento "morbido" fosse educativo. L'episodio più grave - ma si indaga anche per altri fatti gravi, non sessuali, ancora segreti - è una violenza sessuale che secondo l'accusa è stata compiuta su di un ragazzo di sedici anni da parte di due diciassettenni, entrambi trasferiti. Uno era già uscito dal carcere e l'hanno arrestato di nuovo. Ma prima di questo episodio di settembre ci sono stati altri due tentativi di violenza, uno dei quali annunciato e sventato. Quattro i tentativi di suicidio, nemmeno questi segnalati alla Procura dei Minori. Neppure quando qualche ragazzo più violento si scagliava contro le guardie ferendole si veniva a sapere nulla. Non risultano invece - almeno questo è un fatto positivo - sotto inchiesta sorveglianti che abbiano picchiato i detenuti. Ma l'ispettore scrive anche che le misure di isolamento venivano decise in modo improprio, senza per esempio spiegare le motivazioni delle misure. Quattro agenti penitenziari hanno patteggiato la pena per non aver verbalizzato che un ventenne, Bright Ofori, prima della fuga avvenuta nell'estate del 2009, aveva sequestrato una donna delle pulizie. Vennero denunciati dall'allora direttrice Paola Ziccone. Quel pasticcio, oltre ad essere stato raccontato dagli organi di informazione, giunse quella volta anche sul tavolo della Procura ordinaria. Un evento-spia che, dopo le indagini effettuate in questi mesi con le conseguenze del caso, possono far pensare all'esistenza di un vero e proprio "sistema".
RAPIMENTI DI STATO da "Il Corriere della Sera".
Sono stati fermati in Svizzera Massimiliano Camparini e Gilda Fontana, i genitori che il 16 luglio 2010 avevano prelevato la figlia Anna Giulia, cinque anni, dalla casa estiva di Massa Marittima dell'associazione cui la piccola era stata affidata. Con i coniugi c'era anche la bambina. Il legale della coppia, l'avvocato Raffaele Miraglia di Modena, ha detto di aver avuto la notizia al telefono dai suoi assistiti, che nella serata sono stati portati a Massa dove sono indagati per la sottrazione della bambina. «Domani andrò anche io in Toscana - ha detto Miraglia - per l'eventuale interrogatorio di garanzia». Anna Giulia, sempre a quanto ha appreso l'avvocato, è stata riaffidata alla tutrice. «Non so se dormirà a casa sua», ha commentato. Miraglia ha raccontato che, da quanto gli è stato riferito, la bambina «ha avuto una reazione bruttissima» al momento del distacco dai genitori. «La madre si è sentita male», ha detto ancora, mentre i genitori, ha aggiunto, hanno ribadito di aver trascorso con la figlia «i giorni più belli della loro vita».
LE TAPPE DELLA VICENDA - Anna Giulia era stata prelevata dai genitori, Massimiliano Camparini e Gilda Fontana, venerdì 16 luglio 2010 in una casa vacanze gestita dalle suore del Cenacolo Francescano di Reggio Emilia a Marina di Massa, in Versilia. Appena due giorni prima la bambina aveva compiuto cinque anni. Il Tribunale per i minorenni di Bologna aveva sospeso la potestà genitoriale ai genitori il 7 agosto 2008, affidando la bambina ai servizi sociali. Già il 5 marzo 2010, durante un incontro protetto con la figlioletta a Reggio Emilia, i genitori avevano distratto un'assistente sociale e avevano preso la piccola, fuggendo verso la Slovenia. Quattro giorni dopo, grazie anche ad una lunga trattativa con la nonna paterna, la Squadra Mobile reggiana aveva rintracciato i fuggitivi e li aveva raggiunti a Rabuiese (Trieste). Ma la vicenda non era conclusa. Il 5 aprile 2010 il padre e la madre della bimba si erano incatenati davanti al Colosseo, a Roma, raccontando poi la loro storia alle telecamere della trasmissione di Raitre Chi l'ha visto?'. E il 3 maggio Massimiliano Camparini e Gilda Fontana avevano scritto una lettera al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano chiedendogli un aiuto per cercare di risolvere la situazione. Infine, il 16 luglio i genitori si erano presentati nella casa di San Francesco a Marina di Massa, dove Anna Giulia era ospite per le vacanze estive, e l'avevano prelevata. Il loro legale, l'avvocato modenese Francesco Miraglia, dal primo momento aveva detto che genitori e figlia stavano bene assieme e che la bimba era «serena e felice». Sulle loro tracce si erano subito messi i carabinieri di Massa Carrara e la questura di Reggio Emilia. Appena martedì pomeriggio il legale aveva diffuso una dichiarazione dei genitori: «Continueremo a stare dove stiamo», avevano fatto sapere padre e madre, aggiungendo che la «superficialità degli interventi» del sottosegretario Carlo Giovanardi, del presidente del Tribunale per i minorenni di Bologna Maurizio Millo (che si erano detti disponibili a valutare la vicenda ma solo dopo la «liberazione» della bimba), della tutrice Sabrina Tagliati, dei familiari, dei politici e avvocati «che non hanno nulla a che fare con la loro vicenda», li aveva convinti sempre di più «di aver scelto la strada migliore e di continuare a stare lontano da questa giustizia».
«MALAGIUSTIZIA» - Proprio di «malagiustizia» ha parlato più volte l'avvocato Miraglia, sostenendo tra l'altro che non erano vecchi problemi di tossicodipendenza dei genitori, in particolare del padre, ad aver allontanato la bimba dai genitori, ma presunte «condizioni fatiscenti» del loro alloggio. Appena due giorni fa, lunedì, si è svolta davanti al Tribunale per i minori di Bologna, nella centrale via del Pratello, una manifestazione promossa da alcune associazioni di genitori che vivono situazioni analoghe a quelle dei Camparini. In questi due anni, tra l'altro, più volte la nonna materna, Liana Cartinazzi, aveva chiesto di poter avere la custodia di Anna Giulia (la donna aveva già cresciuto il primo figlio di Gilda, oggi maggiorenne), ma i servizi sociali reggiani hanno dato una risposta negativa.
Davanti al tribunale dei minorenni di Bologna: Bimba «rapita» dai genitori. Presidio di solidarietà ai Camparini. Resoconto de "Il Corriere di Bologna".
In una quindicina hanno protestato per denunciare «gli abusi del tribunale verso noi genitori» e contro «il business dei bambini "sottratti"» alle famiglie.
Sono arrivati in una quindicina, per protestare davanti al tribunale per i minorenni di Bologna: hanno espresso «solidarietà alla famiglia Camparini» e denunciato «gli abusi che il tribunale compie nei confronti di noi genitori, che non possiamo più avere i nostri figli».
LA VICENDA DELLA PICCOLA ANNA GIULIA - Il presidio, organizzato il 26 luglio 2010 da alcune associazioni tra cui Gesef (Genitori separati dai figli) e Ccdu (Comitato di cittadini per i diritti umani di Trento), ha preso come spunto la vicenda del padre e della madre di Reggio Emilia - i Camparini, appunto - ai quali è stata sospesa la potestà genitoriale e che fa hanno «prelevato» la figlia Anna Giulia, 5 anni, dalla casa vacanze di Marina di Massa a cui era stata affidata.
Partendo da questa vicenda, gli attivisti si sono rivolti «a tutte quelle famiglie che stanno subendo lo stesso trattamento», come ha spiegato Silvia Pini di Gesef. «Molti di noi - ha spiegato- sono andati ai servizi sociali per avere un aiuto e si sono visti sottratti i bambini. Ora io mia figlia, sei anni, la posso vedere solo tre volte alla settimana». E questo, denunciano i genitori, per loro «è un business: lo Stato paga tra i 100 e i 300 euro al giorno alle strutture per ogni bambino "sottratto". E sono 26.000 in Italia». Su "La Gazzetta di Reggio" «Continueremo a stare dove siamo. E sarà dura separarci, per tutti». Dopo undici giorni di silenzio i genitori di Anna Giulia escono allo scoperto inviando un messaggio forte. E lo fanno, all’indomani della manifestazione ad alta tensione che lunedì mattina si è svolta davanti all’ingresso del tribunale per i Minorenni di Bologna, dove diverse associazioni hanno urlato la loro solidarietà nei confronti di Massimiliano Camparini e Gilda Fontana, i genitori della piccola Anna Giulia. La famiglia Camparini, però, stavolta va all’attacco e punta il dito contro le suore del cenacolo francescano di Marina di Massa dove il 16 luglio scorso, i genitori di Anna Giulia, si sono rimpossessati della figlia.
«Quel venerdì - dicono tramite una nota del loro legale Francesco Miraglia - si mangiava le unghie, era terrorizzata dalle punizioni delle suore e dai castighi a cui le stesse suore la costringevano. Con noi sta benissimo, fino al punto di dire più volte: stiamo vivendo una favola. E’ allegra e piena di vita. In altre parole, la bambina ci ha confermato tutti quei maltrattamenti che subiva all’i nterno della casa d’accoglienza che noi come genitori avevamo già denunciato alla consulente del tribunale, ma che la stessa ad oggi non si è sentita in dovere di prendere in considerazione. Altrettanto ha fatto il tribunale, non consentendo alla nostra difesa di estrarre copie delle registrazioni delle operazioni peritali. Ad ogni modo, faremo di tutto per evitare che nostra figlia possa ritornare in simili posti. Con questi atteggiamenti delle istituzioni, arroganti e prepotenti, continueremo a stare dove siamo. Ogni giorno che passa nostra figlia è sempre più meravigliosa e sarà dura separarci per tutti». Parole durissime, una presa di posizione decisa e che conferma come la famiglia Camparini abbia deciso di proseguire sulla propria strada, senza dare alcun ascolto agli appelli delle diverse istituzioni. «Massimiliano e Gilda - aggiunge il loro avvocato - si sentono in dovere di ringraziare tutti coloro che hanno partecipato alla manifestazione in loro solidarietà a Bologna contro i provvedimenti dei giudici del tribunale per i minorenni, manifestazione che hanno seguito attraverso i mass media. Hanno ascoltato pure i vari appelli: del ministro, del presidente Millo, della tutrice, dei familiari, dei politici e avvocati che non hanno nulla a che fare con la loro vicenda. Riferiscono, che la superficialità dei loro interventi li convince sempre di più di aver scelto la strada migliore e di continuare a stare lontano da questa giustizia».
BOLOGNA E I FASCICOLI SPARITI. SALTANO 2.321 PROCESSI. DIMENTICATI IN UN ARMADIO. LA SCOPERTA DEGLI 007 DEL MINISTERO DELLA GIUSTIZIA. Resoconto de "Il Corriere della Sera". Riguardano udienze a citazione diretta con pena fino a 4 anni: furti, truffe, lesioni colpose, infortuni sul lavoro.
Chiamatelo pure l'armadietto della vergogna. Un normale mobile da ufficio a due ante, addossato ad un muro nella cancelleria della Procura di Bologna. Anonimo, probabilmente grigio. A stupire è il contenuto, 2.321 fascicoli di indagine per i quali il Tribunale aveva fissato la data d'inizio del processo. Ma invece di procedere con le citazioni a giudizio, ovvero le notifiche alle parti interessate, quei procedimenti sono stati messi sotto chiave. Ad ingiallire fino al sopraggiungere, nella maggioranza dei casi, della morte naturale, ovvero la prescrizione. Senza che nessun pubblico ministero sentisse la necessità di chiedere dove fosse andata a finire la sua inchiesta. La somiglianza con l'originale si limita al contenitore. Il vero armadio della vergogna, quello che per quarant'anni nascose i fascicoli sulle stragi naziste in Italia, rivelò una storia di connivenze e volontà politica. Ma nel suo piccolo, anche l'omologo bolognese rappresenta qualcosa. La difficoltà della magistratura a fronteggiare carichi di lavoro crescenti. Oppure, una certa incuria da parte dei titolari di quei procedimenti e dei loro superiori che non può essere spiegata soltanto con le carenze di personale amministrativo e di mezzi. Dipende da come la si guarda. Come al solito, quando si tratta di giustizia.
Quel che colpisce è l'entità dello spreco nascosto dietro a quella cifra. Prendere i 2.321 fascicoli, che riguardano processi a citazione diretta, che prevedono pene fino a quattro anni. C'è di tutto, furti, truffe, ricettazione, appropriazioni indebite, lesioni colpose, infortuni sul lavoro. La gran massa di quello che negli uffici giudiziari viene definito «ordinario », anche se le definizione non è lusinghiera per chi li ha dovuti subire, quei reati. In termini di «fatturato», è più di un decimo delle notizie di reato che si accumulano in un anno. Ogni dieci procedimenti, ne è andato perso uno. Adesso, moltiplicare 2.321 per il lavoro degli investigatori, i soldi spesi per perizie e intercettazioni. Tutto evaporato, tutto inutile, perché nessuno ha sentito il bisogno di prendere in mano quei fascicoli pronti per il processo. La scoperta avviene alla fine del 2008, nel mezzo di una ispezione ordinaria disposta dal ministero della Giustizia che si è conclusa soltanto a febbraio. La visita è dovuta all'eterno conflitto tra la magistratura inquirente bolognese e quella giudicante. La Procura accusa il Tribunale di lavorare a rilento, addirittura ignorando le richieste sempre più pressanti di fissazione dei processi. Addirittura quantifica il numero dei procedimenti per i quali ha chiuso le indagini e predisposto al citazione a giudizio, senza che venisse mai fissata l'udienza.
Il Tribunale risponde con una parziale ammissione di colpa. Tutto vero, dice. Ma a noi risultano «solo» 8-9000 fascicoli, antecedenti all'anno in corso. Comunque tanti. Degli altri, quelli che mancano per arrivare a quota 11.000, non ne sappiamo nulla. Il mistero dura poco, anche se sul suo scioglimento le versioni divergono. Quella più romanzata prevede la scoperta dell'armadietto da parte degli ispettori ministeriali. In Procura sostengono invece di che si tratti del risultato di una indagine interna, avviata dal procuratore Silverio Piro, reggente dell'ufficio in attesa che il Csm trovi un successore a Enrico De Nicola, andato in pensione nel luglio del 2008. Comunque sia, 2.321 fascicoli per i quali i processi sono stati fissati, ma nessuno che in Procura abbia messo la firma per farli partire. L'incombenza spetta all'ufficio notifiche, ovvero alla cancelleria. La spiegazione della responsabile è disarmante. Non ce la facciamo, dice, a tenere questi ritmi di lavoro. E quindi ci siamo tenuti i fascicoli nell'armadio.
Il danno, e naturalmente pure la beffa. Perché la scelta di «nascondere» alla vista gli incartamenti nasce dal ritorno sulla retta via del tribunale, che dopo tanti solleciti della procura, e un nuovo presidente, dall'inizio del 2008 ha cominciato a dedicarsi maggiormente al processo penale, cercando di «smaltire» il più possibile l'arretrato. Il nuovo e più virtuoso corso avrebbe però prodotto un curioso effetto collaterale, il crollo dell'ufficio udienze. Dopo la scoperta, la responsabilità delle notifiche è tornata di competenza dei pubblici ministeri. «A causa della delicatezza della questione», Piro sceglie di non commentare, limitandosi a sottolineare come con il tribunale «vi sia un clima di ritrovata armonia ». Le scuse ci sarebbero anche, i tagli alla giustizia, eccetera. E queste cose succedono anche altrove. Mai però con questi numeri, che lasciano lo spazio a parecchie domande. Per quale ragione si è scelto di delegare la gestione delle notifiche dei procedimenti «ordinari» alla cancelleria? Possibile che nessun magistrato abbia mai chiesto conto della sorte dei suoi fascicoli? E infine, perché da parte dei vertici della procura non è stato fatto alcun controllo? Gli ispettori del ministero hanno sentito il bisogno di un supplemento di indagine, sottolineando come il caso bolognese sia «abnorme». Vergogna forse no, ma le belle figure sono decisamente un'altra cosa.
AFFITTOPOLI A BOLOGNA
Affitti in nero, tutto da rifare. I giudici bocciano le "spie". Dichiarata illegittima la norma che consentiva agli inquilini di avere sconti in cambio di delazione su contratti fuorilegge, scrive Nino Materi su “Il Giornale”. L'esercito degli inquilini, in guerra contro le falangi dei padroni di casa senza scrupoli, si era trasformato in un'armata di «spie». «Delatori», per usare un termine più eleganti. E per un po' - gli inquilini - ci avevano pure «marciato». La legge era dalla loro parte. E li spingeva - a fin di bene (il proprio, s'intende) - a denunciare i contratti in nero proposti da quei furbetti dei proprietario degli appartamenti. Locatari (in nero) vs locatori (in nero). Davide contro Golia. Dove «Davide» assumeva spesso i connotati deboli di categorie tradizionalmente a rischio sfruttamento come studenti, stranieri e via discriminando; tutta gente che però, in cambio di un affitto dal canone inferiore (ma non registrato), accettavano di alloggiare sotto il tetto dell'illegalità. Poi cambiarono le regole e bastò «segnalare» a chi di dovere i magheggi del «Golia» di turno, ed ecco che per «Davide» scattavano benedici sotto forma di contratti a canone calmierato. Troppo bello per essere vero. O comunque per durare a lungo. La Corte costituzionale ha infatti dichiarato illegittima la norma sulla determinazione dei canoni di locazione - che prevedeva vantaggi per gli inquilini che segnalavano contratti di affitto in nero - contenuta nel decreto del 2011 sul federalismo fiscale. La Consulta, in concreto, ha cancellato gli «sconti» previsti per gli affittuari che denunciavano contratti in nero e permettevano agli inquilini di registrare di propria iniziativa il contratto d'affitto presso un qualsiasi ufficio delle Entrate. I giudici costituzionali hanno però bocciato tale procedura per «eccesso di delega», annullando anche i contratti già registrati. Tradotto: ora torna il caos. La sentenza, la n. 50, è stata depositata il 14 marzo 2014. Confedilizia esulta, gli inquilini protestano. Le norme censurate dalla Corte sono contenute nel decreto legislativo n.23 del 14 marzo 2011, che prevedeva disposizioni in materia di federalismo fiscale municipale. Nel dettaglio, diversi tribunali - Salerno, Palermo, Firenze, Genova, Roma sezione staccata di Ostia - hanno impugnato i commi 8 e 9 dell'art. 3, che contiene le misure sulla cedolare secca sugli affitti. Il comma 8 stabilisce, in particolare, che i contratti di locazione delle case che «ricorrendone i presupposti, non sono stati registrati entro il termine stabilito», hanno una durata di 4 anni e il canone annuo è fissato nel triplo della rendita catastale più l'adeguamento Istat dal secondo anno. Il comma 9 stabilisce poi che queste stesse disposizioni si applicano anche nei casi in cui nel contratto di locazione registrato sia stato indicato un importo inferiore a quello effettivo e sia stato registrato un contratto di comodato fittizio. «Emerge con evidenza - si legge nella sentenza - che la disciplina oggetto di censura, sotto numerosi profili rivoluzionaria sul piano del sistema civilistico vigente, si presenti del tutto priva di copertura da parte della legge di delegazione». Non capiamo, ma ci adeguiamo. E alziamo le mani anche dinanzi al passaggio successivo, in cui si «spiega» (si fa per dire...) che «il tema della lotta all'evasione fiscale non può essere configurato anche come criterio per l'esercizio della delega: il quale, per definizione, deve indicare lo specifico oggetto sul quale interviene il legislatore delegato, entro i previsti limiti». Ma qui - scusate - siamo al puro delirio giuridichese, nella sua forma più incomprensibile. Insomma, roba da azzeccacarbugli. Da mandare, gentilmente, a quel paese. Dove speriamo trovino una casa in affitto. Possibilmente non in nero.
A proposito di cedolare secca e di affitti in nero.
Qui si riporta una situazione, sollevata dalle vittime al dr Antonio Giangrande, autore della collana editoriale "L'Italia del trucco, l'Italia che siamo" e presidente della "Associazione Contro Tutte le Mafie". Storia esemplare quanto si voglia, ma palesemente ingiusta per chi sente sulla propria pelle le sferzate dell'ingiustizia.
Siamo a Bologna, una città famosa per l’università e per attirare tantissimi studenti da ogni parte dell’Italia e del mondo. Famosa anche per la fortissima evasione fiscale sugli affitti a nero degli appartamenti per noi studenti! Il gioco è semplice: il padrone di casa stabilisce un rapporto di fiducia con un tramite, una persona che ha il compito di incassare i canoni all’interno dell’appartamento. Di solito l’incaricato o paga regolarmente come gli altri ragazzi, oppure ha delle facilitazioni... e il gioco è fatto.
La nuova cedolare secca (D. Lgs. 23/2011) è una legge che cerca di mettere fine a situazioni del genere! Finalmente l’inquilino a nero può autonomamente recarsi all’Agenzia delle Entrate e stipulare un normale contratto 4+4 anni, senza il consenso del proprietario evasore. Il premio per la regolarizzazione è la diminuzione dell’affitto fino al 90%!! Si tratta di una legge che prende in considerazione la difficoltà di dimostrare il pagamento a nero, schierandosi dalla parte del più debole. Il Comune di Bologna è in prima linea in questa campagna anti-evasione e noi siamo tra i primi, se non i primi, ad aver agito in tal senso.
Siamo 5 studenti che, applicato la cedolare secca, siamo stati prontamente denunciati dalla proprietaria di casa. Quest’ultima ha sporto una querela per appropriazione indebita d’immobile verso ignoti, qualificandoci come “sconosciuti abusivi”. Siamo andati in causa forti del nostro diritto ma il Giudice con provvedimento immediato ha brutalmente ordinato il rilascio dell’appartamento (nel giro di "massimo una settimana"!). Quindi senza tenere in considerazione l’evasione fiscale che si protraeva dal 2008, senza considerare il nostro nuovo contratto regolare, senza considerare i bonifici di pagamento al tramite, il giudice si è basato esclusivamente sulla mancanza di prove di pagamento diretto tra noi e la proprietaria. Ma il canone in nero è illegale e non rintracciabile per definizione. La cedolare secca (Art. 3) è stata creata apposta per questo.
Di nuovo, chi è a pagare le conseguenze? Naturalmente i più deboli!! Insomma, siamo stati denunciati da un evasore fiscale per aver portato alla luce il suo illecito, ma ci ritroviamo ad essere puniti per questo. In questi tempi, in cui l’evasione fiscale è al centro del dibattito pubblico e politico, in cui la crisi economica mette in difficoltà le famiglie che devono mantenere un figlio fuori sede nella speranza di un futuro migliore, in cui la lotta all’evasione si è riaffermata come dovere morale di noi cittadini prima di tutto, chiediamo il vostro sostegno per far luce su questa vicenda ingiusta: non deve rimanere taciuta!Diffondete!
Una perfetta storia italiana: nell’atto giudiziario, la proprietaria afferma di aver ceduto gratuitamente un grande appartamento in pieno centro a Bologna al figlio di un amico del suo agente immobiliare (sic), stante l’impossibilità a vendere a causa della stagnazione del mercato in quel periodo (la famosissima crisi immobiliare bolognese del 2008....ora ridete pure!), e non ci sarebbero stati pagamenti di canone.
Questa è la vicenda nei dettagli: Noi 5 studenti fuori sede ci ritroviamo a subentrare nella stessa casa in periodi diversi. Venuti a conoscenza delle “particolari” quanto ambigue modalità di pagamento ci rivolgiamo ad un’associazione che si occupa di promuovere la campagna contro gli affitti in nero, per chiedere informazioni sui rischi e/o le opportunità della nuova legge che avevamo noi stessi consultato via internet. L’associazione ci prospetta esclusivamente uno scenario idilliaco, senza alcun pericolo per noi (“siete protetti dallo Stato... è una campagna contro l’evasione fiscale che si basa su una legge e su un vostro diritto...pagheremo noi anche le spese legali in caso di causa civile”)... ma questa è un’altra storia. Il ragazzo “tramite” – all’estero in erasmus fino a ottobre 2011 - era titolare di un contratto di comodato d’uso gratuito (cioè: la proprietaria “regala” per 4 anni l’appartamento in centro a Bologna a un ragazzo semi-sconosciuto) palesemente finalizzato all’evasione fiscale: un canone mensile veniva pagato alla proprietaria fin dal 2008. Uno di noi ha conosciuto personalmente la proprietaria - o chi si qualificava come tale – che veniva direttamente in casa a prelevare l’affitto. In seguito effettuavamo bonifici bancari al ragazzo-tramite, il quale girava i soldi alla proprietaria. Stanchi di questa situazione di precarietà, abbiamo proposto al ragazzo-tramite di applicare la cedolare secca! Abbiamo deciso coraggiosamente di andare avanti nonostante lui stesse organizzando delle contromosse in accordo con la proprietaria per mandarci fuori di casa e continuare il nero. Il 7 novembre siamo andati all’Agenzia delle Entrate. Come per miracolo, in poche ore, diventiamo titolari di un contratto regolare, naturalmente dopo aver pagato una ragionevole quota di tasse arretrate. La nostra proprietaria di casa, venuta a conoscenza della situazione dal nostro “tramite”, ha sciolto il contratto di comodato e ci ha denunciato il giorno stesso per violazione di domicilio e appropriazione indebita di immobile. Nella denuncia depositata in caserma afferma di aver ricevuto una telefonata dal ragazzo-tramite che, tornato dall’erasmus, dichiarava di aver trovato nell’appartamento 5 persone a lui sconosciute che lo occupavano illegalmente. “La proprietaria è potente e non sapete in che guaio vi siete messi!!”- è stata una delle ultime frasi del ragazzo prima della fuga dall’appartamento! I carabinieri, due giorni dopo, sono venuti a controllare se ci fossero o meno segni di effrazione in casa: li abbiamo accolti un po’ increduli un po’ preoccupati spiegando al momento tutta la situazione. Non hanno trovato tracce di effrazione e sono andati via. La mattina seguente siamo stati chiamati in caserma. Il Luogotenente, lo stesso del giorno prima, si è mostrato molto comprensivo: la situazione era abbastanza chiara, eravamo tutt’altro che abusivi. Ci disse che la proprietaria, saputo che si trattava di giovani studenti, ci avrebbe voluto contattare al telefono per giungere a “un accordo”, chiaramente alle sue condizioni. Sconvolti per la denuncia insensata e per la richiesta della proprietaria che perdona degli abusivi in quanto ”sono ragazzi” decidiamo di continuare a far i valere i nostri diritti. La vicenda continua: le nostre famiglie, nelle rispettive città, ricevono una lettera dai toni non poco minacciosi dal legale della proprietaria: se non ce ne andiamo ci aspettano migliaia di euro da pagare e addirittura il carcere. A quel punto l’associazione che ci consigliò fino ad allora, dopo la fretta per ottenere una donazione (di circa 1300 euro), ci mette in contatto con un legale. La “signora non solo si è arricchita per anni con i soldi delle nostre famiglie e di tutte le famiglie di studenti che dal 2008 hanno transitato in questo appartamento, adesso dopo la risposta alle diffide, prosegue con l’atto per la comparizione in tribunale. Vuole i danni morali e non solo!! L’atto giudiziario è di per sé incredibile: la proprietaria avrebbe ceduto gratuitamente la casa al figlio di un amico del suo agente immobiliare (sic) stante la stagnazione del mercato in quel periodo, e non ci sarebbero stati pagamenti di canone.. Ci vengono chiesti “danni morali per la violenza con cui abbiamo spogliato la signora della sua proprietà e appropriazione di bottiglie di vino pregiate presenti nell’appartamento (????!!)” e vengono chiamati a testimoniare la violenza: il titolare di un agenzia immobiliare (?), il “tramite” e dulcis in fundo il Luogotenente dei carabinieri (???!!!?). Le tesi avanzate, si contraddicevano anche con ciò che la stessa proprietaria ha detto al processo! I lapsus della proprietaria, tra l’altro, erano continui:... “il canone di affitto...ehm...il comodato gratuito...” ; “io non ho mai ricevuto soldi...1600 euro erano per il condominio!.. il condomino non è stato mai pagato”...etc. I testimoni al momento non erano presenti, quindi non sappiamo se i suoi testimoni fossero realmente a conoscenza di essere stati citati. Alcuni nostri testimoni chiave, da noi stessi contattati, prima di essere citati, hanno reagito inspiegabilmente malissimo. Due ex inquilini, un dei quali aveva conosciuto di persona la proprietaria e un altro che le aveva consegnati direttamente i soldi per un lungo periodo, si sono rifiutata di darci una mano, nonostante un rapporto di amicizia e convivenza con uno di noi. Abbiamo chiesto esclusivamente di dire la verità e nient’altro che la verità e di risposta: una metaforica porta sbattuta in faccia.
Al processo che si è tenuto il giorno 16 febbraio, solo l’accusa è stata ascoltata e presa in considerazione. La proprietaria non ha fatto altro che parlare di un fantomatico incidente e della sua impossibilità di controllare prima chi abitasse la sua casa (una delle tante): “giudice guardi il dito!! Me lo sono rotto!! Giudice! Un pirata della strada mi ha travolto sulle strisce pedonali! Guardi ho la stampella!”. Se anche fosse vero, ci dispiace per la disavventura della signora, ma noi che colpa abbiamo? Premetto che la signora era perfettamente in forma...o perfettamente guarita. Ma se degli abusivi avevano sfondato la porta, perché i suoi parenti che hanno uno studio notarile sul nostro stesso pianerottolo non se ne sono mai accorti? Un giorno, tra l’altro, la sorella si è rivolta a uno di noi dicendo: “ tu sei una delle nuove inquiline, che bello! Tutti studenti vero?” (??!) Dopo questa farsa al limite dell’assurdo, Il giudice sorridendo con sufficienza dopo che abbiamo dichiarato che il canone veniva ritirato a mano dalla proprietaria stessa (mentre lo dicevamo la proprietaria ha detto al suo avvocato bisbigliano “era mia sorella...!”) ci ha chiesto cosa studiavamo...e basta!!
Il Giudice in questione, famoso per la sua lentezza nel prendere decisioni (persone attendono anni prima che si pronunci), il giorno dopo (venerdì 17) con una e-mail di un rigo comunica al nostro avvocato che dobbiamo lasciare immediatamente l’appartamento, dando la possibilità alla proprietaria di averne completa disponibilità in via di giudizio (quindi tra mesi, anni, mai??). Adesso dobbiamo lasciare l’appartamento? Sottostare a questa pronuncia ingiusta, fondata esclusivamente sulle dichiarazioni di una parte, senza prendere in considerazioni le prove a nostro vantaggio?Vorremmo andare avanti sperando che la verità trionfi, combattendo per i nostri diritti!!! La paura è che ancora e per l’ennesima volta solo i potenti verranno ascoltati... e questo ci tiene in un clima di tensione...Ci siamo appellati a un nostro diritto e chi di dovere non ha seguito le legge e ha basato l’intero processo sui dei racconti contraddittori di una parte senza considerarci! Una battaglia ad armi impari...
Grazie per averci dato voce, Giulia, Edoardo, Greta, Francesco, Emanuele.
Bologna - Centonove proprietari, su 125 che hanno risposto a un apposito questionario, spacciavano per rurale un fabbricato che in realtà non lo era per un'evasione dell'Irpef superiore ai 3,3 milioni di euro e 330.000 euro dell'Ici. C'era poi chi subaffittava in nero un appartamento a otto studenti universitari guadagnando circa 9.000 euro l'anno che ovviamente non ha mai dichiarato per un reddito nascosto al Fisco di circa 64.000 euro.
Sono alcune delle anomalie emerse dopo i controlli della Guardia di Finanza di Bologna per contrastare gli affitti in nero e l'evasione delle imposte con l'escamotage delle abitazioni rurali nel capoluogo emiliano. Controlli svolti in accordo con il Comune e l'Università di Bologna.
IL CARO CASA. Affitti in nero: controlli incrociati. Il 48% dei contratti è irregolare.
E’ quanto emerge dalla prima tranche della campagna indetta da Guardia di Finanza, Comune e Università. Dei 720 studenti a cui e’ stato recapitato il questionario, solo 520 hanno risposto e di questi sono irregolari il 48%.
Meno della metà degli studenti fuori sede, il 48%, ha un contratto d’affitto in regola; e tra gli altri, almeno il 26% è in "nero", o perché il contratto non è stato registrato o perché il proprietario non ha reso noti i redditi nella propria dichiarazione. E’ quanto emerge dalla prima tranche dei controlli incrociati tra la Guardia di Finanza, il Comune e l’Università di Bologna, che oggi hanno lanciato la campagna informativa per la regolarizzazione degli affitti con un manuale, "Affitti in nero, convenienza zero", da distribuire anche tra gli studenti. Ma i tre enti contano sull’effetto-deterrente dei primi controlli, compiuti sulla platea potenziale di 12.500 fuorisede individuati in città.
Dei 720 studenti a cui è stato recapitato il questionario dei finanzieri, solo 520 hanno risposto; agli altri 200, se non invieranno i dati, arriverà una sanzione da 258 a 2.065 euro. Ma anche tra i 520 che hanno inviato la risposta alla Finanza, solo il 48% e’ risultato in regola.
In "nero" sono risultate 135 situazioni, ma altri 86 casi (gli studenti dichiarano di avere un contratto di comodato) verranno approfonditi perchè giudicati poco convincenti. Un altro 9% degli studenti ha invece dichiarato di essere proprietario dell’alloggio mentre con speranza si guarda il 2%, una decina di persone, che ha provveduto subito a regolarizzare il contratto. "Faccio molto affidamento su questo inizio, che avrà anche un effetto deterrenza- spiega il sindaco Sergio Cofferati, alla conferenza stampa tenuta in Comune- l’obiettivo è la regolarizzazione per intero del mondo del ’nero’". Per il primo cittadino quelli emersi "sono numeri molto significativi, non un sondaggio ma numeri che offrono uno spaccato attendibile".
Tra l’altro, gli studenti hanno dimostrato spesso di non conoscere le norme. "Il 69% hanno telefonato o sono venuti da noi- spiega il comandante provinciale della Gdf, il colonnello Pietro Burla- non solo per sapere come dovevano compilare il questionario, ma anche per sapere com’è la normativa". Ma gli accertamenti "incrociati" non riguardano solo gli studenti universitari in collaborazione con Palazzo Poggi che in questo caso ha messo a disposizione i domicili dichiarati dagli universitari fuori sede. Nel mirino del Comune ci sono anche affitti in genere.
"Abbiamo individuato 200 soggetti di cui sappiamo già che non hanno un contratto d’affitto", annuncia l’assessore alla Casa Virginio Merola.
POLIZIOTTOPOLI A BOLOGNA
La denuncia: 'Così la polizia mi ha massacrato' di Paolo Biondani su “L’Espesso”. Le cariche dopo una partita. Le manganellate alla testa. Un mese di coma. Poi il risveglio, ma con un'invalidità che durerà tutta la vita. Poi lui trova la forza di parlare e un'agente coraggiosa fa scoppiare il caso.
Un giovane tifoso del Brescia massacrato a manganellate che finisce in coma. I medici lo danno per spacciato: se ce la farà a sopravvivere, dicono ai genitori, "sarà un vegetale". Dopo più di un mese di buio, invece, il ragazzo si risveglia. Parla, anche se con molta fatica. E' ancora intubato quando, alla fine del 2005, comincia a raccontare tutto a una poliziotta, che ha il coraggio di aprire un'inchiesta sui colleghi. La commissaria indaga in solitudine. Scopre verbali truccati. Testimonianze insabbiate. Filmati spariti. Poi altri poliziotti rompono l'omertà e sbugiardano le relazioni ufficiali di un dirigente della questura. Un giudice ordina di procedere. E adesso, a Verona, sta per aprirsi un processo simbolo contro otto celerini del reparto di Bologna. Una squadraccia, secondo l'accusa, capace non solo di usare "violenza immotivata e insensata su persone inermi", ma anche di inquinare le prove fino a rovesciare le colpe sulle vittime.
"L'Espresso" ha ricostruito i retroscena di quella misteriosa giornata di guerriglia tra tifosi e polizia, con testimonianze e filmati inediti, scoprendo un filo nero che collega tanti casi in apparenza separati di degenerazione delle divise. Un viaggio nel male oscuro che contamina e divide le nostre forze di polizia. "La mia storia è simile a quella di Federico Aldovrandi, Gabriele Sandri, Stefano Cucchi, Carlo Giuliani... La differenza è che io sono ancora vivo e posso parlare". Paolo Scaroni oggi ha 34 anni e il 100 per cento d'invalidità civile. Cammina per Brescia, la sua città, strascicando un piede rimasto paralizzato. La voce esce spezzata e lui se ne scusa ("Sono i postumi del trauma"): "Sono molto legato ai familiari di Aldovrandi. Suonava il clarinetto come me, nelle nostre vicende ci sono coincidenze incredibili. Io sono stato massacrato alle otto di sera, lui è stato ammazzato la stessa notte, sei ore dopo. Ora vogliamo fondare un'associazione: familiari delle vittime della polizia".
Suo padre, bresciano di Castenedolo, capelli bianchi e mani callose, riassume il problema scuotendo la testa: "Ho sempre avuto rispetto delle forze dell'ordine. Ma adesso, quando vedo un'uniforme, non ho più fiducia".
Quello di Paolo è un dolore speciale: "Oggi la cosa che mi fa più male è che mi hanno cancellato l'infanzia e l'adolescenza. Ho perso tutti i ricordi dei miei primi vent'anni di esistenza". La vita del ragazzo senza memoria è cambiata il 24 settembre 2005. Paolo, allevatore di tori, fisico da atleta, è in trasferta a Verona con 800 tifosi. Il suo gruppo, Brescia 1911, è il più popolare e radicato. Hanno un loro codice: botte sì, ma solo a mani nude. "Niente coltelli, no droga", scrivono sugli striscioni. In quei giorni si sentono scomodi: tifosi di provincia che protestano contro "i padroni del calcio-tv" e "le schedature". Dopo la partita, i bresciani vengono scortati in stazione. E qui si scatena l'inferno: tre cariche della celere, violentissime.
L'inchiesta ha identificato 32 tifosi feriti, quasi tutti colpiti alla schiena. Foto e video recuperati da "l'Espresso" mostrano, tra gli altri, una ragazza con il seno tumefatto e altri due giovani con trauma cranico e mani fratturate. Paolo ha la testa fracassata: salvato dagli amici, si rialza, vomita, sviene. Alle 19,45 entra in coma. L'ambulanza arriva con più di mezz'ora di ritardo. Secondo la relazione ufficiale firmata da F. M., dirigente della questura di Verona, la colpa è tutta dei tifosi. Il funzionario dichiara che gli ultras bresciani "occupavano il primo binario bloccando la testa del treno", con la pretesa di "far rilasciare due arrestati". Appena le divise si avvicinano, giura il pubblico ufficiale, "il fronte dei tifosi assalta i nostri reparti con cinghie, aste di ferro, calci, pugni e scagliando massi presi dai binari". La celere li carica "solo per prevenire violenze sui viaggiatori". Paolo non è neppure nominato: una riga nella penultima pagina del rapporto cita solo "un tifoso colto da malore a bordo del treno". Chi lo ha picchiato? "Scontri con gli ultras veronesi", è la prima versione, che crolla subito: la stazione era vuota, dentro c'erano solo i bresciani scortati dagli agenti. Quindi un celerino ne racconta un'altra: Paolo sarebbe stato ferito da "uno dei massi lanciati dagli ultras" suoi amici. Da quel giorno, per tre mesi, i tifosi di Brescia 1911 smettono di andare allo stadio: la domenica vanno a Verona in ospedale a tifare per Paolo. Che il 30 ottobre, quando ogni speranza sembra spenta, improvvisamente si risveglia durante un prelievo di sangue. In novembre la poliziotta Margherita T. riesce a interrogarlo. Mozziconi di frasi, che ricostruiscono il pestaggio: "Erano almeno quattro celerini, con i caschi. Mi urlavano: bastardo. Picchiavano con i manganelli impugnati al contrario per farmi più male". E non volevano solo immobilizzarlo: i referti medici confermano che Paolo è stato colpito "sempre e solo alla testa". La poliziotta interroga il personale del treno. E scopre che la storia dei binari occupati dagli ultras era una balla. "I tifosi erano assolutamente tranquilli, noi eravamo pronti a partire: non ho visto nessun atto di violenza, provocazione o lancio di oggetti", dichiarano i macchinisti. Ma chi ha scatenato il caos? Quattro agenti della polizia ferroviaria testimoniano che "i disordini sono cominciati solo quando la celere ha lanciato lacrimogeni dentro uno scompartimento dove c'erano tante donne e bambini piangenti". Particolare importante: "Prima non avevamo visto nulla che giustificasse il lancio del gas". Solo allora "un centinaio di tifosi, arrabbiati e lacrimanti, ci hanno minacciato, chiedendoci come fosse possibile lanciare lacrimogeni su un treno con bambini". Ma subito, dicono gli stessi agenti, "i capi ultras si sono messi in mezzo, facendo da pacieri, per calmare gli altri tifosi dicendo che noi della Polfer non c'entravamo". In quel momento la celere carica l'intera tifoseria. Seguono 30 minuti di macelleria da Stato di polizia. La verità dei fatti è confermata anche dai funzionari presenti della Digos di Brescia, che la stessa notte cominciano a raccogliere testimonianze e referti dei tifosi feriti. Quindi la poliziotta di Verona scopre che i filmati dei suoi colleghi, che in teoria dovrebbero aver ripreso tutti gli scontri, si interrompono proprio nei minuti in cui Paolo è stato massacrato. Peggio: nella versione consegnata ai magistrati è stato tagliato il commento finale di due agenti. "Adesso il questore ci incarna...". "Ascolta, tu prova a guardare subito le immagini di quando il...". Fine del filmato della polizia. Mentre Scaroni passa altri 64 giorni in rianimazione, i suoi amici di Brescia 1911 si tassano per pagargli le spese legali e imbandierano la curva con uno striscione mai visto: "Giustizia per Paolo". Il tam tam unisce decine di tifoserie rivali. In febbraio Brescia è invasa da ultras di mezza Italia. Un corteo con migliaia di tifosi, preceduto da uno storico abbraccio tra i capi delle curve "nemiche" del Brescia e dell'Atalanta. "Non ci interessa che i poliziotti finiscano in galera, noi vogliamo la verità", dice ora Diego Piccinelli, il responsabile di Brescia 1911. "Nessuno potrà ridarmi la memoria o il lavoro", aggiunge Paolo, "ma il mio processo deve fermare i poliziotti violenti: a scatenare la parte peggiore è la sicurezza di farla franca".
Come molti altri processi contro uomini della legge, però, anche questo naviga controcorrente. Solo la ricostruzione dei fatti, cioè la demolizione delle bugie ufficiali, è durata quattro anni. Il pm di turno a Verona aveva chiesto per due volte l'archiviazione, sostenendo che i caschi impedivano di riconoscere gli agenti picchiatori. Il rinvio a giudizio è stato imposto da un ex giudice istruttore, Sandro Sperandio. Ora finalmente si va in aula: prima udienza il 25 marzo 2011. Ma l'avvocato di parte civile, Alessandro Mainardi, teme un finale all'italiana: "Rischiamo una prescrizione che sarebbe vergognosa. Se non c'è certezza della pena per le forze di polizia, come si può pretendere che i cittadini abbiano fiducia nella giustizia? Sulle responsabilità individuali siamo tutti garantisti. Ma qui, dopo tante menzogne, una cosa è certa: un ragazzo inerme è stato ridotto in fin di vita da una squadraccia che indossa ancora la divisa. Uno Stato civile avrebbe almeno risarcito i danni. Invece, dopo cinque anni, il ministero dell'Interno non si è ancora degnato di offrire un soldo". Tre mesi fa Paolo ha scritto al ministro Roberto Maroni: "La violenza va condannata e l'omertà va combattuta prima di tutto da chi rappresenta la legge". Da Roma nessuna risposta.
Un ex generale della Guardia di Finanza in pensione si è tolto la vita giovedì mattina 1 luglio 2010 a Bologna durante una perquisizione disposta dalla Procura di Bologna nell'ambito dell'indagine sulla società Rimini Yacht. Ci sarebbero state anche altre perquisizioni nei riguardi di altri ufficiali della Finanza ancora in servizio. Tali hanno riguardato dieci persone, tra cui l'ex generale delle Fiamme Gialle. Le accuse contestate sono di corruzione per atti contrari ai doveri d'ufficio, rivelazione e utilizzazione del segreto d'ufficio, omessa denuncia del reato da parte di pubblico ufficiale ed emissione di fatture per operazioni inesistenti.
120 persone rinviate a giudizio, tra cui 30 poliziotti e 2 carabinieri: ma la lista nera si allunga su avvocati, medici e carrozzieri.
Il gioco era semplice: si denunciavano periodicamente sinistri inventati per incassare risarcimenti a catena. Buona la prima: ma il trucco funziona e la cricca persevera fino a quando la città di Bologna salta al secondo posto in Italia (dopo Napoli) per numero di indennizzi automobilistici.
IL CASO UNO BIANCA
Una scia di sangue lunga più di sette anni ha terrorizzato un’intera regione come l’Emilia-Romagna. 23 delitti senza movente, una strage strisciante. Rapine da pochi spiccioli per massacrare benzinai, zingari, extracomunitari, carabinieri, impiegati di banca, semplici testimoni. Un eccidio pianificato, una violenza bestiale per un rebus senza soluzione.
Chi sono i poliziotti assassini della Uno bianca? Folli esegeti dello sterminio, "assassini nati" nostrani o Terminator al servizio di forze occulte? Chi li ha protetti, chi li ha guidati, chi ha tirato i fili di questi burattini armati fino ai denti?
Una Questura inquinata, quella di Bologna. Una magistratura cittadina ciecamente lanciata - e con ostinazione degna di miglior causa – sempre e comunque su piste sbagliate e devianti. 55 innocenti condannati per reati commessi da altri. E in trasparenza una misteriosa trama di appoggi e coperture. Un altro mistero di Stato.
Un gruppo di poliziotti, tre fratelli. Ventiquattro morti, centodue feriti, centotre azioni criminali. Sta dentro queste cifre il bollettino di guerra di sette anni e mezzo di attività criminale della "banda della Uno bianca". A Radio 24, parla Rosanna Zecchi, moglie di Primo Zecchi, una delle vittime della banda Uno Bianca, testimone ucciso dalla banda nell'ottobre del '90. Quello che sentirete é un racconto lucido, preciso, puntuale, denso di rabbia ma mai di rancore.
La storia della Uno Bianca é tragedia e pagina oscura della storia dell'Italia contemporanea, saga familiare e cronaca nera.........
La banda entra in azione nel 1987. Uomini armati, efficienti, decisi, attaccano supermercati, banche, caselli autostradali, distributori di benzina. A Casalecchio sul Reno non rubano niente, un furgone blindato aveva già portato via l'incasso. Uccidono però due carabinieri di 22 anni e feriscono tre persone. Le rapine si succedono una dopo l'altra, almeno una decina e in un'occasione viene colpito il testimone Primo Zecchi. Poi la sparatoria contro due immigrati arabi e l' assalto a un campo di nomadi alla periferia di Bologna. Infine c'é il salto di qualità, l'episodio più sanguinoso e occulto: la strage del Pilastro contro i carabinieri.
Questa é invece la deposizione di Roberto Savi al processo di primo grado davanti alla Corte d'Assise di Bologna proprio sulla strage del Pilastro.
Gli uomini della Uno Bianca sembrano invincibili, le loro azioni fuminee, le vie di fuga sono collaudate ma altri occhi osservano le loro azioni:sono quelli di due sconosciuti poliziotti di Rimini: Luciano Baglioni e Pietro Costanza. Nel novembre del '94 imboccano la pista giusta e si mettono sulle tracce degli assassini. Ripercorrono date e gli orari delle rapine e degli omicidi, controllano i ritratti dei banditi descritti dai testimoni. Ma le indagini ufficiali si concentrano sulla malavita locale o quella catanese d'importazione. Baglioni e Costanza invece conservano un sospetto: gli autori possono essere poliziotti, magari loro stessi colleghi. Sparano troppo bene, conoscono strade e i viottoli. Riescono sempre a fuggire, ad eludere i posti di blocco.
Luciano Baglioni. E' il punto centrale ricostruito anche dalla fiction Uno Bianca che trasmettiamo per gentile connessione della casa di produzione Taodue.
Questa invece non é fiction, é storia vera. E' la mattina del 3 novembre 1994. La svolta. Baglioni e Costanza sono davanti a una banca di San Giustina, in provincia di Rimini. E' un attimo, forse meno di un secondo. Osservano una Uno bianca con la targa talmente sporca da risultare illeggibile. E quindi sospetta. All'interno c'è un uomo alto. Baglioni e Costanza guardano i suoi occhi. Il volto corrisponde all'unica immagine esistente dei killer, quella incisa sul video della telecamera di una delle banche rapinate in precedenza. Ancora non lo sanno, ma davanti a loro c'é Fabio Savi che sta facendo un sopralluogo di fronte a un possibile obiettivo. Inizia la caccia al killer. Lo seguono, lo perdono, lo ritrovano a Torriana mentre sale le scale della sua abitazione, al numero 29 di Piazza della Libertà. Poi se lo vedono sbucare davanti in un bar del paese in un primo, casuale, teso, incontro.
Cinque poliziotti, attrezzati, armati, preparati, senza scrupoli. Con le palette di servizio e i tesserini potevano perfino muoversi lungo le strade della Romagna, senza destare sospetto alcuno. I loro telefoni vengono messi sotto controllo, cominciano i pedinamenti di Fabio Savi. Si scopre chi è a muovere i fili. Il colpo è forte. I Savi vengono catturati insieme ai loro complici. Confessano, poi ritrattano, ma le prove sono talmente schiaccianti ed evidenti da non lasciare dubbi. I Tribunali di Rimini, Pesaro e Bologna li condannano all'ergastolo il 6 marzo 1996.
Chi erano veramente i componenti della Uno Bianca? Fanatici razzisti, rapinatori pieni di scrupoli, schegge impazzite di un disegno più complesso? Dopo il terrore scatenato nell'ex isola felice dell'Emilia Romagna tra il 1985 e il 1994, quattro processi con condanne pesantissime, rimangono molti dubbi. La reale motivazione che ha spinto i fratelli Savi e i loro complici è rimasta oscura. Così come le protezioni di cui hanno goduto, forse troppe per dei semplici rapinatori. C'era una mente dietro quella follia sanguinaria? Rosanna Zecchi é la presidente dell'Associazione tra i familiari delle vittime della Uno Bianca. Almeno lei ha una risposta plausibile.
24 morti, 102 feriti, 103 azioni criminali: la banda della Uno Bianca (così definita perché utilizzava sempre una autovettura di quel tipo e colore) entrò in azione nel 1987. Tre uomini armati, efficienti e decisi, attaccavano supermercati coop, banche, caselli autostradali, distributori di benzina. Sovente il bottino era misero ma costante è l'utilizzo delle armi da fuoco che feriscono e uccidono benzinai, impiegati di banca, carabinieri, guardie giurate, testimoni, passanti.
Dal 1990 i bersagli diventano anche gli abitanti di campi nomadi (23 dicembre 1990) e gli immigrati nordafricani (18 agosto 1991).
Uno degli episodi più sanguinosi è la strage avvenuta al Pilastro (un quartiere popolare di Bologna). Qui, il 4 gennaio 1991 tre carabinieri in normale servizio di pattuglia vennero ammazzati a sangue freddo dagli uomini della Uno bianca.
I componenti di questa banda erano per la maggior parte poliziotti in servizio a Bologna: Roberto ed Alberto Savi (condannati all'ergastolo), Pietro Gugliotta (condannato a 15 anni) e Marino Occhipinti (ergastolo), Luca Vallicelli fu condannato per fatti marginali e patteggiò la pena. Un altro dei fratelli Savi, Fabio era l'ultimo componente della banda e fu condannato all'ergastolo.
BUDRIO ED IL CASO IGOR “IL RUSSO”.
Igor arrestato in Spagna: il killer di Budrio fermato dopo aver ucciso tre persone. Caccia all'uomo nelle ultime ore fuggito nuovamente dopo un conflitto a fuoco: le vittime sono due agenti e il proprietario di un ranch. Il ministro Minniti ringrazia le autorità iberiche e l'Arma dei carabinieri. La vedova Fabbri: "Dovevano ammazzarlo". Gli inquirenti: "In Spagna dall'estate scorsa". Audiencia nacional verso la sospensione dell'estradizione, scrivono Giuseppe Baldessarro e Rosario Di Raimondo il 15 dicembre 2017 su "La Repubblica". È stato arrestato nella notte in Spagna Norbert Feher, meglio conosciuto come Igor, il killer di Budrio. È stato fermato a Teruel dopo uno scontro a fuoco in cui sono morte tre persone, fra cui due militari iberici. Sembra che la Spagna intenda processarlo per questi ultimi crimini prima di concedere l'estradizione all'Italia. La possibilità che Norbert Feher, "Igor", si trovasse in Spagna è una traccia che gli investigatori stavano seguendo dall'estate, legata ad un 'contatto' del latitante. Lo si apprende da ambienti investigativi. La pista più recente battuta portava però in Austria e a Vienna il Pm Marco Forte, titolare dell'indagine della Procura di Bologna, insieme ad alcuni carabinieri è stato in questi giorni, per un raccordo con le forze di polizia austriache. Nelle ultimissime ore era invece tornata a crescere l'ipotesi Spagna. Malaga, Valencia e Madrid sono le città spagnole dove gli investigatori ritengono che Norbert Feher avesse appoggi e dove il serbo si sarebbe spostato in questi mesi di latitanza. E' stato possibile accertarlo grazie a indagini fatte attraverso rogatorie chieste in questi mesi dalla Procura di Bologna alle autorità spagnole, con intercettazioni, tabulati, videosorveglianza. I carabinieri del reparto operativo di Bologna si sono concentrati su possibili contatti, tra i suoi familiari in Serbia, tra conoscenze e frequentazioni italiane, ma anche all'estero. Le indagini su chi ha aiutato il serbo e su come sia avvenuta la fuga dal territorio dei delitto proseguiranno, a partire dal materiale trovato addosso al ricercato al momento dell'arresto. Un'ipotesi, che deve trovare conferma, è che qualcuno lo abbia caricato su un'auto e portato all'estero. Investigatori italiani stanno andando in Spagna per coordinarsi coi colleghi iberici. Sono circa cinquecento le persone controllate in vario modo dagli investigatori. I carabinieri di Bologna e Ferrara, coordinati dal Pm Marco Forte, hanno interrogato, intercettato, pedinato e tenuto sott'occhio una serie di possibili contatti del latitante, seguendo diverse tracce. Le prime attenzioni si erano rivolte alla Serbia, ai familiari del killer, poi si sono estese a altri paesi tra cui proprio la Spagna, con una rogatoria per svolgere attività d'indagine partita a luglio e contatti frequenti tra i carabinieri e la polizia nazionale spagnola, informata della possibile presenza del killer nel Paese. Alcune squadre di militari italiani erano stati mandati in Spagna, pronti a intervenire in qualsiasi momento. Il ministro dell'Interno Marco Minniti, da Rimini, esprime "un ringraziamento alle autorità spagnole, all'Arma dei carabinieri e il pensiero va alle vittime di Budrio e alle vittime in Spagna". "Ho incontrato i familiari delle vittime - aggiunge - ma li hanno incontrati soprattutto coloro che svolgevano l'attività investigativa e del controllo del territorio. Con loro hanno messo in campo un piccolo patto d'onore, ma ora è naturalmente chiaro che dal momento in cui questo piccolo patto d'onore giunge a compimento, il pensiero non può non andare a coloro che sono morti in Italia e in Spagna". Il conflitto a fuoco è avvenuto nella zona di El Ventorrillo, compresa tra le città di Teruel in Andorra e Albalete del Arzobispo. Feher è stato poi arrestato nel cuore della notte, intorno alle 2.50, a Teruel, dopo un incidente stradale mentre fuggiva. L'uomo non ha opposto resistenza. Con sé aveva tre armi corte, due delle quali in dotazione della polizia spagnola. Le impronte digitali prese all'uomo catturato hanno dato agli inquirenti la conferma di trovarsi proprio di fronte al ricercato che ha seminato terrore e panico nelle campagne fra Bologna e Ferrara dalla primavera scorsa, come sottolinea la Scientifica italiana che parla di "riscontro dall'esito largamente positivo". Il nome di Feher e il suo identikit erano stati segnalati dai Ros alla polizia spagnola. "Il tutto - sottolinea il ministro Minniti - è frutto di un'attività investigativa che è partita dall'attività di indagine dell'Arma dei carabinieri. Di recente in Spagna c'era stato un reparto del Ros che aveva segnalato alla Guardia civil il possibile luogo dove si poteva nascondeva Norbert Feher, a testimonianza di un'attività investigativa mai cessata. Abbiamo sempre detto dal momento in cui la vicenda è diventata drammaticamente presente nel nostro Paese che noi non avremmo mai mollato". L'operazione, aggiunge ancora il titolare del Viminale, "è stata coordinata dalla procura di Bologna: ho appena sentito il procuratore Giuseppe Amato - ha detto - che ho sinceramente ringraziato per il lavoro investigativo fatto. C'è stata una sintonia d'indagine tra la Procura di Bologna e l'attività dei carabinieri che considero particolarmente importante". "Fatto le mie condoglianze a @marianorajoy per i due agenti e per il cittadino spagnolo uccisi stanotte nel corso dell'arresto del criminale #igor Il mio pensiero va alle vittime di Budrio e alle loro famiglie". Lo scrive su twitter il premier Paolo Gentiloni. Il procuratore capo di Bologna Giuseppe Amato spiega che "ci sarà la nostra richiesta di estradizione, che dovrà fare i conti con il fatto che il Paese richiesto dell'estradizione ha nell'attualità un procedimento penale per fatti gravissimi commessi in quel territorio. A parti invertite sarebbe la stessa cosa: se noi avessimo arrestato il latitante 'spagnolo' e ci fossero state delle morti in Italia, è chiaro che avremmo proceduto in Italia e non avremmo rinunciato alla nostra giurisdizione. Certamente processeremo Igor secondo le norme e dovremo coordinarci". E commentando la svolta delle ultime ore sottolinea come ci sia "l'orgoglio di uno Stato che non abbandona i suoi morti, le indagini sono proseguite con una fatica e una costanza che potete immaginare, da quest'estate ci siamo mossi in direzione della Spagna, siamo a dicembre, cosa che dimostra che l'impegno c'è stato, e la Spagna non è stato l'unico fronte su cui ci siamo mossi". Ma dalla Spagna arriva indirettamente una risposta di segno opposto. Fonti citate dal quotidiano El Pais parlano di una probabile sospensione dell'estradizione del killer. Ovvero la consegna all'Italia - che nei suoi confronti aveva spiccato un mandato di cattura europeo - sarà sospesa dall'Audiencia nacional iberica "fino al processo o fino all'esecuzione della pena" per gli omicidi commessi in Spagna. Già domenica il serbo comparirà in videoconferenza davanti alla giudice Carmen Lamela che gli notificherà i crimini per i quali è ricercato in Italia.
LE VITTIME DEL KILLER. "Igor il russo" era ricercato in Italia e all'estero per gli omicidi del barista di Budrio Davide Fabbri (il 1° aprile scorso) e della guardia ecologica volontaria Valerio Verri (l'8 aprile) nelle campagne intorno a Portomaggiore e sospettato anche dell'uccisione del metronotte Salvatore Chianese (avvenuta nel 2015). Le persone uccise nel conflitto a fuoco di ieri sera sono gli agenti Víctor Romero Pérez, 30 anni, e Víctor Jesús Caballero Espinosa, 38 anni: facevano parte di una squadra del distaccamento di Alcaniz dedicata ad indagini sui furti nell'ambiente rurale, come fattorie o allevamenti di bestiame. Entrambi erano senza uniforme. Secondo fonti citate da El Mundo Online, "Igor il russo" "sapeva dove sparare perché ha ferito mortalmente i due agenti che non hanno avuto il tempo di sparare". La terza vittima è José Luis Iranzo, un proprietario di ranch che stava accompagnando i due agenti alla ricerca di un uomo che il 5 dicembre aveva assaltato una fattoria in zona ferendo due persone: quel giorno, riporta ancora la testata spagnola, un uomo di 72 anni aveva tentato di entrare nella sua casa di campagna, accompagnato da un fabbro, per cambiare la serratura che da alcuni giorni risultava bloccata. I due erano quindi stati sorpresi da un uomo, probabilmente Igor, che gli ha sparato a bruciapelo, ferendo il fabbro a un braccio e il proprietario della casa nel fianco. Parla con rabbia piangendo anche la moglie della prima vittima accertata, Maria Sirica, vedova del barista Davide Fabbri. "Dovevano ammazzarlo, come può vivere uno così? Ha ammazzato persone innocenti. Spero che almeno sconti la pena dovuta e che possa essere finalmente fatta giustizia. Anche se questo non potrà mai cambiare il mio dramma". C'è un'altra famiglia che in queste ore "non può gioire" di quanto accaduto in Spagna. Sono i figli dell'altra vittima, Valerio Verri. "Non possiamo certo dichiararci soddisfatti" perché la cattura di Feher "è costata la vita ad altre tre persone. Il nostro pensiero va a loro", dichiarano Francesca ed Emanuele Verri. "Ancor di più vogliamo rivolgere la nostra attenzione verso coloro che hanno mandato nostro padre allo sbaraglio a fare un'attività di perlustrazione pericolosissima, disarmato e in una zona dove ben si sapeva che Igor vi si nascondeva. Nostro padre era 'un civile', semplice pensionato e volontario". Davanti al bar alla frazione Riccardina - dove fu ucciso Fabbri - le auto passano suonando i clacson. Il sindaco di Budrio, Maurizio Mazzanti, parla di "una bella notizia" che naturalmente "non cancella il dolore per le morti che ha provocato". L'esito delle lunghe indagini però, "mi conferma la fiducia che ho sempre avuto nei confronti delle Forze dell'ordine e della giustizia". L'omologo di Molinella, Dario Mantovani, scrive: "La cattura non sia il tappeto sotto il quale nascondere la polvere: quando un criminale deve essere espulso, va espulso. Prima che ammazzi due persone". "Non può che esserci soddisfazione per ciò che oggi le forze di polizia hanno compiuto per assicurare alla giustizia un criminale. Ma non può che esserci anche silenzio e raccoglimento per le ennesime perdite subite. Non riesco a gioire fino in fondo perché ancora troppo vivo è il dolore che questa vicenda ha lasciato in tutti noi e nelle nostre comunità". E' il commento su Facebook del sindaco di Portomaggiore (Ferrara), Nicola Minarelli. Il sindaco di Bologna Virginio Merola commenta: "In questo momento il mio primo pensiero va alle famiglie Fabbri e Verri, vere vittime di questa tragedia che per loro continuerà per sempre. Voglio inoltre esprimere la mia vicinanza alle comunità di Budrio e Molinella che hanno condiviso il dolore e la rabbia sapendo però mantenere la calma nonostante mesi lunghi e difficili. Un plauso ai sindaci che hanno mantenuto unite le loro comunità in una situazione inedita di stress e pressioni fortissime. Mi complimento infine con i carabinieri per la tenacia con cui hanno lavorato in tutti questi mesi". Per il governatore Stefano Bonaccini "è la fine di un incubo, in particolare per le nostre comunità. Ora, l’auspicio è che si arrivi alla determinazione di tutta la verità nell’ambito di un percorso processuale rapido, in primo luogo per il rispetto che si deve alla memoria di tutti coloro che hanno perso la vita, a cominciare da Davide Fabbri e Valerio Verri".
Il killer arrestato in Spagna, tradito da un colpo di sonno. Dall’uccisione del barista di Budrio alla sparatoria con due guardie, fino all’ultima sparatoria con la Guardia Civil: 3 morti, scrive Marco Imarisio, inviato a Teruel (Spagna), il 16 dicembre 2017 (è indicato 9 aprile 2017) su "Il Corriere della Sera". Il posto si chiama El Ventorrillo, la bettola, e sarebbe anche un bel posto di campagna, se non ci fossero quelle chiazze di sangue, proprio qui davanti all’ingresso del Mas del Saso, un casolare abbandonato di proprietà degli Iranzo, una storica famiglia di allevatori e sindacalisti della Unìon de Agricoltores Y Ganaderos de Aragòn. Ce ne sono tre, distanti un paio di metri l’una dall’altra, disposte quasi a triangolo sullo sterrato polveroso davanti a un rudere sventrato, al quale manca metà del soffitto e una intera parete esterna. La prima, davanti a una delle due porte della facciata ancora intatta, copre un gradino di pietra e appartiene a Josè Luis Iranzo, 39 anni, una moglie e una bambina di pochi mesi. Alle 18 di mercoledì era uscito dalla sua casa di Andorra, un paesino di semila abitanti, del quale era presidente della cooperativa locale. Si era fermato ad Alcaniz davanti alla caserma della Guardia Civil e aveva caricato sul suo pick up Triton Mitsubishi gli agenti Vìctor Romero Pèrez, 30 anni, anche lui appena diventato padre, e Vìctor Jesus Caballero Espinosa, 38 anni. S0no due agenti del Roca, la sezione che si occupa dei furti nelle fattorie, soprattutto quelli di bestiame. Partono per l’altipiano sopra Teruel, laddove un tempo sorgeva la città mineraria. La bettola doveva essere una specie di posto ristoro, oggi è soltanto una delle poche abitazioni di una pianura brulla e spazzata dal vento, che si distende a perdita d’occhio fino all’orizzonte dominato dal monte Javalambre. La provincia di Teruel è una delle aree più desolate della parte meridionale dell’Aragona, che già di suo è una delle regioni meno abitate di Spagna. I tre uomini stanno facendo il solito giro. I gendarmi sono in borghese, armati solo delle loro pistole d’ordinanza nelle fondine. Non sanno, non possono sapere. Nelle due settimane precedenti ci sono state alcune incursioni in fattorie della zona. Non è il solito furto di bestiame per i quali è nato il Roca. Qualcuno entra di notte nelle proprietà altrui e cerca di rubare più cibo che può. Una volta è sparita addirittura la ciotola dalla cuccia di un cane. L’animale è stato ammazzato con un colpo di pistola alla testa. Lo scorso 5 dicembre Manuel Andreu, un contadino di settant’anni, si è preso una pallottola in pancia mentre stava armeggiando con il fabbro per sistemare la serratura di un suo casale disabitato ad Albalate de Arzobispo, il paese più vicino all’altipiano. Un uomo, «molto alto, dallo sguardo fisso», è uscito da una finestra al pianterreno. Ha sparato due colpi, ferendo a un braccio anche l’operaio, ed è fuggito a piedi. I due uomini del Roca non sanno davvero nulla di Norbert Feher detto Ivan il russo, non sanno dei due uomini ammazzati come cani lo scorso aprile, il barista di Budrio Davide Fabbri e la guardia ecologica Valerio Verri. Non sanno di quel mese di surreale caccia all’uomo fatta dai Carabinieri nella bassa ferrarese, dove la cattura dell’assassino sembrava ogni giorno cosa fatta, peccato a che a sera si trovava sempre qualche casolare caldo, qualche giaciglio di fortuna, e mai lui. Questa è la bassa Aragona, questa è una altura fuori dal mondo dove alle otto di sera del giorno dopo, c’è solo buio e nessuna luce nei dintorni, e si sentono solo cani che abbaiano in lontananza e neppure il rumore di un’auto che passa. Così Josè Luis Iranzo si avvicina alla porta del rudere accompagnato dai due agenti. Pare che siano stati ammazzati tutti e tre da colpi sparati dall’interno, a distanza ravvicinata, massimo un paio di metri. Erano padri, mariti, esattamente come le vittime italiane. Quella era la tana del lupo che si era venuto a rifugiare in un altro posto fatto di silenzi e case sparse e crollate, proprio come i dintorni di Portomaggiore sette mesi fa. Feher ha scaricato la sua pistola, che secondo fonti investigative italiane potrebbe essere quella usata anche per uccidere Fabbri. Sfila le Beretta dalle cinture dei due gendarmi, sale sul pick up verde di Iranzo. E sparisce, un’altra volta. Ma l’epilogo è diverso da quello italiano. La zona viene circondata, da Madrid arriva l’equivalente delle nostre teste di cuoio. L’assassino resta fermo a lungo, nascosto da qualche parte. In sette ore di fuga percorre infatti soltanto 85 chilometri. Lo catturano alle 2.50 della notte, ed è quasi una operazione di soccorso. Mentre guidava verso sud sulla A-226, la statale che attraversa l’Aragona, all’altezza del paese di Cantavieja esce di strada. Forse ha avuto un colpo di sonno, di certo c’è che nessun altro veicolo è rimasto coinvolto nell’incidente. A due chilometri di distanza lo aspettava un posto di blocco. Gli uomini della Guardia civil lo trovano intontito, quasi esanime. Sul sedile accanto ci sono le tre pistole. È finita. La leggenda di Igor il russo n0n è mai cominciata, nè dovrebbe farlo ora. Non c’è epos, nella sua fuga. Appare smagrito e smunto, gli investigatori italiani che arriveranno questa mattina sostengono che avrà perso almeno dieci chili. La sua non è stata vita ma sopravvivenza, un uomo ridotto allo stato animale che per sfuggire a quel che gli spetta è finito in uno dei luoghi più remoti d’Europa. Lo cercavano a Malaga, a settecento chilometri da qui. Che sia stata solo fortuna pagata a caro prezzo o altro, adesso è nella caserma di Alcaniz, dove resterà fino a domenica mattina, quando lo porteranno in tribunale dove potrebbe essere interrogato in videoconferenza anche dall’Italia. Ma l’estradizione appare ovviamente difficile, ha ucciso e ferito anche qui. Poco importa. Al suo complice Ivan Pajdek confidò che sarebbe morto piuttosto di tornare in carcere perché quei pochi mesi trascorsi nel penitenziario di Ferrare erano stati l’esperienza peggiore della sua vita. Invece ci rimarrà per sempre. Giusto così.
Arrestato in Spagna «Igor il russo»: dalle ricerche in Brasile al mistero dei profili Facebook rimossi. Dopo gli efferati omicidi a Budrio e a Ferrara, Igor il russo alias Norbert Feher, era sparito nel nulla nonostante le imponenti ricerche. Diventando un «fantasma» segnalato ovunque, pure in Brasile. Gli aiuti della «mala» e i profili Facebook cancellati, scrive il 15 dicembre 2017 Alessandro Fulloni su "Il Corriere della Sera". Un fantasma. Un fantasma però sparito grazie a complicità e misteri tutti da chiarire, a partire da quella — letteralmente «inspiegabile» per gli inquirenti — cancellazione dei suoi profili Facebook pochi giorni prima delle efferate uccisioni ad aprile del barista a Budrio e della guardia ecologica nel Ferrarese. Subito dopo la caccia a «Igor il russo», (arrestato ieri in Spagna dopo una sparatoria che ha provocato tre morti) , che però non si chiama Igor ed è nato in Serbia, era stata condotta palmo a palmo attorno al Polesine, in quelle zone a cavallo tra il Rovigotto e la Bassa che lui conosceva a menadito perché erano state, in passato, il teatro delle sue scorrerie criminali e i posti in cui si nascondeva dopo ogni rapina sparendo nel nulla. Ma nonostante avesse alle costole i migliori reparti (Gis, Tuscania, Cacciatori di Calabria) che gli erano giunti a un palmo, Norbert Feher, alias Igor Vaclavic e chissà che altro, è parso subito irrintracciabile. Una sparizione da fantasma, in bilico tra fake news e misteri. Siamo a fine giugno quando in Procura, a Bologna, arriva da Roma una nota riservata dello Sco, il Servizio centrale operativo della Polizia. Poche righe per rivelare che «una fonte confidenziale attendibile» avrebbe notizie importanti sulla presenza, in un Paese del Sudamerica, «del noto latitante serbo Norbert Feher, alias Igor Vaclavic il Russo». Marco Forte, il pubblico ministero che si occupa del caso, chiede a Roma una relazione dettagliata attraverso la squadra mobile bolognese. E la relazione arriva, in realtà senza troppi dettagli in più. Stavolta si dice in sostanza che un agente è stato inviato in Brasile per approfondire la dritta della fonte confidenziale (da qui si deduce che il Paese del Sudamerica sarebbe, appunto, il Brasile) e che però, proprio quando l’inviato è arrivato laggiù la polizia carioca ha arrestato la fonte.
Le false segnalazioni si sono susseguite. Dunque zero contatti, tutto rinviato. Da allora (ma anche nel frattempo), le false segnalazioni si sono susseguite: Modena, Bologna, Parma, Piacenza, Verona, Nord, Sud. Molte erano palesemente infondate, ma quelle che venivano prese sul serio (comunque tante) obbligavano i reparti speciali, dai Nocs ai Gis, passando anche per la Finanza (ma talvolta vennero allertati anche i commandos del Col Moschin) a spostamenti per interventi rapidissimi, sempre con i nervi tesi e le dita pronte sul grilletto. L’ultimo allarme risale al 23 novembre, alla stazione di Rimini: qualcuno diceva di averlo visto sul Frecciabianca 8809. Sessanta specialisti di carabinieri e polizia subito attorno alla stazione. I controlli poi evidenziarono che la persona sospettata era un cittadino italiano, originario del Napoletano, e non di Igor. A settembre altro blitz analogo a Milano, dove sarebbe stato visto nella frequentatissima piscina Argelati. Ma il mistero resta anche sulla rete di complicità che lo avrebbe aiutato a sparire. Ritrovandolo nella sparatoria in Spagna. Qualche giorno fa la procura di Bologna ha indagato cinque persone per favoreggiamento. E ancora: c’è quel suo comportamento «inspiegabile» fra il 10 e il 21 marzo ha gradualmente spento i suoi contatti con il mondo. Prima degli omicidi in Emilia.
Oscurati i profili Facebook. Un giorno dopo l’altro ha oscurato i suoi profili sui social network, a partire da Facebook, ha disdetto una appresso all’altra le schede telefoniche che aveva a disposizione, ha evitato accessi a Internet che richiedessero password usate fino a quel punto e si è cancellato da WhatsApp. Dal primo giorno di primavera in poi tutto ciò che fino a quel momento si poteva collegare a lui per via telematica è stato chiuso. Zero. Se fosse accaduto dopo i due omicidi per i quali si è poi scatenata una gigantesca caccia all’uomo (il delitto del barista Davide Fabbri a Budrio e quello della guardia ecologica Valerio Verri a Portomaggiore) spegnere tutto e sparire sarebbe stato un passaggio logico. Ma — tenendo conto del fatto che i suoi delitti non sono stati premeditati — perché farlo dieci giorni prima? Domande a cui forse adesso si potrà cominciare a dare una risposta.
Chi è Norbert Feher (o Igor Vaclavic): il killer di Budrio è un bandito dai mille volti. Il killer di Budrio è la figura criminale più sfaccettata e sfuggente degli ultimi anni: da Ezechiele a Norbert, un lupo feroce capace di sembrare agnello, scrive Valerio Varesi il 15 dicembre 2017 su "La Repubblica". “Igor il russo” è forse la figura di delinquente più sfaccettata e sfuggente degli ultimi anni. Quarantuno anni, serbo, il killer di Budrio catturato in Spagna dopo oltre otto mesi di fuga, è riuscito a costruire attorno a sé un rosario di identità pari solo alla sua capacità di travestimento mutando di volta in volta la propria immagine come un Fregoli della malavita. A cominciare dal nome, Igor Vaclavic di nazionalità russa col quale è riuscito ad ingannare gli inquirenti italiani e le autorità carcerarie che lo hanno tenuto in prigione senza accorgersi che la sua identità era fasulla. Prima di essere ricercato per gli omicidi del barista di Budrio Davide Fabbri e della guardia ecologica Valerio Verri nella campagna tra Bologna e Ferrara, “Igor” trascorse alcuni anni in galera sotto falso nome. Fu così bravo a farsi parere un altro che quando le autorità serbe, che ne chiedevano l’estradizione per reati di violenza e stupro, chiesero a quelle italiane se avessero in custodia un tal Norbert Feher, il suo vero nome, dall’Italia arrivò un no. In carcere da noi amava farsi chiamare “Ezechiele”, un soprannome tra il cartone animato (di cui era affezionato) e reminiscenze bibliche, raccontando di essere stato un militare dell’Armata rossa che aveva combattuto in Cecenia e vantandosi di eseguire ogni giorno centinaia di flessioni. Una condotta integerrima in galera. Si dedicava alla lettura, ai programmi televisivi che tramettevano cartoons (diceva che il padre non glieli faceva mai vedere), mai uno screzio e persino il cappellano delle carceri, di cui s’era fatto amico, testimoniò della sua presunta redenzione. Feher è in realtà un trasformista di aspetto e personalità. Un lupo feroce che ama farsi passare per un agnello all’occorrenza. Il suo aspetto fisico è perennemente cangiante: a volte pare un rappresentante di gioielli, altre volte un barbone, altre ancora un distinto signore o uno sportivo in tuta. Si presenta con la barba e senza, con gli occhiali, col cappello, con una valigetta 24 ore. E’ quanto di più sfuggente si possa immaginare. Ha pure distrutto ogni traccia della sua vita. Si sa che ha forse una madre e una sorella in Serbia, ma non è certo. Non si sa dove abbia vissuto, dove abbia viaggiato, cosa abbia fatto nel passato, a parte il suo curriculum criminale. Non ha un indirizzo, né amici (salvo i componenti della banda con cui assaltava le case degli anziani), né una compagna. Il vuoto. Ha solo un profilo Facebook che aggiorna di tanto in tanto aggiungendo delle immagini di sé. A internet, tuttavia, si collega solo approfittando del Wi-Fi libero dei centri commerciali, poi anche lì il buio. Attorno a lui la nebbia che adesso gli inquirenti cercheranno di dissolvere.
Budrio: chi è il killer del barista. L'ex militare russo Norbert Feher, alias Igor Vaclavic, era ricercato per l'omicidio di due persone. Arrestato in Spagna, ha ucciso ancora, scrive il 15 dicembre 2017 Chiara Degl'Innocenti su Panorama. Si chiama Norbert Feher, il "russo" (che in realtà è un cittadino serbo di Subotica) che conta una manciata di alias tra cui Igor Vaclavic, arrestato il 15 dicembre (dopo un conflitto a fuoco) per l'omicidio del barista di Budrio e della guardia provinciale di Portomaggiore, avvenuto nel bolognese il 1 aprile. Secondo gli accertamenti tecnici questo sarebbe il suo nome definitivo. Norbert Feher ha 41 anni, un passato nella fanteria dell'Esercito russo e diversi precedenti penali. Sul militare russo pende un mandato di arresto europeo per tre rapine commesse nel 2015 in provincia di Ferrara e il sospetto che sia stato sempre lui ad assaltare una guardia giurata a Consandolo la sera del 29 marzo per rapinarla di una pistola, una Smith&Wesson calibro 9 argentata. E proprio quell'arma potrebbe essere stata usata nel Bolognese per uccidere il barista Davide Fabbri, 52 anni. Questo il nesso, tutto da dimostrare, che lega l'ex latitante russo all'omicidio di Budrio. Ad aprile nei confronti di Feher non c'erano elementi che potessero portare a un arresto, ma già mesi fa se rintracciato, sarebbe stato fermato perché ritenuto il principale sospettato, in cima nella lista dei ricercati per l'assassinio del barista. Le foto segnaletiche del militare sono state infatti sui cruscotti delle auto delle forze dell'ordine per nove mesi tanto che la caccia si era estesa ad altri ambienti, come i trasporti e gli ospedali dove il killer del barista poteva essere andato per farsi medicare da ferite che gli sarebbero state inferte durante la colluttazione con il proprietario del locale di Budrio. Poi il 15 dicembre la svolta. Avvistato a Saragozza dalla polizia, avrebbe fatto fuoco per tentare la fuga uccidendo due poliziotti e un passante. Ma la Guardia Civil, però, lo avrebbe comunque arrestato. Tra tanti dubbi però le indagini finora condotte avrebbero portato a una analogia: il colpo di Consandolo (Ferrara) avvenuto la sera del 29 marzo (che si ricorda essere stato compiuto da un uomo armato di doppietta da caccia che aveva sfilato a una guardia giurata la pistola, una Smith&Wesson, simile per forme e calibro alla pistola usata per uccidere Davide Fabbri) è stata ritenuta una delle piste più importanti. Altra cosa certa è che Feher, uscito dal carcere nella primavera del 2015, ha vissuto nella Bassa per almeno 10 anni. Qui nel 2007 era stato arrestato per aver rapinato agricoltori, minacciati con arco e frecce, tra Ferrara e Rovigo. Faretra sulle spalle, coltello legato ad una gamba, una bandana nera in testa. Look e armamentario da pellerossa, come il soprannome "Lupo Solitario" che si dice gli sia stato affibbiato in prigione. Così lo hanno sempre descritto coloro che hanno avuto a che fare con lui ma che per paura non l'avevano denunciato. Ora l'incubo è finito.
Igor il russo, un "ninja" addestrato militarmente. Lo spietato criminale dai mille volti, capace di cavarsela sempre, scrive Fausto Biloslavo, Sabato 16/12/2017, su "Il Giornale". Ivan, Igor, il russo, Rambo, ninja, nomi falsi e di battaglia si sprecano nella leggenda criminale di Norbert Feher, detto Ezechiele. Il «lupo» trasformista, che ha terrorizzato le campagne fra Bologna e Ferrara, super-ricercato da 8 mesi, con 50mila euro di taglia sulla testa, finalmente catturato in Spagna. Il suo passato è ancora avvolto nel mistero a parte la certezza che sia originario di Subotica, una mesta cittadina serba vicina al confine con l'Ungheria. Classe 1976, si sarebbe fatto le ossa come soldato dell'Armata rossa combattendo addirittura in Cecenia secondo il romanzo criminale che si è cucito addosso. Non si capisce bene come, dato che la Russia e pure l'ex repubblica sovietica dell'Uzbekistan giurano che non sia mai stato un loro cittadino. La polizia serba, al contrario, ricercava per stupro e violenze proprio Norbert Feher, ma il criminale dai mille volti era riuscito a farsi passare e condannare in Italia a 5 anni e 8 mesi di carcere come Igor Vaclavic. Da qualche parte deve avere imparato a maneggiare le armi con destrezza e in maniera spietata. Troppo giovane per il carnaio bosniaco potrebbe essersi fatto le ossa in Kosovo, dove molti serbi di Subotica arruolati nei resti dell'esercito jugoslavo o nei gruppi paramilitari si sono sporcati le mani di sangue durante la guerra con la Nato del 1999. Nel 2005 si materializza in Italia dopo la fuga dalla Serbia e inizia a coltivare la sua leggenda criminale. Le prime razzie le mette a segno vestito di nero con un coltellaccio alla Rambo legato alla gamba. Contro le malcapitate vittime punta arco e frecce. I contadini del Polesine lo battezzano subito il «ninja». Poi passa al casco di motociclista e l'accetta, ma dimostra di conoscere bene le tattiche di combattimento e mimetizzazione di stampo militare. Non solo: è un vero camaleonte che facendosi crescere la barba, tagliandosi i capelli, in tuta o impeccabile con una valigetta 24 ore riesce a cambiare aspetto e identità. A tal punto che quando lo prendono la prima volta si spaccia per Igor il russo e convince il cappellano del carcere della sua falsa redenzione. Dietro le sbarre fa il bravo, ma continua a mantenersi in forma fisica con flessioni ogni mattina come un soldato. Si fa chiamare Ezechiele, nome del «lupo» dei fumetti ed in tv ama i cartoni sostenendo che da piccolo gli erano proibiti dal padre. Vero o falso che sia riesce a non farsi espellere, grazie alla falsa identità ed una volta uscito di galera torna a seminare il terrore con rapine e omicidi. Di nuovo utilizza tattiche da combattimento per sfuggire a un migliaio di uomini delle forze dell'ordine compresi i carabinieri paracadutisti del reggimento Tuscania, che sono veterani dei fronti più caldi delle nostri missioni all'estero. La leggenda vuole che sia rimasto per ore nell'acqua paludosa respirando con una canna di bambù sfuggendo ai cani molecolari lanciati sulle sue tracce. Prima di farsi catturare in Spagna ha ammazzato come un lupo scovato nella sua tana.
Quattro anni in cella con Igor. «5.000 flessioni al giorno, dopo la cresima è diventato Ezechiele». Parla Mirko (nome di fantasia) a lungo compagno di carcere del fuggitivo accusato di due omicidi: «È in perfetta forma fisica, con il coltello dice di poter scuoiare chiunque. Voleva guardare solo documentari e cartoni animati, quelli che il padre gli proibiva», scrive Alessandro Fulloni il 17 aprile 2017 su "Il Corriere della Sera". Mirko, il nome di fantasia dell’ex compagno di cella del fuggitivo. Le vere iniziali del romagnolo sono G. S. Romagnolo, 38 anni, una bimba e una compagna. Schietto, l’aria da ribaldo (che lo rende piuttosto simpatico) nato e cresciuto da queste parti, tra piadine, sangiovese, risse, coltelli e burrasche, nelle vicinanze di Lugo. Un inciampo con la legge che lo ha portato in carcere per rapina. Cinque anni e tre mesi. Poi la convinzione - che sembra davvero una certezza - di essersi finalmente incamminato lungo una via più retta. Del suo passato Mirko (non è il suo vero nome) si limita dire: «Ho accompagnato uno a fare quel colpo. Poi hanno acchiappato me». E ancora: dentro «non me la sono cantata, non ho fatto il nome di nessuno», rivendica orgoglioso nel corso di una chiacchierata al telefono. Nel carcere di Ferrara Mirko ha condiviso la cella - «esattamente per quattro anni e tre mesi» - con Igor Vaclavic il russo, alias Norbert Ezechiele Feher, il killer ricercato per gli omicidi del barista Davide Fabbri, ammazzato la sera del 1° aprile a Riccardina di Budrio durante un tentativo di rapina, e della guardia ecologica volontaria Valerio Verri, assassinato una settimana dopo nella zona di Portomaggiore mentre era impegnato con un collega della polizia provinciale in un servizio anti-bracconaggio. Dunque Mirko, partiamo dall’inizio: ma qual è il vero nome dell’uomo in fuga oramai da diciassette giorni? «Nel suo cartellino identificativo c’era marchiata questa identità: Igor Vaclavic, nato in Russia il 21 febbraio 1977. Non credo avesse ragione di mentirmi, non ce n’era bisogno». Come succede nelle carceri, certe conoscenze ti segnano. Mirko ammette subito: «Igor è uno fuori dal comune, uno davvero particolare, conosce bene le lingue, sicuramente il cinese e il serbo. È in forma fisica perfetta: in cella era capace di fare cinquemila addominali ogni giorno, salvo la domenica perché andava a messa. Cominciava puntuale alle sette e se si stancava ci chiedeva di legargli le gambe al letto per obbligarlo a continuare con le flessioni». Il mese scorso Igor ha contattato Mirko, forse si sono visti o forse no. Su questo Mirko non vuole raccontare molto perché quel che è davvero successo lo ha rivelato unicamente ai carabinieri del Ros. Che sulle prime sono arrivati a casa sua, oramai una decina di giorni fa, con il passo del blitz. Gli investigatori avevano ipotizzato inizialmente che Mirko avesse in qualche modo dato assistenza logistica al suo ex compagno di cella. Il romagnolo è però riuscito a dimostrare con testimonianze e riscontri che lui non c’entrava niente con quegli aiuti forse forniti da qualcun altro, resta la convinzione degli investigatori che in queste ore stanno scandagliando altri legami tra il ninija russo e le sue ex. Resta il tentativo di contatto indirizzato da Igor Vaclavic probabilmente da Valencia dove deve avere soggiornato per motivi da chiarire, tanto che sul profilo Facebook del ricercato compaiono delle frasi in automatico in spagnolo. Da Valencia «Igor il russo» è approdato in Italia. E poi in Romagna, nei luoghi «suoi», quelli delle rapine efferate, quelli che poi ha insanguinato. Mirko ricorda che il russo raccontava di essere un soldato dei reparti speciali siberiani - usa questo termine - impiegato nelle ricerche dei latitanti e in missioni pericolose nella steppa. Chissà, forse uno spietznaz, un commando addestratissimo. «Non è mai entrato nei dettagli, so solo che a un certo momento dice di avere disertato, non ha mai voluto spiegare il perché. Sosteneva di avere cancellato con il coltello il numero di matricola che aveva tatuato sulla caviglia interna sinistra dove aveva in effetti una cicatrice». Avrebbe lasciato in Russia una compagna e una figlia. Che sia pericoloso è fuor di dubbio: «Diceva che con il coltello avrebbe potuto scuoiare vivo un uomo». Ma gli alias successivi? «A un certo momento si convertì, da cristiano ortodosso divenne cattolico. Lo cresimò il parroco del carcere. Ricordo che passammo un mese a cercare un nome, ne voleva uno religioso: e scelse quelli di Ezechiele Norbert. Curioso, ci ho pensato dopo, rivedendo Pulp Fiction: Ezechiele era il profeta delle citazioni bibliche di fantasia nelle uccisioni del killer». Per gli esegeti di Tarantino, la frese in questione era esattamente questa: «Il cammino dell’uomo timorato è minacciato da ogni parte dalle iniquità degli esseri egoisti e dalla tirannia degli uomini malvagi...». Quanto alle abitudini di «Igor il russo», Mirko ricorda la sua predilezione per «documentari e soprattutto cartoni animati. In cella non potevamo vedere nient’altro. Spiegava che era una specie di rivalsa nei confronti del padre che da bambino gli proibiva di vedere i cartoni». Le lingue le parlava davvero bene: «Prendeva appunti in ideogrammi per evitare che leggessimo e poi traduceva a un detenuto cinese analfabeta le lettere della moglie». Ma gli omicidi? «Diceva di aver fatto rapine ma di non aver ammazzato nessuno. Sosteneva che i veri uomini usino lame o arco e frecce. Ed è stato arrestato proprio per le rapine con l’arco. In carcere era la persona più tranquilla del mondo. Vuol sapere una cosa? Avessi dovuto affidargli mia figlia per qualunque necessità, lo avrei fatto senza indugi».
Arrestato «Igor il russo»: chi è il killer di Budrio, tra violenze, armi e fughe infinite, scrive il 15 dicembre 2017 Alessandro Fulloni su "Il Corriere della Sera". Norbert Feher, il killer di Budrio, era in fuga da mesi, cercando ogni nascondiglio nella Bassa, attorno a Bologna, nel Polesine, e poi all’estero. Come fosse Rambo: un soldato spietato, pronto a tutto. Arrestato due volte, faceva parte di una banda feroce e spietata: nel 2015 una delle vittime, un pensionato, fu uccisa.
Come Rambo. In fuga cercando ogni nascondiglio nella Bassa, attorno a Bologna, verso il Polesine. E poi, per mesi, all’estero. Braccato su piste che portavano dall’Austria alla Spagna dove poi è stato arrestato venerdì, nel corso di un conflitto a fuoco che ha causato la morte di tre agenti della Guardia Civil. Un criminale-assassino capace di muoversi come fosse Rambo: un soldato spietato, pronto a tutto. Capace di sparare e maneggiare ogni tipo di arma, nascondersi, sopravvivere con niente, curarsi da sé le ferite. Man mano che da aprile proseguivano le ricerche di Norbert Feher, accusato di aver ucciso a Budrio il barista Davide Fabbri, emergevano particolari sconcertanti. Rapine efferate, condotte da solo, armato di arco e frecce (era il 2007). Poi con l’ascia (siamo nel 2010). Oppure assieme a una banda di almeno tre persone che nel 2010 terrorizzò il Ferrarese e il Rodigino assaltando ville e casolari isolati in campagna. Tutti in manette, salvo Feher. E tutti condannati per omicidio (appunto: salvo «Igor il russo», ricercato per rapina). In uno degli assalti venne infatti ucciso un pensionato di 73 anni, Pierluigi Tartari. Ex elettricista, pensionato, l’anziano viveva da solo nella sua villetta presa di mira dalla gang: il suo cadavere fu trovato 18 giorni dopo la rapina. Incaprettato, imbavagliato. Individuato in un casolare abbandonato grazie alla segnalazione di uno dei banditi, nel frattempo arrestato. Ma procediamo con ordine partendo, nella card successiva, dal primo arresto di Feher nel 2007 per una serie di colpi in solitaria per i quali venne chiamato il «ninja». E fino all’ultimo, il 15 dicembre 2017, in Spagna.
Il «ninja». Siamo nel giugno del 2007. Le cronache cittadine dell’Emilia e del Veneto raccontano di Feher. Che rapinava agricoltori con una bandana nera da ninja e si faceva consegnare i soldi sotto la minaccia dell’arco teso, pronto a scoccare la freccia. Almeno cinque le denunce registrate dalle vittime nelle campagne di Rovigo e Ferrara. La sera dell’11 giugno però gli andò male. Era andato a «far visita» a due fratelli contadini di 71 e 73 anni che non si fecero intimorire dalla stazza (e dall’abbigliamento) e, in maniera un po’ casuale, lo misero in fuga. «Al grido di allarme di Luigi, infatti, il fratello Giovanni ha imbracciato lo schioppo ma, nella foga, ha inciampato su uno scalino - è il resoconto di una cronaca dell’epoca — e cadendo gli è partito un colpo. «Lui ha preso paura ed è scappato inciampando e cadendo sui vetri della porta che aveva abbattuto e s’è allontanato di gran lena». Fuggendo ancora in questo modo, come a Budrio: «Con la bici». E ancora una testimonianza: «Lui era grosso, vestito di nero, faceva tanta paura». Dopo una perlustrazione, i carabinieri trovarono il rapinatore in un casolare abbandonato: lo usava come nascondiglio dopo i suoi colpi. Quando gli svuotarono lo zaino, i carabinieri scopersero che il ladro-arciere oltre ai soldi rubava anche insaccati, salami, prosciutti. Il presunto assassino del barista operava così: vestito tutto di nero, il volto coperto da una bandana nera, la faretra sulle spalle e un coltello legato alla caviglia. Mascherato in questo modo piombava nelle aziende agricole e razziava tutto quello che trovava. Ma non finisce qui.
Il primo arresto. Feher finisce dentro. Ma esce prima del 2010. E si mette a ancora a fare rapine. All’incirca con lo stesso modus operandi: salvo che non usa più l’arco ma un’ascia con cui terrorizza le vittime. Opera ancora nelle stesse zone tra Ferrarese e Bolognese, dimorando in casolari diroccati che evidentemente ben conosce. Le cronache del secondo arresto dicono che «dormiva di giorno e, con il buio, principalmente tra le 19 e le 20 e studiando minuziosamente le fasi lunari per evitare anche la più debole luce, indossava un casco da motociclista e colpiva le sue vittime minacciandole con un’ascia di discrete dimensioni prima di rapinarle e dileguarsi». Tra le vittime dell’epoca, anche l’allora sindaco di Argenta, fermato dal ninja stavolta senza bandana nè cappello floscio: ma con il volto coperto da un casco. I carabinieri lo cercando in campagna, ben conoscendo la sua abilità di ex soldato negli spostamenti. Lo trovano, lo arrestano. E per Feher si spalancano per la seconda volta le porte delle patrie galere italiane.
Con la banda. Arriviamo al 2015. Stavolta «Igor» non lavora più da solo. Ma con una banda. Ancora dalle parti del Polesine. Non è chiaro chi arruoli chi. Fatto sta che si associa a tre persone: gli slovacchi Ivan Pajdek Patrik Ruszo e il romeno Constantin Fiti. Rapine del terrore, raccontano i giornali. Tutto inizia a Villanova di Denore, nel Ferrarese, quando la sera del 26 luglio, la banda dei tre (Pajdek, Ruszo e il terzo) aggredirono al ritorno a casa, Alessandro Colombani, un 45enne, mentre parcheggiava l’auto in garage. L’uomo venne massacrato a bastonate per pochi soldi (una settantina di euro) e la tessera Bancomat che usarono poco dopo per prelevare 250 euro. Fu una sorta di “prova generale” di questa banda, visto che si riunì in quell’estate dopo che tutti, uno dopo l’altro (a parte Ruszo) nei mesi precedenti erano usciti dal carcere di Ferrara. Il 30 luglio altra rapina. La banda entra nell’abitazione di un’anziana di 93 anni, Emma Santi, a Mesola. La picchiano mentre dorme, la legano, la imbavagliano. Se ne vanno lasciandola lì per due giorni. Se non muore è perché il figlio va a cercarla, preoccupato. E la salva. Pochi giorni dopo altra razzia in casa in campagna dove una coppia viene sequestrata per cinque ore.
Il pensionato torturato e ucciso. E siamo all’ultimo colpo. Quello in cui ad Aguscello (ancora Ferrara) muore Tartari, il pensionato di 73 anni. Il cadavere dell’uomo, scomparso il 9 settembre 2015, viene fatto ritrovare in un casolare diroccato da uno degli autori del colpo, bloccato dalla polizia mentre tentava la fuga su un treno per Venezia. Tartari aveva ancora mani e piedi legate con delle fascette elettriche e la bocca tappata dal nastro adesivo. Il reo confesso dell’omicidio e della rapina è un diciannovenne slovacco, Patrick Ruszo, senza fissa dimora; nei giorni successivo per il medesimo episodio era stato arrestato un altro sbandato romeno, Costantin Fiti, 24 anni. Tartari, elettricista in pensione che viveva solo in una villetta era stato visto per l’ultima volta mentre acquistava una pizza poco lontano da casa. Nella villetta erano state trovate tracce di sangue e la porta d’ingresso forzata. Il bancomat di Tartari era stato usato per due prelievi nella notte tra il 9 e il 10 settembre non dal legittimo proprietario, ma, come venne mostrato dalle telecamere, da alcuni soggetti ripresi poi il giorno dopo mentre facevano acquisti all’Ipercoop di Ferrara. Uno degli sconosciuti era Fiti, subito fermato dagli uomini della Mobile ferrarese; Ruszo, anch’egli identificato, è stato bloccato su un convoglio Bologna-Venezia e fatto scendere a Padova. Confessò e portò gli agenti in un casolare a 12 chilometri dalla casa del pensionato dove era stato gettato il cadavere. «Tartari è stato vittima di una violenza bestiale» disse il pm Filippo Di benedetto a conclusione dell’indagine. Il processo per omicidio ha portato a due condanne: 30 anni per Pajdek ed ergastolo per Ruszo. Non c’è evidenza giudiziaria che Feher abbia partecipato a quel colpo. Anche se Fiti, pur senza riscontri investigativi, avrebbe detto che c’era pure lui.
Spagna: ultimo atto. Cercato vanamente per tutto il Polesine, dopo le efferate rapine e soprattutto gli omicidi del barista di Budrio e della guardia giurata, Igor pareva scomparso nel nulla: segnalato ovunque. Dal Settentrione al Meridione, dai Paesi dell’Est al Brasile. Ma si era nascosto in Spagna, a Teruel. Lo hanno sorpreso all’interno di una fattoria: a trovarlo degli agenti che in realtà stavano cercando l’autore di una sparatoria avvenuta giorni prima. Al loro arrivo il killer di Budrio ha aperto il fuoco e ne uccisi due. Morto anche un agricoltore che stava accompagnando la Guardia Civil sul posto.
Come è finito in Spagna e le rapine. La possibilità che «Igor» si trovasse in Spagna è una traccia che gli investigatori stavano seguendo dall’estate, legata ad un «contatto» del latitante. Lo si apprende da ambienti investigativi. La pista più recente battuta portava però in Austria e a Vienna il Pm Marco Forte, titolare dell’indagine della Procura di Bologna, insieme ad alcuni carabinieri è stato in questi giorni, per un raccordo con le forze di polizia austriache. Nelle ultimissime ore era invece tornata a crescere l’ipotesi Spagna. Vaclavic aveva già ferito altre due persone il 5 dicembre ad Albalate del Arzobispo, vicino a Teruel. Da allora, spiega El Mundo, la sorveglianza nella zona si era intensificata. Secondo quanto riferito dal sito del quotidiano spagnolo, quel giorno un uomo di 72 anni aveva tentato di entrare nella sua casa di campagna, accompagnato da un fabbro, per cambiare la serratura che da alcuni giorni risultava bloccata. I due erano quindi stati sorpresi da un uomo, probabilmente Igor, che gli ha sparato a bruciapelo, ferendo il fabbro a un braccio e il proprietario della casa nel fianco.
Malaga, Valencia e Madrid. Malaga, Valencia e Madrid. Sono le città spagnole dove gli investigatori ritengono che Feher avesse appoggi e dove il serbo si sarebbe spostato in questi mesi di latitanza. È stato possibile accertarlo grazie a indagini fatte attraverso rogatorie chieste in questi mesi dalla Procura di Bologna alle autorità spagnole, con intercettazioni, tabulati, videosorveglianza. I carabinieri del reparto operativo di Bologna si sono concentrati su possibili contatti, tra i suoi familiari in Serbia, tra conoscenze e frequentazioni italiane, ma anche all’estero. Le piste hanno portato in Francia, Austria e, appunto, Spagna. Le indagini su chi ha aiutato il serbo e su come sia avvenuta la fuga dal territorio dei delitto proseguiranno, a partire dal materiale trovato addosso al ricercato al momento dell’arresto. Un’ipotesi, che deve trovare conferma, è che qualcuno lo abbia caricato su un’auto e portato all’estero. Investigatori italiani stanno andando in Spagna per coordinarsi coi colleghi iberici.
L’estradizione? Non è prevista. Ma di certo sconterà la sua pena, scrive Stefano Zurlo, Sabato 16/12/2017, su "Il Giornale". L’ipotesi più probabile è quella della consegna temporanea. Questo tecnicamente il passaggio che sbloccherà il trasferimento di Igor in Italia. Il bandito verrà processato in Spagna, poi sarà spedito a Bologna per rispondere in aula dei delitti commessi in Emilia, quindi, dopo la sentenza del nostro Paese, tornerà in un carcere spagnolo. La Ue almeno su questo lato ha fatto passi da gigante: esiste uno spazio giudiziario comune e soprattutto c’è il mandato d’arresto europeo che semplifica e accelera le procedure. Insomma, Igor dovrà rassegnarsi: ha ucciso in paesi diversi, Spagna e Italia gli apparecchieranno una vita da pendolare delle aule di giustizia e delle carceri, almeno per un po’. «Il cosiddetto turismo giudiziario - spiega Alfredo Mantovano, magistrato alla Corte d’Appello di Roma nella sezione che si occupa di penale internazionale - è conseguenza dei buoni rapporti fra le autorità in toga dentro la Ue». Insomma, occorre dimenticare i vecchi meccanismi dell’estradizione, affidate in definitiva alla sensibilità e all’arbitrio dei politici. «In questo caso - aggiunge Mantovano - la parola estradizione è fuori luogo. Siamo invece nell’ambito del mandato d’arresto europeo dove conta molto il dialogo fra i magistrati e dove i margini di discrezionalità si riducono fino quasi a scomparire». Dunque, il destino del fuorilegge, inseguito per mesi fra boschi e canali tanto che era stato dipinto come un novello brigante, è, o dovrebbe essere, segnato. «In teoria - riprende Mantovano - ci sono due alternative. La prima, teorica, prevede che prima si esaurisca tutto il capitolo spagnolo. Il dibattimento e la pena». In seguito, chissà quando, Igor farebbe i conti con la nostra giustizia. «L’altra possibilità, molto più concreta, è che lo scambio avvenga in tempi relativamente brevi. Magari dopo la sentenza di primo grado». Stiamo parlando della consegna temporanea. Un istituto che oggi funziona e mette in collegamento gli apparati degli stati europei. «È facile immaginare - conclude Mantovano - che dopo la quasi certa condanna in Italia Igor venga rimandato in Spagna e chiuso in prigione. Ma lo spazio della collaborazione è molto ampio e può arrivare a determinare anche il luogo in cui si sconterà la pena». O le pene, che in questo caso saranno ovviamente lunghissime e pesantissime. Più complesso allargare il pendolarismo giudiziario alla Serbia, dove pure Igor è nato ed è ricercato, o ad altri paesi fuori dai confini dell’Unione europea. Qui sì che scatteranno i protocolli, talvolta farraginosi, dell’estradizione. Belgrado si metterà in coda e aspetterà, se mai arriverà, il suo turno per presentare il conto al criminale. Il futuro di Igor, incrociando le dita e salvo sorprese, è scritto: le celle spagnole e i nostri palazzi di giustizia. Ci vorrà un po’ di pazienza, ma i familiari delle vittime potranno infine vederlo in aula. E la Corte d’assise di Bologna gli presenterà il conto. Dopo una lunga latitanza, che aveva alimentato misteri e leggende, ora comincia il conto alla rovescia.
"Deve marcire in galera, ovunque". I parenti delle vittime non esultano: «Come potremmo esser felici?», scrive Lucia Galli, Sabato 16/12/2017, su "Il Giornale". Budrio Ora è «El detenido». Ma per otto mesi e mezzo, Igor con tutti i suoi alias, è stato un killer spietato e poi un fantasma che ha tenuto in scacco le forze dell'ordine di mezza Europa e distrutto due famiglie. La sua cattura è costata, in pochi secondi, altre tre vittime. Ora gli omicidi a suo carico sono sei. Budrio si è svegliata con un sole che via via si è ingrigito. La telefonata che forse qui nessuno aspettava più è arrivata al bar Gallo di Riccardina a mezza mattina. Maria Sirica quasi non ha creduto all'amico che le annunciava la cattura del «bastardo». Poi qui in pochi minuti sono arrivati tutti, anche per sostenere insieme un'emozione altrimenti troppo grande. Lei, maglia rossa, giubbotto beige esce e entra dal bar, la assiste il suo avvocato, Giorgio Bacchelli, che si alterna nel parlare con i giornalisti. La signora è scossa, «peggio degli altri giorni». Da quel 1° aprile la vedova di Davide Fabbri ha un incubo ricorrente: «Sogno quella pistola puntata addosso spiega la signora e continuo a pensare che sarebbe stato meglio morire con Davide». Alla cattura ammette di non aver più creduto da un po': «Ero convinta fosse all'estero e ora voglio giustizia: se restando in Spagna avremo la certezza della pena, meglio che resti li. Qui in Italia non lo voglio, perché già una volta lo hanno rimesso in libertà in anticipo e sappiamo che cosa ha fatto. Davide però non tornerà mai più e io non avrà mai pace». A volere giustizia sono anche Francesca ed Emanuele, i figli di Valerio Verri, la guardia volontaria che Igor ha ucciso 7 giorni dopo Fabbri: «Come potremmo essere contenti dopo che Igor ha ucciso altre volte prima di essere catturato? Il nostro pensiero va alle vittime spagnole e ancor più ribadiamo che nostro padre quella notte fu mandato allo sbaraglio. I turni antibracconaggio dovevano essere sospesi da subito con un criminale di quel tipo in giro. Invece a chi effettuava perlustrazioni era stata fornita via cellulare perfino l'identikit di Igor. Ma nostro padre era un civile, volontario, pensionato e disarmato». A Budrio gli amici di Fabbri hanno tolto il lutto alla bandiera, anche la taglia di 50mila euro non è servita alla cattura. Servirà, invece, un sostegno costante alla famiglia, come quello della fondazione Emilia-Romagna per le vittime dei reati. «Serve soprattutto voltare pagina commenta il sindaco Maurizio Mazzanti - . Non avevamo segnali di una cattura imminente, ma non abbiamo mai perso fiducia delle forze dell'ordine». La caccia all'uomo da subito si era spostata nel ferrarese: «Per questo a Budrio questo omicidio è sembrato da subito l'opera di una belva, un tragico, enorme caso, ma isolato». Mazzanti, che ha avviato proprio il suo mandato «in piena ricerca di Igor», vorrebbe solo che tutto finisse. «E che la vita qui possa ricominciare»: per molti è finita, ora con la cattura. Ma per altri, come per la signora Maria, tutto in realtà è finito, oltre 8 mesi fa.
Igor il russo, sarà guerra con la Spagna per ottenere l'estradizione: il procuratore capo di Bologna alza la voce, scrive il 15 Dicembre 2017 "Libero Quotidiano". La fuga di Igor il russo è finita in Spagna, a Saragozza, dove prima di venire arrestato ha ucciso altre tre persone. Per il killer di Budrio è finita, ma ora si apre un'altra, dolorosa, pagina: la contesta tra Italia e Spagna del bandito. Già, perché nel Paese iberico ha ucciso tre persone; da noi (almeno) due. E ora, che si fa? Il primo ad esprimersi sulla vicenda è stato Giuseppe Amato, procuratore capo di Bologna, il quale ha spiegato che "ci sarà la nostra richiesta di estradizione, che dovrà fare i conti con il fatto che il Paese richiesto dell'estradizione ha nell'attualità un procedimento penale per fatti gravissimi commessi in quel territorio". Il procuratore, dunque, aggiunge anche che "a parti invertite sarebbe la stessa cosa: se noi avessimo arrestato il latitante 'spagnolo' e ci fossero state delle morti in Italia, è chiaro che avremmo proceduto in Italia e non avremmo rinunciato alla nostra giurisdizione. Certamente processeremo Igor secondo le norme e dovremo coordinarci". Infine un commento sulla svolta delle ultime ore. Amato sottolinea come ci sia "l'orgoglio di uno Stato che non abbandona i suoi morti, le indagini sono proseguite con una fatica e una costanza che potete immaginare, da quest'estate ci siamo mossi in direzione della Spagna, siamo a dicembre, cosa che dimostra che l'impegno c'è stato, e la Spagna non è stato l'unico fronte su cui ci siamo mossi".
Igor il russo, il comandante generale Del Sette: "L'errore? Metterlo in libertà prima di aver scontato la pena", scrive il 15 Dicembre 2017 su "Libero Quotidiano". "E' stato trovato in un'area che noi avevamo indicato come di probabile presenza di Igor". Il generale dell'Arma dei carabinieri, Tullio del Sette, ha svelato il retroscena dell'arresto del killer di Budrio: "Con il Ros e i due comandi provinciali non eravamo soltanto lì in Spagna ma eravamo e siamo anche in Austria e Serbia, perché non abbiamo mai mollato un giorno la ricerca di questo pericolosissimo individuo. Gli ultimi sviluppi hanno dimostrato quanto sia effettivamente pericoloso - ha concluso - e che grosso peccato sia stato metterlo in libertà nel 2015 quando ancora doveva scontare degli anni di galera".
Igor il russo, le immagini dell'ultimo nascondiglio in Italia: nascosto come un topo prima della cattura in Spagna, scrive il 15 Dicembre 2017 "Libero Quotidiano". Per Igor il russo, il killer di Budrio, la fuga è finita: arrestato in Spagna, dove ha ucciso altre tre persone. Ora resterà da capire come possa esserci finito, a Saragoza. Nel frattempo, vi riproponiamo le immagini di quello che sarebbe stato l'ultimo nascondiglio in Italia del bastardo: un vecchio cinema, abbandonato e dismesso da molti anni situato a Portonovo di Medicina, una località del bolognese. Si trattava di una struttura perfetta per nascondersi e per ripararsi dalle intemperie, dove nessuno l'avrebbe mai cercato. Le immagini erano state realizzate da Filippo Minotti per Telestense Ferrara.
Igor il Russo, l'hanno arrestato per sbaglio: l'errore dei carabinieri e quello del killer, scrive il 15 Dicembre 2017 "Libero Quotidiano". L'hanno arrestato "per sbaglio", Igor il russo. A fregare il killer serbo, il cui vero nome è Norbert Feher, è stato il suo ultimo colpo in una villa di Albalate del Arzobispo, in Aragona, il 5 dicembre scorso. Quell'assalto ha attirato l'attenzione dei due agenti della Guardia Civil e di un ranchero locale che il delinquente sparito dall'Italia dallo scorso aprile non ha esitato a trucidare pur di fuggire. Lo "sbaglio" è quello dei carabinieri italiani che avevano segnalato da tempo ai colleghi spagnoli la possibile presenza di Igor/Norbert ma a Malaga, e non invece a 200 chilometri da Saragozza dove poi è stato preso. Il sospetto degli inquirenti italiani è che il criminale fosse riuscito a tornare in Spagna, dove aveva già trascorso molto tempo, attirato da un grosso traffico di droga. Gli spagnoli indagano lì, ma intanto una serie di colpi nelle ville dell'Aragona mette in allerta la Guardia Civil. Pensano che siano opera di una banda di romeni, non sanno che è proprio lui, Igor. Lo capiscono solo dopo che ha ammazzato a sangue freddo, con precisione "da militare" il testimone e due poliziotti.
Igor il russo, i dettagli della sua ultima fuga: come ha ucciso gli agenti, poi l'incidente in autostrada, scrive il 15 Dicembre 2017 "Libero Quotidiano". Igor il russo era ricercato dalla polizia spagnola dopo che il 5 dicembre aveva aggredito due persone in una casa colonica nella cittadina aragonese di Albalate del Arzobispo. Le indagini avevano portato giovedì sera due agenti della Guardia civil, Víctor Romero e Víctor Jesús Caballero, accompagnati da un terzo uomo, José Iranzo, a perquisire un'abitazione a El Ventorrillo, sempre nella stessa zona. Ma Igor li ha sorpresi e li ha uccisi in una sparatoria. Poi gli ha rubato le armi di ordinanza e si è dato alla fuga a bordo di un grosso pick-up. A quel punto le forze dell'ordine spagnole hanno lanciato una massiccia caccia all'uomo che si è conclusa nella notte con l'arresto di Igor in zona Maestrazgo, tra la provincia di Teruel e Castellon. L'uomo aveva appena fatto un incidente sull'autostrada A-226, all'altezza del comune di Cantavieja. Due delle armi che aveva con sé erano quelle sottratte ai due agenti spagnoli. La Scientifica della Polizia di Stato italiana ha poi confermato che l'uomo fermato in Spagna dopo il conflitto a fuoco con la Guardia civil sia proprio Norbert Feher, il killer di Budrio in fuga da mesi. Attraverso Interpol, le impronte digitali dell'uomo sono state trasmesse a Roma ai laboratori del Servizio diretto da Luigi Carnevale: il confronto con le impronte di Igor il russo conservate nella banca dati Afis ha dato esito positivo.
Budrio e gli altri casi di criminali braccati dalla Polizia. Dal killer del barista nel bolognese all'evaso dal carcere di Gallarate, ecco casi più eclatanti che hanno impegnato le Forze dell'ordine, scrive il 15 dicembre 2017 Nadia Francalacci su Panorama.
Igor Vaclavic alias Norbert Feher, il killer di Budrio, a sfidato le forze dell’ordine fino al 15 dicembre. Il giorno del suo arresto. Nei luoghi in cui si erano concentrate le ricerche del serbo, indagato anche per l’omicidio di Portomaggiore, era scomparsa una piccola imbarcazione, poco più che una zattera. La barchetta era di un contadino e la sparizione è emersa proprio durante il perlustramento in corso da parte delle squadre di carabinieri dei Reparti speciali del Gis e del Tuscania nei casolari della zona. La piccola imbarcazione era utilizzata dal proprietario per i brevi spostamenti nel dedalo di canali e acquitrini dell'area non bonificata, dove erano in corso, da aprile, le ricerche dell’uomo che braccato è stato arrestato in Spagna dopo un conflitto a fuoco. Ma assieme a Igor Vaclavic, in passato, altri killer hanno provato a sfidare le forze dell’ordine ma la loro fuga, più o meno lunga è finita con una cattura o la morte.
Le ricerche a Varese di Cutrì. Proprio gli uomini dei carabinieri del Gis mettono, nel 2014, la parola fine alla lunga fuga durata sei giorni, di Domenico Cutrì, ergastolano evaso dal carcere di Gallarate in un modo spettacolare, per quanto sanguinoso, dove persero la vita anche degli agenti della polizia penitenziaria. I carabinieri del Gis, che fanno irruzione in un casolare di Inveruno, sorprendono Cutrì mentre stava dormendo con accanto una pistola con un colpo in canna. Non ha neanche fatto in tempo a prenderla, che già era braccato. Con lui i militari trovarono Luca Greco, pregiudicato 35enne che aveva preso parte alla spedizione per liberarlo. Le sue serrate ricerche tra boschi, campagne e casolari durò quasi una settimana.
Lo spietato Liboni. Luciano Liboni, detto il Lupo, divenne uno dei più noti criminali italiani per il modo spettacolare in cui avvenne la fine della sua lunga latitanza, che segnò anche l'epilogo della sua vita, quando, nell'estate 2004, si rese protagonista di una fuga disperata per l'Italia centrale. Il 21 luglio 2004 Liboni viene ricoverato all'ospedale di San Piero in Bagno con un documento falso che reca il nome di Franco Franchini. Ha una frattura del setto nasale ed è ferito alla mano. Dichiara di essersi procurato queste lesioni in un incidente di moto presso Sarsina. Dopo una notte di degenza, si fa dimettere e si reca a Pereto di Sant'Agata Feltria, fermandosi in un bar dal quale telefona verso lo Sri Lanka. Nell'esercizio, però, entra per caso l'appuntato scelto dei Carabinieri Alessandro Giorgioni, che gli chiede i documenti. Per tutta risposta, il Lupo lo attira fuori dal bar e lo uccide a sangue freddo sparandogli al collo e al cuore. Fuggendo, Liboni imbocca la Tiberina in direzione sud, verso l'Umbria. Viene avvistato in un'area di servizio presso Canili di Verghereto. Le ricerche investono molte regioni dell'Italia centrale, soprattutto Umbria, Lazio e Abruzzo. Liboni è segnalato a Roma, dove anche alla stazione Termini spara contro alcuni agenti di polizia. Dopo lo scontro a fuoco, commette un nuovo sequestro e scompare di nuovo. Il prefetto, all'epoca, Achille Serra avverte che si tratta di un uomo particolarmente pericoloso perché disperato, consapevole di essere malato di AIDS, prossimo a morte e sembra aver iniziato a uccidere proprio dopo averlo appreso. A Roma, al Circo Massimo, sentendosi ormai in trappola, il Lupo prende in ostaggio una turista francese e apre nuovamente il fuoco sui carabinieri. I militari rispondono e lo feriscono gravemente al capo, poi lo ammanettano. Liboni però non sembra voler arrendersi, al punto che tenta di recuperare la pistola e mena calci contro i soccorritori durante il trasporto all'Ospedale San Giovanni. Quando l'ambulanza giunge in ospedale, Liboni è già morto.
Ricerche serrate in Valnerina. Il 15 ottobre 1998, invece, i militari dell’Arma, nella Valnerina, sono impegnati nelle ricerche di Fortunato Ottaviani, 62 anni. Braccato da giorni da trecento uomini armati, l’uomo mette paura. Ha ucciso due persone. A bruciapelo. E potrebbe uccidere ancora. Vecchi rancori sopiti e poi esplosi di colpo in una sorta di sfida, progettata con cura. Il fuggitivo è armato: nella sua corsa disperata si è portato dietro un fucile, una pistola calibro 22 e molte munizioni. La sua latitanza dura diversi giorni, poi i carabinieri dei reparti speciali ritrovano, non lontano dal luogo del secondo omicidio, a Preci, il cadavere di Ottaviani, morto suicida.
Igor e paradossi. La Questura sapeva solo leggendo i giornali, scrive mercoledì 1 Novembre 2017 "Estense". Anche la Provincia: “Non informati del concreto rischio della presenza di un latitante altamente pericoloso”. Alla riunione del Comitato provinciale su ordine e sicurezza pubblica tenutosi il 7 aprile “nulla era riferito dal comandante provinciale dei Carabinieri di Ferrara, colonnello Andrea Desideri, sulla problematica rappresentata dal rischio della latitanza del pluripregiudicato e ricercato Igor Vaclavic. L’omissione di siffatte informazioni impediva a Prefettura e Questura l’adozione di misure di sicurezza più idonee e mirate a tutelare l’incolumità degli operatori del settore e questo anche con particolare riferimento alle Guardie Ecologiche Volontarie”. Che fosse risaputo che Igor gravitasse in quella zona, tanto da essere ricercato dalle forze dell’ordine di tre provincie, lo si evince anche dal provvedimento di fermo di indiziato di delitto emesso il 10 aprile dal pm Savino per l’omicidio di Verri e il tentato omicidio di Ravaglia: “Sussiste fondato motivo di ritenere che autore dell’omicidio sia Vaclavic Igor. Il predetto, che gravita proprio nella zona ove è stato commesso l’omicidio, era ricercato dagli operanti di Ferrara, Ravenna e Bologna”. In questa catena di avvenimenti ve n’è infine uno che Anselmo giudica “paradossale”: “la Questura di Ferrara afferma nella comunicazione dell’8 giugno 2017 in più passaggi di avere appreso notizie dagli organi di informazione e dalla stampa, anziché dalle autorità all’uopo preposte a fornirle e precipuamente il Comando Provinciale dei Carabinieri”. Lo stesso vale per la Provincia, competente per le guardie provinciali. In una comunicazione dell’8 giugno il suo presidente afferma “di non essere stato informato da alcuno ed in alcuna forma del concreto rischio rappresentato dalla presenza, nel territorio ferrarese, di un latitante altamente pericoloso per la pubblica sicurezza e personale della polizia in servizio”. Anche Tagliani aveva appreso dalla lettura dei giornali della “zona rossa” ma senza alcuna comunicazione ufficiale. Sempre Tagliani aggiunge che “il Comandante della Polizia Provinciale avesse sospeso i servizi delle Guardie Ecologiche Volontarie dal 10 aprile con telefonate e messaggi via sms e whatsapp nella “zona rossa” per evitare intralci all’attività di ricerca dell’autore dell’omicidio”. Eppure la collaborazione della questura poteva risultare utile, visto che si era occupata indirettamente di Vaclavic in seguito alle rapine in villa dell’estate del 2015 con la banda Pajdek. La squadra mobile scrive infatti il 18 aprile alle procure di Bologna e Ferrara “per ogni sviluppo investigativo” che una testimone sentita nel processo per l’omicidio di Tartari abitava a pochi km dal bar Riccardina di Budrio e ancor meno dal luogo dove era stato abbandonato il Fiorino utilizzato da Igor per darsi alla fuga dopo l’omicidio Verri. “Se la Questura avesse avuto tempestiva conoscenza – sottolinea l’avvocato – del fatto che si sospettava fondatamente che Igor fosse autore dei delitti del 30 marzo e del 1º aprile, avrebbe potuto rendere nota siffatta circostanza nell’immediatezza e costituire così valida pista investigativa. Si sarebbe potuto controllare la presenza di Igor in quel posto, come è probabile che sia avvenuto considerato che Igor rimase ferito durante la rapina del 1º aprile e necessitasse di cure”. Tutti elementi che secondo il legale dei figli di Verri confermano “la sussistenza del nesso causale tra l’omessa tempestiva informazione da parte degli organi inquirenti dell’Arma dei Carabinieri alla Questura ed alla Prefettura e la morte di Valerio Verri”. La mancata comunicazione con urgenza del “reale ed effettivo esito delle indagini svolte ha impedito l’adozione di quelle misure da parte di Questura, Prefettura e Provincia, che solo successivamente all’omicidio dell’8 aprile sono state adottate, a tutela dell’incolumità pubblica e che sarebbero state concretamente e certamente idonee ad impedire la morte di Valerio Verri. Sarebbe stato, infatti, sufficiente sospendere i servizi delle Guardie Ecologiche Volontarie nelle zone che si conosceva essere luoghi di azione di Igor”. “Era, pertanto, pretendibile che il territorio di Argenta e Portomaggiore – conclude il documento – fosse interdetto dall’azione delle Guardie Ecologiche Volontarie proprio per la peculiarità del servizio da essi svolto, suscettibile di grave e contingente pericolo. Se ciò fosse stato fatto Valerio Verri non sarebbe morto”.
Igor e quella badante «dimenticata». Sulle tensioni tra chi investigava intervengono i carabinieri: tutto è stato condiviso. J’accuse della questura di Ferrara: potevamo fornire molti elementi in più su Feher. Spunta il legame del fuggitivo con una donna, testimone chiave per l’omicidio Tartari, il 73enne massacrato dopo una rapina nel Ferrarese nel 2015, scrive il 3 novembre 2017 “Il Corriere della Sera”. Se i carabinieri avessero fatto circolare meglio le informazioni in loro possesso, la Questura di Ferrara avrebbe potuto fornire ai militari molti elementi su Norbert Feher, alias Igor Vaclavic, anche prima dell’omicidio di Valerio Verri. Tra questi l’indicazione di una badante che frequentò la banda di Pajdek, con cui Igor aveva seminato il terrore nella Bassa Ferrarese fino al 2015, e che viveva proprio a Molinella, a una manciata di chilometri dal bar di Davide Fabbri.
Scambio di informazioni. La tesi che uno scambio di informazioni più trasparente tra le forze dell’ordine avrebbe potuto evitare il secondo omicidio, quello della guardia volontaria Valerio Verri, è alla base dell’opposizione alla richiesta di archiviazione della Procura di Ferrara depositata dal legale della famiglia Verri, Fabio Anselmo. Ma il comando provinciale dei carabinieri di Ferrara rigetta le accuse e in una nota precisa che «le attività per la ricerca del latitante sono state costantemente condivise». Invece l’avvocato mette in fila una serie di documenti e comunicazioni riservate dei carabinieri che indicherebbero come i militari sospettassero già subito dopo l’omicidio di Fabbri del rapinatore seriale Igor Vaclavic. Circostanza che però il comando provinciale di Ferrara continua a smentire, aprendo di fatto un braccio di ferro e sostenendo che «si sono acquisiti elementi sulla possibile presenza di Norbert Feher alias Igor Vaclavic nelle Valli del Mezzano solo dopo i fatti delittuosi del tragico 8 aprile 2017», cioè dopo l’omicidio Verri. Ma allora perché la scheda segnaletica di Igor Vaclavic fu diffusa a tutti i comandi della regione e alle pattuglie alle 15 del 2 aprile?
La storia della badante. E poi ancora il 18 aprile 2017 la Squadra mobile di Ferrara scrive alle Procure di Bologna e Ferrara che una testimone chiave del processo per l’omicidio Tartari (il 73enne massacrato dopo una rapina nel Ferrarese nel 2015, ndr), la zia del rumeno Patrik Ruszo, è stata prelevata dagli agenti il 13 gennaio nell’abitazione in cui lavorava come badante di un anziano, padre di un’infermiera, proprio a Molinella. La stessa Questura scrive che quella casa dista 13 chilometri dal bar Gallo e 5 dal luogo dove Igor ha abbandonato il Fiorino per darsi alla fuga dopo l’omicidio Verri. «Se la Questura avesse avuto tempestiva conoscenza del fatto che si sospettava fondatamente che Igor fosse autore dei delitti del 30/03 (rapina a Consandolo, ndr) e del 1/04 — scrive il legale dei Verri — avrebbe potuto rendere nota di tale circostanza e costituire così valida pista investigativa. Si sarebbe potuto controllare la presenza di Igor in quel posto, considerato che era ferito e necessitava di cure».
I ritardi. Dopo l’omicidio Verri dell’8 aprile, infatti, molte persone che negli anni passati avevano gravitato nella cerchia di Vaclavic sono state interrogate e intercettate, ma senza successo. Ci sono poi gli oggetti ritrovati dai carabinieri di Argenta in un bivacco il 3 aprile, inviati ai Ris solo due settimane dopo. Nella serie di ritardi segnalati dai Verri, c’è anche la riunione del comitato provinciale per l’ordine pubblico del 7 aprile, 24 ore prima dell’omicidio di Portomaggiore, in cui «nulla era riferito dal comandante dei carabinieri di Ferrara Andrea Desideri sul rischio della latitanza del pregiudicato Vaclavic» in quelle zone.
I silenzi dei carabinieri: "Sapevano chi era Igor, nel fax non lo scrissero". Emergono omissioni che favorirono la fuga del ricercato. La Questura di Ferrara: "Non segnalate informazioni preziose", scrive Marco Mensurati e Fabio Tonucci il 3 novembre 2017 su “La Repubblica”. Una cortina di silenzi e omissioni ha coperto le azioni e la fuga di "Igor il Russo", il criminale che nella primavera scorsa ha terrorizzato la pianura Padana a cavallo tra Ferrara e Bologna. Da allora Igor è sparito nel nulla. Probabilmente perché, nella fase più calda della caccia all’uomo, pezzi dello Stato hanno volutamente tenuto all’oscuro altri pezzi dello Stato. Incartandosi da soli. In queste ore l’Arma dei carabinieri, che ha condotto le indagini, è precipitata in un profondo imbarazzo e il goffo comunicato stampa diffuso ieri dal Comando provinciale di Ferrara ne è l’ultima testimonianza.
LA CORTINA DI SEGRETI. Quando la fuga di Igor era appena agli inizi, e cioè subito dopo l’assassinio di Davide Fabbri, il tabaccaio di Budrio, i carabinieri di Bologna nascosero alle autorità di Ferrara (polizia e prefettura) l’identità del ricercato. Peccato che la polizia avesse appena concluso con successo un’inchiesta su Igor e la sua banda di rapinatori e, dunque, fosse in possesso di informazioni preziose e potenzialmente utili per individuarlo. E che il prefetto di Ferrara, organismo responsabile dell’incolumità pubblica nella provincia dove il killer ha vissuto negli ultimi anni e dove si è sempre rifugiato, se avvertito tempestivamente avrebbe potuto (e dovuto) dire a tutti gli “operativi” che battevano il territorio di stare attenti. Invece, sette giorni dopo l’omicidio di Budrio, Igor il Russo ha potuto uccidere ancora. Un agguato nel parco delle Valli del Mezzano, proprio in provincia di Ferrara. Dove, sotto i colpi della sua Smith&Wesson calibro 9 è caduto Valerio Verri, un volontario. Stava cercando addestratori abusivi di cani. Ha trovato Igor.
L'ASSASSINO SENZA NOME. Che poi, Igor non è russo. È serbo, di origini ungheresi. E non si chiama nemmeno Igor, ma Norbert. Norbert Feher. Di lui, i carabinieri hanno sempre saputo tutto. Solo che non lo hanno detto a chi dovevano, non hanno condiviso informazioni trincerandosi dietro il segreto investigativo. Ancora nella notte tra l’otto e il nove aprile, cioè una settimana dopo i fatti di Budrio e poche ore dopo l’omicidio del volontario, la compagnia di Porto Maggiore trasmise a svariati organismi istituzionali — tra cui la questura e la prefettura di Ferrara — un telex in cui negava di conoscerne l’identità. “Ignoto — così lo definiscono i militari nel documento che Repubblica ha visionato — esplodeva numero 5 colpi di arma da fuoco calibro 9 x 21 attingendo autovettura polizia provinciale Ferrara con a bordo l’agente scelto della Polizia provinciale Ravaglia Marco e Valerio Verri, volontario Legambiente”. Ignoto. Eppure è documentato che i carabinieri dei due comandi provinciali, Bologna e Ferrara, stavano indagando su Norbert Feher già dalla notte del 30 marzo quando questi rubò la pistola a una guardia giurata. Fin da subito, un maresciallo di Bologna riconobbe il modus operandi del ben noto Feher, tanto che il 3 aprile gli investigatori misero sotto controllo il suo telefono cellulare. Nelle cinque pagine della richiesta di intercettazioni, datata 2 aprile, l’identità del presunto assassino è certa. “Considerata la gravità dei reati e il concreto pericolo di reiterazione e l’esistenza di un quadro di gravità indiziaria nei confronti di Vaclavic, appare indispensabile attivare immediate intercettazioni telefoniche”. Avevano il loro uomo. Tutto stava a prenderlo.
TUTTI CONTRO TUTTI. In quei giorni convulsi di inizio aprile, tra il primo e il secondo omicidio, alla Questura di Ferrara niente fu detto. I giornali già pubblicavano le foto di Feher/Igor e nel frattempo i canali ufficiali rimanevano muti. “Nessuna segnalazione risulta pervenuta in relazione all’omicidio Fabbri”, scrive la prefettura di Ferrara in una nota alla procura. Lo stesso sostiene la Questura: “Nessun elemento investigativo o di rilievo per la sicurezza pubblica ci è stato comunicato”. E però ieri sera i carabinieri di Ferrara hanno fatto uscire un comunicato che ribalta, o vorrebbe ribaltare, tutto. “Nessun dato investigativo fino all’8 aprile faceva presagire la sua responsabilità penale (di Feher, ndr) per gli episodi delittuosi del 30 marzo e del 1° aprile, né la sua presenza nella zona”. Esattamente l’opposto di quanto sostengono gli stessi carabinieri (ma quelli di Bologna) e le carte agli atti dell’indagine.
L'ULTIMO COMUNICATO. Per difendersi dall’esposto dell’avvocato Fabio Anselmo il quale ritiene che l’uccisione di Verri potesse essere evitata, i carabinieri bolognesi hanno dimostrato alla procura che già il 2 aprile la loro centrale operativa aveva trasmesso “informalmente via mail” l’identità del ricercato. Nome, cognome e grado di pericolosità: “Ha un fucile da caccia e una semiautomatica”. Nel lungo elenco dei destinatari della segnalazione “informale” mancano però Questura e Prefettura di Ferrara. Incrociando il contenuto di questa mail con il comunicato stampa di ieri, il risultato. è da bancarotta: nell’imminenza dei fatti i carabinieri non hanno informato chi doveva tutelare l’incolumità pubblica (ai sensi della legge 121 del 1981), probabilmente al fine di tagliare fuori la polizia da un’inchiesta che prometteva molta visibilità. Mesi dopo, di fronte alle critiche, si difendono contraddicendosi l’un l’altro. E dimostrando come, sul campo, il grande vantaggio di Igor fu la disorganizzazione di chi doveva braccarlo.
Igor, Procura militare di Verona apre fascicolo. Carabinieri a un passo da lui, ma dalla centrale: “Aspettate rinforzi”. La sera dell'8 aprile tre militari in borghese si trovarono di fronte al pregiudicato serbo ricercato per il duplice omicidio del barista Davide Fabbri e della guardia ecologica Valerio Verri. I superiori, però, dissero ai carabinieri di "limitarsi a osservare i movimenti del soggetto" mentre attendevano i rinforzi, che sarebbero arrivati un'ora e mezza dopo, scrive il Fatto Quotidiano" il 19 ottobre 2017. Erano a pochi metri da lui, nelle campagne di Molinella, Bologna. Tre carabinieri in borghese a bordo di un’auto civetta. Con Igor il Russo ci hanno anche parlato: lui era al volante di un furgoncino bianco e ai militari ha chiesto di lasciargli spazio per poter passare nella strada stretta. Potevano fermarlo, ma dalla centrale è arrivato l’alt: “Aspettate i rinforzi”. E così Igor sparisce per sempre. Per fare chiarezza su cosa sia successo quella sera e per capire se ci siano responsabilità nella fuga del “killer di Budrio” la Procura militare di Verona ha aperto un fascicolo di indagine.
Erano le 19.45 dell’8 aprile quando i tre militari si trovarono faccia a faccia con Norbert Feher alias Igor Vaclavic, il pregiudicato serbo ricercato per il duplice omicidio del barista Davide Fabbri e della guardia ecologica Valerio Verri. I tre carabinieri vedono sopraggiungere un mezzo, simile a un Fiorino, corrispondente alla descrizione del furgone del killer. Lo seguono e allertano la centrale operativa di Molinella, con cui rimangono costantemente in contatto. Gli si accostano in una strada di campagna e gli ordinano di scendere dall’auto e di mostrare le mani. Igor, però, mette la retromarcia, percorre 150 metri e si ferma a ridosso del boschetto vicino alla strada. Con tutta calma si dirige nella vegetazione, per poi tornare indietro per prendere uno zaino dimenticato nel furgoncino. Dopodiché si allontana definitivamente. I carabinieri comunicano che “non sembra armato”. E i superiori, per motivazioni che ora la Procura militare vuole chiarire, ordinano ai militari di mantenere la calma, limitarsi a osservare i movimenti del soggetto e aspettare i rinforzi che da lì a poco sarebbero arrivati. Erano le 19.45: secondo quanto riporta Il Giornale i rinforzi sarebbero arrivati solo un’ora e mezza dopo, alle 21.15. Da quella volta Igor non è mai più stato individuato. Il fascicolo aperto dall’ufficio giudiziario militare guidato dal procuratore Stanislao Saeli è per “atti relativi”, cioè senza indagati né reati, ed è stato aperto sulla base delle notizie riportate dai giornali sulla vicenda. Obiettivo dell’accertamento, ancora in corso, è capire se la procedura seguita la sera dell’8 aprile sia stata corretta e se ci siano eventuali responsabilità in chi ha operato.
Bologna, i figli di Verri al colonnello dei Carabinieri: "Su Igor chieda scusa". Il padre, Valerio, venne ucciso da Norbert Feher l'8 aprile scorso. La famiglia critica il lavoro il comandante dell'Arma di Ferrara, scrive il 3 novembre 2017 su "La Repubblica". "Ma è sicuro di ciò che dice? Non crede sia meglio invece tacere e magari chiedere scusa? O chiedere scusa non è contemplato per un colonnello dei Carabinieri anche quando commette errori imperdonabili che sono costati la vita di una brava ed onesta persona che l'unico torto che ha avuto è stato quella di avere una grande passione per la sua terra e per l'ambiente?". Sono le domande al comandante dei Carabinieri di Ferrara, colonnello Andrea Desideri, di Francesca e Emanuele Verri, figli di Valerio, ucciso l'8 aprile da Norbert Feher. In una lettera, i Verri. Replicano alla nota dell'Arma ferrarese, dopo le notizie sulle accuse sul scambio di informazioni sulle indagini: "Se lei non intende chiedere scusa lo facciamo noi per lei. Chiediamo scusa a tutti i bravissimi Carabinieri che lavorano sotto di lei ai quali va comunque la nostra riconoscenza, il nostro rispetto ed il nostro affetto. Chiediamo scusa per la situazione in cui ora si trovano e non certo per colpa nostra o di nostro padre. Non è d'accordo?".
Igor finì tre volte nel mirino: «Non sparate, aspettate rinforzi». Così riuscì a scappare la sera dell’8 aprile ai carabinieri: la verità dagli atti dell’inchiesta. Scese dall’auto e andò nel bosco, tornò indietro per riprendere lo zaino e scappò di nuovo, scrive Daniele Predieri il 9 agosto 2017 SU "La Nuova Ferrara". Quell'8 aprile 2017 i carabinieri si trovarono a 50 metri da Igor/Norbert, ma non spararono perchè era stato ordinato loro di attendere i rinforzi. Se lo trovarono davanti, quella sera, ben tre volte: quando Igor uscì dal Fiorino bianco per nascondersi nel bosco, quando tornò indietro per prendere lo zainetto dimenticato nel cassone e quando scappando lo videro ai limiti del boschetto. Per tre volte finì nel mirino ma nessuno sparò, dei tre carabinieri presenti, un vicebrigadiere e due carabinieri scelti. Se l’avessero fatto, se avessero fermato, bloccato e (anche) ucciso Igor, tutto ciò che è venuto dopo sarebbe stato evitato: una caccia all’uomo senza precedenti, indagini forsennate, una spesa di non si sa quanti zeri, beffe e burle a non finire, e tantissime bufale, notizie e fatti inventati, anche su quella sera.
Tutto è cominciato qui, una sera dell’aprile scorso, in una stradina di campagna, poco più larga di una macchina, via Spina, a cavallo tra Consandolo e Marmorta. Igor era in fuga, aveva appena ucciso Valerio Verri, nel Mezzano, 15 chilometri più su, attorno alle 19. Scappava a bordo di un Fiorino bianco, rubato pochi giorni prima e venne intercettato e fermato in via Spina. Di quel momento, di quel faccia a faccia tra Igor e i tre carabinieri- per la prima volta - la Nuova Ferrara, può raccontare la verità, sulla base delle dichiarazioni dei tre carabinieri- testimoni, affidate all’«annotazione di polizia giudiziaria», poi trasmessa a procura e ora agli atti delle inchieste.
Tutti cercavano quel Fiorino bianco, la caccia all’uomo dopo l’omicidio di Verri e il ferimento di Marco Ravaglia era appena cominciata, Igor in fuga viene intercettato la prima volta alle 19.45: nell’«auto di copertura» ( scrivono nel rapporto), i tre carabinieri, tutti e tre in auto e abiti civili, stanno correndo verso Argenta, da Molinella dove sono in servizio. Incrociano Igor in via Nazionale Nord, poco prima Consandolo: notano «in senso contrario un’auto di colore bianco corrispondente a quella descritta e ricercata». Poi vedono Igor svoltare in via Cavo Spina di Consandolo, fanno inversione e lo inseguono, il Fiorino li ha già distaccati di un paio di chilometri, ma danno l’allarme: «Veniva subito allertata la Centrale operativa dei carabinieri di Molinella, indicando posizione e direzione di marcia del Fiorino» dice il rapporto e si faccia attenzione a questa allerta, che dimostra il contatto con la Centrale (particolare che si spiegherà dopo).
I carabinieri corrono dietro Igor, lo raggiungono tenendosi «ad una distanza di sicurezza di circa 100/150 metri e percorrevano via Spina fino a giungere in prossimità di un piccolo bosco sulla sinistra rispetto la direzione di marcia»: via Spina è una stradina stretta, tra Consandolo e Marmorta, che due macchine affiancate difficilmente possono percorrere. I carabinieri si fermano, vedono da lontano Igor che fa inversione e va verso di loro: Igor - raccontano i militari - «veniva monitorato e mediante contatto via telefono la centrale operativa veniva informata: i militari (spiega il rapporto, ndr) venivano esortati a mantenere la calma, a limitarsi a osservare i movimenti del soggetto, in quanto erano stati inviati i rinforzi e da lì a poco sarebbero arrivati».
Anche questo è un passaggio fondamentale: i tre carabinieri, armati (M12, mitragliette e pistole, colpo in canna) vengono invitati solo a controllare. A non sparare, questa la ricostruzione ufficiale. La verità documentale, degli atti. Igor è a 100 metri da loro, a bordo del Fiorino. I tre militari «si ponevano nella parte posteriore dell’auto di servizio che al momento risultava essere l’unico riparo»: si proteggono, sanno che Igor ha appena ucciso, forse è ancora armato. Igor non li ha ancora riconosciuti come carabinieri: «a bordo del Fiorino bianco Igor si avvicina lentamente all’auto di servizio, e - descrivono i militari - risultava essere accovacciato nell’abitacolo e teneva le luci abbaglianti accese creando così disturbo nella visuale dei tre carabinieri da non permettere una efficace risoluzione mediante l’utilizzo delle proprie armi in dotazione». Il linguaggio in carabinier-burocratese raggiunge il parossismo: in poche parole, Igor punta gli abbaglianti, loro non possono vederlo bene e non sparano.
Igor viene avanti, arriva a 50 metri dai tre carabinieri. All’improvviso Igor ferma il Fiorino e «con un cenno della mano con la mano sinistra fuori dal finestrino chiedeva di poter passare», visto che non li ha ancora riconosciuti e l’auto occupa la carreggiata.
Qui il primo contatto: il vicebrigadiere, il capo pattuglia, «intimava al soggetto di scendere dall’auto e mostrare le mani». Igor però innesta la retromarcia, fa 150 metri all’indietro, si allontana per fermarsi a ridosso del boschetto vicino alla strada. Lascia l’auto accesa e scende «e si addentrava con molta calma nel bosco», mentre i tre militari si avvicinavano «rimanendo a distanza di sicurezza». Attenti, perchè la beffa non finisce qui.
«All’improvviso, lo stesso (Igor, ndr) usciva dal bosco, e si avvicinava nuovamente al veicolo e prelevava uno zaino militare nel cassone del Fiorino e poi si addentrava nel boschetto». Non una selva o una giungla per Rambo, nè zona impervia come descritta da tanti: anzi un bosco di arbusti triangolare di 200/300 metri per lato. «Igor lo percorreva - spiega il rapporto - per tutta la sua lunghezza, affacciandosi poi sul lato più lungo (l’ipotenusa del triangolo, ndr) dove veniva nuovamente avvisato dai tre militari»: terza volta nel mirino mentre nel frattempo i tre carabinieri controllavano, lungo i tre lati che non si allontanasse.
I rinforzi arriveranno alle 20.15, mezzora dopo il primo contatto. e «venivano impiegati immediatamente nella cinturazione dell’area». Secondo l’annotazione, Igor non poteva essersi allontanato dal boschetto. Lo descrivono vestito con cappello da pescatore verde militare, giaccone e pantaloni di stesso colore, maglione nero e occhiali con lenti scure a coprire il viso. Era armato? «L’uomo non mostrava alcuna arma». E allora, perchè non hanno sparato? la domanda che tanti si sono posti. «Non è stato possibile attingerlo con le armi in dotazione, i militari non erano in alcuna posizione favorevole da potere ottenere risultati senza conseguenze per la loro incolumità: per cui, stante alle disposizioni e alle circostanze, l’unica azione era quella di porre una attenta osservazione in sicurezza». Quattro mesi e mezzo dopo, l’osservazione continua.
Igor il Russo, i figli della guardia ecologica Valerio Ferri scrivono ai ministri Minniti e Orlando. Questa è la lettera, pubblicata da “Libero Quotidiano” l’11 Agosto 2017, che Francesca e Emanuele, figli di Valerio Verri (la guardia ecologica uccisa da Igor il russo), hanno scritto ai ministri della Giustizia Andrea Orlando e dell’Interno Marco Minniti dopo aver scoperto che i carabinieri hanno incrociato il killer tre volte. Senza mai prenderlo.
"Caro Ministro Orlando e caro Ministro Minniti, siamo Francesca e Emanuele Verri. Siamo i figli di Valerio, ucciso a sangue freddo quattro mesi fa nel Mezzano di Ferrara. Dopo gli articoli apparsi sulla nostra stampa locale dove si dava cronaca del fatto che per ben tre volte il famigerato Igor, assassino di nostro padre, per ben tre volte avrebbe incontrato pattuglie dei Carabinieri e per tutte e tre le volte sarebbe stato lasciato andare in attesa di rinforzi, noi adesso diciamo veramente basta. Questa sembra essere diventata una commedia che manca di rispetto alle vittime. Ci sono stati dei morti ammazzati. Uno di questi è nostro padre. Noi siamo cittadini e non numeri. Rivendichiamo rispetto. Non ce l'abbiamo con i giornalisti. Anzi. Siamo arrabbiati con le istituzioni. Cosa si sta facendo in concreto per catturare questa persona? Cosa si sta facendo in concreto per perseguire le gravi responsabilità di coloro che hanno gestito in modo così superficiale e dilettantistico il nostro territorio? Questa non è una fiction dove qualcuno deve dimostrare di essere più bravo degli altri mentre i cittadini ci rimettono la pelle. La giustizia esiste solo per coloro che non portano la divisa? Ma noi diciamo questo: chi sbaglia deve essere chiamato ad assumersi le proprie responsabilità. Punto e basta. Mentre Carabinieri armati ed addestrati non sono stati ritenuti in grado di affrontare insieme quel criminale, nostro padre, pensionato e volontario di Legambiente, è stato mandato allo sbaraglio, disarmato, proprio in quei luoghi dove il comando dei Carabinieri ben sapeva si trovasse il latitante e pluriomicida Igor. Questo è un delirio totale inaccettabile cui si adegua anche la giustizia? Lo vogliamo chiedere personalmente a Voi Ministri Orlando e Minniti, se vorrete risponderci e riceverci. Pretendiamo rispetto e responsabilità. Non vendetta o commiserazione. E rispetto vuol dire chiamare alle proprie evidenti responsabilità colui che, anche se "importante" ha sbagliato più e più volte in modo intollerabile. Ogni volta che vediamo conferenze stampa dove le forze dell'ordine vengono fotografate per aver arrestato spacciatori od ubriachi noi cambiamo canale. Non è certo colpa loro, ma qualcuno si pone il problema di come ci possiamo sentire noi cittadini del Mezzano? Qualcuno si pone il problema di come ci possiamo sentire noi figli di Valerio Verri??? Famiglia Valerio Ferri".
PARLIAMO DI FERRARA
Il lato oscuro di Ferrara tra spaccio e mafia nigeriana. Dieci anni fa era una città felice. Oggi ha i negozi chiusi e la povertà più che raddoppiata. Mentre la criminalità offre lavoro come vedette della droga nei parchi, scrive Fabrizio Gatti il 19 febbraio 2018 su "L'Espresso". Piove su Ferrara e soffia una tramontana che condensa il respiro. Un po’ prima delle due del pomeriggio un autobus lascia davanti alla stazione il suo carico di studenti. Sono teenager dei licei e degli istituti professionali che abitano in provincia. Facce da quindicenni e sedicenni. Devono solo attraversare il piazzale per andare a prendere il treno. Dai portici accanto alla fermata sbuca all’improvviso una calca di ragazzi africani più grandi di loro. Tutti i giorni sono lì, anche sotto la pioggia. Non aspettano l’autobus, ma gli studenti. L’incontro quotidiano con i ragazzini di ritorno da scuola è l’altra faccia di Ferrara. Può non piacere parlarne, ma esiste: i venti africani che ci circondano tra la fermata e le vetrine dell’Hotel de la Ville chiuso per sempre sono spacciatori, quasi tutti nigeriani. Vendono hashish, cocaina e ketamina, un potente anestetico offerto agli adolescenti come allucinogeno. Puoi passare intere giornate senza incrociare una volante della polizia, una pattuglia dei carabinieri o una macchina dei vigili urbani. Lo spacciatore di quartiere è invece un’istituzione. Li vedi ovunque. Controllano con decine di vedette fisse il parco tra la stazione e il Grattacielo, due torri costruite sessant’anni fa, venti piani di appartamenti, centonovanta famiglie praticamente in ostaggio. Hanno in mano ventiquattro ore su ventiquattro il piazzale della Castellina al di là dei portici. E poi via Sauro, il parco di piazza Toti e via Cassoli, la strada che porta i turisti verso il Castello Estense e i tifosi allo stadio della Spal. Dopo la concorrenza spietata dei centri commerciali che qui sono gestiti dalle Coop, lo spaccio ha dato il colpo di grazia ai negozi. Scomparsi i clienti dal quartiere, se ne sono andati il salumiere, il panettiere, la cartoleria e tutti gli altri, lasciando centinaia di metri di saracinesche abbassate. Ma per la droga il servizio arriva anche a domicilio: improvvisati postini in bicicletta consegnano in centro le dosi ordinate al telefono su WhatsApp. E la sera si prendono pure il parco giochi dei bambini, dietro il monumentale acquedotto di piazza XXIV Maggio. Ovviamente la mafia nigeriana può occupare pezzi di città perché esiste una criminalità italiana che la rifornisce. E soprattutto perché dai quattordicenni agli universitari italiani lo sballo settimanale a botte di hashish e alcol o direttamente di ketamina è ormai un dramma diffuso. Dalle finestre che si affacciano su viale della Costituzione e viale Cavour però il ragionamento degli inquilini è più diretto. E quello che vedono da quassù diventa pubblicità gratis, sette giorni su sette, alla campagna elettorale delle destre. C’era una volta il mito della provincia italiana, l’urbanistica a misura di persona, la qualità della vita come bandiera. Certo, c’era. La crisi, l’invecchiamento degli abitanti, il crollo demografico hanno azzerato i parametri. Ferrara è una vetrina che espone le contraddizioni della decrescita italiana. Dieci anni fa la recessione l’ha investita che sembrava ancora un borgo felice. Oggi la restituisce con gli stessi dolori di una metropoli post industriale. Cominciamo dalla povertà. Ogni tre anni il Comune presenta “L’indagine sulle condizioni di vita”. A pagina 60 dell’ultimo rapporto pubblicato nel 2016, questa è la fotografia: «Per quanto riguarda i singoli individui, l’incidenza di povertà a Ferrara si è mantenuta tra il 4,6 per cento del 1994 e il 4,7 del 2006 con una certa stabilità, per poi nel 2009 salire all’8,3, al 9,8 nel 2012 e al 10,2 per cento nel 2015». Un residente su dieci tra i 132.278 abitanti è quindi sotto la soglia, che per l’Istat equivale a circa 750 euro di entrate al mese: sono 13.227 persone che ammettono di non potersi permettere un adeguato riscaldamento della casa, le spese mediche, l’acquisto di alimentari o vestiti nuovi, i costi per mandare i figli a scuola e che non riescono più a pagare le bollette, l’affitto oppure a rimborsare debiti, prestiti o le rate del mutuo. Tra loro, il 39 per cento vive in famiglie con almeno un componente di origine straniera. Il resto colpisce cittadini italiani, ai quali si aggiunge un altro 15 per cento di ferraresi in bilico appena sopra la soglia. La disoccupazione a Ferrara è poco sotto la media nazionale: 10,6 per cento (contro l’11,2), ma sale al 23,8 per cento per i giovani in età da lavoro fino ai 29 anni. Anche la concentrazione di stranieri residenti non è tra le più alte al Nord: 10,3 per cento. La fotografia di disperazione è ancora più sorprendente perché l’Emilia Romagna è la regione italiana con la più bassa incidenza di poveri (4,8 per cento), preceduta soltanto dalla Lombardia (4,6) e seguita dal Veneto (4,9). L’assistenza necessaria ai cittadini in difficoltà è affidata alla Asp, l’ente per i servizi alla persona. La cifra stanziata dal Comune di Ferrara è stabilita da un contratto con l’azienda pubblica: sette milioni e mezzo all’anno è l’ultimo aggiornamento del 2017, come si legge a pagina 15 dell’accordo. Adesso bisogna fare qualche calcolo per verificare se l’aiuto sia davvero efficace: sette milioni e mezzo diviso 13.227 ferraresi sotto la soglia di povertà fanno 567 euro all’anno a persona. Cioè un euro e cinquanta centesimi al giorno. Per ogni povero residente a Ferrara, italiano o straniero che sia, il Comune stanzia l’equivalente di un biglietto dell’autobus, un quotidiano, una bottiglietta di birra. Una media che esclude necessariamente parte della popolazione dai servizi. Ma l’Asp è lo stesso ente al quale la Prefettura di Ferrara affida l’assistenza sia ai profughi che chiedono asilo, sia ai migranti che cercano di beneficiare della protezione umanitaria. Così il confronto può essere diretto. La cifra che lo Stato rimborsa in questi casi è indicata a pagina 4 della convenzione firmata dal prefetto Michele Tortora, come «determinato con direttiva ministeriale»: sono 35 euro al giorno per persona. Per il 2016 l’Asp ha fatturato alla Prefettura e al ministero dell’Interno 8 milioni e 490 mila euro per avere ospitato una media mensile di 677 richiedenti asilo. Mentre per tutto il 2018 la nuova convenzione tra Prefettura e azienda pubblica ipotizza un aumento fino a millecinquecento posti per una disponibilità di spesa di 19 milioni 162 mila euro. Da due anni a Ferrara la cifra destinata all’accoglienza dei nuovi arrivati ha quindi superato quella assegnata ai residenti più poveri, tra i quali più di un terzo sono famiglie di lavoratori o disoccupati stranieri già integrati. Con una diseguaglianza mostruosa: 35 euro al giorno per persona contro un euro e cinquanta centesimi. Ovviamente i 35 euro non vanno agli ospiti stranieri. Loro prendono una diaria di 2 euro e 50 al giorno. Il resto rimborsa vitto, alloggio, formazione e servizi forniti a Ferrara dalla cooperativa Camelot, al vertice della cordata che si è aggiudicata la commessa. La diseguaglianza è però il risultato più evidente del modello di immigrazione adottato dal governo italiano dal 2014 in poi che, al di là del soccorso obbligatorio in mare, nel frattempo ha fatto poco o nulla per affrontare la questione all’origine nei Paesi di partenza. Da un lato la legge blocca i bilanci dei Comuni. Dall’altro il ministero dell’Interno ha mano libera, ma nessun progetto premeditato e condiviso, in sintonia con le condizioni economiche: dall’operazione Mare nostrum agli ultimi accordi con i trafficanti libici, l’Italia ha praticamente inseguito l’emergenza. «Se andasse tutto bene, non avremmo così tanti spacciatori sotto casa», si lamenta una giovane mamma moldava che abita nel Grattacielo e chiede l’anonimato per paura. La risposta anche per Ferrara è nella statistica del ministero dell’Interno. Delle 505.378 persone sbarcate o soccorse in mare dal 2014 al 2016, le commissioni territoriali delle prefetture hanno respinto 55.423 domande di asilo nel 2016 (60 per cento delle richieste in quell’anno), 41.503 nel 2015 (58 per cento), 14.217 nel 2014 (39 per cento) più altre 9.174 nel 2013 (29 per cento). Cioè lo Stato ha offerto ospitalità e l’ha contemporaneamente negata: ma soltanto dopo il remunerativo passaggio nei centri di accoglienza istituzionali. Il problema da risolvere oggi è cosa fare di questo esercito di centoventi mila persone, quasi tutti uomini, che non possono lavorare, trovare casa, vivere se non in clandestinità. L’idea di rimpatriarli in massa fa sorridere: servirebbero 1.100 voli, cinque anni e mezzo di attività senza mai un giorno di sosta, trecento milioni di spesa per il carburante più il costo per gli agenti della scorta e accordi bilaterali con i Paesi di origine che non abbiamo. Anche la rete ufficiale dell’accoglienza meriterebbe una riflessione. Nel 2015 su 29.698 stranieri accolti nel Servizio centrale del sistema per richiedenti asilo e rifugiati soltanto 1.972 hanno ottenuto un inserimento nel lavoro (Atlante Sprar 2015). Mentre sui 34 mila del 2016, soltanto 895 (Atlante Sprar 2016). Infatti il 39,7 per cento dei progetti di tirocinio finanziati non ha portato a nessuna assunzione, il 33,8 per cento non ha dato nessun inserimento abitativo, il 26,9 per cento dei percorsi approvati non ha incredibilmente beneficiato di nessun corso di formazione. E si tratta della miglior rete che Comuni, associazioni umanitarie e singoli volontari sono riusciti a costruire. L’imbuto della crisi colpisce tutti. Nella disperazione perfino la mafia nigeriana, che alle nuove reclute offre un posto fisso nei parchi di Ferrara, è un vergognoso calmiere sociale. Senza soluzioni, l’alternativa potrebbe essere peggiore. La sera del 30 novembre Sandra Maestri, 32 anni, attraversa a piedi piazza XXIV Maggio. Cinque ragazzi africani la vedono e la massacrano di botte. Le afferrano i capelli e le sbattono la testa contro la panchina. Lei ha appena ritirato lo stipendio, 500 euro, dal papà con cui lavora al banco ortofrutticolo nei mercati. Per terra restano la donna svenuta e il portafoglio vuoto. Qualche giorno prima dell’aggressione, la sottosegretaria Maria Elena Boschi consegna al sindaco Tiziano Tagliani, a capo di una giunta di centrosinistra, il via libera del governo che ha inserito la riqualificazione del Grattacielo nel piano nazionale per le periferie: lo Stato ci mette due milioni, la Regione tre. Secondo il Comune il problema è lì. Il progetto però prevede l’esproprio di tutti gli appartamenti e la demolizione delle due torri. Una mazzata per i condòmini proprietari. La giovane mamma moldava è tra loro. Vive con il marito operaio specializzato, due bimbi piccoli e il loro cane. Dieci anni fa avevano comprato casa per 70 mila euro con un mutuo di trent’anni. Fino a novembre, grazie agli spacciatori in strada, il valore dell’appartamento era precipitato a 30 mila euro. Dopo l’annuncio della sottosegretaria Boschi, oggi vale zero. Addio risparmi nel mattone. «Facciamo ricorso al Tar», protesta infuriato un commerciante, uno dei tanti abitanti italiani, ferrarese da generazioni: «Il Grattacielo è un modello di convivenza multietnica. L’esproprio a valore di mercato attuale significa che non potremo comprare una casa da nessun’altra parte. Abbiamo appena fatto spese colossali per rifare gli ascensori e gli impianti di geotermia, stiamo partendo con i lavori per il sistema antincendio. Noi qui siamo un presidio di legalità. Il problema sono gli spacciatori in strada, non noi. È una speculazione immobiliare sulle nostre teste. Se vanno a spacciare davanti a San Giorgio cosa fanno, demoliscono la cattedrale?». Fino a due anni fa i senza tetto espulsi dalla rete dell’accoglienza dormivano in periferia, nella scuola dietro il cinema abbandonato di via Foro Boario. Dalla grande vetrina dell’officina del ciclista lì di fronte hanno visto chiudere l’elementare per mancanza di bambini. Ed è arrivato l’asilo. Poi hanno chiuso l’asilo ed è arrivato il mondo. Dal 2002 i ferraresi che muoiono sono costantemente più del doppio dei nati: 1.972 decessi e 805 nascite nel 2015. Senza immigrati residenti, Ferrara oggi avrebbe perso più di dodicimila abitanti e millesettecento tra bambini e ragazzini. Lo stesso crollo che si vive in provincia, dove le grandi aziende agricole faticano a trovare manodopera. «Non metta il mio nome, loro sanno chi sono», supplica il meccanico che dal 1984 aggiusta le biciclette del quartiere: «Ho 68 anni, mica venti. Ho fatto un infarto, se mi danno uno scappellotto mi trovano per terra il giorno dopo». Chi dovrebbe aggredirla? «Quelli che adesso sono di là alla stazione, ci siamo capiti. Abbiamo vissuto nella paura fino a quando li hanno mandati via e hanno murato la scuola. Guardi il palazzo qui di fronte. Sono sei appartamenti. Uno è vuoto, gli altri cinque sono abitati da persone sole e la più giovane ha sessantacinque anni. Ho visto il quartiere spegnersi». Solo una nuova immigrazione può forse riaccenderlo. «Sì, ma dobbiamo metterci d’accordo sulle regole. Io ho votato Partito comunista. Alle mie prime elezioni mia mamma mi ha detto che quello era il partito di noi operai. Adesso è cambiato tutto. Di fronte a questo caos, l’avrà visto, penso che voterò a destra. Non i fascisti, quelli mai. Ma un po’ di autorità sì, che li metta un po’ tutti in riga».
LA MASSONERIA A FERRARA.
Massoneria, a Ferrara quattro logge in attività. Dalla più antica a quella, tutta femminile, costituita nel 2010. Segnali di apertura dalla 'Giordano Bruno', scrive “L’Estense”. Se da una parte il Movimento 5 Stelle ha presentato, per voce del consigliere Giovanni Favia, un’interrogazione sulle logge massoniche nel tentativo di far uscire allo scoperto chi ricopre un incarico pubblico – “chi ricopre un incarico pubblico dichiari le proprie appartenenze”, afferma Favia nella sua ‘operazione trasparenza’ – dall’altra gli appartenenti alle logge, in regione come nel Ferrarese, difficilmente acconsentiranno a rendere pubblico il proprio nome in associazione alla massoneria, la cui caratteristica è storicamente legata alla segretezza. Questo nonostante proprio a Ferrara la massoneria non manifesti più quella forza e influenza che altrove invece esercita ancora. Nella nostra provincia gli appartenenti alle logge massoniche sono infatti stimati in un centinaio di persone, suddivise nelle quattro logge ancora in attività. La più anziana, in quanto fondata nel 1945, è intitolata a “Girolamo Savonarola”, mentre di più recente costituzione sono le logge “Giordano Bruno” (1973) e “Meuccio Ruini” fondata nel 2006 a Cento. Ancora più recente, del 2010, la costituzione di una loggia femminile, il Capitolo Osiride, delle “Stelle d’Oriente”. Fra queste la più attiva è forse la loggia “Giordano Bruno”, che si identifica come la numero 852 affiliata al Grande Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani. Attiva anche in termini di quella ‘trasparenza’ chiesta dal Movimento 5 Stelle, dato che, quantomeno, alcune basilari informazioni su di essa sono state inserite in un sito internet consultabile da chiunque. Sito che contiene anche una breve storia della loggia “Giordano Bruno” e, più in generale, della massoneria estense. Così si scopre che furono 8 i massoni ferraresi a fondare la loggia 852, divenuti oggi una cinquantina. Ma chi sono i massoni ferraresi? Alla domanda proprio sul sito della “Giordano Bruno” si dà una parziale risposta. Niente nomi, ovviamente, ma alcuni preziosi indizi: “A questa domanda – si legge infatti nel capitolo del sito dedicato alla “Ferrara Massonica” – si può ancora incappare in un certo riserbo (anche se ormai il concetto di segretezza della vecchia massoneria è stato del tutto superato, e sono sempre più frequenti le manifestazioni ed i convegni in cui i “liberi muratori” si manifestano apertamente e pubblicamente; gli stessi massoni ferraresi non si nascondono affatto: alla porta del loro tempio, c’è una vistosa ed esplicita targhetta…). Più semplice, comunque, è ottenere una risposta esauriente ad un altro quesito: cosa sono i massoni? Ci viene detto che sono principalmente “cercatori” o meglio “esploratori” delle più antiche fonti del sapere e della spiritualità. E’ del tutto falso che la Massoneria rifiuti ed osteggi la religione. E quella cattolica in particolare. Anzi, ad ogni “iniziato” è espressamente richiesto di avere un credo od un fondamento religioso. Probabilmente ciò che differenzia i massoni dai cattolici più osservanti è unicamente il fatto di sentire il forte bisogno di andare oltre ai dogmi e ricercare in antichi percorsi sapienziali ed iniziatici le radici più autentiche della propria fede”. Come si potrà notare, dunque, non sono indicati né i nomi dei “liberi muratori” né tantomento il luogo in cui si troverebbe il loro “tempio”. Si ritrovano invece molti nomi di massoni ferraresi ormai passati alla storia. Fra questi Ercole Tancredi Mosti, Ugo Bassi e, in tempi più recenti, Arnaldo Ferraguti (primo illustratore del libro “Cuore” ), Giulio Gatti Casazza e il centese Giuseppe Borgatti. Scorrendo questa pagina di storia massonica ferrarese il sito della “Giordano Bruno” fornisce ancora altri interessanti indizi sugli appartenenti. “Personaggi della massoneria ferrarese – è scritto – hanno certamente inciso nella vita pubblica della città. Allora, come in parte oggi, frequentavano il tempio massonico personaggi di rilievo dell’economia (ai vertici di imprese, delle principali associazioni di categoria, e dei maggiori istituti di credito cittadini), delle istituzioni, dell’università, dei mestieri e delle professioni”. “Allora come in parte oggi”, dunque. La massoneria “non vuole certamente più nascondersi”, si sostiene nello spazio web della loggia estense, che mette nero su bianco una sorta di ‘manifesto’ o, meglio, di “sogno della Massoneria ferrarese e di quella italiana in generale”, quello cioé “di poter vivere finalmente in un paese “normale”. Dove sia appunto normale praticare tolleranza, fratellanza, ed eguaglianza, senza incorrere in sospetti e discriminazioni. Dove sia normale dirsi fratelli e praticare la massoneria”. Un segno di ‘apertura’, infine, viene dato nello svelare come in tempi recenti Ferrara abbia già ospitato “pubblicamente” per due volte le massime cariche massoniche: “negli Anni Ottanta il Gran Maestro Armando Corona (nel corso di una memorabile serata del Lyons Club all’Hotel Astra), nel 1999 il Gran Maestro Virgilio Gaito (nel corso di una serata del Rotary Club di Copparo)”. “Il prossimo appuntamento – annunciano dal sito – potrebbe essere proprio quello con l’attuale Gran Maestro Gustavo Raffi, avvocato ravennate, con alle spalle un certo impegno politico nel Partito Repubblicano di Spadolini e La Malfa, il quale è fra l’altro legato a Ferrara da un singolare ricordo personale, che ha raccontato egli stesso recentemente: la sua iniziazione in massoneria, avvenne infatti proprio al ritorno da un suo comizio nel Ferrarese”.
Molti ferraresi non sanno quanto intenso e ricco di episodi sia da sempre il rapporto fra la loro città e la Libera Muratoria, scrive “La Loggia Giordano Bruno”. Attualmente sono tre le Logge estensi in attività, intitolate rispettivamente a “Gerolamo Savonarola” (la più “anziana”, fondata nel 1945), a “Giordano Bruno” (fondata nel 1973) ed a “Meuccio Ruini” (2006). Recentemente, nel 2010, si è aggiunta anche una loggia femminile, il Capitolo Osiride, delle “Stelle d’Oriente”.
La rispettabile Loggia numero 852 all’Oriente di Ferrara, intitolata a “Giordano Bruno”, martire del libero pensiero, è la seconda, in ordine di anzianità fra le tre officine massoniche affiliate al Grande Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani, attualmente in attività in provincia di Ferrara. La Loggia Giordano Bruno si sta avvicinando al compimento dei “suoi primi quarant’anni”: il suo battesimo ufficiale, risale infatti esattamente al 18 Settembre 1973.
Furono in otto, allora, i fratelli massoni ferraresi a sedersi per primi fra le colonne del suo tempio. Oggi sono quasi cinquanta (mentre complessivamente i massoni ferraresi sono circa un centinaio, più un piccolo gruppo di “sorelle” che hanno recentemente dato vita ad una nuova loggia femminile, denominata “Osiride”, delle Stelle d’Oriente, raccogliendo l’eredità di un analogo gruppo che si era formato in città negli anni Cinquanta-Sessanta, ed ancor prima, in tempi post risorgimentali, della Loggia Anita Garibaldi, appartenente ad un ordine femminile non riconosciuto dal Grande Oriente d’Italia). La più antica loggia ferrarese, tuttora in attività, è invece intitolata a Girolamo Savonarola (che riprese il nome e riaccese la tradizione di un’altra prestigiosa loggia ferrarese, che si era “spenta” e dispersa durante l’ultima guerra). L’elevamento delle sue colonne risale al 30 Ottobre 1945. Singolare, fors’anche più significativo dal punto di vista simbolico, il fatto che un rogo (quello che arse Giordano Bruno in Campo dei Fiori a Roma il 17 Febbraio 1600, e quello che arse nel 1498 Savonarola a Firenze) accomuni le due logge “storiche” della città estense. La terza e più giovane loggia ferrarese è stata invece posta “a battesimo” il 30 Gennaio 2006 all’Oriente di Cento, nel nome di “Meuccio Riuni”, insigne massone emiliano che è stato fra i padri nobili della nostra Costituzione.
Chi sono i massoni ferraresi?
A questa domanda si può ancora incappare in un certo riserbo da parte dei suoi membri (anche se ormai il concetto di segretezza della vecchia massoneria è stato del tutto superato, e sono sempre più frequenti le manifestazioni ed i convegni in cui i “liberi muratori” si manifestano apertamente e pubblicamente; gli stessi massoni ferraresi non si nascondono affatto: alla porta del loro tempio, c’è una vistosa ed esplicita targhetta…). Più semplice, comunque, è ottenere una risposta esauriente ad un altro quesito: cosa sono i massoni? Ci viene detto che sono principalmente “cercatori” o meglio “esploratori” delle più antiche fonti del sapere e della spiritualità. E’ del tutto falso che la Massoneria rifiuti ed osteggi la religione. E quella cattolica in particolare. Anzi, ad ogni “iniziato” è espressamente richiesto di avere un credo od un fondamento religioso. Ciò che differenzia i massoni dai cattolici più osservanti è unicamente il fatto di sentire il forte bisogno di andare oltre ai dogmi e ricercare in antichi percorsi sapienziali ed iniziatici le radici più autentiche della propria fede.
Qual è il rapporto fra Ferrara e la Massoneria?
Probabilmente più intenso e significativo di quanto pensa la maggior parte dei cittadini di questa città e di questa provincia. Ci sono evidenze del pensiero iniziatico ed esoterico a Ferrara fin dalle sue origini. Gli stessi costruttori del Duomo erano probabilmente iniziati ad una scuola pitogorica, e realizzarono il tempio sulla base della tetractis pitagorica, un’armonia geometrica legata al numero 10, lasciando la propria firma simbolica nelle gambe incrociate a forma di “X” (che nella numerazione romana significa appunto 10) di uno dei due talamoni del protiro. In tempi più recenti, comunque anteriori all’istituzione dell’attuale Massoneria ( i cui statuti vennero codificati in Inghilterra nel 1717), tracce di simbologia esoterica si trovano anche nell’opera dei grandi pittori ferraresi, dal Cossa al Dosso Dossi, ed anche nei quadri dell’artista centese Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino (un suo dipinto in particolare, denominato Et in Arcadia Ego) del XVI Secolo. Non va infine dimenticato che nella sua antica università Ferrara ha ospitato molti grandi “iniziati” come ad esempio Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus von Hohenheim detto Paracelsus o Paracelso (1493-1541), celebre alchimista, astrologo e medico svizzero, che proprio nella città estense si laureò in medicina. Molti ferraresi di oggi si stupirebbero, inoltre, passeggiando per le vie della città, di constatare quante strade sono intitolate a personaggi della Massoneria: via Mazzini, via Garibaldi, ma anche via Carlo Mayr, via Bersaglieri del Po (la compagnia creata dal massone ferrarese Ercole Tancredi Trotti Mosti nel 1847), e tante altre. Icona e martire del Risorgimento e della massoneria anche un grande centese, Ugo Bassi, frate barnabita e cappellano delle truppe garibaldine; catturato a Comacchio (probabilmente scambiato per lo stesso Garibaldi, per una certa somiglianza dovuta soprattutto all’identica foggia della barba) e fucilato a Bologna dagli austriaci nel 1849.
C’è chi dice che Ugo Bassi, avvisato per tempo dell’arrivo dei gendarmi, abbia voluto trattenersi egualmente proprio per avvantaggiare la fuga di Garibaldi; un estremo sacrificio per l’amicizia e la fratellanza che lo legava all’eroe, che a Comacchio trovò comunque anche altri preziosi aiuti da massoni del luogo per sottrarsi alla caccia delle truppe papaline e austriache; decisivo fu in particolare il soccorso massonico da parte del colonello comacchiese Nino Bonnet, figura fondamentale nell’organizzazione della cosiddetta “trafila garibaldina”, fratello di Gaetano Bonnet difensore della Repubblica Romana a Villa Corsini al fianco di Angelo Masini. Altro sangue massone fu sparso in occasione del martirio di Succi, Malagutti e Parmeggiani, (un oste, un giovanissimo medico, un commerciante) fucilati dagli austriaci il 16 Marzo 1853. Vari massoni ferraresi figurarono anche fra gli altri “congiurati” arrestati e condannati a pesanti pene di lavori forzati, in quella stessa occasione, dagli austriaci: De Lucca, Pareschi, Camillo Mazza, Vincenzo Barlaam, Gaetano Ungarelli (giovanissimo studente di legge che morì poi combattendo con Garibaldi in Sicilia) ed ancora Franchi Bononi, De Giuli, Battara…Un massone ferrarese, Arnaldo Ferraguti, è stato il primo illustratore del libro Cuore, di Edmondo De Amicis, scelto dall’autore proprio per “fraterna amicizia”. Molte anche le straordinarie donazioni, di ispirazione massonica, alla comunità. Nel nome del massone Pico Cavalieri, eroe della prima guerra mondiale, morto nel Gennaio del 1917 precipitando con il suo dirigibile durante un volo di collaudo, la sua stessa famiglia donò alla città il grande palazzo di Corso Giovecca, a lungo destinato, come “Casa della Patria – Pico Cavalieri”, ad ospitare le sedi di varie Associazioni Combattentistiche e d’Arma. Attualmente Palazzo Cavalieri è divenuto la prestigiosa sede dei Donatori di Sangue dell’Avis ferrarese. Dalla stessa famiglia Cavalieri (che vide diversi suoi esponenti fra le logge massoniche) fu donato alla città anche il monumentale complesso di San Cristoforo dei Bastardini, o “Ca’ di Dio”, in via Bersaglieri del Po, attuale sede dell’Istituto d’Arte Dosso Dossi. Una straordinaria donazione di 10.000 dollari (un’autentica fortuna per quei tempi) - nel nome del massone ferrarese Giulio Gatti Casazza, divenuto prestigioso direttore della Scala e del Metropolitan Theatre di New York – fu determinante nel 1935 per completare il restauro del Teatro Comunale di Ferrara, di cui era stato direttore. Fino a pochi anni fa nel portico del Teatro Comunale c’era una lapide che ricordava la munifica donazione del (massone) ferrarese Gatti Casazza. Ma, non si sa perché, è stata recentemente rimossa. Nonostante questa incomprensibile cancellazione della memoria, la massoneria italiana ha voluto sostenere generosamente il Teatro Comunale di Ferrara anche dopo il terremoto del Maggio 2012, donando per i restauri l’ingente somma di 50mila euro, frutto di una sottoscrizione fra tutte le logge italiane. Più fortuna ha avuto invece, in provincia, il ricordo di un altro grande musicista appartenuto alla massoneria: il tenore Giuseppe Borgatti, nato a Cento nel 1871, morto a Reno di Leggiuno nel 1950, al quale è tuttora intitolato il prestigioso Teatro Comunale di Cento. La città del Guercino annovera fra le figure fondamentali della sua storia un altro grande massone, Giuseppe Borselli, patriota risorgimentale, gonfaloniere e sindaco di Cento nel momento del delicato passaggio della cittadina dallo Stato Pontificio al nuovo Regno d’Italia. A Giuseppe Borselli si deve la fondazione della Cassa di Risparmio di Cento di cui fu a lungo presidente, distinguendosi anche nelle opere per l’infanzia e per l’istruzione, facendo dell’asilo Giordani di cui fu presidente (ed anche generoso finanziatore) un’istituzione all’avanguardia, per quei tempi, a livello nazionale ed europeo, per i servizi di cui era dotata. Borselli divenne anche senatore del Regno. Fu un grande cultore e studioso di esoterismo, alchimia e spiritismo. Intrattenne, al riguardo, una doviziosa corrispondente con un altro politico politico centese, Francesco Borgatti, suo fraterno amico, che fu anche Ministro di Grazia e Giustizia. Alla sua morte volle che i suoi beni, per altro davvero ingenti, fossero devoluti alla costruzione di un grande ospedale, a Bondeno, che porta ancora oggi il suo nome. Un altro grande atto di generosità fu compiuto dall’insigne massone ferrarese, Max Ascoli, esponente del liberalismo ebraico locale, che aveva abbandonato Ferrara qualche anno prima della promulgazione delle Leggi Razziali, e che vi fece ritorno negli Cinquanta dopo aver fatto una cospicua fortuna negli Stati Uniti, divenendo uno dei più fidati e preziosi collaboratori del banchiere Rockfeller. Max Ascoli e la sua famiglia finanziarono la costruzione di un intero padiglione dell’Arcispedale San Anna, dedicato alla cura di malattie della vista. Anche la sede di una delle più prestigiose istituzioni culturali cattoliche, Casa Cini, può considerarsi indirettamente una donazione massonica. Figlio di un farmacista ferrarese, il conte Vittorio Cini, pioniere dell’industria elettrica italiana, fu per molto tempo incline a donare la storica residenza di via Santo Stefano proprio alla Massoneria ferrarese, perché potesse utilizzarla come proprio tempio e sede di loggia. Intensi contatti preliminari erano già stati tenuti fra esponenti della Loggia Savonarola di Ferrara, vicini al conte (contatti tenuti in particolare dall’ing. Gandini, che svolgeva allora mansioni di grande responsabilità all’interno della SADE, la società elettrica del conte Cini). Ma alla tragica morte del figlio Giorgio, avvenuta in un incidente aereo nel 1949, ed in seguito al dolore ed alla profonda crisi spirituale che ne seguì, lo stesso Conte Cini finì per destinare il prestigioso palazzo ai Gesuiti. Naturalmente sono molte altre le azioni benefiche, intense e silenziose, che la massoneria ferrarese ha compiuto in tutti questi anni, con le risorse del cosiddetto “tronco della vedova” (ovvero la raccolta di oboli che viene compiuta ritualmente nelle logge), per soccorrere singoli casi umani e particolari situazioni di disagio e indigenza. Personaggi della massoneria ferrarese hanno certamente inciso nella vita pubblica della città. Allora, come in parte oggi, frequentavano il tempio massonico personaggi di rilievo dell’economia (ai vertici di imprese, delle principali associazioni di categoria, e dei maggiori istituti di credito cittadini), delle istituzioni, dell’università, dei mestieri e delle professioni. Si è molto vagheggiato anche sul ruolo “politico” della massoneria. Per il fatto che personaggi del regime fascista come Balbo e Rossoni abbiano fatto parte della Massoneria, o per le vicende delle più recenti deviazioni come quella di Gelli e della P2 (Gelli fra l’altro frequentò moltissimo Ferrara, anche durante la sua avventurosa latitanza, perché proprio nella nostra città viveva la sorella maggiore, alla quale era legatissimo), molti pensano alla Massoneria come ad un’entità oscura, reazionaria, elitariamente antidemocratica. Niente di più lontano dalla realtà. Basterebbe pensare che il primo Partito Socialista italiano ha tenuto la sua assise di fondazione nei locali aperti al pubblico di un’antica loggia massonica genovese. Basterebbe pensare che la stessa Massoneria è stata ed è l’ispiratrice di tutte le lotte contro l’assolutismo (dalla rivoluzione francese a quella americana), ed al contrario è sempre stata osteggiata e perseguitata dai regimi totalitari, dal nazismo come dal comunismo, ed anche dal fascismo, durante il quale fu posta fuori legge e costretta a chiudere le proprie logge. Basterebbe riflettere sul fatto che la stessa Massoneria ha ispirato le più democratiche costituzioni degli stati moderni, la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, la nascita della Società delle Nazioni (divenuta poi l’Onu che conosciamo oggi), e moltissime associazioni filantropiche ed umanitarie. Nonostante questo, sul capo della Massoneria pesa ancora la scomunica della Chiesa Cattolica ed una fortissima diffidenza politica soprattutto dalle forze della sinistra, per così dire “storica” (ex PCI e dintorni). E pensare che proprio un massone, l’attore bolognese Gino Cervi, nei panni del sindaco Peppone eternamente in lotta (ma più spesso in combutta) con lo scomodo parroco Don Camillo-Fernandel, aveva saputo interpretare meglio di chiunque altro, in un’indimenticabile serie di film tratti dagli omonimi romanzi di un altro grande emiliano, Giovannino Guareschi, lo spirito genuino, onesto e popolare di una certa generazione del comunismo italiano, che fu per molti “l’altra chiesa” della nazione. Comunisti e cattolici erano allora divisi dall’ideologia ma sostanzialmente uniti da un dogmatismo speculare che rendeva particolarmente compatti i loro rispettivi “mondi”; per altro ancora intrisi di ingenuità e speranze tipiche del dopoguerra; un dogmatismo fideistico che aveva un unico vero e “insopportabile” nemico comune: il libero pensiero, laico e critico. Non a caso uno dei periodi più duri, attraversati dalla Massoneria in Italia, ha coinciso proprio con il periodo del cosiddetto “compromesso storico”, quando DC e PCI, nei lunghi anni dell’inchiesta parlamentare sulla P2 (che fu condannata e ripudiata molto più duramente e più rapidamente dalla stessa Massoneria ufficiale, nei confronti della quale la P2 fu comunque sempre un vero e proprio “corpo estraneo”), giunsero a promulgare leggi che impedivano ai massoni di esercitare cariche pubbliche (leggi, assolutamente discriminatorie, che la Corte Europea ha poi costretto l’Italia ad abrogare). Gli stessi catto-comunisti di allora, si sarebbero molto stupìti, ed avrebbero forse cambiato atteggiamento, se avessero saputo che furono massoni anche personaggi come Allende e Dubcek (rispettivamente il presidente socialista del Cile morto opponendosi al golpe militare di Pinochet, ed il protagonista della cosìddetta “Primavera di Praga”, coraggioso tentativo di riformare il sistema comunista che imperava nell’Est, tentativo represso dai carri armati sovietici; Dubcek poco prima delle sua morte ebbe modo di visitare Ferrara, Comacchio, il Delta, innamorandosi di questo territorio e della sua gente). E forse, tante persone che nutrono ancora oggi sospetti ed inquietudini nei confronti della massoneria, alleggerirebbero il loro spirito e le loro paure, sapendo che nelle logge massoniche hanno circolato personaggi “pericolosi” come Walt Disney, Stan Laurel e Totò…
La Massoneria oggi?
Non vuole certamente più nascondersi (ammesso che abbia mai valuto farlo: basta pensare alla straordinaria visibilità di uno dei più eclatanti simboli massonici, la Statua della Libertà, che troneggia la baia di New York, donata, con un chiaro sottinteso di fratellanza, dalla Francia all’America, opera dello scultore massone Bartholdy). L’attuale Gran Maestro, massima autorità massonica in Italia, Gustavo Raffi, propugna infatti una sempre più ampia apertura delle logge verso l’esterno. Il sogno della Massoneria ferrarese, e di quella italiana in generale, è quello di poter vivere finalmente in un paese “normale”. Dove sia appunto normale praticare tolleranza, fratellanza, ed eguaglianza, senza incorrere in sospetti e discriminazioni. Dove sia normale dirsi fratelli e praticare la massoneria. Proprio come avviene ad esempio negli Stati Uniti, dove ogni cittadino può tranquillamente manifestare la sua appartenenza alla massoneria, come hanno fatto vari presidenti (sia democratici che repubblicani, come Carter, Ford, Reagan, e lo stesso Clinton che in gioventù frequentò l’associazione massonica De Molay), e come hanno fatto e fanno tanti personaggi famosi dello sport, del cinema e della vita pubblica (rilevante, fra l’altro, l’ascendenza massonica all’interno della NASA: gli stessi nomi di molti progetti astronautici americani sono di chiara ispirazione “latomistica”: Mercury, Gemini, Apollo… e molti astronauti hanno portato in volo le insegne della propria loggia. Una di queste è stata posata anche sulla Luna… ). In tempi recenti Ferrara ha già ospitato per due volte “pubblicamente” le massime cariche massoniche: negli Anni Ottanta il Gran Maestro Armando Corona (nel corso di una memorabile serata del Lyons Club all’Hotel Astra), nel 1999 il Gran Maestro Virgilio Gaito (nel corso di un’analoga serata del Rotary Club di Copparo). Il prossimo appuntamento potrebbe essere proprio quello con l’attuale Gran Maestro Gustavo Raffi, avvocato ravennate, con alle spalle un certo impegno politico nel Partito Repubblicano di Spadolini e La Malfa, il quale è fra l’altro legato a Ferrara da un singolare ricordo personale, che ha raccontato egli stesso recentemente: la sua iniziazione in massoneria, avvenne infatti proprio al ritorno da un suo comizio nel Ferrarese.
MAGISTROPOLI. MAGISTRATI INADEGUATI. IL CASO MINNA.
Sarà sostituto alla procura generale della corte d'Appello. Nel congedarsi davanti al plenum del Csm si congedò dicendo "verrò radiato da innocente" scrive Marco Zavagli su “Il Fatto Quotidiano”. Trasferito d’ufficio ad altro incarico. È la decisione che ha preso il Consiglio superiore della magistratura sul caso Minna. Il procuratore capo di Ferrara era finito davanti alla prima commissione del Csm lo scorso maggio per incompatibilità ambientale. Questo perché a Ferrara il clima in procura, a detta dei pm che sollevarono la questione, era diventato “irrespirabile”, tanto da provocare “una incapacità di poter esercitare l’azione penale con serenità”. La vicenda passò all’esame del procuratore presso la Corte d’Appello di Bologna, che riferì di “dissapori” e “tensione” tra il procuratore capo e i sostituti, che si sarebbero sentiti vittime di un comportamento “a dir poco irriguardoso”. Da Bologna il fascicolo finì quindi all’esame del supremo organo di autocontrollo della magistratura. Dopo l’audizione davanti alla prima commissione, Rosario Minna venne sentito dal plenum, che ne confermò all’unanimità l’incompatibilità. Ora, a meno di un ricorso amministrativo, Minna si vede costretto a chiudere i suoi tre anni in via Mentessi e fare le valigie per Milano. Qui lo aspetta l’incarico di sostituto procuratore generale, presso la procura generale della Corte d’Appello.
Una conclusione non certo felice del “periodo ferrarese” per Minna, magistrato che in carriera si può appuntare sul petto inchieste sul terrorismo nero, su Licio Gelli e la Loggia Propaganda 2, sull’omicidio del giudice Vittorio Occorsio, sulle bombe sui treni nei primi anni Settanta, sul crac Cecchi Gori e sul fallimento della Fiorentina Calcio. A Ferrara invece Minna è inciampato su due inchieste. Due inchieste di cui è stato protagonista, ma questa volta non come attore. La prima è l’istruttoria aperta nell’ottobre del 2010 quando la procura di Ferrara fu oggetto di un’ispezione ordinata dal ministro Alfano. Presso la procura generale di Bologna l’ispettore Arcibaldo Miller interrogò lo stesso Minna, alcuni pm ferraresi e l’avvocato Fabio Anselmo (il legale dei casi Cucchi e Aldrovandi), che aveva depositato in estate un esposto per un episodio relativo a presunte minacce e intercettazioni telefoniche abusive nei suoi confronti. Per quei fatti la procura di Ancona, competente in procedimenti a carico di magistrati di Ferrara, aprì un fascicolo che si risolse poi con l’archiviazione. La seconda riguardava appunto i rapporti interni alla magistratura estense, inquinati dal presunto comportamento irriguardoso di Minna nei confronti dei colleghi. Una situazione che andò degenerando in concomitanza con il procedimento a carico di Massimo Ciancimino, per il quale procura stava procedendo per associazione a delinquere e truffe. Minna contestò con lettere infuocate il lavoro dei pm incaricati, in particolare in ordine a una perquisizione “che non mi venne comunicata”, come spiegò lo stesso procuratore capo al Csm, e alle indagini che secondo lui si protraevano troppo a lungo. Davanti ai giudici del Csm Minna si difese assicurando di “non avere problemi con nessuno e di non portare rancore verso i sostituti”, fino a liquidare la vicenda Ciancimino sostenendo che “la questione della criminalità organizzata non la posso lasciare a due giovanotti che discutono di conflitti tra procure”. “Sarò radiato innocente”, questo il suo congedo dal plenum.
INGIUSTIZIA. IL CASO ALDROVANDI.
SCHERZA CON I FANTI E LASCIA STARE I SANTI. Mai dimenticare la saggezza dei proverbi! Come quello che dice «scherza coi fanti ma lascia stare i santi» e che dovrebbe mettere in guardia dalla difficoltà di raccontare (e rappresentare) adeguatamente la verità storica sui fatti di cronaca che diventeranno storia. Da piccolo mia madre mi ripeteva spesso questa massima popolare “Scherza coi fanti, ma lascia stare i santi” e come tutte le massime anche questa contiene una filosofia spicciola, ma vitale; ciò che è “Santo” deve essere rispettato.
Vuoi fare satira sul Presidente del Consiglio o sui parlamentari o sui politici eletti dal popolo? Lo puoi fare.
Vuoi offendere a piacimento il Presidente del Consiglio ed i parlamentari o i politici eletti dal popolo? Lo puoi fare.
Puoi criticare l'operato del magistrato, che palesa pecche ed illogicità, foriero di errori giudiziari, ingiuste detenzioni, omessa giustizia e comunque evidente ingiustizia, esercitato nella veste di funzionario pubblico che ha vinto un concorso all'italiana? No. E' lesa maestà!!
Per questo chi santifica i magistrati e pende dalle loro labbra o dalle loro veline, vigendo l’impunità per loro riguardo la violazione del segreto di ufficio, è immune da qualsivoglia ritorsione.
Non è così per chi, invece, decide di raccontare i fatti al di là della verità giudiziaria e della cultura ideologica imperante. Esercitare in Italia il diritto di critica e di cronaca è pericoloso.
Antonio Giangrande, scrittore ed autore della collana editoriale “L’Italia del trucco, l’Italia che siamo” è subissato di denunce per diffamazione a mezzo stampa e qualcuna, anche, per calunnia da parte di quei magistrati un po’ permalosi e megalomani che si sentono lesi nella loro maestà. Diffamazione attribuita al Giangrande per articoli scritti da altri e pubblicati autonomamente anche da giornali esteri (fino in Sud Africa) riferiti all'orinaria malagiustizia italiana o a risibili motivazioni di archiviazioni di denunce penali. Molti di questi magistrati sono gli stessi che hanno insabbiato le denunce di Giangrande contro i loro colleghi magistrati che insabbiano in terra di mafia. Peccato però che nessuna condanna sia conseguita, in quanto i medesimi denuncianti mai si sono presentati in udienza, causando il naturale proscioglimento.
Ma questo non è un fatto isolato e riferibile esclusivamente a chi è emarginato per il sol fatto che racconta ciò che vede e per questo accusato di mitomania o pazzia.
In giro ci sono altri mitomani o pazzi.
Dal “La Stampa”: Rinviata a giudizio per aver criticato il primo pm che indagò sulla morte violenta del figlio. Eppure, non fosse stato per la sua ostinazione di madre, forse le indagini sulla fine di Federico Aldrovandi si sarebbero impantanate in quell’incredibile versione ufficiale per cui il ragazzo era deceduto in seguito all’assunzione di droghe, durante un controllo di polizia particolarmente movimentato. Invece Patrizia Moretti non si arrese, aprì un blog che attirò l’attenzione di tutta l’Italia sulla vicenda e di fatto riuscì a imprimere una svolta decisiva all’inchiesta: quattro poliziotti furono poi condannati in primo grado per eccesso colposo in omicidio colposo del giovane 18enne, morto per le botte prese mentre era ammanettato a terra. Non solo, lo Stato ha riconosciuto alla famiglia un risarcimento danni da due milioni di euro in cambio dell’impegno a non costituirsi parte civile. Ma ora, il gup del tribunale di Mantova ha deciso di processare la madre di Federico per diffamazione a mezzo stampa. Insieme a lei sono stati rinviati a giudizio due giornalisti e il direttore del quotidiano La Nuova Ferrara. E così, con una capriola che ha il sapore del paradosso giudiziario la donna che era riuscita a ottenere giustizia per suo figlio ora si ritrova lei a subire un processo. La frase che le è costata l’incriminazione, pronunciata nel gennaio 2006 quattro mesi dopo la morte di Federico, quando le indagini ancora languivano, è questa: «È un fascicolo ancora vuoto». Patrizia Moretti si prepara a una nuova battaglia in tribunale: «Non avrei mai immaginato di ritrovarmi imputata per aver criticato chi non aveva fatto le prime indagini sulla morte di mio figlio. I giudici hanno deciso per il processo e noi lo faremo, e così come lo avevano fatto a Ferrara a Federico ora lo faremo noi al magistrato che mi ha denunciata». Si chiama Maria Emanuela Guerra la pm che condusse la prima parte dell’inchiesta prima di rinunciare all’incarico e che ha ritenuto lesive quelle dichiarazioni. La Moretti da parte sua non si aspettava né che il magistrato andasse a fondo nella querela né, tantomeno, che ieri il gup decidesse per il rinvio a giudizio: «Abbiamo prodotto documenti che dimostrano che le mie parole sono state dette in tribunale, durante due dei processi per l’omicidio di Federico, e che sono sancite in due sentenze. Eppure il Gup ha disposto il rinvio a giudizio». E’ addolorata ma non ha perde la sua determinazione: «Non mi tiro indietro. Io della dottoressa Guerra non volevo più sentir parlare, ma se mi tira per i capelli ci sarò, e allora dovrà dire lei perché ha aperto il fascicolo solo il 16 gennaio, perché non è andata sul posto e perché non ha sequestrato i manganelli». Il legale della Moretti, Fabio Anselmo, aggiunge che la pm «sarà il nostro principale teste a discarico” e ricorda come, stranamente, il docufilm del giornalista Rai Filippo Vendemmiati – «E’ stato morto un ragazzo», che a maggio sarà anche premiato dal presidente Napolitano -, pur riportando le stesse parole non sia stato oggetto di alcuna denuncia. «Tutto ciò è pazzesco ma a questo punto non vedo l’ora di andare a processo, così verrà fuori tutto quanto – aggiunge la madre di Federico – La cosa che mi dispiace è che l’udienza è stata fissata per il 1˚ marzo 2012…».
Aldrovandi, stampa alla sbarra. Ricordate il ragazzo di 18 anni ucciso da tre poliziotti a Ferrara nel 2005? Il giornale della città aveva sostenuto quella che poi è emersa come la verità, criticando il giudice che aveva fatto le prime, inconcludenti, indagini. E ora il suo direttore è sotto processo. Ecco che cosa scrive al “L’Espresso”.
Dal direttore del quotidiano “La Nuova Ferrara” riceviamo e volentieri pubblichiamo:
Caro direttore, è sempre bello tornare nella propria città. Non sarà così, però, il primo marzo: in Tribunale a Mantova, con alcuni colleghi, sono imputato in un processo per diffamazione. Dove sta la notizia? Il fatto è che siamo alla sbarra per aver dato voce a Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi. Una donna coraggiosa che, grazie al suo blog, ha fatto emergere la verità sulla morte del figlio di 18 anni: non per un'overdose, ma per le conseguenze di un fermo di polizia. Quattro poliziotti sono stati condannati in primo e secondo grado. Ma questa è una guerra che non finisce mai, perché dall'altra parte della barricata c'è una pm, Maria Emanuela Guerra, che ci ha mitragliato di querele ogni volta che la Moretti parlava dell'inchiesta e dei suoi lati oscuri. Ne ho collezionato un pacco, che conservo sulla scrivania. Alla Guerra, prima titolare delle indagini, è stato rimproverato da più parti di non essere andata sul luogo in cui morì Federico il 25 settembre 2005 fidandosi della versione dei poliziotti. Poi abbandonò l'inchiesta, che in mano ad un altro pm, Nicola Proto, subì un'accelerazione decisiva. Nella motivazione della sentenza d'appello di Bologna, il giudice Luca Ghedini scrive tra l'altro:«...Le indagini preliminari? Iniziate nella sostanza vari mesi dopo i fatti e in seguito alla sostituzione del primo pm (la Guerra)». Ma gli aspetti oscuri sono tanti. Tanti giornali e televisioni hanno raccolto le stesse testimonianze, sul caso Aldrovandi è uscito un documentario ("E' stato morto un ragazzo", di Filippo Vendemmiati) che ha vinto il David di Donatello. Ma la Guerra ha querelato sempre e solo noi. Inoltre, in vista dell'udienza penale del primo marzo a Mantova, si è costituita parte civile chiedendo al nostro giornale almeno 300 mila euro per i gravi danni al suo onore e al suo prestigio. Somma che si aggiunge al milione e mezzo di euro che chiede nel processo civile in calendario il 21 marzo al Tribunale di Ancona. Non manca la beffa: oltre al sottoscritto sono imputati il collega Daniele Predieri e un nostro ex collaboratore, Marco Zavagli, che non è l'autore dell'articolo contestato, scritto invece dalla giornalista Alessandra Mura. Un grossolano errore che abbiamo fatto notare nell'udienza preliminare a Mantova, senza successo. Per la Procura è uno pseudonimo. Ma nel mio giornale nessuno ne fa uso, semplicemente hanno scambiato gli autori di due articoli. Il legale della Guerra ha chiesto un rinvio dell'udienza: il primo marzo l'avvocato Flora ha una lezione all'Università di Firenze. Non sappiamo ancora se sarà accolta. Mi chiedo cosa succederebbe in caso di condanna: quello che per due Tribunali (Ferrara e Bologna) è verità, per un altro (Mantova) sarebbe diffamazione. Per la giustizia e la libertà d'espressione sarebbe la fine. Paolo Boldrini, direttore della 'Nuova Ferrara'.
DELLA SERIE: SUBISCI E TACI, SIAMO IN ITALIA, TERRA DI POETI, NAVIGATORI E TIRANNI!!
Ci sono storie che gelano il sangue. Di solito, sono storie che non si raccontano mai fino in fondo. Per non ferire o per non disturbare il manovratore.
Questa è la storia che scrive Andrea Scanzi su “La Stampa”.
Chi scrive ha il nervo (particolarmente) scoperto per le violenze di Stato. Per il sopruso della Legge. Per il manganello facile.
Chi scrive prova imbarazzo e disgusto, se pensa alla mattanza della scuola Diaz, alle torture di Bolzaneto (tutte impunite) e alla verità ufficiali che hanno reso più "accettabile" la morte di Carlo Giuliani.
Chi scrive prova terrore se pensa a quanto accaduto a Ferrara nella notte del 25 settembre 2005.
Le storie terribili vanno raccontate con leggerezza e precisione.
E' dunque oltremodo consigliabile "Zona del silenzio", di Checchino Antonini e Alessio Spataro. La prefazione, impeccabile, è di Girolamo Di Michele. Il libro, che riecheggia per disegni il grande Maus di Art Spiegelman, è uscito per Minimum Fax. Racconta l'omicidio di Federico Aldrovandi. E' tutto vero, al di là dei nomi (ironicamente) mutati di alcuni giornalisti, politici e quotidiani. E' un libro che racconta come per alcuni il "diverso" non sia che una zecca. Qualcosa da umiliare e ridicolizzare, nel nome della legge.
"Zona del silenzio" era il cartello in Via dell'Ippodromo a Ferrara, davanti al quale il ragazzo è morto. Non si saprà mai quando tutto è cominciato. Probabilmente una signora di Ferrara ha chiamato il 113 perché disturbata dalle urla di un ragazzo nella notte.
Quel ragazzo è Federico Aldrovandi, 18 anni.
Sono, più o meno, le 5 del mattino. Federico ha passato la serata con gli amici e ha chiesto di essere sceso lì. Ha bevuto, l'esame autoptico rivelerà presenza di eroina e ketamina. E' un aspetto decisivo: la polizia dirà che il ragazzo è morto di overdose, che urlava perché eccitato dal mix di alcol e stupefacenti. E' vero che il ragazzo aveva assunto droghe. Non è vero che la quantità era tale da giustificare un overdose: la ketamina, ad esempio, era 175 volte inferiore alla dose letale. E non è neanche credibile la tesi della droga come eccitante, considerando che l'eroina (un oppiaceo) ha casomai effetto sedativo. La famiglia Aldrovandi ha sempre negato che Federico facesse uso regolare di droghe. Era solo un ragazzo di 18 anni che, quella sera, aveva esagerato un po'. Quello che è successo a lui, poteva succedere a tutti.
Federico muore poco dopo le 6 del mattino. Era disarmato e incensurato. La famiglia viene avvertita cinque ore dopo. Su youtube, e sul blog di Beppe Grillo, è presente il video della Scientifica. C'è il corpo di Aldrovandi a terra, segni di colluttazione. Si sentono i poliziotti che ridono. La comunicazione tra Centrale e poliziotti, tre uomini e una donna, riporta frasi di questo tenore: "L'abbiamo bastonato di brutto".
Il Giudice di Ferrara ha certificato come i quattro poliziotti hanno ucciso il ragazzo con sequela infinita di manganellate e calci. Sono stati condannati in primo grado a tre anni e sei mesi per eccesso colposo in omicidio colposo. La vita di un ragazzo senza colpe vale 3 anni e sei mesi. Anzi, neanche quelli, perché c'è l'indulto. La Polizia non ha radiato i quattro poliziotti.
In rete trovate di tutto. Anche nella graphic novel. Ma nulla sarebbe stato svelato senza l'eroismo della signora Patrizia, madre di Federico, che il 2 gennaio 2006 ha aperto un blog per far luce sulla morte del figlio. Da lì tutto è nato. Altri blog, l'interesse dei giornali, la vicinanza di Grillo, i libri, le meritorie inchieste di Chi l'ha visto? su RaiTre. La società civile che si muove. E una città, Ferrara, che per metà si chiude a riccio. E minacce alla famiglia, e la Polizia che fa quadrato. E un senso crescente di democrazia sospesa.
E' una storia che non ha spiegazione alcuna. Una storia sbagliata, cantava Fabrizio De André. “Un omicidio di Stato". Forse Aldrovandi urlava davvero di notte. Forse era eccitato, forse ubriaco. Non lo sapremo. Sappiamo invece, adesso, il dopo. Quattro poliziotti che spezzano i manganelli (letteralmente) a furia di picchiarlo. Calci e ginocchiate al punto da spezzargli lo scroto. Il volto tumefatto, i vestiti zuppi di sangue. Il corpo trascinato barbaramente sull'asfalto. Il ragazzo che grida aiuto, senza che nessuno si fermi o intervenga in suo soccorso. Una mattanza durata decine di minuti e poi insabbiata (o meglio: quasi insabbiata).
I poliziotti si sono difesi sostenendo tesi lisergiche: Aldrovandi era così eccitato che si faceva male da solo. Il volto tumefatto? Dava le testate contro l'auto. Il testicolo squarciato? E' saltato a cavalcioni sul tetto dello sportello aperto, manco fosse una tartaruga Ninja.
La morte? Un infarto, troppa eccitazione da overdose. No: l'autopsia ha rivelato che decisiva è risultata la pressione di uno o più poliziotti sulla schiena, che ha creato ipossia (mancanza di ossigeno) al ragazzo, peraltro ammanettato. Secondo il cardiologo, il cuore di Federico avrebbe cessato di battere dopo l'ennesimo colpo ricevuto.
E' una storia di testimoni che prima parlano e poi si nascondono, di omissioni, di prove scomparse. Dell'ex ministro Giovanardi che minimizza in tivù, di un ragazzo normale fatto passare per un tossico mezzo matto. Di una città che non si schiera. Di una madre, di una famiglia ferite a morte. Eppur vive.
E' una storia che fa molto Italia. Ma non è tutto. Patrizia Moretti sarà processata dal 1 marzo 2012 con l’accusa di diffamazione verso la pm Mariaemanuela Guerra per le critiche che fece alle prime indagini condotte dal magistrato sulla morte del figlio. A giudizio anche giornalisti e direttore della “Nuova Ferrara”, così come è riportato dallo stesso quotidiano.
Il dolore ce l'ha dentro, e se lo tiene stretto. La rabbia invece la getta fuori con le lacrime che si asciuga, uscendo dal tribunale, e con parole misurate che non vuol più tenere a freno: «Non avrei mai immaginato di ritrovarmi imputata dopo la morte di mio figlio».
«Ma come hanno voluto fare il processo a Federico indagando su di lui solo sulla droga, ora lo faremo al magistrato che mi ha denunciato, la dottoressa Guerra». A 6 anni dalla morte del figlio, dopo processi, sentenze e veleni come vittima di una delle tragedie umane e giudiziarie più impensabili, Patrizia Moretti da ieri è imputata di diffamazione a mezzo stampa nei confronti del pm Mariaemanuela Guerra. E' stato il gup Villani del tribunale di Mantova a decidere, con una udienza lampo, che lei, il direttore della Nuova Ferrara e due giornalisti (uno di loro a processo nonostante non abbia scritto nessuno degli articoli incriminati e chiamato in causa dalla procura perchè comunque avrebbe collaborato alla stesura o il suo nome potrebbe essere uno pseudonimo) dovranno presentarsi in tribunale il 1 marzo 2012.
«Sono da oggi imputata - ha spiegato la Moretti - per aver criticato il modo con cui vennero fatte le prime indagini sulla morte di mio figlio. I giudici hanno deciso per il processo, lo faremo, andando fino in fondo, senza scorciatoie e nemmeno remissioni di querele». All'udienza velocissima, il pm Fabrizio Celenza aveva rinnovato la richiesta di rinvio a giudizio, nonostante le difese della Moretti e del giornale avessero prodotto copiosa documentazione su tutte le sentenze del caso Aldrovandi, Aldrovandi bis che contengono le dichiarazioni di altri magistrati ferraresi che si sono occupati di questi casi e di atti del Csm che aveva valutato l'operato della pm Guerra sul mancato sopralluogo il giorno della morte di Federico in via Ippodromo, il 25 settembre 2005. «Il processo non ci spaventa, sarà la stessa dottoressa Guerra il nostro principale teste a discarico» ha detto l'avvocato Fabio Anselmo, difensore della Moretti.
Il legale nella sua arringa ha fatto anche un accostamento singolare: le stesse affermazioni critiche sulle indagini della pm Guerra per cui ora è a processo la Moretti - ha riferito - sono le stesse, e più dirette, riproposte nel docu-film sul caso Aldrovandi di Filippo Vendemmiati, giornalista pluri-premiato in tutta Italia e che l'8 maggio prossimo sarà premiato dal presidente della Repubblica Napolitano, per la sua opera di denuncia. «Un filmato che non è stato querelato», ha spiegato al giudice il legale: «Perchè allora la Nuova Ferrara sì e altri no?».
Il difensore della Nuova Ferrara, Arrigo Gianolio ha sottolineato al giudice «che un magistrato dovrebbe avere sempre equilibrio e che in questa vicenda purtroppo mi pare sia mancato».
«E' assurdo tutto questo - ha commentato Patrizia Moretti -. A pensarci bene non ho ancora capito per quale motivo debba sostenere un processo come imputata. Solo per aver criticato come mio diritto l'operato del magistrato che si occupò della prima parte dell'inchiesta sulla morte di mio figlio: si è trattato di critiche che ho potuto fare solo dopo aver appreso nuovi fatti da inchieste e processi condotti da altri magistrati a Ferrara». «Voglio ricordare - conclude - che questa inchiesta era stata condotta da un altro magistrato, il pm Nicola Proto che ha portato a processo e fatto condannare i quattro poliziotti per la morte di mio figlio».
PARLIAMO DI FORLI’-CESENA.
PIERO ISOLDI. GOGNA MEDIATICA E CARNE ED OSSA DA SPOLPARE.
Di seguito si racconta la vicenda di Piero (Pierino) Isoldi, così come è stata raccontata dai giornali e dalla tv. Piero Isoldi, nomen omen (il nome è il suo presagio ed il suo destino), dalle cronache che gli sono state dedicate pare essere il re dei criminali, con reati di vario genere. E' dipinto come la panacea di tutti i mali. Nessuna cronaca, però, sembra essersi dedicata a dare spazio al suo punto di vista. Nessuno conosce l'altra faccia della medaglia posta dietro alla verità mediatica-giudiziaria. Un fatto è certo: a torto od a ragione i beni del suo patrimonio sono carne ed ossa da spolpare, previa divisione tra creditori e sistema giudiziario di vendita.
Non so se questo è un fallimento truccato (ai lettori il giudizio), ma sui fallimenti taroccati ho scritto un libro: “Usuropoli e Fallimentopoli. Usura e Fallimenti truccati”.
"Due terzi degli italiani con i soldi a San Marino – scrive Paolo Biondani il 23 settembre 2015 su L'Espresso - si concentrano nelle vicine Emilia Romagna e Marche: 10.128 solo in provincia di Rimini, 1.879 tra Forlì e Cesena, 1.242 a Bologna, 2.867 tra Pesaro e Urbino. I segreti bancari sanmarinesi sembrano fotografare un’evasione di massa, con migliaia di piccoli e medi imprenditori, professionisti, negozianti e grossisti che occultano al fisco quello che possono. La nuova inchiesta sui segreti di San Marino spiega anche i retroscena di recenti indagini, in apparenza casuali, su gravi fallimenti aziendali. Pierino Isoldi, fino al 2007, era il più ricco costruttore della Romagna, con soci molto in vista e robuste coperture politiche. Con la crisi, le sue società immobiliari sono fallite lasciando voragini di debiti. A San Marino la Guardia di Finanza gli ha trovato prima un conto con 2,5 milioni in contanti e poi altri 13 milioni intestati a fiduciarie. Nel frattempo l’imprenditore di Forlì ha subito una condanna definitiva per procurato aborto: massacrò di botte l’ex fidanzata incinta facendole perdere il figlio. Dopo il grande crack delle speculazioni edilizie e la scoperta dei conti esteri, ora si indaga sulla sproporzione tra le sue ricchezze, come la faraonica villa di famiglia a Bertinoro, e le dichiarazioni dei redditi: la Procura di Forlì ha chiesto al tribunale di applicargli una speciale misura patrimoniale che potrebbe costargli la confisca di tutti i capitali conosciuti fino a 300 milioni.
Finanziavano pure un imprenditore agli arresti. L'istituto sovvenzionava il suo gruppo già in crisi quando lui era ai domiciliari: 15 milioni al vento, scrive Fabrizio Boschi, Venerdì 12/02/2016, su "Il Giornale". In questa penosa storia, l'aspetto che più disgusta è l'indole filantropica che Banca Etruria dimostrava nei confronti di amici e amici degli amici. Di partito, s'intende. L'incompetenza degli amministratori ha prodotto una montagna di crediti inesigibili, concessi a destra e a manca. Centinaia di milioni a imprese cotte e decotte come quella dell'immobiliarista forlivese attivo nel settore del real estate, il geometra 57enne Pierino Isoldi, per anni al centro di numerose vicende giudiziarie relative al fallimento del suo impero immobiliare. Il suo nome torna di attualità con la fine della «sua» banca, l'istituto amico che nel 2010 ha erogato alla Isoldi Holding Spa, 10 milioni di mutuo e 5 di chirografario (finanziamento con durata massima di 5 anni). Isoldi non solo ha contribuito a far fallire la banca ma pure lui stesso nel giugno 2015: la mattina dopo la concessione di quel mutuo la Isoldi Holding Spa finì in amministrazione controllata. Soldi buttati al vento, gocce in un oceano di debiti. Aziende con entrambi i piedi nella fossa, alle quali Etruria dava fiducia, senza alcuna garanzia. Ovviamente quei 15 milioni non sono mai rientrati nelle casse dell'istituto e si sono aggiunti a quei 90 milioni tra incagli e sofferenze. Cinque miliardi di crediti evaporati nel nulla iscritti a bilancio come perdite nel 2012 e 2013. Come se non bastasse nel 2011 Etruria ha erogato a Isoldi una nuova finanza per 17,6 milioni. Un cliente a dir poco inaffidabile, se si considera pure che nel momento in cui Etruria lo sovvenzionava, Isoldi si trovava agli arresti domiciliari, con tanto di braccialetto elettronico alla caviglia. Nel dicembre 2005 questo gentiluomo inscenò un'aggressione a scopo di rapina alla sua amante a Milano Marittima, per procurarle l'aborto del bambino che aveva in grembo, frutto della loro relazione. Condannato a 10 anni dal tribunale di Ravenna e a 12 anni dalla Corte di Appello di Bologna, fino alla sentenza in Cassazione nel maggio 2014, è stato sia in carcere (aprile 2013) sia ai domiciliari (febbraio 2014).Isoldi era già stato arrestato per appropriazione indebita di 13 milioni attraverso frode fiscale con l'utilizzo di fatture false: nel giugno 2012 passa quattro mesi e dieci giorni in cella e nel 2013 patteggia tre anni e mezzo con il pagamento al Fisco di 850mila euro e la promessa di risarcire altri 4 milioni all'Erario per l'evasione sui lavori alla villa-castello di Bertinoro. Soldi mai visti. Ecco chi era il Pierino Isoldi al quale Etruria dava credito. A questo signore la Finanza ha sequestrato nel 2015, 200 milioni di euro tra palazzine e appartamenti di lusso (93 immobili), aree edificabili, vigneti e terreni agricoli, auto di grossa cilindrata e partecipazioni societarie di imprese immobiliari e agricole. Ad Etruria non è andato un euro. Infine aveva messo in piedi «un sofisticato meccanismo per incassare assegni (bancari e circolari) e vaglia cambiari trasferiti illecitamente nella Repubblica di San Marino», dicono dalla procura forlivese. L'immobiliarista «trasferiva titoli e contanti per circa un milione di euro attraverso fittizie movimentazioni tra le sue società e ignare persone da e per San Marino grazie a tolleranti istituti di credito italiani». Tra i quali Banca Etruria. L'incontro di 18 giorni fa del procuratore capo di Arezzo Roberto Rossi con il procuratore di Forlì ha proprio questo significato: le risposte alle sue tante domande su Banca Etruria potrebbero nascondersi nei traffici di Isoldi lungo la strada per Arezzo.
Verdetto finale: è fallito l’impero di Pierino Isoldi. La decisione dei giudici. L’ex re del mattone è ora indagato per bancarotta fraudolenta, scrive Ma. Bur. il 24 giugno 2015 su "Il Resto del Carlino". Calano le tenebre sul regno di Pierino Isoldi. Il verdetto che sigilla il fallimento della Isoldi Holding spa arriva nel tardo pomeriggio di lunedì dal tribunale collegiale civile di Forlì. Lo stesso – anche se con due giudici diversi – che aveva respinto il fallimento alla fine dello scorso dicembre. Sei mesi dopo la verità si ribalta. E l’impero immobiliare del 58enne bertinorese Pierino Isoldi si sgretola di colpo. Ora l’ex re del mattone rischia grosso: in procura, ieri mattina, nei suoi confronti è stato subito aperto un fascicolo penale per bancarotta fraudolenta, inchiesta firmata dal capo dell’ufficio Sergio Sottani e dal sostituto procuratore della Repubblica Michela Guidi. Per la bancarotta possono rischiare da tre a dieci anni di pena (Isoldi ha precedenti penali, anche specifici, data la sua condanna per frode fiscale). I Giudici Orazio Pescatore – presidente – Alberto Pazzi e Carmen Giraldi (gli ultimi due avevano bocciato a dicembre il fallimento richiesto dalla procura di Forlì) hanno stabilito nella loro sentenza che «l’attivo disponibile della Isoldi Holding spa non sia affatto sufficiente a coprire l’intero passivo, condizione di per sè sufficiente a rendere configurabile l’insolvenza di una società in liquidazione...». Questo l’epitaffio messo nero su bianco dal tribunale civile di Forlì sull’intero capitale dell’imprenditore, ora detenuto – ai domiciliari – per la condanna definitiva a 12 anni per procurato aborto (Pierino picchiò una donna incinta, nel dicembre del 2005, facendola abortire). I magistrati forlivesi avevano preso di nuovo in mano il caso Isoldi dalla Corte d’Appello di Bologna, che alla fine di aprile aveva accolto il ricorso di Intesa San Paolo, Cassa dei Risparmi e procura di Forlì; i giudici bolognesi avevano infatti rigettato il concordato pianificato alla fine del 2014 dalla gran parte dei debitori di Isoldi. Concordato che evitava il fallimento del gruppo. Intesa San Paolo – con cui Pierino ha un debito di 8.134.432 euro – e Cassa dei Risparmi di Forlì e della Romagna – che vanta un credito di 22.770.273 euro – avevano rotto il fronte delle altre banche che vantano crediti nei confronti della Isoldi spa. Tornata la palla a Forlì, i togati civilisti di Piazzale Beccaria hanno stavolta dato una lettura opposta alla situazione debitoria del portafoglio di Pierino, che conta circa 170milioni di capitale e oltre 200milioni di debiti. Da lunedì quindi l’ex regno di Isoldi è in fallimento. E da ieri Pierino – difeso da Libero Mancuso, magistrato ora in pensione che si occupò della P2 e della strage di Bologna – è indagato per bancarotta fraudolenta. I Giudici del tribunale civile hanno ordinato di depositare in cancelleria, entro tre giorni, bilanci e scritture contabili e fiscali della Isoldi Holding spa. Per l’8 ottobre 2015 è stata invece fissata l’adunanza dei creditori, in cui si procederà all’esame dello stato passivo, di fronte al giudice delegato, Alberto Pazzi (i curatori sono invece Riccardo Pieri di Cesena, Sabrina Fabbri di Pesaro, e Luigi Giovanni Saporito di Milano). Procedure, riti, rituali. Che segnano la fine dell’impero Isoldi.
«Sequestro molto minore». Gli avvocati sul provvedimento del Tribunale, scrive il 5/12/2015 "Corriere Romagna". «Il valore dei beni sequestrati a Pierino Isoldi è di circa un quarto rispetto a quanto riportato nel comunicato della Guardia di Finanza». Per le Fiamme Gialle erano 200 milioni di euro. E’ la nota degli avvocati Libero Mancuso e Andrea Gaddari che tutelano l’imprenditore immobiliare al quale il collegio del Tribunale di Forlì composto da Giovanni Trerè, Massimo De Paoli e Roberta Dioguardi ha imposto il sequestro ai fini della confisca di beni mobili, immobili e quote societarie. «Il Tribunale - riprendono gli avvocati - ha rigettato la richiesta di applicazione di misura di prevenzione di sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno nel comune di residenza che costituiva una delle due istanze della Procura. Sulla misura patrimoniale richiesta, il Tribunale ha deciso di non sottoporre a sequestro l’intero compendio immobiliare della Isoldi Holding Spa, in quanto acquistati prima del 2000, e della partecipazione nella Isoldi Spa in liquidazione, oggi fusa per incorporazione, titolare all’epoca della domanda di un patrimonio di circa 460 immobili ed in relazione alla quale non è stata allegata alcuna circostanza di fatto concretamente indiziante. Il numero degli immobili sequestrati è nettamente inferiore a quanto richiesto dal Procuratore. Il signor Isoldi ha già conferito mandato affinché i suoi legali pongano in essere ogni rimedio esperibile nei confronti del provvedimento del Tribunale di Forlì».
“La famiglia non si tocca”. Isoldi attacca duro. L’imprenditore racconta quelle che dice essere “bufale montate ad arte dalla Procura e dalla Guardia di Finanza”, scrive il 6/Dicembre/2015 "Corriere Romagna". “E’ stata una sceneggiata incredibile, solo per apparire”. Piero Isoldi racconta la mattina di mercoledì quando i finanzieri sono andati a notificare l’ordinanza del Tribunale. “Non hanno colpa i ragazzi della Guardia di Finanza che sono qui a fare ciò che gli era stato ordinato, anzi loro sono stati gentilissimi e molto educati, ma quando ho visto in giro per le tv le immagini montante nel filmino ufficiale delle Fiamme Gialle sono rimasto sconvolto. Tutta una bufala. Sembra che sequestrino anche le cose che non sono nell’ordinanza”. Isoldi va giù pesante contro quello che è stato scritto e detto ufficialmente dalla Guardia di Finanza e Procura e “offerto alla stampa” dove dice esserci una serie di grossolane inesattezze a cominciare dal valore dato ai beni sequestrati. “Il valore dei beni non è assolutamente quantificabile in 200 milioni di euro, ma in una somma di gran lunga inferiore e pari a circa un quarto di quella riportata”. L’imprenditore di Bertinoro difeso dall’avvocato Libero Mancuso dopo un lungo periodo di silenzio, ora reagisce e a questo “accanimento” non ci sta. “Quando ti toccano la famiglia fa troppo male. Mi hanno rovinato la salute e fatto di tutto per distruggermi come imprenditore”. Isoldi puntualizza anche un passaggio di ciò che è stato scritto dalla stampa e detto nei servizi televisivi. “E’ fuorviante la notizia secondo cui il Tribunale di Forlì avrebbe accolto quasi integralmente le richieste avanzate dal Procuratore Sergio Sottani. Il Tribunale, infatti, con provvedimento notificato mercoledì scorso ha rigettato la richiesta di applicazione di misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno nel di residenza, che costituiva proprio una delle istanze della Procura”. “Quanto poi alla misura patrimoniale richiesta - dice - il Tribunale ha deciso di non sottoporre a sequestro l’intero compendi patrimoniale della Isoldi Holding spa per un totale di 460 immobili, rilevando che sono stati acquistati prima del 2000”.
Fallimento Isoldi: venduti i primi 20 lotti degli oltre 170 battuti all'asta, scrive "Forlì 24 ore" l'8 novembre 2016. Oltre 170 i lotti battuti all'asta, di cui 20 assegnati per un controvalore totale pari a 4.5 milioni di euro, superiore al valore di perizia degli immobili. Sono questi i primi numeri relativi alla procedura di liquidazione del patrimonio immobiliare della Isoldi Holding Spa. Partiti alla fine del luglio scorso, a poco più di un anno dalla sentenza di fallimento emessa dal Tribunale di Forlì, gli incanti pubblici – su incarico della Procedura concorsuale - sono organizzati e gestiti da Real Estate Discount, costola immobiliare della casa d'aste faentina IT Auction. Forte delle oltre 1.000 procedure curate e degli 11.000 lotti venduti a più di 50.000 compratori nel mondo dal 2011 ad oggi, il network faentino sta procedendo alla liquidazione fallimentare dell'attivo della Isoldi Spa tramite il proprio portale web realestatediscount.com (sul quale sono visibili i beni in vendita con tanto di perizia di stima) mediante gare che avvengono esclusivamente con asta telematica, all'insegna della massima affidabilità e trasparenza. Il patrimonio immobiliare dell’Isoldi Holding Spa è stato organizzato in 219 lotti di vendita, le cui vendite sono scaglionate in 10 gruppi e seguono un calendario ben definito (consultabile sul sito isoldi.it). A oggi 171 lotti di vendita sono stati battuti all’asta almeno una volta e 118 anche una seconda volta (2° esperimento) con un prezzo a base d'asta ridotto rispetto al primo tentativo andato deserto. Gli ultimi cinquanta lotti di vendita (in gran parte residenziali e situati principalmente a Bertinoro - FC) andranno all'incanto all’inizio di gennaio 2017. Attualmente i passaggi di proprietà di tutti i lotti assegnati sono già stati perfezionati tramite rogito notarile. Le aste on line prevedono, dopo la chiusura di un esperimento andato deserto, l'apertura di un nuovo esperimento con un prezzo di base d'asta ridotto. E' il caso, ad esempio, dell'hotel 4 stelle di Torre del Moro (Cesena), facente parte del patrimonio immobiliare da liquidare e nuovamente all'asta il prossimo 16 dicembre. L'immobile è oggetto attualmente di una vasta campagna di pubblicizzazione della vendita, in corso su tutto il territorio nazionale e presso tutti i principali players del mercato del settore ricettivo. La pubblicizzazione/diffusione della notizia delle vendite dei vari lotti del fallimento Isoldi avviene mediante vari canali integrati: pubblicazione sui quotidiani locali, invio di newsletter - oltre 15.000 quelle spedite – attraverso i social network (in particolare sulla pagina Facebook di Real Estate Discount seguita da oltre 3.600 utenti) e sul portale web dove le schede di vendita dei beni sono state visitate da oltre 23.305 persone (visitatori unici) con 216 persone che si sono iscritte agli aggiornamenti periodici sulle future vendite. “Il sistema della vendita on line da noi gestito – spiega l'architetto Matteo Brucoli, responsabile Real Estate Discount – è stato selezionato da oltre 90 Tribunali in tutta Italia perché garantisce non solo massima visibilità, trasparenza e affidabilità, ma anche una vendita organica dei beni, tutto ciò rende la procedura più chiara, snella e di facile accesso. Inoltre – aggiunge l'architetto – attraverso un'asta trasparente e accessibile a tutti è possibile verificare quale sia il prezzo che il mercato immobiliare è disposto a recepire per un determinato bene. I prezzi di perizia, infatti, sono un punto di partenza, ma solo attraverso una gara competitiva si può conoscere la reale quotazione di un determinato bene”.
Vendita effettuata nonostante vi fosse una proposta di concordato.
Un finanziatore salva il Gruppo Isoldi. Venerdì è stata presentata una proposta di concordato. E ora i creditori possono tirare un sospiro di sollievo, scrive Raimondo Baldoni il 17/Luglio/2016 su "Romagna Noi". La Holding di Isoldi è salva. Un finanziatore, di cui ancora non si sa nulla e che è ancora top secret, ha presentato venerdì mattina una proposta di concordato. E questo significa che si accolla tutto per pagare i creditori. Probabilmente si tratta di un soggetto che ha liquidità e con le idee molto chiare. In questo modo salverebbe tutto e immetterebbe liquidità al territorio che di questi tempi ne ha bisogno. I creditori tornerebbero ad avere denaro sonante per fare altri affari, senza aspettare di vendere mattoncino su mattoncino a prezzi stracciati dalla massa fallimentare. Una mossa a sorpresa che nessuno si aspettava e che cambierà il quadro della situazione economica non solo forlivese, ma anche romagnola e che tornerà a dare occupazione a molte persone a cominciare dai dipendenti. Chi ha proposto il concordato avrebbe ottime garanzie e quindi l’operazione sarebbe sicura e remunerativa. Tutto questo sarà comunque valutato dai creditori che a questo a punto hanno tutto l’interesse a sostenere l’operazione. Ma ora il giudice titolare del fascicolo dovrà sospendere immediatamente le vendite del patrimonio che si stava svalutando e, ad esempio, non fare più chiudere l’Hotel Mosaico di Torre del Moro, come era stato deciso di fare il 31 luglio prossimo. Il concordato, nell’ordinamento giuridico italiano, quando si parla di fallimenti, è una causa legale di cessazione appunto del fallimento. Si tratta di uno strumento volto a realizzare gli interessi di tutti i creditori ammessi al passivo. Rispetto alla liquidazione fallimentare dell’attivo, il concordato consente infatti al soggetto fallito di sanare definitivamente i propri debiti attraverso una sorta di accordo con il ceto creditorio, che può prevedere il pagamento anche parziale dei debiti, la dilazione o ristrutturazione degli stessi e questo consente pure la liberazione dei beni sottoposti allo “spossessamento” fallimentare e soprattutto non espone alle possibili conseguenze penali connesse al fallimento. Il Gruppo Isoldi sembra ora salvarsi. E certamente, questa proposta farà molto piacere allo stesso Piero Isoldi, che in tanti volevano “finito”, ma che ancora una volta rialza la testa. La proposta di concordato deve essere comunque esaminata dal giudice delegato dopo il parere del comitato dei creditori che è vincolante e del curatore che invece non ha parere vincolante. Il giudice interviene quindi per verificare la correttezza delle formalità. L’anonimo salvatore del Gruppo Isoldi avrebbe fatto tutte le cose in regola. Poco più di un anno fa l’annuncio del fallimento della Isoldi Holding spa. Era il mese di giugno dello scorso anno. I giudici Orazio Pescatore (presidente), Alberto Pazzi e Carmen Giraldi avevano stabilito nella loro sentenza che “l’attivo disponibile della Isoldi Holding spa non sia affatto sufficiente a coprire l’intero passivo, condizione di per sè sufficiente a rendere configurabile l’insolvenza di una società in liquidazione...”. E ora arriva inaspettata la proposta di concordato, un’occasione per tutti e una bella notizia per i creditori. Il fallimento del gruppo immobiliare, invece, avrebbe portato a un deprezzamento del valore dei beni delle società dell’imprenditore bertinorese e conseguentemente a un pagamento dei creditori in misura inferiore. Il patrimonio delle società di Piero Isoldi era valutato 180-190 milioni di euro, ma poi la svalutazione lo ha ridotto. Raimondo Baldoni
Condannato a 12 anni. Isoldi è già in carcere. Prelevato dai Carabinieri dopo la sentenza, scrive il 30/05/2014 "Corriere Romagna. Tranquillo, anche se sorpreso dalla sentenza. Piero Isoldi è tornato in carcere ieri mattina. A prelevarlo, mercoledì sera, sono stati i Carabinieri della stazione di Bertinoro, comandati dal luogotenente Luigi Costa. Poche ore dopo che la Cassazione aveva confermato la condanna a 12 anni per aver narcotizzato e pestato la propria amante, incinta al quinto mese, con lo scopo di farle perdere il figlio che portava in grembo. Lo sguardo turbato dalla visione di quei restanti 9 anni che l’immobiliarista 56enne di Bertinoro dovrà passare in carcere. Era ai domiciliari, controllato con i braccialetti elettronici di ultima generazione. Non certo libertà, ma neanche le mura di una Casa circondariale, nella quale, espletate le ultime formalità, è stato portato dai Carabinieri. Professandosi innocente, come ha sempre fatto dall'inizio di questa brutta storia. Secondo i giudici Isoldi inscenò il 6 dicembre 2005 in un condominio di Pinarella l’agguato alla sua ex amante, facendolo sembrare una rapina. Invece sarebbe stata un'aggressione per colpire al ventre la ragazza, 28enne, procurandole un aborto. L’immobiliarista era stato arrestato il 30 aprile del 2013 perché sospettato di essere in procinto di scappare prima della sentenza definitiva, il 12 febbraio scorso aveva ottenuto i domiciliari. Isoldi era già stato arrestato prima nel settembre 2011 per aver inscenato un ricatto ai suoi danni; poi nel giugno 2012, a causa di una frode fiscale da 13 milioni collegata alla costruzione della villa sottraendo soldi dalle sue aziende. Questa volta per l'imprenditore si aprono le porte del carcere per lunghi 9 anni.
Isoldi, la Cassazione conferma: 12 anni. L'immobiliarista era accusato di aver picchiato l'ex amante incinta per farle perdere il bambino, scrive Carmelo Domini su "Corriere Romagna" il 29/05/2014. Condanna definitiva a dodici anni di reclusione per Pierino Isoldi, l’immobiliarista 56enne di Bertinoro accusato di aver narcotizzato e pestato la propria amante, incinta al quinto mese, con lo scopo di farle perdere il figlio che portava in grembo. La donna, all’epoca 28enne, abortì poche ore dopo l’aggressione all’ospedale di Ravenna. Poco prima delle 21 di ieri la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso presentato dai legali di Isoldi (gli avvocati Nicola Mazzacuva di Bologna e Piero Coppi; penalista noto per essere stato tra gli altri difensore di Andreotti, Berlusconi e Sabrina Misseri). La Cassazione - come chiesto dall’avvocato di parte civile Carlo Benini - ha rigettato cinque motivi di appello e non ammesso il sesto, confermando in questo modo la condanna di secondo grado emessa dalla Corte di Appello di Bologna nel dicembre del 2012. Una pena di due anni superiore a quella comminata il 28 maggio del 2010 dal collegio penale di Ravenna che in primo grado condannò l’imprenditore anche a una provvisionale da 100mila euro in favore della donna. Isoldi - stando a una verità processuale confermata ieri in ultimo grado - architettò l’agguato alla sua ex amante. Un piano messo in pratica nel pianerottolo del condominio di Pinarella dove la ragazza viveva. A fare scattare l’allarme fu lo stesso immobiliarista, che chiamò i soccorsi denunciando l’aggressione subita dalla giovane. L’ipotesi di una rapina finì però ben presto per essere accantonata dai Carabinieri che si occuparono delle indagini. Parve, infatti, strano che alla donna fosse stata rubata la borsa ma non il prezioso orologio che portava al polso. Ma soprattutto appariva anomalo l’accanimento all’indirizzo del grembo della ragazza, che fu anche stordita con un fazzoletto imbevuto di cloroformio. Tracce di quella sostanza vennero ritrovate nell’auto di Isoldi; altre invece apparvero nella memoria di un pc in uso all’immobiliarista, utilizzato per accedere ad un motore di ricerca in cui erano state in precedenza digitate le parole “aborto” e “farmaci”. Per l’accusa Isoldi tentò anche di costruirsi un alibi attraverso la modifica della registrazione video effettuata dalle telecamere di sicurezza della sua casa di Milano Marittima, in cui vennero cambiati data e orario. Isoldi si trova attualmente ai domiciliari nella sua casa di Bertinoro, controllato da un braccialetto che ne traccia gli eventuali movimenti. L’immobiliarista era stata arrestato il 30 aprile del 2013 perché sospettato di essere in procinto di scappare prima della sentenza definitiva, il 12 febbraio scorso aveva ottenuto i domiciliari.
Isoldi dimenticato in carcere. Dopo la condanna a dodici anni non sono mai uscite le motivazioni della sentenza, scrive il 23/Settembre/2013 Raimondo Baldoni su "Romagna noi". Pierino Isoldi, è stato condannato ma non si sa perché. I motivi della sentenza di condanna a dodici anni per il procurato aborto all’amante (fatto avvenuto a Pinarella), non sono mai usciti. Un incredibile caso di malagiustizia che si abbatte sull’imprenditore che si trova in carcere dal 30 aprile scorso, ma che non può ricorrere come vorrebbe in Cassazione perché i suoi legali non hanno a disposizione le motivazioni, indispensabili per fare un ricorso. I motivi per i quali è stato condannato, come sentenziato dal dispositivo emesso il 21 dicembre del 2012 - dove a Pierino Isoldi veniva inflitta una pena di dodici anni - dovevano uscire entro novanta giorni e quindi il 21 marzo scorso. Nessuno sa più nulla. E si sono pure dimenticati Isoldi in carcere. Singolare poi che il 55enne imprenditore venga tenuto ristretto per il pericolo di fuga proprio per questa condanna. Un paradosso all’italiana. Il “giusto processo” entrato nell’ordinamento giuridico nel 1999 ha addirittura dedicato un capitolo sull’importanza delle motivazioni, necessarie per garantire, a ciascun titolare di diritti soggettivi o di interessi legittimi lesi, la facoltà di agire e di difendersi. Intanto, l’imprenditore resta dentro. Sono sei mesi che si trova in una cella della Casa circondariale di Forlì su ordine della Corte d’Appello di Bologna che aveva accolto la richiesta della Procura Generale in quanto riteneva ci fossero serie possibilità che il bertinorese potesse fuggire all’estero per evitare di scontare la pesante condanna a dodici anni. Pena questa che era stata inflitta dalla Corte d’Appello di Bologna che aveva aumentato di due anni esatti quella emessa in primo grado a Ravenna nel maggio del 2010 per lesioni, rapina e procurato aborto ai danni dell’ex amante aggredita di notte a suon di calci e pugni a Pinarella il 6 dicembre del 2005. Non si sa con certezza il perché i giudici bolognesi non abbiano rispettato i tempi di giustizia e non abbiano messo nero su bianco le motivazioni. Forse per un sovraccarico di lavoro, oppure per dimenticanza. Resta il fatto che in questi casi, i giudici, non pagano per eventuali responsabilità. Dopo questo articolo, molto probabilmente, si correrà ai ripari e i togati si affretteranno a stilare le motivazioni. Chissà poi se al Consiglio Superiore della Magistratura interverranno oppure prenderanno delle difese di natura corporativa che oltraggerebbero irreparabilmente la dignità dell’organo di autogoverno dei giudici. Intanto, parallelamente, l’imprenditore ha cercato un’altra strada per uscire dal carcere. Dopo il provvedimento emesso per il pericolo di fuga, Isoldi tramite i suoi legali era ricorso al Tribunale del Riesame (organo che si interessa soltanto della misura restrittiva) che però aveva confermato che c’era un reale pericolo di fuga. Su questa decisione Isoldi era poi ricorso in Cassazione che adesso ha fissato l’udienza per il 4 ottobre prossimo. Raimondo Baldoni
Scoperto un bunker segreto nella villa di Isoldi. Sotto la piscina della villa dell'imprenditore è spuntata la struttura di 150 metri quadrati e con un solo piccolo accesso, scrive l'1/Agosto/2012 "Romagna noi". Scoperto un rifugio bunker sotto la piscina della villa del figlio di Isoldi. L’ultimo sopralluogo degli uomini della Guardia di finanza avvenuto pochi giorni fa, ha portato alla luce un nascondiglio segreto ricavato sotto la piscina della mega-villa di Bertinoro. Al bunker ci si accede da una piccola porticina. L’unica, perchè all’interno non ci sono più aperture. E’ tutto chiuso. Si tratta di una superfice di 150 metri quadrati. Un bell’appartamento si potrebbe dire, se non fosse che non vi è luce, se non quella artificiale. Il bunker era ancora in fase di costruzione e all’interno non c’è nulla. Chissà come sarebbe stato una volta finito? Si trova esattamente sotto la piscina della villa di via Colombarone, ma una parte più piccola del rifugio segreto è sotto uno scalone esterno. I finanzieri hanno fatto la scoperta quasi per caso. La villa è talmente grande che nessuno aveva notato la piccola porta che sembrava quasi l’accesso a una cabina termica. Difficile pensare che lì ci fosse questo nascondiglio visto che sopra c’è una grande vasca dove è stata ricavata la piscina. Dai primi accertamenti quella struttura di 150 metri quadrati non risulterebbe in nessuno disegno tecnico e in nessuna variante. Un abuso edilizio grande “come una casa”. La Procura sta svolgendo accertamenti per capire meglio, ma per ora non risultano documenti ufficiali di questo appartamento segreto. La maestosa villa di via Colombarone al centro dell’inchiesta che ha portato in carcere, l’11 giugno scorso, l’imprenditore Piero Isoldi, è ancora sotto sequestro. Per i sostituti Fabio di Vizio e Marco Forte la villa è il “corpo del reato”. Per l’accusa è stato proprio con questa mega costruzione che Isoldi avrebbe commesso un’appropriazione indebita di 13 milioni per aver “scaricato” tutti i lavori fatti nella villa nei cantieri e quindi nelle società. Piero Isoldi stava costruendo la villa per il figlio 31enne Gabriele. Al catasto risulta casa colonica, ma in realtà si tratta di una struttura lussuosa che si disloca su vari piani per circa 6mila metri quadrati. Sono stati utilizzati pregiatissimi marmi. Gli infissi e le porte sono costosissimi, con maniglie in ottone. Nella piscina, dove sotto è stato scoperto il bunker, ci sono dei vetri trasparenti e una cascata. Poi c’è anche una sorta di percorso termale con le varie stazioni benessere. Nel solo garage della villa, di oltre 700 metri quadrati, è in grado di fare manovra un pullman granturismo. C’è anche una tavernetta che può ospitare un centinaio di persone. La recinzione costa come un piccolo condominio. E adesso è stato scoperto pure un rifugio.
Forlì, frode fiscale arrestato Piero Isoldi. Frode fiscale per costruire la villa al figlio, arrestato Isoldi. Nuovi guai con la giustizia per Pierino Isoldi. Il noto imprenditore forlivese di 55 anni è stato arrestato dai militari della Guardia di Finanza di Forlì in esecuzione ad un'ordinanza di custodia cautelare in carcere, scrive l'11 giugno 2012 "Forlì Today". Nuovi guai con la giustizia per Pierino Isoldi. Il noto imprenditore forlivese di 55 anni è stato arrestato dai militari della Guardia di Finanza di Forlì in esecuzione ad un'ordinanza di custodia cautelare in carcere per estorsione e appropriazione indebita di oltre 13 milioni di euro attraverso frode fiscale con utilizzo di fatture false. Nella vicenda è coinvolto anche un noto avvocato del foro di Firenze, indagato per concorso in estorsione. Denunciate anche altre sette persone. Quest'ultime dovranno rispondere dell'accusa di appropriazione indebita ed alla frode fiscale. Secondo quanto emerso dalle indagini condotte dal procuratore capo della Repubblica di Forlì, Sergio Sottani, e dai sostituti Fabio Di Vizio e Marco Forte, Isoldi, con la complicità di un’articolata organizzazione, ha distratto somme dalle società immobiliari e di costruzioni dallo stesso amministrate per oltre tredici milioni di euro utilizzando fatture false, destinandole alla costruzione di una sontuosa villa intestata al figlio, sulle colline di Bertinoro. Spiega la Finanza: “le fatture emesse dai fornitori ed inerenti la costruzione della villa sono state “spalmate” (dirottate) nella contabilità dei cantieri delle società amministrate dall’imprenditore immobiliare, sì da determinare una assoluta coerenza fiscale e da non evidenziare la presenza di anomalie di sorta nella contabilità”. In questo modo, sostiene l'accusa, Isoldi “ha potuto sostenere le ingenti spese relative alla costruzione della villa procedendo alla indebita detrazione dell’i.v.a. ed alla contabilizzazione di costi fittizi a favore delle società amministrate, circostanza che non sarebbe stata possibile da parte di persona fisica proprietaria di immobile”. La villa, che è stata classificata come casa colonica, illustrano le Fiamme Gialle, “è stata così costruita facendo ricorso ad ogni tipo di lusso marmi pregiati, infissi di qualità, maniglie in ottone, piscina con vetri trasparenti e cascata e mattoni a faccia vista. Nel solo garage della villa, di oltre 700 metri quadrati, è in grado di fare manovra un pullman granturismo. Prevista inoltre una zona benessere con vasca idromassaggio, forno a legna con cantina, zona denominata “piazzetta” ed altro”. Inoltre, nel corso delle indagini, gli investigatori “hanno accertato anche un grave episodio di minaccia e estorsione per costringere il titolare della ditta esecutrice dei lavori alla villa, a firmare documentazione attestante fatti falsi inerenti i pagamenti dei lavori, contro la propria volontà e con la finalità di sviare le indagini”. Nell’ambito dell’estorsione sarebbe coinvolto, inoltre, anche un noto avvocato del foro di Firenze che avrebbe concorso alla condotta illecita. Gli altri indagati sono il fratello dell’imprenditore arrestato, 62 anni, ed il figlio, 31enne, oltre agli imprenditori che avevano eseguito i lavori nella villa. Nella complessa operazione di servizio sono stati impegnati circa 30 militari e 10 automezzi che hanno eseguito numerose perquisizioni nelle sedi delle società e nelle abitazioni degli indagati a Forlì, Bertinoro, Rimini e Firenze. Nello studio dell’avvocato hanno operato direttamente anche gli stessi magistrati inquirenti. Gli inquirenti hanno sequestrato copiosa documentazione e, con l’ausilio di personale specializzato della polizia postale e telecomunicazioni di Bologna, sono stati acquisiti i dati dai computer per il successivo esame e per vagliare la posizione dei numerosi fornitori di materiali e servizi che hanno avuto rapporti con l’imprenditore arrestato. La villa oggetto di indagine, del valore di almeno 15 milioni di euro, è stata sequestrata insieme a titoli di credito e somme su conti correnti per oltre 2 milioni e mezzo di euro. L'avvocato che difende Isoldi ha riferito agli organi di informazione che non gli risulta esser indagato, dicendosi sereno ma scosso per la perquisizione durata tutta la giornata di lunedì. Lo stesso ha anche aggiunto di non aver rinunciato alla difesa dell'imprenditore poichè la Procura di Forlì non ha presentato motivi di incompatibilità.
Isoldi interrogato per sette ore. I segreti sul credito facile. L'imprenditore ha ammesso che il denaro fresco arrivava grazie "agli amici degli amici" che lo aiutavano, scrive il 5/Luglio/2012 "Romagna noi". Interrogato martedì per sette ore fino attorno alle 23, Piero Isoldi è stato sentito dai sostituti procuratori Fabio Di Vizio e Marco Forte. L’interrogatorio, il secondo dall’undici giugno giorno dell’arresto del bertinorese accusato di appropriazione indebita di 13 milioni di euro, tramite false fatture, non è stato sufficiente a toccare tutti gli argomenti e a chiarire i punti oscuri che gli inquirenti devono ancora capire. Così, per esempio, l’ultimo dei capi di imputazione di cui è accusato l’imprenditore che è quello di estorsione non è ancora stato trattato. E per questo sarà fissato un altro interrogatorio. I magistrati volevano capire invece tante cose a cominciare, per esempio per quale motivo le banche continuavano a dargli credito nonostante la montagna di debiti. Isoldi aveva molti amici potenti e fra questi anche banchieri e politici. “Facile capirne i motivi - avrebbe detto - bastava accontentare chi ti aiutava”. Non è la prima volta che Piero Isoldi ammette di essere stato aiutato da “amici di amici”, tutta gente che conta ma di cui, in realtà, non viene fatto alcun vero nome. Per la Procura ci sarebbe stato un “sistema Isoldi” e cioè quello di mantenere incompiuti i lavori nella lussuosa villa intestata al figlio, per poter scaricare l’Iva, recuperarla, e abbassare le tasse con i costi caricati falsamente in quel cantiere. “Il sistema – avrebbe detto Isoldi – l’hanno creato altri, io ho la colpa di aver accettato il gioco”. Gli “altri” sarebbero i suoi accusatori. “L’Iva? Quei 2 milioni di Iva evasa?”, gli avrebbero chiesto i due magistrati Fabio Di Vizio e Marco Forte e Isoldi avrebbe risposto: “L’iva l’avrei restituita tutta fino all’ultimo euro”. Risposte che non hanno soddisfatto i magistrati che stanno cercando di capire i veri motivi per i quali Isoldi avrebbe ottenuto comunque denaro dalle banche in un periodo, per esempio, come il 2011, quando era già in atto una forte stretta creditizia, mai vista prima d’ora. Isoldi riuscì ad ottenere come “nuova finanza” la cifra di 18 milioni di euro.
"Se cado io, cadono anche loro": Isoldi parla. Prima parte dell'interrogatorio all'imprenditore edile di Bertinoro. Risposte evasive ma anche i primi nomi, scrive il 22/Giugno/2012 "Romagna noi". Piero Isoldi parla, fa alcuni nomi, coinvolge altre persone. “Se cado io, cadono anche loro”. Poi prova a scagionarsi. “Non ho commesso reati, tutto quello che ho fatto è alla luce del sole, tutto regolare”. Su questo tono Piero Isoldi ha tenuto a lungo il punto. Nega ogni addebito, ma poi quando prende il via a parlare, snocciola una serie di circostanze che però non troverebbero riscontri con le carte che hanno in mano gli inquirenti. Il procuratore della Repubblica Sergio Sottani e il sostituto procuratore Marco Forte hanno fatto tardi mercoledì sera per l’interrogatorio all’immobiliarista di Bertinoro avvenuto nella Casa circondariale di Forlì alla presenza degli avvocati difensori Ciro Pellegrino e Filippo Poggi con Fabio Malpezzi. Tutti guardavano il detenuto, in difficoltà, un uomo che in 30 anni ha creato un impero. Isoldi fa capire che se è arrivato a tanto qualcuno lo ha aiutato, politici soprattutto. Le domande da fare all’accusato sono talmente tante che non sono bastate le sei ore impiegate mercoledì e per questo sarà presto fissato un secondo incontro che andrà a toccare i capi di imputazione che finora non stati esaminati. Nell’interrogatorio, dell’altro giorno, infatti, gli inquirenti si sono soffermati solamente sui reati di appropriazione indebita e false fatturazioni. Anche qui sarebbero stati fatti alcuni nomi. Le risposte di Isoldi non hanno convinto i magistrati che con tutta probabilità si aspettavano qualcosa di più. Le uniche ammissioni fatte dall’interrogato sono state quelle che si sono susseguite in un suo lungo racconto quando le domande che non trovavano risposte chiare non venivano più fatte. Nel raccontare episodi, fatti o circostanze, il bertinorese più volte ha detto cose che secondo le accuse non corrispondevano alla realtà e i magistrati glielo facevano notare con carte e documenti alla mano. La villa e le aziende che vi hanno lavorato sono stati al centro di tutto l’interrogatorio. E chissà se Sottani e Forte hanno creduto alle parole di Isoldi quando, in maniera decisa nel rispondere alla domanda sul perché i lavori della lussuosa villa non terminavano mai, ha spiegato che le opere erano lunghe e difficili da realizzare in quanto lì, in quella struttura sarebbe stato fatto il più grande Bed and Breakfast della Romagna. Isoldi ha quindi spiegato che i lavori andavano fatti con criterio e fatti bene e per questo il tempo delle opere si prolungava continuamente. Secondo la Procura, invece, la villa (ora sotto sequestrato) era una piattaforma su cui fare affari che, una volta terminata, restava nel patrimonio di famiglia, intoccabile perché intestata al figlio. Fra gli imprenditori edili, gli artigiani che vi hanno lavorato e le aziende che hanno fornito il materiale, c’è stato chi avrebbe emesso fatture false che riportavano l’intestazione dei cantieri delle società di Isoldi e non a nome del figlio intestatario della villa. C’è un forte sospetto che alcuni di questi fossero in combutta con Isoldi: gonfiavano le fatture e prendevano una percentuale. Per Isoldi, nel caso le accuse fossero confermate, sarebbe stato un triplo affare: scaricava le spese e l’Iva sulle sue società, ma quella villa (da lui stesso stimata in 25 milioni di euro, per la procura vale 15 milioni) serviva per far vedere alle banche il patrimonio e ottenere “nuova finanza”. Non conveniva quindi terminare la reggia, ma lasciarla in cantiere. L’appuntamento al prossimo interrogatorio dove si parlerà del reato di estorsione nei confronti di un imprenditore edile di cui Piero Isoldi è accusato insieme al suo ex avvocato Massimiliano Annetta. Nei prossimi giorni potrebbero essere sentiti anche gli altri indagati, figlio e fratello del principale accusato: il figlio Gabriele Isoldi, 30enne, intestatario della villa e il fratello Giuseppe di 62 anni, residente a Rimini. Gli altri due coinvolti in questi fascicolo sono i fratelli Nicola e Michele Asquino, imprenditori edili originari di Potenza. Il primo è stato il grande accusatore, a febbraio ha denunciato il giro di fatture false e altri presunti reati. Di qui l’indagine che ha portato al sequestro della villa e all’ordinanza di custodia in carcere.
Isoldi-Aedes, ex senatore Bonferroni: “Prendere 100 mila euro in nero un errore”. Il consigliere di amministrazione di Finmeccanica, sentito come persona informata dei fatti dalla procura di Forlì che indaga sul tentativo di scalata, nega di aver intascato una mazzetta, ma di essere stato pagato per una consulenza. L'immobiliarista ha sostenuto che quei soldi servivano per fargli ottenere finanziamenti, scrive il 17 settembre 2012 "Il Fatto Quotidiano". Non registrare i 100 mila euro ricevuti dall’immobiliarista Pierino Isoldi per la sua “assistenza professionale” è stato “un grave errore”, che però è gia stato “regolarizzato dal punto di vista fiscale”; quanto alle dichiarazioni di Isoldi, secondo cui quei soldi sarebbero serviti per “ungere” i banchieri, sono affermazioni “totalmente infondate”. E’ quanto afferma l’ex senatore Franco Bonferroni, consigliere di amministrazione di Finmeccanica, sentito come persona informata dei fatti dalla procura di Forlì che indaga tra l’altro sul tentativo di scalata di Isoldi al gruppo Aedes. L’immobiliarista l’anno scorso era stato arrestato per calunnia aggravata: aveva accusato tre consulenti e collaboratori di tribunali e procure di aver chiesto denaro per ‘ammorbidire’ situazioni che lo vedevano coinvolto. Della nuova vicenda scrive oggi il Corriere della sera, che cita tra l’altro un interrogatorio di Isoldi che parla della consegna “in nero” dei 100 mila euro a Bonferroni, che si sarebbe interessato per fargli avere finanziamenti da parte del sistema bancario; sempre a detta dell’immobiliarista, Bonferroni gli avrebbe detto che quel denaro sarebbe servito per “remunerare” i vertici di due istituti di credito. “Può capitare talvolta, specie a chi ha rapporti diffusi, di incontrare persone che sarebbe stato meglio non avere mai incontrato. Cosi è capitato anche a me e, purtroppo, non solo una volta”, dice oggi l’ex senatore democristiano ed ex sottosegretario, “indicato in Finmeccanica – scrive il Corriere – in quota Udc, dal ministero dell’Economia”. “Quanto ai rapporti che ho intrattenuto col signor Pierino Isoldi di Forlì posso dire – prosegue Bonferroni – che mi era stato indirizzato da persona autorevole e che ho fatto quanto ho potuto e correttamente per assisterlo professionalmente. Ho commesso il grave errore di non registrare la somma complessiva di centomila euro che il signor Isoldi mi aveva consegnato in due occasioni nei corso dell’anno 2009 per le mie prestazioni professionali. Di ciò mi rammarico ancor più se considero che quanto avrei dovuto al fisco per questa omissione rappresenta solo poco più dell’uno per cento di quanto ho pagato in tasse negli ultimi dieci anni di lavoro. Sentito nei giorni scorsi, come persona informata sui fatti, dalla Procura della Repubblica di Forlì, che lo scorso giugno aveva disposto l’arresto del signor lsoldi, ho risposto con franchezza e lealtà a tutte le domande che mi sono state rivolte ed ho anche dichiarato, prima che mi venisse contestata, la percezione della somma in questione che ho già provveduto a regolarizzare dal punto di vista fiscale. Quanto poi alle affermazioni attribuite al signor Isoldi e pubblicate dal Corriere della Sera che fanno riferimento alla destinazione delle somme che ho irregolarmente percepito da lui a terze persone la cui correttezza ed onestà è fuori discussione, ne affermo con forza – conclude Bonferroni – la totale infondatezza”.
"Chiedo scusa: ora vi dirò la verità". Isoldi sotto torchio. L'immobiliarista ammette le sue colpe, ma poi dice ai pm: "Io resto la vera vittima di questa storia", scrive Maurizio Burnacci il 27/09/2011 "Il Resto del Carlino". Non Teme il confronto coi suoi accusatori; dopo la prima notte in cella sulle prime Isoldi ribatte colpo su colpo. Occhi negli occhi, non sembra sotto choc. Poi, incalzato, si deve arrendere ai pm Fabio Di Vizio e Marco Forte. A metà del faccia a faccia — sabato in carcere — l’immobiliarista di Bertinoro, arrestato venerdì sera dai carabinieri con l’accusa di calunnia, capisce che è meglio abbassare la guardia. Collaborare. Isoldi mostra le carte. Si arrende nel bel mezzo dell’interrogatorio di convalida dell’ordine di custodia cautelare firmato dal giudice Giovanni Trerè. E — di fronte alle evidenze delle accuse — chiede pure scusa: «Scusate, è vero, forse mi sono lasciato prendere la mano, ma credetemi io resto la vittima. Quelle due donne mi hanno ricattato, e questo voi lo sapete. Certo, poi ho esagerato. Ma vi dirò la verità...». Isoldi collabora con gli inquirenti. Ma questo, per adesso, non basta a fargli guadagnare l’uscita delle prigioni della Rocca. La richiesta del suo legale, Massimiliano Annetta, viene rigettata dal gip Giovanni Trerè; i pm Di Vizio e Forte sono chiari: niente domiciliari: «Può inquinare le prove», dicono gli investigatori. Il giudice accoglie l’orientamento dell’accusa. Isoldi resta in carcere fino al secondo round. Un interrogatorio coi soli pm in cui l’indagato racconterà la storia dall’inizio. Non come aveva fatto quella mattina di luglio. Quando l’immobiliarista si presenta in procura e mette nero su bianco un’accusa di estorsione contro due donne. Due professioniste che avevano un ruolo chiave nel risanamento del gruppo Isoldi. Loro — dopo aver analizzato lo stato di salute delle società in chiara difficoltà finanziaria — dovevano dire alle banche che tipo di liquidità potevano elargire a Isoldi; procedura classica, prevista dalle legge fallimentare. Ma Piero quella mattina di luglio va oltre. «Quelle due mi ricattano, vogliono 500mila euro, oltre alla parcella, per dire alle banche che le mie società vanno bene e possono darmi il denaro...». Da lì parte l’inchiesta. Che prende sostanza a fine agosto. Gli inquirenti attivano intercettazioni telefoniche e ambientali; ma è dalla raccolta dei documenti — centinaia di carte — che scoprono che per loro le cose non stanno come dice Isoldi; non solo: temono pure che Piero possa inquinare le prove. Così martedì parte la richiesta d’arresto. Eseguita venerdì. Ieri sono proseguiti gli interrogatori. Da accertare una montagna di documenti. Tra cui gli 8 milioni di euro in assegni circolari trovati venerdì nell’ufficio della Isoldi Immobiliare, in piazza Saffi.
L’uomo da 500 milioni di euro. Il rebus Isoldi. E’ il valore del patrimonio di Pierino: la procura sta vagliando migliaia di carte, scrive Maurizio Burnacci su “Il Resto del Carlino” il 28/09/2011. I Soldi di Isoldi portano in mille direzioni. Anzi diecimila: tante sono le carte sequestrate dagli investigatori negli ultimi dieci giorni negli uffici della ‘Isoldi Immobiliare’ e nella villa di Bertinoro. Ecco, la villa. Gli inquirenti allora corrono alla notte del 15 gennaio 2010. Piero e la sua famiglia sono vittime di una rapina. I banditi lo picchiano. Di brutto. Alla moglie ordinano di aprire la cassaforte. Cosa c’è nella cassaforte? Soldi, certo. Ma non solo. Da quel forziere sparisce anche la carta che certifica lo scudo di Isoldi. Piero aveva dei soldi all’estero. Li ha ‘scudati’, come prevedeva la legge. Ecco, da lì adesso ripartono le indagini. QUELLA rapina era ‘solo’ una rapina? In procura le barricate del silenzio sono invincibili. Gli inquirenti sanno che Isoldi ha dei conti all’estero. La trama s’avvita. Si fa ragnatela. Isoldi è in carcere con l’accusa di calunnia. Ovvero: avrebbe fabbricato carte false per infangare il lavoro dei suoi consulenti finanziari. Tra il 2009 e il 2010 il Gruppo Isoldi subisce un improvviso tracollo. Pierino — dicono i riscontri raccolti da carabinieri e guardia di finanza — sarebbe sull’orlo della bancarotta. A proporre l’istanza di fallimento, due professionisti non pagati. Poi, retromarcia. Isoldi paga. E le banche ordinano un piano di risanamento. Entrano in scena due consulenti finanziari. Due donne. Il caposquadra è Stefania Chiaruttini, 42 anni. Poi, colpo di scena. Inizio luglio scorso: Isoldi denuncia le due. «Mi stanno ricattando. Vogliono 500mila euro fuori parcella per scrivere bene della mia azienda». Credibile? I pm Fabio Di Vizio e Marco Forte subito s’accorgono di mille incongruenze. Isoldi mente? Gli inquirenti fingono di allearsi con lui. Il 16 settembre fanno irruzione nel suo ufficio, a Bertinoro. Chi c’è in quella stanza? Isoldi e le due consulenti. Sul tavolo, 100mila euro. Contanti e assegni. Isoldi dice: sono i denari del ricatto. Le due consulenti ribattono: «È solo una parte della nostra parcella». Isoldi viene arrestato venerdì scorso: il ufficio era farcito di soldi. Dieci milioni. Assegni circolari, intestati a creditori, da saldare. Ma altri soldi sarebbero sospetti: quelli che per gli inquirenti — coordinati anche dal procuratore capo Sergio Sottani — potrebbero essere in giro per il mondo. Stando alle carte finora raccolte, Isoldi avrebbe un patrimonio stimabile in 4-500 milioni di euro. I suoi debiti con le banche risulterebbero — dicono i verbali — di circa 200. Ora c’è il piano di risanamento in corso: 18 milioni in 5 anni elargiti da sette banche. Soldi, sempre più soldi. Da dove vengono? Dove vanno? Sarebbe questo — ammettono qualificate fonti investigative — il cuore dell’inchiesta. La calunnia? «Potrebbe essere una chiave per aprire la cassaforte». Come quella notte, quella notte di gennaio 2010. È da lì che partono i misteri del caso Isoldi?
Isoldi da accusatore ad accusato. L'imprenditore forlivese resta in cella per calunnia dopo aver denunciato due specialiste per estorsione, scrive il 27/Settembre/2011 "Romagna noi". Potrebbe tornare libero in poco tempo l’imprenditore Piero Isoldi, arrestato venerdì sera con l’accusa di calunnia aggravata e appropriazione indebita. Il suo caso pare più complesso di quanto si potesse pensare, e così pure la verità che si nasconde dietro i fatti degli ultimi giorni. Secondo gli inquirenti, Isoldi avrebbe denunciato il tentativo di estorsione ricevuto da due consulenti milanesi, che avrebbero offerto perizie favorevoli sulle sue aziende in cambio di denaro. Per rendere più credibili le proprie accuse, tuttavia, Isoldi avrebbe costruito una serie di prove e di documenti falsi, il che avrebbe portato al suo arresto. Il costruttore bertinorese aveva denunciato per estorsione due specialiste dopo aver ricevuto la richiesta di 500mila euro - in aggiunta alla normale parcella - per facilitare l’arrivo di alcuni finanziamenti bancari. Questa operazione avrebbe permesso a Isoldi di mettere al sicuro le società del suo gruppo. Nel corso delle indagini, tuttavia, l’immobiliarista si è trasformato da accusatore ad accusato - e le circostanze di questo passaggio non sono del tutto chiare. Per Isoldi si tratta del terzo guaio giudiziario in pochi anni, dopo la condanna in primo grado per procurato aborto e la recente inchiesta sulle irregolarità fiscali partita dalla procura di Rimini. L’indagine per la quale si trova oggi in carcere è partita lo scorso luglio, è diretta dai sostituiti Marco Forte e Fabio Di Vizio, e vede iscritte nel registro degli indagati anche la consulente milanese Stefania Chiaruttini e una collaboratrice del suo studio. Proprio la Chiaruttini, 49 anni, affermata esperta del mondo della finanza, avrebbe lavorato sul piano di risanamento del gruppo forlivese. Sulla base della sua perizia, sei istituti bancari dovevano decidere se concedere all’imprenditore di Forlì un finanziamento da diversi milioni. Gli inquirenti dicono che l’inchiesta è cominciata nel momento in cui l’immobiliarista ha messo piede in procura per denunciare la richiesta di denaro. Durante le indagini sarebbe emerso che una parte dei fatti denunciati da Isoldi avevano fondamento. Perché, allora, rinchiudere in cella l’imprenditore? Secondo gli inquirenti, Isoldi avrebbe costruito ad arte alcuni documenti per avere più credito agli occhi dei magistrati. In quel momento, sarebbe passato da potenziale vittima a grande accusato. Ci sarebbe anche la prova di un pagamento effettuato da Isoldi alle consulenti milanesi. Sembra che il 16 settembre Isoldi abbia versato 100mila euro agli specialisti, e la circostanza sarebbe avallata da due uomini in divisa. A quanto pare, al momento della consegna del denaro erano presenti sia Chiaruttini, sia una collaboratrice del suo studio. Isoldi avrebbe raccontato i passaggi della vicenda nel lungo interrogatorio avvenuto sabato. Questo potrebbe incidere sulla misura restrittiva che gli è stata assegnata: l’imprenditore bertinorese potrebbe tornare presto in libertà, dicono i suoi legali. Per l’avvocato Massimo Annetta del Foro di Firenze, “Isoldi è davvero sereno e fiducioso. Sabato ha risposto a tutte le domande dei pm chiarendo la propria posizione. Ora attendiamo che i magistrati facciano le verifiche. E’ un’indagine molto complessa. Ci hanno chiesto massima riservatezza ma siamo altresì convinti che, nel giro di un paio di giorni, tutto sarà chiarito”.
Dott.ssa Chiaruttini. Legislatura 16 Atto di Sindacato Ispettivo n° 3-02494. Atto n. 3-02494 (in Commissione). Pubblicato il 11 novembre 2011. Seduta n. 636. LANNUTTI – Ai Ministri dell’economia e delle finanze e dello sviluppo economico. - Premesso che:
la dottoressa Stefania Chiaruttini, valente commercialista designata dalla Procura di Milano quale consulente nel processo Parmalat, ha allargato la sua sfera di influenza in molteplicità attività;
si legge infatti sul sito di Fondo italiano: «Organi Sociali Stefania Chiaruttini – Sindaco: “Ha iniziato la propria attività nel 1987 con l’esercizio in via esclusiva della professione di Dottore Commercialista. Dal 1988 è diventata socia dello Studio La Croce e dal 1997 è socia dello Studio Chiaruttini & Associati. Ha ricoperto cariche di Sindaco, Consigliere di Amministrazione e liquidatore di diverse società tra cui: società quotate alla Borsa Valori di Milano, Fondi Comuni di Investimento, Società di Intermediazione Mobiliare. Ricopre cariche di commissario straordinario Legge 270/99. Si occupa di compliance e consulenza in materia di controlli interni e Legge 231. È membro di Organismi di Vigilanza. Ha svolto e svolge consulenze tecniche su nomina della Pubblica Accusa del Tribunale e della difesa in materia di reati fallimentari, societari e di frode al Mercato. È componente del Comitato di Esperti presso l’Unità di Informazione Finanziaria – Banca d’Italia – ai sensi dell’art. 6 del D. Lgs. 231/07″»;
su “il Sole-24 ore” del 29 luglio 2010, in un articolo intitolato: “Draghi nomina i commissari”, si legge che nella Banca di credito cooperativo di Firenze, la gestione commissariale è stata affidata all’economista Provasoli e al banchiere Fenaroli. «Il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, ha nominato ieri gli organi della procedura di amministrazione straordinaria del Credito cooperativo fiorentino nelle persone di Angelo Provasoli e Virgilio Fenaroli, quali commissari straordinari. La Banca centrale ha dunque provveduto immediatamente a garantire una guida alla banca presieduta fino a venerdì scorso dal coordinatore del Pdl Denis Verdini, che lunedì si è dimesso. Nella sua nota ufficiale, via Nazionale ha comunicato anche che Alberto Alessandri, Stefania Chiaruttini e Alessandro Leproux sono stati nominati componenti del Comitato di sorveglianza. “La gestione della banca – prosegue la nota – è affidata agli organi straordinari, che operano sotto la supervisione della Banca d’Italia. Il Credito cooperativo fiorentino prosegue regolarmente la propria attività”. (…) Dato il crescente numero di procedure di amministrazione straordinaria avviate dalla fine del 2008, la Banca d’Italia ha del resto provveduto a formalizzare i criteri di selezione e di designazione dei nominativi per la composizione degli organi delle procedure di gestione delle crisi. I criteri rispondono alle esigenze di: assicurare un’adeguata combinazione delle esperienze professionali, in rapporto alla specifica situazione dell’intermediario; verificare l’integrità dei nominativi considerati; evitare profili di incompatibilità nella conduzione degli incarichi. Viene inoltre perseguito, spiegano in Banca d’Italia, l’obiettivo di assicurare un equilibrio tra profili che assicurano maggiore affidabilità, grazie alle esperienze pregresse nell’ambito delle procedure e finalità di rotazione e ricambio dei nominativi. Da registrare, infine, la posizione del sistema di Credito cooperativo-Bcc, che nel seguire in stretta collaborazione con Bankitalia la vicenda “confida che alla fine del periodo di amministrazione controllata” il Credito cooperativo fiorentino “possa essere rimesso in bonis e riconsegnato alla proprietà e all’assemblea dei soci”». Sul sito della Banca popolare di Milano, si può leggere che tra gli organi sociali, la dottoressa Stefania Chiaruttini, fa parte del Comitato per il controllo interno e la revisione contabile, che vede come altri membri Umberto Bocchino (presidente), assieme a Federico Fornaro, Mauro Paoloni;
considerato che:
su “il Sole-24 ore” del 13 dicembre 2009, in un articolo dal titolo “Obbligazioni in default: su 9 miliardi 7 sono andati in fumo”, Moyra Longo cerca di fare il punto sui crac finanziari ed industriali che hanno coinvolto migliaia di risparmiatori: «Alla fine i più fortunati sono stati i vecchi obbligazionisti della Parmalat. Sembrerà un’eresia dirlo, ma è così: il più grande crac italiano, quello di cui hanno parlato i giornali di tutto il mondo, è stato l’unico ad avere in poco tempo dato un discreto ristoro ai risparmiatori truffati. Attualmente per loro il recupero è compreso tra il 24% e il 36% del valore originario dei bond, ma la cifra sale di 4-5 punti percentuali se si contano anche i dividendi incassati. Un lusso. In confronto, tutti gli altri spaghetti-bond finiti in default sembrano figli di un dio minore: gli 1,8 miliardi di euro di obbligazioni Cirio, Giacomelli, Finmatica, Finmek, Finpart e La Veggia fino ad oggi hanno restituito ai risparmiatori 86 milioni. Poco più del 4%. E tanti, ancora, sono gli ostacoli da superare. Un po’ perché tante di queste società finite in default non avevano attivi da dismettere. Un po’ perché i Tribunali italiani sono ingolfati e lenti. Sta di fatto che ad oggi dei 9 miliardi di euro totali di obbligazioni finite in default (inclusa Parmalat), circa 7 miliardi sono ancora in fumo. L’unica salvezza è arrivata, per alcuni risparmiatori, dalle cause private contro le banche. Prima udienza: 2017. Il caso di Giacomelli, finito in amministrazione straordinaria sei anni fa, è uno dei più emblematici. La società di articoli sportivi non aveva alcun asset da dismettere: non aveva immobili, non aveva un magazzino. Solo i marchi Giacomelli e Longoni hanno fruttato qualche spicciolo, ma questi pochi soldi non sono bastati neppure a pagare i creditori privilegiati. Qualcosa in più è arrivato da una transazione effettuata con la società di revisione Deloitte (25 milioni), ma anche questa è stata una goccia nel mare di un dissesto da 400 milioni di euro. Morale: a sei anni dal default, per gli obbligazionisti ancora nulla. Zero. Le uniche speranze per i nuovi commissari Stefania Chiaruttini, Oreste Michele Fasano e Giuseppe Leogrande arrivano dalle azioni revocatorie. Ma qui l’ostacolo è dato dalla lentezza – a causa della scarsità di personale, dei rinvii e delle notifiche sbagliate – del Tribunale di Rimini: si pensi che le revocatorie iniziate tra il 2004 e il 2005 nella maggior parte dei casi non sono neppure state ancora messe in istruttoria. Campa cavallo. Il commissario della Finmek, Gianluca Vidal, si trova più o meno nella stessa situazione. Il gruppo ha un passivo di circa un miliardo di euro, incluso un bond da 150 milioni. Ma non ha quasi nulla da dismettere: solo qualche vecchio macchinario, ma nulla più. Le uniche possibilità di recupero arrivano quindi dalle 400 revocatorie avviate verso banche e fornitori e dalle 40 azioni di risarcimento dei danni. Ma anche qui tutto si muove a passo di lumaca: si pensi che la Corte di appello di Venezia (competente in secondo grado su queste azioni) già oggi fissa le prime udienze nel 2017. Ovvio che banche e fornitori prendano tempo anche per eventuali transazioni: la giustizia civile non mette loro propriamente il fiato sul collo… Morale: ad oggi gli obbligazionisti Finmek non hanno recuperato nulla. Il tutto con l’aggravante di costi – dovuti alla burocrazia – che si moltiplicano. Tre procedure, zero risultati Ancora diverso è il caso di La Veggia, società emiliana che lanciò un bond da 100 milioni nel 2001. Il prestito obbligazionario era stato emesso da una società lussemburghese, a sua volta garantita da quelle italiane. Come sempre accade: le capriole tra un paese e l’altro sono tipiche di tutti i prestiti obbligazionari. Il problema è che la lussemburghese e l’italiana Ondulati La Veggia sono fallite, mentre un altro “pezzo” italiano – cioè La Veggia – è finito in concordato preventivo. Tre procedure diverse. I soldi agli obbligazionisti dovrebbero arrivare sia dalla lussemburghese sia dalla garante Ondulati La Veggia, ma c’è un problema: entrambe le società non hanno nulla. O quasi. Tutto dipende dunque dall’altra società italiana, La Veggia in concordato preventivo: ma i soldi che devono arrivare da questa procedura, per ora non arrivano. Nel frattempo è nata una nuova società – Laveggia – che è tornata ad operare. Ma per i creditori, obbligazionisti inclusi, ancora zero. Se tutto andasse per il verso giusto, potrebbero recuperare circa il 20% dell’investimento. Ma questo è il punto: nulla sta andando per il verso giusto. Uno su mille ce la fa Ma ci sono anche obbligazioni in default che qualcosa hanno già pagato ai risparmiatori. Cirio è il caso più noto. Il gruppo alimentare, grazie alle dismissioni, ha già fatto due riparti: ha prima pagato il 6,25% ai creditori di Cirio Del Monte Italia e poi ha risarcito tutti i privilegiati. Ora si attende un terzo riparto e il primo per Cirio Holding. Nel frattempo, inoltre, gli obbligazionisti di Cirio del Monte hanno ricevuto il 22% e i possessori dei bond Del Monte Finance hanno recuperato l’11.5%. Morale: dei sette bond originari del gruppo, tre hanno già percepito qualcosa. Ma altre distribuzioni di denari arriveranno. Stesso discorso per Finmatica, società fallita con un bond da 100 milioni di euro (su un passivo totale di 500 milioni). Un primo riparto, che distribuisce il 7% del valore del bond, è già iniziato per gli obbligazionisti. E altri certamente arriveranno. Advicorp, la banca d’affari inglese specializzata in ristrutturazioni, stima che i recuperi possano raggiungere il 15-20%. Vedremo. Sta di fatto che attualmente il curatore Antonio Passantino è alle prese con un altro problema: l’identificazione dei titolari dei bond. “Con la dematerializzazione dei titoli – spiega – abbiamo difficoltà a rintracciare gli obbligazionisti che hanno cambiato banca oppure che hanno ereditato i titoli”. Insomma: non solo è difficile recuperare i crediti, ma anche i creditori. Benvenuti in Italia»;
in data 6 ottobre 2011, sul sito “Romagnanoi”, è apparsa la notizia che: «Piero Isoldi ha lasciato ieri mattina il carcere della Rocca per fare ritorno alla propria abitazione di Bertinoro, in regime di arresti domiciliari. È stata quindi accolta dal gip Giovanni Trerè la richiesta di scarcerazione presentata dall’avvocato dell’immobiliarista, Massimiliano Annetta, e passata per gli uffici dei pm Marco Forte e Fabio Di Vizio con un parere favorevole. Non ci sarebbe quindi più pericolo di inquinamento delle prove nella complessa vicenda che vede Isoldi indagato per calunnia nei confronti della regina dei commercialisti italiani Stefania Chiaruttini. L’imprenditore aveva infatti denunciato per estorsione la professionista, incaricata di redigere il piano di risanamento di Isoldi Immobiliare. I magistrati avevano però trovato molti punti oscuri nel racconto di Isoldi, arrivando ad ipotizzare che la sua accusa fosse costruita ad arte e arrestandolo per calunnia. Ma questa sarebbe solo la punta dell’iceberg di una vicenda che, allargatasi e complicatasi, vedrebbe già indagati altri affaristi locali. Interrogato due volte nel corso della sua detenzione in carcere, Isoldi sarà quasi certamente sentito ancora nel corso degli arresti domiciliari. Dalla difesa arrivano voci di soddisfazione per la revoca della misura restrittiva più grave, soprattutto per la velocità: con l’istanza presentata e accolta dal gip con parere favorevole dei pm»;
considerato che a giudizio dell’interrogante:
i molteplici incarichi assunti dalla dottoressa Stefania Chiaruttini, in qualità di sindaco, consigliere di amministrazione e liquidatore di diverse società, anche quotate in borsa, fondi comuni di investimento, società di intermediazione mobiliare, commissario straordinario ai sensi della legge n. 270 del 1999, consulente in materia di controlli interni e ai sensi del decreto legislativo n. 231 del 2007, membro di organismi di vigilanza, consulente della pubblica accusa del Tribunale e della difesa in materia di reati fallimentari, societari e di frode al mercato, componente del Comitato di esperti presso l’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia, rappresentano un evidente conflitto di interessi a danno di risparmiatori, consumatori ed utenti, spesso truffati dalle banche anche con il concorso delle distratte autorità vigilanti;
l’ultima designazione alla Banca popolare di Milano confligge con gli altri incarichi ricoperti dalla dottoressa Chiaruttini, specie con quelli assunti in Banca d’Italia;
nel crac Giacomelli, finito in amministrazione straordinaria otto anni fa, in un dissesto da 400 milioni di euro, che annovera tra i nuovi commissari Stefania Chiaruttini, Oreste Michele Fasano e Giuseppe Leogrande, non sono state adottate le azioni necessarie a tutela dei risparmiatori,
si chiede di sapere quali iniziative normative urgenti il Governo intenda adottare per evitare che una ristretta cerchia di tecnici – nominati dalle stesse Autorità di vigilanza, a parere dell’interrogante distratte, e attivi in molteplici società quali banche, fondi comuni, società finanziarie ed affini – possano assumere il ruolo di super partes nella tutela dei diritti e degli interessi dei consumatori, utenti, risparmiatori.
PARLIAMO DI MODENA
GIORNALISMO CONTROCORRENTE: GIORNALISMO MAFIOSO.
Sei sgradito a Libera di Don Ciotti? Allora fai giornalismo “mafioso”. Ignoti penetrano nello studio di un avvocato vicino a Libera e frugano tra le carte. La reazione dell'associazione antimafia, scrive Giacomo Di Girolamo su "La Voce di New York" il 10 dicembre 2016. Libera, l'associazione di Don Luigi Ciotti, collega, in un suo comunicato, quanto avvenuto nello studio dell'avvocato Rando al "linciaggio mediatico, durato per mesi, nei confronti di Enza Rando, dai manipolatori della verità". Il riferimento è ad un paio di articoli pubblicati su un quotidiano di Modena diretto da Giuseppe Leonelli. Qualche giorno fa è successo un episodio spiacevole. Ignoti sono entrati nello studio di Enza Rando, noto avvocato, numero due di Libera, che rappresenta l’associazione di Don Luigi Ciotti in diversi processi alla criminalità organizzata in Italia. Tra venerdì 25 e sabato 26, Novembre delle persone sono entrate nel suo studio legale a Modena mettendo mano a carte e fascicoli, ma senza portare via quasi niente. Indagano polizia e Procura, l’episodio è preoccupante, l’avvocato Rando merita tutta la solidarietà di questo mondo. E’ una professionista seria e stimata. Tuttavia, dato che siamo dalle parti dell’antimafia, e di un certo modo di intenderla, non posso non notare alcune circostanze. Libera, l’associazione di Don Luigi Ciotti, collega, in un suo comunicato, quanto avvenuto nello studio di Rando al “linciaggio mediatico, durato per mesi, nei confronti di Enza Rando, dai manipolatori della verità”. “Linciaggio mediatico”, “manipolatori della verità”. Espressioni forti e un po’ fuori luogo, se mi posso permettere (e chissà che non venga considerato “linciaggio” anche questo mio pensiero). Perchè parole così fanno capire che c’è stata chissà quale campagna denigratoria, su mezzi potentissimi, con verità distorte ad arte. Le espressioni di Libera sono state poi seguite poi da alcuni commenti di esponenti locali del Pd (di cui Libera a Modena e provincia rappresenta, da quello che ho visto nei miei giri emiliani, una specie di longa manus…) che parlano di “campagna diffamatoria”. Giusto per metterci il carico da undici. A meno che non mi sia perso qualcosa (e ciò non andrebbe sicuramente a vantaggio dell’efficacia della “campagna denigratoria…” di cui sopra), in realtà il riferimento è ad un paio di articoli (ma quale linciaggio…) che questa estate sono stati pubblicati sul quotidiano di Modena, Prima Pagina, diretto da Giuseppe Leonelli. Proprio Leonelli aveva sollevato alcuni dubbi circa i tanti incarichi che ricopre l’avvocato Enza Rando, pubblicando da bravo giornalista, anche i relativi compensi: 25mila euro dalla Regione Emilia Romagna per il “Testo unico” su mafia e dintorni, 20.400 euro da Sorgea nel 2014, 96mila euro dalla Provincia di Modena nel 2010 e 25mila euro nel 2013, 49mila euro dal Comune di Nonantola. Oltre a percepire 51mila euro all’anno come membro del cda della Fondazione Crmo. Fa senso che si parli di “linciaggio” o di “diffamazione” (e che a farlo sia tra l’altro un avvocato, Rando, che dalle accuse di diffamazione difende i giornalisti vicini a Libera), quando in realtà Leonelli ha solo messo ordine tra gli incarichi della numero due di Libera. Nulla di che. Non sono soldi rubati, anzi, sono soldi, tanti, sicuramente strameritati. Tuttavia il numero e la qualità degli incarichi, unito al ruolo che l’avvocato di Libera ricopre in diversi processi e nella stessa associazione antimafia di Don Ciotti potrebbe far venire il dubbio della “opportunità” della commistione di tutta questa roba insieme. E’ linciaggio dirlo? Sulla vicenda anche i Cinque Stelle hanno presentato un’interrogazione alla Regione Emilia Romagna. Ma l’unica risposta, al momento, è stata che, il referente provincia di Libera a Modena, tale Maurizio Piccinini, ha definito il giornalista Leonelli “oggettivamente al fianco delle mafie”. Attenzione all’avverbio: oggettivamente. Le parole sono importanti. Oggettivamente: cioè senza ombra di dubbio, senza tema di smentita, come è vero che la mattina oggettivamente il sole sorge e oggettivamente tramonta, si è “oggettivamente al fianco delle mafie” per aver sollevato i dubbi su Libera e Rando. Non solo. Leonelli, senza tanti giri di parole, è in maniera strisciante ritenuto il mandante morale delle intimidazioni subite da Rando negli ultimi giorni. Si può andare avanti così? Oggi Prima Pagina non c’è più. Il giornale ha chiuso, come sta accadendo purtroppo a tante piccole voci libere in giro per l’Italia. Leonelli rimane un bravo giornalista, ma disoccupato. Sarebbe stato giusto che Libera, che tanto si spende per i giornalisti “amici” in note di solidarietà, costituzioni di parte civile, diverse forme di tutela, avesse spesso due parole per quel giornale, e per quel giornalista, che di fatto ha subito, da Libera e dal Pd, lo stesso trattamento fatto di accuse e offese, che io, tanto per dire, solitamente ricevo da ben altri ambienti, quando mi occupo di mafia. Si dice sempre che quando muore un giornale è una grave perdita per la comunità, che le mafie vogliono il silenzio, che una voce libera (l minuscola) è fondamentale per la legalità. Sono alcune delle frasi di circostanza che nei miei anni di frequentazione di Libera (L maiuscola) e dintorni mi avranno ripetuto certe volte. Evidentemente, non è così per tutti. Siccome, poi, basta un mezzo insulto su Facebook, una piccola insinuazione, un insulto sguaiato, a fare scattare la macchina di solidarietà intorno ad un giornalista “antimafia”, mi chiedo se anche Leonelli non debba avere qualche tipo di solidarietà, dall’Ordine dei Giornalisti, da strutture come Ossigeno per l’informazione, per il trattamento che ha subito. Perché se fossero stati gli ambienti vicini all’avvocato di un mafioso a parlare di “campagne denigratorie”, eccetera, ci sarebbero state le prese di posizione di Ordine dei Giornalisti e associazioni varie, le fiaccolate, la classica lettera dei parenti delle vittime di mafia e l’ashtag pronto all’uso #siamotutti… Invece nessuno ha parlato. Oggettivamente. Nessuna solidarietà al povero Leonelli. Per ora, ha la mia. Lui come Enza Rando. Hanno entrambi la mia solidarietà. E più di tutti ce l’ha la povera signora ragione. Ormai si è persa, nel labirinto del fanatismo dell’antimafia.
L’Antimafia con le corna a posto e noi col dolore fitto. Dopo il caso Pino Maniaci, eccovi alcune riflessione da chi ha scritto il libro "Contro l'Antimafia", scrive Giacomo Di Girolamo su "La Voce di New York" il 9 maggio 2016. In tanti mi chiamano. Perché io ho scritto questo libro doloroso, che mi costa querele, inimicizie e attacchi a go go. E allora c’è chi mi dice: avevi previsto tutto... Io non avevo previsto un bel nulla e in questo momento provo solo dolore e paura. Come se ne esce da questo “dolorificio” che è diventata l’antimafia? Con la verità. Un bruciore fitto, fino al centro dello sterno. Regnano la confusione e la paura, dopo che il giornalista antimafia più famoso al mondo, Pino Maniaci, è stato raggiunto da un divieto di dimora in Sicilia Occidentale, perché è indagato per estorsione. I particolari li conosciamo tutti. E ci sono queste intercettazioni terribili, terribili. In tanti mi chiamano. Mi chiedono, si sfogano. Perché io ho scritto questo libro qua, Contro l’antimafia, un libro doloroso, che mi costa querele, inimicizie e attacchi a go go. E allora c’è chi mi dice: avevi previsto tutto. O c’è chi dice: ecco, ora il distruttore dell’antimafia potrà ancora delirare un altro po’. Deludo entrambe le categorie. Io non avevo previsto un bel nulla. E in questo momento provo solo dolore e paura. Per essere più precisi, perché di precisione abbiamo bisogno, di esattezza, di chiamare le cose per nome, oggi più che mai, è un bruciore fitto, fino al centro dello sterno. E’ il bruciore lo sapete cos’è? La coscienza che è tutto finito. L’antimafia è finita, lo dico dal punto di vista narrativo, di sequenza logica dei fatti. Mai avrei pensato, mai, che un giorno, il mio essere “antimafioso” sarebbe dipeso da alcune domande: ma 466 euro sono un’estorsione? E qual è il valore minimo di un’estorsione? Perché all’improvviso i carabinieri fanno video che neanche nelle serie su Sky hanno questo montaggio qui? E Antonio Ingroia iper garantista che parla come gli avvocati che lui fiero combatteva poco tempo fa, non è anche questa la fine dell’antimafia? E che vicenda sporca è mai questa? E’ come quella di Saguto, come quella di Montante. Mille ragioni, mille verità, un grande disorientamento. Un bruciore fitto, fino al centro dello sterno.
Pino Maniaci lo conosco poco e non leghiamo tanto, come non riesco mai ad entrare in sintonia con tutti quei personaggi un po’ guasconi, che indossano una medaglietta e ottengono il massimo risultato di popolarità con il minimo sforzo di applicazione, grazie ai super poteri dell’antimafia. Ha avuto grandi meriti, Maniaci, a Partinico e dintorni. Mi ricordo le battaglie sulla distilleria Bertolino, ad esempio, certi suoi servizi arrembanti. Non ho mai sopportato un suo certo modo di fare giornalismo. Una volta mi trovai davvero in difficoltà con lui ad Agrigento. Si parlava di mafia, ovviamente, e lui esordì con una serie di battute, di dubbio gusto, per poi fare il pezzo forte del suo repertorio, parte finale di un monologo tutto intriso di un dialetto fastidioso: l’appello a Matteo Messina Denaro affinché si arrendesse, fatto con queste parole: “Matteo soldino figlio di buttana arrenditi”. Ecco, non credo che sia giornalismo, questo, è un’altra cosa. Ho tentato di spiegarlo a Pino, ma proprio non ci siam intesi. Negli anni ‘70 Peppino Impastato aveva un coraggio da leoni ad aprire il microfono di Radio Aut e dire: “La mafia è una montagna di merda”. Perché la mafia non esisteva (non c’era neanche il reato nel nostro codice penale), e perché i mafiosi ce li aveva a casa, accanto, dappertutto. Oggi se io alla radio dicessi “Messina Denaro pezzo di merda” non sarei un giornalista, ma uno – forse un ciarlatano – che cerca il gioco facile della popolarità gridata, anziché la sfida della complessità: raccontare storie vere, comporre e decomporre i fatti, non fermarsi all’evidenza delle cose, agli slogan. Ovviamente questo mio giudizio su Maniaci, come altri su altri campioni dell’antimafia, poteva essere espresso solo a bassa voce e con circospezione, dato che chiunque criticasse il simpatico Pino veniva tacciato di “mafieria”. Io ho scritto Contro l’antimafia anche per questo, per liberarmi di tutti questi silenzi. Mi dava fastidio il tono di Maniaci (che ha fatto comunque anche un sacco di inchieste importanti, ripeto), come avesse avuto un titolo ad honorem di giornalista nonostante la fedina penale non proprio pulita pulita (un reato, se lo commette un campione dell’antimafia è un peccato di gioventù, un segno di necessità…), come la sua redazione fosse basata sul lavoro di volontari (se lavori per l’antimafia non in regola mica è lavoro nero, è un grande volontariato per la salvezza delle anime belle della Sicilia) come gli avessero regalato videocamere e mezzi che a noi, giornalisti con le pezze al culo senza doppio lavoro e con la nostra libertà come unico prezioso patrimonio, non erano concessi. A Partinico erano e sono in tanti a pensare cose non proprio edificanti, sul suo conto. In molti sapevano, anche. Dei cani, dell’amante. Me lo avevano anche detto, sempre a bassa voce, sempre con la paura di farsi sentire. Perché se ti mettevi contro Telejato cominciava in televisione lo sputtanamento, dicevano. Chi ci è passato lo sa. C’è questo clima di terrore che certi campioni dell’antimafia riescono a creare, che ho visto a Partinico come altrove. Non puoi criticarli, mettere in dubbio il loro operato, cercare una contraddizione. Non puoi, proprio non puoi. Come se ne esce da questo “dolorificio” che è diventata l’antimafia? E’ la domanda che mi fanno tutti, in questi giorni. Soprattutto giovani. E io risposte non ne ho. Non lo so. Perché è una domanda che ognuno si deve fare e risolvere da sè. Con umiltà, attenzione, concentrazione e responsabilità. Non è il caso di parlare una questione morale, la questione morale ognuno se la sbriga a modo suo, guardandosi allo specchio. Ah, e non c’è una mafia dell’antimafia, come sento dire in questi giorni: ci sono truffatori, bellimbusti, bulletti e criminali, vittime e impostori. Sono dappertutto, nel giornalismo come nella magistratura. Nessuno è esente. Fa danni Maniaci, come il magistrato che si occupa di mafia e si sente una specie di Robin Hood, il parente della vittima che si improvvisa sociologo e riversa sugli studenti le sue bislacche teorie, l’avvocato che campa con le costituzioni di parte civile un tanto al chilo, il politico che cerca mafia dappertutto per giustificare la sua elezione avvenuta, ovviamente, “in nome dell’antimafia”. Facciamo danni tutti noi, ridotti al rango di pubblico. Abbiamo rinunciato al gusto, si, al gusto, di essere cittadini. Cerchiamo eroi da venerare, santi da portare in processione, miti da inondare su Facebook di pollici all’insù, vorremmo avere un cazzo di eroe antimafia dei nostri tempi al giorno. Abbiamo rinunciato a comprendere le cose, ad interrogarci – ogni dubbio viene visto come sfrontato – abbiamo ridotto la parola “intellettuale” quasi a offesa. E così, per citare il nostro Pino, anche noi, ci siamo messi le corna a posto. No, soluzioni non ne ho. Se non quella della responsabilità. E la responsabilità, per me, è raccontare le cose. Racconto le cose, e magari le indico, così uno le sa, e non può dire un giorno: chi lo avrebbe mai detto…Se tutti ricominciassimo da questo, dal segnalare, con serenità, piccole e grandi storture in quella che chiamiamo “antimafia”, porre dubbi, eviteremmo scandali futuri. Faccio due esempi, mica mi nascondo. Sono due casi che riporto in Contro l’antimafia. Ci sono sviluppi. Il primo caso riguarda l’associazione antiracket di Marsala, che porta il nome di Paolo Borsellino, e ha come dominus l’avvocato Giuseppe Gandolfo, noto in città anche per le tante candidature tentate in diverse competizioni elettorali e per aver fondato il locale presidio di Libera, per poi passare a farsi una “Libera” tutta sua, questa bislacca associazione, appunto. Ho raccontato in “Contro l’antimafia” la cosa strana, l’anomalia, dell’associazione antiracket di Marsala la cui attività e vicina allo zero, che da un giorno all’altro cambia statuto (e sceglie il nome aulico di “Paolo Borsellino”), allarga a dismisura il suo oggetto sociale, apre sedi fittizie in varie parti d’Italia e comincia a costituirsi parte civile nei processi che si tengono qua e là per la penisola. Secondo voi è normale che l’associazione antiracket di Marsala, che nella sua attività non ha mai assistito uno (dico uno!) tra imprenditori e commercianti nella denuncia del pizzo, che ha prodotto nell’ultimo anno solo uno (dico uno!) manifesto in unica copia (dico una!) affissa nel panettiere di fronte ad una scuola, che ha una base di tesserati composti da amici, collaboratori e loro parenti e affini dell’avvocato Gandolfo, dico, secondo voi è normale che questa associazione si costituisca parte civile nel processo contro la ‘ndrangheta a Bologna? Qualcosa di strano è accaduto, in questi anni, se un’associazione siciliana, molto di facciata, abbia questa attività processuale tale da sentirsi parte offesa per l’attività di una cosca calabrese in Emilia. Questo racconto nel libro. La novità, adesso, è che il Gratta & Vinci ha funzionato. Nel processo, che si è chiuso qualche giorno fa, sono stati riconosciuti all’associazione antimafia di Marsala ben 20.000 euro di risarcimento danni e 7000 euro di spese legali. Che un giudice a Bologna decida che una cosca calabrese infiltrandosi in Emilia abbia danneggiato per 20.000 euro un’associazione antiracket di Marsala è una cosa sulla quale siamo chiamati ad interrogarci. Ancora. Cosa farà l’associazione antiracket con quei soldi? Cosa ha fatto con gli altri soldi ottenuti negli altri processi? Domande da fare ora, per evitare scandali futuri, domani. Il vigneto “antimafia” abbandonato. Un altro caso riguarda un terreno confiscato a Michele Mazzara, imprenditore di Paceco, “U Berlusconi di Dattilo”, lo chiamano, al quale sono stati confiscati beni per 26 milioni di euro, perché è ritenuto molto vicino alla famiglia mafiosa di Trapani. Il terreno in questione è un vigneto in Contrada Gencheria, gestito dalla cooperativa “Lavoro e non solo”, che fa parte del circuito di Libera ed è di Corleone. Quel vigneto è completamente abbandonato. L’uva se la mangiano i cani. In “Contro l’antimafia” mi chiedo: ha senso dare un terreno ad una cooperativa che non ha interesse a coltivarlo e che magari ha interesse solo a registrare gli ettari per ricevere i contributi dovuti? Nessuno mi ha mai risposto. Il terreno è lì, sempre abbandonato, come tantissimi altri. Ecco due piccole questioni. Ne potrai citare decine di altre, ma è difficile. Troppo doloroso. Sempre quel bruciore fitto, fino al centro dello sterno.
Giacomo Di Girolamo. Sono nato nel '77, vivo in Sicilia occidentale, mi occupo di mafia, corruzione, tutela del territorio. Scrivo, tra gli altri, per Tp24.it, La Repubblica e Il Sole 24 ore. Dalla radio della mia città, Marsala, trasmetto la rubrica Dove sei, Matteo? nella quale mi occupo di Matteo Messina Denaro, boss tra i più ricercati al mondo, su cui ho anche scritto il libro L'invisibile (2010). Nel 2012 ho pubblicato Cosa Grigia, libro-reportage sulla mafia che cambia. Nel 2014 ho scritto Dormono Sulla Collina. Ho vinto il Premiolino e i premi Ambiente e Legalità e Libero Grassi. Per la mia attività giornalistica sulla mafia in provincia di Trapani, il sindaco della mia città mi ha citato in giudizio, chiedendo 50.000 euro per “lesione dell'immagine dell'ente”.
LA MAFIA A MODENA.
Mafia: pizzo e usura, Modena seconda in regione solo a Bologna. Il 12esimo rapporto annuale di Sos Impresa: bassa modenese terra di conquista per i clan che si impongono nella nostra regione con l'usura e la somministrazione illegale di manodopera. Tizian: "Oggi il pizzo si è fatto servizio", scrive “Modena Today”. Compare almeno una ventina di volte il nome della città Modena. Non solo per le numerose operazioni antimafia che hanno avuto come teatro il nostro territorio, ma anche per l’incremento di reati legati al gioco d’azzardo, all’usura, alle estorsioni, ai danneggiamenti a scopo intimidatorio. A cui si aggiunge un’intensa attività in ambito economico-imprenditoriale: preferito dalle mafie, specie al nord, in cui investire buona parte dell’immensa liquidità di provenienza illecita di cui dispongono, per l’acquisizione di imprese e per l’aggiudicazione degli appalti. Settori ancor più vulnerabili oggi, causa il permanere di sistemi di assegnazione come il massimo ribasso e le gravi difficoltà dovute all’attuale periodo di crisi. È tutto descritto in modo meticoloso nell’ultimo rapporto nazionale, il 12°, di Sos-Impresa, l’associazione di Confesercenti che si occupa della tutela degli imprenditori che denunciano i mafiosi. Sono le parole del pentito Domenico Bidognetti a raccontare che Modena così come l’Emilia Romagna “È terra di conquista per i casalesi” e non solo. "I Casalesi - come recita il rapporto - sono arrivati in Emilia in un primo momento per fornire supporto logistico e, poi, per agevolare penetrazioni finanziarie illecite nel mercato immobiliare e nella gestione di impresa". Dalla mappa che traccia Sos-Impresa, è costituito dagli appalti, in particolare quelli per le grandi opere, il canale che continua ad essere preferito dalle cosche per insediarsi sul territorio. I soggetti criminali poi, non mancano, "in particolar modo nella provincia di Modena, soprattutto nell’area che abbraccia i comuni di Castelfranco Emilia, Nonantola, Bomporto, Soliera, San Prospero, Bastiglia e Mirandola". Lungo poi l’elenco delle operazioni antimafia dove il nome della città è citato più volte: dalla ‘Minotauro’ in cui emerse il ruolo di alcuni trasportatori che importavano la cocaina a Modena, alle operazioni "San Cipriano" e "Pressing II" del 2010, che portarono in carcere persone legate ai clan dei casalesi tra le quali un insospettabile avvocato. Fino agli ‘ndraghetisti latitanti arrestati in città negli anni, e agli interessi delle cosche di San Luca (RC) sull’asse Bologna-Modena-Aosta. Sono 2000, secondo Sos-Impresa i commercianti e imprenditori in regione taglieggiati, il 5% del totale. E tra le città indicate Modena occupa il secondo posto dopo Bologna. Quanto alle indagini sulle estorsioni, nel 2010, a Modena e provincia sono state 4, tante quante quelle a Vibo Valentia, Catanzaro, Cosenza e più di Milano. "La crisi economica – denuncia inoltre il rapporto – in un’area caratterizzata da un’imprenditorialità diffusa ha creato quel terreno fertile nel quale l’usura si è insinuata quale credito sussidiario a quello bancario (...) nel triangolo Modena Reggio Emilia e Parma, si segnala la presenza consolidata di gruppi camorristici del casertano attivi anche nelle pratiche usurarie e della ‘ndrangheta che gestisce da anni il comparto delle bische clandestine e del gioco d’azzardo. Non è poi immune da infiltrazioni nemmeno la filiera agroindustriale, nel rapporto infatti Modena viene citata come la provincia in cui ci sono caporali che operano nel settore della macellazione in cui lavoratori extracomunitari sono assunti in nero e attraverso l’intermediazione di finte operative di facchinaggio. "Negli anni in Emilia sono aumentati i casi di somministrazione illegale di manodopera (…) un nuovo caporalato che si sviluppa anche attraverso l’utilizzo di operative spurie (…) i costi del lavoro si riducono notevolmente (…) si arriva a risparmiare fino a 12 euro l’ora per operaio". “È una mafia liquida, in movimento che tende a privilegiare i territori ricchi, come appunto quello modenese, nei quali investire gli ingenti proventi delle attività malavitose", ha dichiarato Giovanni Tizian, il giornalista modenese sotto scorta, in occasione della presentazione del suo libro "Gotica" qualche giorno fa presso la sede di Confesercenti Modena. "A quanto riportato dall’ultimo rapporto Sos-Impresa su Modena vanno aggiunti altri e non meno preoccupati fattori tuttora motivo di indagine quali le transazioni di denaro sospette e gli incendi dolosi: circa 350 negli ultimi anni quelli ai danni di pubblici esercizi, cantieri, mezzi da lavoro, auto etc. Elementi che non escludono il radicamento della criminalità organizzata, che non dismette i metodi tradizionali usura estorsioni, intimidazioni e che si muove sullo stretto confine che corre tra la legalità e l’illegalità. Oggi il pizzo si è fatto servizio. I mafiosi al nord si fanno imprenditori per lavorare nell’economia legale appoggiandosi ad insospettabili colletti bianchi, avvocati, direttori di banca; acquisiscono azione e nessun settore può dirsi al riparo, hanno sostituito in taluni casi la pistola col pc. I servizi che offrono, dallo smaltimento dei rifiuti, al movimento terra, all’edilizia, al facchinaggio grazie all’immensa liquidità in loro possesso, sono a prezzi irrisori e tali da sbaragliare ogni sorta di concorrenza. I piccoli comuni, poi, risultano più esposti alle infiltrazioni e molto appetibili alle mafie, come ai privati. Situazione quella creatasi, in cui il silenzio – ricorda Tizian - e la crisi economica, si stanno rivelando alleati fondamentali della criminalità organizzata”.
Caso Tizian, l'Espresso ha offerto un contratto al giornalista sotto scorta. La notizia è stata diffusa poco prima della presentazione del libro "Gotica" al palazzo Europa. Prima dell'incontro aperto al pubblico, Tizian è stato relatore in un momento seminariale assieme ai giornalisti modenesi, scrive “Modena Today”. Sono stati giorni particolarmente intensi per il giornalista Giovanni Tizian, da qualche settimana sotto scorta per i suoi articoli e le sue inchieste sulla infiltrazioni della criminalità organizzata. In mezzo alla maratona di manifestazioni, incontri e presentazioni di cui è il protagonista, anche la buona notizia dell'offerta di un contratto da parte del Gruppo Espresso. È stato lo stesso Righetti a dare la buona notizia al folto pubblico presente nella sala Gorrieri: "Il Gruppo Espresso ha offerto un contratto a Giovanni Tizian - ha annunciato - Continuerà a collaborare con la Gazzetta di Modena, ma lavorerà a Roma". Il Presidente Asm ha voluto ringraziare Tizian per la sua partecipazione in qualità di relatore all'incontro seminariale che ha anticipato la presentazione del libro: "È stato un momento molto importante - ha spiegato Righetti - Una ventina di giornalisti delle testate modenesi hanno partecipato all'incontro per imparare cose nuove e potere lavorare meglio. Gerardo Bisaccia ha detto bene prima esordendo con 'Io mi chiamo Giovanni Tizian', ma noi giornalisti dobbiamo fare di più imparando a chiamarci Giovanni Tizian sapendo aprire gli occhi su piccoli episodi che possono essere indicatori di fenomeni ben più gravi". Il riferimento è a quegli incendi di auto, furgoni, capannoni, mezzi escavatori, che, se isolati, si esauriscono in poche righe di brevi, ma che se inquadrati in una zona geografica della città e in un certo lasso di tempo, possono lasciare sospettare ad un'azione mirata della criminalità organizzata: "Guardiamo alle piccole cose - ha detto Tizian ai giornalisti - È molto difficile che le auto soffrano di autocombustione, se ci sono incendi periodicamente incendi di mezzi in una determinata via o in un determinato comune con una certa cadenza, ci sarà un perché".
MAGISTROPOLI. MAGISTRATI CHE DELINQUONO.
Magistrato modenese coinvolto nell' omicidio di una prostituta, scrive “Il Corriere della Sera”. Giallo nel giallo alla procura di Modena, dove un magistrato sarebbe addirittura accusato, di un omicidio. E non un omicidio a caso, ma quello di Monica Abate, una delle vittime di quello che gli inquirenti chiamano da anni il "mostro di Modena". Il condizionale è d'obbligo perché per ora non è noto il nome dell'interessato, né è stata confermata la sua iscrizione al registro degli indagati. Certo è che l' inchiesta sulla morte della ragazza stava per essere archiviata - svela la "Gazzetta di Modena" - ma improvvisamente è stata riaperta e il fascicolo inviato alla Procura di Firenze. Del caso si starebbe occupando il pm Fleury. Sempre secondo il giornale modenese tutto sarebbe partito e arrivato alla svolta dalle confidenze di un ispettore di polizia.
Intanto, dopo una intera carriera trascorsa negli uffici giudiziari di Modena, il pm Giuseppe Tibis non è più un magistrato della nostra Procura. Da ieri ha preso servizio in tribunale a Piacenza con incarico di giudice civile, scrive Valentina Beltrame su “Il Resto del Carlino”. Il trasferimento del pubblico ministero è infatti diventato esecutivo: per chi frequenta la Procura - assistenti, polizia giudiziaria, colleghi e avvocati - è finita un’epoca e ieri mattina nei corridoi di corso Canalgrande non si parlava d’altro. Il ‘trasloco’ deciso dal Csm è di tipo cautelativo, cioè la conseguenza di un procedimento disciplinare tutt’ora in atto contro Tibis. In particolare, il magistrato è sospettato di aver effettuato alcuni accessi indebiti tramite computer a un’inchiesta di cui non è titolare: si tratta dell’indagine in corso sul reparto di Cardiologia del policlinico di Modena che ha sconvolto la sanità modenese nel 2011. Tibis è stato sentito dal Csm ormai alcuni mesi fa: ha esposto le proprie ragioni alla commissione disciplinare ma nei giorni scorsi gli è stato notificato il trasferimento con termine ultimo il 30 agosto. Il pm, che è rimasto nel suo ufficio fino all’ultimo giorno possibile, cioè il 29 agosto, avrebbe già fatto ricorso per essere reintegrato nell’organico della Procura di Modena, dove però il suo posto è già oggetto di un bando. In pratica i magistrati che ambiscono a venire a lavorare a Modena come sostituti procuratori potranno fare domanda fino al 30 settembre. Il pm modenese è accusato di aver ‘sbirciato’ più volte il fascicolo sull’inchiesta relativa alla Cardiologia del policlinico e il fatto che la moglie di Tibis, del tutto estranea all’indagine, lavori in quel reparto ha portato qualcuno a segnalare l’accesso informatico non dovuto. Un sospetto che, secondo altre indiscrezioni, non sarebbe invece fondato: i magistrati, infatti, avrebbero libero accesso alle notizie di reato anche se non di propria competenza. Lo stesso Tibis ha sempre respinto l’accusa di aver ‘spiato’ gli atti. Fatto sta che il Consiglio superiore della magistratura ha aperto un procedimento disciplinare, optando per il trasferimento cautelativo in attesa che venga concluso l’iter. Un procedimento che ha anche un risvolto penale, per altro quasi chiuso: la procura di Ancona (competente per i magistrati), ha chiesto l’archiviazione dell’accusa. Tibis, infatti, è parallelamente indagato per il reato di «accesso abusivo a un sistema informatico». Lo spostamento di sede del magistrato più noto di Modena fa di certo discutere negli ambienti giudiziari, soprattutto in Procura: Tibis, oggi alla soglia della pensione, è il pm che per più tempo ha lavorato a Modena, dove ha sostenuto l’accusa per alcune tra le più importanti indagini che hanno riguardato la nostra provincia.
MALASANITA'.
Malasanità, la grande truffa di Modena. Arrestati 9 cardiologi del Policlinico, scrive “La Repubblica”. Gli indagati sono ben 67 e per 12 aziende (se delle quali straniere) è stato disposto il divieto di contrattare con la Pubblica Amministrazione. Sono accusati di associazione per delinquere, peculato, corruzione, falso in atto pubblico, truffa ai danni del S.S.N., sperimentazioni cliniche senza autorizzazione. Uno scandalo di malasanità di grandi dimensioni sembra essere quello scoperto dai Carabinieri del Nas di Parma, che hanno arrestato nove cardiologi che hanno svolto o svolgono la propria attività presso il Policlinico di Modena. Le persone indagate nell'ambito dell'inchiesta "Camici sporchi" sono 67 e 12 le aziende, di cui 6 straniere, che producono attrezzature sanitarie e per le quali è stato disposto il divieto di contrattare con la Pubblica Amministrazione. Disposta l'interdizione dall'esercizio di attività e professioni nei confronti di 7 persone. Gli arrestati sono responsabili a vario titolo di associazione per delinquere, peculato, corruzione, falso in atto pubblico, truffa ai danni del S.S.N., sperimentazioni cliniche senza autorizzazione.
CASTOPOLI.
Non solo concorso di abilitazione notoriamente truccato ed impunito. L’Ordine degli avvocati ostacola la professione degli avvocati dei Paesi Ue: indagine Antitrust contro l’Ordine degli avvocati. La nota stampa dell'Antitrust pubblicata su molti giornali dell’11 gennaio 2012 rende pubblico un fatto risaputo che colpisce anche altri Fori. Avvocati nel mirino dell’Antitrust. L'Autorità, presieduta da Giovanni Pitruzzella, sta indagando su dodici Ordini – Chieti, Roma, Milano, Latina, Civitavecchia, Tivoli, Velletri, Tempio Pausania, Modena, Matera, Taranto e Sassari – perchè starebbero ostacolando «l'esercizio della professione in Italia da parte di colleghi qualificati in un altro Stato dell’Unione Europea, ponendo in essere intese restrittive della concorrenza. Le prassi degli Ordini «sarebbero discordanti dai criteri imposti dal diritto comunitario». L'istruttoria – spiega una nota dell’Autorità per la concorrenza e il mercato – «è stata avviata alla luce di due segnalazioni, effettuate da un avvocato che aveva conseguito il titolo in Spagna e dall’Associazione Italiana Avvocati Stabiliti, che rappresenta i possessori di titolo di laurea in giurisprudenza e chi ha acquisito l'abilitazione alla professione di avvocato in ambito comunitario». Secondo le due denunce, «gli Ordini segnalati hanno posto ostacoli all’iscrizione nella sezione speciale dell’albo dedicata agli 'avvocati stabiliti, in violazione di una direttiva comunitaria recepita in Italia dal decreto legislativo n. 96 del 2001. Il decreto consente l’esercizio permanente in Italia della professione di avvocato ai cittadini degli Stati membri in possesso di un titolo corrispondente a quello di avvocato, conseguito nel paese di origine. Il professionista che voglia esercitare in Italia deve iscriversi alla sezione speciale, potendo così esercitare sia pur con alcune limitazioni. Unica condizione è che il professionista sia iscritto presso la competente organizzazione professionale dello Stato d’origine.
Successivamente, dopo tre anni di esercizio regolare ed effettivo nel paese ospitante, l’avvocato può iscriversi all’albo degli avvocati ed esercitare la professione di avvocato senza alcuna limitazione». I comportamenti degli Ordini, «che potrebbero costituire intese restrittive della concorrenza finalizzate a escludere dal mercato professionisti abilitati nel resto dell’Unione - conclude la nota – sono peraltro oggetto di valutazione anche della Commissione Europea, che l’Autorità intende affiancare con l’utilizzo dei propri poteri antitrust verso gli Ordini stessi».
AMMINISTRATOPOLI.
L'Esselunga di Bernardo Caprotti, come aveva annunciato, sferra un nuovo attacco contro le Coop (già nel mirino con il libro “Falce e carrello” edito nel settembre 2007 da Marsilio) con due pagine a pagamento su diversi quotidiani nazionali, scrive “Il Giornale”. Al centro c'é un presunto “patto occulto” tra Coop Estense e Comune di Modena per impedire la costruzione di un supermercato della catena milanese a Modena, in via Canaletto, su un terreno acquistato da Esselunga, ma mai edificato per mancanza di permessi dall'amministrazione comunale. Accuse già smentite venerdì dal sindaco Giorgio Pighi e dal presidente di Coop Estense, Mario Zucchelli, che hanno annunciato ricorsi all'autorità giudiziaria. "Concorrenza e libertà" titola Esselunga le due pagine sui quotidiani, che riportano le dichiarazioni rese al Resto del Carlino il 6 luglio dall'assessore Pd all'Urbanistica Daniele Sitta, secondo cui "Coop ed Esselunga per tanti anni non sono riuscite a trovare una soluzione condivisa", e dopo l'estate il Comune disporrà un cambio di destinazione d'uso per quel terreno, che sarà disponibile solo per residenze e terziario. Esselunga spiega, con foto dell'area, che "nel marzo 2000 acquistò per 24 miliardi di lire il lotto 'A' (44.820 mq pagati 540.000 lire al mq) del comparto, facendo affidamento sul Programma di riqualificazione urbana (Pru) approvato dal Comune di Modena il 12 aprile '99 e sulla scheda di Piano regolatore. Il successivo progetto di Piano particolareggiato di iniziativa privata allora in corso di approvazione prevedeva, fra l'altro, un supermercato con il fronte su via Canaletto, proprio sull'area di proprietà Esselunga. All'asta giudiziale del febbraio 2001, Coop Estense - aggiudicandosi per 23 miliardi di lire il lotto 'B' (8.834 mq pagati 2.600.000 al mq) - divenne partecipe del comparto e poté così opporsi all'attuazione di quanto già programmato". Il 24 novembre 2008 - prosegue Esselunga - l'assessore proponeva ancora una volta ai rappresentanti di Caprotti di insediarsi in un altro luogo e di cedere a Coop Estense il proprio lotto in via Canaletto. In mancanza di ciò, o di un accordo fra Esselunga e Coop Estense per realizzare qualcosa, il Comune - dichiarò Sitta - avrebbe cambiato le destinazioni d'uso, cancellando l'uso commerciale. Esselunga rispose seduta stante che non avrebbe rinunciato al suo supermercato, che non si sarebbe ritirata, che prima o poi anche a Modena sarebbe arrivato il libero mercato. Il 4 maggio 2009 Pighi (Pd) ribadiva pubblicamente che, in mancanza di un accordo tra Coop Estense ed Esselunga, il Comune avrebbe annullato il 'commerciale'. Questa decisione può sembrare equanime, imparziale: tra i due litiganti nessuno fa niente, afferma Esselunga, che sottolinea: "Non è così. Il lotto 'A' ha tutti i requisiti per il commerciale, la dimensione, l'affaccio sulla via e le previsioni di Piano del Comune. Nel lotto 'B', piccolo, irregolare e 'messo là dietro, come chiunque può ben capire, é impensabile piazzare un supermercato che funzioni. Pertanto l'esborso di 23 miliardi da parte di Coop Estense nel febbraio 2001, per assicurarsi un pezzo di terra affacciato sulla ferrovia ove l'insediamento di un supermercato non era neppure immaginabile, evidenzia chiarissimamente il suo intendimento originario. Nei fatti: l'eliminazione del commerciale da via Canaletto da parte del Comune significa l'eliminazione dell'unico supermercato possibile, quello di Esselunga. L'altro non c'é, non ci sta. Noi non accetteremo questa condotta senza farne un caso nazionale. Lealmente già abbiamo espresso, e qui confermiamo, questa nostra determinazione". Il sindaco Giorgio Pighi già si era rivolto alla Procura della Repubblica e aveva affermato che "al Comune di Modena risulta solo che Bernardo Caprotti ha perso il ricorso contro l'Amministrazione comunale sulla vicenda del terreno acquistato da Esselunga". "Siamo curiosi di leggere - aveva detto Mario Zucchelli (Coop Estense) - se Caprotti se la prenderà anche con quei giudici penali, civili e amministrativi che nelle cause da lui intentate contro Coop Estense ed il Comune sino ad ora gli hanno sempre dato torto". Il sindaco Pighi definisce "tendenziosa la ricostruzione, risibile la conclusione" del messaggio. Il primo cittadino replica ancora duramente al patron della catena di supermercati. "La cospicua somma sprecata per pagare le pagine acquistate - dichiara Pighi in una nota - poteva di certo trovare una destinazione migliore, sono un sacco di soldi solo per offendere il Comune. Nella ricostruzione si raccontano mezze verità e da queste si cerca di trarre una tesi che stia in piedi, ma si finisce con l'ammettere l'unica verità possibile, e cioé che Esselunga ha perso i ricorsi presentati all'autorità giudiziaria". Pighi precisa che "l'area in questione è totalmente privata e che di conseguenza non è possibile alcun piano di intervento senza il consenso della proprietà complessiva. Quindi, il Comune non ha strumenti per obbligare uno o l'altro soggetto a recedere dalla propria posizione. Per questo - rileva ancora Pighi - dopo ripetuti inviti all'accordo, avviati anche su sollecitazione di un ordine del giorno del consiglio comunale, abbiano deciso di valutare l'opportunità del cambio della destinazione d'uso dell'area, atto che comunque dovrà essere sottoposto al vaglio del consiglio stesso". Pighi parla di "un unico progetto volto a ledere gravemente l'onorabilità e la credibilità del Comune di Modena. Per questo confermiamo l'orientamento già implicito nella trasmissione delle notizie alla Procura della Repubblica e cioé la ferma intenzione di tutelare il buon nome del Comune di Modena in tutte le sedi ed in tutti i modi previsti dalla legge". Bondi: documento impressionante "E' impressionante il documento pubblicato dalla società Esselunga sui maggiori quotidiani italiani": lo afferma il coordinatore del Pdl Sandro Bondi in una nota nella quale sottolinea che "si tratta di una vicenda che per l'appunto chiama in causa la concorrenza e la libertà, aprendo uno squarcio sul sistema di potere delle Regioni del centro Italia". Secondo Bondi "se è vero che la questione morale affonda le proprie radici nell'occupazione delle istituzioni da parte dei partiti, allora la vera questione morale emerge proprio dove l'alternanza fisiologica al potere locale è assente da decenni e dove l'intreccio tra potere politico e mondo economico è così compenetrato da risultare quasi un blocco unico. Non oso pensare - conclude - che cosa risulterebbe se la magistratura si rivolgesse a scandagliare anche questo sistema di potere".
SFRUTTAMENTOPOLI. LAVORO NERO.
“Il 100 per cento del lavoro nei bar, pub e ristoranti è irregolare”. Marzio Govoni, segretario provinciale FILCAMS-CGIL, risponde così alla nostra domanda su quanto sia esteso il fenomeno del lavoro in nero nei pubblici esercizi di Modena e provincia. Solo due settimane fa, la Guardia di Finanza aveva effettuato blitz in quattro locali del territorio modenese, riscontrando posizioni irregolari per 34 lavoratori. Solo la punta dell’iceberg, dichiarava nei giorni successivi il sindacato, che rivendicava diverse segnalazioni negli anni passati, e sperava al fine in maggiori controlli.
Ma se tutti sapevano, perché non si è mai intervenuti? “In realtà, si sono sempre fatti piccoli controlli – continua Govoni - ma mai niente di serio. Anche questa volta è stato così, forse si è voluto più che altro mandare un messaggio. Vedremo che effetti sortirà, già dalla prossima estate, che potrebbe essere un’interessante opportunità per ispezionare tutti quei locali, frequentatissimi, in cui lavorano decine e decine di ragazzi. Questi esercizi sono dei veri e propri “nerifici”, perché è nero il lavoro, ed è nera l’attività che fanno (non emettono molti scontrini…).” Evasione fiscale e contributiva? “Sì. Il quadro è molto triste, e comprende tutti, anche i ristoranti di fascia alta, addirittura quelli che stanno nelle guide. Oggi non esiste un rapporto di lavoro pienamente regolare nel settore, neanche quando il lavoratore è assunto in regola, perché in busta paga vengono dichiarate meno ore di quelle di fatto lavorate, e la differenza viene pagata in nero. Mi baso su un’esperienza ormai decennale, su una conoscenza molto approfondita, e sulle file che abbiamo di fronte ai nostri uffici vertenze, fatte soprattutto di stranieri e lavoratori che non hanno trovato altro che quell’occupazione, persone che hanno lavorato magari un mese in nero con la promessa di essere poi assunti in regola, e invece niente.”
E i tanti studenti che lavorano come camerieri e dj? “Raramente si rivolgono a noi, perché spesso a loro la situazione va bene così, e questo credo sia un problema culturale che la scuola e l’università dovrebbero risolvere. Da sempre combatto contro questo livello di tolleranza, per cui si ritiene che il lavoro nero di un giovane studente sia diverso rispetto a quello dello straniero piuttosto che del quarantenne: sempre lavoro nero è, sempre evasione contributiva è, sempre truffa è. Poi so bene che spesso è gradito da parte degli stessi ragazzi.” Si sentono meno vincolati: lavoro in regola non significa maggiore rigidità? “Nel nostro caso assolutamente no. Il contratto del turismo, che si applica ai dipendenti dei pubblici esercizi, tiene conto della specificità di queste imprese, che hanno magari picchi nel week end, e dà loro tutti gli strumenti per assumere personale secondo le proprie necessità. Il fatto è che non è questo – la flessibilità – il problema delle imprese: il problema è fare guadagni sempre superiori. A volte faccio un gioco politicamente scorretto: faccio i conti di quanto costerebbe al datore di lavoro un ragazzo che, in nero, prende 8 euro, se fosse in regola. Considerando tredicesima, ferie, tfr, etc. la cifra totale spesa dal datore di lavoro sarebbe sui 20-22 euro! Il guadagno dall’averlo in nero è evidente, è solo una questione di soldi.” Alcuni datori di lavoro scelgono il contratto a progetto per sanare le irregolarità: è legittimo? “Non esistono posizioni in un esercizio pubblico che sia possibile coprire con un progetto. Ricordo un contratto a progetto per la “predisposizione di bevande raffinate per una clientela esigente”: era per una barista di un bar di periferia. Oppure, più recentemente, un progetto per la “sanificazione della strumentazione utilizzata dall’imprenditore”, per una posizione da lavapiatti. Per fortuna ci sono novità a livello legislativo, e i falsi contratti a progetto sono soggetti a pesanti sanzioni economiche. Sempre che l’imprenditore non avvii la procedura di regolarizzazione prima che arrivi il controllo, ma in tal caso dovrebbe esserne informato…”
Desta poco o nessuno stupore nei ragazzi la “scoperta” della guardia di finanza delle irregolarità nel settore dei pubblici esercizi, specie in chi di quel mondo ha fatto o fa tuttora parte. “Volevo fare un’esperienza lavorativa per non trovarmi del tutto disarmato – ci racconta Marino, ex cameriere in un pub di Castelfranco - quando, conseguita la laurea, sarei entrato anche io nel mondo del lavoro. Allora, ho iniziato a lavorare in un pub vicino casa: prima in prova, gratis, poi a 7 euro all’ora.” In regola? “No, in nero. Del resto, il mio scopo era guadagnare qualche soldo per essere più autonomo, non certo per mantenermi. Nessuno dei miei colleghi si lamentava, ma so di persone che hanno bisogno di questo stipendio per arrotondare e arrivare a fine mese. Per loro credo sia giusto che ci sia un minimo di tutele, ma non solo: col senno di poi, se fossi stato in regola non sarebbe stato così facile per il mio datore lasciarmi a casa da un giorno all’altro, a sua discrezione e senza giusta causa.” Sono mai arrivati controlli? «No, ma comunque eravamo preparati. Le disposizioni, in quel caso, sono di togliersi il grembiule e mischiarsi tra i clienti, oppure, in extremis, di dichiarare di essere in prova.” Anche Federica, cameriera in un frequentatissimo locale modenese, ci svela questo stratagemma per evitare grane, e, a bassa voce, aggiunge: “Per noi è più facile: sappiamo quando arrivano i controlli“. Intanto, la sua posizione è in fase di regolarizzazione: “Mi faranno un contratto a progetto, solo pro forma, di fatto lavorerò come prima”. Attendiamo con ansia di sapere quale sarà il contenuto del progetto. Intanto, suggeriamo: “Composizione artistica di boccali di birra”. Su sfondo nero.
CONCORSI TRUCCATI.
Non riesce proprio a farsene una ragione, l'oncologo Massimo Federico, scrive Davide Carlucci su “La Repubblica”. "E' come se un calciatore avesse vinto la coppa Davis", dice. A Modena è accaduto di recente un fatto assai curioso: un professore associato in dermatologia è diventato ordinario in una prova bandita dal corso di laurea in odontoiatria. L'idoneo ha 36 anni e si chiama Giovanni Pellacani. E' il figlio del rettore, Giancarlo Pellacani (che ha anche un altro figlio docente a Giurisprudenza). Durante la seduta per la chiamata, tre professori hanno votato contro. Uno di questi è l'ex preside della facoltà di Medicina, Maurizio Ponz de Leon: "Non si è mai verificato, almeno negli ultimi trent'anni di storia della nostra facoltà, che un ricercatore riuscisse a diventare ordinario in soli 6 anni e 4 mesi dalla nomina a ricercatore. Certo, potrebbe avvenire per meriti eccezionali. Ma, come visto dall'esame del curriculum, questi meriti non esistono". Il docente insegna da sei anni, ha un'esperienza all'estero di soli due mesi e i suoi punti di Impact factor (il riscontro dell'attività di ricerca nelle pubblicazioni scientifiche), riguardano solo la dermatologia: non il Med50, il settore, cioè, per il quale ha vinto il concorso. Altra stranezza: "Il concorso non ha visto la partecipazione di nessuno degli associati e dei ricercatori della nostra facoltà". Federico dal canto suo fa osservare che "in Italia esistono 26 professori associati" di quel settore ma nessuno ha fatto domanda. E aggiunge: "Data la delicatezza della decisione, trattandosi di un procedimento che riguarda il rettore, chiedo che la votazione avvenga dopo che la facoltà sia stata edotta delle conseguenze di una chiamata che potrebbe rientrare nel campo della presunzione di nepotismo".
Federico chiede informazioni su dodici punti e qualche settimana dopo, non ottenendo risposte, denuncia tutto alla Procura. Da allora sta perdendo ogni incarico: dalla presidenza della commissione contratti e contenzioso alla direzione della scuola di oncologia. Una convenzione con l'Istituto superiore di sanità, che ha promesso 148mila euro all'università per le ricerche da lui coordinate, è bloccata. E persino nel giornalino dell'università si evita accuratamente di parlare della pur prolifica attività di Federico e dei suoi collaboratori. Il professore, però, non molla. E pochi giorni fa è tornato a chiedere le dimissioni del rettore. Il magnifico, dal canto suo, reagisce: ha querelato il professore ribelle, che aveva illustrato, in un incontro pubblico, le analogie tra le sue ricerche sulle sindromi familiari e "l'albero genealogico della famiglia Pellacani".
PARLIAMO DI PIACENZA
PIACENZA E LA MAFIA.
«Piacenza rischia di diventare terra di colonizzazione mafiosa».
«La mafia a Piacenza? Il pericolo c'è, non bisogna abbassare la guardia. Non è più un'isola felice, ma ci sono altre province in Emilia Romagna che sono comunque messe peggio: Modena e Bologna ad esempio», scrive “Il Piacenza”. In Provincia è stato presentato il Rapporto 2012 sulle infiltrazioni mafiose in Emilia Romagna, e questo è lo spaccato che ne esce. Sono due gli indici che gli esperti della Fondazione Antonino Caponnetto (Salvatore Calleri e Renato Scalia, insieme all'assessore Maurizio Parma) hanno utilizzato per redarre il rapporto 2012 sull'infiltrazione mafiosa nella nostra regione. Il ratnig, per usare un termine in voga in questi anni, dell'azienda Mafia in Emilia. Il primo indice è la presenza economica mafiosa, ovvero i capitali che vengono reinvestirti in attività di vario tipo. L'altro indice è quello del rischio di colonizzazione: «Perché i mafiosi seguono i loro soldi» dice chi si occupa di tenere d'occhio le infiltrazioni. Sono tante le mafie da combattere, non ce n'è una sola: oltre a quelle di casa nostra ci sono anche quelle straniere. «Piacenza è una terra di passaggio verso la Lombardia e il Piemonte: queste zone non vengono mai sottovalutate dalle organizzazioni mafiose. Fortunatamente possiamo contare su ottime forze dell'ordine che fanno da "anticorpi" e che non sottovalutano il problema, garantendo il controllo del territorio. Piacenza e il suo territorio non è più un'isola felice, anche se è messa meglio di altre zone. Però la presenza mafiosa, anche qui, è notevole. Non è più soltanto una zona di riciclaggio e investimento dei capitali: questo da vita a una colonizzazione. I target economici più infiltrati sono il settore trasporti, edilizia e attività commerciali come bar, pizzerie e ristoranti. Lo conferma anche Renato Scalia: «C'è stata un'evoluzione delle mafie. Acquistano immobili, pizzerie, ristoranti, alberghi. Soprattutto sono presenti negli appalti pubblici che sono letteralmente un buco nero. Nessuno ci vuole mettere la mano perché il settore, altrimenti, andrebbe totalmente azzerato».
Intanto è uscito allo scoperto, nella tarda serata del 16 febbraio, con una mail l’autore delle affissioni e degli spot radiofonici sulla mafia apparsi a Piacenza con la scritta "Mafia, un altro mondo" riportata su un angolo del manifesto, scrive “Blitz Quotidiano”. Si tratta di Davide Valenti, che vive e lavora a Milano: ”Quelle affissioni sono una mia operazione artistica, finanziatami dalla galleria Placentia Arte, e il Comune e la Questura di Piacenza hanno effettuato un atto di censura, con una forma immediata e brutale. Si tratta di un lavoro sulla libertà d’espressione, e sui concetti di bene e male, che purtroppo ha dimostrato che la libertà di espressione non esiste e che quindi non esiste neanche la democrazia”. Dopo varie critiche tra cui quelle dell’associazione ‘Libera’ della città emiliana, l’Amministrazione comunale aveva deciso, d’intesa con la Questura, di oscurare i manifesti. ”Il fatto strano – commenta Valenti – è che, per ottenere quegli spazi, abbiamo avuto l’approvazione del Comune, lo stesso che poi, forse intimorito dall’opinione pubblica, ha deciso di oscurare le affissioni. Abbiamo anche pagato per quelle affissioni, e per far riflettere sul contenuto di quelle immagini”. C’è anche un sito (1altromondo.blogspot.com) sul quale sono reperibili i manifesti e i file audio dell’ ‘operazione artistica’. Valenti tra dicembre 2008 e gennaio 2009 aveva già tenuto una mostra personale alla galleria Placentia Arte, dal titolo ‘God is a palindrome’, in cui si occupava della bestemmia con foto, installazioni e video. ”L’atto di trasformare la bestemmia in arte, di esprimerla visivamente e di esporla in galleria – scriveva all’epoca a commento della mostra – equivale a giustificarla, a renderla giusta”.
Comunque indignazione in tutta Piacenza. Non sono proprio piaciuti i manifesti che sono comparsi nella città. Né, tantomeno, certo spot in onda su una radio privata. A infastidire i piacentini lo shoccante inno alla mafia. Una trovata pubblicitaria? Uno scherzo di cattivo gusto? Una campagna di denuncia? Per ora non si sa. Restano, però, i brontolii degli abitanti. "Le tasse sono una rapina, il pizzo è solo il 20 per cento". E su un angolo la scritta: "Mafia,un altro mondo". E ancora: "Più libertà" (e sullo sfondo una bustina contenente foglie di marijuana). E ancora: "Più sicurezza" (sullo sfondo un fucile e una pistola).
Lo strano Fallimento del Piacenza Calcio: era di una società dell’ex giudice Nicolò Amato. Il magistrato e oggi avvocato è stato anche responsabile del Dap e nei giorni scorsi è stato ascoltato in tribunale a Palermo in merito alla presunta trattativa tra Stato e mafia. Guidava la cordata di imprenditore che avrebbe salvato la squadra: "In realtà l'Italiana srl era nata per esportare farmaci in Medioriente. Quando ho visto che questo non si faceva ne sono uscito. Risulta a capo della cordata, in realtà sono dimissionario da mesi", scrivono Antonella Beccaria e Massimo Paradiso su “Il Fatto Quotidiano”. È strana la storia che rischia di avere come epilogo il fallimento del Piacenza Calcio. È la storia di una società a responsabilità limitate a capo della cordata che rileva quella che 10 anni fa, secondo la stampa specialistica, era una delle 10 “isole felici” del pallone italiano. Una società che non nasce per operare nel settore sportivo, ma per esportare farmaci in Medio Oriente e che nella carica di presidente ha visto insediato il dimissionario Nicolò Amato, l’avvocato che fu a capo del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) e che di recente è stato sentito dalla procura di Palermo nell’ambito dell’inchiesta sulla trattativa tra Stato e mafia. Partiamo dalla fine, dal baratro che si profila per il Piacenza Calcio, già sofferente sul fronte sportivo. Reduce dalla retrocessione dalla serie B, i tifosi si sono dovuti rassegnare alla tripletta incassata dalla Triestina nell’ultima giornata di campionato in Lega Pro Prima Divisione, dove milita al quartultimo posto con 15 punti. Ma neanche il fronte societario va bene, tra calciatori e tecnici non pagati, fornitori in attesa del saldo di fatture inevase e le casse dello Stato che devono incassare per il 2011 Iva, Irpef e altri contributi. Una situazione, questa, che sembra essersi delineata dopo l’uscita di scena di Fabrizio Garilli, patron storico dei biancorossi fino a questa estate, quando gli è subentrata la cordata di Luigi Gallo, capitanata dalla Italiana Srl. Gallo nell’ambiente dello sport è soprannominato “Attila” perché, secondo la vulgata, quando passa lui su una squadra, niente è più come prima. Lo testimonierebbe lo stato della Lucchese, per esempio, che sarebbe sulla soglia del crac. O del Venezia, club fallito e con un processo tuttora in corso. Ora sarebbe la volta del Piacenza calcio. L’Italiana Srl, rappresentata oggi da Vladimiro Covilli Faggioli, commercialista spezzino neo amministratore unico del Piacenza e liquidatore della Lucchese, ha acquistato quest’estate i biancorossi. Della cordata che guida nell’avventura piacentina fanno parte anche Coesi Group, Mediatel (Luigi Gallo), Società Valdostana di Garanzia, Digitmedia Spa di Giuseppe e Salvatore Toscano, Pietro Cruciani (con una società dilettantistica di Formello) e Almon Holding. In merito a quest’ultima società, il nome è la contrazione di un nome, Alessandro Mongarli, l’inventore della linguetta delle lattine, che a maggio stava per comprare l’Alessandria dopo aver tentato con il Torino e Parma. Tornando alla capofila che ha rilevato il Piacenza Calcio, l’Italiana Srl vede ancora con la qualifica di presidente Nicolò Amato, titolare dell’omonimo studio legale a Roma. In passato è stato magistrato e all’inizio degli anni Novanta è stato a capo del Dap. Proprio in riferimento a questo periodo, di recente è stato sentito nell’ambito dell’inchiesta sui rapporti tra uomini delle istituzioni e del crimine organizzato in Sicilia. E nello specifico, gli sarebbero state chieste informazioni in merito alla revoca chiesta nel 1993 del 41 bis, il regime di carcere duro, per alcuni boss. Ma non le indagini siciliane e nemmeno le recenti audizioni in commissione antimafia dell’uomo di legge romano riguardano la vicenda che si sta raccontando qui.
Interpellato telefonicamente, in merito all’Italiana Srl, Amato dice di esserne stato presidente, ma di aver lasciato quell’incarico da oltre un anno. “Il mio nome”, afferma, “forse è rimasto perché non sono ancora state espletate le formalità per la cessione delle mie quote. Però io non mi sono mai occupato della vicenda del Piacenza Calcio e devo dire che non ne so niente”. Anche perché l’Italiana Srl sarebbe nata con scopi che con il pallone e lo sport più in generale non c’entrano nulla. “La società doveva tenere rapporti con Paesi del Medio Oriente perché uno dei soci era un cittadino giordano di una certa autorevolezza, Abdalla Maita”, aggiunge Nicolò Amato. “Poi è scomparso, io l’ho visto due volte, e la società non ha mai funzionato”. I rapporti di cui il professore parla riguardavano dunque rapporti commerciali con la Giordania e altri Paesi del Medio Oriente per fornire medicinali a ospedali e altre strutture sanitarie. Ma niente di tutto questo si concretizza. Così, a fine estate 2010, il presidente Amato annuncia la sua intenzione di dimettersi e di cedere o mettere in liquidazione della società. Intenzione confermata la prima volta in una raccomandata inviata il 17 settembre 2010 e la seconda nel corso del consiglio d’amministrazione tenutosi 13 giorni più tardi. Gli altri soci chi erano? “L’avvocato Marco Gianfranceschi e l’altro il dottor Licciardi, un commercialista di La Spezia”, risponde Amato. “Io conoscevo l’avvocato Gianfranceschi, che mi aveva proposto di costituire questa società. Gli altri no, me li ha presentati lui. Io mi fidavo dell’avvocato, è avvocato. Da allora Gianfranceschi e io ci siamo visti solo una volta perché lui non abita a Roma”. E com’è stato possibile che dall’export di farmaci si sia passati alle società sportive? “Del calcio io non ne so assolutamente niente”, conclude Amato. Nessun commento dunque sulla sorte del Piacenza, che non è affare che lo riguarda e che si deciderà nel corso delle prossime ore: se l’Italiana Srl trova i capitali da mettere nella società per coprire i debiti crescenti, bene. Altrimenti non ci sarà nient’altro da fare che presentare i libri in tribunale facendo istanza di fallimento.
PARLIAMO DI RAVENNA
COSE DA PAZZI.
Sfrattato per una morosità di 3 euro: è accaduto a un artigiano edile di Lugo, in provincia di Ravenna. L'uomo è sposato con due figli: in crisi economica per problemi con il lavoro, da ottobre a gennaio scorsi non è riuscito a pagare l'affitto dell'appartamento in cui la sua famiglia vive da qualche tempo. Dopo l'intimazione da parte del padrone di casa, l'uomo è riuscito a racimolare la somma dovuta, 1.938 euro: ai primi di febbraio è andato in banca con i soldi per fare il bonifico, senza pensare o senza rendersi conto che l'istituto di credito avrebbe trattenuto 3 euro come spese di commissione. La cifra arrivata nel conto corrente del proprietario di casa, quindi, è stata di 1.935 euro. Tre euro in meno rispetto alla cifra di cui l'affittuario era a debito: tre euro mancanti che hanno convinto il giudice onorario del tribunale ravennate a convalidare lo sfratto. Data di esecuzione: 20 aprile 2014, proprio il giorno di Pasqua. (fonte: Ansa)
Sfrattato per una morosità da «tre euro», un lughese di 53 anni Claudio T. e la famiglia dovranno lasciare l’appartamento di via Corelli, a Lugo, addirittura il giorno di Pasqua, scrive Carlo Raggi su “Il Resto del Carlino”, riprendendo la notizia dall’Ansa. E’ scritto nero su bianco sul verbale di udienza redatto recentemente da un giudice onorario del tribunale di Ravenna e il malcapitato lughese potrà ora solo sperare nell’opposizione tardiva al provvedimento. E’ una storia incredibile per quanto intricata dove ad aggravare le difficoltà economiche della famiglia dovute alla crisi si è aggiunta l’applicazione ferrea e anche un po’ cieca di una norma che più che alla giustizia sembra rispondere alla legge di Creonte. Creonte appare dunque come un despota chiuso nelle sue idee, geloso della propria immagine e timoroso di apparire debole. Il protagonista di questa vicenda aveva preso in locazione l’appartamento il primo novembre 2011 e pattuito un canone annuale di seimila euro. Tutto è andato bene fino all’ottobre del 2013 quando l’uomo, che svolgeva l’attività di imbianchino, ha avuto problemi di lavoro e non è più stato in grado di far fronte alle rate da ottobre a gennaio. Il 28 gennaio il padrone di casa, attraverso un avvocato, ha così intimato lo sfratto all’uomo, alla moglie e ai due figli. All’interessato lo sfratto è stato notificato il 4 febbraio; il 7 l’uomo, dopo aver a fatica racimolato la somma, è andato in banca, all’Unicredit di Lugo, e ha fatto un bonifico all’indirizzo del proprietario per l’esatto ammontare delle rate dovute: euro 1.938,62. Non sapeva o non ha prestato attenzione, Claudio T. che la banca avrebbe incamerato, su quell’ammontare, tre euro e 62 centesimi di commissione così che al proprietario è giunta la somma di 1.935 euro.
L’udienza di convalida dello sfratto era fissata per il 10 marzo davanti al giudice togato titolare della funzione, ma venne rinviata al 17. Quel giorno Claudio T. si ripresentò in tribunale e attese fuori dall’aula del giudice conosciuto. Il fatto è che l’udienza la teneva un giudice onorario e quando il lughese venne a saperlo, l’udienza si era già svolta.
Il giudice onorario, su richiesta del locatore, ha quindi convalidato lo sfratto «dando atto che il conduttore ha corrisposto l’importo di 1.935 euro, rimanendo moroso di euro tre, oltre alle spese». Proprio sul fatto delle spese Claudio T. avrebbe potuto chiedere la dilazione di pagamento e sui tre euro forse avrebbe potuto anche versarli immediatamente. Certo che a fronte di una morosità per 1.938 euro trovati a fatica, la decisione di liquidare 500 euro di spese legali e 83 euro di Iva e Cpa, non trovano razionale spiegazione. Soprattutto se si tiene conto che nel frattempo la situazione economica del conduttore è rimasta invariata, ovvero deficitaria tanto da maturare altri due mesi di morosità che però nulla hanno a che vedere con il provvedimento di cui si sta parlando posto che nulla in proposito risulta dal verbale di udienza del 17 marzo 2014.
RAVENNA E LA MASSONERIA.
IL NEO GRAN BURATTINAIO, I MASSONI DI SINISTRA E IL "FINTO POLVERONE DEMOCRAT", scrive Fabrizio d'Esposito per Il Riformista, riportato da “Dago Spia”. Coi tempi che corrono, la domanda è più che legittima: esiste una corrente di sinistra della massoneria? Una corrente democratica e postcomunista? Esiste. Esiste e si chiama Grande oriente democratico, of course. Che abbreviato suona come God, Dio in inglese, ossia il Grande Architetto. La storia è questa: nel Grande Oriente d'Italia (Goi) da mesi si è manifestata pubblicamente con un sito internet la fronda al gran maestro Gustavo Raffi, ex repubblicano di Ravenna, che governa il Goi dal 1999: un potere poi confermato a colpi di modifiche delle tavole costituzionali massoniche. Il Goi di Palazzo Giustiniani è la maggiore obbedienza italiana con più di 21mila fratelli e dopo lo scandalo della P2 ancora non ha recuperato il riconoscimento della Gran Loggia d'Inghilterra, che sta ai grembiulini come il Vaticano ai cattolici. Il malcontento per la gestione di Raffi, accusato anche di filoberlusconismo, è così esploso con la nascita del God di Gioele Magaldi, che in un editoriale del 6 giugno ha affrontato l'ultima croce interna del Pd, quella sulla doppia tessera: al partito e alla loggia. Magaldi commenta due casi e scrive: «Che differenza di comportamento tra il cittadino Ezio Gabrielli e il signor Guido Maria Destri. L'uno si dichiara apertamente e sfida con coraggio le ipocrisie interne al Pd (aggiungo io: quanti sono i massoni "non dichiarati" nella Direzione Nazionale del partito? Non ci fate incazzare, perché altrimenti cominciamo a pubblicare gli elenchi...), l'altro, colto suo malgrado "con il sorcio in bocca" (qualche delatore ha reso pubblica una foto in cui vestiva il grembiule massonico), si precipita a fare "autocritica", mostrandosi in questo degno seguace di Stalin, Mao o Togliatti (il quale, peraltro, com'è noto, fu agevolato da ambienti massonici durante la clandestinità della seconda guerra mondiale)». Affrontando le vicende del marchigiano Gabrielli e del toscano Destri, il primo orgoglioso della doppia appartenenza, il secondo pentito, il God offre una suggestiva chiave di lettura della bufera in corso tra i democrat. In pratica, per i massoni di sinistra si tratterebbe di un «finto polverone» alimentato da Raffi col supporto di due falchi berlusconiani come i parlamentari Giancarlo Lehner e Giorgio Stracquadanio per riorentare a destra le simpatie politiche dei fratelli del Goi. Scrive ancora Magaldi, introducendo un Neo Gran Burattinaio sul modello Gelli: «Come mai corrono sempre più insistenti le voci di un'ascesa di "filo-berlusconiani" o "neo-berlusconiani" (anche insospettabili, per provenienza) tra i personaggi più vicini a Raffi, sia dentro che fuori Palazzo Giustiniani? D'altra parte, per cominciare a dare risposta al cui prodest relativo ai "polveroni fasulli" di questi giorni, una cosa è innegabile. Se vi fosse qualche Neo Gran Burattinaio che avesse voluto esaltare la "liberalità e tolleranza" dell'ambiente berlusconiano rispetto alla massoneria del Goi e viceversa la condotta anti-democratica, liberticida e intollerante del Pd rispetto ai liberi muratori (gentilmente offerta dai "lobbisti cattolici" del partito), ebbene costui sarebbe pienamente riuscito nell'intento». Non solo: il «finto polverone» nel Pd dimostra che è meglio rimanere coperti nell'ombra, secondo il piano del Neo Gran Burattinaio: «Alla fine della giostra avrebbe dato un chiaro messaggio (come del resto amava fare il Fratello Licio Gelli): è meglio non fare outing, non dichiarare pubblicamente e lealmente la propria adesione concreta ai principi e agli ideali della massoneria. È meglio rimanere "coperti e segreti", così nessuno vi darà noie o espulsioni». La destra ombra della massoneria coperta e filoberlusconiana rimanda allora allo scandalo della P2. E qui, il God dà persino ragione alle recenti accuse di Di Pietro e Veltroni se si assume come riferimento la storia dei grembiulini italiani dalla repubblica in poi: «Davvero la vicenda oscura della Loggia P2 è soltanto un ricordo lontano? Davvero il gran maestro Raffi non sa quello che intende dire Walter Veltroni, allorché afferma che "l'Italia sarebbe sottoposta al governo di un terzo livello di potere, occulto"? Probabilmente, né Di Pietro né Veltroni sanno esattamente di "cosa stanno parlando". Ma la domanda più urgente e interessante è: e il gran maestro Raffi? Sa di cosa si sta parlando?». Già, il lungo regno di Raffi sull'obbedienza di Palazzo Giustiniani. Oltre alle accuse di Magaldi, sul sito dei massoni di sinistra del God compaiono lettere di fratelli anti-raffiani decisamente inquietanti: Scrivono i «Fratelli anti-Lega e anti-Formigoni» della Lombardia (4 giugno): «Abbiamo l'impressione che alcuni (non tutti) raffiani lombardi intrallazzino con Comunione e Liberazione e Compagnia delle Opere. Vigilate anche voi di God». Ma il tema principale è quello degli affari della cricca di Anenome e Balducci, per i quali è indagato il triumviro del Pdl Denis Verdini, da sempre sospettato di essere un massone. Denunciano i «Fratelli di Toscana libera e trasparente (28 maggio)»: «Il risultato delle elezioni regionali Goi in Toscana è inquietante. Ovunque c'è una flessione dei raffiani e qui no. Perché? Perché qui Denis Verdini, Riccardo Fusi e Flavio Carboni e amici si muovono come pesci nell'acqua? Nella regione a massima concentrazione raffiana? Perché l'ultrà berlusconiano onorevole Giancarlo Lehner in questi giorni si è schierato con Gustavo Raffi? Qualcuno dovrebbe indagare e spiegare». Tra una polemica e l'altra c'è pure lo spazio per una riflessione sul federalismo. Eloquente il «Fratello Lumbard Federalista»: «Sono un ex leghista attualmente fratello massone. Che ne pensate voi di Grande oriente democratico del federalismo? I leghisti sono inadeguati e rozzi, anche se efficaci populisticamente parlando. Ma il federalismo serve, secondo me. Serve anche un Grande oriente democratico organizzato qui in Lombardia e in altre regioni. Non rimanete romano-centrici». La Padania col grembiule ci mancava.
MAGALDI: FIORONI HA OTTIMI RAPPORTI A VITERBO. E IL GRAN MAESTRO RAFFI: SE LE PRESENZE MI RISULTASSERO NON LO DIREI - IL «VENERABILE»: CI SONO FRATELLI AI VERTICI DEL PARTITO, scrive Goffredo Buccini per il Corriere della Sera. «È morto un Trentatré!». Quando, lo scorso autunno, i massoni di mezza Italia vengono qui a onorare Mario Gabrielli- negli anni 60 Venerabile della loggia Garibaldi 750 e 33esimo grado del rito scozzese- composto nella bara in completo blu e guanti bianchi e vegliato dalla moglie Cesarina, non sanno ancora che da quella camera ardente di via Crocioni, periferia residenziale di una città molto legata al Grande Oriente (altra loggia di spicco tra le cinque della provincia è la Guido Monina, dal nome di un sindaco «fratello»), sta cominciando un nuovo capitolo nella storia dei rapporti tra politica e massoneria. «Un cronista locale mi chiese se fossi massone anch'io, ero commosso, non ebbi difficoltà a dirgli di sì», racconta adesso Ezio Gabrielli, sorseggiando uno spritz su una terrazza affacciata sul Conero. Avvocato associato a Guido Calvi, 42 anni, fisico da baritono mozartiano, Ezio è il nipote prediletto cui «zio Mario» insegnava «a costruire gli aquiloni con le canne raccolte alla foce del fiume Musone». Era anche assessore Pd del Comune di Ancona: per quell'outing lo costringono alle dimissioni. «È stato un brutto segnale, se tiri fuori la testa te la tagliano col falcetto... Ieri un fratello appena entrato in loggia mi ha chiesto su Facebook se iscriversi al partito: cosa dovrei rispondergli?». In pochi mesi il caso si allarga. Nella massonica Maremma spunta un altro assessore, Guido Mario Destri da Scarlino (3.600 anime), pure lui democratico, fotografato in mezzo ai cappucci. Nuovo scandalo. Insorgono i cattolici del Pd, guidati da Giuseppe Fioroni e dagli ex Popolari di Quarta Fase: «Massoni anche da noi? Inconcepibile». Dietro il cancan si celano, forse, il riallineamento alla nuova stagione politica e una ennesima sfida per il potere nel Grande Oriente, l'Obbedienza principale d'Italia, finita nel tritacarne con la P2 di Gelli nell'81, l'inchiesta di Palmi nel '92 e ciclicamente nei titoli dei giornali per qualche rivelazione sulla massoneria deviata.Sul sito del Grande Oriente Democratico, una sorta di corrente di sinistra in aperta frattura con la maestranza di Palazzo Giustiniani, appare un messaggio dall'aria minacciosa: «Quanti sono i massoni non dichiarati nella direzione nazionale del partito? Non ci fate incaz... perché altrimenti cominciamo a pubblicare gli elenchi». Gioele Magaldi, animatore del sito e della corrente, giovane Venerabile romano in odore di eresia (ha tre «tavole d'accusa» sulle spalle e resiste ai tentativi di espulsione ricorrendo ai tribunali «profani», cioè civili), dice al telefonino: «Vediamoci al Pantheon». Si presenta in un caldissimo pomeriggio con gessato blu e occhialini azzurrati, disponibile e sussiegoso. E spiega: «Sì, ci sono massoni nella direzione nazionale del Pd, lo so, può attribuirmelo. E l'onorevole Fioroni, che si agita tanto, ha ottimi rapporti con i massoni nella sua Viterbo». Dichiarazioni spericolate, cui Magaldi ne fa seguire altre, di altro segno: «Non mi fraintenda. Io voglio che al Pd arrivi la solidarietà del Grande Oriente Democratico per gli attacchi di cui è oggetto. Ma insomma: questi cattolici del Pd, chi li manda? Parlare come loro non fa certo il bene del partito. Questa vicenda, secondo me, ha una paternità precisa». Quale? «Lo spieghi lei a me». Con i massoni va spesso così. «La massoneria è un gioco di specchi dietro al quale è difficile intravedere la realtà», diceva l'ex Gran Maestro Di Bernardo a Ferruccio Pinotti, autore del bel saggio «Fratelli d'Italia». Persino Gustavo Raffi, Gran Maestro in carica da undici anni, che sventola trasparenza e rinnovamento come nuove bandiere del Grande Oriente, risponde: «Massoni nella direzione del Pd? A me non risulta. Se mi risultasse? Non glielo direi comunque». Giorni fa da un'intervista ad Alberto Statera di Repubblica era emerso il numero di quattromila massoni nel Pd, su cui si è scaldato ulteriormente il dibattito. Ora il Gran Maestro attutisce: «Io dissi che non facciamo censimenti, diciamo che è un calcolo delle probabilità...». Insomma, trasparenza o non trasparenza, lo stop and go resta l'andatura prevalente. «Puttanate»: Claudio Petruccioli, che partecipò per il Pci ai lavori della Commissione P2, taglia corto. «A parte che il problema della doppia fedeltà può porsi soltanto in un partito di ispirazione totalitaria e non certo nel Pd, la verità è che oggi la massoneria è meno potente, il bipolarismo non l'aiuta. Anche in Inghilterra c'è il bipolarismo, sì, ma lì l'establishment è molto forte, qui è molto fragile». I massoni però aumentano di numero. «Vero, ma non riescono a essere un potere intermedio effettivo». Lei ne ha conosciuti di compagni massoni? «Beh, in alcune aree come Perugia, la Toscana, Bologna, massoniche e governate dalla sinistra, pensare che tutti i massoni siano stati contro il governo è inverosimile». E la storia racconta di rapporti almeno non conflittuali, se alla Gran Loggia di Rimini del 2007 il sottosegretario Elidio De Paoli portò i saluti dell'esecutivo nazionale dopo che, un anno prima, Paolo Prodi, fratello del premier in carica, aveva definito il Grande Oriente d'Italia come «una delle più importanti agenzie produttrici di etica nella storia dell'Occidente». Forse anche per questo Raffi, di tradizione pacciardiana, si fece sfuggire più volte una frase che oggi continua a rettificare: la massoneria ha il cuore che batte a sinistra. «Mi riferivo alla sinistra storica, risorgimentale. Io non posso pronunciarmi», spiega ora con cautela. «Si domandi perché ha smesso di dire quella frase», incalza Magaldi. Ce lo dica lei, replichiamo. Il giovane Maestro, disinvolto nell'uso dei media, ha pronta una teoria che ha già riversato nel sito e che conduce, naturalmente, al più discusso berlusconiano della massonica Toscana, Denis Verdini: «Da principio aveva simpatia per Natale Di Luca, il rivale di Raffi alle ultime elezioni. Poi ha cambiato parere...». Insomma, anche per questo riavvicinamento con il Pdl la Toscana sarebbe rimasta saldamente in mani raffiane alle ultime regionali del Grande Oriente e un venticello Pdl alimenterebbe la bufera nel Pd. Raffi sostiene più semplicemente che «tirar fuori conflitti in certi momenti serve a distogliere dai veri problemi e nel partito democratico problemi e tensioni ci sono». Strategie e politica politicante. Cose lontane dal buon Ezio Gabrielli che, con felice autoironia, si definì «un povero pirla di provincia» mentre tanti moralisti a corrente alternata gli davano addosso (due volte pirla se, come si sussurra, ci fosse davvero nella giunta di Ancona un secondo «fratello» del Pd, ancora coperto). Almeno Ezio ha avuto la consolazione di essere ammesso, tra onori e condoglianze, al funerale massonico di zio Mario. Alle donne di famiglia (eccetto la vedova Cesarina) fu vietato. Porte del Tempio sbarrate per le «stelle d'Oriente» di casa Gabrielli.
RAVENNA MAFIOSA.
Ville, bische, droga e omicidi. La mafia a casa nostra. In un rapporto di Massimo Manzoli e Gaetano Alessi ecco la mappa delle infiltrazioni nel territorio ravennate, scrive Matteo Cavezzali su “Ravenna e d’intorni”. Contrabbando di armi, droga, gioco d’azzardo, prostituzione. Clan calabresi, campani, ma anche albanesi, rumeni e cinesi. Processi, arresti, sequestri (4 appartamenti e un locale nel comune di Ravenna, una pizzeria e un appartamento a Faenza e una casa a Cervia) e morti ammazzati. Tanti episodi singoli a cui mancava una lettura più complessiva. Tanti punti tra cui tracciare una linea che disegnasse i tratti della mafia sul nostro territorio. Una mafia che investe, ma anche che è presente fisicamente, che manda intimidazioni e che, quando si sente minacciata, non si fa scrupoli di usare le armi. A disegnare questa linea sono stati venti ragazzi ragazzi del Gruppo dello Zuccherificio, di Articolo 21, di NoName tramite la Facoltà di Giurisprudenza di Bologna e Gaetano Alessi. «Per scoprire l’andamento è necessario incrociare i dati posseduti con le tendenze delle mafie al nord emerse nei vari processi – ha affermato il Pm Gianluca Chiapponi a proposito di questa – La magistratura è molto occupata nei processi e non c’è nessuno che si dedichi a costruire una visione di insieme, per questo motivo il lavoro sarà molto utile alle prossime indagini». In queste pagine pubblichiamo un resoconto frutto dei dati raccolti nel Dossier inedito “Le mafie in Emilia-Romagna 2011-2012”. «Per risalire la china del lavoro silenzioso della criminalità organizzata siamo partiti dai punti noti – spiega Massimo Manzoli del Gruppo dello Zuccherificio –. Gli omicidi e le condanne, sono punti certi, in cui la mafia ha creato clamore e si è fatta notare. Il resto, bisogna dedurlo partendo dal certo». La scia dei morti lasciati sull’asfalto dalle mafie, anche al nord, è più lunga di quello che si pensi. La difficoltà maggiore è riconoscerne la matrice e ricostruire i procedimenti che hanno portato a quella esecuzione. Un caso eclatante da cui è partita una importante indagine che ha rivelato il funzionamento del sistema delle bische clandestine e di un passaggio di mano. Dalla mafia siciliana e Cosa Nostra, ormai in declino, il racket era passato in mano alla ‘ndrangheta calabrese, che adesso comanda sul territorio romagnolo. Si tratta dell’omicidio di Gabriele Guerra a Cervia. Quindici colpi di pistola Skorpion calibro 7.65 la sera del 14 luglio 2003. Guerra, in libertà vigilata, era appena giunto davanti alla propria abitazione. Si sarebbe cambiato d’abito per rientrare entro le 22 nel carcere di Rimini, dove stava scontando condanne per rapina e per droga, quando venne crivellato di colpi. Guerra era un cervese che lavorava nel settore molto remunerativo delle bische clandestine. Come emerge dalle intercettazioni del caso, infatti, molti mafiosi cresciuti nell’ambito dello spaccio si erano riconvertiti alle bische clandestine (ancora adesso uno dei settori più attivi nella nostra zona), ambito meno pericoloso e più remunerativo. Guerra aveva iniziato lavorando con i clan siciliani, quando però il gioco d’azzardo da Cervia a Riccione era passato sotto i calabresi, aveva pensato di mettersi in proprio. Si legge nella sentenza: «Guerra intendeva aprire una nuova bisca senza accordarsi con il gruppo Pompeo- Masellis-Tallarico e viene perciò eliminato dagli associati Mellino (già condannato per traffico di stupefacenti) e Lentini». Nel 2005 Giovanni Lentini, colui che fornì a Mellino la mitraglietta per uccidere Guerra, viene ferito con tre colpi di pistola in pieno giorno in viale Ceccarini, a Riccione. A sparare è Salvatore Pascarella, campano, ma residente a Santarcangelo di Romagna, condannato poi con giudizio abbreviato. L’indagine ha fatto emergere un intero sistema malavitoso, definito dalla magistratura come “il clan dei calabresi di Riccione” legati al clan di Mimmo Pompeo, boss della ‘ndrangheta crotonese. Tutto era andato bene agli affari dei calabresi, finché non c’è scappato il morto. Fino a quel momento il sistema era riuscito a rimanere tranquillo, perché nascosto. Per questo motivo i clan preferiscono svolgere il “lavoro sporco” al sud, così da non destare clamori nelle località dove investono. Il processo Guerra è stato il primo nelle nostre zone in cui è stato applicato l’articolo 416bis, ovvero l’aggravante di associazione mafiosa. Nel 2008 sono strati tre gli ergastoli per l’omicidio Guerra inflitti a Saverio Masellis, di 43 anni, Franco Mellino, di 49 anni, e Giovanni Lentini, di 34 anni. Il sistema rivelato vedeva a capo delle bische nel ravennati negli anni '90 Luigi Di Modica, di Cosa Nostra, che lavorava per conto dei Miano e che era legato proprio con il malavitoso cervese Gabriele Guerra. Interrogato dai magistrati Di Modica ha dichiarato che «Le case da gioco, da sempre, costituiscono la prima fonte di approvvigionamento delle organizzazioni criminali catanesi, poiche? costituiscono fonte di guadagno fisso per il finanziamento delle strutture organizzative stabili e per il sostentamento degli appartenenti all’organizzazione ristretti in carcere e delle loro famiglie». Dal momento della sparatoria emerge invece il nome di un nuovo boss della zona, è 'ndranghetista Mario Domenico Pompeo, detto Mimmo. La sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Bologna nel febbraio del 2010 ci racconta come l’associazione mafiosa promossa da Mimmo Pompeo, Maurizio Tallarico e Saverio Masellis abbia dominato incontrastata il panorama del gioco d'azzardo almeno dal 1999. Il controllo veniva esercitato direttamente su tre circoli (Circolo del mare di Riccione, Fotoamatori di Rimini e Giochi divertenti di Bologna) e indirettamente sul resto della Romagna e nella zona di Imola: le intimidazioni e le estorsioni nei confronti dei Circoli San Vitale di Ravenna e Della Scranna di Forlì evidenziano il carattere estremamente violento dell'associazione mafiosa che non esita a ricorrere alle armi. Nelle intercettazioni infatti si parla in diverse occasioni di incontri avvenuti in un circolo chiamato San Vitale, che sarebbe proprio nella zona del porto di Ravenna. Un altro punto su cui riflettere sono gli investimenti sul litorale ravennate di alcuni noti affiliati alla ‘ndrangheta. Tra Punta Marina e Lido Adriano ci sono stati in questi anni diversi sequestri di ville possedute da boss e affiliati ai clan. Nel 2010 è stato identificato dalle telecamere dell’Esp di Ravenna il latitante Nicola Acri, detto “occhi di ghiaccio”, pluriomicida del clan degli Abbruzzese di Rossano in Calabria. La moglie del latitante viveva con la figlia in una villa a Punta Marina, mentre lui si era nascosto in latitanza a Comacchio. Come lui in diversi risultano proprietari di ville in quella zona. Anche se non ci sono elementi concreti per dimostrarlo, la magistratura non esclude che la decisione di trovare casa nei lidi ravennati sia legata alla possibilità di gestire attività economiche nella zona direttamente. Tutte ipotesi da verificare, ma ciò che pare scontato è che il controllo delle attività legate al crimine organizzato nel ravennate sia prevalentemente in mano alla ‘ndrangheta.
Ecco il secondo estratto dell’inchiesta sulla mafia a Ravenna, continua Matteo Cavezzali su “Ravenna e dintorni”. Alla base dell’articolo sono i documenti raccolti dall’inedito dossier “mafia in Emilia-Romagna 2012” realizzato grazie al contributo del Gruppo dello Zuccherificio, NoName e Articolo21. C’è ancora chi sostiene che il nostro territorio sia “impermeabile alla mafia”, in realtà la mafia ravennate ha più di trenta anni di storia alle spalle. Tutto è iniziato quando numerosi sorvegliati speciali allontanati dalla Sicilia e furono mandati al nord. Una delle località scelta per ospitare queste persone era Lido Adriano. Se la speranza dei magistrati era spezzare le comunicazioni tra gli affiliati e le famiglie, il risultato fu invece quello di far trovare loro territori vergini e prosperosi in cui investire il denaro dei clan. Fin da subito una delle fonti di reddito della mafia nostrana è stato lo sfruttamento della prostituzione. Oggi questo fenomeno nelle nostre zone è passato in mano alla mafia albanese, che ha stretto accordi con la ‘ndrangheta per controllare questo settore che muove centinaia di migliaia di euro ogni mese, e che è collegato a doppio filo con il traffico di immigrati e di droga dall’est Europa. I clan albanesi. Le conoscenze sulla malavita albanese sono molto recenti perché è una criminalità molto giovane che è emersa dopo il crollo del regime. Nel giro di pochi anni sono sorti raggruppamenti criminali, alcuni anche di tipo mafioso. Il loro retroterra culturale è la fedeltà alla famiglia o di clan basata sulla parola data che deve essere mantenuta, pena la perdita dell’onore. La struttura del clan è molto solida ed è centrata sulle regole ricavate dall’antico codice del Kanun che contiene una serie di norme, o meglio, di leggi, che sono state trasmesse negli ultimi secoli oralmente e che erano la base della organizzazione sociale. Le organizzazioni criminali albanesi sono talmente influenti da avere la capacità di governare gli affari illegali dell’intera area balcanica e di molti paesi dell’est; sono i clan albanesi i protagonisti principali della tratta degli esseri umani che gestiscono, in unione con altri raggruppamenti criminali che agiscono nei paesi dell’Est. Nello sfruttamento della prostituzione emerge un’insolita collaborazione di soggetti estranei al clan, ma considerati “di fiducia”, specialmente romeni e italiani. La località di provenienza delle giovani donne da impiegare nella prostituzione sono gli stati dell’ex Urss, l’Albania, ma anche la Romania e gli altri paesi neo comunitari da cui arrivano con falsi visti della Grecia. Le ragazze destinate a prostituirsi, vengono prelevate dalla mafia albanese dalle famiglie con forza o tramite inganni “pubblicitari”, attraverso annunci ove si dice che possono procurare lavoro in Italia, oppure attraverso messaggi scritti sui muri dei vari paesi. Vengono trasferite in un’area controllata da loro, con l’appoggio delle mafie tradizionali e in particolar modo della ’ndrangheta. Gli albanesi hanno in mano anche tutta la prostituzione di ragazze dell’est. Le modalità di coercizione sono basate su violenze e pestaggi che non rovinino eccessivamente la bellezza della donna, così che possa continuare a lavorare. In strada. Il racket albanese controlla le piazzole della statale Adriatica e chiedendo ai protettori rumeni 30 euro al giorno per ogni ragazza per “affittare” l’area. Le ragazze sono minacciate e tenute sotto stretto controllo dai “protettori”, che le osservano e le tengono monitorate col cellulare. Spesso i protettori spiegano come sfuggire ai controlli, cosa dire nel caso fossero fermate dai carabinieri e forniscono anche vestiti e appartamenti. I luoghi della prostituzione in strada sono noti, oltre all’Adriatica, anche in città ci sono diversi punti come via Teodorico, via Darsena, via Pallavicini e via Rocca Brancaleone. Tra le ultime operazioni importanti contro questo fenomeno c’è la retata effettuata dalla Squadra Mobile di Ravenna il 3 marzo 2012. L’operazione, iniziata a novembre del 2011, ha portato gli agenti ha eseguire undici tra fermi e arresti di cittadini romeni e albanesi, lungo la Statale 16 Adriatica sul territorio di Cervia. In casa. Negli ultimi anni si è fortemente sviluppato il fenomeno della prostituzione in appartamento. Il business degli appartamenti, infatti, è più sicuro e con una clientela più controllata sta gradualmente soppiantando quello di strada. Oggi vale circa il 50% del mercato locale della prostituzione concentrandosi prevalentemente a Ravenna, Lido Adriano, Lido di Classe, Lido di Dante, Milano Marittima e Cervia, ma con alcuni appartamenti segnalati anche in campagna e in piccole località insospettabili come Ammonite. In casa la prostituzione diventa non solo meno pericolosa, ma anche più redditizia. Infatti i prezzi sono leggermente superiori, attorno ai 70 euro a prestazione. Questo spostamento al chiuso è iniziato in zona con il sistema dei trans radicato a Lido di Classe. Per le transessuali, il cambiamento delle modalità della prostituzione si è avuto soprattutto negli ultimi due anni. A fronte di una maggiore azione repressiva da parte delle forze dell’ordine, anche in questo caso si è assistito, in parte, a una riorganizzazione del lavoro al chiuso o identificando, come luoghi di lavoro, strade meno accessibili o nei pressi delle proprie abitazioni. Negli ultimi anni, poi, si è affermata una situazione molto particolare, “modello Amsterdam”, con il lavoro davanti alla porta di casa. Dopo le recenti proteste degli abitanti della zona le trans hanno mutato nuovamente le proprie abitudini e preferiscono ricevere i clienti per appuntamento e uscire sempre meno di casa per adescare. Anche in questo caso gli appartamenti cambiano spesso per non rendere facilmente rintracciabili i luoghi alle forze dell’ordine. Solitamente la prostituzione delle trans è associata al consumo di droghe e a un alto pericolo di incorrere in malattie veneree, per lo scarso uso dei profilattici. Giovanissime. Dai dati raccolti nei verbali delle forze dell’ordine emerge un dato terribile, l’età delle ragazze costrette a prostituirsi si sta abbassando. Una su cinque è minorenne. Queste giovanissime ragazze sono spesso prive di strumenti, anche rispetto alla tutela sanitaria, spesso disinformate sulla prevenzione, i rischi alla salute, la contraccezione e le gravidanze. Alle ragazze è spesso proibito di recarsi all’ospedale per paura di incappare in problemi o denunce. Circa la metà di queste ragazze sono rumene, il che crea meno difficoltà allo sfruttatore. Essendo infatti cittadine comunitarie, non rischiano l’espulsione come le altre, che sono prevalentemente russe, ucraine, nigeriane o slave. Ultimamente è molto diffuso il fenomeno di documenti falsi che attestano la nazionalità rumena a ragazze provenienti in realtà da altri paesi limitrofi. La loro presenza in strada è caratterizzata da molti spostamenti. Rimangono per brevi periodi, con un forte turn-over. Per rendere più difficile l’individuazione delle ragazze e l’inserimento in programmi di recupero o di protezione, infatti, vengono spostate circa ogni due mesi, spesso anche passando dall’Italia alla Spagna e viceversa. Quasi tutte le donne costrette a prostituirsi hanno il passaporto. Spesso hanno un visto con durata che varia tra gli 8 giorni e i 3 mesi. Si rilevano di frequente casi di donne che entrano, apparentemente, in modo regolare, ma con documenti falsi, o grazie all’acquisto di visti. Solitamente le ragazze si prostituiscono in piccoli gruppi di 2 o 3 persone appartenenti alla stessa etnia. Il denaro viene quasi nella totalità consegnato allo sfruttatore che provvede al mantenimento delle ragazze in appartamenti di propria proprietà o di prestanome. Solo in pochi casi, una piccola percentuale viene tenuta dalla ragazza. Questa percentuale viene concessa però solo dopo un periodo di prova, più o meno lungo. La violenza, la paura e il continuo disorientamento delle ragazze sono le basi del controllo delle prostituzione, contro cui le forze dell’ordine hanno mezzi limitati visto che la prostituzione in sé non è reato, ed è spesso difficile risalire agli sfruttatori, che invece sono penalmente perseguibili.
Nella terza parte dell’inchiesta sulla mafia a Ravenna parliamo del business più redditizio per la ‘ndrangheta, quello della droga e delle armi. Ricordiamo tra le fonti il “Report sulla Mafia in EmiliaRomagna” del Gruppo dello Zuccheificio, NoName e Articolo21 e il rapporto “Raggruppamenti mafiosi in Emili Romagna. Elementi per un quadro d'insieme” redatto dal dottor Enzo Citone per conto della Regione, continua Matteo Cavezzali su “Ravenna e d’intorni”. I soldi veri per le mafie, quelli che permettono di andare in giro con la Porsche e di spendere migliaia di euro nei locali più in vista, quei soldi con tanti di quegli zeri che un cristiano qualunque, un poliziotto, un magistrato, o una ballerina di lap dance non vedranno mai, vengono da una via maestra, quella del traffico di droga e di armi che passa da anni, più o meno indisturbato, dal porto di Ravenna. Nascosto nelle stive viene fatto uscire di notte, oppure incastonato in mezzo a pallet di datteri dalla Turchia o in fondo a container dalla Serbia. La droga prende direzioni diverse, viaggia in tutta Europa. Una parte sale verso Bologna, l’Emilia e Milano, con consegne fatte spesso di notte in aree di sosta di strade statali, una parte scende verso il sud, una parte rimane. Viene portata a Lido Adriano dove sono stati individuati e smantellati negli anni molti laboratori domestici in cui veniva pesata e tagliata la cocaina o preparate le droghe sintetiche come l’Mdma. Da Lido viene poi venduta a Rimini, Riccione, Milano Marittima fino a Marina e ovviamente Ravenna. I luoghi più indicati per la vendita sono quelli con molta concentrazione di gente, come le discoteche. In particolare i parcheggi, di cui in alcuni casi la ‘ndrina ha controllo completo. Anche nello spaccio, come nelle bische il controllo in Romagna è della ‘ndrangheta. In estate per gli affiliati è una vera festa, perché i contanti prodotti dallo spaccio sono cifre che vanno oltre l’immaginabile. Tutti contanti, pronti da spendere. Un giro d’affari in cui sono entrati anche molti romagnoli, come spacciatori, ma anche come soci in affari. L’inizio. Facciamo un passo indietro. I primi a scommettere sul porto di Ravenna come scalo per la droga da importare in Italia per immetterla nel mercato europeo furono quelli di Cosa Nostra durante il boom degli anni ’80. La prima operazione importante contro il narcotraffico a Ravenna fu quella della squadra mobile della questura di Ravenna nell’ottobre 1991 che portò all’arresto, dopo un inseguimento di cinque ore iniziato a Marina di Ravenna e conclusosi a Fano, di Marco Salinitro, di una polacca e di tale “Cristian” che si scoprì in seguito essere Pasquale Trubia, un ventitreenne pluriomicida braccio armato del boss Giuseppe Madonia, all’epoca latitante. Salvatore Trubia, fratello di Pasquale, divenne collaboratore di giustizia e svelò una serie di meccanismi interni dell’organizzazione: una vera e propria organizzazione verticistica suddivisa in tre livelli con precisi compiti e responsabilità e che comprendeva anche alcuni personaggi romagnoli. La struttura gerarchica era talmente forte da prevedere addirittura ad una pronta assistenza legale per chi fosse caduto nelle mani della giustizia. L’organizzazione disponeva di appartamenti a Faenza, a Marina Romea e Lido Adriano, mentre la fonte di reperimento della droga era Busto Arsizio, ennesimo segno di un forte legame tra i traffici provenienti dal porto di Ravenna e lo spaccio in Lombardia. Dalla sentenza si evince che Pasquale Trubia era il «titolare delle periodiche forniture di sostanze stupefacenti dirette al gruppo faentino-ravennate» e lo scopo principale dell’associazione era il guadagno economico dovuto alla redistribuzione nel territorio ravennate delle sopraddette forniture. I picciotti nostrani. «Perché se mi dà dello scemo lo picchio io, perché è un coso alto così, perché a lui tutti dicono “Si Padrone, vossia...”, vossia sto cazzo! Io sono l’unico che non sono tra loro, l’unico romagnolo della famiglia di cui lui si fida, io sono uno dei siciliani, loro lo sgarro non lo ammettono, se c’è lo sgarro c’è la disgrazia». Queste parole volgari e violente sono prese letteralmente dai faldoni di una grossa inchiesta degli anni ‘90. È una intercettazione ambientale che dimostra come si siano formati dei picciotti nostrani. L’inchiesta infatti dimostrò come la presenza di romagnoli all’interno dell’organizzazione fosse già presente e determinante. Il poeta che pronunciava questi versi era uno dei vertici dello spaccio al nord: Riccardo Patuelli, esperto in chimica, che raffinava la droga e manteneva tutti i contatti sul territorio tanto che la sua abitazione figurava come il centro di smistamento. Questa figura, come sottolinea il pm Gianluca Chiapponi, che ha svolto le indagini, è interessante per capire come la mentalità mafiosa sia in grado di attecchire anche in persone che non nascono in territori o famiglie mafiose, ma vengono sedotte dal grande giro di denaro che circonda lo spaccio. A seguito di una serie di arresti e alla crisi di Cosa Nostra si apre in quegli anni una guerra tra associazioni criminali per accaparrarsi il redditizio mercato dello spaccio nella riviera romagnola. Nuove droghe e nuove mafie. A dimostrazione di questo è l’arrivo di un consistente quantitativo di cocaina (scoperto dalle forze dell’ordine) fatto sbarcare a Ravenna nel periodo di Pasqua del 1993 dalla ‘ndrangheta proveniente dal Sud America. Allo stesso modo in altre province, negli stessi anni, vengono sgominate bande minori facenti capo ad organizzazioni straniere, soprattutto turche e albanesi. A certificare che ancora oggi a comandare sullo spaccio in Romagna è la ‘ndrangheta è un’altra indagine dei carabinieri di Bologna: nel maggio 2011 si estende a Ferrara, Modena, Reggio Emilia, Ravenna, Forlì, Rovigo e Reggio Calabria. La Dda di Bologna è convinta d’aver individuato un consistente numero – 32 in tutto – di «appartenenti ad un’organizzazione criminale, promossa prevalentemente da soggetti di origine calabrese e collegati alle consorterie ‘ndranghetiste Nirta-Strangio, finalizzata al traffico di stupefacenti». Ancora una volta non troviamo solo spacciatori di droga perché il ventaglio delle figure sociali coinvolte s’allarga a «professionisti incensurati, alcuni anche con un titolo di studio universitario e con attività lavorative remunerative (nell’ambito della ristorazione o dei locali notturni)». La droga arrivava da San Luca «a più riprese e con un flusso costante». Anche in questa occasione accade un fatto riscontrato altre volte. «Gli investigatori non avrebbero elementi certi per affermare che alcuni dei soggetti coinvolti siano appartenenti a cosche della ‘ndrangheta anche se emerge il fatto che la loro provenienza coincida con aree geografiche ad alta densità mafiosa». Tante armi «per una strage». La prima pista che fece pensare che da qui non passasse solo droga, ma anche altro partì proprio da un grosso carico di acidi. Un esempio clamoroso è l’arresto di Giuseppe Bomparola, originario di Corigliano Calabro, fermato in Piazza del Popolo a Ravenna con una valigia contenente 11.867 pasticche di ecstasy, assieme a un olandese (il fornitore) e un indonesiano (il corriere). Era il 1998 e la rete di spaccio che passava dalla piccola città di Ravenna era diventata, nel silenzio e senza clamori, un business globale. A questo punto la vicenda assume tinte inquietanti. Emerge infatti che oltre al contrabbando di droghe, il vero guadagno della mafia era nel contrabbando internazionale di armi. L’anno successivo all’arresto in flagranza infatti il Bomparola compariva di nuovo davanti ai giudici di Ravenna perché nella sua abitazione di San Bartolo fu trovato un lanciarazzi armato di un razzo anticarro. Dicono i giudici: «Un’arma che affaccia la prospettiva di un impiego per provocare una strage o, comunque, un evento capace di segnare le vicende collettive». In un periodo in cui la mafia faceva attentati e stragi, la campagna ravennate era un nascondiglio perfetto. Armi ai terroristi somali. Finito il periodo stragista delle mafie, il traffico d’armi non si ferma e la malavita inizia a fornire armi illegalmente ad organizzazioni terroristiche internazionali. Proprio al porto di Ravenna sono stati infatti trovati veicoli militari italiani, messi in disuso e riverniciati per essere rivenduti illegalmente oltre mare. In un passaggio della relazione 2011 la direzione nazionale antimafia riporta che «la procura di Bologna e quella di Torino hanno iscritto [un] procedimento per l’art. 270 bis e 270 Cp e 25 l. 9 luglio 1990 n. 185 (associazioni sovversive e terroristiche), ravvisando un traffico di materiale di armamento dall’Italia alla Somalia, allo scopo di favorire e finanziare l’attività dell’organizzazione terroristica Al Shabaab, in Somalia». Al Shabaab, fondata da Adan Hashi Farah’Ayro, è la più grande organizzazione islamista insurrezionalista della Somalia. Ha dei rami attivi anche in Kenya e in Etiopia e vanta uno sterminato elenco di vittime innocenti causate nei propri attentati che si susseguono con continuità anche in questi mesi. Ebbene a quanto scoperto dalla procura di Bologna la milizia che collabora con Al Quaeda è stata più volta armata da carichi partiti proprio da Ravenna. In queste operazioni sono stato effettivamente trovati e messi sotto sequestro container che contenevano cingolati, blindati, defender, fuoristrada, mezzi appartenuti all’esercito italiano e poi dismessi, smontati e riverniciati. Su questo traffico sta indagando da mesi il pm Enrico Chieri della procura di Bologna, con il pool antiterrorismo, che ha competenza in tutta la regione per questo genere di reati. Altre procure hanno aperto dei fascicoli ipotizzando invece il traffico di rifiuti speciali non autorizzato: un altro dei tanti settori in cui la malavita fa affari senza frontiere. L’argomento del traffico d’armi collegato a quello dei rifiuti riporta alla mente l’episodio dell’omicidio di Ilaria Alpi, inviata del Tg3 e del suo operatore Miran Hrovatin, uccisi in un attentato a Mogadiscio nel marzo del 1994. Episodio che è tornato alla ribalta nel marzo 2012 per il processo per calunnia nei confronti di Ali Rage Ahmed la cui testimonianza ha determinato la condanna di Omar Hashi Assan, l’unico considerato colpevole dell’agguato ad Alpi e Hrovatin. Le circostanze dell’agguato ai due giornalisti non sono chiare, ma sembrerebbe scontato il suo collegamento con il dossier del traffico di armi e dello smaltimento dei rifiuti tossici in terra e in acque somale che i due stavano per rendere pubblico. Si sospetta che nel traffico fossero coinvolti i servizi segreti, le autorità pubbliche e naturalmente, la criminalità organizzata. In particolare, a confermare il coinvolgimento nello smaltimento illecito di rifiuti della ‘ndrangheta calabrese ci sono le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Francesco Fonti affiliato ai Romeo di San Luca e in contatto con la ‘ndrina dei Nirta, detta “La Maggiore”. Questo personaggio fu incaricato dalla famiglia Romeo a gestire un traffico di stupefacenti tra Lombardia ed Emilia Romagna, dove viene arrestato due volte, a Reggio Emilia nel 1987 e 1993 per possesso di stupefacenti, ma attraverso i suoi contatti con i Nirta ha un ruolo anche nel traffico misto di rifiuti tossici e armi verso paesi africani. La presenza attiva della ‘ndrangheta in Emilia Romagna e i fatti più recenti avvenuti al porto di Ravenna potrebbero far pensare ad una continuazione di quel fenomeno di trasporto verso i paesi africani delle cosiddette “navi a perdere” piene di rifiuti che venivano fatte affondare a cui si connette l’esportazione di materiale bellico, che potrebbe rappresentare quindi una sorta di ricompensa ai gruppi che si occupano dello smaltimento dei rifiuti tossici.
PARLIAMO DI REGGIO EMILIA
REGGIO EMILIA E LA MAFIA.
La crisi è il volano che sta facendo crescere gli affari e le infiltrazioni mafiose, scrive “La Gazzetta di Reggio”. Soprattutto quelle ormai conclamate legate alla ’ndrangheta e ai casalesi, i cui clan sono presenti da anni in provincia di Reggio. Secondo il rapporto sulla mafia presentato questa mattina nella sala degli Specchi del teatro Valli di Reggio, in Emilia-Romagna sono presenti 49 clan. I gruppi più importanti sono quelli calabresi, poi ci sono i campani, siciliani, e tre famiglie della Sacra corona unita pugliese. «La situazione dell'Emilia-Romagna è davvero drammatica - ha dichiarato Renato Scalia, consigliere della Fondazione Caponnetto, che ha curato il dossier finanziato con il contributo della Camera di Commercio reggiana -. Fortunatamente in questi tempi c'è stata un'inversione di tendenza, dobbiamo anche ringraziare l'arrivo di alcuni prefetti, come quello di Reggio Emilia Antonella De Miro, il primo ad attivarsi contro le infiltrazioni negli appalti pubblici della criminalità organizzata attraverso numerose interdittive antimafia nei confronti di imprese appartenenti ai clan». «Anche il territorio di Reggio è tra quelli con maggiore presenza criminale rispetto ad altre realtà - continua Scalia - c’è quella storica dei cutresi e ci sono zone come Brescello a forte presenza criminale con conseguenti reati: omicidi, lancio di bombe, come accaduto qualche anno fa. La Situazione è veramente drammatica. Adesso anche la politica si è resa conto che bisogna lavorare ma bisogna creare degli anticorpi. La ricostruzione rappresenta un’opportunità per i clan. Già nei lavori successivi al terremoto in Abruzzo state estromesse delle ditte provenienti da Reggio Emilia, nei confronti delle quali sono state effettuate diverse interdittive antimafia emesse dal prefetto De Miro».
Addio Peppone, ora c'è la mafia, di Giovanni Tizian su “L’Espresso”. A Brescello, il paese dove Guareschi ambientò l'epopea del sindaco rosso e di don Camillo, si sono insediati i boss calabresi della 'ndrangheta. Che investono nei cantieri, fanno affari, cercano di mettere le mani nella politica. Da una parte capannoni e latterie, dall'altra casali e campi agricoli. Percorrendo la strada provinciale 358, il contesto non lascia dubbi: è la Bassa padana. Una lingua d'asfalto lunga e dritta collega Reggio Emilia alla provincia di Mantova, sul confine, a due passi dal Po, c'è Brescello. Un borgo di 5 mila anime che nella fortunata serie di film erano contese tra don Camillo e Peppone, tanto che ancora oggi 40 mila turisti vengono in gita sui luoghi che hanno fatto da set ai racconti di Giovannino Guareschi. Negli anni però sono cambiati i personaggi che hanno reso popolare "Bersèl", così lo chiamano gli anziani, in un dialetto tra il francese e l'emiliano. La povertà del dopoguerra è stata dimenticata e ai contadini si sono sostituiti i piccoli impresari. Anche lo scaltro don Camillo è stato scalzato dagli avidi "don" della 'ndrangheta, mentre il trattore sovietico di Peppone sembra dimenticato, soppiantato dai Suv degli imprenditori vicini ai boss. Padrini che qui, a due passi dal Po, si fanno sentire poco ma investono molto. Per i capibastone calabresi questa è terra di denari: le armi vanno tenute nascoste, per non disturbare gli affari. L'unico omicidio di mafia risale al '92. Erano gli anni dello scontro tra le cosche di Cutro, il centro del crotonese da cui tanti sono emigrati in provincia di Reggio Emilia. Ed è tra questi lavoratori che si sono inseriti anche i coloni delle cosche, legati soprattutto al clan dei Grande Aracri. Una presenza consolidata, come dimostrano i rapporti degli investigatori. Ma che tanti a Brescello continuano a non vedere. "E' un mondo che non conosciamo, ma è una presenza che ci preoccupa", spiega a "l'Espresso" Giuseppe Vezzani, sindaco Pd di Brescello. Mai iscritto al Pci, e questa è una notizia: la guerra fredda anche qui è un ricordo del passato. Invece il suo predecessore Ermes Coffrini è un veterano del Pci e mette la difesa dell'immagine del paese al primo posto. Anche davanti ai segnali più clamorosi. Quando la titolare del centralissimo bar don Camillo denunciò di essere minacciata dai boss e fissò alle vetrine un cartello con scritto "Chiuso per pizzo", Coffrini ha dichiarato pubblicamente che la 'ndrangheta non c'entrava nulla. Una vicenda che ha spaccato la piazza, tra chi bollava la protesta come "una storia di corna" e chi invece sottolineava la "miopia politica" di fronte al pericolo mafia. Un copione che si ripete spesso a nord della Linea Gotica, dove la penetrazione silenziosa dei nuovi boss che non sparano passa spesso inosservata. Nella nebbia fitta della Bassa i traffici perdono sostanza e non creano allarme. "Andranno a delinquere da altre parti, non so, qui non è più successo nulla", è convinto il vicesindaco Andrea Setti. Invece gli investigatori segnalano come le cosche siano pronte a fare il salto di qualità dagli affari alla politica. Il primo tentativo è stato notato alle ultime elezioni comunali, con la candidatura nella lista civica di centrodestra della figlia di Alfonso Diletto, un imprenditore che gli inquirenti indicano come legato alla 'ndrangheta. Forza Brescello è riuscita a portare nel municipio di Peppone un solo consigliere e la Diletto è stata la prima dei non eletti. Ma i brescellesi originari di Cutro esprimono l'8,8 per cento dei residenti: un pacchetto di voti che fa gola a molti. E quello che interessa oggi ai boss è soprattutto costruire: le loro ditte aprono cantieri senza sosta per strade, case, ville, condomini, centri commerciali. "Alcuni cittadini le hanno utilizzate per lavori privati perché ignorano il problema", riconosce il sindaco. Alfonso Diletto si muove tra edilizia e mediazioni immobiliari in più regioni. E' stato indagato nell'inchiesta "Dirty money", l'operazione coordinata dalla Procura antimafia di Milano sull'asse Svizzera-Lombardia-Sardegna. Nel 2010 è stato chiesto il sequestro dei suoi beni ma in prima istanza il Tribunale di Reggio Emilia ha respinto la domanda: la partita non è ancora chiusa. Diletto è il nipote acquisito di un casato potente, i cui signori vivono tra Calabria ed Emilia, tra Cutro e Brescello: il clan dei Grande Aracri. Capo indiscusso è Nicolino, Mister "Mano di gomma" o "Manuzza" per gli affiliati più intimi. A 53 anni può vantare un pedigree mafioso da padrino: è nato con la pistola, cominciando come gregario prima e braccio destro poi del mammasantissima Totò Dragone che fino agli anni Novanta dominava questa parte di Emilia. Fu "Manuzza" a sfidarlo, scatenando una guerra che si è chiusa dopo dieci anni di piombo quando Totò Dragone è stato trucidato a colpi di pistola e Kalashnikov a Cutro. "Mano di Gomma" è tornato in libertà da poco, scarcerato per una questione formale nel calcolo della pena grazie all'abilità dei suoi avvocati. E ora da Brescello il dominio dei Grande Aracri si estende fino a Reggio Emilia, dove hanno investito nell'immobiliare, in locali notturni e bar. I loro alleati sono i Nicoscia di Isola Capo Rizzuto, anche loro di casa nel Reggiano, dove risiede Michele Pugliese, condannato in primo grado a 10 anni nel processo "Pandora". Michele è un businessman che dal cemento si è allargato all'autotrasporto. E' nipote del defunto boss Pasquale Nicoscia, ma è imparentato anche con gli Arena, imprenditori dell'eolico e nemici dei Nicoscia: la doppia parentela gli ha permesso di fare da paciere nella lotta tra le due 'ndrine - la più feroce avvenuta in Calabria nel nuovo millennio - e aumentare il suo prestigio. Suo padre Franco è diventato familiare a tutti gli italiani per le foto - pubblicate da "l'Espresso" - che lo ritraevano mentre festeggiava assieme a Gennaro Mockbel e al senatore Nicola Di Girolamo, accusato di essere stato eletto proprio con i voti della cosca Arena. Ad occuparsi di questo sostegno sarebbe stato Pugliese senior, che adesso vive come il figlio tra Santa Vittoria di Gualtieri, provincia di Reggio Emilia, e Viadana, nel Mantovano. A pochi chilometri c'è Brescello. Qui a svelare le connection sono gli intrecci societari. Nella San Francisco Immobiliare per esempio, tra i soci fino al 2007, troviamo Michele Pugliese, Salvatore Grande Aracri, Giulio Giglio e Antonio Muto. Giglio è il fratello di Pino, quello che il pentito Salvatore Cortese definisce "una specie di bancomat per le cosche reggiane". Salvatore Grande Aracri, incensurato e assolto l'anno scorso dall'accusa di spaccio, è il nipote di "Mano di Gomma". Ma anche il padre di Salvatore, Francesco, non scherza. Gli investigatori lo definiscono "referente della cosca per la Bassa reggiana". E ha appena finito di scontare una pena per associazione mafiosa. Ora vive a Brescello con i suoi familiari. E lavora nella ditta ora di proprietà della figlia, ma che fino al 2005 era sua e del figlio Salvatore: la Euro Grande Costruzioni. E non è l'unica azienda riconducibile a Francesco Grande Aracri. Fino a novembre 2011 è stato socio della Santa Maria immobiliare, con capitale sociale di 100 mila euro. E infine, dal 2004 è socio nella G.G.A. immobiliare, insieme ad alcuni familiari. L'amministratore? Un modenese doc. Ma non è tutto. La parola d'ordine per Francesco Grande Aracri è diversificare. "Ha indirizzato i propri interessi anche nella gestione di locali notturni insieme alla stessa famiglia Muto", raccontano le informative. Il locale in questione è l'Italghisa di Reggio Emilia. Discoteca che ha chiuso i battenti un anno fa, ma che attirava ogni fine settimana centinaia di giovani. Musica tecno, elettronica e reggae. Nulla a che vedere con le popolari balere emiliane delle feste dell'Unità. Gli atti delle forze dell'ordine sono pieni di aziende considerate colluse o gestite da amici degli amici. Spesso le prefetture intervengono revocando i certificati antimafia, in modo da tagliarle fuori almeno dagli appalti pubblici: ce n'è persino una con sede alle porte di Brescello che aveva concesso un finanziamento di 5 mila euro alla Lega Nord. Da queste iniziative dei prefetti nascono lunghi contenziosi amministrativi, battaglie di carta bollata che si trascinano fino al Consiglio di Stato mentre le ruspe dei boss continuano a lavorare sotto un'altra sigla. Politici e imprenditori emiliani sembrano accorgersi del problema solo quando scattano le retate. Come nella neve di questi giorni, allora le tracce sporche diventano visibili a tutti. Ma dura poco. E la nebbia cancella i confini tra lecito e illecito. Mentre i clan si fanno più forti. Secondo una serie di elementi di inchiesta, avrebbero addirittura creato una struttura di 'ndrangheta interamente basata a Brescello e dintorni: una "Locale" come la chiamano nel loro gergo. Ha rapporti soprattutto con i potenti baroni calabresi della Lombardia, nei confronti dei quali però avrebbe conquistato un peso di primo piano. In una conversazione intercettata dal Ros un uomo dei clan chiedeva: "Reggio Emilia lo sa?", indicando in questo modo la necessità di informare l'autorità mafiosa nata in quell'area. A confermare l'importanza della colonia emiliana sono le parole del pentito Salvatore Cortese che ha descritto i retroscena di uno dei delitti più inquietanti: quello di Lea Garofalo, la donna uccisa dal marito Carlo Cosco perché stava collaborando con i magistrati e poi fatta sparire nell'acido. Prima di assassinarla, Cosco ha interpellato i Grande Arachi e i Nicoscia per ottenere il loro permesso. Un caso di lupara bianca a Milano, confuso tra la nebbia e l'indifferenza che nascondono i traffici e gli intrecci delle 'ndrine padane.
Qui Reggio Emilia, terra di mafia, scrive Floriana Bulfon su “Libertiamo”. Reggio Emilia, la ricca provincia dove tutto funziona, con gli asili che diventano dei modelli da esportare, i servizi ai cittadini, l’informatizzazione diffusa. Reggio Emilia è uno di quei posti dove non ti immagini ci possano essere la ‘ndrangheta, il pizzo, l’usura, i veicoli bruciati. E invece anche qui sono arrivati i casalesi, le famiglie di Cutro e quelle di Crotone. Qui fanno i loro affari, qui passa l’illegalità. Qui c’è la mafia, ma in molti non la vogliono vedere. Enrico Bini, presidente della Camera di Commercio di Reggio Emilia dal dicembre 2008, è stato il primo ad alzare la testa e a denunciare il fenomeno, tra l’incredulità generale e gli attacchi di chi si rifiutava e si rifiuta di credere alla scomoda verità.
Come si manifesta la presenza dell’ndrangheta nella provincia di Reggio Emilia, dottor Bini?
«I settori prevalenti sono il trasporto, l’edilizia e ultimamente anche il commercio. L’infiltrazione criminale non si fa vedere. Arrivano con la faccia buona, sono i colletti bianchi dell’illegalità. Avvocati e commercialisti che magari esercitano il ruolo di amministratori di società sportive e che fanno i loro affari all’interno dell’ “economia legale”.»
Da quando secondo lei è presente nella provincia e come si è evoluta?
«E’ iniziata dal ‘70 attraverso i soggiorni obbligati e molta gente che dal Sud, in particolare dalla Calabria, è venuta a cercare lavoro nel reggiano; ma è esplosa nel Duemila con i cantieri dell’alta velocità. Servivano tanti mezzi e la criminalità organizzata è arrivata proponendo prezzi notevolmente più bassi di quelli di mercato e con una disponibilità verso il cliente – possiamo dire - peculiare. Poi negli ultimi 15 anni c’è stato il boom dell’edilizia e infine con la crisi questi signori hanno acquistato tante aziende in difficoltà, imprese che non riuscendo ad accedere al credito, lo avevano chiesto alle ‘ndrine. Per poi finire direttamente nelle loro mani.»
Qual è a suo avviso la responsabilità del mondo economico reggiano?
«Le amministrazioni locali e, in generale, i committenti dei lavori pubblici hanno usato una logica miope. L’obiettivo è stato quello di guardare ai prezzi bassi, per cui si sono sempre scelte le aziende che offrivano l’appalto più a buon mercato, senza chiedersi come facevano ad avere prezzi simili. Nessuno si è chiesto come mai compravano aree edificabili che costavano troppo. Qualche campanello d’allarme c’era, ma nessuno ha saputo ascoltare. Ora però Reggio Emilia si sta ponendo il problema, ammette che c’è una presenza di criminalità organizzata, a differenza di altre province vicine dove ancora si continua a ignorare la presenza del fenomeno.»
Che cosa state cercando di fare per combattere la presenza della criminalità organizzata?
«Cerchiamo di convincere le persone a parlare. L’omertà è fortissima. Se distruggono una vetrina, molti cercano di minimizzare. Il problema dell’usura – ad esempio – è ormai vasto, occorre farlo emergere garantendo la tutela per chi denuncia. La Camera di Commercio ha istituito un numero verde al quale gli imprenditori possono segnalare i loro problemi, inoltre si è deciso di ampliare l’attività di controllo nei settori dell’edilizia e del commercio, dopo gli ottimi risultati ottenuti dal Protocollo firmato in Prefettura sul settore trasporti. Ritengo sia necessaria la tracciabilità delle transazioni commerciali, in modo da poter effettuare verifiche e controlli costanti. Occorre inoltre evitare che persone arrestate continuino a operare dal carcere gestendo i loro beni in maniera illegale.»
Lei ha ricevuto attacchi e discredito da più fronti . Affrontando questa battaglia, prova mai paura?
«Quando ho iniziato a parlarne, la reazione è state “questo qui è matto”. Qualcuno ha provato a screditarmi, ma i fatti hanno purtroppo dimostrato che avevo ragione. Non si può difendere il il ‘nome’ del territorio nascondendo la verità. Non ho paura, penso che se si ricoprono certi incarichi occorre davvero svolgere il proprio dovere. Come presidente della Camera di Commercio non posso tacere.»
REGGIO EMILIA E LA MASSONERIA.
Un po’ pluto, per niente giudaico... Massonico, ecco, scrive Battistini Francesco su “Il Corriere della Sera”. Questo sì: un venerabile complotto per tramare contro Prodi e i suoi. «Ci sono molte e forti famiglie massoniche a Reggio Emilia», va in giro a dire Pierluigi Castagnetti, che è reggiano prim' ancora che vicepresidente della Camera: «Io non so quanto c'entrino. Ma so che qui c' è un clima avvelenato. Che da qui è partita questa cosa dello spionaggio fiscale contro Prodi. E che a farla sono stati certi ambienti che non si sono esposti». Grembiulini oscuri nella città del Professore? Il Gran Maestro dell'Oriente d' Italia se la ride: pare che qui non esista neanche una loggia... «Io non so se ne esistano. Ma la massoneria è una realtà di un'evidenza assoluta. Radicatissima. Uomini notoriamente affiliati che si muovono dietro le quinte, dirigono associazioni di categoria, scrivono sui giornali». Anche cattolici? «Non li conosco, ma esistono: c'erano in passato, ce ne saranno anche oggi». Attenzione caduta massoni. Castagnetti se li è tolti come sassoloni, sabato, all'assemblea provinciale della Margherita. Un breve passaggio, un assaggio, per proteggere da trame oscure l'amico Graziano Delrio, uno che dopo mezzo secolo è il primo sindaco «non rosso» della città più rossa d' Italia. Delrio, piazzato due anni fa dopo che i rutelliani avevano accettato di non ostacolare il ds Cofferati a Bologna, è nel mirino soprattutto dei suoi alleati. Castagnetti l'ha difeso. A modo suo. E ha scatenato una brenta di polemiche, neanche fosse un Pansa qualunque venuto a parlare di grandi bugie. Massoni rossi? L' ex dc ora placa le acque («ma no, era un discorso locale, e poi ormai ci sono poteri che contano di più...»), respinge l'invito a chiarire in Procura («ho fatto una denuncia politica, non ho notizie di reato») e alla fine torna ad agitare le onde sul Crostolo: «Il clima avvelenato c'è. Non si capisce se contro Prodi gli spioni abbiano passato informative a politici e giornali locali, o altro. Il direttore dell'Informazione di Reggio, il primo a pubblicare la spiata, ammette d'avere subìto pressioni. Certo, qualcuno s'è prestato: Isabella Bartolini, di Forza Italia, sul suo sito s'è vantata d'avere "scovato" lei famose le donazioni esentasse...». Massoni spioni? Nomi, nomi. Li chiedono i Ds, che sono i più arrabbiati. Castagnetti fa spallucce: «Vogliono allontanare il sospetto d'una differenza rispetto al passato, quando amministravano loro». E dall'argomento sta alla larga anche un reggiano lontano come lo scrittore Raffaele Crovi: «Di queste cose non voglio parlare». E tra cognomi solo sussurrati, una pioggia d'ironie, qualcuno si ricorda che «fra i più famosi massoni additati da Castagnetti c'è uno che era proprio uomo suo». «Castagnetti è patetico - trancia la deputata azzurra Bertolini -: degli affari di Prodi e famiglia, a Reggio si sapeva perfino dal parrucchiere. Molto tempo fa». Qui la vera massoneria sono le coop rosse e i prodiani, dice Forza Italia, dimenticando però che la città del Tricolore ha dato anche grandi firme P2 come Pier Carpi e il generale Baiano: «La mia esperienza locale in vicende di massoneria è legata al coinvolgimento dell'allora segretario dc Franco Bonferroni», ricorda perfido Castagnetti, laddove Bonferroni è oggi un collaboratore Udc di Casini. Ma perché tirare in ballo L'Informazione, proprietà all' 80% dell' imprenditore siderurgico Nino Spallanzani? «Non so. C'è una guerra nel centrosinistra - dice il direttore del giornale -: Castagnetti vuole picconare il Partito democratico, la frattura coi Ds è grande. E la storia di Prodi non c' entra niente, con la massoneria. In questi mesi, ho ricevuto più ispezioni e controlli io della Fiat: se fossi massone... L'altra sera gliel' ho detto, a Gigi: guarda, so che ti piacerebbe, ma non puoi addebitarmi neanche il cognome. Io mi chiamo Giovanni Mazzoni. Con due zeta».
MAGISTROPOLI. STORIE NEFASTE DI MAGISTRATI.
Oggi le comiche (tragiche) in tribunale, scrive Massimo Pandolfi su “Il Quotidiano”. Quello che sta capitando in questi giorni a Reggio Emilia è incredibile: un assassino, reo confesso, è stato liberato perché in tribunale hanno perso per strada il suo fascicolo. Ieri sera il ministro della Giustizia Cancellieri ha deciso di inviare gli ispettori in Emilia ed è il minimo che potesse fare. L’uomo scarcerato, Ivan Forte, ha ucciso barbaramente la convivente, è rimasto un anno in cella e qualche giorno fa è tornato a casa sua, in Calabria, per «decorrenza dei termini», modo di dire tecnico e astruso che, nel caso specifico, significa semplicemente ciò di cui sopra e cioè: magistrati, cancellieri o chissà chi, si sono dimenticati la pratica e non hanno fatto in tempo ad evitare il patatrac. Il presidente del Tribunale ha ammesso che il fascicolo si è ‘infrattato’, si è detto dispiaciuto, ha ordinato un’inchiesta interna e poi ha spiegato che questo «banale disguido» (banale disguido?) è stato provocato anche dalla cronica carenza di organici. Eh no, signor presidente: parliamo di un omicida (reo confesso), non di un ladro di polli. E visto che non ci risulta che a Reggio Emilia ci siano 315 omicidi all’anno, chiediamo, esigiamo, che un caso come questo non venga trattato con una simile, imbarazzante superficialità, quasi fosse una scartoffia qualunque. E’ gravissimo — fra l’altro nei mesi cupi del femminicidio dilagante — che un uomo che ha strangolato la sua compagna possa girare indisturbato in Calabria e, in teoria, sia messo anche nella condizione di darsela a gambe, per evitare processo e scontata condanna. Vogliamo capire (subito) cos’è successo. Vogliamo sapere (subito) chi ha sbagliato. Vogliamo, banalmente, che il colpevole o i colpevoli paghino. Subitissimo.
STORIE DI ORDINARIA INGIUSTIZIA.
Anna Giulia, “rapita” per amore. Anna Giulia era stata prelevata dai genitori venerdì 16 luglio 2010 in una casa vacanze gestita dalle suore del Cenacolo Francescano di Reggio Emilia a Marina di Massa, in Versilia, scrive "Il Secolo XIX". Appena due giorni prima, la bambina aveva compiuto cinque anni. Il tribunale per i Minorenni di Bologna aveva sospeso la potestà genitoriale il 7 agosto 2008, affidando la bambina ai servizi sociali. Già il 5 marzo scorso, durante un incontro protetto con la figlioletta a Reggio Emilia, i genitori avevano distratto un’assistente sociale e avevano preso la piccola, fuggendo verso la Slovenia. Quattro giorni dopo, grazie anche a una lunga trattativa con la nonna paterna, la squadra Mobile reggiana aveva rintracciato i fuggitivi e li aveva raggiunti a Rabuiese (Trieste). Ma la vicenda non era conclusa. Il 5 aprile il padre e la madre della bimba si erano incatenati davanti al Colosseo, a Roma, raccontando poi la loro storia alle telecamere della trasmissione di Raitre “Chi l’ha visto?”. E il 3 maggio Massimiliano Camparini e Gilda Fontana avevano scritto una lettera al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, chiedendogli un aiuto per cercare di risolvere la situazione. Infine, il 16 luglio, i genitori si erano presentati nella casa di San Francesco a Marina di Massa, dove Anna Giulia era ospite per le vacanze estive, e l’avevano prelevata. Il loro legale dal primo momento aveva detto che genitori e figlia stavano bene assieme e che la bimba era «serena e felice». Sulle loro tracce si erano subito messi i carabinieri di Massa Carrara e la questura di Reggio Emilia. Il legale aveva diffuso una dichiarazione dei genitori: «Continueremo a stare dove stiamo», avevano fatto sapere padre e madre, aggiungendo che la «superficialità degli interventi» del sottosegretario Carlo Giovanardi, del presidente del tribunale per i Minorenni di Bologna, Maurizio Millo (che si erano detti «disponibili» a valutare la vicenda, ma solo dopo la «liberazione» della bimba), della tutrice, Sabrina Tagliati, dei familiari, dei politici e avvocati «che non hanno nulla a che fare con la loro vicenda», li aveva convinti sempre di più «di avere scelto la strada migliore e di continuare a stare lontano da questa giustizia». Proprio di «malagiustizia» ha parlato più volte l’avvocato Miraglia, sostenendo tra l’altro che non erano vecchi problemi di tossicodipendenza dei genitori, in particolare del padre, ad aver allontanato la bimba dai genitori, ma presunte «condizioni fatiscenti» del loro alloggio. Lunedì 26 luglio, si è svolta davanti al tribunale per i Minori di Bologna, nella centrale via del Pratello, una manifestazione promossa da alcune associazioni di genitori che vivono situazioni analoghe a quelle dei Camparini. In questi due anni, tra l’altro, più volte la nonna materna, Liana Cartinazzi, aveva chiesto di poter avere la custodia di Anna Giulia (la donna aveva già cresciuto il primo figlio di Gilda, oggi maggiorenne), ma i servizi sociali reggiani hanno dato una risposta negativa.
Reggio Emilia, sparatoria in tribunale, tre morti e tre feriti. E’ di tre morti e tre feriti il bilancio di una sparatoria avvenuta mercoledì mattina nel Palazzo di Giustizia di via Paterlini, a Reggio Emilia. Clirim Fejzo, 40enne albanese, ha aperto il fuoco, uccidendo la moglie 37enne e colpendo a morte il fratello della donna mentre erano in attesa in una sala per partecipare ad un'udienza di separazione. Un poliziotto, intervenuto, ha sparato uccidendo l'aggressore, che aveva tentato la fuga. L'agente, che avrebbe esploso alcuni colpi di pistola uccidendo l'aggressore, sarebbe rimasto ferito ad un ginocchio. Sul posto sono intervenute le forze dell’ordine ed il personale medico del 118. La donna si era fatta accompagnare dal fratello proprio alla causa di separazione dallo stesso Fejzo. Le vittime sono Vyosa Demcolli, 37 anni e Arjan Decolli, cognato dell’omicida, 32enne albanese regolarmente residente a Reggio Emilia.
Non sopportava di perdere l'affidamento delle figlie e nell'aula del tribunale di Reggio Emilia dove si celebrava la sua separazione, ha sfogato la rabbia che covava da tempo, scrive “La Repubblica”. Accecato dalla follia, ha sparato prima contro la moglie e poi contro il cognato. "Ha fatto fuoco almeno una decina di volte", ha detto un testimone. Un colpo ha ferito l'avvocato della moglie, un'altro il poliziotto che lo voleva fermare. "Una scena allucinante", ripeteva ieri il suo legale. L'ultimo proiettile l'ha sparato un poliziotto che si è trovato ad incrociare l'assassino mentre accompagnava un imputato all'udienza per direttissima. Morto lo sparatore; morto suo cognato che aveva tentato di disarmarlo; in gravi condizioni la moglie dell'assassino ricoverata dopo un intervento al torace nel reparto di rianimazione. Ha ucciso davanti alle due figlie di 16 e 12 anni l'albanese Klirimi Fajzo, 40 anni di Durazzo, da una decina d'anni in Italia, da sette a Reggio Emilia. Anche la moglie di 37 anni è di Durazzo come il marito mentre suo fratello, ucciso sul colpo, aveva 32 anni. C'era una storia di violenze dietro la scelta di separarsi. La moglie da una anno era ospite della Casa delle Donne, gestita dall'associazione "Non da sola" di cui la sua legale, Giovanna Fava, anch'ella ferita nella sparatoria, è una dirigente. Sembra che a scatenare la follia sia stata la visita a sorpresa del padre ad una delle figlie: ieri è andato a prenderla a scuola senza avvertire la moglie ed è nato l'ennesimo alterco. "Sparava all'impazzata", ricorda un testimone. "Sparava contro tutti. La gente fuggiva, si nascondeva negli uffici, si buttava per terra. C'era chi gridava. Era terribile". Antonio Turi, dirigente della squadra mobile di Reggio Emilia, spiega come sono andati i fatti: "Ha iniziato a sparare e due agenti che erano in una stanza lì vicino hanno sentito i colpi e sono corsi verso l'uomo. Quello gli ha puntato la pistola e ha esploso un colpo che ha ferito al ginocchio un poliziotto. Allora il compagno ha estratto la pistola e ha fatto fuoco. Penso che se non fossero intervenuti i due poliziotti, il bilancio sarebbe stato ben più grave". Lo sostiene anche Italo Materia, procuratore della Repubblica di Reggio Emilia: "Il poliziotto che ha sparato ha agito bene. E' stata una misura assolutamente necessaria". Ancora sotto shock l'avvocato Galileo Conti, legale dell'albanese: "Sembrava una separazione come le altre", dice il legale. "Certo, con tutte le intemperanze da una parte e dall'altra, ma non avrei potuto immaginare che si arrivasse a questo". Anche contro di lui il suo cliente ha puntato la pistola. "Fajzo non aveva mai dato segni di squilibrio, né mi aveva detto di possedere un'arma. Faceva tutto il bravo... L'avessi solo immaginato... Purtroppo sono falsi anche con i loro avvocati". L'inchiesta della Procura dovrà chiarire anche l'efficienza del sistema di controllo all'ingresso del palazzo di giustizia. L'albanese è entrato in tribunale con una pistola in tasca senza che nessuno si fosse accorto che era armato. Luca Guerzoni, magistrato a Reggio Emilia, ha detto che a fine 2001 era pronto un piano per dotare il palazzo di giustizia di telecamere a circuito chiuso e di un metal detector, ma il piano "è rimasto lettera morta". Sul caso si è mosso anche il ministro della Giustizia. In una nota è scritto che "Clemente Mastella ha mobilitato i suoi uffici per avere elementi sulla vicenda", e il ministro per i Rapporti con il Parlamento Vannino Chiti nel corso del question time ha detto: "In un tribunale non devono entrare armati cittadini di nessuna nazionalità, né albanesi né italiani. Il governo cercherà di acquisire e valuterà gli elementi che hanno portato ad un atto di negligenza, perlomeno ad un atto di scarso controllo".
PARLIAMO DI RIMINI
RIMINI NERA.
Secondo una denuncia presentata in Procura da un ex militante dei centri sociali, per rimanere a dormire nella palazzina occupata dagli attivisti del Lab.Paz bisognava pagare 400 euro al mese o lavorare gratis, scrive “L’Ansa” il 12 giugno 2015. La magistratura ha aperto un fascicolo per violenza privata ed estorsione. Per ora si tratta solo di una denuncia presentata da uno degli ospiti di Casa Madiba, palazzina di Rimini occupata dagli attivisti a fine 2013 per ospitare senzatetto e migranti, e sgomberata a maggio.
Quattrocento euro al mese sarebbe il prezzo da pagare per rimanere a dormire nella palazzina occupata dagli attivisti del Lab.Paz, scrive “Il Resto del Carlino”. L’alternativa? Lavorare gratis per il gruppo. A sostenerlo è un ex militante dei centri sociali, che ha presentato denuncia in Procura. La magistratura ha aperto un fascicolo per violenza privata ed estorsione, ma per ora si tratta solo di una denuncia presentata da uno degli ospiti di Casa Madiba palazzina dell’ex stabile dei vigili del fuoco, in via Dario Campana a Rimini, occupata dagli attivisti a fine 2013 per ospitare senzatetto e migranti, e sgomberata lo scorso maggio. Attualmente gli stessi attivisti sono presenti a Villa Ricci, una casa del Comune occupata il 23 maggio scorso da un gruppo di manifestanti. Ai fascicoli di indagine sulle occupazioni, inizialmente due, uno affidato al sostituto procuratore Davide Ercolani e l’altro al sostituto Elisa Milocco (poi riuniti sotto il procedimento principale di «Casa Madiba») se n’è quindi aggiunto quello per Villa Ricci e quella della denuncia dell’ex ospite di «Casa Madiba».
"Così il centro sociale spillava soldi ai migranti". Rimini, un "pentito" svela ai giudici business sospetti. Ma gli attivisti negano: "Non sfruttiamo gli indigenti", scrive Emanuela Fontana su “Il Giornale”. A Rimini lo chiamano con un termine eccessivo «il pentito»: è un ex attivista del centro sociale Paz che con le sue accuse ha inguaiato tutti i compagni. L'ex autonomo ha raccontato ai magistrati una storia in cui ancora una volta si mescolano accoglienza di immigrati e lucro. Una storia su cui la Procura sta svolgendo le verifiche del caso e che, se accertata, arricchirebbe il lungo elenco di stravaganze della Capitale della riviera: migliaia di venditori abusivi che occupano le spiagge, una sovrabbondante chincaglieria che pare venire da un'unica fonte, suddivisa tra abusivi nordafricani delle spiagge e negozi cinesi, tanti appartamenti acquistati sempre dai cinesi, un'assegnazione di case popolari a totale svantaggio degli italiani. L'informatore della Procura era uno degli occupanti di Casa Madiba. L'edificio, così chiamato in onore di Nelson Mandela, è un ex stabile dei vigili del fuoco espropriato dagli autonomi alla fine del 2013. Lo scopo dell'occupazione era dare ospitalità a senzatetto e immigrati. A Rimini moltissimi venditori abusivi occupano gli hotel abbandonati per la crisi. I senzacasa stanno aumentando anche tra gli italiani, e una parte, appunto, si era rivolta ai ragazzi del Madiba. A maggio la polizia ha sgomberato la struttura. Gli attivisti hanno trovato subito una nuova sistemazione, ancora con un'occupazione abusiva, questa volta a Villa Ricci, uno stabile del Comune. E proprio nel mese di maggio sono arrivate le dichiarazioni dell'ex attivista, e la denuncia, pesante, contro quella che doveva essere un'oasi di accoglienza, seppure illegale: per soggiornare nello stabile occupato bisognava pagare 400 euro al mese o lavorare gratis per il gruppo, ha raccontato l'ex ospite. La struttura era ovviamente a costo zero perché l'insediamento era abusivo, ma gli occupanti avrebbero preteso l'«affitto». Possibile che un luogo che doveva essere tutto dedicato all'accoglienza fosse una fucina di denaro? O è solo una vendetta tra ex compagni dove qualcuno vuole screditare il gruppo? La procura non ha avuto comunque esitazione a voler scavare di più. I magistrati riminesi hanno quindi aperto un terzo fascicolo su casa Madiba: il primo sull'occupazione, il secondo sull'esproprio di Villa Ricci, e il terzo, appunto, sulla denuncia dell'ex, ipotizzando i reati di violenza privata ed estorsione da parte degli occupanti nei confronti degli immigrati. Gli attivisti del Paz hanno reagito con un comunicato indignato: «Come avremmo potuto chiedere del denaro a degli indigenti? A quale scopo? Casa Madiba Network viene colpita perché al tentativo di spostare e schiacciare tutto su dinamiche di ordine pubblico (scontri scontri scontri) sta costruendo in questo territorio una prospettiva e proposta politica alternativa». Un ragazzo keniano ha portato la sua testimonianza spiegando di non aver mai dovuto pagare e di essere stato anzi aiutato. L'avvocato del Paz annuncia querela contro il Resto del Carlino, primo a dare la notizia. Sel è schierata al fianco degli okkupanti. «La serietà di chi opera dal basso - chiarisce il segretario provinciale Prc di Rimini, Paolo Pantaleoni - non sarà scalfita da questa denuncia e non fermerà la propria azione». E Giovanni Paglia, segretario regionale di Sel ed eletto in Parlamento: «Il giudizio su Casa Madiba e su un attivismo che mette i bisogni delle persone sopra il principio astratto di legalità può divergere - ammette - ma si combatta il malaffare, non chi lotta».
L’antifascismo militante come credo politico dei centri sociali, scrive “Il Secolo d’Italia”. E anche in questo caso il linguaggio ricorda quello dei “compagni” che militavano a sinistra negli anni Settanta nonché le loro tesi fantasiose. Ecco qualche passo di Casa Mediba: «Dal dopoguerra agli anni Ottanta, le organizzazioni neofasciste sono state sfruttate dallo Stato e dai diversi apparati di polizia per arrestare processi rivoluzionari; negli ultimi decenni i neofascisti si sono attivati contro i movimenti attivi per il cambiamento dal basso e le forze governative li hanno usati per restringere gli spazi di democrazia diretta e partecipata. Abbiamo discusso di questa dinamica storica a un interessante incontro “La strategia della tensione e le responsabilità neofasciste” promosso dal circolo Anpi “Brigata Corbari” con l’intervento dell’associazione bolognese “Ombre sulla Repubblica”. Questo “uso politico” dei gruppi neofascisti si sta dispiegando anche a Rimini. Non sono gruppi antisistema – come essi si autorappresentano – ma funzionali al mantenimento dello stato di cose presenti: su temi come disoccupazione, degrado, povertà, migrazioni cercano di creare consenso da buoni servi delle banche e delle Istituzioni sempre più antidemocratiche».
Gennaro Mauro, capogruppo di NCD-FI, condanna il nuovo episodio ma richiama anche l’Amministrazione a prendersi le proprie responsabilità su villa Ricci. Per Mauro deve esserci una presa di posizione anche da chi fino a oggi ha appoggiato il Paz. “Tamburini, Pazzaglia, Galvani e l’assessore Visintin devono comprendere che ogni dialogo, anche con gruppi politicizzati come il centro sociale Paz, deve avvenire solo se l’interlocutore è disponibile a rispettare la legge. I manifestanti di casa Madiba non hanno niente a che fare con le centinaia di famiglie riminesi che affrontano il dramma dell’emergenza abitativa”. “É incomprensibile che un pregevole stabile donato al comune di Rimini da una decina di anni sia stato lasciato colpevolmente in uno stato di degrado e abbandono. Perché non si è provveduto a metterla nelle disponibilità di ACER?”
Per Gioenzo Renzi, consigliere di Fratelli d’Italia, ancora prima dell’episodio di ieri pomeriggio sindaco e Giunta si erano dimostrati contraddittori, scrive Maurizio Ceccarini su “News Rimini”. Il Sindaco Gnassi, da un lato, annuncia con un comunicato stampa che “l’immobile occupato ritorna nelle disponibilità del Comune” grazie alla esecuzione del decreto dell’Autorità Giudiziaria, mentre dall’altro l’Assessore Visentin di Rifondazione Comunista ribadisce la propria contrarietà allo sgombero e dice “da tempo è impegnata per sanare la situazione legittimando anche sotto il profilo amministrativo una buona pratica sociale come quella che ha isituito Casa Madiba”. Renzi cita anche la vicenda della scuola di via Montevecchio dalla passata Amministrazione a testimoniare la “contiguità ideologica a sinistra tra Giunte Comunali e centri sociali, loro creature”. Per concludere: “Purtroppo a Rimini non c’è solo il problema della proprietà del Comune da tutelare e amministrare nell’interesse pubblico, ma va garantito il diritto di proprietà privata ai cittadini che hanno lavorato e pagato per l’acquisto dei beni e pagano le tasse al Comune (IMU, TARI ) e allo Stato (IRPEFI) per avere legalità e sicurezza. E’ preoccupante la percezione della illegalità a Rimini, dove il proprietario della palazzina di Via Dario Campana, dopo lo sgombero degli occupanti, sia stato costretto a murare porte e finestre per difendere il proprio bene”.
Dopo quattro anni il sindaco Gnassi deve affrontare la sua prima, vera crisi: Rifondazione lascia la giunta e la maggioranza, scrive Stefano Muccioli su “Il Resto del Carlino”. Lo strappo nasce a sorpresa sull’emergenza abitativa, che sino ad oggi non aveva scatenato grandi tensioni. Ma il problema della casa è diventato la bandiera dei centri sociali, che lo risolvono a modo loro: con le occupazioni. Gli antagonisti, sgomberati da due edifici, sono entrati abusivamente in un’altra villetta, ricevendo il sostegno dei comunisti e la visita di due parlamentari arrivati da Roma. Neppure gli alluvionati della scorsa primavera hanno beneficiato di tanto conforto. Ma torniamo all’emergenza casa che sta a cuore ai Robin Hood nostrani che tolgono proprietà ai ricchi per darle ai poveri. A Rimini l’Acer ha 2.600 alloggi popolari. Tanti per chi deve pagarli versando delle tasse, pochi per chi vuole aiutare tutti quelli che bussano alle porte del Comune. Ma di questi appartamenti solo il 30-40 per cento ospita persone nate nella nostra provincia. La stragrande maggioranza di inquilini arriva da altre regioni e in piccola parte (l’11 per cento) da altri paesi. La comunità riminese si sta già facendo ampiamente carico di problemi sociali “importati”. Ora questo welfare non regge più. Vanno fissati dei limiti alla pubblica solidarietà senza aumentare ancora quella pressione fiscale che già distrugge sviluppo e occupazione. Per aiutare i poveri, non possiamo crearne dei nuovi.
Marcella Bondoni, collaboratrice di quiriviera.com, ha incontrato il dottor Roberto Sapio, già sostituto procuratore della Repubblica negli anni Ottanta, ed oggi autore del volume "Rimini Nera" edito per i tipi della NdA Press. Un'intervista declinata sul contenuto del libro e sulle 15 storie che esso racchiude. Era il 1969 quando il giovane magistrato Roberto Sapio, di stanza a Orbetello, fu trasferito a Rimini. Una città incredibilmente accogliente che cominciava a muovere i primi passi per diventare la capitale del turismo europeo. Rimini diventò presto la mia casa e dopo il 1993, anno nel quale andai in pensione, ho deciso di passare qui la mia vecchiaia. È proprio di questi giorni l’uscita del suo libro “Rimini Nera” che raccoglie quindici racconti di storie vere e vissute dal magistrato nella Rimini degli anni ’80. Era la Riviera di Pier Vittorio Tondelli , la ‘scia del piacere’ che segnava ‘il confine fra vita e sogno di essa, la frontiera tra l’illusione luccicante del divertimento e il peso opaco della realtà’. Una realtà fatta anche di problemi sociali nascenti quali la prostituzione, la droga e la delinquenza diffusa. Erano gli anni della Uno Bianca, dell’inchiesta su San Patrignano e dell’inizio dell’opera di Don Benzi.
Dove nasce l’idea di scrivere “Rimini Nera”?
«Volevo mettere nero su bianco i casi più importanti affrontati durante il periodo di magistratura, forse è stato un modo un po’ nostalgico di rivedere il passato ma pensavo fosse utile far conoscere certi aspetti che la Rimini di allora viveva.
Le prime storie che lei racconta sono quelle di due donne, Rosa e Serafina, accomunate, seppur provenienti da ambiti diversi, dal fatto di essere due prostitute.»
La prostituzione era quindi una piaga piuttosto dolente negli anni ’80: le pubbliche amministrazioni vi aiutarono nel vostro lavoro di magistrati?
«La prostituzione era uno dei nei peggiori di Rimini e negli anni subì un’evoluzione. Dapprima interessava donne italiane venute dal meridione a cercare ‘fortuna’ e ritrovatesi poi sui marciapiedi, in seguito arrivarono le austriache, le russe e infine il mercato si allargò ai trans. È proprio in quegli anni che Don Benzi iniziò il suo ‘apostolato’ di redenzione di queste povere ragazze. Dal canto loro le amministrazioni pubbliche non avevano molti strumenti per eliminare la prostituzione; la legge non permetteva loro molto, nonostante tutto però ci fu un intervento efficace sostenuto anche dalla questura e dalla prefettura che sgomberò i marciapiedi di Marina Centro dalle passeggiatrici che ogni notte li affollavano. Purtroppo questo non debellò il fenomeno, perché le prostitute si stabilirono altrove, ma almeno il cuore della città non fu più teatro di quello spettacolo.»
«Nel suo libro racconta l’inchiesta di una comunità senza citarne il nome ma si capisce chiaramente che si tratta di San Patrignano. Lei seguì in prima persona questo caso. Ci racconta il suo punto di vista?
«Questo fu uno tra i casi più impegnativi della mia carriera. Posso solo dire che su mia sollecitazione il giudice istruttore iniziò un’indagine scientifica sui metodi utilizzati dalla comunità.»
Cioé?
«La magistratura, per la prima volta in Italia, fece un’indagine super peritale per capire meglio se i metodi utilizzati avevano un carattere scientifico. Furono interpellatiti sociologi, psichiatri, criminologi ed anche esperti in comunicazione. E alla fine si stabilì che i fatti avvenuti erano veri ma commessi al fine di evitare danni peggiori e Vincenzo Muccioli fu prosciolto.»
Nella notte del 18 agosto 1991 fu commesso il primo crimine da parte dei componenti della banda della tristemente nota ‘Uno Bianca’; lei fu l’unico, come ricorda nel libro, che affermò immediatamente “si tratta di persone che indossano una divisa o che, all’occorrenza, possono mostrare un tesserino”! Cosa avvenne?
«Dopo le mie parole ci furono reazioni scomposte e molte persone minacciarono di togliermi il caso. Alla fine, quando si scoprì la verità - io ero già in pensione - ricordo che mi telefonò un giovane avvocato che disse: “Dottore aveva ragione lei! Erano banditi in divisa!”. Fu però una magra consolazione.»
Nel 1997 uscì un libro firmato da Enzo Ciconte che raccontava delle infiltrazioni della criminalità organizzata tra il 1970 e il 1995 in Emilia Romagna ed anche a Rimini: lei ha mai affrontato casi del genere?
«Il fenomeno della criminalità organizzata a Rimini c’era, se ne parlava, io però non ebbi mai occasione di occuparmi di questo tipo di reati.»
Se oggi dovesse indicare le nuove piaghe di Rimini cosa direbbe?
«Sono lontano dall’ufficio da parecchi anni, ma leggendo i giornali non mi sembra sia cambiato molto. Penso però che oggi i reati più importanti siano quelli direttamente connessi alla crisi economica. Oltre all’evasione fiscale è assai preoccupante il fenomeno dell’usura.»
Dottor Sapio ha mai avuto paura?
«A volte sì, soprattutto quando seguivo il caso della Uno Bianca che mi costrinse a muovermi con la scorta. Ma la paura è anche quando una tua decisione può cambiare la vita di una persona. Spesso il lato umano del magistrato non viene mai preso in considerazione; quando devi emettere una sentenza oltre al rispetto della legge che viene prima di tutto pensi a quello che la tua decisione causerà nella vita di chi ti è davanti.»
PARLIAMO DI MASSONERIA.
Viaggio nella massoneria. Per tre giorni Rimini è in grembiulino per il raduno del Grande Oriente di Palazzo Giustiniani, la più antica e importante Loggia d'Italia, scrive Francesco Maria Del Vigo su “Il Giornale”. Per tre giorni Rimini è in "grembiulino". È il raduno del Grande Oriente di Palazzo Giustiniani, la più antica e importante Loggia d'Italia. Come ogni anno un esercito di massoni, muniti di squadra e compasso, invade la città romagnola per fare il punto sulla situazione. Italiana e massonica. Perchè per loro, con i loro riti e i loro costumi, sono due universi distinti ma assolutamente paralleli. Giovani, anziani, eleganti o sportivi, anonimi o folcloristici. Espansivi più che esoterici, almeno in apparenza. Nel senso che sfoggiano volentieri, davanti alle macchine fotografiche, i ricami di gonnellini e colli. ll Palacongressi di Rimini, munito di tempio blindatissimo in cui si riunisce il gotha del Goi, è addobbato come una sorta di Festa dell'Unità al sapore di esoterismo. Triangoli, squadre e compassi, chiavi di violino e simboli della vita sono sparsi ovunque. Tutto è organizzato scientificamente. All'ingresso si viene accolti da avvenenti hostess, loro in gonnellina, che smistano i maestri venerabili per ordine alfabetico e li conducono all'accettazione. Se qualcuno è ritardatario, come in ogni congresso che si rispetti, l'altoparlante lo richiama all'ordine: "Il fratello X è pregato di recarsi immediatamente al tempio". Centro inespugnabile di tutte le attività dei muratori. "Sono accreditate circa tremilaquattrocento persone – ci spiega Alberto Jannuzzelli, gran segretario del Goi -. Gli iscritti in tutto il Paese sono circa ventiduemila sparsi in 791 logge". Insomma i massoni - seppure camuffati - sono ovunque in mezzo a noi. E qui a Rimini escono alla scoperto. C'è tutto il loro armamentario, praticamente un bazar. Dai grembiulini in pelle d'agnello lavorata ("Come prevedono i testi della tradizione, solo che in questo caso le incisioni vengono fatte con il laser", si premura di precisare l'espositrice) in vendita a duecento euro, ai colli in seta ricamata (in questo caso ci si ferma a centocinquanta euro). Roba di lusso. Perchè anche tra i “muratori” c'è un'estetica e la minuzia con cui gli avventori saggiano guanti in vitello e sfiorano ornature di raso lo dimostra. "I paramenti completi da maestro venerabile - ci spiega un venditore - costano sui duecento euro ma, per chi vuole risparmiare, un grembiule base lo si trova anche a cinquanta". C'è la crisi anche per i muratori e infatti sulle bancarelle spuntano pure i salvadanai griffati con squadra e compasso. Tutt'altra storia per il Gran Maestro: "È tutto ricamato a mano, per i suoi abiti si arrivano a spendere anche alcune migliaia di euro". Noblesse oblige. Il viaggio tra i banchetti del merchandising massone è un ascensore tra l'altro e il basso: dalla spilletta alla tazza, passando per i gioielli. Vastissima anche la scelta dei libri: dai testi sui rituali ai volumi biografici dedicati ai muratori vip. E sono tanti: da Beethoven a Mozart, da Giuseppe Mazzini a Winston Churchill. Tra spade, arazzi, cravatte e simil Rolex brandizzati dal Goi, c'è pure spazio per i biscotti della colazione massonica: ci sono i baci di dama biologici e triplici (come il saluto dei fratelli) e i frollini con la squadra e il compasso. La giornata del meeting dei muratori scorre cadenzata dagli appuntamenti nel tempio, le conferenze sull'attualità (tra gli ospiti vip c'è stato anche il presidente della Corte Costituzionale Antonio Baldassarre) e i talk show condotti da Alessandro Cecchi Paone. Sabato sera il gran finale: gonnellini attaccati al chiodo e tutti a vedere il concerto di Ornella Vanoni. Anche i massoni hanno un cuore pop.
Rimini, 3 mila massoni al congresso. Trasparenti a parole, ma liste blindate. Il gran maestro Raffi dovrebbe lasciare nel 2014, ma già oggi la sua guida è paragonata a quella di Mario Monti: un tecnico che traghetta gli iscritti delle 757 logge. Lasciandosi alle spalle la P2, ma costretto a confrontarsi ogni giorno con i nuovi intrecci che si chiamano P3 e P4, scrivono Antonella Beccaria e Giulia Zaccariello su “Il Fatto Quotidiano”. È di nuovo tempo di grembiuli e cappucci a Rimini, dove sono attese migliaia di massoni per la Gran Loggia del Grande Oriente d’Italia, in programma dal 30 marzo al 1 aprile al Palacongressi. Almeno 3 mila, dicono le prenotazioni e gli accrediti, arriveranno sulla riviera romagnola per l’appuntamento annuale che riunisce gli affiliati all’organizzazione di Palazzo Giustiniani, la realtà massonica che vanta oltre 200 anni di una storia. E che dichiara di avere ancora appeal, nonostante le ombre provenienti della storia recente – l’esperienza di Licio Gelli in primis, mai tramontata e ancora piena zeppa di punti oscuri, giudiziari, ma anche politici – e le più attuali spaccature interne tra fazioni che ricordano quelle dei partiti. Da una parte gli uomini del gran maestro, dall’altra le opposizioni interne. I dati in Italia sono di fonte massonica. I numeri sembrano confortare la leadership del Goi. E non potrebbe che essere, così dato che – vista la segretezza delle liste, blindate da sempre - la fonte reca la firma del gran maestro Gustavo Raffi, autore di una recente pubblicazione, “In nome dell’uomo”, in base alla quale in Italia ci sono 21.400 massoni e 757 logge. Sempre secondo la stessa fonte, negli ultimi anni ci sarebbe stato un crescendo di iniziazioni: nel 1999, secondo il Goi, coloro che aderivano erano 12.630 mentre nel 2003 avevano raggiunto quota 15.099. Punto di svolta sarebbe stato poi il 2009, quando gli aderenti hanno per la prima volta sfondato quota 20 mila “fratelli”. A questo si aggiunga che, in base a quanto viene scritto nel libro di Raffi, “l’età media dei fratelli attivi è scesa a 53,6 anni, mentre di anni 43,2 è l’età media dei bussanti”, cioè di coloro che chiedono di essere iniziati. Sarà dunque questa la massoneria che si presenterà con l’abito buono a Rimini in periodi di tasche vuote, occupazione che scompare e tutele dei lavoratori che saltano. Una massoneria che, dopo aver elogiato il presidente del consiglio Mario Monti, intende ritagliarsi un ruolo guida. “Vogliamo e dobbiamo esserci”, dice il gran maestro Raffi. Non a caso, dunque, il congresso è intitolato “Oltre la crisi, la bussola dei valori per ritrovare l’Uomo”. In programma interventi di docenti, intellettuali e pensatori i cui nomi vanno da Gianni Vattimo a Giulio Giorello, da Aldo Masullo a Oscar Giannino e Alessandro Cecchi Paone, già presente a Rimini l’anno scorso. L’ascesa del gran maestro Raffi e le spaccature interne. Ma tutto è così edulcorato come sembra? Ciò che è certo è che il Goi si prepara a una scadenza spinosa, le elezioni del 2014 che dovrebbero chiudere definitivamente l’era Raffi. È lui la figura che si è posta l’obiettivo di superare una volta per tutte le “macchie” della P2, definita in più occasioni dall’avvocato romagnolo “lontana da noi come le Brigate Rosse lo erano dal partito comunista”. L’occupazione dello Stato (passata attraverso l’affiliazione dei più elevati vertici del mondo militare, economico e politico, oltre che attraverso gli spettri golpistici e i depistaggi nella storia delle stragi) è liquidata dunque come opera del “materassaio (lavorava alla Permaflex) di Arezzo”. Chiuso questo capitolo – almeno nelle volontà degli uomini di maggioranza relativa del Goi, rapidi nell’etichettare come “deviazioni dal libero pensiero” affiliati o presunti tali che finiscono in inchieste come quelle su P3 e P4 –, l’egida Raffi, originario di Bagnacavallo, in provincia di Ravenna, si è originata sotto i lumi di personaggi che hanno contato nel mondo di cappucci e compassi. Già di per sé la Romagna è terra di tradizione massonica, vantando nomi come quello del politico repubblicano Nevio Baldisserri e del compagno di partito Celso Cicognani, sindaco di Ravenna a cavallo tra gli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta. L’avvocato a capo da 13 anni del Goi è stato iniziato nel 1968 entrando nella loggia “Dante Alighieri”, che esiste ancora, e poi ne ha fondato una propria, “La Pigneta”, in omaggio a una realtà che proveniva direttamente dal periodo napoleonico. Infine il 20 marzo 1999 l’approdo all’apice della più estesa loggia italiana, al vertice della quale è stato per tre mandati, l’ultimo iniziato il 1 marzo 2009 con una manciata di preferenze. Ed è a questo punto che è diventata evidente una frattura interna mai ricomposta. Se c’è chi scherza sul fatto che le lotte intestine sono “normali”, quasi fossero un’altra tradizione massonica fin dai tempi dei cavouriani, oggi c’è chi gira le spalle al folklore risorgimentale e annuncia il “prossimo surclassamento della vecchia guardia”. Un surclassamento almeno tentato per esempio dal Grande Oriente D’Italia Democratico di Gioele Malgaldi. Il quale, con le sue lettere aperte al “fratello Silvio Berlusconi”, addebitava al Goi l’“assenza di qualsivoglia spazio libero messo a disposizione” degli iscritti. Raffi ha respinto quest’accusa così come quella che vorrebbe molti esponenti della sua loggia troppo vicini alle istanze del Pdl ricordando uno scontro sotterraneo ma che ha rischiato di finire nelle aule di tribunale con politici come il già coordinatore nazionale del partito Denis Verdini, carica che ha ricoperto con Sandro Bondi e Ignazio La Russa. “Le liste di ‘fratelli’? Quando ci sarà una legge che lo impone”. E in questi anni Raffi ha puntato sulla “trasparenza”. Ribadita fin dalla prima allocuzione, quella della “rivoluzione del sorriso”, è pur sempre una trasparenza a modo suo che passa più volentieri attraverso riviste, siti Internet e canali per radio e tv. Ma rimane il fatto che l’elenco degli iscritti resta tabù e Raffi ha più volte dichiarato che l’obbedienza che rappresenta lo farà solo se sarà un obbligo per tutti. “Quando ci sarà una legge che lo impone e che tutelerà i massoni dal clientelismo”, aveva detto al fattoquotidiano.it, “ci adegueremo”. Intanto, chi cita singoli iscritti o, peggio, pubblica lista di iniziati, rischia di vedersela con avvocati e querele, quando non con citazioni in sede civile per richieste di risarcimento danni. Inutile bussare anche alle porte delle prefetture, presso cui dovrebbero essere depositate le liste ma sulle quali si viene rimbalzati malgrado una legge datata 1982 contro le logge coperte. E in merito ai nomi, al momento, si spendono solo quelli spendibili a livello nazionale e internazionale per dare richiamo alla massoneria, quasi fosse (e lo sembra) una campagna di marketing. Allora ecco che, oltre agli stracitati Giuseppe Garibaldi e Giuseppe Mazzini, si indicano tra i massoni illustri i più glamour Walt Disney e Clark Gable o il principe Antonio De Curtis, in arte Totò. Oppure, ancora, esponenti più seriosi come Lando Conti, sindaco di Firenze tra il 1984 e il 1985 ucciso dalle Brigate Rosse il 10 febbraio 1986. Colui, per citare ancora Raffi, che “incarna il ritratto del perfetto amministratore” e alla lista degli illustri iniziati aggiunge “Ernesto Nathan, il più grande sindaco di Roma, del pari mazziniano e massone, addirittura Gran Maestro”. Non una parola ulteriore invece sul “materassaio”, Licio Gelli, l’uomo che uscì proprio da Palazzo Giustiniani a metà degli anni Sessanta per avviare, in un scalata prodigiosa e poco osservante dei “gradini” della gerarchia massonica, quella che “nessuno più negare che […] stata un’associazione a delinquere”, come la definì Sandro Pertini. La P2, appunto. E nemmeno oggi una parola nel commentare affermazioni come quelle dello scorso dicembre di Cesare Geronzi, anima nera della finanza italiana, che dichiarò: “La massoneria [...] conta, forse conta molto, ed è spesso segnalata come protagonista di snodi più importanti di settori politici e finanziari”.
PARLIAMO DI MAFIA.
Emilia, le mani della mafia. Un’inchiesta di Lirio Abbate de “L’Espresso”. Da Piacenza a Rimini, da Parma a Ravenna, la criminalità organizzata sta conquistando anche questa storica 'regione rossa'. Attraverso una rete di politici, imprenditori, professionisti. Che rispondono ai clan e alle 'ndrine. Si sono insediati e infiltrati. Con calma, lentamente, in poco più di un decennio hanno fatto dell'Emilia Romagna l'ultima terra di conquista. Qui le mafie non hanno usato le armi, anzi hanno evitato delitti clamorosi: si sono radicate nel territorio grazie ai soldi, senza bisogno di sparare. L'immagine choc del revolver sul piatto di tagliatelle è lontana dalla realtà: i boss si sono infilati tra la via Emilia e il West sfruttando la crisi di un tessuto economico fatto di coop e piccole imprese mettendo sul tavolo quattrini e collusioni. Così nella nebbia padana hanno creato una zona grigia dove si incontrano professionisti bolognesi e capi siciliani, politici parmensi e padrini casalesi, medici romagnoli e killer calabresi, imprenditori modenesi e sicari campani: uniti per corrompere, riciclare, investire, costruire. Una mano lava l'altra, in un circuito che diventa sempre più ricco, sempre più sporco ed irresistibile. Eppure tantissimi negano l'evidenza o la minimizzano: "La mafia qui non esiste" è uno slogan ripetuto soprattutto da politici e imprenditori, ma che nasce anche da una cultura dell'onestà che non riesce ad accettare il contagio criminale. C'è chi non vuole vedere, per interesse o calcolo. Ma tanti non riescono ad aprire gli occhi, con casi clamorosi di prefetti che ignorano la realtà e persino di magistrati che respingono nelle sentenze l'ipotesi di un radicamento mafioso in questa terra. Una miopia che regala ai boss l'habitat perfetto per alzare il tiro. Lo dimostra la vicenda di Paolo Bernini, ex assessore di Parma e consigliere del ministro Lunardi, che discuteva di affari con Pasquale Zagaria, fratello del re dei casalesi: "Non immaginavo chi fosse, mi è sembrato solo un imprenditore". Bernini è rimasto sulla sua poltrona in municipio nonostante le rivelazioni sulle sue relazioni pericolose: nessuno si è indignato, ma cinque anni dopo è finito in manette mentre intascava tangenti sulle mense degli asili. "Qui le attività illecite delle organizzazioni criminali non creano allarme sociale perché non riflettono il loro "disvalore" direttamente sulla popolazione", spiega un investigatore della polizia di Stato che conosce bene il territorio, "anche se in realtà sono per certi versi ancor più pericolosi sotto il profilo della "contaminazione" del tessuto sociale. E il procuratore capo di Bologna Roberto Alfonso sintetizza il problema: "Trovo maggiore difficoltà a fare indagini antimafia in Emilia Romagna che a Palermo, Napoli o Reggio Calabria. Qui è più difficile distinguere il buono dal cattivo, perché qui si intrecciano". E il magistrato, responsabile dell'inchieste sui clan in tutta la regione, fa la diagnosi delle metastasi criminali: "La presenza della camorra e dei casalesi a Bologna, con amici e parenti del padrino Zagaria. La certezza della presenza della 'ndrangheta, sia lungo il percorso che va da Bologna verso Parma, Reggio Emilia e Piacenza, sia a Bologna stessa, dove abbiamo presenze molto significative e importanti in forte espansione. E poi Cosa nostra, con i catanesi. Insomma, non ci manca nulla". I narcos calabresi hanno messo le tende fra il capoluogo e Reggio Emilia. A Bologna, oltre a trascorrere gli arresti domiciliari nella suite del più lussuoso albergo - come faceva Vincenzo Barbieri poi assassinato nel Vibonese - tiravano fuori dal bagagliaio della Maserati "Gran Turismo" sacchi stracolmi di banconote: i banchieri di San Marino venivano a prelevarli in città per trasportarli nei caveau del Titano. O che dire del primario di Imola che con la complicità di infermieri ha certificato il falso facendo evitare la cella ad un boss catanese che doveva scontare l'ergastolo al carcere duro. E poi geometri e ragionieri, uno di questi iscritto al Pd bolognese, al servizio delle cosche per occultare gli investimenti in immobili di pregio. C'è persino un maresciallo delle Fiamme Gialle che con il denaro sporco di un conoscente calabrese voleva finanziare una squadra di calcio a Rimini. Quando i quattrini non bastano a garantire il risultato, si ricorre alla violenza ma dosandola con cura: attentati e intimidazioni si registrano quasi ogni giorno nei cantieri o negli uffici delle imprese ma restano nelle cronache cittadine. Tanto che il presidente di Confindustria Emilia Romagna, Gaetano Maccaferri di mafia in questa regione non ha mai sentito parlare. E' di altro avviso, invece, Matteo Richetti, presidente del parlamento regionale, il quale sostiene che "la politica non può avere l'atteggiamento di chi attende l'esplosione di un fenomeno e alza la guardia per respingerlo solo con i comunicati stampa. Serve la capacità di contrastarlo". E' quasi paradossale notare come la denuncia più importante sia venuta da due imprenditori campani trapiantati nel Modenese: hanno fatto arrestare il nucleo locale dei casalesi, incluso il padre del grande capo Zagaria. Peccato che gli emiliani sembrino non aver gradito. Quella di Raffaele Cantile e Francesco Piccolo è una delle tante storie di collusione e contraddizioni che "l'Espresso" ha trovato lungo la via Emilia. Partendo da Nonantola, il centro a dieci chilometri da Modena dove vive una comunità che si è trasferita da Casapesenna: un paesino casertano che si è imposto nell'atlante mafioso come feudo di Michele Zagaria, il superlatitante catturato lo scorso 7 dicembre. I suoi uomini a Nonantola imponevano il pizzo e prendevano il controllo delle aziende. Ma solo i due costruttori campani hanno avuto il coraggio di andare dalla polizia. Raffaele Cantile e Francesco Piccolo hanno 35 e 36 anni: dopo il diploma si sono impegnati nell'edilizia, senza vizi né protezioni. Da più di dieci anni sono residenti in provincia di Modena e su di loro garantiscono gli atti firmati dalla procura di Napoli. "I pm partenopei ci convocarono subito: volevano capire se eravamo dei matti", racconta a "l'Espresso" Raffaele Cantile. Nel 2007 Michele Zagaria, all'epoca latitante, gli aveva chiesto un incontro. Il giovane costruttore si presentò all'appuntamento e dopo aver affrontato gli scagnozzi del boss, li denunciò. "I tre magistrati di Napoli durante l'interrogatorio mi chiedevano: perché fate gli imprenditori a Modena? E perché denunciate? E come mai due giovani riescono a fatturare 20 milioni? Spiegai tutto il percorso imprenditoriale che per più di un decennio, da quando avevamo 19 anni, ci aveva portato in giro per l'Italia a partecipare a centinaia di appalti pubblici e che per un gioco del destino professionale, ma anche per un fattore sentimentale, siamo rimasti a Nonantola. Secondo Cantile "in Emilia Romagna molti vogliono sottacere il fenomeno delle mafie per tenere pulito il nome del territorio o per dimostrare la buona amministrazione. Nessun sindaco vorrà mai ammetterlo, ma la mafia qui c'è". Denunciare i casalesi ha portato Cantile e Piccolo ad essere isolati dalla gente. Vengono tenuti lontani come se fossero loro i camorristi. "Dopo le intimidazioni e le bombe che ci hanno messo nei nostri uffici, e dopo le denunce contro Zagaria, non abbiamo ricevuto alcuna solidarietà dall'amministrazione pubblica. Solo Confindustria Modena, l'Ance e la polizia ci sono stati accanto". Anzi, amministratori locali e dirigenti di banca hanno cominciato a calunniarli, a marchiarli come "camorristi", a revocare fidi sulla base di voci false creando un danno alla loro impresa più forte degli attentati. Oggi seduto alla scrivania del suo ufficio a Nonantola, Cantile appare mortificato, ma capace di sferrare attacchi contro chi non fa seguire le azioni alle parole: "I politici organizzano convegni sulle mafie, con tante belle parole per combatterle, ma nei fatti non si concretizzano". L'Emilia Romagna è rimasta indietro rispetto alla Sicilia dove gli imprenditori che si ribellano vengono sostenuti dalla società civile, dalle associazioni di categoria, dalla Federazione antiracket e da Confindustria. "Attenzione a non sottovalutare ciò che avviene nella regione", avverte il presidente onorario della Federazione antiracket italiana, Tano Grasso: "Ciò che si sta verificando nelle aree del Centro-nord è quello che è accaduto agli inizi del Novecento negli Usa, con un'attività estorsiva che aveva un orizzonte di protezione etnica tra gli immigrati, che ha portato alla grande Cosa nostra americana". Pina Maisano, la vedova di Libero Grassi che con il suo sacrificio vent'anni fa animò la prima rivolta contro il racket, da un mese è diventata emiliana. Conosce bene questi posti, dove vivono alcuni suoi familiari, e dopo aver ricevuto la cittadinanza onoraria di Casalecchio di Reno, ha detto: "Proprio al Settentrione è oggi fondamentale diffondere il messaggio di Libero per combattere contro l'omertà di tutti coloro che tacciono di fronte alle infiltrazioni malavitose, nascondendosi dietro il luogo comune secondo cui le mafie sono solo una questione meridionale". Cantile ha compreso subito che il vero obiettivo dei camorristi non è il pizzo: "Quando Zagaria ci ha fatto contattare dalla latitanza abbiamo capito che lo scopo non era imporci la semplice estorsione ma appropriarsi dell'azienda. Perché una volta che mettono la valigetta con i soldi sul tavolo e ti dicono riciclali, in quel momento metti la tua vita nelle loro mani e finisce lì. Finisce da un punto di vista morale ed etico, oltre che professionale, perché diventi al servizio di questa gente. Abbiamo detto no. E siamo andati per la nostra strada con le nostre gambe. Denunciando tutto alla polizia". Altri invece cedono alla tentazione della scorciatoia, per cupidigia o perché strozzati dalla crisi: "I casalesi avvicinano gli imprenditori che lavorano al Nord e gli dicono: cosa ti serve? Vuoi fare la bella vita senza problemi? Vuoi le porte spalancate? Moltissimi dicono di sì. E diventano loro schiavi". E' con questi metodi, come sostiene il procuratore di Bologna, Roberto Alfonso, che i mafiosi si sono "radicati" nella regione fino a diventare una "presenza stabile e definitiva sul territorio degli affiliati alle organizzazioni mafiose" e tutto ciò "genera una sorta di colonizzazione da parte delle organizzazioni criminali". E' ovvio che non è come la Sicilia, la Calabria o la Campania, perché le mafie "non hanno il controllo militare del territorio", però "è certo che vi svolgono attività illecite e vi fanno affari illeciti". Tutto ciò è provato da decine di indagini avviate in tutte le province. E nuove inchieste toccano anche la politica. Fonti qualificate confermano a "l'Espresso" che "è in campo l'ipotesi investigativa che segnala una significativa e importante presenza di Cosa nostra in primarie attività economiche della regione". Indagini che potrebbero riservare sorprese clamorose. Da mesi gli inquirenti sono anche impegnati ad accertare la natura dei rapporti fra Calisto Tanzi, l'ex patron di Parmalat, l'imprenditore campano Catone Castrese, arrestato dai pm di Salerno a giugno per bancarotta, e alcuni soggetti legati alla camorra: il sospetto è che stessero organizzando un grande riciclaggio. Da quando il procuratore Alfonso ha iniziato a dare impulso alle attività antimafia sul territorio, adottando una strategia che privilegia l'aggressione ai patrimoni illeciti, molti risultati stanno arrivando. Seppur tra mille difficoltà. Perché sono tantissime - ed è anche fisiologico che lo sia - le domande di sequestro di beni bocciate dai giudici. Vengono respinte pure molte richieste di arresto per persone accusate di aver aiutato la mafia. Nella maggioranza dei casi il ricorso alla Cassazione ha poi dato ragione alla procura. I tribunali locali spesso sono apparsi quasi immaturi nel valutare le prove raccolte dalle forze dell'ordine. Se in Sicilia, Calabria o Campania un primario falsifica un certificato per tirar fuori dal carcere boss, il medico finisce sotto processo anche con l'aggravante di aver avvantaggiato l'organizzazione mafiosa. Se accade in Emilia Romagna, i giudici non riconoscono l'aggravante. Ed ecco un altro paradosso: anche l'antimafia viene importata. In Emilia Romagna contro i delitti associativi, ossia i crimini più gravi, intervengono spesso le procure di Napoli, Catanzaro e Reggio Calabria con arresti e sigilli ai tesori. Ai pm bolognesi, che collaborano quasi sempre con i colleghi, rimane il compito di punire solo i reati dei singoli boss sul territorio. E le loro complicità, con un coinvolgimento crescente dei colletti bianchi. Il penalista bolognese Manlio Guidazzi era l'avvocato del narcotrafficante calabrese Barbieri. Per gli investigatori il legale avrebbe ricoperto un ruolo che andava "ben oltre a quello del difensore", perché, si legge negli atti, Guidazzi "è perfettamente consapevole che Barbieri effettuava investimenti immobiliari e commerciali utilizzando fittizi intestatari". E Guidazzi "appare connivente nella realizzazione di tali progetti di investimento". A Modena un altro avvocato, Alessandro Bitonto, per punire due persone dalle quali aveva subito un torto, ha fatto ricorso a clienti "casalesi". Le vittime, convocate nel retrobottega di un bar sono state picchiate a sangue davanti al legale. Quest'ultimo, soddisfatto, il giorno dopo ha chiamato uno degli aggressori: "Devo ringraziarti personalmente perché ieri ho avuto una lezione di vita, nel modo di ragionare". Riciclaggio, estorsioni, spedizioni punitive contro gli imprenditori ribelli. La camorra ha messo radici in Riviera, a Rimini, Riccione, Cattolica, giù giù fino a Pesaro. Il Prefetto lancia l’allarme: a rischio sono soprattutto le attività alberghiere, ma anche bar, ristoranti, night club che sempre più spesso passano di mano, complice una crisi economica senza precedenti e una concorrenza spietata e senza regole che sta strangolando l’economia.
Droga, gioco d'azzardo e sfruttamento della prostituzione: business illegali che movimentano grandi quantità di denaro. E' dietro queste attività che nel centro-nord, Rimini compresa, si nascondono organizzazioni di stampo mafioso. Lo dice il report stilato la Regione Emilia Romagna. Le modalità di infiltrazione sono molteplici e variegate: dagli appalti pubblici (al ribasso) all'apertura di attività e realizzazione di appartamenti, scrive Angela de Rubeis da Tutto Rimini Economia su “News Rimini”. Multiculturalismo mafioso. Non si potrebbe che definire così il panorama criminale dell'opulenta Italia del nord, Emilia Romagna compresa. Rimini compresa. L'allarmismo che nell'ultimo quinquennio si è respirato in questi territori ha lasciato spazio ai numeri delle operazioni della Guardia di finanza e delle varie direzioni investigative antimafia (Dia) che si dislocano sull'intero stivale. Nessun confine qui. Le Dia italiane indagano oltrepassando i confini territoriali e il loro dinamismo è lì a testimoniare come le organizzazioni criminali ci abbiano messo un attimo a lasciare la loro casa per andare a fare affari fuori zona. La moderna emigrazione, il moderno sacco sociale del Mezzogiorno non è più fatto di braccia, di operai che si dirigono verso la Fiat di Torino e l'industria milanese, ma è fatta di banconote, di immateriale denaro, ma anche di affari, di lavori, di appalti. L'emigrazione non è più "poveraccia" ma imprenditoriale. Perché multiculturalismo mafioso? Qui le mafie convivono. Si spartiscono la torta, vivono e convivono anche con le organizzazioni transnazionali, creando un equilibrio stabile, frutto di un bilanciamento di interessi. "È solo business" recitava nella sua più famosa battuta il don più conosciuto della storia cinematografica, il don Corleone e Il padrino di Coppola. Fumo negli occhi l'assenza di violenza sui territori? Sicuramente. La pace fa fare affari. Nella relazione del primo semestre del 2008 la Direzione Investigativa Antimafia si cita la presenza della ‘Ndrangheta in molte province dell'Emilia Romagna, Parma, Piacenza ma anche Rimini: "Ove pure operano cellule di cosche crotonesi e reggine attirate dai mercati locali del gioco d'azzardo e del traffico di stupefacenti". Anche se ciò che preoccupa di più la Dda è il pericolo di infiltrazione di cellule criminali nel tessuto economico regionale. Affermazioni che sono state confermate e discusse nell'ambito di un altro importante documento, il report realizzato da Libera (con il sostegno della Regione) concentrato proprio sull'Emilia Romagna. Numeri, considerazioni e valutazioni che nascono da un'associazione che dell'antimafia ha fatto la sua ragione di vivere ma che ha visto nella partnership della Regione una novità interessante. Rimini, altro che anticorpi..."Sino a qualche anno fa, quando un magistrato o qualcun altro parlava di mafia in Emilia Romagna - ricorda Pier Giorgio Morosini, cattolichino e giudice delle indagini preliminari a Palermo – c'era sempre il politico di turno che diceva che quelle affermazioni erano azzardate e che avrebbero portato cattiva pubblicità in un territorio a vocazione turistica qual è il nostro". Tutto vero, ma adesso la Regione Emilia Romagna promuove uno studio a tutto tondo sui fenomeni criminali presenti sul suo territorio. Segno che qualcosa è cambiato? Sicuramente alcune cose sono diventate più evidenti. Gli ultimi dieci, e più intensamente cinque anni hanno portato alla luce fenomeni che sino a questo momento erano nascosti. Il dossier di Libera ne parla apertamente. Zone come Reggio Emilia, ma anche Parma, sono state palesemente vittime del prosciugamento e insediamento di talune famiglie criminali, ‘ndranghetiste in particolare. Ma anche Rimini ha avuto le sue belle docce fredde, vedi l'operazione Vulcano (vedi pezzo più avanti). I fatti sono venuti alla luce e gli emiliano-romagnoli ne sono stati protagonisti, spesso vittime. Ci si è a lungo raccontati la favoletta degli anticorpi sociali, della società capace di denunciare, di non essere omertosa, di tirare su la testa ed evitare il peggio, ma le cose si sono rivelate più difficili di quanto ci si potesse aspettare. Ci si aspettava che le mafie portassero violenza, e invece non c'è stata evidente violenza. Ci si aspettava che i territori pervasi dalle mafie fossero territori palesemente degradati, così come ci arrivano le immagini dei quartieri di Palermo o di Napoli e i nostri hanno continuato ad avere zone verdi, oltre a diversi metri cubi di cemento in costruzione. Ci si aspettava che le attività criminali fossero visibili, che gli uomini di mafia fossero riconoscibili e invece si sono nascosti in una nebulosa zona grigia che ha, più o meno consapevolmente con più o meno colpe e connivenze, ingannato e depistato.?Sono stati gli stessi boss a spiegare il modo in cui operavano. Molte intercettazioni, di uomini d'affari "moderni", hanno reso palesi conversazioni tra capi e gregari, tra il centro e le periferie?criminali che, in poche parole, spiegavano una strategia vincente: "un fari scusciu", non fare rumore. Il silenzio per fare affari è il miglior alleato immaginabile. "Droga, gioco d'azzardo e sfruttamento della prostituzione: business illegali che movimentano grandi quantità di denaro, dietro alle quali, in?ultima battuta e dopo aver escluso la filiera della manovalanza, non possono che nascondersi organizzazioni di stampo mafioso" si legge nel report. Immense moldi di denaro. Seppure questa regione abbia delle caratteristiche differenti rispetto alle più pervase Lombardia e Piemonte non si è più potuto negare che i mercati illegali siano pienamente controllati dalle organizzazioni criminali. Questo era immaginabile, a tratti accettato e consolidato come fatto. Sino a qui ci si muoveva nel territorio dell'illecito, quello che meno si è riuscito a comprendere, e vedere, è stato il sistema di narcotizzazione dell'economia legale. L'economia è stata letteralmente drogata, devastata nei suoi naturali processi da imponenti moli di denaro che le organizzazioni criminali hanno messo sul piatto della bilancia. Il discorso qui diventa complesso, le modalità di infiltrazioni economiche sono molteplici e variegate, la fantasia di certo non manca. Si parla di usura, ma non di usura semplice bensì di un sistema di strozzinaggio che ti porta a cedere l'azienda. Si parla della possibilità di accedere ad un appalto pubblico giocando al gioco del ribasso del prezzo perché si hanno a disposizione grandi somme di denaro e perché quel lavoro diventerebbe pretesto per lavare i soldi sporchi, derivanti dai traffici illeciti. Si parla, poi, di aprire attività o realizzare appartamenti grazie a quei soldi ripuliti. Insomma si parla di un'economia completamente drogata, come dicevamo. In quest'ottica, nell'ottica del "è solo business" questi territori non possono che apparire delle isole felici per i criminali. Qui si ricicla che è una meraviglia grazie alla possibilità di fatturare, come ci hanno insegnato in matematica "al limite dell'infinito", attraverso i locali da ballo e le attività turistiche. E poi si possono prendere appalti, si possono costruire appartamenti e aziende senza che queste sembrino delle cattedrali nel deserto come invece sembrerebbero se i territori fossero quelli degradati del sud ai quali accennavamo in precedenza. Una vena d'oro, l'Emilia Romagna. "Una sorta di speciale attitudine a guidare sofisticate manovre di infiltrazione economica e mimetizzazione sociale, realizzate talvolta mediante il ricorso all'estorsione e all'usura, ma più spesso attraverso l'azione di proprie espressioni imprenditoriali fiduciarie (soprattutto nel mercato delle opere pubbliche e, in genere, dell'edilizia) ovvero la gestione di complesse operazioni di reinvestimento speculativo di capitali di origine delittuosa". Non a caso tre dei cinque beni confiscati alla criminalità organizzata a Rimini sono aziende. Non a caso sei mesi fa il Sole 24 ore, nel pubblicare un rapporto redatto dai funzionari di polizia italiana, giungeva alla conclusione che in una città come Rimini si ricicla più che a Palermo. Nessun caso. "E' solo business". Focus riciclaggio. Operazioni sospette, cresce la guardia. Secondo i dati dell'Unità di informazione finanziaria, la struttura di Banca d'Italia deputata a ricevere e analizzare agli organi investigativi operazioni sospette, Rimini è passata in due anni da 93 a oltre 400 segnalazioni. Appena 18 però quelle provenienti da professionisti e operatori economici. Il primo gennaio 2008 viene istituita presso la Banca d'Italia l'Unità di informazione finanziaria (Uif), struttura nazionale incaricata di ricevere, analizzare e comunicare agli organi investigativi le informazioni che riguardano ipotesi di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo. Tra i compiti dell'Unità: l'approfondimento finanziario, anche mediante ispezioni e segnalazioni di operazioni sospette. Quelle operazioni, cioè, sulle quali è ipotizzabile un'attività di riciclaggio. A fornire le segnalazioni sono gli istituti bancari, le Poste, gli intermediari finanziari, ma anche professionisti e operatori non finanziari. Il punto è che da queste figure, nello specifico, vengono prodotte poche segnalazioni e nella maggior parte dei casi di scarsa utilità. È questo un nodo ampiamente discusso nell'ultimo anno: il ruolo dei professionisti. I numeri che indica l'ex governatore della Banca d'Italia Mario Draghi alla Commissione antimafia, sono allarmanti. L'Emilia Romagna ha inviato il 6,4% di segnalazioni sospette nel 2007, il 7% nel 2008, e il 6,9% nel primo semestre del 2009. La Regione, così, si posiziona al quinto posto della classifica nazionale delle operazioni "grigie". Per quel che riguarda il primo semestre del 2011 si registrano 1.250 segnalazioni sospette che provengono principalmente da istituti bancari e dalle Poste. Il report realizzato da Libera riporta alcune considerazioni fatte dalla Uif, che ben mettono in luce le crucialità del caso: "Le segnalazioni dei professionisti e degli altri operatori economici non finanziari sono state appena 18, oltre la metà delle quali effettuate da notai. La dinamica più significativa fra il 2008 e il 2010 è evidenziata dalle province di Rimini e di Modena, che hanno visto rispettivamente quadruplicarsi e triplicarsi le segnalazioni". Rimini è passata dalle 93 segnalazioni sospette del 2008, alle 436 del 2010, il 17% di quelle realizzate in regione, preceduta solo da Bologna con il 21%. Di tutti questi numeri quello che intristisce un po' sono le 18 segnalazioni di professionisti e degli altri operatori economici. Nessuna accusa. Certo è che molto spesso le operazioni investigative hanno messo in luce il ruolo cruciale che hanno avuto queste figure: avvocati, notai, commercialisti. E noi siamo fermi a 18. Bruno Piccioni, Presidente dell'Ordine dei Commercialisti di Rimini, ha la sua risposta a quella che sembra un'anomalia. "Fatico a pensare che un malavitoso faccia ricorso ad un commercialista del posto. Credo siano persone che fanno grandi affari e che sicuramente avranno i loro, di commercialisti. E poi noi non sappiamo cosa un commercialista faccia nel suo ufficio, e quante segnalazioni faccia. I dati della Uif sono generici in tal senso". La guardia è comunque alta. Lo scorso anno lo stesso Ordine organizzò un convegno dedicato a questi temi, spiegando non solo cosa si dovesse fare in caso sorgesse un dubbio sulla natura di una transazione ma specificando anche il rischio che si potrebbe correre ad infilarsi in un affare malavitoso. "Il 60% dei nostri iscritti - continua il presidente – ha meno di 40 anni. Sono giovani, il rischio che vengano attirati dai soldi facili può esserci, ma io ricordo sempre loro che i pericoli sono tanti, per loro, per le loro famiglie. Io ho sempre sentito dire che da certi contesti si esce solo in orizzontale". Secondo Piccioni, quindi i commercialisti tengono bene gli occhi aperti, soprattutto nei casi di passaggi di proprietà. Recentemente anche il Comando provinciale della Guardia di finanza di Rimini ha diffuso dati interessanti rispetto al riciclaggio di denaro. Nel 2011 sono state arrestate 15 persone e sequestrati 30.600 euro mentre la quota di riciclaggio accertato si aggira intorno ai 3,4 milioni di euro. Un mare di denaro e un balzo, rispetto al 2010, impressionante se si pensa che in quell'anno alla voce "riciclaggio accertato" il contatore si fermava ad appena 220 mila euro e 8 persone denunciate contro le 123 di quest'anno. Non saranno tutti soldi mafiosi ma più di una pulce deve saltare all'orecchio. Lo stesso comandante provinciale Mario Vanceslai ha dichiarato che "c'è una grossissima componente di persone che soggiornano in provincia e che vivono di espedienti o collegamenti ad associazioni criminali. Con Polizia e Carabinieri stiamo mettendo in campo un progetto mirato". L'antimafia a Rimini. "Sulla riviera vigila costantemente un procuratore distrettuale antimafia" ha rivelato il questore riminese Oreste Capocasa di recente, nel corso di un'incontro pubblico. Gli occhi sono puntati quindi. Da quando il "Vulcano" è esploso non solo parte della società civile, ma anche diverse amministrazioni hanno aperto gli occhi rispetto alla possibilità di essere "infiltrati" a casa propria. In merito Libera scrive che: "A Rimini e provincia le cosche calabresi, per lo più quelle originarie del crotonese e del reggino, sono particolarmente attive nei mercati legali del gioco d'azzardo, e in quelli illegali del traffico di stupefacenti. Presenti anche i casalesi, di cui va registrato l'arresto nel 2009 del figlio del boss Francesco Schiavone proprio in provincia di Rimini. Tuttavia, di fronte all'avanzata mafiosa si assiste a un positivo fermento. Culturale, sociale, associativo, ma anche politico". È neonato, infatti, l'Osservatorio provinciale per monitorare la minaccia mafiosa. Proposta avanzata da numerose associazioni e raccolta dalle istituzioni provinciali e locali. Sfruttato il bando della Regione per la promozione attiva della legalità, la Provincia con la partecipazione della Prefettura di Rimini, della Questura, dei Comandi provinciali dei Carabinieri e della Guardia di Finanza, dei Comuni, ma anche delle associazioni, dei sindacati e della Camera di Commercio di Rimini ha costituito quest'occhio di vigilanza. Tra i primi ad aderire al progetto, i Comuni di Cattolica, Bellaria, Rimini e Riccione. L'Osservatorio sarà gestito dalla Provincia di Rimini, anche tramite un sito internet dedicato, in modo da far confluire le banche dati possedute dai vari enti. "Un progetto interessante, che nasce anche dall'importante spinta dal basso.
MAGISTROPOLI.
Il Resto del Carlino titola: Bufera sui giudici / Un’inchiesta ‘imbarazzante’ la Procura sceglie il silenzio / Sono quattro i magistrati riminesi coinvolti nell’indagine della Finanza. Omessa presentazione della dichiarazione dei redditi. Un reato formale, almeno per ora, quello che verrebbe contestato ai 19 giudici italiani che lavorano a San Marino. Dagli inquirenti non esce una parola, e anche il procuratore della Repubblica di Rimini, Paolo Giovagnoli, titolare dell’indagine, preferisce il silenzio. Un’inchiesta decisamente ‘imbarazzante’, nata sull’esposto presentato da una cittadina sammarinese (prima sul Titano e poi in Italia), dove puntava il dito sulle residenze fittizie dei giudici italiani in Repubblica, e della conseguente mancata dichiarazione al Fisco dei guadagni. E per gli investigatori non ci sarebbero molti dubbi sul fatto che i compensi percepiti sul Titano dai magistrati di casa nostra, dovevano essere dichiarati in Italia. L’inchiesta delle Fiamme Gialle è solo all’inizio, e la Procura di Rimini si sta occupando solo dei quattro magistrati riminesi. Per gli altri (provenienti da Pesaro, Ancona, Bologna e Reggio Emilia), è stato fatto uno stralcio, inviato alle procure competenti. Nel mezzo, ci saranno ‘battaglie’ (già cominciate) sull’interpretazione della legge, sui conti delle tasse che i magistrati pagano già a San Marino e sulla residenza che è stata concessa loro sul Titano.
Ed ancora da Il Corriere di Romagna: "L’inchiesta penale della guardia di finanza sui magistrati in servizio al Tribunale sammarinese ma domiciliati a Rimini va verso l’archiviazione. Il procedimento amministrativo, invece, va avanti e si annuncia salato: i giudici evasori, in tutto 19, rischiano infatti di dover pagare a testa 250mila euro. Secondo l’accusa, i magistrati dichiaravano di risiedere sul Titano pur vivendo in Italia allo scopo di beffare il Fisco. La legge italiana prevede che i compensi percepiti all’estero debbano essere riportati nella dichiarazione dei redditi. Per ciascun magistrato sarà aperta quindi un’accurata verifica fiscale. L’esito dei controlli della fiamme gialle passerà poi all’Agenzia delle entrate per un conto salatissimo, salvo poi diminuire mediante contenziosi, ricorsi e patteggiamenti.
MAGISTRATO DI RIMINI ALLA SBARRA A FIRENZE. Arturo Di Crecchio, 66 anni, procuratore della Repubblica di Rimini, è comparso ieri mattina davanti ai giudici del Tribunale di Firenze per rispondere delle accuse di interesse privato in atti d' ufficio e di rivelazione di segreti d' ufficio, accuse con le quali si sono concluse due diverse inchieste condotte dalla magistratura fiorentina, scrive “La Repubblica”. I due procedimenti sono poi stati unificati in un solo procedimento. Uno degli episodi risale al dicembre '81 e riguarda la causa di separazione tra l' industriale Pier Paolo Amati e la moglie Paola Magnani, una separazione che diventò fatto di cronaca perché la signora chiese al marito, per giungere all' accordo, la cifra di sei miliardi di lire. Paola Magnani conosceva Di Crecchio il quale, secondo l' accusa, proprio per favorire la signora chiese al nucleo di polizia tributaria di Forlì di procedere ad accertamenti e verifiche fiscali nei confronti di Pier Paolo Amati e trasmise in copia integrale alla cancelleria civile del Tribunale di Rimini i rapporti della guardia di Finanza dai quali risultavano le elevate disponibilità finanziarie dell' industriale.
Romano Dolce, il giudice scomodo. Dalle inchieste sul nucleare, che passarono anche da Rimini, alle minacce di morte al declino. "In piazza Cavour un collega mi confidò 'ti faranno fuori' ", scrive Fausta Mannarino su “Romagna Noi”. Negli anni Novanta, dopo l’arresto di un cittadino svizzero e di tre suoi complici sul confine italo svizzero, trovati in possesso di 0,3 milligrammi di plutonio, il giudice Romano Dolce aveva iniziato a indagare sulla fuoriuscita di materiale nucleare dalla Russia. All’epoca Dolce non aveva ancora capito che parlare di nucleare in Italia è tabù e che mettere il naso in certe questioni avrebbe comportato per lui una condanna all’isolamento e alla discriminazione. Di lui si diceva che aveva sfruttato gli scenari del crollo dell’impero sovietico per costruire maxi inchieste su commercio di materiale radioattivo ed era stato poi formalmente accusato di essersi inventato tutto di sana pianta, che lo faceva per la gloria e magari per una poltrona al posto di procuratore capo a Como. Un’etichetta che non è riuscito a scrollarsi di dosso e che gli sono costati uno stop di 14 anni, un mese di galera, uno di arresti domiciliari, 7 anni per la fissazione del dibattimento, una prima condanna e poi in appello, l’assoluzione per non aver commesso il fatto, su richiesta dello stesso procuratore generale. Prima che Dolce finisse nella lista nera dei funzionari dello Stato sospettati di collusione con la criminalità (era stato accusato di associazione a delinquere, abuso d’ufficio, corruzione, contrabbando, ndr), la scrittrice Claire Sterling aveva scritto di lui nel libro “Un mondo di ladri”, edito da Mondadori e poi misteriosamente ritirato di tutta fretta dal mercato alcuni giorni dopo la pubblicazione: “...il cittadino svizzero venne consegnato al giudice romano Dolce destinato a diventare il primo magistrato occidentale a ricostruire la fuga dei materiali nucleari russi. Basso, snello, energico, inquisitivo ma determinato, ha cercato per due anni di farsi strada fra ostacoli insondabili e quasi insuperabili”. Del suo successivo reintegro in magistratura, del risarcimento pagato dallo Stato italiano per l’ingiusta detenzione e infine del suo arrivo a Rimini si è già velatamente detto. Quel che Dolce ha aspettato di tirar fuori dal sacco solo dopo il pensionamento, è la sua personale chiave di lettura del calvario giudiziario che l’ha visto protagonista.
Perché Sterling parlò di ostacoli insondabili?
«Perché i miei tentativi di indagare su questioni, evidentemente all’epoca dei fatti, inopportune, venivano in un modo o nell’altro bloccati.»
Ritiene di essere stato boicottato?
«Altrimenti non posso spiegarmi la ragione per la quale non furono eseguiti due mandati di cattura internazionale nei confronti dei fratelli Kunzin, due russi sospettati di traffico di materiale nucleare. Un’altra volta mi fu impedito di controllare due vagoni fermi alla stazione di Chiasso e diretti in Italia, su cui si sospettava ci fossero scorie di materiale radioattivo.»
Chi diceva che si trattava di materiale radioattivo?
«I due scienziati con i quali collaboravo mi avevano avvisato che alla dogana avvicinandosi ai vagoni sospetti, i rilevatori Geyger erano come impazziti. Avuta la segnalazione organizzai di tutta fretta un vertice in Procura con i funzionari doganali per avere l’autorizzazione per verificare il contenuto di quei vagoni. Ma invece dell’autorizzazione mi arrivò una lavata di capo da parte del procuratore che negò l’autorizzazione.»
All’epoca collaborava con il faccendiere Aldo Anghessa considerato personaggio inaffidabile.
«Non allora. Mi era stato presentato dal capo di gabinetto della questura di Como. Lui lo aveva personalmente condotto nel mio ufficio dicendomi che era un agente segreto defenestrato ingiustamente dal Sisde nell’87 e che poteva fornirmi notizie di reato che se si fossero rivelate esatte, con una mia attestazione, avrebbero potuto farlo rientrare nei Servizi dai quali era stato allontanato. Accettai la proposta anche se il Procuratore capo mi disse di non fidarmi troppo e di non riceverlo in Procura. Raccomandazioni sicuramente doverose, che però non impedirono al Procuratore di sequestrare a sua volta armi, su input di Anghessa. Solo che il collega non mi comunicò mai le sue brillanti operazioni, ma si limitò dopo appena una settimana dal rinvenimento delle armi, a chiedere e ottenere l’archiviazione dell’inchiesta. Solo dopo scoprii che su di lui pendeva un ordine di cattura emesso 9 anni prima di cui il Sismi era a conoscenza. Traffici nucleari che avevano toccato anche Rimini? Certo. Il 28 agosto del ’92, Angessa e un colonnello della guardia di finanza convinsero il sostituto Sapio a sequestrare delle barre di uranio impoverito in possesso di tre agenti segreti.»
C’era un collegamento tra i ritrovamenti effettuati da lei in Lombardia e quelli in Romagna?
«Non ho mai potuto scoprirlo perché mi fu impedito in ogni modo di parlare con l’ufficiale della Finanza accampando scuse assurde. Mi dissero che era stato trasferito come se il trasferimento fosse un motivo per non incontrare un investigatore. Seppi poi che era stato sottoposto a perizia psichiatrica (che rilevò la sua sanità di mente) e lui si allontanò dalle Fiamme gialle. Sapio a sua volta, era andato in pensione e mi ritrovai a contattare l’allora procuratore capo Franco Battaglino. Gli feci il nome dei due scienziati che si occupavano di nucleare (Gualdi e Sgorbati). Mi disse che pensava di contestare agli arrestati la detenzione di parti di armi da sparo ma io obiettai che non era così. Dall’uranio si può ricavare il plutonio, materiale fissile (serve per le testate dei missili nucleari). Doveva e poteva contestare il contrabbando di materiale illegale, impostazione giuridica che mi era stata riconosciuta nel caso di altri rinvenimenti. Quando poi cercai a lungo di stabilire un contatto con Battaglino per sapere come fosse andata a finire, non riuscii a trovarlo per mesi. Appresi poi che i tre dei servizi segreti erano stati scarcerati e che una perizia, che non ebbi modo di leggere, sosteneva che la merce rinvenuta era irrilevante, sulla base di una perizia preconfezionata dallo stesso Sismi.»
In quel periodo collaborava con l’Aiea, Agenzia internazionale dell’Energia atomica?
«Sì e fui invitato a parlare a Parigi nel corso di una conferenza che fu ripresa anche dai mass media, per l’Italia c’era il quotidiano “La Stampa” con un articolo di Barbara Spinelli. Dall’Aiea appresi notizie riservatissime in una rogatoria svolta a Vienna.»
Riservatissime perché?
«Venni a sapere in che cosa consisteva il traffico di uranio impoverito verso il terzo mondo. Con l’uranio impoverito si possono realizzare proiettili devastanti e poi che può essere in grado di produrre plutonio. Sua anche un’inchiesta sul traffico di dollari falsi. Si parlava dell’introduzione di dollari falsi nel territorio russo (reato punito con la pena di morte). E sull’argomento ho avuto contatti palesi con le autorità russe a Roma, nella sede dell’Interpool e al tribunale di Como, nonché con il generale Mori (funzionario della Banca d’Italia ed esperto in falsi nummari, fratello del generale Mori allora in servizio a Palermo).»
Perché creava allerta l’introduzione di dollari falsi in Russia?
«Perché si trattava di enormi quantitativi di banconote e si ipotizzava che esistesse una precisa regia per “drogare” e destabilizzare l’economia russa. Su queste inchieste e altre relative al sequestro di armi da guerra (in particolare fucili mitragliatori a raffica confezionati solo in Italia) e sul conferimento di residenze fittizie ad affiliati dell’Opus Dei, mi preoccupai di assicurarmi la collaborazione e protezione del Sismi. A Roma, 15 giorni prima della sua morte, incontrai anche Giovanni Falcone al Ministero di Giustizia.»
Perché fu convocato da Giovanni Falcone?
«Mi disse che non potevo continuare a lavorare da solo. Che avevo bisogno di uomini e mezzi. Mi era stato già assegnato un armadio blindato alto come un frigorifero che però mi ero accorto, veniva aperto e ispezionato di notte. Mi assicurò che mi avrebbe riservato i mezzi necessari, ma disse testualmente “per deontologia avrei dovuto passare attraverso il procuratore capo Mario Del Franco”.»
Procuratore capo che riconobbe le sue necessità?
«Dico solo che non ritenne opportuno neppure l’acquisto di una misera fotocopiatrice.»
Cosa le predisse il collega riminese durante l’incontro in piazza Cavour a Rimini?
«Mi confidò di aver saputo dal Sismi che avrebbero cercato di farmi fuori. Disse che sapeva che alcuni propendevano per l’eliminazione fisica, i più intelligenti per lo screditamento del mio ruolo. Che poi è ciò che è avvenuto. Tali inchieste non dovevano essere portate a conoscenza dell’opinione pubblica e per impedirlo venni incriminato di una serie di reati assurdi al punto che le mitragliatrici sequestrate a carico di ignoti si trasformarono in una collezione di armi che secondo loro andavo ad acquistare personalmente in Svizzera. Per tale teorema estraneo perfino a Pitagora fui arrestato e trattenuto per un mese in una cella di isolamento per riflettere sul contenuto di una ordinanza cautelare incautamente emessa dalla Procura di Brescia e frantumata con molta calma, prima dal gip, poi dal Tribunale e infine dalla Corte d’Appello di Brescia. Fui io stesso a scovare le prove che permisero ai giudici dell’Appello di scagionarmi. La richiesta di assoluzione venne dallo stesso procuratore generale.»
Le è capitato di avere paura?
«Prima di finire in manette temevo per la mia vita. Ero stato in passato già minacciato di morte dall’N’drangheta e per questo una pattuglia sostava la notte sotto le finestre di casa mia. Dopo le inchieste sul nucleare temevo che non potesse essere sufficiente. Per cui, per tutelarmi, avevo depositato nelle mani due diversi notai una memoria, una relazione fitta di nomi e circostanze. Però, nell’ambito dell’accusa di corruzione, c’era una telefonata intercettata che secondo gli inquirenti era chiara come il sole.»
Lei chiedeva al suo interlocutore: “Questi spiccioli, quando me li porti?”
«Sì è vero. E’ stato intercettato il dialogo con la moglie di un mio collaboratore (finito pure lui sotto inchiesta, ndr e poi assolto). Avevo prestato 250mila lire al collaboratore che aveva dimenticato il portafoglio a casa con l’accordo di restituirmeli il giorno successivo. Non vedendolo avevo chiamato la moglie. Tutto qui. Chiamato il collaboratore, che aveva confermato le mie parole, gli inquirenti, volendo, avrebbero potuto chiarire subito l’equivoco. Invece si andò a processo, in primo grado caddero le accuse relative all’associazione a delinquere, alla corruzione, all’abuso d’ufficio e restarono in piedi il traffico di armi, dai quali riuscii a difendermi nel corso del primo interrogatorio. Parlai per 18 ore di seguito.»
Veniamo a Rimini. Sono state fatte insinuazioni sul processo Tucker. Perché ha concesso agli imputati la perizia?
«Sul processo Tucker la imprevedibile rinuncia alla prescrizione si è tradotta per alcuni imputati nel desiderio di conoscere senza limiti di tempo se la loro protesta di innocenza poteva essere valutata meglio attraverso una perizia. Ma la perizia disposta su richiesta della difesa non era il mostro che avrebbe necessariamente divorato l’accusa era e credo rimarrà uno strumento per capire meglio se il tubo Tucker ha una sua dignità di esistere o se è soltanto qualcosa che non vale...un tubo.»
Perché ha iniziato a scrivere poesie?
«A 14 anni, un professore di ginnasio per poter leggere in pace il Corriere dello Sport ordinò a tutta la classe di scrivere una poesia sulla neve. Quel giorno a Campobasso la neve scendeva a falde ed infondeva un senso di pace. Ho continuato a scrivere poesie perché lo stesso professore, con un senso di complicità, mi confidò: “continua a scriverle, faranno bene a te stesso”.»
Mai pensato di scendere in politica?
«Mi ha sempre affascinato. Seguivo i comizi di ogni colore. Oggi non fremo più perché in piazza manca il rispetto per il comizio.»
Come giudice non propendeva troppo per la difesa? E’ la Costituzione che considera l’imputato un presunto innocente, perché dovrei essere contro la costituzionale presunzione d’innocenza dell’imputato? Sulla mancata estradizione di Battisti che dice?
«Dico che non è certo andato a nuoto dalla Francia al Brasile ma protetto dai servizi segreti. E all’epoca, in Italia, governava Prodi con D’Alema ministro degli esteri.»
Della condanna a 14 anni per traffico di stupefacenti del generale Ganzer cosa ne pensa?
«Sul generale Ganzer è in vigore, per il momento, la presunzione di innocenza. Per lui e per tutti credo nello Stato di diritto.»
Perché il sistema giustizia in Italia funziona male?
«Perché ci sono troppi reati che io definisco “bagatellari” che si potrebbero risolvere sul piano amministrativo, senza oberare gli uffici dei tribunali che dovrebbero pensare a perseguire i reati più importanti.»
In Italia ci sono troppi reati, è una via lattea giudiziaria...
«E’ stato accusato di parlare troppo con gli avvocati e con i giornalisti. Il giudice, a mio modo di vedere, deve isolarsi per decidere. Mai prima. Sarebbe portatore solo di se stesso. Mentre la giustizia è intorno agli altri.»
Cosa dice delle contestazioni, di natura disciplinare che le sono state mosse?
«Le avrei affrontate con ragionevole serenità. Posso dire che le contestazioni mi hanno sempre stimolato, mai abbattuto. Da pensionato non mi appartengono.»
Le sue dimissioni a novembre, hanno sorpreso. Perché non è restato?
«La mole di lavoro, 1200 sentenze in due anni, tutte depositate nei termini, ha inciso sulla glicemia che combatto da circa 5 anni e mi ha portato tanto vicino ad un coma diabetico.»
Come trascorre il tempo?
«Passo molte ore su Facebook.»
Su Facebook, ma scusi lei non era quel magistrato che non sapeva neppure usare il computer?
«Chi l’ha detto? Nella mia breve permanenza a Rimini ho imparato anche questo, anche se nella mia vita, in precedenza, non avevo mai battuto a macchina neppure una lettera.»
Via da Rimini Luigi Tosti: perseguitava l’amante e suo marito, scrive “Il Corriere della Sera”. Per aver realizzato un complesso di iniziative anche giudiziarie, apparse persecutorie nei riguardi di una coppia di coniugi, e per aver reso di pubblico dominio, tra l' altro con la trasmissione Uno mattina, l'esistenza di una sua relazione extraconiugale con la donna, un magistrato è stato trasferito d' ufficio per incompatibilità ambientale dal Csm. Si tratta di Luigi Tosti, giudice del Tribunale di Rimini (che faceva parte del collegio giudicante di uno dei processi che vide imputato Vincenzo Muccioli). Secondo il Consiglio con i suoi comportamenti avrebbe determinato una situazione di oggettiva riduzione del prestigio e fiducia di cui ogni magistrato deve godere. A promuovere l' intervento del Consiglio è stato il ministro della Giustizia, in seguito ai risultati di un' ispezione ministeriale. Il magistrato, secondo l'accusa, avrebbe inviato arbitrariamente una psicologa a casa della coppia per informare l'uomo che sua moglie aveva avuto con lui una relazione, per manifestare dubbi circa l' effettiva paternità della figlia e quindi per indurre l'uomo a avviare l'azione per il disconoscimento della piccola. Quindi avrebbe promosso una serie di iniziative, apparse "persecutorie", e che portarono prima alla nomina di un curatore speciale della bambina, successivamente revocata, e poi all' incriminazione dell'ex amante per il reato di alterazione di stato, dalla quale la donna è stata in seguito prosciolta. A carico di Tosti anche l'accusa di aver voluto dare "straordinaria pubblicità" alla sua relazione con la donna, ispirando, ma tale contestazione è stata respinta dal magistrato. due articoli sulla vicenda comparsi sul Messaggero e partecipando a Uno mattina. Con i due articoli e con la partecipazione a Uno mattina Tosti, secondo il Consiglio, avrebbe consapevolmente posto in essere "una scelta di campo in violazione dei più elementari doveri di riservatezza".
Assolto Luigi Tosti, cacciato dalla magistratura perché da giudice non voleva celebrare processi sotto la tutela simbolica del crocifisso, scrive Paolo Zignani. Come andrà finire, con un’aula di tribunale per i cattolici e una per i non cattolici? Apartheid vecchio stile? Lo si saprà quando si conosceranno le motivazioni della sentenza: intanto però va apprezzata l’assoluzione decisa dalla Corte d’Appello dell’Aquila. Il giudice Luigi Tosti non è colpevole ma innocente per essersi rifiutato di celebrare i processi sotto il solito crocifisso che dilaga anche dove non si celebrano funzioni religiose e ma ci sono persone d’ogni o nessuna religione che chiedono giustizia non alla Chiesa ma allo Stato. Il ministro Castelli aveva mandato nel 2004 un ispettore presso il tribunale di Camerino, dove il giudice Tosti aveva collocato un emblema di Democrazia Atea accanto al crocifisso. Ma il ministro leghista probabilmente non aveva capito la serietà dell’intervento di Tosti, che ne esce vincitore. Questo il comunicato di Democrazia Atea che ha difeso con l’avvocato Carla Corsetti l’ex giudice. La Corte D’Appello de L’Aquila ha assolto il dr.Tosti, già condannato dal Tribunale de L’Aquila ad un anno di reclusione e all’interdizione dai pubblici uffici, perchè il fatto non sussiste. Il dr.Tosti, Giudice presso il Tribunale di Camerino, si era rifiutato di celebrare le udienze sotto la tutela simbolica del crocifisso e ne aveva sollecitato la rimozione. Nel corso dell’udienza che si è tenuta stamani davanti alla Corte d’Appello de L’Aquila, i difensori del dr.Tosti, gli avvocati Carla Corsetti e Dario Visconti hanno sollevato preliminarmente la questione della illegittima esposizione del crocifisso anche nell’aula ove si stava celebrando il processo d’appello. La Corte si è riunita e dopo circa un’ora di camera di consiglio, ritenendo fondata l’eccezione sollevata, ha disposto che il processo dovesse essere celebrato nell’Aula Magna priva di simboli religiosi. La Corte quindi ha implicitamente confermato che l’esposizione del crocifisso viola i diritti fondamentali di libertà di coscienza ma la soluzione adottata ha materializzato una ennesima discriminazione in danno del Tosti e in danno dei suoi difensori perché è stato come sostenere che esiste un’aula per i cattolici e un’aula per i non cattolici, un po’ come gli autobus per i bianchi e gli autobus per i neri. La Corte depositerà le motivazioni entro il 15 settembre e sapremo se le ragioni che hanno adottato i Giudici dell’Appello faranno riferimento alla violazione dei diritti umani, le stesse violazioni denunciate dal dr.Tosti quando ha intrapreso questa battaglia di civiltà. Ecco come il Luigi Tosti ha presentato il suo processo, sul suo blog personale: Il 5 luglio prossimo verrà discusso dinanzi alla Corte di Appello dell’Aquila il ricorso che ho proposto contro la condanna ad un anno di reclusione e all’interdizione dai pubblici uffici che mi è stata inflitta, nel 2008, perché mi sono rifiutato di tenere le udienze sotto l’imposizione del crocifisso cattolico. Ricordo che il mio rifiuto è scaturito dalla circostanza che l’esposizione obbligatoria nei tribunali statali italiani di un simbolo confessionale viola non solo l’obbligo dello Stato italiano – e quindi dei giudici – di amministrare la giustizia in modo visibilmente imparziale e neutrale, ma anche il diritto di libertà religiosa delle persone che, per ragioni di lavoro o di giustizia, sono obbligate a lavorare e/o frequentare gli uffici giudiziari. Io sono un cittadino italiano che, dopo aver superato un concorso pubblico, ho accettato di lavorare non in un tribunale ecclesiastico o della Santa Inquisizione -alle dipendenze del Vaticano- ma alle dipendenze del Ministero di Giustizia di una Repubblica “laicale, quindi, in tribunali che non possono imporre né ai dipendenti né ai cittadini l’obbligo di condividere atti di manifestazioni di libertà religiosa né connotazioni religiose partigiane dell’attività giurisdizionale espletata. La Costituzione recita infatti che “la giustizia è amministrata in nome del popolo -e non in nome del dio dei cattolici- e che “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”, davanti alla quale tutti i cittadini “sono eguali, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. E conclude: “A causa di questo mio rifiuto sono stato rimosso dalla magistratura nel 2010 dalla sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, presieduta dall’insigne politico e giurista Avv. On. le Nicola Mancino”.