Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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SILVIO BERLUSCONI
L’ITALIANO
PER ANTONOMASIA
DI ANTONIO GIANGRANDE
SILVIO BERLUSCONI: L’ITALIANO PER ANTONOMASIA.
BERLUSCONISMO: SIAMO TUTTI UN PO’ SILVIO BERLUSCONI.
Biografia pubblica dell’uomo che per un ventennio ha rappresento i vizi e le virtù degli italiani: solidali ed avversari.
SOMMARIO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
COS’E’ LA POLITICA OGGI?
DA RICATTATORI A RICATTATI...
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
INTRODUZIONE: LA GUERRA A BERLUSCONI.
IL DELINQUENTE ABITUALE.
LA FINE DELLA DIVERSITA' MORALE. I PANNI SPORCHI SI LAVANO IN...LA REPUBBLICA.
GLI ULTIMI 25 ANNI DEGLI ITALIANI.
LE BUGIE DEI POLITICANTI CHE SCHIAVIZZANO I NOSTRI GIOVANI.
LA POLITICA DEL CENTRO DESTRA NEL REPARTO DI GERIATRIA.
SILVIO BERLUSCONI ED I PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA GOLPISTI.
COMUNISTI: PERIODICHE INCHIESTE PRE ELETTORALI PER VINCERE FACILE. DAL CINEMA AI GIORNALI CON LA MACCHINA DEL FANGO.
SILVIO BERLUSCONI E LE ACCUSE DI MAFIOSITA'.
2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.
FARSA ITALIA. UNA GIORNATA DI ORDINARIA FOLLIA.
27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.
LA SINDROME DI MEDEA.
COSA PENSA LA MAGGIORANZA DEGLI ITALIANI? «È UNO DI NOI». E CHI NON LO PENSA, LO TEME.
IL CORPO DEL CAPO.
LA BIOGRAFIA PUBBLICA TRIDIMENSIONALE.
IL VENTENNIO POLITICO DI SILVIO BERLUSCONI: L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
GLI OTTANT’ANNI DI SILVIO BERLUSCONI: MENO MALE CHE SILVIO C’E’!
CARISSIMO NEMICO.
"PAPI GIRLS": LE DONNE DI SILVIO.
LE DOMANDE POSTE A SILVIO BERLUSCONI.
BERLUSCONI E COMPANY: L’ESERCITO DEI CAVALIERI.
DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
ANTONIO GIANGRANDE, GABRIELLA NUZZI, SILVIO BERLUSCONI: LE RITORSIONI DEI MAGISTRATI.
BERLUSCONI. VENTA’ANNI DI PERSECUZIONE GIUDIZIARIA?
IL PROCESSO RUBY.
PROCESSO MEDIASET. LA CONDANNA DI SILVIO BERLUSCONI.
LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”
TOGHE ROSA
STATO DI DIRITTO?
IL COMPLOTTO PER ELIMINARE SILVIO BERLUSCONI.
LA TRUFFA IDEOLOGICA DELLA SINISTRA E LA SUA AVVERSIONE CONTRO SILVIO BERLUSCONI.
L’INCHIESTA MANI PULITE.
IL POOL DI MANI PULITE.
L’ALTRA VERITA’. I RETROSCENA DI MANI PULITE.
I TESTIMONI DI MANI PULITE.
BERLUSCONI: CONFLITTO INTERESSI; INELEGGIBILITA’; ABITUALITA’ A DELINQUERE. MA IN CHE ITALIA VIVIAMO?
BERLUSCONI E CRAXI: DUE CONDANNATI SENZA PASSAPORTO.
DA ALMIRANTE A CRAXI CHI TOCCA LA SINISTRA MUORE.
BERLUSCONIANI CONTRO ANTIBERLUSCONIANI.
I ROSSI BRINDANO ALLA CONDANNA.
QUANDO IL PCI RICATTO' IL COLLE: GRAZIA ALL'ERGASTOLANO.
LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE. PASQUALE CASILLO.
LA SINISTRA E LE TOGHE D’ASSALTO.
DELINQUENTE A CHI?
DA MANI PULITE A TOGHE PULITE.
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande)
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Tra i nostri avi abbiamo condottieri, poeti, santi, navigatori,
oggi per gli altri siamo solo una massa di ladri e di truffatori.
Hanno ragione, è colpa dei contemporanei e dei loro governanti,
incapaci, incompetenti, mediocri e pure tanto arroganti.
Li si vota non perché sono o sanno, ma solo perché questi danno,
per ciò ci governa chi causa sempre e solo tanto malanno.
Noi lì a lamentarci sempre e ad imprecare,
ma poi siamo lì ogni volta gli stessi a rivotare.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Codardia e collusione sono le vere ragioni,
invece siamo lì a differenziarci tra le regioni.
A litigare sempre tra terroni, po’ lentoni e barbari padani,
ma le invasioni barbariche non sono di tempi lontani?
Vili a guardare la pagliuzza altrui e non la trave nei propri occhi,
a lottar contro i più deboli e non contro i potenti che fanno pastrocchi.
Italiopoli, noi abbiamo tanto da vergognarci e non abbiamo più niente,
glissiamo, censuriamo, omertiamo e da quell’orecchio non ci si sente.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Simulano la lotta a quella che chiamano mafia per diceria,
ma le vere mafie sono le lobbies, le caste e la massoneria.
Nei tribunali vince il più forte e non chi ha la ragione dimostrata,
così come abbiamo l’usura e i fallimenti truccati in una giustizia prostrata.
La polizia a picchiare, gli innocenti in anguste carceri ed i criminali fuori in libertà,
che razza di giustizia è questa se non solo pura viltà.
Abbiamo concorsi pubblici truccati dai legulei con tanta malizia,
così come abbiamo abusi sui più deboli e molta ingiustizia.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Abbiamo l’insicurezza per le strade e la corruzione e l’incompetenza tra le istituzioni
e gli sprechi per accontentare tutti quelli che si vendono alle elezioni.
La costosa Pubblica Amministrazione è una palla ai piedi,
che produce solo disservizi anche se non ci credi.
Nonostante siamo alla fame e non abbiamo più niente,
c’è il fisco e l’erario che ci spreme e sull’evasione mente.
Abbiamo la cultura e l’istruzione in mano ai baroni con i loro figli negli ospedali,
e poi ci ritroviamo ad essere vittime di malasanità, ma solo se senza natali.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Siamo senza lavoro e senza prospettive di futuro,
e le Raccomandazioni ci rendono ogni tentativo duro.
Clientelismi, favoritismi, nepotismi, familismi osteggiano capacità,
ma la nostra classe dirigente è lì tutta intera da buttà.
Abbiamo anche lo sport che è tutto truccato,
non solo, ma spesso si scopre pure dopato.
E’ tutto truccato fin anche l’ambiente, gli animali e le risorse agro alimentari
ed i media e la stampa che fanno? Censurano o pubblicizzano solo i marchettari.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Gli ordini professionali di istituzione fascista ad imperare e l’accesso a limitare,
con la nuova Costituzione catto-comunista la loro abolizione si sta da decenni a divagare.
Ce lo chiede l’Europa e tutti i giovani per poter lavorare,
ma le caste e le lobbies in Parlamento sono lì per sé ed i loro figli a legiferare.
Questa è l’Italia che c’è, ma non la voglio, e con cipiglio,
eppure tutti si lamentano senza batter ciglio.
Che cazzo di Italia è questa con tanta pazienza,
non è la figlia del rinascimento, del risorgimento, della resistenza!!!
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Questa è un’Italia figlia di spot e di soap opera da vedere in una stanza,
un’Italia che produce veline e merita di languire senza speranza.
Un’Italia governata da vetusti e scaltri alchimisti
e raccontata sui giornali e nei tg da veri illusionisti.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma se tanti fossero cazzuti come me, mi piacerebbe tanto.
Non ad usar spranghe ed a chi governa romper la testa,
ma nelle urne con la matita a rovinargli la festa.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Rivoglio l’Italia all’avanguardia con condottieri, santi, poeti e navigatori,
voglio un’Italia governata da liberi, veri ed emancipati sapienti dottori.
Che si possa gridare al mondo: sono un italiano e me ne vanto!!
Ed agli altri dire: per arrivare a noi c’è da pedalare, ma pedalare tanto!!
Antonio Giangrande (scritta l’11 agosto 2012)
Il Poema di Avetrana di Antonio Giangrande
Avetrana mia, qua sono nato e che possiamo fare,
non ti sopporto, ma senza di te non posso stare.
Potevo nascere in Francia od in Germania, qualunque sia,
però potevo nascere in Africa od in Albania.
Siamo italiani, della provincia tarantina,
siamo sì pugliesi, ma della penisola salentina.
Il paese è piccolo e la gente sta sempre a criticare,
quello che dicono al vicino è vero o lo stanno ad inventare.
Qua sei qualcuno solo se hai denari, non se vali con la mente,
i parenti, poi, sono viscidi come il serpente.
Le donne e gli uomini sono belli o carini,
ma ci sposiamo sempre nei paesi più vicini.
Abbiamo il castello e pure il Torrione,
come abbiamo la Giostra del Rione,
per far capire che abbiamo origini lontane,
non come i barbari delle terre padane.
Abbiamo le grotte e sotto la piazza il trappeto,
le fontane dell’acqua e le cantine con il vino e con l’aceto.
Abbiamo il municipio dove da padre in figlio sempre i soliti stanno a comandare,
il comune dove per sentirsi importanti tutti ci vogliono andare.
Il comune intitolato alla Santo, che era la dottoressa mia,
di fronte alla sala gialla, chiamata Caduti di Nassiriya.
Tempo di elezioni pecore e porci si mettono in lista,
per fregare i bianchi, i neri e i rossi, stanno tutti in pista.
Mettono i manifesti con le foto per le vie e per la piazza,
per farsi votare dagli amici e da tutta la razza.
Però qua votano se tu dai,
e non perché se tu sai.
Abbiamo la caserma con i carabinieri e non gli voglio male,
ma qua pure i marescialli si sentono generale.
Abbiamo le scuole elementari e medie. Cosa li abbiamo a fare,
se continui a studiare, o te ne vai da qua o ti fai raccomandare.
Parlare con i contadini ignoranti non conviene, sia mai,
questi sanno più della laurea che hai.
Su ogni argomento è sempre negazione,
tu hai torto, perché l’ha detto la televisione.
Solo noi abbiamo l’avvocato più giovane d’Italia,
per i paesani, invece, è peggio dell’asino che raglia.
Se i diamanti ai porci vorresti dare,
quelli li rifiutano e alle fave vorrebbero mirare.
Abbiamo la piazza con il giardinetto,
dove si parla di politica nera, bianca e rossa.
Abbiamo la piazza con l’orologio erto,
dove si parla di calcio, per spararla grossa.
Abbiamo la piazza della via per mare,
dove i giornalisti ci stanno a denigrare.
Abbiamo le chiese dove sembra siamo amati,
e dove rimettiamo tutti i peccati.
Per una volta alla domenica che andiamo alla messa dal prete,
da cattivi tutto d’un tratto diventiamo buoni come le monete.
Abbiamo San Biagio, con la fiera, la cupeta e i taralli,
come abbiamo Sant’Antonio con i cavalli.
Di San Biagio e Sant’Antonio dopo i falò per le strade cosa mi resta,
se ci ricordiamo di loro solo per la festa.
Non ci scordiamo poi della processione per la Madonna e Cristo morto, pure che sia,
come neanche ci dobbiamo dimenticare di San Giuseppe con la Tria.
Abbiamo gli oratori dove portiamo i figli senza prebende,
li lasciamo agli altri, perché abbiamo da fare altri faccende.
Per fare sport abbiamo il campo sportivo e il palazzetto,
mentre io da bambino giocavo giù alle cave senza tetto.
Abbiamo le vigne e gli ulivi, il grano, i fichi e i fichi d’india con aculei tesi,
abbiamo la zucchina, i cummarazzi e i pomodori appesi.
Abbiamo pure il commercio e le fabbriche per lavorare,
i padroni pagano poco, ma basta per campare.
Abbiamo la spiaggia a quattro passi, tanto è vicina,
con Specchiarica e la Colimena, il Bacino e la Salina.
I barbari padani ci chiamano terroni mantenuti,
mica l’hanno pagato loro il sole e il mare, questi cornuti??
Io so quanto è amaro il loro pane o la michetta,
sono cattivi pure con la loro famiglia stretta.
Abbiamo il cimitero dove tutti ci dobbiamo andare,
lì ci sono i fratelli e le sorelle, le madri e i padri da ricordare.
Quelli che ci hanno lasciato Avetrana, così come è stata,
e noi la dobbiamo lasciare meglio di come l’abbiamo trovata.
Nessuno è profeta nella sua patria, neanche io,
ma se sono nato qua, sono contento e ringrazio Dio.
Anche se qua si sentono alti pure i nani,
che se non arrivano alla ragione con la bocca, la cercano con le mani.
Qua so chi sono e quanto gli altri valgono,
a chi mi vuole male, neanche li penso,
pure che loro mi assalgono,
io guardo avanti e li incenso.
Potevo nascere tra la nebbia della padania o tra il deserto,
sì, ma li mi incazzo e poi non mi diverto.
Avetrana mia, finchè vivo ti faccio sempre onore,
anche se i miei paesani non hanno sapore.
Il denaro, il divertimento e la panza,
per loro la mente non ha usanza.
Ti lascio questo poema come un quadro o una fotografia tra le mani,
per ricordarci sempre che oggi stiamo, però non domani.
Dobbiamo capire: siamo niente e siamo tutti di passaggio,
Avetrana resta per sempre e non ti dà aggio.
Se non lasci opere che restano,
tutti di te si scordano.
Per gli altri paesi questo che dico non è diverso,
il tempo passa, nulla cambia ed è tutto tempo perso.
La Ballata ti l'Aitrana di Antonio Giangrande
Aitrana mia, quà già natu e ce ma ffà,
no ti pozzu vetè, ma senza ti te no pozzu stà.
Putia nasciri in Francia o in Germania, comu sia,
però putia nasciri puru in africa o in Albania.
Simu italiani, ti la provincia tarantina,
simu sì pugliesi, ma ti la penisula salentina.
Lu paisi iè piccinnu e li cristiani sempri sciotucunu,
quiddu ca ticunu all’icinu iè veru o si l’unventunu.
Qua sinti quarche tunu sulu ci tieni, noni ci sinti,
Li parienti puè so viscidi comu li serpienti.
Li femmini e li masculi so belli o carini,
ma ni spusamu sempri alli paisi chiù icini.
Tinimu lu castellu e puru lu Torrioni,
comu tinumu la giostra ti li rioni,
pi fa capii ca tinimu l’origini luntani,
no cumu li barbari ti li padani.
Tinimu li grotti e sotta la chiazza lu trappitu,
li funtani ti l’acqua e li cantini ti lu mieru e di l’acitu.
Tinimu lu municipiu donca fili filori sempri li soliti cumannunu,
lu Comuni donca cu si sentunu impurtanti tutti oluni bannu.
Lu comuni ‘ntitolato alla Santu, ca era dottori mia,
ti fronti alla sala gialla, chiamata Catuti ti Nassiria.
Tiempu ti votazioni pecuri e puerci si mettunu in lista,
pi fottiri li bianchi, li neri e li rossi, stannu tutti in pista.
Basta ca mettunu li manifesti cu li fotu pi li vii e pi la chiazza,
cu si fannu utà ti li amici e di tutta la razza.
Però quà votunu ci tu tai,
e no piccè puru ca tu sai.
Tinumu la caserma cu li carabinieri e no li oiu mali,
ma qua puru li marescialli si sentunu generali.
Tinimu li scoli elementari e medi. Ce li tinimu a fà,
ci continui a studià, o ti ni ai ti quà o ta ffà raccumandà.
Cu parli cu li villani no cunvieni,
quisti sapunu chiù ti la lauria ca tieni.
Sobbra all’argumentu ti ticunu ca iè noni,
tu tieni tuertu, piccè le ditto la televisioni.
Sulu nui tinimu l’avvocatu chiù giovini t’Italia,
pi li paisani, inveci, iè peggiu ti lu ciucciu ca raia.
Ci li diamanti alli puerci tai,
quiddi li scanzunu e mirunu alli fai.
Tinumu la chiazza cu lu giardinettu,
do si parla ti pulitica nera, bianca e rossa.
Tinimu la chiazza cu l’orologio iertu,
do si parla ti palloni, cu la sparamu grossa.
Tinimu la chiazza ti la strata ti mari,
donca ni sputtanunu li giornalisti amari.
Tinimu li chiesi donca pari simu amati,
e donca rimittimu tutti li piccati.
Pi na sciuta a la tumenica alla messa do li papi,
di cattivi tuttu ti paru divintamu bueni comu li rapi.
Tinumu San Biagiu, cu la fiera, la cupeta e li taraddi,
comu tinimu Sant’Antoni cu li cavaddi.
Ti San Biagiu e Sant’Antoni toppu li falò pi li strati c’è mi resta,
ci ni ricurdamo ti loru sulu ti la festa.
No nni scurdamu puè ti li prucissioni pi la Matonna e Cristu muertu, comu sia,
comu mancu ni ma scurdà ti San Giseppu cu la Tria.
Tinimu l’oratori do si portunu li fili,
li facimu batà a lautri, piccè tinimu a fà autri pili.
Pi fari sport tinimu lu campu sportivu e lu palazzettu,
mentri ti vanioni iu sciucava sotto li cavi senza tettu.
Tinimu li vigni e l’aulivi, lu cranu, li fichi e li ficalinni,
tinimu la cucuzza, li cummarazzi e li pummitori ca ti li pinni.
Tinimu puru lu cummerciu e l’industri pi fatiari,
li patruni paiunu picca, ma basta pi campari.
Tinumu la spiaggia a quattru passi tantu iè bicina,
cu Spicchiarica e la Culimena, lu Bacinu e la Salina.
Li barbari padani ni chiamunu terruni mantinuti,
ce lonnu paiatu loro lu soli e lu mari, sti curnuti??
Sacciu iù quantu iè amaru lu pani loru,
so cattivi puru cu li frati e li soru.
Tinimu lu cimitero donca tutti ma sciri,
ddà stannu li frati e li soru, li mammi e li siri.
Quiddi ca nonnu lassatu laitrana, comu la ma truata,
e nui la ma lassa alli fili meiu ti lu tata.
Nisciunu iè prufeta in patria sua, mancu iù,
ma ci già natu qua, so cuntentu, anzi ti chiù.
Puru ca quà si sentunu ierti puru li nani,
ca ci no arriunu alla ragioni culla occa, arriunu culli mani.
Qua sacciu ci sontu e quantu l’autri valunu,
a cinca mi oli mali mancu li penzu,
puru ca loru olunu mi calunu,
iu passu a nanzi e li leu ti mienzu.
Putia nasciri tra la nebbia di li padani o tra lu disertu,
sì, ma ddà mi incazzu e puè non mi divertu.
Aitrana mia, finchè campu ti fazzu sempri onori,
puru ca li paisani mia pi me no tennu sapori.
Li sordi, lu divertimentu e la panza,
pi loro la menti no teni usanza.
Ti lassu sta cantata comu nu quatru o na fotografia ti moni,
cu ni ricurdamu sempri ca mo stamu, però crai noni.
Ma ccapì: simu nisciunu e tutti ti passaggiu,
l’aitrana resta pi sempri e no ti tai aggiu.
Ci no lassi operi ca restunu,
tutti ti te si ni scordunu.
Pi l’autri paisi puè qustu ca ticu no iè diversu,
lu tiempu passa, nienti cangia e iè tuttu tiempu persu.
Testi scritti il 24 aprile 2011, dì di Pasqua.
COS’E’ LA POLITICA OGGI?
Cos’è la politica oggi?
Un bambino va dal padre e dice: Papà cos' è la politica? Il padre ci pensa e poi dice: Guarda te lo spiego con un esempio:
io che lavoro e porto a casa i soldi sono il CAPITALISTA;
tua madre che li amministra è il GOVERNO;
la nostra cameriera è la CLASSE OPERAIA;
il nonno che controlla che tutto sia in regola è il PARTITO COMUNISTA ed il SINDACATO;
noi tutti ci preoccupiamo che tu stia bene e tu, ormai, che hai qualche voce in capitolo sei il POPOLO;
tua sorella che è appena nata e porta ancora i pannolini è il FUTURO.
Hai capito figlio mio?
Il piccolo ci pensa e dice al padre che vuole dormirci su e riflettere una notte.
Il bambino va a dormire, ma alle due di notte viene svegliato dalla sorella che comincia a piangere perché ha sporcato il pannolino.
Il bambino va a cercare qualcuno.
Visto che non sa cosa fare, va nella camera dei suoi genitori.
Lì c’è solo sua madre che dorme profondamente e chiamata dal bambino non si sveglia.
Così va nella camera della cameriera, ma la trova a letto col padre,
mentre il nonno sbircia dalla finestra.
Tutti sono così occupati che non si accorgono del bambino che chiede aiuto.
Perciò il bimbo ritorna a dormire.
Il mattino dopo il padre chiede al figlio se ha capito cosa sia la politica.
Sì, risponde il figlio.
Il CAPITALISMO approfitta della CLASSE OPERAIA;
Il SINDACATO sta a guardare;
Intanto il GOVERNO dorme;
Il POPOLO che chiede aiuto regolarmente non lo ascolta nessuno e viene completamente ignorato;
Il FUTURO è e resterà nella merda.
QUESTA E’ LA POLITICA!!!
Le pecore hanno paura dei lupi, ma è il loro pastore che le porta al macello.
DA RICATTATORI A RICATTATI...
E il Senatùr disse: «Andiamo con Silvio, ha soldi e donne… ». Era il 1994 e il Senatùr Bossi aveva già conquistato mezzo Nord. Silvio Berlusconi capì che senza di lui non avrebbe vinto, scrive Paolo Delgado il 23 Settembre 2018 su "Il Dubbio". Cene, caminetti, vertici. E poi alleanze, rotture, guerre all’ultimo sangue, ricomposizioni: da 25 anni nulla condiziona la politica italiana quanto i travagliati rapporti Arcore e Pontida, tra Forza Italia e la Lega, tra Silvio Berlusconi e Umberto Bossi prima, Matteo Salvini adesso. «Quello deve solo sborsare e portarci la gnocca, che a Canale 5 ce n’ha tanta», così si esprimevano graziosamente i soldati di Bossi una venticinquina d’anni fa. Il Cavaliere non era ancora entrato in politica. Esitava, si fingeva indeciso per moltiplicare l’effettaccio della discesa in campo. Ma il suo arrivo era nell’aria e la Lega doveva farci i conti. La battutaccia in questione, una delle tante, era di pochi minuti successiva al discorso con cui Umberto Bossi aveva aperto le porte al dialogo con Arcore. Non era scontato in partenza. All’epoca la Lega, col vento in poppa al Nord, un partitone che in pochissimi anni aveva conquistato da solo oltre il 50% dei voti a Milano, si ammantava di nuovismo e inneggiava a Di Pietro. Bossi però aveva capito subito che liberarsi del Cavaliere non sarebbe stato facile. Riunì l’assembleona e spiegò che in una prima fase sarebbe stato necessario allearsi con una parte dei vecchi e decrepiti poteri. Solo che Berlusconi non portò solo ‘ soldi e gnocca’ ma anche una macchina da guerra costruita dalla struttura Publitalia e vinse le elezioni alleato sì con il Carroccio, ma derubricato a comprimario. Generoso offrì ministeri a spiovere, ma il bastone del comando se lo tenne stretto. Che al capo leghista la situazione andasse stretta si capì subito, anche se molti dei suoi, invece, si accomodarono papali. Il 25 aprile di quell’anno di grazia 1994 una oceanica manifestazione convocata dal Manifesto spazzò sotto il diluvio le strade di Milano. Qualche leghista la criticò sprezzante: il Senatùr, come si chiamava allora, lo bacchettò di brutto: «Quando il popolo si muove bisogna sempre ascoltarlo». Andò oltre, fece addirittura capolino, per qualche nanosecondo, ai margini del corteo, in serata. Nulla di strano: «Noi siamo gli eredi della lotta antifascista». Il disagio s’impennò d’estate. Berlusconi tentò la carta del cosiddetto «decreto salvaladri». Né la Lega né Alleanza Nazionale potevano accettarlo. S’impose una ritirata che lasciò il trionfatore di pochi mesi prima trasformato in anatra zoppa. In estate Bossi si presentò a villa Certosa, ospite del Cavaliere che quanto a forme non sfigura al confronto di un piccolo borghese ottocentesco, in tenuta rapper- coatta: canottiera rigorosamente a coste. Un segnale che valeva cento discorsi politici. Quel che ossessionava il leghista era proprio la rapidità con cui i suoi barbari si stavano abituando alla greppia di re Silvio. Per la fine di dicembre il governo era caduto e Bossi era il nemico numero uno di "Berluskaiser", o "Berluskaz" o comunque gli passasse per la mente di bollare l’ex alleato. Quella della Lega era stata una scommessa arrischiata. Se si fosse votato subito dopo la crisi, il Carroccio sarebbe stato travolto. Anche grazie alla proverbiale cedevolezza di Berlusconi invece si votò dopo un anno e mezzo, e Bossi vinse la scommessa. La Lega superò nelle elezioni del 1996 il 10%, massimo storico sino al 2018. Per due anni Berlusconi e l’allora suo più stretto alleato Gianfranco Fini avevano ripetuto che con Bossi non avrebbero mai più avuto nulla a che fare. «Nemmeno un caffè», giurava tassativo Fini. Quel risultato cambiò tutto. Nell’Italia bipolarista di vent’anni fa, il Polo di destra non poteva permettersi di lasciare senza collare il 10% dei voti e la Lega aveva dimostrato di essere impermeabile alle sirene del ‘ voto utile’. Bisogna cambiare strada e Berlusconi si attrezzò a farlo nei cinque anni successivi, quelli dell’opposizione e della «traversata del deserto». Per la Lega la situazione non era più rosea: poteva costringere la destra alla sconfitta, ma nulla di più. Bossi tentò la carta del secessionismo, furono gli anni delle ampolle e del dio Po: alle elezioni amministrative del 1999, terreno favorevole per il Carroccio, i consensi dimezzarono rispetto a tre anni prima. Il nuovo matrimonio con il partito azzurro, non più "Polo" ma "Casa" delle libertà nasceva, esattamente come il primo, sulla base dell’interesse reciproco. Eppure le cose andarono in direzione opposta. Berlusconi aveva mangiato la foglia e non intendeva ripetere l’errore del ‘ 94. Stavolta la Lega fu vezzeggiata e corteggiata, a spese di una An che si riteneva giustamente costretta a restare fedele volente o nolente. L’ascesa al ministero dell’Economia di un forzista molto vicino al Carroccio come Giulio Tremonti, rinsaldò l’intesa. Nel 2004 Bossi colpito da ictus rischiò la vita e perse per sempre il controllo sul linguaggio. Berlusconi, che è notoriamente generoso, si fece in quattro per salvarlo senza badare a spese. Si creò un rapporto personale, fondato anche sulla gratitudine di Bossi, che non sarebbe venuto meno fino al 2011. I caminetti di Berlusconi, Bossi e Tremonti sono stati in quegli anni la vera tolda di comando dei governi di centrodestra. Dalla guerra che dal 2011 ha lacerato il Carroccio è uscita fuori una Lega tutta diversa, tanto da non adoperare mai la parola un tempo magica di ‘ federalismo’. Tra Salvini e un Berlusconi invecchiato non ci sono certo i rapporti che guerre e riappacificazioni avevano cementato tra il Cavaliere e Bossi. L’uomo chiave della Lega moderata, il leader che era stato contrario alla rottura rischiando l’espulsione già nel 1994, Roberto Maroni, è fuori gioco così come l’ex onnipotente ministro dell’Economia che era la vera cerniera tra i due partiti e tra i due leader. Con Salvini la relazione è tornata a fondarsi in equa misura sull’interesse e sulla reciproca diffidenza. Però quell’asse continua a orientare la politica italiana.
Silvio Berlusconi, la drammatica doppia paginata di Travaglio e Gomez sul Fatto: "Da ricattatore a ricattato", scrive il 18 Settembre 2018 Libero Quotidiano. Dopo il vertice tra Matteo Salvini e Silvio Berlusconi il Fatto quotidiano si arma e tira fuori l'artiglieria pesante per affossare, ancora una volta, l'odiatissimo Cavaliere. E così Marco Travaglio e Peter Gomez firmano a 4 mani una doppia paginata terrificante, pugno allo stomaco del leader di Forza Italia e di Mediaset che, immaginiamo, dalle parti del Movimento 5 Stelle apprezzeranno di certo. Di fatto, è una rassegna di tutti gli incroci tra politica e tv, Rai in particolare, degli ultimi 30 anni con Berlusconi nella parte di Satana. Il titolo dice tutto: "1993-2018: B. da ricattatore a ricattato sugli spot in tivù". Un capolavoro che galleggia tra l'indignazione grillina e il godimento manettaro, perfetto esempio del "cambiamento" a 5 Stelle. Facile immaginare la faccia del Cav quando, ad Arcore, stamattina gli avranno aperto il Fatto quotidiano.
Berlusconi, 1993-2018: il ritorno al passato del Caimano. Da ricattatore a ricattato sugli spot in tivù. Corsi e ricorsi - Nel ’93 il Caimano era nei guai e non aveva più amici alla Rai e al governo. Proprio come oggi, infatti chiede aiuto a Salvini, scrivono Peter Gomez e Marco Travaglio il 18 settembre 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Come se il tempo si fosse fermato a 25 anni fa, riecco B. in ambasce perché non controlla più il governo, teme la concorrenza della Rai e trema all’idea di perdere pubblicità sulle sue tv. Nel 1993 i suoi referenti politici (il Caf Craxi-Andreotti-Forlani) erano travolti da Tangentopoli, al governo c’erano i tecnici di Ciampi e alla Rai la politica “amica” era stata rimpiazzata dai “professori”, che non obbedivano ad altri input se non a quelli aziendali. Nel 2018 Forza Italia – che ha fatto parte di cinque governi e ne ha ricattati otto di centrosinistra, ottenendo vantaggi per le tv e i processi del padrone – ha perso rovinosamente le elezioni e i sondaggi la danno sotto l’8%. Per la prima volta dopo 35 anni, il Caimano ormai sdentato non è più in grado di condizionare neppure i suoi dicasteri preferiti, tutti in mano ai nemici 5Stelle: alla Giustizia c’è Alfonso Bonafede, alle Telecomunicazioni Luigi Di Maio, all’Editoria Vito Crimi. Idem la Rai, guidata dall’ad Fabrizio Salini (indipendente, ma indicato dal M5S). Ai tempi del Caf, B. ricattava i governi e ne finanziava i leader. Dopo Tangentopoli, per qualche mese, ne fu ricattato. Poi, dopo la discesa in campo, alternò periodi di comando (quelli dei suoi governi) a periodi di ricatto (quelli del centrosinistra consociativo). Ora è di nuovo ricattato, o almeno così dice. Basta che il governo annunci norme di minima civiltà e buonsenso – tetti antitrust alla pubblicità in tv, rilancio della Rai, norme anti-corruzione, anti-prescrizione, anti-conflitti d’interessi – perché si avverta nel mirino. Di tutto questo ha parlato l’altra sera ad Arcore con Salvini, l’unico alleato (ricattabile o meno, non si sa) che gli rimane al governo.
1993-2018. Il 22 gennaio 1993 è un sabato. Craxi, indagato da un mese, è prossimo alle dimissioni. Forlani e Andreotti lo seguiranno a stretto giro. Il governo Amato, l’ultimo del pentapartito, ha i giorni contati, poi arriveranno i tecnici di Ciampi, infine le elezioni che vedono favorita la sinistra di Occhetto. Il Cavaliere non ci dorme la notte, anche perché ha tutte le aziende e quasi tutti i manager sotto inchiesta, alcuni in galera. Dice al suo consulente Ezio Cartotto: “A volte mi capita perfino di mettermi a piangere sotto la doccia”. E poi ci sono i conti della Fininvest. Nelle riunioni dei Comitati Corporate al quartier generale di Milano2, manager e dirigenti del gruppo non nascondono l’allarme. Stretti intorno al capo – mentre Guido Possa, ex compagno di scuola e ora segretario particolare di B., annota parola per parola in accurati verbali che finiranno in mano al pool Mani Pulite – discutono per ore di prospettive e numeri. Neri, nerissimi.
Ubaldo Livolsi, direttore finanziario, fa il punto: i debiti Fininvest ammontano a 4.550 miliardi, 700 in più rispetto al 1991. E il quadro è ancor più drammatico se si guarda alle necessità di cassa stagionali: 1.224 miliardi nei primi tre mesi dell’anno. E aggiunge: “Il sistema bancario non è disposto ad aumentare ulteriormente l’affidamento nei nostri confronti (alcune banche, anzi, hanno chiesto a noi, come a tanti altri clienti, piccole ma significative riduzioni dell’esposizione)… La situazione va considerata molto seria”. Il rischio concreto si chiama fallimento. Il 1° marzo Livolsi rincara la dose: “Basterebbe una sia pur lieve flessione delle entrate pubblicitarie della televisione (non improbabile vista la recessione in atto e vista la presente sofferenza di qualche nostro investitore come la Curcio Editore e Ciarrapico) per porci in grosse difficoltà”.
Prendi Rai, salvi Fininvest. Anche Silvio B. l’uomo dal “sole in tasca”, stavolta è pessimista: “In complesso la nostra televisione è un’azienda matura, con buona redditività, che tuttavia lentamente si avvia al declino”. Bisogna inventarsi qualcosa. I suoi dirigenti suggeriscono quelle più tradizionali: un piano di dismissioni per raccattare quattrini e rimborsare le banche. Ma lui non ci sente. Il 18 gennaio ’93 boccia la proposta di vendere “un’importante partecipazione” di Telepiù (che illegalmente possiede quasi per intero tramite vari prestanomi, in barba alla legge Mammì che gli consente un misero 10%): “Non è questo il momento, nonostante le difficoltà finanziarie. La tv del futuro è quella che vende programmi”. E il 22 febbraio affossa pure “l’operazione Ame-Sbe così come si sta configurando”, cioè il collocamento in Borsa di quote che la Silvio Berlusconi Editore detiene in Mondadori. Guai a “rinunciare al totale controllo di un gioiello”. Che fare allora? Ecco il suo piano, che lascia tutti con gli occhi sgranati e le bocche aperte: “L’unica, concreta, importante azione possibile a breve è quella di un accordo con la Rai: potrebbe arrivare a ridurre i costi di 300-350 miliardi l’anno. È urgente per questo intervenire nel processo in atto di ridefinizione della struttura della Rai, per far sì che le massime responsabilità siano assunte da veri manager (con i quali sarebbe più agevole raggiungere un buon accordo) e prega Roberto Spingardi (capo del Personale Fininvest, ndr) di suggerirgli al riguardo alcuni nominativi di persone papabili (congiuntamente a G. Letta)”. Traduzione: il padrone della Fininvest vuole scegliersi i dirigenti della Rai. Imbottire Viale Mazzini di manager “amici”, perché “tengano bassa” la programmazione della concorrenza, dando un po’ di fiato alle sue boccheggianti tv.
Il tetto che scotta. Per legge, nella corsa contro il Biscione, il cavallo della Rai già parte con l’handicap: avendo il canone, deve rispettare un tetto pubblicitario più basso di quello della Fininvest. B. può inondare i suoi canali con un 18% di spot all’ora, la tv di Stato non può superare il 12. È uno dei tanti regali del Caf al Cavaliere: il canone Rai è fra i più bassi d’Europa e viene evaso da 3,5 milioni di utenti. Se vuole aumentare gli introiti, la Rai non può aumentare la pubblicità e deve investire enormi risorse per battere la Fininvest. Solo così riesce a invogliare gli inserzionisti a pagare i suoi spot più cari di quelli del Biscione. Più sale lo share, più costa uno spot, più soldi si incassano. Non solo. Chi pianifica una campagna pubblicitaria preferisce acquistare spazi dal numero 1 sul mercato. E se, per ipotesi, può permettersi un solo spot, non ha dubbi: lo prenota sulla Rai. Almeno finché batte la Fininvest.
Anche la Fininvest, però, per tenere il passo con la Rai, deve dissanguarsi. E non può più permetterselo, con le banche all’uscio che le chiedono di rientrare. Ergo – ragiona B. – non c’è che un rimedio: mettersi d’accordo con la Rai, cioè con la concorrenza. Un disarmo bilanciato che porti entrambi i contendenti ad abbassare gli investimenti, dunque la qualità e – quel che più conta – i costi. Per il momento il Cavaliere, essendo un privato cittadino, deve cercare un accordo con i partiti che controllano il servizio pubblico. Poi, quando diventerà lui stesso un politico, anzi il capo del governo e dunque il padrone della Rai, farà tutto da solo.
Proposta indecente. Nell’attesa, Sua Emittenza mette in moto l’uomo dei momenti difficili: Gianni Letta, vicepresidente Fininvest e felpato mediatore dalle mille entrature nei palazzi romani. Al suo fianco, di supporto, c’è Angelo Codignoni, il manager che ha seguito la sventurata campagna di Francia con La Cinq e sarà presto protagonista della nascita di Forza Italia. Ma la missione, se non è impossibile, poco ci manca. Nel guazzabuglio di Tangentopoli, con i segretari di partito e i ministri di Amato che si dimettono al ritmo di uno alla settimana fino alle dimissioni dell’esecutivo sostituito dai tecnici di Ciampi, di referenti politici si stenta a trovarne. Almeno a piede libero. Non solo: quel che resta del Parlamento tenta di recuperare un minimo di decenza presso l’opinione pubblica inferocita con una riforma del Cda Rai: è la numero 206 del 25 giugno ’93, nata da un emendamento di Nando dalla Chiesa, che affida non più ai partiti, ma ai presidenti di Camera e Senato il compito di nominare il nuovo Cda. Composto non più da 16 membri (6 Dc, 4 Pci-Pds, 3 Psi, 1 ciascuno ai tre partiti laici minori), ma da cinque “persone di riconosciuto prestigio professionale e di notoria indipendenza di comportamenti”. Inizia così l’èra dei “professori di area”. Giorgio Napolitano e Giovanni Spadolini scelgono Claudio Demattè, prorettore della Bocconi; l’amministrativista Feliciano Benvenuti; l’editrice Elvira Sellerio; il filosofo Tullio Gregory; il giornalista Paolo Murialdi. Il 13 luglio ’93 il Cda elegge presidente Demattè, che lancia subito due parole d’ordine: “Risanare i conti e delottizzare”. Il dg è Gianni Locatelli, giornalista finanziario, area centrosinistra.
A B. la nuova Rai dei “professori” fa paura: non ne conosce e non ne stipendia nessuno. All’improvviso sembrano avverarsi le fosche previsioni di Giuliano Ferrara, che soltanto otto mesi prima, in una delle riunioni mensili del sabato ad Arcore con i direttori di testata del gruppo Fininvest, aveva vaticinato con toni apocalittici: “L’attuale difficoltà della Rai di rapporto con i partiti ci deve preoccupare: può darsi che in poco tempo ci troveremo a concorrere con una Rai non solo senza tetto di pubblicità, ma anche molto più libera dalla logica dei partiti e quindi rilegittimata”. E infatti in Viale Mazzini prendono piede professionisti competenti e incontrollabili: Angelo Guglielmi, Carlo Freccero, Aldo Grasso, Franco Iseppi. Torna persino Beppe Grillo, per ben due serate in diretta, e senza censura.
Una carta da giocare, però, il Cavaliere ce l’ha. Anche la Rai è a un passo dal crac. I bilanci sono in rosso per 450 miliardi. A fine anno mancheranno pure i soldi per le tredicesime. Così, nel settembre ’93, B. in persona si fa avanti con Demattè e Locatelli e butta lì la sua proposta indecente: un accordo di cartello per spartirsi non solo la pubblicità, ma anche l’audience. Come annoterà nei suoi diari Murialdi, i rappresentanti delle due aziende ancora concorrenti cominciano a incontrarsi per discutere come “ridurre le spese degli acquisti e di produzione sia della Rai che della Fininvest”. Alla faccia della concorrenza. Ma il Cavaliere, mai contento, chiede di più: la “ripartizione dell’audience in parti uguali, nella misura del 45%”. Ricorda Murialdi: “All’epoca la Rai totalizzava un’audience leggermente superiore a quella delle reti berlusconiane. E un punto di audience voleva dire all’incirca 20 miliardi di lire di introito pubblicitario”. Lo confermerà Demattè: “Tutto è partito da una necessità comune, quella di ridurre i costi. Una via per ridurli sarebbe stata indubbiamente quella di allentare la pressione concorrenziale. Per conquistare quel punto o due in più che avrebbero consentito il sorpasso nell’audience, Rai e Fininvest stavano spendendo oltre ogni ragionevole limite. Senonché la via proposta da Berlusconi era inaccettabile in un paese a economia di mercato: voleva che si raggiungesse un accordo di ferro per dividerci in partenza le quote di audience. Se uno dei due superava la quota, doveva provvedere a scaricare il palinsesto… inserire programmi di bassa qualità e basso costo per permettere alla rete concorrente di riguadagnare le quote perdute. Tecnicamente è possibile, ci sono degli specialisti in grado di prevedere con esattezza millimetrica le capacità di ascolto di un certo programma. Ma tutto questo avrebbe comportato problemi sia di etica che di diritto antitrust assolutamente intollerabili”.
Spotpolitik. Il 26 gennaio 1994 il Cavaliere svela, a reti unificate, il suo segreto di Pulcinella: “Scendo in campo”, “ho deciso di bere l’amaro calice”, “l’Italia è il Paese che amo” e via fiabeggiando. Il vero movente della sua improvvisa vocazione politica lo spiegheranno, molto sinceramente, i suoi uomini più fedeli e devoti. Marcello Dell’Utri: “Eravamo nel settembre 1993, Berlusconi mi convocò nella sua villa di Arcore e mi disse: ‘Marcello, dobbiamo fare un partito pronto a scendere in campo alle prossime elezioni’. Lui aveva provato in tutti i modi a convincere Segni e Martinazzoli per costruire la nuova casa dei moderati… ‘Vi metto a disposizione le mie televisioni’, aveva detto. Tutto inutile, e allora decise che il partito dovevamo farlo noi. Poi c’era l’aggressione delle Procure e la situazione della Fininvest con 5.000 miliardi di debiti. Franco Tatò, all’epoca era l’amministratore delegato del gruppo, non vedeva vie d’uscita: ‘Cavaliere dobbiamo portare i libri in tribunale’… I fatti poi, per fortuna, ci hanno dato ragione e oggi posso dire che senza la decisione di scendere in campo con un suo partito, Berlusconi non avrebbe salvato la pelle e sarebbe finito come Angelo Rizzoli che, con l’inchiesta della P2, andò in carcere e perse l’azienda”. Giuliano Ferrara: “Sì, Berlusconi è entrato in politica per impedire che gli portassero via la roba”. E Fedele Confalonieri: “La verità è che, se Berlusconi non fosse entrato in politica, se non avesse fondato Forza Italia, noi oggi saremmo sotto un ponte o in galera con l’accusa di mafia. Col cavolo che portavamo a casa il proscioglimento (per prescrizione, ndr) nel Lodo Mondadori!”.
Il 29 marzo 1994, all’indomani della vittoria elettorale, il neopremier B. s’impegna solennemente a risolvere il conflitto d’interessi, affidando le sue aziende a un fondo cieco (blind trust). E giura: “Alla Rai non sposterò nemmeno una pianta”. Invece parte subito all’assalto di Viale Mazzini per costringere il Cda a dimettersi due anni prima della scadenza di legge. E spiega spudoratamente al Corriere che la Rai non deve fare concorrenza a Fininvest: “La Rai è un servizio pubblico, non dovrebbe curarsi di andare a raggiungere il massimo di ascolto, casomai coprire i vuoti che le tv commerciali lasciano aperti”.
Il 26 giugno si riuniscono in gran segreto ad Arcore i manager di Publitalia (concessionaria pubblicitaria del Biscione, capitanata da Marcello Dell’Utri) ed esaminano il piano triennale di risanamento della Rai appena proposto da Demattè al ministro delle Poste, Giuseppe Tatarella (An). Il progetto prevede una serie di aumenti automatici del canone legati al costo dei programmi trasmessi e la crescita del 5% annuo del fatturato pubblicitario. E viene confrontato con un documento top secret di 17 pagine elaborato dal Biscione: se Rai cresce ancora, Fininvest tracolla. Quindi i Publitalia Boys bocciano il piano Demattè: i vertici Rai – sostengono sdegnati gli uomini del Cavaliere – osano proporsi “come un concorrente commerciale per gli operatori privati, in contraddizione con la sua funzione istituzionale di servizio pubblico… Non è accettabile che la Rai si ponga un obiettivo di audience generalizzata del 45%… Il piano dovrebbe invece prevedere la significativa riduzione degli investimenti e, genericamente, del livello di spesa”.
Così i manager berlusconiani, nella residenza del capo del governo, decidono che deve fare la Rai: non l’aumento dei ricavi pubblicitari, ma il loro “contenimento”: “Si potrebbe imporre un tetto tra i 100 e i 1.100 miliardi di lire annui”. Più precisamente: “1.050 miliardi nel ’95 e 1.100 nel ’96”. Al resto provvedono gli altri uomini del Cavaliere: quelli che a Roma siedono sui banchi del governo, della Camera e del Senato. Letta è sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. E Ferrara ministro dei Rapporti con il Parlamento.
Tra Berlusconi e Travaglio scontro totale: dopo 20 anni il primo faccia a faccia in tv. L'editorialista del Fatto attacca, poi il Cavaliere prende il suo posto e legge il casellario giudiziario del giornalista. Santoro perde la testa, scrive Paolo Bracalini, Venerdì 11/01/2013, su "Il Giornale". Il colpo di scena è un foglietto di carta che Berlusconi teneva in mano: «Ora vengo io li ho una lettera io per Travaglio». Ebollizione generale nello studio, l'incontro con Travaglio dopo vent'anni di guerra a distanza non poteva essere più spettacolare, con Santoro spalla ideale nel faccia a faccia. Le parti si invertono, con Berlusconi che legge e Travaglio che ascolta l'elenco di addebiti che il suo nemico eterno fa, nei panni di reporter, leggendo il casellario di condanne civili di Travaglio. Nella prima parte, quando Berlusconi ricorda che Travaglio ha iniziato a fare il giornalista di giudiziaria da Torino sul Giornale era proprio con lui come editore, il clima è divertito. Anche quando Berlusconi dice che è colpa di Travaglio se poi Montanelli ha litigato con lui, siamo in pieno show senza acredine. Poi però si arriva alle condanne per diffamazione, che Berlusconi simulando Travaglio legge spietatamente, prendendo dalla lettera preparata dal suo staff. E Santoro comincia a innervosirsi, mentre Travaglio ascolta e annota le precisazioni che farà subito dopo, fino allo scontro con Santoro che esplode e Berlusconi che accusa Travaglio di essere un «diffamatore professionale». Prima di invitare, sempre nel ribaltamento di ruoli, Santoro a lasciare lo studio se non gradisce. Altre gag poi, quando Berlusconi riprende la sedia occupata momentaneamente da Travaglio, e fa il gesto di pulirla, con Santoro che esplode una seconda volta e Berlusconi che lo intrappola con un: «Ma non si può nemmeno scherzare». Travaglio invece incassa meglio, e replica con un'altra battuta («Se le mie condanne fossero penali lei mi avrebbe fatto presidente del Senato»), due «geni del male». Anche se Travaglio, solo in privato, esprime opinioni piuttosto positive su Berlusconi, la capacità di resistere, per vent'anni, ad attacchi che avrebbero sfiancato un peso massimo, la capacità di conquistare le persone, cosa che Berlusconi prova subito col pubblico, stringendo mani, mentre i fotografi urlano «Presidente una foto con Travaglio!». Ecco, un gossip malizioso che gira a Cinecittà, riguarda proprio la competizione automatica tra Santoro e Travaglio, a chi è più, tra i due, l'ossessione di Berlusconi. E siccome Berlusconi nei giorni prima della puntata ha parlato più di Travaglio («Un genio del male»), si mormora che Santoro, primadonna, abbia un po patito di sentirsi messo dietro il suo editorialista preferito, da Berlusconi per giunta. Ma i protagonisti poi, nel format speciale della serata, sono inevitabilmente Santoro e Berlusconi, che si studiano per la prima ora. Quando la diretta viene interrotta per un problema ai gruppi elettrici, cala il nero e per quasi dieci minuti stanno nello studio, in silenzio, in una calma quasi artificiale, troppo calma. Si vede che da Santoro è partito l'ordine di non essere aggressivi per non fare il gioco di Berlusconi. Ma forse sono fin troppo blande le due spalle carine, Innocenzi e Costamagna, visto che per la prima parte vince per ko tecnico Berlusconi, e Santoro si accorge che forse era meglio non nascondere Travaglio sul trespolo: «Fate venire qui Travaglio cosi ci dà un po' di pepe che ci stiamo annoiando!», invoca in difficoltà davanti a Berlusconi che fa battute, sorride, fa il nonno coi giovani nello studio, sembra rilassato nella tana del presunto lupo, e con la puntata che si sta trasformando paurosamente in un megaspot elettorale per il Cavaliere. Va bene non essere aggressivi, ma qui si rischia l'autogol. «Entri Travaglio», che si siede alla scrivania, effetto prof, mentre Berlusconi continua le gag comiche con l'inedita spalla Santoro che gli dà corda. Fino al travaso di bile del finale. «Ha rovinato tutto». Rosica Michele. Lo scontro ha un vincitore solo.
Da una cena ad un'altra...
Invito a cena con relitto, di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 19 settembre 2018. Se è vero che “le rivoluzioni cominciano per strada e finiscono a tavola” (Leo Longanesi), la cena ai Parioli in casa Calenda era un’ottima idea. Peccato che sia saltata sul più bello, quando elettori e militanti Pd avevano già l’acquolina in bocca. Le ragioni che hanno indotto Calenda ad annullarla sono misteriose, come del resto quelle che l’avevano indotto a convocarla (a parte la gratitudine per le masse operaie del quartiere Parioli, ultima roccaforte elettorale del Pd a Roma). Ma le cose, per chi ama la precisione, sono andate così. Domenica pomeriggio, dopo la pennica ma ancora con l’abbacchio di traverso nel doppio mento, Calenda ha un’ideona e la twitta immantinente: un invito a cena per martedì (ieri) ai due ex premier che gentilmente lo nominarono ministro (Renzi e Gentiloni) e all’unico ex ministro Pd che la gente ricordi senza maledirlo (Minniti). Scopo della seduta culinaria: “Essere operativi”. Almeno di stomaco. La trovata gli è venuta leggendo un tweet (il Pd non rimborsa più le telefonate): quello di un altro noto frequentatore di se stesso, tal Giuliano da Empoli, “intellettuale” fiorentino, figlio di un consigliere di Craxi e collezionista di poltrone da far invidia a Divani & Divani. Laurea con Cassese (ottima alternativa ai centri per l’impiego), consigliere di Maccanico, D’Alema, Amato, Rutelli e Renzi, ma anche autore Mondadori, firma di Sole, Corriere, Repubblica, Riformista e Messaggero, Cda Biennale di Venezia, ad di Marsilio, testa d’uovo della renziana Big Bang, assessore a Firenze nella giunta Renzi, presidente del Gabinetto Vieusseux, membro dell’associazione Italia-Usa, ecc. Il noto self-made-man s’è appellato ai Quattro dell’Ave Pd per dare al partito che tanto ha dato a lui una nuova mission: non – per carità – recuperare qualche elettore in fuga con un paio di idee nuove, ma “impedirne la deriva verso la sottomissione al M5S illiberale e antidemocratico” (nel senso che prende voti). Giusto il problema numero 1 del Pd. Calenda, che s’era appena scusato per la sua “scomparsa” di cui peraltro nessuno s’era accorto, i più ignorando anche la sua comparsa, s’ispira e lancia la cena a quattro. La risposta Dem alla Prova del cuoco. I tre invitati “devono confrontare le agende”. Calenda però è disposto a spostare, se non è martedì sarà mercoledì o giovedì: “Per evitare l’ennesimo tormentone, la data resterà segreta”. Renzi si fa vivo dalla Cina: “Il problema del Paese non è il Pd, ma il governo”, e non si capisce bene se andrà o non andrà. Per Gentiloni, “non è con le cene che si risolvono i problemi del Pd”, però “a Carlo non dico no”: in fondo è gratis. Minniti non twitta niente e, staccati i telefoni, si pensa a un silenzio-assenso. Calenda prenota il catering, tenendosi vago sul numero dei coperti: “Facciamo tre abbondanti. Poi, se avanza qualcosa, spàzzolo io”. Renzi intanto ha deciso per il no: “Il governo leva i vaccini e i nostri discutono di cene? Roba da matti”, twitta da Pechino, dove cerca invano un vaccino contro le maniglie dell’amore. Invece i non invitati parteciperebbero volentieri. “Come interpretare la mia esclusione?”, si tormenta Martina l’autoreggente, ma nessuno gli risponde, e non per cattiveria: a parte quando lo mandano ai funerali a prender fischi in conto terzi, non sanno proprio chi sia. “Dario è nero”, fan sapere i seguaci di Franceschini (e, per favore, nessuno ci chieda i nomi). Orlando, che pesa un quinto di Renzi e Calenda, si dice “a dieta”. Giachetti, gelosone, entra in sciopero della fame. Zingaretti viceversa è ben contento di non far parte della compagnia della buona morte: certi inviti, come i premi, “non basta non riceverli, bisogna proprio non meritarli” (Leo Longanesi). E si organizza per conto suo: “Cenerò in trattoria con un imprenditore, un operaio, un amministratore, un membro di un’associazione, una studentessa e un professore”. Manca solo Giovanni Rana, ma magari entra al posto dell’operaio, se non se ne trova uno che non voti 5Stelle o Lega. Intanto, fuori, accadono alcune cosucce: la Ascani dice al Foglio che si candida alla segreteria, poi Renzi la smentisce, lei strilla alla fake news e il Foglio risponde “ce l’hai detto tu”; Orfini, presidente del Pd, chiede di sciogliere il Pd e rifondarlo con Orfini presidente; Martina sposta la “grande manifestazione contro il governo dell’odio” dal 29 al 30 perché il 29 c’è il derby; il Pd scende sotto il 17% e il governo dell’odio sale al 62. Lunedì Calenda, temendo di ritrovarsi da solo, o peggio solo con Minniti, annulla la cena prim’ancora di poter litigare sul menu: “È stata un errore, sarebbe inutile e dannosa”. Intanto però elettori e militanti si sono appassionati. Gente che da due notti bivacca all’addiaccio sotto casa Calenda, tipo villa di Ronaldo, per salutare i commensali. Chi paga cifre astronomiche per noleggiare le terrazze adiacenti e godersi lo spettacolo. Chi tempesta i centralini (purtroppo staccati) del Pd per incitare la Banda dei Quattro: “Forza, ragazzi, mangiate anche per me!”. E i giornaloni aprono ampi e articolati dibattiti sull’Evento, come se fosse una cosa seria. “Noi – avverte la Bonino su Repubblica – corriamo alle Europee con +Europa e vediamo chi si aggrega”: il 4 marzo furono pochini, ma ora è tutto diverso, purché si evitino “calderoni” (tipo la lista Bonino-Tabacci, per dire). Christian Rocca, su La Stampa, invita Calenda a invitare pure “il sindacalista Bentivogli, baluardo antifascista in questi mesi di vuoto politico dell’opposizione”, dunque pronto alla pugna sulle montagne. Il Foglio dedica due paginoni di pareri al tema “Cena una volta il Pd”. Poi, purtroppo, a rotative ormai spente, si scopre che non se ne fa più nulla. Caso unico di un partito che, prima di sedersi a tavola, è già alla frutta.
Pd, Calenda: "Partito non merita di candidarsi alle Europee, serve segretario psichiatra", scrive il 18 settembre Espresso tv. L'ex ministro dello Sviluppo economico, intervenendo a Circo Massimo su Radio Capital, ha espresso rammarico per la cena saltata con i leader dem. "E' un partito che merita l'estinzione?", chiede Massimo Giannini. Calenda risponde così: "Sono convinto che alle prossime europee il Pd non ci debba essere, serve un fronte repubblicano, progressista, che recuperi la parte di parte di classe dirigente locale e nazionale capace ma che spazzi via un partito che ha come unico obiettivo quello di spartirsi una torta sempre più piccola tra dirigenti che sono usurati, che pensano solo a questo dalla mattina alla sera".
Laura Cesaretti per il Giornale 18 settembre 2018. Da «Indovina chi viene a cena» a «La cena dei cretini», le battute sulla new wave conviviale del Pd - che secondo l'ultimo sondaggio Swg è crollato sotto il 17% - si sprecano. Ironia facile, certo, ma inevitabile visto che il dibattito interno, da qualche giorno, è tutto concentrato sul chi cena con chi. La Cena Numero Uno è quella convocata a casa sua dall'ex ministro Carlo Calenda, che si è pubblicamente rivolto a Renzi, Gentiloni e Minniti con due obiettivi dichiarati: farli smettere di litigare, e metterli d'accordo su una ricetta che faccia uscire il Pd dall'impasse. L'obiettivo non dichiarato è quello di creare un fronte comune contro la candidatura di Nicola Zingaretti, «sganciando» - come spiega uno degli ideatori della cena - l'ex ultimo premier dal governatore del Lazio, che proprio sull'appoggio di Gentiloni punta molte, se non tutte, le sue speranze di vittoria. La Cena Numero Due l'ha inventata su due piedi proprio Zingaretti, per rispondere per le rime all'iniziativa ostile di Calenda: voi fate la cena degli ex ministri? E io faccio la cena della società civile: «La prossima settimana ho organizzato in trattoria una cena con un imprenditore, un operaio, un amministratore, un membro di un'associazione, un giovane professionista, una studentessa ed un professore. Chiederò loro: dove abbiamo sbagliato, e cosa dobbiamo fare per tornare a vincere?». Un bagno di umiltà per l'aspirante candidato leader del Pd, col vestito di saio e pane e cicoria nel menù. La prima cena, intanto, affonda. Tutti hanno detto ufficialmente di sì ma a sera Calenda la annulla: «Lo spirito era quello di riprendere il dialogo, ma in questo contesto è inutile e dannoso». Si è capito che era inutile farla viste le premesse: Renzi e Gentiloni restano su posizioni assai lontane, Marco Minniti (che è il candidato su cui Renzi puntava davvero, per sconfiggere Zingaretti) ha detto chiaro e tondo ad interlocutori molto autorevoli del Pd che «non se ne parla neppure» di una sua candidatura, e negli ultimi giorni ha avuto più di un abboccamento con lo stesso Zingaretti. La soluzione più lineare, che lo stesso Calenda aveva sostenuto, era quella di eleggere segretario del Pd, dopo la batosta elettorale, il premier uscente Gentiloni: l'unico che avrebbe messo d'accordo tutte le anime in pena del Pd, e l'unico che conta ancora su sondaggi di popolarità forti. Gentiloni, sia pur più per senso del dovere che per entusiasmo, era disponibile, a patto che la decisione fosse unanime: Renzi però non ha dato il suo via libera all'ingombrante successore, e l'operazione è fallita. Lasciando il Pd e gli stessi renziani, privi di un candidato credibile, nelle peste. La cena non si è fatta, probabilmente non si farà, ma è riuscita comunque a creare molti malumori. L'ha presa malissimo Dario Franceschini, ex ministro e importante capocorrente, ma non invitato: «È nero», dicono i suoi. L'ha presa male anche Maurizio Martina, segretario pro-tempore ma anche lui non invitato: «Come devo interpretare questa esclusione?», ha chiesto agli organizzatori. Nel frattempo, Martina ha troncato sul nascere le voci interessate che parlavano di rinvio del congresso Pd: il congresso si farà e presto, all'inizio del prossimo anno, ha annunciato. Un bell'assist a Zingaretti, che teme manovre dilatorie dei renziani per bloccarlo. Renzi intanto sbuffa: «Il governo leva i vaccini e i nostri discutono di cene? Roba da matti». A riprova che di cena della pacificazione proprio non era aria.
Dino Martirano per il Corriere della Sera del 18 settembre 2018. Le tappe del congresso del Partito democratico sono segnate dal calendario (ottobre 2018-gennaio 2019) deciso a maggioranza dall' Assemblea nazionale del 7 luglio, ma, al momento, ai militanti e agli elettori del partito guidato da Maurizio Martina vengono proposte soltanto cene di corrente. Dopo l' invito a tavola nella casa romana dell'ex ministro Carlo Calenda - rivolto a Matteo Renzi, Paolo Gentiloni e Marco Minniti «per essere operativi» in vista della sfida congressuale e alla fine annullato dallo stesso Calenda - si prospettava un altro incontro conviviale: un appuntamento in trattoria promosso dall' unico candidato in corsa al momento per la segreteria, il governatore del Lazio Nicola Zingaretti, che voleva condividere la cena con «un operaio, un imprenditore, uno studente, un professore per chiedere loro "Dove abbiamo sbagliato?"». L' ospite conteso tra le due tavole sembrava essere l'ex presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, che, dopo l'invito in casa Calenda, aveva sommessamente osservato: «A Carlo non dico no, ma non è tavola che si risolvono i problemi del partito...». E così Zingaretti, pur non avendolo invitato in trattoria, è proprio all' ex premier che si era rivolto: «Paolo Gentiloni ha detto cose sagge sul tema del nostro modo di discutere per mettere al centro il congresso e la partecipazione, le condivido in pieno anche questa volta». Ma Calenda non ha accettato la tesi delle cene contrapposte: «Lo escludo. Zingaretti è persona troppo intelligente per rispondere così a un incontro che non è contro nessuno». E, alle 22.03, con un tweet ha annunciato: «Dopo 24 ore di polemiche interne e amenità varie, a partire dalla disfida delle cene, ho cancellato l'incontro. Lo spirito era quello di riprendere un dialogo tra persone che hanno lavorato insieme per il Paese e aiutare Pd. In questo contesto è inutile e dannoso». Il segretario del Pd Maurizio Martina, intanto, continua il suo tour: ieri era ai cancelli dello stabilimento Amazon, vicino Piacenza e poi a Reggio Emilia con Graziano Delrio in una delle periferie penalizzate dai tagli varati da Lega e M5S: «Stop alle polemiche, io penso alla manifestazione in piazza del Popolo del 30 settembre».
Goffredo De Marchis per La Repubblica del 18 settembre 2018. Dopo la conferma della cena a casa Calenda, arriva pure la "controcena" organizzata da Nicola Zingaretti e la battaglia congressuale dentro al Pd rischia di trasformarsi in una sfida ai fornelli. Finché dalla Cina Matteo Renzi prende le distanze: "Questi levano i vaccini, e i nostri parlano delle cene. Roba da matti", dice parlando ai suoi collaboratori. In mattinata arriva la dichiarazione soddisfatta di Carlo Calenda: Matteo Renzi, Paolo Gentiloni e Marco Minniti hanno infatti accettato l'invito rivolto loro da Carlo Calenda. L'appuntamento non è più per martedì, come previsto inizialmente. "La data è stata spostata - spiega l'ex ministro dello Sviluppo economico rispondendo ad un suo follower su twitter - e per evitare l'ennesimo tormentone sul PD rimane riservata". Ma Calenda si è detto molto contento: "È un gesto di responsabilità di tutti i partecipanti. Bene così. Ottima notizia". Questo, almeno, fino alla frenata di Matteo Renzi. Qualche ora dopo, ecco l'annuncio di Nicola Zingaretti, per ora l'unico candidato ufficiale alle primarie del Pd: una controcena con un imprenditore, un operaio, uno studente, un professore, un volontario, un professionista. In altre parole i rappresentati delle diverse categorie sociali italiane. "Per un congresso diverso, aperto e partecipato, la prossima settimana - ha spiegato il governatore del Lazio - ho organizzato in trattoria una cena con un imprenditore del Mezzogiorno di una piccola azienda, un operaio, un amministratore impegnato nella legalità, un membro di un'associazione in prima fila sulla solidarietà, un giovane professionista a capo di una azienda start up, una studentessa ed un professore di liceo". "A tutti loro voglio chiedere - ha proseguito Zingaretti - che dobbiamo fare secondo voi? Dove abbiamo sbagliato? Come riprendere a lottare e vincere? Perché la nostra storia ricomincia così: ascoltando le persone". Poi, dopo aver definito sagge le parole di Gentiloni sul congresso, il governatore ha ricordato l'appuntamento con la sua iniziativa il prossimo 13 e 14 ottobre a Roma all' Ex Dogana, per Piazza Grande. La mossa di Zingaretti ha lasciato incredulo Calenda: "Una controcena? Non credo. Anzi lo escludo. Zingaretti è persona troppo intelligente per 'rispondere' così a un incontro tra quattro persone che peraltro non è fatto contro nessuno ma solo per confrontarsi tra ex colleghi di governo. Evitiamo interpretazioni che non reggono". Dopodiché il ministro è tornato sulla sua proposta di andare "oltre il Pd". "Oggi il partito - ha argomentato - è un tutti contro tutti. Non si può andare avanti così. Va fatta una segreteria costituente, con persone che hanno una voce pubblica, anche con sindaci come Sala o Gori. Poi si fa un congresso rapidamente e si elegge, che so? Zingaretti. Ma chi vince deve aver chiaro che andare alle Europee così è un suicidio. Ci sono persone disposte ad impegnarsi ma non con il solo Pd" ha detto l'ex ministro intervistato da Tgcom 24. "Oggi la capacità di rappresentare un pezzo ampio di società il Pd da solo non c'è l'ha più - ha rilanciato - Occorre qualcosa che va oltre". La sfida delle cene arriva all'indomani della mossa del segretario del Pd Maurizio Martina che non solo ha confermato il congresso, ma anche deciso di accelerare annunciando le primarie per il prossimo gennaio. Una decisione non presa bene dal presidente del partito, Matteo Orfini, che aveva proposto di sciogliere il partito per rifondare una nuova forza politica. "Pensate davvero che così la risolviamo? - Ha chiesto Orfini - Beati voi...". Ma la proposta di scioglimento del partito per ora non ha ricevuto sostegni. Anzi contro si sono pronunciati sia Gentiloni, sia Zingaretti, che ha interpretato la proposta come un tentativo di rinviare il congresso. Rinvio che sarebbe gradito ai renziani, che non riescono ancora a trovare un loro candidato per il congresso. Ma "un Pd de-polemicizzato sarà possibile?" si chiede Matteo Renzi nella sua enews, redatta dalla Cina. Secondo l'ex segretario dem è necessario perchè "a forza di fuoco amico si ammazza qualunque leadership". Quanto alle critiche al suo "caratteraccio" replica così: "Io vorrei critiche o rilievi sui risultati del nostro governo e magari anche qualche comparazione con quelli di adesso invece che critiche sul mio carattere". E dopo il consueto invito a "non mollare" avverte: "Stiamo per entrare in un autunno ricco di cose da fare insieme: non stupitevi se tornano ad attaccarci". Durissimo, sull'iniziativa delle cene, uno dei leader della minoranza interna: il governatore della Puglia, Michele Emiliano: "La questione della cena mi sembra un metodo sul quale avevo sentito molte volte Renzi dire che non gli piaceva partecipare a caminetti. Evidentemente ha cambiato idea. È una modalità politica che ancora una volta lascia fuori gli italiani, la struttura del partito. Pensano di essere dentro ancora una struttura che gli consente di prendere decisioni durante una cena. E questo la dice lunga sulla crisi profondissima del partito". Una stroncatura anche da un ex parlamentare dem, Stefano Esposito: "Se potete datevi tutti una sana regolata. Se potete e se volete. Un abbraccio" E mentre i big del Pd dibattono del congresso, uno dei più autorevoli fondatori del partito, Romano Prodi, lancia l'allarme contro il sovranismo in Europa: "È un suicidio. O stiamo assieme e abbiamo una parola nel mondo, oppure torniamo al sovranismo e non abbiamo nessuna parola", ha detto l'ex premier intervenendo a una conferenza a Bolzano.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
Dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Il Potere ti impone: subisci e taci…e noi, coglioni, subiamo la divisione per non poterci ribellare.
Il limite del tempo e dell'uomo, scrive Vittorio Sgarbi, Giovedì 28/12/2017, su "Il Giornale". «Due verità che gli uomini generalmente non crederanno mai: l'una di non saper nulla, l'altra di non esser nulla. Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza dalla seconda: di non aver nulla a sperare dopo la morte». Un pensiero di Leopardi dallo Zibaldone. Inadatto al clima natalizio, ma terribilmente vero. Forse la forza di un pensiero così chiaro dissolve le nostre illusioni, ma ci impegna a dimenticarlo, per fingere che la nostra vita abbia un senso. Perché vivere altrimenti? L'insensatezza della nostra azione si misura con la brevità del tempo. Da tale pensiero è sfiorato anche Dante, che non dubitava di Dio, ma misurava il nostro limite rispetto al tempo: «Se tu riguardi Luni e Urbisaglia/come sono ite e come se ne vanno/di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,/udir come le schiatte si disfanno/non ti parrà nuova cosa né forte,/poscia che le cittadi termine hanno./Le vostre cose tutte hanno lor morte,/sì come voi; ma celasi in alcuna/che dura molto, e le vite son corte». Se tutto finisce, perché noi dovremmo sopravviverci? E se ci fosse qualcosa dopo la morte, che limite dovremmo porvi? I nati e i morti, prima di Cristo, gli egizi e i greci, con le loro religioni, che spazio dovrebbero avere, nell'aldilà che non potevano presumere? La vita dopo la morte toccherebbe anche agli inconsapevoli? Con Dante e Leopardi, all'inferno incontreremo anche Marziale e Catullo? O la vita oltre la morte non sono già, come per Leopardi, i loro versi?
Una locuzione latina, un motto degli antichi romani, è: dividi et impera! Espediente fatto proprio dal Potere contemporaneo, dispotico e numericamente modesto, per controllare un popolo, provocando rivalità e fomentando discordie.
Comunisti, e media a loro asserviti, istigano le rivalità.
Dove loro vedono donne o uomini, io vedo persone con lo stesso problema.
Dove loro vedono lgbti o eterosessuali, io vedo amanti con lo stesso problema.
Dove loro vedono bellezza o bruttezza, io vedo qualcosa che invecchierà con lo stesso problema.
Dove loro vedono madri o padri, io vedo genitori con lo stesso problema.
Dove loro vedono comunisti o fascisti, io vedo elettori con lo stesso problema.
Dove loro vedono settentrionali o meridionali, io vedo cittadini italiani con lo stesso problema.
Dove loro vedono interisti o napoletani, io vedo tifosi con lo stesso problema.
Dove loro vedono ricchi o poveri, io vedo contribuenti con lo stesso problema.
Dove loro vedono immigrati o indigeni, io vedo residenti con lo stesso problema.
Dove loro vedono pelli bianche o nere, io vedo individui con lo stesso problema.
Dove loro vedono cristiani o mussulmani, io vedo gente che nasce senza volerlo, muore senza volerlo e vive una vita di prese per il culo.
Dove loro vedono colti od analfabeti, io vedo discultura ed oscurantismo, ossia ignoranti con lo stesso problema.
Dove loro vedono grandi menti o grandi cazzi, io vedo geni o cazzoni con lo stesso problema.
L’astensione al voto non basta. Come la protesta non può essere delegata ad una accozzaglia improvvisata ed impreparata. Bisogna fare tabula rasa dei vecchi principi catto comunisti, filo massonici-mafiosi.
Noi siamo un unicum con i medesimi problemi, che noi stessi, conoscendoli, possiamo risolvere. In caso contrario un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.
Ed io non sarò tra quei coglioni che voteranno dei coglioni.
La legalità è un comportamento conforme alla legge. Legalità e legge sono facce della stessa medaglia.
Nei regimi liberali l’azione normativa per intervento statale, per regolare i rapporti tra Stato e cittadino ed i rapporti tra cittadini, è limitata. Si lascia spazio all’evolvere naturale delle cose. La devianza è un’eccezione, solo se dannosa per l'equilibrio sociale.
Nei regimi socialisti/comunisti/populisti l’intervento statale è inflazionato da miriadi di leggi, oscure e sconosciute, che regolano ogni minimo aspetto della vita dell’individuo, che non è più singolo, ma è massa. Il cittadino diventa numero di pratica amministrativa, di cartella medica, di fascicolo giudiziario. Laddove tutti si sentono onesti ed occupano i posti che stanno dalla parte della ragione, c’è sempre quello che si sente più onesto degli altri, e ne limita gli spazi. In nome di una presunta ragion di Stato si erogano miriadi di norme sanzionatrici limitatrici di libertà, spesso contrastati, tra loro e tra le loro interpretazioni giurisprudenziali. Nel coacervo marasma normativo è impossibile conformarsi, per ignoranza o per necessità. Ne è eccezione l'indole. Addirittura il legislatore è esso medesimo abusivo e dichiarato illegittimo dalla stessa Corte Costituzionale, ritenuto deviante dalla suprema Carta. Le leggi partorite da un Parlamento illegale, anch'esse illegali, producono legalità sanzionatoria. Gli operatori del diritto manifestano pillole di competenza e perizia pur essendo essi stessi cooptati con concorsi pubblici truccati. In questo modo aumentano i devianti e si è in pochi ad essere onesti, fino alla assoluta estinzione. In un mondo di totale illegalità, quindi, vi è assoluta impunità, salvo l'eccezione del capro espiatorio, che ne conferma la regola. Ergo: quando tutto è illegale, è come se tutto fosse legale.
L’eccesso di zelo e di criminalizzazione crea un’accozzaglia di organi di controllo, con abuso di burocrazia, il cui rimedio indotto per sveltirne l’iter è la corruzione.
Gli insani ruoli, politici e burocratici, per giustificare la loro esistenza, creano criminali dove non ne esistono, per legge e per induzione.
Ergo: criminalizzazione = burocratizzazione = tassazione-corruzione.
Allora, si può dire che è meglio il laissez-faire (il lasciare fare dalla natura delle cose e dell’animo umano) che essere presi per il culo e …ammanettati per i polsi ed espropriati dai propri beni da un manipolo di criminali demagoghi ed ignoranti con un’insana sete di potere.
Prendiamo per esempio il fenomeno cosiddetto dell'abusivismo edilizio, che è elemento prettamente di natura privata. I comunisti da sempre osteggiano la proprietà privata, ostentazione di ricchezza, e secondo loro, frutto di ladrocinio. Sì, perchè, per i sinistri, chi è ricco, lo è perchè ha rubato e non perchè se lo è guadagnato per merito e per lavoro.
Il perchè al sud Italia vi è più abusivismo edilizio (e per lo più tollerato)? E’ presto detto. Fino agli anni '50 l'Italia meridionale era fondata su piccoli borghi, con case di due stanze, di cui una adibita a stalla. Paesini da cui all’alba si partiva per lavorare nelle o presso le masserie dei padroni, per poi al tramonto farne ritorno. La masseria generalmente non era destinata ad alloggio per i braccianti.
Al nord Italia vi erano le Cascine a corte o Corti coloniche, che, a differenza delle Masserie, erano piccoli agglomerati che contenevano, oltre che gli edifici lavorativi e magazzini, anche le abitazioni dei contadini. Quei contadini del nord sono rimasti tali. Terroni erano e terroni son rimasti. Per questo al Nord non hanno avuto la necessità di evolversi urbanisticamente. Per quanto riguardava gli emigrati bastava dargli una tana puzzolente.
Al Sud, invece, quei braccianti sono emigrati per essere mai più terroni. Dopo l'ondata migratoria dal sud Italia, la nuova ricchezza prodotta dagli emigranti era destinata alla costruzione di una loro vera e bella casa in terra natia, così come l'avevano abitata in Francia, Germania, ecc.: non i vecchi tuguri dei borghi contadini, nè gli alveari delle case ringhiera o dei nuovi palazzoni del nord Italia. Inoltre quei braccianti avevano imparato un mestiere, che volevano svolgere nel loro paese di origine, quindi avevano bisogno di costruire un fabbricato per adibirlo a magazzino o ad officina. Ma la volontà di chi voleva un bel tetto sulla testa od un opificio, si scontrava e si scontra con la immensa burocrazia dei comunisti ed i loro vincoli annessi (urbanistici, storici, culturali, architettonici, archeologici, artistici, ambientali, idrogeologici, di rispetto, ecc.), che inibiscono ogni forma di soluzione privata. Ergo: per il diritto sacrosanto alla casa ed al lavoro si è costruito, secondo i canoni di sicurezza e di vincoli, ma al di fuori del piano regolatore generale (Piano Urbanistico) inesistente od antico, altrimenti non si potrebbe sanare con ulteriori costi sanzionatori che rende l’abuso antieconomico. Per questo motivo si pagano sì le tasse per una casa od un opificio, che la burocrazia intende abusivo, ma che la stessa burocrazia non sana, nè dota quelle costruzioni, in virtù delle tasse ricevute e a tal fine destinate, di infrastrutture primarie: luce, strade, acqua, gas, ecc.. Da qui, poi, nasce anche il problema della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti. Burocrazia su Burocrazia e gente indegna ed incapace ad amministrarla.
Per quanto riguarda, sempre al sud, l'abusivismo edilizio sulle coste, non è uno sfregio all'ambiente, perchè l'ambiente è una risorsa per l'economia, ma è un tentativo di valorizzare quell’ambiente per far sviluppare il turismo, come fonte di sviluppo sociale ed economico locale, così come in tutte le zone a vocazione turistica del mediterraneo, che, però, la sinistra fa fallire, perchè ci vuole tutti poveri e quindi, più servili e assoggettabili. L'ambientalismo è una scusa, altrimenti non si spiega come al nord Italia si possa permettere di costruire o tollerare costruzioni alle pendici dei monti, o nelle valli scoscese, con pericolo di frane ed alluvioni, ma per gli organi di informazione nazionale, prevalentemente nordisti e razzisti e prezzolati dalla sinistra, è un buon viatico, quello del tema dell'abusivismo e di conseguenza della criminalità che ne consegue, o di quella organizzata che la si vede anche se non c'è o che è sopravalutata, per buttare merda sulla reputazione dei meridionali.
Prima della rivoluzione francese “L’Ancien Régime” imponeva: ruba ai poveri per dare ai ricchi.
Erano dei Ladri!!!
Dopo, con l’avvento dei moti rivoluzionari del proletariato e la formazione ideologica/confessionale dei movimenti di sinistra e le formazioni settarie scissioniste del comunismo e del fascismo, si impose il regime contemporaneo dello stato sociale o anche detto stato assistenziale (dall'inglese welfare state). Lo stato sociale è una caratteristica dei moderni stati di diritto che si fondano sul presupposto e inesistente principio di uguaglianza, in quanto possiamo avere uguali diritti, ma non possiamo essere ritenuti tutti uguali: c’è il genio e l’incapace, c’è lo stakanovista e lo scansafatiche, l’onesto ed il deviante. Il capitale di per sé produce reddito, anche senza il fattore lavoro. Lavoro e capitale messi insieme, producono ricchezza per entrambi. Il lavoro senza capitale non produce ricchezza. Il ritenere tutti uguali è il fondamento di quasi tutte le Costituzioni figlie dell’influenza della rivoluzione francese: Libertà, Uguaglianza, Solidarietà. Senza questi principi ogni stato moderno non sarebbe possibile chiamarlo tale. Questi Stati non amano la meritocrazia, né meritevoli sono i loro organi istituzionali e burocratici. Il tutto si baratta con elezioni irregolari ed a larga astensione e con concorsi pubblici truccati di cooptazione. In questa specie di democrazia vige la tirannia delle minoranze. L’egualitarismo è una truffa. E’ un principio velleitario detto alla “Robin Hood”, ossia: ruba ai ricchi per dare ai poveri.
Sono dei ladri!!!
Tra l’antico regime e l’odierno sistema quale è la differenza?
Sempre di ladri si tratta. Anzi oggi è peggio. I criminali, oggi come allora, saranno coloro che sempre si arricchiranno sui beoti che li acclamano, ma oggi, per giunta, ti fanno intendere di fare gli interessi dei più deboli.
Non diritto al lavoro, che, come la manna, non cade dal cielo, ma diritto a creare lavoro. Diritto del subordinato a diventare titolare. Ma questo principio di libertà rende la gente libera nel produrre lavoro e ad accumulare capitale. La “Libertà” non è statuita nell’articolo 1 della nostra Costituzione catto comunista. Costituzioni che osannano il lavoro, senza crearne, ma foraggiano il capitale con i soldi dei lavoratori.
Le confessioni comuniste/fasciste e clericali ti insegnano: chiedi e ti sarà dato e comunque, subisci e taci!
Io non voglio chiedere niente a nessuno, specie ai ladri criminali e menzogneri, perché chi chiede si assoggetta e si schiavizza nella gratitudine e nella riconoscenza.
Una vita senza libertà è una vita di merda…
Cultura e cittadinanza attiva. Diamo voce alla piccola editoria indipendente.
Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Una lettura alternativa per l’estate, ma anche per tutto l’anno. L’autore Antonio Giangrande: “Conoscere per giudicare”.
"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI.
La collana editoriale indipendente “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” racconta un’Italia inenarrabile ed inenarrata.
È così, piaccia o no ai maestrini, specie quelli di sinistra. Dio sa quanto gli fa torcere le budella all’approcciarsi del cittadino comune, ai cultori e praticanti dello snobismo politico, imprenditoriale ed intellettuale, all’élite che vivono giustificatamente separati e pensosi, perennemente con la puzza sotto il naso.
Il bello è che, i maestrini, se è contro i loro canoni, contestano anche l’ovvio.
Come si dice: chi sa, fa; chi non sa, insegna.
In Italia, purtroppo, vigono due leggi.
La prima è la «meritocrazia del contenuto». Secondo questa regola tutto quello che non è dichiaratamente impegnato politicamente è materia fecale. La conseguenza è che, per dimostrare «l'impegno», basta incentrare tutto su un contenuto e schierarsene ideologicamente a favore: mafia, migranti, omosessualità, ecc. Poi la forma non conta, tantomeno la realtà della vita quotidiana. Da ciò deriva che, se si scrive in modo neutro (e quindi senza farne una battaglia ideologica), si diventa non omologato, quindi osteggiato o emarginato o ignorato.
La seconda legge è collegata alla prima. La maggior parte degli scrittori nostrani si è fatta un nome in due modi. Primo: rompendo le balle fin dall'esordio con la superiorità intellettuale rispetto alle feci che sarebbero i «disimpegnati».
Secondo modo per farsi un nome: esordire nella medietà (cioè nel tanto odiato nazional-popolare), per poi tentare il salto verso la superiorità.
Il copione lo conosciamo: a ogni gaffe di cultura generale scatta la presa in giro. Il problema è che a perderci sono proprio loro, i maestrini col ditino alzato. Perché è meno grave essere vittime dello scadimento culturale del Paese che esserne responsabili. Perché, nonostante le gaffe conclamate e i vostri moti di sdegno e scherno col ditino alzato su congiuntivi, storia e geografia, gli errori confermano a pieno titolo come uomini di popolo, gente comune, siano vittime dello scadimento culturale del Paese e non siano responsabili di una sub cultura menzognera omologata e conforme. Forse alla gente comune rompe il cazzo il sentire le prediche e le ironie di chi - lungi dall’essere anche solo avvicinabile al concetto di élite - pensa di saperne un po’ di più. Forse perché ha avuto insegnanti migliori, o un contesto famigliare un po’ più acculturato, o il tempo di leggere qualche libro in più. O forse perchè ha maggior dose di presunzione ed arroganza, oppure occupa uno scranno immeritato, o gli si dà l’opportunità mediatica immeritata, che gli dà un posto in alto e l’opportunità di vaneggiare.
Non c'è nessun genio, nessun accademico tra i maestrini. Del resto, mai un vero intellettuale si permetterebbe di correggere una citazione errata, tantomeno di prenderne in giro l'autore. Solo gente normale con una cultura normale pure loro, con una alta dose di egocentrismo, cresciuti a pane, magari a videocassette dell’Unità di Veltroni e citazioni a sproposito di Pasolini. Maestrini che vedono la pagliuzza negli occhi altrui, pagliuzza che spesso non c'è neppure, e non hanno coscienza della trave nei loro occhi o su cui sono appoggiati.
Intervista all’autore, il dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
«Quando ero piccolo a scuola, come in famiglia, mi insegnavano ad adempiere ai miei doveri: studiare per me per sapere; lavorare per la famiglia; assolvere la leva militare per la difesa della patria; frequentare la chiesa ed assistere alla messa domenicale; ascoltare i saggi ed i sapienti per imparare, rispettare il prossimo in generale ed in particolare i più grandi, i piccoli e le donne, per essere rispettato. La visita giornaliera ai nonni ed agli zii era obbligatoria perché erano subgenitori. I cugini erano fratelli. Il saluto preventivo agli estranei era dovuto. Ero felice e considerato. L'elargizione dei diritti era un premio che puntuale arrivava. Contava molto di più essere onesti e solidali che non rivendicare o esigere qualcosa che per legge o per convenzione ti spettava. Oggi: si pretende (non si chiede) il rispetto del proprio (e non dell'altrui) diritto, anche se non dovuto; si parla sempre con imposizione della propria opinione; si fa a meno di studiare e lavorare o lo si impedisce di farlo, come se fosse un dovere, più che un diritto; la furbizia per fottere il prossimo è un dono, non un difetto. Non si ha rispetto per nessun'altro che non sia se stesso. Non esiste più alcun valore morale. Non c'è più Stato; nè Famiglia; nè religione; nè amicizia. Sui social network, il bar telematico, sguazzano orde di imbecilli. Quanto più amici asocial si hanno, più si è soli. Questa è l'involuzione della specie nella società moderna liberalcattocomunista».
Quindi, oggi, cosa bisogna sapere?
«Non bisogna sapere, ma è necessario saper sapere. Cosa voglio dire? Affermo che non basta studiare il sapere che gli altri od il Sistema ci propinano come verità e fermarci lì, perché in questo caso diveniamo quello che gli altri hanno voluto che diventassimo: delle marionette. E’ fondamentale cercare il retro della verità propinata, ossia saper sapere se quello che sistematicamente ci insegnano non sia una presa per il culo. Quindi se uno già non sa, non può effettuare la verifica con un ulteriore sapere di ricerca ed approfondimento. Un esempio per tutti. Quando si studia giurisprudenza non bisogna fermarsi alla conoscenza della norma ed eventualmente alla sua interpretazione. Bisogna sapere da chi e con quale maggioranza ideologica e perchè è stata promulgata o emanata e se, alla fine, sia realmente condivisa e rispettata. Bisogna conoscere il retro terra per capirne il significato: se è stata emessa contro qualcuno o a favore di qualcun'altro; se è pregna di ideologia o adottata per interesse di maggioranza di Governo; se è un'evoluzione storica distorsiva degli usi e dei costumi nazionali o influenzata da pregiudizi, o sia una conformità alla legislazione internazionale lontana dalla nostra cultura; se è stata emanata per odio...L’odio è un sentimento di rivalsa verso gli altri. Dove non si arriva a prendere qualcosa si dice che non vale. E come quel detto sulla volpe che non riuscendo a prendere l’uva disse che era acerba. Nel parlare di libertà la connessione va inevitabilmente ai liberali ed alla loro politica di deburocratizzazione e di delegificazione e di liberalizzazione nelle arti, professioni e nell’economia mirante all’apoteosi della meritocrazia e della responsabilità e non della inadeguatezza della classe dirigente. Lo statalismo è una stratificazione di leggi, sanzioni e relativi organi di controllo, non fini a se stessi, ma atti ad alimentare corruttela, ladrocinio, clientelismo e sopraffazione dei deboli e degli avversari politici. Per questo i liberali sono una razza in estinzione: non possono creare consenso in una massa abituata a pretendere diritti ed a non adempiere ai doveri. Fascisti, comunisti e clericali sono figli degeneri di una stessa madre: lo statalismo ed il centralismo. Si dicono diversi ma mirano tutti all’assistenzialismo ed alla corruzione culturale per influenzare le masse: Panem et circenses (letteralmente «pane e [giochi] circensi») è una locuzione latina piuttosto nota e spesso citata, usata nell'antica Roma e al giorno d'oggi per indicare in sintesi le aspirazioni della plebe (nella Roma di età imperiale) o della piccola borghesia, o d'altro canto in riferimento a metodi politici bassamente demagogici. Oggi la politica non ha più credibilità perchè non è scollegata dall’economia e dalle caste e dalle lobbies che occultamente la governano, così come non sono più credibili i loro portavoce, ossia i media di regime, che tanto odiano la "Rete". Internet, ormai, oggi, è l'unico strumento che permette di saper sapere, dando modo di scoprire cosa c'è dietro il fronte della medaglia, ossia cosa si nasconda dietro le fake news (bufale) di Stato o dietro la discultura e l'oscurantismo statalista».
Cosa racconta nei suoi libri?
«Sono un centinaio di saggi di inchiesta composti da centinaia di pagine, che raccontano di un popolo difettato che non sa imparare dagli errori commessi. Pronto a giudicare, ma non a giudicarsi. I miei libri raccontato l’indicibile. Scandali, inchieste censurate, storie di ordinaria ingiustizia, di regolari abusi e sopraffazioni e di consueta omertà. Raccontano, attraverso testimonianze e documenti, per argomento e per territorio, i tarli ed i nei di una società appiattita che aspetta il miracolo di un cambiamento che non verrà e che, paradosso, non verrà accettato. In più, come chicca editoriale, vi sono i saggi con aggiornamento temporale annuale, pluritematici e pluriterritoriali. Tipo “Selezione dal Reader’s Digest”, rivista mensile statunitense per famiglie, pubblicata in edizione italiana fino al 2007. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi nei saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali di distribuzione internazionale in forma Book o E-book. Canali di pubblicazione e di distribuzione come Amazon o Google libri. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche. I testi hanno una versione video sui miei canali youtube».
Qual è la reazione del pubblico?
«Migliaia sono gli accessi giornalieri alle letture gratuite di parti delle opere su Google libri e decine di migliaia sono le pagine lette ogni giorno. Accessi da tutto il mondo, nonostante il testo sia in lingua italiana e non sia un giornale quotidiano. Si troveranno, anche, delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato».
Perché è poco conosciuto al grande pubblico generalista?
«Perché sono diverso. Oggi le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili sono emarginati o ignorati. Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti. In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo. Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso. Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte. Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”».
Qual è la sua missione?
«“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente…Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili”. Citazioni di Bertolt Brecht. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»
Perché è orgoglioso di essere diverso?
«E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta...” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso...” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale».
Dr. Antonio Giangrande. Orgoglioso di essere diverso.
La massa ti considera solo se hai e ti votano solo se dai. Nulla vali se tu sai. Victor Hugo: "Gli uomini ti stimano in rapporto alla tua utilità, senza tener conto del tuo valore." Le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale, tangibile ed immediata, da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili da sempre, pur con altissimo valore, sono emarginati o ignorati, inibendone, ulteriormente, l’utilità.
Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
Fa quello che si sente di fare e crede in quello che si sente di credere.
La Democrazia non è la Libertà.
La libertà è vivere con libero arbitrio nel rispetto della libertà altrui.
La democrazia è la dittatura di idioti che manipolano orde di imbecilli ignoranti e voltagabbana.
Cattolici e comunisti, le chiese imperanti, impongono la loro libertà, con la loro morale, il loro senso del pudore ed il loro politicamente corretto.
Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.
Facciamo sempre il solito errore: riponiamo grandi speranze ed enormi aspettative in piccoli uomini senza vergogna.
Un altro errore che commettiamo è dare molta importanza a chi non la merita.
"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI
Le pecore hanno paura dei lupi, ma è il loro pastore che le porta al macello.
Da sociologo storico ho scritto dei saggi dedicati ad ogni partito o movimento politico italiano: sui comunisti e sui socialisti (Craxi), sui fascisti (Mussolini), sui cattolici (Moro) e sui moderati (Berlusconi), sui leghisti e sui pentastellati. Il sottotitolo è “Tutto quello che non si osa dire. Se li conosci li eviti.” Libri che un popolo di analfabeti mai leggerà.
Da queste opere si deduce che ogni partito o movimento politico ha un comico come leader di riferimento, perché si sa: agli italiani piace ridere ed essere presi per il culo. Pensate alle battute di Grillo, alle barzellette di Berlusconi, alle cazzate di Salvini, alle freddure della Meloni, alle storielle di Renzi, alle favole di D’Alema e Bersani, ecc. Partiti e movimenti aventi comici come leader e ladri come base.
Gli effetti di avere dei comici osannati dai media prezzolati nei tg o sui giornali, anziché vederli esibirsi negli spettacoli di cabaret, rincoglioniscono gli elettori. Da qui il detto: un popolo di coglioni sarà sempre amministrato o governato, informato, istruito e giudicato da coglioni.
Per questo non ci lamentiamo se in Italia mai nulla cambia. E se l’Italia ancora va, ringraziamo tutti coloro che anziché essere presi per il culo, i comici e la loro clack (claque) li mandano a fanculo.
Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.
Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.
Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?
"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)
«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.
Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.
Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.
John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!
Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.
Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013.
Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.
Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...
Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa".
Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.
La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.
Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.
Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.
Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.
Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.
Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.
Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.
Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.
E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.
Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.
E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.
Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.
Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.
Ergo. Ai miei figli ho insegnato:
Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;
Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;
Le banche vi vogliono falliti;
La burocrazia vi vuole sottomessi;
La giustizia vi vuole prigionieri;
Siete nati originali…non morite fotocopia.
Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere.
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Lettera ad un amico che ha tentato la morte.
Le difficoltà rinforzano il carattere e certo quello che tu eri, oggi non lo sei.
Le difficoltà le affrontano tutti in modi diversi, come dire: in ogni casa c’è una croce. L’importante portarla con dignità. E la forza data per la soluzione è proporzionale all’intelligenza.
Per cui: x grado di difficoltà = x grado di intelligenza.
Pensa che io volevo studiare per emergere dalla mediocrità, ma la mia famiglia non poteva.
Per poter studiare dovevo lavorare. Ma lavoro sicuro non ne avevo.
Per avere un lavoro sicuro dovevo vincere un concorso pubblico, che lo vincono solo i raccomandati.
Ho partecipato a decine di concorsi pubblici: nulla di fatto.
Nel “mezzo del cammin della mia vita”, a trentadue anni, avevo una moglie e due figli ed una passione da soddisfare.
La mia vita era in declino e le sconfitte numerose: speranza per il futuro zero!
Ho pensato ai miei figli e si è acceso un fuoco. Non dovevano soffrire anche loro.
Le difficoltà si affrontano con intelligenza: se non ce l’hai, la sviluppi.
Mi diplomo in un anno presso la scuola pubblica da privatista: caso unico.
Mi laureo alla Statale di Milano in giurisprudenza in due anni: caso raro.
Sembrava fatta, invece 17 anni per abilitarmi all’avvocatura senza successo per ritorsione di chi non accetta i diversi. Condannato all’indigenza e al discredito, per ritorsione dei magistrati e dei media a causa del mio essere diverso.
Mio figlio ce l’ha fatta ad abilitarsi a 25 anni con due lauree, ma è impedito all’esercizio a causa del mio disonore.
Lui aiuta gli altri nello studio a superare le incapacità dei docenti ad insegnare.
Io aiuto gli altri, con i miei saggi, ad essere orgogliosi di essere diversi ed a capire la realtà che li circonda.
Dalla mia esperienza posso dire che Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi o valutazioni lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.
Quindi, caro amico, non guardare più indietro. Guarda avanti. Non pensare a quello che ti manca o alle difficoltà che incontri, ma concentrati su quello che vuoi ottenere. Se non lasci opere che restano, tutti di te si dimenticano, a prescindere da chi eri in vita.
Pensa che più difficoltà ci sono, più forte diventerai per superarle.
Volere è potere.
E sii orgoglioso di essere diverso, perché quello che tu hai fatto, tentare la morte, non è segno di debolezza. Ma di coraggio.
Le menti più eccelse hanno tentato o pensato alla morte. Quella è roba da diversi. Perché? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Per questo bisogna vivere, se lo hai capito: per ribellione e per rivalsa!
Non si deve riporre in me speranze mal riposte.
Io posso dare solidarietà o prestare i miei occhi per leggere o le mie orecchie per sentire, ma cosa posso fare per gli altri, che non son stato capace di fare per me stesso?
Nessuno ha il potere di cambiare il mondo, perché il mondo non vuol essere cambiato.
Ho solo il potere di scrivere, senza veli ideologici o religiosi, quel che vedo e sento intorno a me. E’ un esercizio assolutamente soggettivo, che, d’altronde, non mi basta nemmeno a darmi da vivere.
E’ un lavoro per i posteri, senza remunerazione immediata.
Essere diversi significa anche essere da soli: senza un gruppo di amici sinceri o una claque che ti sostenga.
Il fine dei diversi non combacia con la meta della massa. La storia dimostra che è tutto un déjà-vu.
Tante volte ho risposto no ai cercatori di biografie personali, o ai sostenitori di battaglie personali. Tante volte, portatori delle loro bandiere, volevano eserciti per lotte personali, elevandosi a grado di generali.
La mia missione non è dimostrare il mio talento o le mie virtù rispetto agli altri, ma documentare quanto questi altri siano niente in confronto a quello che loro considerano di se stessi.
Quindi ritienimi un amico che sa ascoltare e capire, ma che nulla può fare o dare ad altri, perché nulla può fare o dare per se stesso.
Sono solo un Uomo che scrive e viene letto, ma sono un uomo senza Potere.
Dell’uomo saggio e giusto si segue l’esempio, non i consigli.
Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.
Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.
Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo?
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati. Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.
Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.
Ho la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?
Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le magagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.
Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.
Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.
Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite.
Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....
All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.
Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.
E’ da scuola l’esempio della correzione dei compiti in magistratura, così come dimostrato, primo tra tutti gli altri, dall’avv. Pierpaolo Berardi, candidato bocciato. Elaborati non visionati, ma dichiarati corretti. L’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano. Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.
Caso Bellomo, le forti parole di Filippo Facci dopo le testimonianze delle allieve, scrive robertogp il 28/12/2017 su "NewNotizie.it". Come redazione di ‘NewNotizie.it‘ abbiamo preferito non parlare della pietosa vicenda riguardante il consigliere di Stato Francesco Bellomo, il quale si trova adesso indagato dalla procura di Bari, Milano e Piacenza per estorsione, atti persecutori e lesioni gravi. In breve, Francesco Bellomo, consigliere di Stato nonché magistrato, conduceva dei corsi volti ad affrontare al meglio l’esame di accesso alla magistratura; l’accusa rivoltagli negli ultimi giorni si precisa in diverse testimonianze di allieve o ex allieve che accusano l’uomo di alcune clausole molto particolari presenti nel contratto d’iscrizione ai suoi corsi. Veniva ad esempio richiesto alle studentesse di recarsi al corso truccate, con tacchi alti, minigonna e altre peculiarità espresse nel dettaglio all’interno del contratto. Altre bizzarre clausole erano presenti nel foglio da firmare, quali ad esempio che il fidanzamento del o della borsista era consentito solo in seguito all’approvazione personale di Bellomo o addirittura la revoca della borsa di studio in caso di matrimonio. Filippo Facci, giornalista di ‘Libero Quotidiano‘ ha espresso il suo parere riguardo la vicenda sostenendo che le allieve che hanno sporto denuncia abbiano “una fisiologica propensione a essere zoccole (auguri per qualsiasi carriera) oppure siano troppo stordita per poter fare il mestiere del magistrato”. Seppur i toni siano decisamente sopra le righe, Facci spiega con tre motivazioni il perché di una frase così forte: “Il corso di Bellomo era un corso non obbligatorio per affrontare l’ esame per magistrato; i contratti di Bellomo erano palesemente nulli, perché nessun contratto può imporre pretese del genere, e per saperlo basta non essere scemi e infine, alcuni contratti venivano firmati da borsiste che avevano accettato una relazione sessuale con Bellomo, approccio che ci è difficile pensare spontaneo e slegato ai buoni esiti del corso”. Facci ricorda infine che “l’ingresso in magistratura non prevede esami psico-attitudinali”. Mario Barba
Filippo Facci per Libero Quotidiano il 28 dicembre 2017. I dettagli su quanto il consigliere Francesco Bellomo sia porco (copyright Enrico Mentana) li trovate in un altro articolo, e così pure gli aggiornamenti sui «contratti di schiavitù sessuale» (copyright Liana Milella, Repubblica) che imponeva a qualche allieva. Ciò posto, scusate: 1) il corso di Bellomo era un corso non obbligatorio per affrontare l'esame per magistrato; 2) i contratti di Bellomo erano palesemente nulli, perché nessun contratto può imporre pretese del genere, e per saperlo basta non essere scemi; 3) alcuni contratti venivano firmati da borsiste che avevano accettato una relazione sessuale con Bellomo, approccio che ci è difficile pensare spontaneo e slegato ai buoni esiti del corso. Detto questo, insomma: una che accetta di vestirsi in un certo modo, e così truccarsi, e i tacchi e le calze, una che accetta clausole che vietavano i matrimoni e condizionavano i fidanzamenti e autorizzavano a mettere in rete ogni dettaglio sessuale, una che crede che altrimenti avrebbe pagato 100mila euro di penale, beh, una così ha una fisiologica propensione a essere zoccola (auguri per qualsiasi carriera) oppure è troppo stordita per poter fare il mestiere del magistrato: troppo facile da circonvenire o corrompere, comunque sprovvista dell' equilibrio necessario a decidere della vita altrui. Lo diciamo non solo perché l'ingresso in magistratura non prevede esami psico-attitudinali, ma perché molte borsiste di Bellomo, magistrati, anzi magistrate, lo sono già diventate.
Concorsi Pubblici ed abilitazioni Truccati. Chi è senza peccato scagli la prima pietra.
CUORI, TRUFFE E MAZZETTE: È LA FARSA “CONCORSONI”, scrive Virginia Della Sala su "Il Fatto Quotidiano" il 15 agosto 2016. Erano in 6mila per 340 posti. Luglio 2015, concorso in magistratura, prova scritta. Passano in 368. Come in tutti i concorsi, gli altri sono esclusi. Stavolta però qualcosa va diversamente. “Appena ci sono stati comunicati i risultati, a marzo di quest’anno, abbiamo deciso di fare la richiesta di accesso agli atti. Abbiamo preteso di poter visionare non solo i nostri compiti ma anche quelli di tutti i concorrenti risultati idonei allo scritto”, spiega uno dei concorrenti, Lugi R. Milleduecento elaborati, scansionati e inviati tramite mail in un mese. Per richiederli, i candidati hanno dovuto acquistare una marca da bollo da 600 euro. Hanno optato per la colletta: 230 persone hanno pagato circa 3 euro a testa per capire come mai non avessero passato quel concorso che credevano fosse andato bene. E, soprattutto, per verificare cosa avessero di diverso i loro compiti da quelli di chi il concorso lo aveva superato. “Ci siamo accorti che su diversi compiti compaiono segni di riconoscimento: sottolineature, cancellature, strani simboli, schemi”. Anche il Fatto ha potuto visionarli: asterischi, note a piè di pagina, cancellature, freccette. In uno si contano almeno due cuoricini. In un altro, il candidato ha disegnato una stellina. “Ora non c’è molto che possiamo fare per opporci a questi risultati – spiega Luigi – visto che sono scaduti i termini per ricorrere al Tar. Inoltre, molti di noi stanno tentando di nuovo il concorso quest’anno. Ecco perché preferiamo non esporci molto mediaticamente”.
IL RAPPORTO DI BANKITALIA. Eppure, decine di sentenze dimostrano come sia possibile richiedere l’annullamento anche per un solo puntino. “Cancellature, scarabocchi, codici alfanumerici. Decisamente un cuoricino è un segno distintivo per cui può essere sollecitata l’amministrazione – spiega l’avvocato Michele Bonetti –. Qui si parla di un concorso esteso. Ma mi è capitato di assistere persone che partecipavano a un concorso in cui, dei cinque candidati, c’era solo un uomo. Capirà che la grafia di un uomo è facilmente riconoscibile come tale”. Al di là delle scorrettezze, una ricerca della Banca d’Italia pubblicata qualche giorno fa ha dimostrato che in Italia, i concorsi pubblici non funzionano. O, per dirlo con le parole dei quattro economisti autori del dossier Incentivi e selezione nel pubblico impiego (Cristina Giorgiantonio, Tommaso Orlando, Giuliana Palumbo e Lucia Rizzica), “i concorsi non sembrano adeguatamente favorire l’ingresso dei candidati migliori e con il profilo più indicato”. Si parla di bandi frammentati a livello locale, di troppe differenze metodologiche tra le varie gare, di affanno nella gestione coordinata a livello nazionale. Tra il 2001 e il 2015, ad esempio, Regioni ed Enti locali hanno bandito quasi 19mila concorsi per assunzioni a tempo indeterminato, con una media di meno di due posizioni disponibili per concorso. Macchinoso anche il metodo: “Prove scritte e orali, prevalentemente volte a testare conoscenze teorico-nozionistiche” si legge nel paper. Ogni concorrente studia in media cinque mesi e oltre il 45 per cento dei partecipanti rinuncia a lavorare. Così, se si considera che solo nel 2014, 280mila individui hanno fatto domanda per partecipare a una selezione pubblica, si stima che il costo opportunità per il Paese è di circa 1,4 miliardi di euro l’anno. La conseguenza è che partecipa solo chi se lo può permettere e chi ha più tempo libero per studiare. Anche perché si preferisce la prevalenza di quesiti “nozionistici” che però rischiano di “inibire la capacità dei responsabili dell’organizzazione di valutare il possesso, da parte dei candidati, di caratteristiche pur rilevanti per le mansioni che saranno loro affidate, quali le ambizioni di carriera e la motivazione intrinseca”. A tutto questo si aggiungono l’eccesso delle liste degli idonei – il loro smaltimento determina “l’irregolarità della cadenza” dei concorsi e quindi l’incertezza e l’incostanza dell’uscita dei bandi, dice il dossier.
LA BEFFA SICILIANA. Palermo, concorsone scuola per la classe di sostegno nelle medie. Quest’anno, forse per garantire l’anonimato e l’efficienza, il concorso è stato computer based: domande e risposte al pc. Poi, tutto salvato su una penna usb con l’attribuzione di un codice a garanzia dell’anonimato. Eppure, la settimana scorsa i 32 candidati che hanno svolto la prova all’istituto Pio La Torre a fine maggio sono stati riconvocati nella sede. Dovevano indicare e ricordarsi dove fossero seduti il giorno dell’esame perché, a quanto pare, erano stati smarriti i documenti che avrebbero permesso di abbinare i loro compiti al loro nome. “È assurdo – commenta uno dei docenti – sembra una barzelletta: dovremmo fare ricorso tutti insieme, unirci e costringere una volta per tutte il Miur ad ammettere che forse non si era ancora pronti per questa svolta digitale”.
IL VOTO SUL COMPITO CHE NON È MAI STATO FATTO. Maria Teresa Muzzi è invece una docente che si era iscritta al concorso nel Lazio ma poi aveva deciso di non parteciparvi. Eppure, il 2 agosto, ha ricevuto la convocazione per la prova orale per la classe di concorso di lettere e, addirittura, un voto per uno scritto che però non ha mai fatto: 30,4. Avrebbe potuto andare a fare l’orale con la carta d’identità e ottenere una cattedra, mentre il legittimo concorrente avrebbe perso la sua chance di cambiare vita. Ha deciso di non farlo e ancora si attende la risposta dell’ufficio scolastico regionale che spieghi come sia stato possibile un errore del genere. In Liguria per la classe di concorso di sostegno nella scuola secondaria di I grado, l’ufficio scolastico regionale ha disposto la revoca della nomina della Commissione giudicatrice e l’annullamento di tutti i suoi atti perché sarebbero emersi “errori che possono influire sull’esito degli atti e delle operazioni concorsuali”. I candidati ancora attendono di avere nuovi esiti delle prove svolte. E, va ricordato, la correzione dei compiti a risposta aperta nei concorsi pubblici ha una forte componente discrezionale. “Ogni concorso pubblico ha margini di errore ed è perfettibile – spiega Bonetti –. In Italia, però, di lacune ce ne sono troppe e alcune sono strutturali al tipo di prova che si sceglie di far svolgere. L’irregolarità vera è propria, invece, riguarda le scelte politiche che, se arbitrarie e ingiuste, sono sindacabili”.
LE BUSTARELLE DI NAPOLI. Il problema è che si alza sempre più la soglia di accesso in nome della meritocrazia, ma si continuano a lasciare scoperti posti che invece servirebbe coprire. Favorendo così le chiamate dirette e i contratti precari. “Dalla scuola al ministero degli esteri all’autority delle telecomunicazioni – spiega Bonetti. La scelta politica è ancora più evidente nel settore della sanità: ci sono meccanismi di chiusura già nel mondo universitario. Oggi il corso di medicina è previsto per 10mila studenti in tutta Italia mentre le statistiche Crui dal 1990 hanno sempre registrato una media di 130mila immatricolati. Sono restrizioni con un’ideologia. Una volta entrati, ad esempio, c’è prima un altro concorso per la scuola di specializzazione e poi ancora un concorso pubblico che però è per 5mila persone. E gli altri? Attendono e alimentano il settore privato, che colma le lacune del sistema pubblico. O sono chiamati come collaboratori, con forme contrattuali che vanno dalla partita iva allo stage”. Nelle settimane scorse, il Fatto Quotidiano ha raccontato dell’algoritmo ritrovato dalla Guardia di Finanza di Napoli che avrebbe consentito ai partecipanti di rispondere in modo corretto ai quiz di accesso per un concorso. Ad averlo, uno degli indagati di un’inchiesta sui concorsi truccati per accedere all’Esercito. Nel corso delle perquisizioni la Finanza ha ritrovato 100mila euro in contanti, buste con elenchi di nomi (forse i clienti) e un tariffario: il prezzo per superare i concorsi diviso “a pacchetti”, a seconda dell’esame e del corpo al quale accedere (esercito, polizia, carabinieri). La tariffa di 50.000 euro sarebbe relativa al “pacchetto completo”: dai test fisici fino ai quiz e alle prove orali. Solo 20.000 euro, invece, per chi si affidava ai mediatori dopo aver superato le prove fisiche. Uno sconto consistente. Tutto è partito da una soffiata: un ragazzo al quale avevano fatto la proposta indecente, ha rifiutato e ha denunciato. Un altro pure ha detto no, ma senza denunciare. Virginia Della Sala, il Fatto Quotidiano 15/8/2016.
Concorsi truccati all’università, chi controlla il controllore? Scrive Alessio Liberati il 27 settembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Sta avendo una grande eco in questi giorni l’inchiesta sui concorsi truccati all’università, ove, come la scoperta dell’acqua calda verrebbe da dire, la procura di Firenze ha individuato una sorta di “cupola” che decideva carriere e futuro dei professori italiani. La cosiddetta “raccomandazione” o “spintarella” (una terminologia davvero impropria per un crimine tanto grave) è secondo me uno dei reati più gravi e meno puniti nel nostro ordinamento. Chi si fa raccomandare per vincere un concorso viene trattato meglio, nella considerazione sociale e giuridica (almeno di fatto) di chi ruba un portafogli. Ma chi ti soffia il posto di lavoro o una progressione in carriera è peggio di un ladro qualunque: è un ladro che il portafogli te lo ruba ogni mese, per sempre. Gli effetti di delitti come questo, in sostanza, sono permanenti.
Ma come si è arrivati a ciò? Va chiarito che il sistema giuridico italiano prevede due distinti piani su cui operare: quello amministrativo e quello penale. Di quest’ultimo ogni tanto si ha notizia, nei (rari) casi in cui si riesce a scoperchiare il marcio che si cela dietro ai concorsi pubblici italiani. Di quello relativo alla giustizia amministrativa si parla invece molto meno. Ma tale organo è davvero in grado di assicurare il rispetto delle regole quando si fa ricorso?
Personalmente, denuncio da anni le irregolarità che sono state commesse proprio nei concorsi per l’accesso al Consiglio di Stato, massimo organo di giustizia amministrativa, proprio quell’autorità, cioè, che ha l’ultima parola su tutti i ricorsi relativi ai concorsi pubblici truccati. Basti pensare che uno dei vincitori più giovani del concorso (e quindi automaticamente destinato a una carriera ai vertici) non aveva nemmeno i titoli per partecipare. E che dire dei tempi di correzione? A volte una media di tre pagine al minuto, per leggere, correggere e valutare. E la motivazione dei risultati attribuiti? Meramente numerica e impossibile da comprendere. Tutti comportamenti, si intende, che sono in linea con i principi giurisprudenziali sanciti proprio dalla giurisprudenza dei Tar e del Consiglio di Stato.
E allora il problema dei concorsi truccati in Italia non può che partire dall’alto: si prenda atto che la giustizia amministrativa non è in grado di assicurare nemmeno la regolarità dei concorsi al proprio interno e che, quindi, non può certo esserle affidato il compito istituzionale di decidere su altri concorsi: con un altro organo giurisdizionale che sia davvero efficace nel giudicare le irregolarità dei concorsi pubblici, al punto da costituire un effettivo deterrente, si avrebbe una riduzione della illegalità cui si assiste da troppo tempo nei concorsi pubblici italiani.
Se questa è antimafia…. In Italia, con l’accusa di mafiosità, si permette l’espropriazione proletaria di Stato e la speculazione del Sistema su beni di persone che mafiose non lo sono. Persone che non sono mafiose, né sono responsabili di alcun reato, eppure sottoposte alla confisca dei beni ed alla distruzione delle loro aziende, con perdita di posti di lavoro. Azione preventiva ad ogni giudizio. Alla faccia della presunzione d’innocenza di stampo costituzionale. Interventi di antimafiosità incentrati su un ristretto ambito territoriale o di provenienza territoriale.
Questa antimafia, per mantenere il sistema, impone la delazione e la calunnia ai sodalizi antiracket ed antiusura iscritti presso le Prefetture provinciali. Per continuare a definirsi tali, ogni anno, le associazioni locali sono sottoposte a verifica. L’iscrizione all’elenco è condizionata al numero di procedimenti penali e costituzioni di parti civili attivate. L’esortazione a denunciare, anche il nulla, se possibile. Più denunce per tutti…quindi. Chi non denuncia, anche il nulla, è complice od è omertoso.
A tal fine, per non aver adempito ai requisiti di delazione, calunnia e speculazione sociale, l’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS, sodalizio nazionale di promozione sociale già iscritta al n. 3/2006 presso il registro prefettizio della Prefettura di Taranto Ufficio Territoriale del Governo, il 23 settembre 2017 è stata cancellata dal suddetto registro.
I magistrati favoriscono la mafia, scrive Barbara Di il 12 novembre 2017 su "Il Giornale".
(Quando diventano magistrati con un concorso truccato, spodestando i meritevoli, e per gli effetti sentendosi dio in terra, al di sopra della legge e della morale, ndr).
Quando lasciano indifesi i cittadini davanti ai soprusi.
Quando costringono un cittadino ad un processo eterno per vedersi dichiarare di aver ragione.
Quando non si studiano le carte di un processo e danno torto a chi ha ragione.
Quando per ignoranza applicano una legge nel modo sbagliato.
Quando ritardano anni una sentenza.
Quando un creditore con una sentenza esecutiva ci mette altri anni per avere una minima parte dei soldi spettanti.
Quando un creditore è costretto ad accettare pochi soldi, maledetti e subito per evitare un lungo e costoso processo.
Quando un proprietario di una casa occupata non riesce a riottenerla.
Quando non cacciano chi occupa abusivamente una casa popolare e chi ne avrebbe diritto dorme per strada.
Quando nei tribunali amministrativi devi attendere anni per vedere annullare provvedimenti assurdi della burocrazia o avere un’inutile autorizzazione ingiustamente negata.
Quando un cittadino è costretto a oliare la burocrazia con favori e bustarelle per non attendere anni quell’inutile autorizzazione o per non subire gli assurdi provvedimenti della burocrazia.
Quando un datore di lavoro si vede annullare il licenziamento di un ladro sindacalizzato.
Quando un lavoratore è costretto ad accettare una conciliazione e una buonuscita ridicola perché non ha soldi per un processo eterno.
Quando un cittadino vede impunito il ladro che lo ha derubato.
Quando lasciano impuniti i delinquenti perché non sono cittadini.
Quando incriminano i cittadini che tentano di difendersi da soli.
Quando danno pene ridicole e mai scontate a rapinatori e violentatori.
Quando danno pene esemplari solo ai violentatori che finiscono sui giornali.
Quando lasciano impuniti violenti devastatori che mettono a ferro e fuoco una città per ideologia.
Quando non indagano sui reati che non finiscono sui giornali.
Quando indagano sui reati solo per finire sui giornali.
Quando si inventano i reati per finire sui giornali.
Quando le assoluzioni per reati mediatici sono relegate in un trafiletto sui giornali.
Quando si inventano condanne assurde per reati mediatici che finiscono puntualmente riformate in appello.
Quando indagano sui politici per ideologia.
Quando arrestano i politici per ideologia e poi li assolvono a elezioni passate.
Quando fanno cadere i governi per impedire la riforma della giustizia.
Quando fanno carriera solo per ideologia o per i processi mediatici che si sono inventati.
Quando impediscono ai bravi magistrati di far carriera perché non appartengono alla corrente giusta o lavorano lontani dalle luci dei riflettori.
Quando non indagano sui colleghi che delinquono.
Quando non puniscono i colleghi per i loro clamorosi errori giudiziari.
Quando non applicano provvedimenti disciplinari ai colleghi che meriterebbero di essere cacciati.
Quando archiviano casi di scomparsa e li riaprono per trovare un cadavere in giardino solo dopo un servizio in televisione.
Quando invocano l’obbligatorietà dell’azione penale solo per i reati mediatici e politici anche se sono privi di riscontro.
Quando si dimenticano dell’obbligatorietà dell’azione penale quando i reati sono comuni e colpiscono i cittadini.
Quando si ricordano che un mafioso è mafioso solo quando dà una testata di stampo mafioso.
Quando un cittadino per avere ciò che gli spetta finisce per rivolgersi agli scagnozzi di un boss mafioso.
Quando gli unici territori dove i cittadini non subiscono furti, violenze e soprusi sono quelli controllati dalla mafia.
Quando i cittadini sono costretti a pagare il pizzo ai mafiosi per essere protetti.
Quando non fanno l’unica cosa che dovrebbero fare: dare giustizia per proteggere loro i cittadini.
Quando per colpa dei loro errori ed orrori in Italia ormai siamo tornati alla legge del più forte.
Quando i magistrati non fanno il loro mestiere, la mafia vince perché è il più forte.
A proposito di interdittive prefettizie.
Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. Inoltre l’antimafia preventiva diventata definitiva.
Infine, l’età adulta dell’informativa antimafia? Limiti e caratteri dell’istituto secondo una ricostruzione costituzionalmente orientata, scrive Fulvio Ingaglio La Vecchia. Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale, sentenze 29 luglio 2016, n. 247 e 3 agosto 2016, n. 257.
Interdittive antimafia, una sentenza esemplare, scrive Maria Giovanna Cogliandro, Domenica 12/11/2017 su "La Riviera on line". Di recente il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana ha emesso una sentenza in cui vengono precisate le condizioni necessarie affinché l'interdittiva antimafia, figlia della cultura del sospetto portata avanti dai professionisti del rancore, non porti a un regime di polizia che metta a rischio diritti fondamentali. In questa continua corsa alla giustizia penale, figlia del populismo antimafia fatto di santoni e tromboni che, dai sottoscala di procure e prefetture, con le stimmate delle loro immacolate esistenze, sono sempre in cerca di un succoso cattivo da dare in pasto all’opinione pubblica, capita di imbattersi in una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, una sentenza di cui tutti dovrebbero avere una copia da conservare con cura nel proprio portafoglio, in mezzo ai santini e alla tessera sanitaria. La sentenza riguarda il ricorso presentato da un gruppo di imprese contro la Prefettura di Agrigento, l'Autorità nazionale Anticorruzione e il Comune di Agrigento. Le imprese in questione sono tutte state raggiunte da interdittiva antimafia. Ricordiamo che l’interdittiva antimafia permette all’amministrazione pubblica di interrompere qualsiasi rapporto contrattuale con imprese che presentano un pericolo di infiltrazione mafiosa, anche se non è stato commesso un illecito per cui titolari o dirigenti siano stati condannati. Per dichiarare l’inaffidabilità di un’impresa è sufficiente un’inchiesta in corso, una frequentazione sospetta, un socio “opaco”, una parentela pericolosa che potrebbe condizionarne le scelte, o anche solo la mera eventualità che l’impresa possa, per via indiretta, favorire la criminalità. La sentenza in questione rompe clamorosamente con questa cultura del sospetto portata avanti dai professionisti del rancore. "Benché un provvedimento interdittivo - argomentano i Giudici - possa basarsi anche su considerazioni induttive o deduttive diverse dagli “indici presuntivi”, è tuttavia necessario che le norme che conferiscono estesi poteri di accertamento ai Prefetti al fine di consentire loro di svolgere indagini efficaci e a vasto raggio, non vengano equiparate a un’autorizzazione a tralasciare di compiere indagini fondate su condotte o su elementi di fatto percepibili poiché, se con le norme in questione il Legislatore ha certamente esteso il potere prefettizio di accertamento della sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, non ha affatto conferito licenza di basare le comunicazioni interdittive su semplici sospetti, intuizioni o percezioni soggettive non assistite da alcuna evidenza indiziaria". Non è quindi permesso far patire all'azienda un danno di immagine, sulla base di un fumus che non trovi riscontro nei fatti. In mancanza di condotte che facciano presumere che il titolare o il dirigente di un'azienda sia in procinto di commettere un reato (o che stia determinando le condizioni favorevoli per delinquere o per “favoreggiare” chi lo compia), non è legittimo che questi sia considerato come "soggetto socialmente pericoloso" e che debba, pertanto, sottostare a "misure di prevenzione" che vanno a incidere su diritti fondamentali. Per giustificare l'invio di una interdittiva antimafia, "non è sufficiente - proseguono i Giudici - affermare che uno o più parenti o amici del soggetto richiedente la certificazione antimafia risultano mafiosi, o vicini a soggetti mafiosi; o vicini o affiliati a cosche mafiose e/o a famiglie mafiose". Occorrerà innanzitutto precisare la ragione per la quale un soggetto viene considerato mafioso. "La pericolosità sociale di un individuo - dichiarano i Giudici - non può essere ritenuta una sua inclinazione strutturale, congenita e genetico-costitutiva (alla stregua di una infermità o patologia che si presenti - sia consentita l’espressione - "lombrosanamente evidente" o comunque percepibile mediante indagini strumentali o analisi biologiche), né può essere presunta o desunta in via automatica ed esclusiva dalla sua posizione socio-ambientale e/o dal suo bagaglio culturale; né, dunque, dalla mera appartenenza a un determinato contesto sociale o a una determinata famiglia (semprecchè, beninteso, i soggetti che ne fanno parte non costituiscano un’associazione a delinquere)". Nel provvedimento interdittivo vanno, inoltre, specificate le circostanze di tempo e di luogo in cui imprenditore e soggetto "mafioso" sono stati notati insieme; le ragioni logico-giuridiche per le quali si ritiene che si tratti non di mero incontro occasionale (o di incontri sporadici), ma di “frequentazione effettivamente rilevante", ossia di relazione periodica, duratura e costante volta a incidere sulle decisioni imprenditoriali. In poche parole, prendere il caffè con un mafioso o presunto tale non è sufficiente. Inoltre, emerge dalla sentenza, qualificare un soggetto “mafioso” sulla scorta di meri sospetti e a prescindere dall’esame concreto della sua condotta penale e della sua storia giudiziaria comporterebbe un aberrante meccanismo di estensione a catena della pericolosità "simile a quello su cui si fondava, in un non recente passato, l’inquisizione medievale che, com’è noto, fu un meccanismo di distruzione di soggetti ‘scomodi’ e non già di soggetti ‘delinquenti’; mentre il commendevole e imprescindibile scopo che il Legislatore si pone è quello di depurare la società da incrostazioni e infiltrazioni mafiose realmente inquinanti". L'interdittiva che inchioda per ipotesi non combatte la delinquenza e la criminalità ma diviene strumentale per sgomberare il campo da personaggi scomodi. "D’altro canto - concludono i giudici - se per attribuire a un soggetto la qualifica di ‘mafioso’ fosse sufficiente il mero sospetto della sua appartenenza a una famiglia a sua volta ritenuta mafiosa e se anche la qualifica riferita alla sua famiglia potesse essere attribuita sulla scorta di sospetti; e se la mera frequentazione di un presunto mafioso (ma tale considerazione vale anche per l’ipotesi di mera frequentazione di un soggetto acclaratamente mafioso) potesse determinare il ‘contagio’ della sua (reale o presunta) pericolosità, si determinerebbe una catena infinita di presunzioni atte a colpire un numero enorme di soggetti senza alcuna seria valutazione in ordine alla loro concreta vocazione criminogena. E l’effetto sarebbe l’instaurazione di un regime di polizia nel quale la compressione dei diritti dei cittadini finirebbe per dipendere dagli orientamenti culturali e dalle suggestioni ideologiche (quand’anche non dalle idee politiche) dei funzionari o, peggio, degli organi dai quali essi dipendono". Amen. Ripeto: questa è una sentenza da conservare accanto ai santini. E plastificatela, per evitare che si sgualcisca col tempo.
La strada dell'inquisizione è lastricata dalla cattiva antimafia. Una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione siciliana mette in guardia dagli abissi in cui rischiamo di sprofondare perdendo di vista i capisaldi dello Stato di diritto, scrive Rocco Todero il 29 Settembre 2017 su "Il Foglio". Nell’Italia che si è presa il vizio di accusare a sproposito la giustizia amministrativa di essere la causa della propria arretratezza economica e sociale capita di leggere una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana (una sezione del Consiglio di Stato distaccata a Palermo) che dovrebbe essere mandata giù a memoria da quanti nel nostro Paese vivono facendo mostra di stellette meritocratiche (più o meno veritiere) negli uffici delle prefetture, nelle aule dei tribunali, nelle sedi delle università, nelle redazioni di molti giornali e, in ultimo, anche nelle aule del Parlamento. Da molti anni, oramai, si combatte in sede giudiziaria una battaglia sulle modalità di applicazione delle misure di prevenzione, le cosiddette informative antimafia, per mezzo delle quali l’eccessiva solerzia inquisitoria degli uffici periferici del Ministero dell’Interno cerca di realizzare quella che nel linguaggio giuridico si definisce una “tutela anticipata” del crimine, un’azione cioè volta a contrastare i tentativi di infiltrazione mafiosa nel tessuto economico - sociale senza che, tuttavia, si manifestino azioni delittuose vere e proprie da parte dei soggetti interdetti. Il risultato nel corso degli anni è stato abbastanza sconfortante, poiché decine di imprese individuali e società commerciali sono state colpite dall’informativa antimafia e poste, molto spesso, sotto amministrazione prefettizia sulla base di un semplice sospetto coltivato dalle forze dell’ordine. A molti, troppi, è capitato, così, di trovarsi sotto interdittiva antimafia (solo per fare alcuni esempi) a causa di un parente accusato di appartenere ad un’associazione mafiosa o per colpa di un’indagine penale per 416 bis poi sfociata nel proscioglimento o nell’assoluzione o perché una società con la quale s’intrattengono rapporti commerciali è stata a sua volta interdetta per avere stipulato contratti con altra impresa sospettata di subire infiltrazioni mafiose (si, è proprio cosi, si chiama informativa a cascata o di secondo o terzo grado: A viene interdetto perché intrattiene rapporti commerciali con B, il quale non è mafioso, ma coltiva contatti economici con C, il quale ultimo è sospettato di essere, forse, soggetto ad infiltrazioni mafiose. A pagarne le conseguenze è il soggetto A, perché l’infiltrazione mafiosa passerebbe per presunzione giudiziaria da C a B e da B ad A). Spesso i Tribunali amministrativi competenti a conoscere della legittimità delle informative antimafia emanate dalle Prefettura sono stati sin troppo indulgenti con l’Amministrazione pubblica, sacrificando l’effettività della tutela dei diritti fondamentali dei cittadini sull’altare di una lotta alle infiltrazioni mafiose che risente oramai troppo della pressione atmosferica di un clima allarmistico pompato ad arte per ben altri e meno nobili fini politici. Qualche settimana fa, invece, il Consiglio di Giustizia Amministrativa siciliano (composto dai magistrati Carlo Deodato, Carlo Modica de Mohac, Nicola Gaviano, Giuseppe Barone e Giuseppe Verde), dovendo decidere in sede d'appello dell’ennesima informativa antimafia emessa dalla Prefettura di Agrigento, ha sostanzialmente scritto un bellissimo e coraggioso saggio di cultura giuridica liberale, dimostrando che la lotta alla mafia si può ben coltivare salvaguardando i capisaldi di uno Stato di diritto liberal democratico moderno. Il Tribunale ha preso atto del fatto che per stroncare sul nascere la diffusione di alcune condotte criminose non si può fare altro che emettere “giudizi prognostici elaborati e fondati su valutazioni a contenuto probabilistico” che colpiscono soggetti in uno stadio “addirittura anteriore a quello del tentato delitto”. Ma alla pubblica amministrazione, argomentano i Giudici, non è permesso di scadere nell’arbitrio, cosicché non sarà mai sufficiente un mero “sospetto” per giustificare la limitazione delle libertà fondamentali dell’individuo. Si dovranno piuttosto documentare fatti concreti, condotte accertabili, indizi che dovranno essere allo stesso tempo gravi, precisi e concordanti. Non potranno mai essere sufficienti, continua il Tribunale, mere ipotesi e congetture e non potrà mai mancare un “fatto” concreto, materiale, da potere accertare nella sua esistenza, consistenza e rilevanza ai fini della verosimiglianza dell’infiltrazione mafiosa. Per potere affermare che l’impresa di Tizio è sospettata d'infiltrazioni mafiose, allora, non sarà sufficiente affermare che essa intrattiene rapporti con l’impresa di Caio (non mafiosa) che a sua volta, però, ha stipulato accordi con Mevio (lui si, sospettato di collusioni con la mafia), ma sarà necessario dimostrare che una qualche organizzazione mafiosa (ben individuata attraverso i soggetti che agiscono per essa, non la “mafia” genericamente intesa) stia tentando, in via diretta, d’infiltrarsi nell’azienda del primo soggetto. Il legame di parentela con un mafioso, chiariscono ancora i magistrati, non può avere alcuna rilevanza ai fini del giudizio sull’informativa antimafia se non si dimostrerà che chi è stato colpito dal provvedimento interdittivo, lui e non altri, abbia posto in essere comportamenti che possano destare allarme sociale per il loro potenziale offensivo dell’interesse pubblico, “non essendo giuridicamente e razionalmente sostenibile che il mero rapporto di parentela costituisca di per sé, indipendentemente dalla condotta, un indice sintomatico di pericolosità sociale ed un elemento prognosticamente rilevante”. La nostra non è l'epoca del medioevo, conclude il Consiglio di Giustizia Amministrativa, e l'ordinamento giuridico non può svestire i panni dello Stato di diritto: “Sicché, ove fosse possibile qualificare “mafioso” un soggetto sulla scorta di meri sospetti ed a prescindere dall’esame concreto della sua condotta penale e della sua storia giudiziaria si perverrebbe ad un aberrante meccanismo di estensione a catena della pericolosità simile a quello su cui si fondava, in un non recente passato, l’inquisizione medievale (che, com’è noto, fu un meccanismo di distruzione di soggetti ‘scomodi’ e non già di soggetti ‘delinquenti’; mentre il commendevole ed imprescindibile scopo che il Legislatore si pone è quello di depurare la società da incrostazioni ed infiltrazioni mafiose realmente inquinanti). D’altro canto, se per attribuire ad un soggetto la qualifica di ‘mafioso’ fosse sufficiente il mero sospetto della sua appartenenza ad una famiglia a sua volta ritenuta mafiosa e se anche la qualifica riferita alla sua famiglia potesse essere attribuita sulla scorta di sospetti; e se la mera frequentazione di un presunto mafioso (ma tale considerazione vale anche per l’ipotesi di mera frequentazione di un soggetto acclaratamente mafioso) potesse determinare il ‘contagio’ della sua (reale o presunta) pericolosità, si determinerebbe una catena infinita di presunzioni atte a colpire un numero enorme di soggetti senza alcuna seria valutazione in ordine alla loro concreta vocazione criminogena. E l’effetto sarebbe l’instaurazione di un regime di polizia nel quale la compressione dei diritti dei cittadini finirebbe per dipendere dagli orientamenti culturali e dalle suggestioni ideologiche (quand’anche non dalle idee politiche) dei funzionari o, peggio, degli organi dai quali essi dipendono.” Da mandare giù a memoria. Altro che il nuovo codice antimafia con il quale fare propaganda manettara a buon mercato.
A proposito di sequestri preventivi giudiziari.
Finalmente la giurisprudenza ha cominciato a fare qualche passo in avanti verso la civiltà giuridica. Merita il plauso l'ordinanza n. 48441 del 10 Ottobre 2017 con la quale la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha riconosciuto il principio secondo il quale, se una persona viene assolta dall'accusa di associazione mafiosa, per gli stessi fatti non può essere considerata socialmente pericolosa. Riporto i passaggi più significativi dell'ordinanza.
"Lì dove le condotte sintomatiche della pericolosità siano legislativamente caratterizzate [...] in termini per lo più evocativi di fattispecie penali [...] è evidente che il giudice della misura di prevenzione (nel preliminare apprezzamento di tali 'fatti') non può evitare di porsi il problema rappresentato dalla esistenza di una pronunzia giurisdizionale che proprio su quella condotta [...] ha espresso una pronunzia in termini di insussistenza o di non attribuibilità del fatto all'individuo di cui si discute. [...] L'avvenuta esclusione del rilievo penale di una condotta, almeno tendenzialmente, impedisce di porre quel segmento di vita a base di una valutazione di pericolosità ed impone il reperimento, in sede di prevenzione, di ulteriori e diverse forme di conoscenza, capaci - in ipotesi - di realizzare ugualmente l'effetto di inquadramento nella categoria criminologica. [...] Lì dove il giudizio penale su un fatto rilevante a fini di inquadramento soggettivo abbia avuto un esito definitivo, tale aspetto finisce con il ricadere inevitabilmente nella cd. parte constatativa del giudizio di pericolosità". Questo principio, soprattutto alla luce dell'insegnamento della sentenza De Tommaso, dovrebbe rimettere in discussione la legittimità delle confische disposte nei confronti di persone assolte.
Dove non arrivano con le interdittive prefettizie, arrivano con i sequestri preventivi.
Interdittive: decine di aziende uccise dal reato di parentela mafiosa, scrive Simona Musco il 4 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Il fenomeno delle interdittive è nazionale: in cinque anni, dopo la riorganizzazione del 2011, sono circa 400 le imprese allontanate dai lavori pubblici. Solo dalla Prefettura di Reggio Calabria, negli ultimi 14 mesi, sono partite 130 interdittive. Quasi dieci ogni 30 giorni, tutte frutto della gestione del Prefetto Michele Di Bari, approdato nella città dello Stretto ad agosto 2016. Un numero enorme che conferma una tendenza crescente, soprattutto in Calabria, dove in poco più di cinque anni le aziende hanno depositato quasi 500 ricorsi nelle cancellerie dei tribunali amministrativi di Catanzaro e Reggio Calabria. Ma il fenomeno – i cui dai sono ancora incerti – è nazionale: in cinque anni, dopo la riorganizzazione della materia nel 2011, sono circa 400 le imprese allontanate dai lavori pubblici. I numeri non sono ancora chiari, dato che gli archivi informatici dello Stato non hanno tutti i dati. E così succede che mentre dai siti dei tribunali amministrativi risulta un numero enorme di ricorsi (circa 2000 in cinque anni) e annullamenti (tra i 40 e i 90 l’anno), le cifre fornite dalla Dia, la Direzione investigativa antimafia, parlano di 31 annullamenti dal 2011 fino a maggio 2015. Numeri snelliti dal vuoto di informazioni dalle Prefetture di Napoli, Reggio Calabria e Vibo Valentia. La parte più corposa, dunque. La ratio dello strumento è chiara: «contrastare le forme più subdole di aggressione all’ordine pubblico economico, alla libera concorrenza ed al buon andamento della pubblica amministrazione», sentenzia il Consiglio di Stato. Un provvedimento preventivo, che prescinde quindi dall’accertamento di singole responsabilità penali e anticipa la soglia di difesa. «Per questo – dice ancora il Consiglio di Stato – deve essere respinta l’idea che l’informativa debba avere un profilo probatorio di livello penalistico e debba essere agganciata a eventi concreti ed a responsabilità addebitabili». Se c’è un sospetto, dunque, la Prefettura ha il potere e il dovere di tranciare i rapporti tra aziende private e pubblica amministrazione, attraverso tutta una serie di accertamenti ai quali non si può replicare fino a quando non diventano di pubblico dominio. Ovvero quando l’azienda colpita viene esclusa dai bandi pubblici e marchiata come infetta. Un’etichetta che, a volte, è giustificata da elementi tangibili e concreti, consentendo quindi di sfilare dalle mani dei clan l’appalto, ma altre decisamente meno. Tant’è che sono centinaia i ricorsi vinti, di una vittoria che però è solo parziale: sempre più spesso, infatti, chi si è visto colpire da un’interdittiva, pur vincendo il proprio ricorso, non riesce più a reinserirsi nel mondo del lavoro. Partiamo dal modus operandi: la Prefettura punta gran parte della sua decisione sui legami di parentela e su frequentazioni poco raccomandabili. Nulla o quasi, invece, si dice su fatti concreti che possano far temere effettivamente un condizionamento mafioso. Ed è proprio questo che fa crollare i provvedimenti davanti ai giudici amministrativi, per i quali non basta basarsi su rapporti commerciali e di parentela, «da soli insufficienti», dice ancora il Consiglio di Stato. Occorrono perciò, aggiunge, «altri elementi indiziari a dimostrazione del “contagio”». E «non possono bastare i precedenti penali» riferiti «ad indagini in seguito archiviate e, in altra parte, a condanne molto risalenti nel tempo», in quanto servono elementi «concreti e riferiti all’attualità». Un’interpretazione confermata anche dalla Corte costituzionale, secondo cui è arbitrario «presumere che valutazioni comportamenti riferibili alla famiglia di appartenenza o a singoli membri della stessa diversi dall’interessato debbano essere automaticamente trasferiti all’interessato medesimo». Ma è proprio questo il meccanismo che genera un circolo vizioso capace di far risucchiare una parte rilevante dell’economia dal vortice del sospetto. E le conseguenze non sono solo per le ditte: le interdittive, infatti, colpiscono aziende impegnate in appalti pubblici che così rimangono bloccati, cantieri aperti che si richiuderanno magari dopo anni. Dell’ambiguità dello strumento, lo scorso anno, aveva parlato il senatore Pd e membro della Commissione parlamentare antimafia Stefano Esposito, che al convegno “Warning on crime” all’Università di Torino aveva dichiarato che «lo strumento non funziona e nel 60% dei casi le interdittive vengono respinte» dai giudici amministrativi. Chiedendo dunque una riforma, che anche Rosy Bindi, poco prima, aveva annunciato, nel 2015. «Le interdittive antimafia sono uno strumento statico, mentre la lotta alla mafia ha bisogno di film», ha spiegato. Un film che nel nuovo codice antimafia coincide col controllo giudiziario delle aziende sospette, i cui risultati sono ancora tutti da vedere.
Che affare certe volte l’antimafia! Scrive Piero Sansonetti il 3 Novembre 2017 su "Il Dubbio". I “paradossi” calabresi. Questa storia calabrese è molto istruttiva. La racconta nei dettagli, nell’articolo qui sopra, Simona Musco. La sintesi estrema è questa: un imprenditore incensurato, e senza neppure un grammo di carichi pendenti (che oltretutto è presidente di Confindustria), vince un appalto per costruire i parcheggi del palazzo di Giustizia a Reggio. Un lavoro grosso: più di 15 milioni. Al secondo posto, in graduatoria, una azienda amministrata da un deputato di Scelta Civica. L’azienda del deputato protesta per aver perso la gara e ricorre al Tar. Il Tar dà ragione all’imprenditore e torto all’azienda del deputato. Poi, all’improvviso, non si sa come, la Prefettura fa scattare l’interdittiva e cioè, per motivi cautelari, toglie l’appalto all’imprenditore e lo assegna all’azienda del deputato che aveva perso la gara. Come è possibile? Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. E allora io quell’appalto di 16 milioni di euro te lo levo e lo porgo all’azienda di un deputato. Il deputato in questione, peraltro, fa parte della commissione antimafia. E lo Stato di diritto? E la libera concorrenza? E l’articolo 3 del- la Costituzione? Beh, mettetevi il cuore in pace: esiste una parte del territorio nazionale, e in modo particolarissimo la Calabria, nel quale lo Stato di diritto non esiste, non esiste la libera concorrenza e l’Articolo 3 della Costituzione (quello che dice che tutti sono uguali davanti alla legge) non ha effetti. La ragione di questo Far West, in gran parte, è spiegabile con la presenza della mafia, che la fa da padrona, fuori da ogni regola. Ma anche lo Stato, che la fa da padrone, altrettanto al di fuori da ogni regola, e da ogni senso di giustizia, e mostrando sempre il suo volto prepotente, come questa storia racconta. Lo Stato, con la mafia, è responsabile del Far West. Allora il problema è molto semplice. È assolutamente impensabile che si possa condurre una battaglia seria contro la mafia e la sua grande estensione in alcune zone del Sud Italia, se non si ristabiliscono le regole e se non si riporta lo Stato alla sua funzione, che è quella di produrre equità e sicurezza sociale, e non di produrre prepotenza, incertezza e instabilità. La chiave di tutto è sempre la stessa: ristabilire lo Stato di diritto. E questo, naturalmente, vuol dire che bisogna impedire che i commercianti – ad esempio – siano taglieggiati dalla mafia, ma bisogna anche impedire che i diritti di tutti i cittadini – non solo quelli onesti – siano sistematicamente calpestati. La sospensione della legalità, gli strumenti dell’emergenza (come le interdittive, le commissioni d’accesso e simili) possono avere una loro utilità solo in casi rarissimi e in situazioni molto circoscritte. E solo se usati con rigore estremo e sempre con il terrore di commettere prevaricazioni e ingiustizie. Se invece diventano semplicemente – come succede molto spesso – strumenti di potere dell’autorità, magari frustrata dai suoi insuccessi nella battaglia contro la mafia, allora producono un effetto moltiplicatore, proprio loro, del potere mafioso. Perché la discrezionalità, l’arroganza, l’ingiustizia, creano una condizione sociale e psicologica di massa, nella quale la mafia sguazza. Naturalmente non ho proprio nessun elemento per immaginare che l’azienda che ha fatto le scarpe a quella dell’ex presidente di Confindustria (che si è dimesso dopo aver ricevuto questa interdittiva, che ha spezzato le gambe alla sua azienda e i nervi a lui), e cioè l’azienda del deputato dell’antimafia, abbia brigato per ottenere l’interdittiva contro il concorrente. Non ho mai sopportato la politica e il giornalismo che vivono di sospetti. Però il messaggio che è stato mandato alla popolazione di Reggio Calabria, oggettivamente, è questo: se non sei protetto dalla “compagnia dell’antimafia” qui non fai un passo. E se sei deputato, comunque, sei avvantaggiato. Capite che è un messaggio letale? P. S. Conosco molto bene l’imprenditore di cui sto parlando, e cioè Andrea Cuzzocrea, la cui azienda ora è al palo e rischia di fallire. Lo conosco perché insieme a un gruppo di giornalisti dei quali facevo parte, organizzò quattro anni fa la nascita di un giornale, che si chiamava “Il Garantista” e che durò poco perché dava fastidio a molti (personalmente, in quanto direttore di quel giornale, ho collezionato una trentina di querele) e non aveva una lira in cassa. “Il Garantista” era edito da una cooperativa, molto povera, della quale lui assunse per un periodo la presidenza. Non so quali telefonate ebbe con Teresa Munari. Però so per certo due cose. La prima è che Teresa Munari era una giornalista molto accreditata negli ambienti democratici di Reggio Calabria. L’ho conosciuta quattro o cinque anni fa, mi invitò a casa sua a una cena. C’erano anche il Procuratore generale di Reggio e una deputata molto famosa per il suo impegno “radicale” contro la mafia. La Munari collaborò a “Calabria Ora”, giornale regionale che al tempo dirigevo, e successivamente al “Garantista”. Non era raccomandata. E non fu mai, mai assunta. Non era in redazione, non partecipava alla vita del giornale, scriveva ogni tanto degli articoli, che siccome non avevamo il becco di un quattrino credo che non gli pagammo mai. Qualcuno è in grado di spiegarmi come si fa a dire che uno non può costruire un parcheggio perché una volta ha telefonato a Teresa Munari?
Levano l’appalto a un imprenditore incensurato e lo danno a un deputato dell’antimafia, scrive Simona Musco il 3 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Reggio Calabria: un imprenditore incensurato si vede annullata l’assegnazione, e i lavori per 16 milioni sono affidati all’azienda di un deputato.
PARADOSSI CALABRESI. Una azienda di Reggio Calabria, guidata da imprenditori incensurati e senza carichi pendenti, vince un appalto molto ricco: la costruzione del parcheggio del palazzo di Giustizia. È un lavoro grosso, da 16 milioni. L’azienda che è arrivata seconda, nella gara d’appalto, fa ricorso. Il Tar gli dà torto. E conferma l’appalto all’azienda che si è classificata prima (su 19). Allora interviene il Prefetto e fa scattare l’interdittiva per l’azienda vincitrice. Che vuol dire? Che il prefetto ha questo potere discrezionale di interdire una azienda, temendo infiltrazioni mafiose, anche se questa azienda non è inquisita. E il prefetto di Reggio ha esercitato questo potere. E così il lavoro è passato al secondo classificato. Chi è? È un deputato. Un deputato della commissione antimafia.
Un appalto da 16 milioni di euro per la costruzione del parcheggio del nuovo Palazzo di Giustizia. Diciannove aziende che decidono di provarci e due che arrivano in cima alla graduatoria con pochissimi punti di distacco. E un’interdittiva antimafia che fa transitare l’appalto dalle mani della prima – la Aet srl – alla seconda, la Cosedil, fondata da un parlamentare della Commissione antimafia, Andrea Vecchio, e patrimonio della sua famiglia. È successo a Reggio Calabria, dove l’ex presidente di Confindustria Andrea Cuzzocrea ha visto sparire, in pochi mesi, un lavoro imponente, la poltrona di presidente degli industriali e la credibilità. Tutto a causa di uno strumento preventivo – l’interdittiva – che ora rischia di mandare a gambe all’aria l’azienda, da sempre attiva negli appalti pubblici, e i due imprenditori che la amministrano, Cuzzocrea e Antonino Martino, entrambi incensurati.
UN APPALTO DIFFICILE. Tutto comincia nel 2016, quando la Aet srl vince l’appalto per la costruzione dei parcheggi del tribunale di Reggio Calabria. Un lavoro che la città attendeva da tempo e che, finalmente, sembra potersi sbloccare. Ma i tempi per la firma del contratto vengono rallentati dai ricorsi. In prima fila c’è la Cosedil spa, azienda siciliana, che chiede al Tar la verifica dell’offerta presentata dalla Aet e dei requisiti dell’azienda e di conseguenza l’annullamento dei verbali di gara. I giudici amministrativi valutano il ricorso, bocciando tutte le obiezioni tranne una, quella relativa la giustificazione degli oneri aziendali della sicurezza, per i quali la Commissione giudicatrice dell’appalto avrebbe commesso «un macroscopico difetto d’istruttoria». Un errore, si legge nella sentenza, dal quale però non deriva «automaticamente l’obbligo di escludere la società prima classificata». Il Tar, a gennaio, interpella dunque la Stazione unica appaltante, alla quale chiede di effettuare una nuova verifica sull’offerta dell’Aet. Risultato: viene confermata «la regolarità e la correttezza» dell’aggiudicazione dell’appalto. La firma sul contratto per l’avvio dei lavori, dunque, sembrano avvicinarsi.
L’INTERDITTIVA. Ma l’iter per far partire i cantieri subisce un altro stop, quando ad aprile la Prefettura emette un’informativa interdittiva a carico dell’azienda, escludendola, di fatto, dai giochi. Cuzzocrea, che nel 2013 aveva chiesto alla Commissione parlamentare antimafia di «istituire le white list obbligatorie per gli appalti pubblici, rendendo così più trasparente un settore delicatissimo», si dimette da presidente di Confindustria. L’interdittiva riassume elementi già emersi in precedenza nella corposa relazione che ha portato allo scioglimento dell’amministrazione di Reggio Calabria, elementi già confutati, ai quali si aggiunge un nuovo dato, relativo alla parentesi da editore di Cuzzocrea. Ed è sulla base di quello che la Prefettura rivaluta tutto il passato, sebbene esente da risvolti giudiziari. Si tratta del contatto (finito nell’operazione “Reghion”) tra Cuzzocrea e l’ex deputato Paolo Romeo, già condannato definitivamente per concorso esterno in associazione mafiosa e ora in carcere in quanto considerato dalla Dda reggina a capo della cupola masso- mafiosa che governa Reggio Calabria. Nessun rapporto, almeno documentato, prima del 2014: i due si conoscono a gennaio di quell’anno, in Senato, dove sono stati entrambi invitati, in quanto rappresentanti delle associazioni, per discutere della costituenda città metropolitana. Dopo quella volta un unico contatto: Cuzzocrea, presidente della società editrice del quotidiano Cronache del Garantista, viene contattato da Romeo, che gli chiede di valutare l’assunzione di una giornalista, Teresa Munari, secondo la Dda strumento nelle mani di Romeo. Cuzzocrea propone la giornalista, nota in città e ormai in pensione, al direttore Sansonetti, che la inserisce tra i collaboratori, pur senza un contratto. Tra i pezzi scritti dalla Munari su quella testata ce n’è uno in particolare, considerato dalla Dda utile alla causa di Romeo. Che avrebbe perorato la causa dell’amica facendola passare come «un’opportunità per il giornale e non come un favore che richiedeva per sé stesso o per la giornalista», si legge nel ricorso presentato al Consiglio di Stato dalla Aet. La Prefettura non contesta nessun altro contatto tra Romeo e Cuzzocrea, che, scrivono i legali dell’azienda, «non poteva pensare, visto il modo in cui la cosa era stata richiesta, che vi fossero doppi fini nel suggerimento ricevuto. Romeo – si legge ancora – non ha mai avuto altri contatti con l’ingegnere Cuzzocrea ed è detenuto. Non si comprende, quindi, perché ci sarebbe il rischio che possa, iniziando oggi (perché in passato non è successo), condizionare l’attività della Aet». Gli elementi vecchi riguardano invece il socio Antonino Martino, socio al 50 per cento, e coinvolto, nel 2004, nell’operazione antimafia “Prius”, assieme ad alcuni suoi familiari. Un’indagine conclusa, per Martino, con l’archiviazione, chiesta dallo stesso pm, il 5 marzo 2009. Di lui un pentito aveva detto, per poi essere smentito, di essersi intestato, tra il 1992 e il 1993, un magazzino, in realtà riconducibile al temibile clan Condello di Reggio Calabria. Intestazione fittizia, dunque, ipotesi che si basava anche sulla convinzione – sbagliata – che il padre di Martino, Paolo, fosse parente di Domenico Condello. Tali elementi, nel 2013, non erano bastati alla Prefettura per interdire la Aet, tanto che l’azienda aveva ricevuto il nulla osta e l’inserimento nella “white list”, la lista di aziende pulite che possono lavorare con la pubblica amministrazione. E se anche fossero potenzialmente fonte di pericolo non sarebbero più attuali, considerato che, contestano i legali dell’azienda, Paolo Martino è morto e Condello si trova in carcere.
LA COSEDIL. La Aet, dopo la richiesta di sospensiva dell’interdittiva rigettata dal Tar, attende ora il giudizio del Consiglio di Stato. Nel frattempo, alle spalle dell’azienda reggina, rimane la Cosedil, fondata nel 1965 dal parlamentare del Gruppo Misto Andrea Vecchio. La Spa, secondo le visure camerali, è amministrata dai figli del parlamentare che rimane, come recita il suo profilo Linkedin, presidente onorario. Ma Vecchio, componente della Commissione antimafia, nelle dichiarazioni patrimoniali pubblicate sul sito della Camera si dichiara amministratore unico di una delle aziende che partecipano la Cosedil (la Andrea Vecchio partecipazioni) e consigliere della Cosedil stessa. Che rimane l’unica titolata a prendere, con un iter formalmente impeccabile, l’appalto.
Antimafia mafiosa. Come reagire, scrive il 27 settembre 2017 Telejato. C’È, È INUTILE RIPETERLO TROPPE VOLTE, UNA CERTA PRESA DI COSCIENZA DELLA TURPITUDINE DELLA LEGISLAZIONE ANTIMAFIA, CHE MEGLIO SAREBBE DEFINIRE “LEGGE DEI SOSPETTI”. ANCHE I PIÙ COCCIUTI COMINCIANO AD AVVERTIRE CHE NON SI TRATTA DI “ABUSI”, DI DOTTORESSE SAGUTO, DI “CASI” COME QUELLO DEL “PALAZZO DELLA LEGALITÀ”, DI FRATELLANZE E CUGINANZE DI AMMINISTRATORI DEVASTANTI. È tutta l’Antimafia che è divenuta e si è rivelata mafiosa. Come si addice al fenomeno mafioso, questa presa di coscienza rimane soffocata dalla paura, dal timore reverenziale per le ritualità della dogmatica dell’antimafia devozionale, del komeinismo nostrano che se ne serve per “neutralizzare” la nostra libertà. Molti si chiedono e ci chiedono: che fare? È già qualcosa: se è vero, come diceva Manzoni, che il coraggio chi non c’è l’ha non se lo può dare, è vero pure che certi interrogativi sono un indizio di un coraggio che non manca o non manca del tutto. Non sono un profeta, né un “maestro” e nemmeno un “antimafiologo”, visto che tanti mafiologhi ci hanno deliziato e ci deliziano con le loro cavolate. Ma a queste cose ci penso da molto tempo, ci rifletto, colgo le riflessioni degli altri. E provo a dare un certo ordine, una certa sistemazione logica a constatazioni e valutazioni. E provo pure a dare a me stesso ed a quanti me ne chiedono, risposte a quell’interrogativo: che fare? Io credo che, in primo luogo, occorre riflettere e far riflettere sul fatto che il timore, la paura di “andare controcorrente” denunciando le sciagure dell’antimafia e la sua mafiosità, debbono essere messe da parte. Che se qualcuno non ha paura di parlar chiaro, tutti possono e debbono farlo. Secondo: occorre affermare alto e forte che il problema, i problemi non sono quelli dell’esistenza delle dott. Saguto. Che gli abusi, anche se sono tali sul metro stesso delle leggi sciagurate, sono la naturale conseguenza delle leggi stesse. Che si abusa di una legge che punisce i sospetti e permette di rovinare persone, patrimoni ed imprese per il sospetto che i titolari siano sospettati è cosa, in fondo, naturale. Sarebbe strano che, casi Saguto, scioglimenti di amministrazioni per pretesti scandalosi di mafiosità, provvedimenti prefettizi a favore di monopoli di certe imprese con “interdizione” di altre, non si verificassero. Terzo. Occorre che allo studio, alle analisi giuridiche e costituzionali delle leggi antimafia e delle loro assurdità, si aggiungano analisi, studi, divulgazioni degli uni e degli altri in relazione ai fenomeni economici disastrosi, alle ripercussioni sul credito, siano intrapresi, approfonditi e resi noti. Possibile che non vi siano economisti, commercialisti, capaci di farlo e di spendersi per affrontare seriamente questi aspetti fondamentali della questione? Cifre, statistiche, comparazioni tra le Regioni. Il quadro che ne deriverà è spaventoso. Quindi necessario. E’ questo l’aspetto della questione che più impressionerà l’opinione pubblica. E poi: non tenersi per sé notizie, idee, propositi al riguardo. Questo è il “movimento”. Il movimento di cui molti mi parlano. Articolo di Mauro Mellini. Avvocato e politico italiano. È stato parlamentare del Partito Radicale, di cui fu tra i fondatori.
Ma cosa sarebbe codesta antimafia, che tutto gli è concesso, se non ci fosse lo spauracchio mediatico della mafia di loro invenzione? E, poi, chi ha dato la patente di antimafiosità a certi politicanti di sinistra che incitano le masse…e chi ha dato l’investitura di antimafiosità a certi rappresentanti dell’associazionismo catto-comunista che speculano sui beni…e chi ha dato l’abilitazione ad essere portavoci dell’antimafiosità a certi scribacchini di sinistra che sobillano la società civile? E perché questa antimafiosità ha immenso spazio su tv di Stato e giornali sostenuti dallo Stato per fomentare questa deriva culturale contro la nostra Nazione o parte di essa. Discrasia innescata da gruppi editoriali che influenzano l’informazione in Italia?
Fintanto che le vittime dell’antimafia useranno o subiranno il linguaggio dei loro carnefici, continueremo ad alimentare i cosiddetti antimafiosi che lucreranno sulla pelle degli avversari politici.
Se la legalità è l’atteggiamento ed il comportamento conforme alla legge, perché l’omologazione alla legalità non è uguale per tutti,…uguale anche per gli antimafiosi? La legge va sempre rispettata, ma il legislatore deve conformarsi a principi internazionali condivisi di più alto spessore che non siano i propri interessi politici locali prettamente partigiani.
Va denunciato il fatto che l’antimafiosità è solo lotta politica e di propaganda e la mafia dell’antimafia è più pericolosa di ogni altra consorteria criminale, perchè: calunnia, diffama, espropria e distrugge in modo arbitrario ed impunito per sola sete di potere. La mafia esiste ed è solo quella degli antimafiosi, o delle caste o delle lobbies o delle massonerie deviate. E se per gli antimafiosi, invece, tutto quel che succede è mafia…Allora niente è mafia. E se niente è mafia, alla fine gli stranieri considereranno gli italiani tutti mafiosi.
Invece mafioso è ogni atteggiamento e comportamento, da chiunque adottato, di sopraffazione e dall’omertà, anche istituzionale, che ne deriva.
Non denunciare ciò rende complici e di questo passo gli sciasciani non avranno mai visibilità se rimarranno da soli ed inascoltati.
Finalmente la giurisprudenza ha cominciato a fare qualche passo in avanti verso la civiltà giuridica. Merita il plauso l'ordinanza n. 48441 del 10 Ottobre 2017 con la quale la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha riconosciuto il principio secondo il quale, se una persona viene assolta dall'accusa di associazione mafiosa, per gli stessi fatti non può essere considerata socialmente pericolosa. Riporto i passaggi più significativi dell'ordinanza.
"Lì dove le condotte sintomatiche della pericolosità siano legislativamente caratterizzate [...] in termini per lo più evocativi di fattispecie penali [...] è evidente che il giudice della misura di prevenzione (nel preliminare apprezzamento di tali 'fatti') non può evitare di porsi il problema rappresentato dalla esistenza di una pronunzia giurisdizionale che proprio su quella condotta [...] ha espresso una pronunzia in termini di insussistenza o di non attribuibilità del fatto all'individuo di cui si discute. [...] L'avvenuta esclusione del rilievo penale di una condotta, almeno tendenzialmente, impedisce di porre quel segmento di vita a base di una valutazione di pericolosità ed impone il reperimento, in sede di prevenzione, di ulteriori e diverse forme di conoscenza, capaci - in ipotesi - di realizzare ugualmente l'effetto di inquadramento nella categoria criminologica. [...] Lì dove il giudizio penale su un fatto rilevante a fini di inquadramento soggettivo abbia avuto un esito definitivo, tale aspetto finisce con il ricadere inevitabilmente nella cd. parte constatativa del giudizio di pericolosità". Questo principio, soprattutto alla luce dell'insegnamento della sentenza De Tommaso, dovrebbe rimettere in discussione la legittimità delle confische disposte nei confronti di persone assolte.
La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la Saguto e per 15 suoi amici, scrive il 26 ottobre 2017 Telejato. DOPO MESI DI INDAGINI, INTERROGATORI, INTERCETTAZIONI, IL NODO È ARRIVATO AL PETTINE. La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la signora Silvana Saguto, già presidente dell’Ufficio Misure di prevenzione, accusata assieme ad altri 15 imputati, di corruzione, abuso d’ufficio, concussione, truffa aggravata, riciclaggio, dopo una requisitoria durata cinque ore. Saranno invece processati col rito abbreviato i magistrati Tommaso Virga, Fabio Licata e il cancelliere Elio Grimaldi. Tra coloro per cui è stato chiesto il rinvio figurano il padre, il figlio Emanuele e il marito della Saguto, il funzionario della DIA Rosolino Nasca, i docenti universitari Roberto Di Maria e Carmelo Provenzano, assieme ad altri suoi parenti, l’ex prefetto di Palermo Francesca Cannizzo. Posizione stralciata anche per l’altro ex giudice dell’ufficio misure di prevenzione Chiaramontee per il suo compagno Antonio Ticali, per il quale la procura ha chiesto l’archiviazione, e per l’altro professore universitario Luca Nivarra e rito abbreviato per Cappellano Seminara. Prossima udienza il 6 novembre, con la parola alle parti civili e al collegio di difesa. Inutile soffermarci ancora sull’allegro e criminoso modo, portato avanti dalla Saguto, di mettere sotto sequestro aziende alle quali, in qualche modo spesso solo indiziario, si attribuiva una patente di mafiosità per procedere alla loro requisizione e affidarne la gestione agli avvocati o economisti che facevano parte del cerchio magico. L’amministrazione giudiziaria di questi beni ha arrecato danni irreversibili all’economia siciliana, poiché le aziende sono state smantellate e non più restituite, anche quando i proprietari sono stati penalmente assolti da ogni imputazione. E proprio oggi arriva la notizia del dissequestro di due aziende finite nel mirino della Saguto, che nel febbraio 2014 ne aveva disposto il sequestro: si tratta della Fattoria Ferla e della Special Fruit, che hanno operato da anni all’interno del settore ortofrutticolo e che oggi, dopo la disamministrazione affidata a Nicola Santangelo, oggi anche lui sotto processo, sono finite in liquidazione, lasciando disoccupati una decina di lavoratori. Le due aziende erano state accusate di essere sotto la protezione del boss dell’Acquasanta Galatolo, nell’ambito di un sequestro di 250 milioni, ma dopo l’attenta valutazione condotta dai magistrati dell’ufficio misure di prevenzione, oggi affidato al nuovo presidente Malizia e ai giudici Luigi Petrucci e Giovanni Francolini, è stato disposto il dissequestro, in quanto non esiste “neanche il sospetto” di infiltrazioni mafiose. Restano ancora sotto sequestro altri beni ed è in corso il procedimento per il successivo dissequestro.
L’antimafia preventiva diventata definitiva, scrive il 13 ottobre 2017 Telejato.
LA PREVENZIONE. Il caso Saguto ha causato l’implosione di un sistema concepito in origine per aggredire i patrimoni mafiosi e colpire i mafiosi nelle loro ricchezze costruite con l’illegalità. Il sistema, giorno dopo giorno è diventato un metodo in virtù del grande potere attribuito ai giudici di poter sequestrare i beni, anche attraverso la semplice “legge del sospetto”, e di poterli tenere sotto sequestro anche quando i procedimenti penali hanno ufficialmente decretato l’infondatezza di questo sospetto e prosciolto i cosiddetti “preposti”, cioè soggetti a sequestro da ogni imputazione di associazione, contiguità, concorso con il malaffare mafioso. Ancora oggi restano sotto sequestro immensi patrimoni di soggetti che, in altri periodi si sono piegati alla legge del pizzo, in alcuni casi per continuare a lavorare, in altri casi, è giusto dirlo, anche per avere mano libera nel badare ai propri affari. Quello che per loro era un “piegarsi alla regola” della “messa a posto”, per sopravvivere, diventa accusa di collaborazione e concorso in associazione mafiosa, così che le vittime diventano complici. L’imprenditoria siciliana, soprattutto nei suoi risvolti commerciali e nell’edilizia, ha subito tremende battute d’arresto, poiché la mannaia della prevenzione si è abbattuta su aziende che davano lavoro a migliaia di siciliani oggi disoccupati, senza preoccuparsi di sorvegliare la gestione dei beni confiscati, affidati ad amministratori giudiziari, alcuni senza scrupoli, altri del tutto incapaci e incompetenti, che hanno prosciugato i beni dell’azienda loro affidata per foraggiare se stessi e i propri collaboratori. In tal modo quello che avrebbe dovuto essere un momento “preventivo”, al fine di evitare la reiterazione del reato, diventa un momento definitivo, dato il prolungamento all’infinito delle misure di prevenzione, anche ad assoluzione penale avvenuta.
LA NUOVA LEGGE ANTIMAFIA. Da parte di alcuni settori si è gridato alla vittoria e al passo in avanti dato dal nuovo codice antimafia, approvato nel settembre scorso, ma, come abbiamo più volte scritto, si tratta di una legge nata vecchia, con qualche ritocco alla vecchia legge del 2012, senza che siano indicate regole precise né sul periodo, cioè sulla durata in cui un bene deve essere tenuto sotto sequestro, né sulle prove e sulle condizioni che dovrebbero giustificare il sequestro, né sulle penalità da attribuire agli amministratori incompetenti o ai magistrati che hanno agito frettolosamente, senza che la loro azione sia stata giustificata da un minimo di sentenza. È rimasto il solco tra procedimento penale e procedimento di prevenzione, anzi il procedimento di prevenzione è stato esteso anche ai reati di corruzione, commessi in associazione, senza garanzie sulla possibile restituzione e sul risarcimento dei danni causati dalla disamministrazione. Insomma, come al solito non pagherà nessuno e i magistrati potranno continuare ad agire nel massimo della libertà che non è sempre garanzia di giustizia.
I RESPONSABILI. Dopo questa premessa citiamo, e ricordiamo i numerosi nomi di amministratori che, in un modo o in un altro hanno contribuito a creare sfiducia nella possibilità di potere portare avanti un’azione antimafia decisa e corretta, che avrebbe dovuto avere come finalità primaria la possibilità di non affossare l’economia siciliana, ma di salvaguardarla dalle infiltrazioni mafiose e di costruirla nel rispetto delle regole parallelamente alle condizioni di crisi, di cui ancora non si vede l’uscita, nonostante lo strombazzamento di miglioramenti dei quali in Sicilia non vediamo nemmeno l’ombra. La salvaguardia di quel poco esistente, spesso dovuto al coraggio di imprenditori che hanno rischiato tutto e si sono anche indebitati per costruire un’azienda, non è stata in alcun modo presa in considerazione, e ciò ha causato il crollo di strutture e aziende, come quelle dei Niceta, dei Cavallotti, di Calcedonio Di Giovanni, della catena di alberghi Ponte, della Motoroil, della Clinica Villa Teresa di Bagheria, (sia nel settore sanitario che in quello edilizio), della Meditour degli Impastato, dei supermercati Despar di Grigoli in provincia di Trapani e Agrigento, dell’impero televisivo e concessionario dei Rappa e così via. Responsabili i vari a Cappellano Seminara, Sanfilippo, Santangelo, Aulo Giganti, Ribolla, Scimeca, Benanti, Walter Virga, Rizzo, Modica de Moach e così via. Molti di questi sono ancora al loro posto, mentre altri sono stati sostituiti. Di questo lungo elenco faceva parte Luigi Miserendino che, ieri, si è dimesso da tutti gli incarichi, per avere lasciato al suo posto il re dei detersivi Ferdico, il quale è stato assolto da tutto, ma ricondotto in carcere, mentre il carcere è stato revocato a Miserendino, poiché, dimessosi, non potrà più reiterare il reato.
IL PROFESSORE. Oggi spunta la notizia, altrettanto grave dell’interrogatorio del prof. Carmelo Provenzano, il quale, dopo avere sistemato nelle varie amministrazioni moglie, fratello, cognata e altri amici, dopo avere rifornito di frutta fresca il frigorifero della Saguto e del prefetto di Palermo Cannizzo, dopo avere agevolato la laurea del figlio della Saguto, anche con l’aiuto del rettore dell’Università di Enna Di Maria, oggi dichiara candidamente al giudice Bonaccorso che lo sta interrogando, di avere fatto tutto questo perché rientrava nelle sue funzioni di docente aiutare gli alunni, tra i quali cita anche il figlio dell’ex procuratore capo di Caltanissetta Sergio Lari e si lamenta addirittura che le sue telefonate al figlio di Lari non sono agli atti del procedimento contro di lui. Va tenuto presente comunque che Lari è stato quello che ha dato il via all’inchiesta aperta dei giudici di Caltanissetta contro la Saguto e i suoi collaboratori, o, se vogliamo, complici. Secondo Provenzano tutto quello che è successo era “normale”, tutti facevano così, rientrava nel normale modo di gestire i beni sequestrati quello di aiutarsi e appoggiarsi reciprocamente tra i vari componenti del cerchio magico. Né più né meno come quando Craxi dichiarò in parlamento che il sistema delle tangenti ai partiti era normalità, che tutti facevano così, tutti mangiavano e non poteva essere lui solo a pagare per tutti. E se tutto è normale, non è successo niente, abbiamo scherzato, hanno scherzato i giudici di Caltanissetta ad aprire il procedimento, sono tutti innocenti e tutti dovrebbero essere assolti, Cappellano compreso, perché hanno fatto egregiamente il loro lavoro. Conclusione, ma non solo per Provenzano, è che tutto quello che dovrebbe essere anormale, anche il malaffare, è normale, mentre è anormale il corretto funzionamento della giustizia e l’applicazione di eventuali pene nei confronti di chi sbaglia. Ovvero fuori i mascalzoni e dentro chi si comporta onestamente o chi si permette di denunciare il disonesto modo di amministrare la cosa pubblica, i beni dello stato, il corretto funzionamento della giustizia. Come succede molto spesso in Italia, secondo un detto antichissimo cui ostinatamente non possiamo e non dobbiamo rassegnarci: “La furca è pi li poviri, la giustizia pi li fissa
L’Italia non è un paese per giovani (avvocati): elevare barriere castali e di censo non è una soluzione, scrive il 28 Aprile 2017 “L’Inkiesta”. Partiamo da due disfunzioni che affliggono il nostro Paese e che stanno facendo molto parlare di sé. Da una parte, la crisi delle libere professioni e, in generale, delle lauree, con importanti giornali nazionali che ci informano, per esempio, che i geometri guadagnano più degli architetti. Dall’altra, le inefficienze del sistema giudiziario. Queste, sono oggetto di dibattito da tempo immemorabile, ci rendono tra i Paesi peggiori dell’area OCSE e ci hanno fatti condannare da niente-popò-di-meno-che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Incrociate ora i due trend. Indovinate chi ci rimane incastrato in mezzo? Ovviamente i giovani laureati/laureandi in giurisprudenza, chiusi tra un percorso universitario sempre più debole e una politica incapace di portare a termine una riforma complessiva e decente dell’ordinamento forense. Come risolvere la questione? Con il numero chiuso a giurisprudenza? Liberalizzando la professione legale? Niente di tutto questo, ci mancherebbe. In un Paese dove gli avvocati rappresentano una fetta rilevante dei parlamentari, la risposta fornita dall’ennesima riforma è facile facile. Porre barriere di censo e di casta all’accesso alla professione. Da questa prospettiva tutte le recenti novità legislative acquistano un senso e rivelano una logica agghiacciante. I malcapitati che si laureeranno in Giurisprudenza a partire dall’anno 2016/2017 avranno una prima sorpresina: l’obbligo di frequentare una scuola di formazione per almeno 160 ore. Anche a pagamento se necessario, come da parere positivo del Consiglio Nazionale Forense.
La questione sarebbe da portare all’attenzione di un bravo psicanalista. Giusto qualche osservazione: (1) se la pratica deve insegnare il mestiere, perché aggiungere un’altra scuola obbligatoria?; (2) Se la Facoltà di Legge - che in Italia è lunghissima: 5 anni, contro i 3 di Stati Uniti e Regno Unito e i 4 della Francia, per esempio – serve a così poco, tanto da dover essere integrata anche dopo la laurea, perché non riformarla?; (3) perché fermare i ragazzi dopo la laurea, invece di farlo prima? Ci sarebbero anche altre questioni. Per esempio, 160 ore di formazione spalmate su 18 mesi, per i fortunati ammessi, non sono molte in teoria. Tuttavia, basta vedere le sempre maggiori proteste riportate dai giornali, e rigorosamente anonime, di praticanti-fotocopisti senza nome, sfruttati e non pagati, per accorgersi che la realtà è molto diversa dalla visione irenica (ipocrita è offensivo?) dei riformatori. E, in ogni caso, anche se il praticante fosse sufficientemente fortunato da avere qualche soldo in tasca, ciò non gli permetterebbe di godere del dono dell’ubiquità. Ma così si passerebbe dal settore della psicanalisi a quello della parapsicologia. Meglio evitare. Andiamo oltre.
Abbiamo superato la prima trincea. Coi soldi del nonno ci manteniamo nella nostra pratica non pagata o mal pagata. Magari siamo bravissimi ed accediamo ai corsi di formazione a gratis o con borsa. Arriva il momento dell’esame. Presto l’esame scritto sarà senza codice commentato. E fin qui, nessun problema. Meglio ragionare con la propria testa che affannarsi a cercare la “sentenza giusta”, magari senza capirla. Le prove verteranno sempre su diritto civile, diritto penale e un atto. Segue un esame orale con quattro materie obbligatorie: diritto civile, diritto penale, le due relative procedure, due materie a scelta e la deontologia forense. E qui il fine giurista si deve trasformare in una specie di Pico de La Mirandola, mandando a memoria tutto in poco tempo. Magari col capo che non ti concede più di un mese di assenza dalla tua scrivania. Ma il problema di questo esame è un altro. Poniamo che io sia un praticante in gamba e che abbia trovato lavoro in un grosso studio internazionale leader nel settore del diritto bancario. Plausibilmente, lavorerò con professionisti fantastici e avrò clienti prestigiosi. Serve a qualcosa per l’esame di stato? Risposta: no. Riformuliamo la questione. Se io mi occupo di diritto bancario o di diritto societario, cosa me ne frega di studiare diritto penale, materia che non mi interessa e che non praticherò mai? Mistero. L’esame di abilitazione fu regolato per la prima volta nel 1934 e la sua logica è rimasta ferma lì. Come se l’avvocato fosse ancora un piccolo professionista individuale che fa indifferentemente tutto. Pensateci la prossima volta che sentite qualcuno sciacquarsi la bocca con fregnacce sulla specializzazione degli avvocati e sulla dipartita dell’avvocato generico. Pensateci.
Passata anche la seconda trincea. Siete avvocati. Tutto bene? No. Tutto male. Finirete sotto il fuoco della Cassa Forense, obbligatoria, che vi mitraglierà. Non importa se siete potentissimi astri nascenti o piccoli professionisti. I risultati? Migliaia di giovani avvocati che si cancellano dall’albo ogni anno. Sgombriamo subito il campo da equivoci. Spesso quando si introduce questo tema ci si sente rispondere che in Italia ci sono troppi avvocati e se si sfoltiscono è meglio. Giusto. Ma ciò non può condurre ad affermare che dei giovani siano tagliati fuori da un sistema disfunzionale. La selezione dura va bene; il terno al lotto no. La competizione, anche spietata, va bene; le barriere all’accesso strutturate senza la minima logica no. Dietro le belle parole, si nasconde un sistema che, come avviene anche per altre professioni, cerca di tutelare se stesso sbattendo la porta in faccia ai giovani che vorrebbero entrare. Non tutti ovviamente. Senza troppa malizia vediamo che avrà meno crucci: (1) chi ha il padre, nonno, zio, fratello maggiore ecc… titolare di uno studio legale. Una mancetta arriverà sempre, con essa il tempo libero per frequentare la formazione obbligatoria e una study leave succulenta di un paio di mesi per preparare l’esame; (2) chi è ricco di famiglia e che, dunque, può godere dei vantaggi di cui sopra per vie traverse; (3) chi, date le condizioni di cui ai punti 1 e 2, può sostenere l’esame due, tre, quattro, cinque volte. E la meritocrazia? Naaaa, quello è uno slogan da sbandierare in campagna elettorale, cosa avete pensavate, sciocconi? In definitiva, il sistema come si sta concependo non fa altro che porre barriere all’ingresso che favoriscono il ceto e di casta. Una volta che si è entrati, invece, si fa in modo di cacciare fuori coloro che non arrivano a fine mese, tendenzialmente i più giovani o i più piccoli.
Ci sono alternative? Guardiamo un paese come la Francia. Lì, l’esame duro e temutissimo è quello per l’accesso all’école des Avocats, superato ogni anno da meno di un terzo dei candidati. Ma, (1) lo si sostiene appena terminata l’università, quando si è “freschi”; (2) è la precondizione per l’accesso al tirocinio, non un terno al lotto che viene al termine di 18/24 mesi di servaggio, spesso inutile ai fini del superamento dell’esame. Quindi, se si fallisce, al netto della delusione, si può subito andare a fare altro. Oppure si riprova (fino a tre volte). In ogni caso, però, non si buttano due anni di vita. La conclusione è sempre la stessa. L’Italia è un Paese che investe poco nei giovani. E che ci crede poco, a giudicare dalle frequenti sparate e rimbrotti di ministri vari. Sperando che non si cerchi, di fatto, di risolvere il problema con l’emigrazione, il messaggio deve essere chiaro. Non si faccia pagare ai giovani l’incapacità del sistema di riformarsi seriamente e organicamente. Le alternative ci sono.
Giornalisti? E’ meglio se andate a fare gli operai, scrive di Andrea Tortelli, Responsabile di "GiornalistiSocial.it". E’ meglio se andate a fare gli operai, credetemi. Lo dicono i numeri. Chiunque aspiri a fare il giornalista, in Italia, deve confrontarsi con un quadro di mercato ben più drammatico di quello di altri settori in crisi. Il giornalista rimane una professione molto (troppo) ambita, ma non conferisce più prestigio sociale a chi la pratica e soprattutto non è più remunerativa. Diverse classifiche, non solo italiche, inseriscono quello del reporter fra i lavori a maggiore rischio di indigenza. E chi pratica bazzica in questo mondo non può stupirsene.
Qualche numero sui media. Il mondo dei media è in crisi da tempo, ben prima che arrivassero i social a dare il colpo di grazia. In una provincia come Brescia, dove vivo, non c’è un solo giornale cartaceo o una televisione locale che nell’ultimo quinquennio non abbia ridotto il proprio organico e chiuso qualche bilancio in rosso. Tutto ciò mentre gli on line sopravvivono, ma non prosperano: generando numeri, ma recuperando ben poche delle risorse perse per strada dai media tradizionali. In Italia, va detto, i giornali non hanno mai goduto di troppa gloria. Da sempre siamo una delle popolazioni al mondo che legge meno. Meno di una persona su venti, oggi, compra un quotidiano in edicola e il calo è costante. Il Corriere della Sera, solo per fare un esempio, tra il 2004 e il 2014 ha dimezzato le proprie copie (l’on line, nello stesso periodo, è passato da 2 milioni di utenti al mese a 1,5 al giorno, Facebook da zero a 2 milioni di fan…). Nel 2016, ancora, i cinque giornali cartacei più venduti (Corsera, Repubblica, Sole 24 Ore, La Stampa e Gazzetta dello Sport) hanno perso un decimo esatto delle copie.
Non va meglio sul fronte dei fatturati. Dal 2004 al 2014 – permettetemi di riciclare un vecchio dato – il mercato pubblicitario italiano è passato da 8 miliardi 240milioni di euro a 5 miliardi e 739milioni (fonte DataMediaHub). La tv è scesa da 4 miliardi 451 milioni a 3.510 milioni, la stampa si è più che dimezzata da 2 miliardi 891 milioni a 1 miliardo 314 milioni, il web è cresciuto sì. Ma soltanto da 116 milioni a 474. Vuol dire che – dati alla mano – per ogni euro perso dalla carta stampata in questo decennio sono arrivati sul web soltanto 22 centesimi (del resto, agli attuali prezzi di mercato, mille clic vengono pagati oggi meno di due euro…). E gli altri 80 centesimi dove sono finiti? Un po’ si sono persi a causa della crisi. Ma una grossa fetta – non misurabile – è finita alle big del web, nel grande buco nero fiscale di Google e Facebook. Cioè è uscita dal circuito dell’informazione e dell’editoria.
I giornalisti che fanno? A una drastica riduzione delle copie e dei fatturati consegue ovviamente una drastica riduzione degli organici. Ma a questo dato si somma un aumento significativo dell’offerta (complici le scuole di giornalismo, ma non solo…) e un aumento esponenziale della concorrenza “impropria”, dovuta al fatto che Facebook è ormai la prima fonte di informazione degli italiani e sono molti a operare fuori dal circuito tradizionale (e spesso anche fuori dal circuito legale) dei media. In questo contesto, le possibilità di spuntare un contratto ex Articolo 1 (Cnlg) per un giovane sono praticamente nulle. Ma anche portare a casa almeno mille euro lordi al mese è un’impresa se ci sono quotidiani locali, anche di gruppi importanti, che pagano meno di 10 euro un articolo. E on line, a quotazioni di “mercato”, un pezzo viene pagato anche un euro. Lordo. Non è un caso che sempre più colleghi abbiano decisi di cambiare vita, e molto spesso sono i più validi. Ne conosco molti. C’è chi fa l’operaio part time a tempo indeterminato e arrotonda scrivendo (quasi per passione), chi ha mollato tutto per una cattedra da precario alle superiori, chi all’ennesima crisi aziendale ha deciso di andare a lavorare a tempo pieno in fabbrica per mantenere i figli e chi ancora era caporedattore di un noto giornale – oltre che penna di grandissimo talento – e ora si dedica alla botanica. Con risultati di eguale livello, pare. I dati dell’Osservatorio Job pricing, del resto, indicano che nel 2016 un operaio italiano guadagnava mediamente 1.349 euro. Il collaboratore di una televisione locale, a 25 euro lordi a servizio, dovrebbe fare più di 50 uscite (con montaggio annesso) per portare a casa la stessa cifra. Il collaboratore di un quotidiano locale dovrebbe firmare almeno 100 pezzi, tre al giorno. Senza ferie, tredicesima, malattia e possibilità di andare in banca a chiedere un mutuo se privo della firma di papi. Insomma: il vecchio adagio del “sempre meglio che lavorare” è ancora attuale, ma ha drammaticamente cambiato significato. Visto che il giornalismo è diventato per molti un hobby o una moderna forma di schiavitù, quasi al livello dei raccoglitori di pomodori pugliesi. Dunque?
La soluzione. Dunque… Quando qualcuno mi contatta per chiedermi come si fa a diventare giornalista (circostanza piuttosto frequente, visto che gestisco GiornalistiSocial.it) cerco sempre di fornirgli un quadro completo e oggettivo della situazione, per non illudere nessuno. Alcuni si incazzano e spariscono. Altri ringraziano delusi. I più ascoltano, ma non sentono. Una piccola parte comprende che il mestiere del giornalista, nel 2017, ha un senso solo se sussistono due elementi: una grande passione e la volontà di fare gli imprenditori di se stessi. Fare il giornalista, in Italia ma non solo, richiede oggi una grande capacità di adattamento al sistema della comunicazione e un sistema di competenze tecniche estese (fotografia, grafica, video, social, web, seo e anche marketing, parola che farebbe accapponare la pelle a quelli della vecchia scuola) per sopravvivere a un mercato sempre meno chiuso, in cui i concorrenti sono tanto i colleghi e gli aspiranti colleghi, quanto tutti i laureati privi di occupazione e i liberi professionisti dell’articolato mondo web. Ma questo è un altro capitolo. Nel frattempo, è meglio che andiate a fare gli operai. Oppure ribellatevi.
Mi sono laureata nonostante gli abusi dei professori. Mi chiamo Carolina, e sono una neolaureata all'Università Statale di Milano. Mi sono sentita moralmente obbligata a scrivere questa lettera, che spero potrà avere una sua risonanza. So che qualche anno fa i quotidiani si erano già occupati dell'incresciosa situazione logistica in alcune facoltà della Statale, una situazione che ha costretto me come centinaia di altri studenti a seguire per interi semestri le lezioni seduti sul pavimento, quando non addirittura in piedi fuori dalle porte e dalle finestre delle aule. Ma in questa sede vorrei invece parlare della condotta dei professori, della quale ingiustamente non si è mai fatto parola. Per natura tendo a non parlare mai di ciò che non conosco direttamente, quindi mi riferirò esclusivamente alle facoltà sotto la dicitura di Studi Umanistici della Statale. Volendo evitare di fare di tutta l'erba un fascio, ammetto volentieri il fatto di aver incontrato durante la mia carriera universitaria professori competenti e disponibili, e mi piacerebbe poter dire che sono la maggioranza. Ma ciò di cui non si parla mai sono gli altri, una vera e propria casta che segue solamente le proprie regole anche e spesso a dispetto degli studenti. Urge fare qualche esempio pratico. Ci sono professori che perdono esami di studenti e non solo non denunciano l'accaduto, ma bocciano gli studenti interessati sperando che loro non arrivino mai a scoprirlo, ma si limitino semplicemente a ripetere l'esame in questione. Ci sono professori che in una giornata di interrogazioni d'esame si prendono ben tre ore di pausa pranzo. Ce ne sono altri che con appelli programmati da mesi, fanno presentare tutti gli studenti iscritti e poi annunciano di dover partire per un viaggio, e che quelli non interrogati si devono ripresentare due settimane dopo. Alcuni si rifiutano, benché avvisati con anticipo, di interrogare gli studenti che hanno seguito il corso con un altro professore non disponibile per l'appello d'esame. E ultimi, ma certamente non per importanza, ci sono i professori che ogni anno mandano fuori corso decine di studenti che hanno finito per tempo gli esami, impedendogli di laurearsi nell'ultima sessione disponibile per loro e costringendoli a pagare un anno intero di retta universitaria perché "non hanno tempo di seguire questa tesi" oppure perché il candidato "è troppo indietro con la stesura, ci sarebbe troppo da fare". Tutti gli episodi sopra citati sono accaduti ad una sola persona, me. E per quanto io mi renda conto di essere stata particolarmente sfortunata, mi riesce difficile pensare di essere l'unica alla quale cose del genere sono successe. Questi veri e propri abusi di potere rendono quasi impossibile per gli studenti godere del generalmente buon livello di istruzione offerto dall'università. Mi includo nel gruppo quando mi chiedo come mai gli studenti non si siano mai fatti sentire, e mi vergogno quasi un po' a scrivere questa lettera con il mio bell'attestato di laurea appeso in stanza, ma la verità è che mi è costato fin troppa fatica, e non ero disposta a mettere a rischio la possibilità di ottenerlo, dal momento che non ero io ad avere il coltello dalla parte del manico. Ma non mi sembrava ad ogni modo corretto lasciare che tali comportamenti passassero sotto silenzio. L'istruzione pubblica dovrebbe essere un diritto, non un privilegio, ed insegnare dovrebbe essere una grande responsabilità, qualcosa di cui non abusare mai. Carolina Forin 14 ottobre 2017 “L’Espresso”
I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)
“L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.
La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."
TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).
"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)
Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.
Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato, istruito ed informato da coglioni.
È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt
Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.
"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta".
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?
Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.
Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."
Aste e usura: chiesta ispezione nei tribunali di Taranto e Potenza. Interrogazione dei Senatori Cinque Stelle: “Prassi illegali e vicende inquietanti”, titola “Basilicata 24” nel silenzio assordante dei media pugliesi e tarantini.
Da presidente dell’ANPA (Associazione Nazionale Praticanti ed Avvocati) già dal 2003, fin quando mi hanno permesso di esercitare la professione forense fino al 2006, mi sono ribellato a quella realtà ed ho messo in subbuglio il Foro di Taranto, inviando a varie autorità (Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, Procura della Repubblica di Taranto, Ministro della Giustizia) un dossier analitico sull’Ingiustizia a Taranto e sull’abilitazione truccata degli avvocati. Da questo dossier è scaturita solo una interrogazione parlamentare di AN del Senatore Euprepio Curto (sol perché ricoprivo l’incarico di primo presidente di circolo di Avetrana di quel partito). Eccezionalmente il Ministero ha risposto, ma con risposte diffamatorie a danno dell’esponente. Da allora e per la mia continua ricerca di giustizia come Vice Presidente provinciale di Taranto dell’Italia dei Valori (Movimento da me lasciato ed antesignano dei 5 Stelle, entrambi a me non confacenti per mia palese “disonestà”) e poi come presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno, per essermi permesso di rompere l’omertà, gli abusi e le ingiustizie, ho subito decine di procedimenti penali per calunnia e diffamazione, facendomi passare per mitomane o pazzo, oltre ad inibirmi la professione forense. Tutte le mie denunce ed esposti e la totalità dei ricorsi presentati a tutti i Parlamentari ed alle autorità amministrative e politiche: tutto insabbiato, nonostante la mafiosità istituzionale è sotto gli occhi di tutti.
I procedimenti penali a mio carico sono andati tutti in fumo, non riuscendo nell’intento di condannarmi, fin anche a Potenza su sollecitazione dei denuncianti magistrati.
Il 3 ottobre 2016, dopo un po’ di tempo che mancavo in quel di Taranto, si apre un ulteriore procedimento penale a mio carico per il quale già era intervenuta sentenza di assoluzione per lo stesso fatto. Sorvolo sullo specifico che mi riguarda e qui continuo a denunciare alla luna le anomalie, così già da me riscontrate molti anni prima. Nei miei esposti si parlava anche di mancata iscrizione nel registro generale delle notizie di reato e di omesse comunicazioni sull’esito delle denunce.
L’ufficio penale del Tribunale è l’ombelico del disservizio. Non vi è traccia degli atti regolarmente depositati, sia ufficio su ufficio (per le richieste dell’ammissione del gratuito patrocinio dall’ufficio del gratuito patrocinio all’ufficio del giudice competente), sia utenza su ufficio per quanto riguarda in particolare la lista testi depositata dagli avvocati nei termini perentori. Per questo motivo è inibito a molti avvocati percepire i diritti per il gratuito patrocinio prestato, non essendo traccia né delle istanze, né dei decreti emessi. Nell’udienza del 3 ottobre 2016, per gli avvocati presenti, al disservizio si è provveduto con una sorta di sanatoria con ripresentazione in udienza di nuove istanze di ammissione di Gratuito patrocinio e di nuove liste testi (fuori tempo massimo); per i sostituiti avvocati, invece, ogni diritto è decaduto con pregiudizio di causa. Non un avvocato si è ribellato e nessuno mai lo farà, perché mai nessuno in quel foro si è lamentato di come si amministra la Giustizia e di come ci si abilita. Per quanto riguarda la gestione degli uffici non si può alludere ad una fantomatica mancanza di personale, essendo l’ufficio ben coperto da impiegate, oltretutto, poco disponibili con l’utenza.
Io ho già dato per fare casino, non foss’altro che ormai sono timbrato tra i tarantini come calunniatore, mitomane o pazzo, facendo arrivare la nomea oltre il Foro dell’Ingiustizia.
La presente, giusto per rendere edotti gli ignoranti giustizialisti e sinistroidi in che mani è la giustizia, specialmente a Taranto ed anche per colpa degli avvocati.
Cane non mangia cane. E questo a Taranto, come in tutta Italia, non si deve sapere.
Questo il commento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS che ha scritto un libro “Tutto su Taranto. Quello che non si osa dire”.
Un’inchiesta di cui nessuno quasi parla. Si scontrano due correnti di pensiero. Chi è amico dei magistrati, dai quali riceve la notizia segretata e la pubblica. Chi è amico degli avvocati che tace della notizia già pubblicata. "Siediti lungo la riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico", proverbio cinese. Qualcuno a me disse, avendo indagato sulle loro malefatte: “poi vediamo se diventi avvocato”...e così fu. Mai lo divenni e non per colpa mia.
Dei magistrati già sappiamo. C’è l’informazione, ma manca la sanzione. Non una condanna penale o civile. Questo è già chiedere troppo. Ma addirittura una sanzione disciplinare.
Canzio: caro Csm, quanto sei indulgente coi magistrati…, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 19 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Per il vertice della Suprema Corte questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona”. La dichiarazione che non ti aspetti. Soprattutto per il prestigio dell’autore e del luogo in cui è stata pronunciata. «Il 99% dei magistrati italiani ha una valutazione positiva. Questa percentuale non ha riscontro in nessuna organizzazione istituzionale complessa». A dirlo è il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio che, intervenuto ieri mattina in Plenum a Palazzo dei Marescialli, ha voluto evidenziare questa “anomalia” che contraddistingue le toghe rispetto alle altre categorie professionali dello Stato. La valutazione di professionalità di un magistrato che era stato in precedenza oggetto di un procedimento disciplinare ha offerto lo spunto per approfondire il tema, particolarmente scottante, delle “note caratteristiche” delle toghe. «È un dato clamoroso – ha aggiunto il presidente Canzio che i magistrati abbiano tutti un giudizio positivo». Questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona” e che necessita di essere “rivisto” quanto prima. Anche perché fornisce l’immagine di una categoria particolarmente indulgente con se stessa. In effetti, leggendo i pareri delle toghe che pervengono al Consiglio superiore della magistratura, ad esempio nel momento dell’avanzamento di carriera o quando si tratta di dover scegliere un presidente di tribunale o un procuratore, si scopre che quasi tutti, il 99% appunto, sono caratterizzati da giudizi estremamente lusinghieri. Ciò stride con le cronache che quotidianamente, invece, descrivono episodi di mala giustizia. In un sistema “sulla carta” composto da personale estremamente qualificato, imparziale e scrupoloso non dovrebbero, di norma, verificarsi errori giudiziari se non in numeri fisiologici. La realtà, come è noto, è ben diversa. Qualche mese fa, parlando proprio delle vittime di errori giudiziari e degli indennizzi che ogni anno vengono liquidati, l’allora vice ministro della Giustizia Enrico Costa, parlò di «numeri che non possono essere considerati fisiologici ma patologici». Ma il problema è anche un altro. Nel caso, appunto, della scelta di un direttivo, è estremamente arduo effettuare una valutazione fra magistrati che presentato le medesime, ampiamente positive, valutazioni di professionalità. Si finisce per lasciare inevitabilmente spazio alla discrezionalità. Sul punto anche il vice presidente del Csm Giovanni Legnini è d’accordo, in particolar modo quando un magistrato è stato oggetto di una condanna disciplinare. «Propongo al Comitato di presidenza di aprire una pratica per approfondire i rapporti fra la sanzione disciplinare e il conferimento dell’incarico direttivo o la conferma dell’incarico». Alcuni consiglieri hanno, però, sottolineato che l’1% di giudizi negativi sono comunque tanti. Si tratta di 90 magistrati su 9000, tante sono le toghe, che annualmente incappano in disavventure disciplinari. Considerato, poi, che l’attuale sistema disciplinare è in vigore da dieci anni, teoricamente sarebbero 900 le toghe ad oggi finite dietro la lavagna. Un numero, in proporzione elevato, ma che merita una riflessione attenta. Il Csm è severo con i giudici che depositano in ritardo una sentenza ma è di “manica larga” con il pm si dimentica un fascicolo nell’armadio facendolo prescrivere.
Solo un rimbrotto per il pm che "scorda" l'imputato in galera, scrive Rocco Vazzana il 30 novembre 2016 su "Il Dubbio". Il Csm ha condannato 121 magistrati in due anni. Ma si tratta di sanzioni molto leggere. Centoventuno condanne in più di due anni. È il numero di sanzioni che la Sezione Disciplinare del Csm ha irrogato nei confronti di altrettanti magistrati. Il dato è contenuto in un file che in queste ore gira tra gli iscritti alla mailing list di Area, la corrente che racchiude Md e Movimenti. Su 346 procedimenti definiti - dal 25 settembre 2014 al 30 novembre 2016 - 121 si sono risolti con una condanna (quasi sempre di lieve entità), 113 sono le assoluzioni, 15 le «sentenze di non doversi procedere» e 124 le «ordinanze di non luogo a procedere». L'illecito disciplinare riguarda «il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga, in ufficio o fuori, una condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell'ordine giudiziario». Le eventuali condanne hanno una gradazione articolata in base alla gravità del fatto contestato. La più lieve è l'ammonimento, un semplice «richiamo all'osservanza dei doveri del magistrato», seguito dalla censura, una formale dichiarazione di biasimo. Poi le sanzioni si fanno più severe: «perdita dell'anzianità» professionale, che non può essere superiore ai due anni; «incapacità temporanea a esercitare un incarico direttivo o semidirettivo»; «sospensione dalle funzioni», che consiste nell'allontanamento con congelamento dello stipendio e con il collocamento fuori organico; fino arrivare alla «rimozione» dal servizio. C'è poi una sanzione accessoria che riguarda il trasferimento d'ufficio. Per questo, la sezione Disciplinare può essere considerata il cuore dell'autogoverno. Perché se il Csm può promuovere può anche bloccare una carriera: ai fini interni non serve ricorrere alle pene estreme, basta decidere un trasferimento. E a scorrere il file con le statistiche sui procedimenti disciplinari salta immediatamente all'occhio un dato: su 121 condanne, la maggior parte (90) comminano una sanzione non grave (la censura) e 11 casi si tratta di semplice ammonimento. Le toghe non si accaniscono sulle toghe. La perdita d'anzianità, infatti, è stata inflitta solo a dieci magistrati (due sono stati anche trasferiti d'ufficio), mentre sette sono stati rimossi. Uno solo è stato trasferito d'ufficio senza ulteriori sanzioni, un altro è stato sospeso dalle funzioni con blocco dello stipendio, un altro ancora è stato sospeso dalle funzioni e messo fuori organico. Ma il dato più interessante riguarda le tipologie di illecito contestate. La maggior parte dei magistrati viene sanzionato per uno dei problemi tipici della macchina giudiziaria: il ritardo nel deposito delle sentenze, quasi il 40 per cento dei "condannati" è accusato di negligenze reiterate, gravi e ingiustificate. Alcuni, però, non si limitano al ritardo: il 4 per cento degli illeciti, infatti, riguarda «provvedimenti privi di motivazione», come se si trattasse di un disinteresse totale nei confronti degli attori interessati. Il 23 per cento delle condanne, invece, riguarda una questione che tocca direttamente la vita dei cittadini: la ritardata scarcerazione. E in un Paese in cui si ricorre facilmente allo strumento delle misure cautelari, questo tipo di comportamento determina spesso anche il peggioramento delle condizioni detentive. Quasi il 10 per cento dei giudici e dei pm è stato sanzionato poi per «illeciti conseguenti a reato». Solo il 6,6 per cento delle condanne, infine, è motivato da «comportamenti scorretti nei confronti delle parti, difensori, magistrati, ecc.. ».
Truccati anche i loro concorsi. I magistrati si autoriformino, scrive Sergio Luciano su “Italia Oggi”. Numero 196 pag. 2 del 19/08/2016. Il Fatto Quotidiano ha coraggiosamente documentato, in un'ampia inchiesta ferragostana, le gravissime anomalie di alcuni concorsi pubblici, tra cui quello in magistratura. Fogli segnati con simboli concordati per rendere identificabile il lavoro dai correttori compiacenti pronti a inquinare il verdetto per assecondare le raccomandazioni: ecco il (frequente) peccato mortale. Ma, più in generale, nell'impostazione delle prove risalta in molti casi – non solo agli occhi degli esperti – la lacunosità dell'impostazione qualitativa, meramente nozionistica, che soprattutto in alcune professioni socialmente delicatissime come quella giudiziaria, può al massimo – quando va bene – accertare la preparazione dottrinale dei candidati ma neanche si propone di misurarne l'attitudine e l'approccio mentale a un lavoro di tanta responsabilità. Questo genere di evidenze dovrebbe far riflettere. E dovrebbe essere incrociato con l'altra, e ancor più grave, evidenza della sostanziale impunità che la casta giudiziaria si attribuisce attraverso l'autogoverno benevolo e autoassolutorio che pratica (si legga, al riguardo, il definitivo I magistrati, l'ultracasta, di Stefano Livadiotti).
Ora parliamo degli avvocati. C’è il caso per il quale l’informazione abbonda, ma manca la sanzione.
Un "fiore" da 20mila euro al giudice e il processo si aggiusta. La proposta shock di un curatore fallimentare a un imprenditore. Che succede nei tribunali di Taranto e Potenza? Scrivono di Giusi Cavallo e Michele Finizio, Venerdì 04/11/2016 su “Basilicata 24". L’audio che pubblichiamo, racconta in emblematica sintesi, le dinamiche, di quello che, da anni, sembrerebbe un “sistema” illegale di gestione delle procedure delle aste fallimentari. I fatti riguardano, in questo caso, il tribunale di Taranto. I protagonisti della conversazione nell’audio sono un imprenditore, Tonino Scarciglia, inciampato nei meccanismi del “sistema”, il suo avvocato e il curatore fallimentare nominato dal Giudice.
Aste e tangenti, studio legale De Laurentiis di Manduria nell’occhio del ciclone, scrive Nazareno Dinoi il 9 e 10 novembre 2016 su “La Voce di Manduria”. C’è il nome di un noto avvocato manduriano nell’inchiesta aperta dalla Procura della Repubblica di Taranto sulle aste giudiziarie truccate. Il professionista (che non risulta indagato), nominato dal tribunale come curatore fallimentare di un azienda in dissesto, avrebbe chiesto “un fiore” (una mazzetta) da ventimila euro ad un imprenditore di Oria interessato all’acquisto di un lotto che, secondo l’acquirente, sarebbero serviti al giudice titolare della pratica fallimentare. Questo imprenditore che è di Oria, rintracciato e intervistato ieri da Telenorba, ha registrato il dialogo avvenuto nello studio legale di Manduria in cui l’avvocato-curatore avrebbe avanzato la richiesta “del fiore” da 20mila euro. Tutto il materiale, compresi i servizi mandati in onda dal TgNorba, sono stati acquisiti ieri dalla Guardia di Finanza e dai carabinieri di Taranto.
I presunti brogli nella gestione dei fallimenti. «Infangata la giustizia per scopi elettorali». Il presidente dell’Ordine degli Avvocati, Vincenzo Di Maggio, attacca il M5S: preferisce il sensazionalismo all’impegno per risolvere i problemi, scrive il 15 novembre 2016 Enzo Ferrari Direttore Responsabile di "Taranto Buona Sera". «Ma quale difesa di casta, noi come avvocati abbiamo soltanto voluto dire che il Tribunale non è un luogo dove si ammazza la Giustizia». Vincenzo Di Maggio, presidente dell’Ordine degli Avvocati, torna sulla polemica che ha infiammato gli operatori della giustizia negli ultimi giorni: l’interpellanza di un nutrito gruppo di senatori Cinquestelle su presunte nebulosità nella gestione delle procedure fallimentari ed esecutive al Tribunale di Taranto.
«Fallimenti ed esecuzioni, le procedure sono corrette». Documento delle Camere delle Procedure Esecutive e delle Procedure Concorsuali, scrive "Taranto Buona Sera” il 10 novembre 2016. Prima l’interrogazione parlamentare del M5S su presunte anomalie nella gestione delle procedure fallimentari, a scapito di chi è incappato nelle procedure come debitore; poi il video della registrazione di un incontro che sarebbe avvenuto tra un imprenditore, il suo avvocato e un curatore fallimentare. Un video dagli aspetti controversi e dai contenuti comunque tutti da verificare. Un’accoppiata di situazioni che ha destato clamore e che oggi fa registrare la netta presa di posizione della Camera delle Procedure Esecutive Immobiliari e della Camera delle Procedure Concorsuali. In un documento congiunto, i rispettivi presidenti, gli avvocati Fedele Moretti e Cosimo Buonfrate, fanno chiarezza a tutela della onorabilità dei professionisti impegnati come curatori e custodi giudiziari ed esprimendo piena fiducia nell’operato dei magistrati.
Taranto, rimborsi non dovuti. Procura indaga sugli avvocati. Riflettori accesi su 93mila euro spesi tra il 2014 e il 2015 dopo un esposto del Consiglio, scrive Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno” dell’11 aprile 2016. Finiscono all’attenzione della Procura della Repubblica i conti dell’Ordine degli avvocati di Taranto. A rivolgersi alla magistratura è stato lo stesso Consiglio, presieduto da Vincenzo Di Maggio, dopo che sarebbero emerse irregolarità contabili riguardanti le anticipazioni e i rimborsi alle cariche istituzionali nell’anno 2014, l’ultimo da presidente per Angelo Esposito, ora membro dal Consiglio nazionale forense. Il fascicolo è stato assegnato al sostituto procuratore Maurizio Carbone, l’ipotesi di reato è quella di peculato essendo l’Ordine degli avvocati ente di diritto pubblico (altrimenti si procederebbe per appropriazione indebita, ma il pm non sarebbe Carbone in quanto quest’ultimo fa parte del pool reati contro la pubblica amministrazione). Di questo se ne è parlato agli inizi, perché l’esposto era dello stesso Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, ma poi nulla si è più saputo: caduto nell’oblio. Il silenzio sarà rotto, forse, dalla inevitabile prescrizione, che rinverdirà l’illibatezza dei presunti responsabili.
E poi c’è il caso, segnalato da un mio lettore, di una eccezionale sanzione emessa dalla magistratura tarantina e taciuta inopinatamente da tutta la stampa.
La notizia ha tutti i crismi della verità, della continenza e dell’interesse pubblico e pure non è stata data alla pubblica opinione.
Il caso di cui trattasi si riferisce ad un esposto di un cittadino, presentato al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto contro un avvocato di quel foro per infedele patrocinio, di cui già pende giudizio civile.
Ma facciamo parlare gli atti pubblicabili.
L’11 maggio 2012 viene presentato l’esposto, il 3 aprile 2013 con provvedimento di archiviazione, pratica 2292, si emette un documento in cui si dichiara che il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto delibera la sua archiviazione in quanto “non risultano elementi a carico del professionista tali da configurare alcuna ipotesi di infrazione disciplinare”. L’atto è sottoscritto il 17 novembre 2014, nella sua copia conforme, dall’avv. Aldo Carlo Feola, Consigliere Segretario. Mansione che il Feola ricompre da decenni.
Fin qui ancora tutto legittimo e, forse, anche, opportuno.
E’ successo che, con procedimento penale 2154/2016 R.G.N.R. Mod. 21, il 3 ottobre 2016 (depositata il 6) il Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, dr Maurizio Carbone, chiede il Rinvio a Giudizio dell’avv. Aldo Carlo Feola, difeso d’ufficio, “imputato del delitto di cui all’art. 476 c.p. (falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici), perché, in qualità di Consigliere con funzione di Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, rilasciava copia conforme all’originale della delibera datata 3 aprile 2013 del Consiglio, con la quale si disponeva di non dare luogo ad apertura di procedimento disciplinare nei confronti dell’avv. Addolorata Renna, con conseguente archiviazione dell’esposto presentato nei suoi confronti da Blasi Giuseppe. Provvedimento di archiviazione risultato in realtà inesistente e mai sottoscritto dal Presidente del Consiglio dell’Ordine di Taranto. In Taranto il 17 novembre 2014.”
Il Giudice per le Indagini Preliminari, con proc. 6503/2016, il 21 novembre 2016 fissa l’Udienza Preliminare per il 12 dicembre 2016 e poi rinvia per il Rito Abbreviato per il 10 aprile 2017 con interrogatorio dell’imputato ed audizione del teste, con il seguito.
Il Giudice per l’Udienza Preliminare, dr. Pompeo Carriere, il 16 ottobre 2017 con sentenza n. 945/2017 “dichiara Feola Aldo Carlo colpevole del reato ascrittogli, e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche, e applicata la diminuente per la scelta del rito abbreviato, lo condanna alla pena di cinque mesi e dieci giorni di reclusione, oltre al pagamento delle spese del procedimento. Pena sospesa per cinque anni, alle condizioni di legge, e non menzione. Visti gli artt. 538, 539, 541 c.p.p., condanna Feola Aldo Carlo al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, da liquidarsi in separato giudizio, nonché alla rifusione delle spese processuali dalla medesima sostenute, che si liquidano in complessivi euro 3.115,00 (tremilacentoquindici) oltre iva e cap come per legge”.
Da quanto scritto è evidente che ci sia stata da parte della stampa una certa ritrosia dal dare la notizia. Gli stessi organi di informazione che sono molto solerti ad infangare la reputazione dei poveri cristi, sennonchè non ancora dichiarati colpevoli.
Travaglio: “I giornali a Taranto non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. “E’ vero, ma non per tutti…” Lettera aperta al direttore de IL FATTO QUOTIDIANO, dopo il suo intervento-show al Concerto del 1 maggio 2015 a Taranto, di Antonello de Gennaro del 2 maggio 2015 su "Il Corriere del Giorno". "Caro Travaglio, come non essere felice nel vedere Il Fatto Quotidiano, quotidiano libero ed indipendente da te diretto, occuparsi di Taranto? Lo sono anche io, ma nello stesso tempo, non sono molto soddisfatto della tua “performance” sul palco del Concerto del 1° maggio di Taranto. Capisco che non è facile leggere il solito “editoriale”, senza il solito libretto nero che usi in trasmissione da Michele Santoro, abitudine questa che deve averti indotto a dire delle inesattezze in mezzo alle tante cose giuste che hai detto e che condivido. Partiamo da quelle giuste. Hai centrato il problema dicendo: “A Taranto i giornali non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. E’ vero e lo provano le numerose intercettazioni telefoniche contenute all’interno degli atti del processo “Ambiente Svenduto” e per le quali il Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia tergiversa ancora oggi nel fare chiarezza sul comportamento dei giornalisti locali coinvolti, cercando evidentemente di avvicinarsi il più possibile alla prescrizione amministrativa dei procedimenti disciplinari e salvarli”.
Comunque, a parte i distinguo di rito dalla massa, di fatto, però, nessuno di questa sentenza ne ha parlato.
In conclusione, allora, va detto che si è fatto bene, allora, ad indicare la notizia della condanna del Consigliere Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, come un fatto tra quelli che a Taranto son si osa dire…
Chi dice Terrone è solo un coglione. La sperequazione inflazionata di un termine offensivo come nota caratteristica di un popolo fiero. L’approfondimento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, che sul tema ha scritto “L’Italia Razzista” e “Legopoli”.
Sui media spopola il termine “Terrone”. Usato dai razzisti del centro Nord Italia in modo dispregiativo nei confronti degli italiani del Sud Italia ed usati dai deficienti meridionali come caratteristica di vanto.
«Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia, terra di mezzo», diceva al telefono, parlando di un calabrese, una delle campionesse della Capitale Morale, quella Maria Paola Canegrati che smistava affarucci e mazzette per appalti nella Sanità, per circa 400 milioni di euro, a quanto è venuto fuori sinora. Naturalmente, lady Mazzetta, non sa che, invece, dire “terrone” con l'intento di offendere, è reato: ci sono sentenze, anche della Cassazione. Ma a lei deve sembrare un'ingiustizia! «Che cazzo ti devo dire, se adesso è un reato dare del terrone a un terrone, a 'sto punto qui io voglio diventare cittadina omanita»...., scrive Pino Aprile il 22 febbraio 2016.
«Io litigioso? È vero, ma sono migliorato… Mi chiamavano terun, africa, baluba, altro che non incazzarsi…» Dice Teo Teocoli in un intervista a Gian Luigi Paracchini il 22 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera".
Gli opinionisti del centro Italia “po’ lentoni” (lenti di comprendonio, anche se oggi l’epiteto, equivalente a “Terrone”, da rivolgere al settentrionale è “Coglione”) su tutti i media la menano sulla terronialità. Cioè l’usare il termine “terrone” come una parola neutra. Come se fossero un po’ tutti leghisti.
Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania”, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.
Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque meridionale e non terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te.
Essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.
Ciononostante i nordisti, anziché essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.
Mutuiamo il titolo del libro di Lino Patruno “Alla riscossa Terroni” e “Terroni” di Pino Aprile per farne un motivo di orgoglio meridionale che deve portarci ad invertire una tendenza che data 150 anni. Non rivendichiamo un passato di benessere del Meridione, rivendichiamo un presente migliore per un Sud messo alle corde.
I terroni nascono anche a Gemonio e nelle valli bergamasche, scrive "L'Inkiesta" il 6 aprile 2012. Leggendo le cronache, ma, soprattutto, vedendo le immagini, relative al marciume che sta venendo a galla dai sottoscala leghisti, mi par che si possa dire una grande verità: l'aggettivo spregiativo "terrone" non si può appioppare solo ai meridionali, ma, con grande precisione, anche ai miei conterronei nordici. Devo dire la verità. Io - nordico e fieramente antileghista da molto tempo - che le storie di Roma ladrona, dell'uccello duro, del barbarossa, dell'ampolla sul diopò (che, a dire il vero, mi par più una saracca che un rito), di riti celtici, di fazzolettini verdi come il moccio, erano tutte una rozza e ignorante presa per il culo per ammansire i buoi e farsi in comodo i sollazzi propri, ne ero convinto da tempo. Da ben prima che si svegliassero i soliti magistrati (verrà il giorno, in questo paese dei matocchi, che qualche rivoluzione la farò il popolo?), bastava un po' di fiuto per capire che il sottobosco era questo. Ma le vedete le facce del cerchio magico? Ma avete presente la pacchianità della villa di Gemonio? E poi, la priorità alla "family", come la più bieca usanza del troppo noto familismo amorale, perchè parlare di "famigghia" era troppo terrone. Ma il dato è che questi sono - culturalmente, esteticamente e antropologicamente - terroni. Perchè terrone, per me, non è un epiteto riferibile a una provenienza geografica I.G.P.; è uno stile deteriore di rappresentarsi, chiuso, retrivo, in cui il dialetto non è cultura, ma rozzume esibito con orgoglio (e questo vale tanto per i napoletani, quanto per i veneti), in cui prevale la logica del clan su quella della civile società, in cui si deve fare sfoggio dell'ignoranza perchè questo è "popolare". Terrone è un ignorante retrogrado, cafone, ineducato. Con il risultato che il Bossi e la family sprofondano, il terronismo impera e un peloso, stantio e pietistico meridionalismo riprende fiato. Grazie Bossi, grazie leghisti: avete ucciso non solo la dignità del nord, ma anche la speranza vera che una riforma moderna di questo paese, tenuto insieme con una scatarrata, si potesse fare. Ah, dimenticavo. Se qualcuno mi dovesse dire "parla lui, di ignoranza presentata con orgoglio.
Da che pulpito vien il sermone!", dico: "Non perdete tempo in analisi: son diverso e me ne vanto. Si vuol che dica che sono ignorante e delinquente. Bene lo sono, in un mondo di saccenti ed onesti mafiosi, sono orgoglioso di esser diverso. Cosa concludere, di fronte a tali notizie di carattere storico? Questo: trovo triste che i nostri bravi leghisti rinneghino le proprie radici arabe, albanesi, meridionali, mediterranee. Da loro, così orgogliosi della Tradizione, non me lo aspettavo. Anzi dirò di più. Buon per loro avere origini meridionali, perchè ad essere POLENTONI si rischia di avere una considerazione minore che essere TERRONE.
Secondo Wikipedia Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale. Origine e significato. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo, e sta ad indicare una persona zotica un pò lenta di comprendonio (po' lentone). Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta e dai movimenti goffi e impacciati.
Analisi dei termini offensivi. Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato dagli abitanti dell'Italia meridionale per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale, scrive Wikipedia. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) purtroppo con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra, anche se li ha salvati da tante carestie alimentari. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo nell'Italia del Sud, e sta ad indicare una persona zotica. Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale, anche se spesso usate solo in modo bonario. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta di comprendonio (tonta) e dai movimenti goffi e impacciati.
La Padania o Patanìa (lett. Terra dei Patanari, coltivatori di patate) si estende in tutte le regioni del nord Italia: dalla Val d'Aosta alla Toscana fino al Friuli Venezia Giulia. È facile collocare geograficamente la Patanìa vera e pura: si traccia una retta che attraversa interamente il Po, passando rigorosamente al centro, perché solo la parte nord del Po è padana. La Padania si definisce anche Barbaria, cioè terra di barbari. Il mito di una terra popolata da eroi celtici, circondata da terribili barbari di matrice slava, è il concetto su cui si basa la Lega Nord. Trascurabile il dettaglio che un tempo la Padania fosse abitata da un'accozzaglia di popoli oltre ai Celti.
Terrone è un termine della lingua italiana, utilizzato dagli abitanti dell'Italia settentrionale e centrale come spregiativo per designare un abitante dell'Italia meridionale, talvolta anche in senso semplicemente scherzoso, scrive Wikipedia. In passato il termine era utilizzato con un altro significato e valenza; solo nel corso degli anni sessanta ha acquisito il senso attuale. Con il termine "terrone" (da teróne, derivazione di terra) si indicava nel XVII secolo un proprietario terriero, o meglio un latifondista. Già tra le Lettere al Magliabechi, l'erudito bibliotecario Antonio Magliabechi (1633-1714) il cui lascito, i cosiddetti Codici Magliabechiani costituiscono un prezioso fondo della Biblioteca Nazionale di Firenze, scriveva (CXXXIV -II - 1277): «Quattro settimane sono scrissi a Vostra Signoria illustrissima e l'informai del brutto tiro che ci fanno questi signori teroni di volerci scacciare dal partito delle galere, contro ogni equità e giustizia, già che ho lavorato tant'anni per terminarlo, e ora che vedano il negozio buono, lo vogliono per loro». Il termine in seguito fu utilizzato per denominare chi era originario dell'Italia meridionale e con particolare riferimento a chi emigrava dal Sud al Nord in cerca di lavoro, al pari dei nordici milanesi, etichettati come baggiani, che emigravano nelle valli del Bergamasco, come menzionato da Alessandro Manzoni. Il termine si diffuse dai grandi centri urbani dell'Italia settentrionale con connotazione spesso fortemente spregiativa e ingiuriosa e, come altri vocaboli della lingua italiana (quali villano, contadino, burino e cafone) stava per indicare "servo della gleba" e "bracciante agricolo" ed era riferita agli immigrati del meridione. Gli immigrati venivano quindi considerati, sia pure a livello di folklore, quasi dei contadini sottosviluppati. Il termine, che deriva evidentemente da "terra" con un suffisso con valore d'agente o di appartenenza (nel senso di persona appartenente strettamente alla terra) è stato variamente interpretato come frutto di incrocio fra terre (moto) e (meridi)one, come "mangiatore di terra" parallelamente a polentone, "mangiapolenta", cioè l'italiano del nord; come "persona dal colore scuro della pelle, simile alla terra" o anche come "originario di terre soggette a terremoti" ("terre matte", "terre ballerine"). Il suo maggiore utilizzo data comunque essenzialmente agli anni sessanta e settanta e limitatamente ad alcune zone del nord Italia, in seguito alla forte ondata di emigrazione di lavoratori e contadini del meridione d'Italia in cerca di lavoro verso le industrie del nord e in particolare del triangolo industriale (Genova – Milano – Torino). In tale ambito si spiega anche la diffusione del termine: storicamente, grossi movimenti di popolazioni hanno sempre portato con sé anche fenomeni di intolleranza o razzismo più o meno larvati. Successivamente, allo stesso modo è sorta la locuzione "terrone del nord", generalmente per indicare gli italiani del nord-est (principalmente i veneti, detti "boari"), che per ragioni simili cominciarono negli stessi anni ad emigrare verso il nord-ovest, venendo così accomunati agli emigranti meridionali. Il riconoscimento di terrone come insulto e non come termine folkloristico è un processo che storicamente ha subito molte battute d'arresto e incomprensioni, probabilmente dovute al fatto che solo una parte della popolazione italiana ne riconosceva pienamente la gravità e il suo carattere offensivo. La Corte di Cassazione ha ufficialmente riconosciuto che tale termine ha un'accezione offensiva, confermando una sentenza del Giudice di Pace di Savona e confermando che la persona che l'aveva pronunciata dovesse risarcire la persona offesa dei danni morali. Spesso vengono associati a questo epiteto caratteristiche personali negative, tra le quali ignoranza, scarsa voglia di lavorare, disprezzo di alcune norme igieniche e soprattutto civiche. Analogamente, soprattutto in alcune accezioni gergali, il termine ha sempre più assunto il significato di "persona rozza" ovvero priva di gusto nel vestire, inelegante e pacchiana, dai modi inurbani e maleducata, restando un insulto finalizzato a chiari intenti discriminatori. Inoltre vengono spesso associati al termine anche tratti somatici e fisici, come la carnagione scura, la bassa statura, le gote alte, caratteristiche fisiche storicamente preponderanti al Sud rispetto al Nord Italia.
In conclusione c’è da affermare che bisogna essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.
Chi proferisce ingiurie ad altri o a se stesso con il termine terrone non resta che rispondergli: SEI SOLO UN COGLIONE.
Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.
LA BALLA DELLA SPEREQUAZIONE FINANZIARIA DELLE REGIONI DEL NORD A FAVORE DI QUELLE DEL SUD.
In Regione Lombardia non tornano 54 miliardi di tasse versate. (Lnews - Milano 06 settembre 2017). "La Lombardia è la regione che versa più tasse allo Stato ricevendo, in cambio, meno trasferimenti in termini di spesa pubblica. In questi anni, infatti, il residuo fiscale della Lombardia ha raggiunto la cifra record di 54 miliardi (fonte: Eupolis Lombardia). Si tratta del valore in assoluto più alto tra tutte le regioni italiane. Un'immensità anche a livello europeo se si pensa che due regioni tra le più industrializzate d'Europa come la Catalogna e la Baviera hanno rispettivamente un residuo fiscale di 8 miliardi e 1,5 miliardi". Lo scrive una Nota pubblicata oggi dal sito lombardiaspeciale.regione.lombardia.it.
RESIDUO FISCALE - "Con il termine residuo fiscale - spiega la Nota - s'intende la differenza tra quanto un territorio verso allo Stato sotto forma di imposte e quanto riceve sotto forma di spesa pubblica. Se il residuo fiscale abbia segno positivo, il territorio versa più di quanto riceve; se c'è un residuo negativo il territorio riceve più di quanto versa. Secondo James McGill Buchanan Jr, premio Nobel per l'Economia nel 1986, cui si attribuisce la paternità della definizione, il trattamento che lo Stato riserva ai cittadini può considerarsi equo se determina residui fiscali minimi in capo a individui, a prescindere dal territorio nel quale risiedono. Differenze marcate denotano una violazione dei principi di equità basilari".
I DATI PER REGIONE - "Dopo la Lombardia - appunta il teso - si colloca l'Emilia Romagna, con un residuo fiscale di 18.861 milioni di euro. Seguono Veneto (15.458 mln), Piemonte (8.606 mln), Toscana (5.422 mln), Lazio (3.775 mln), Marche (2.027 mln), Bolzano (1.100 mln), Liguria (610 mln), Friuli Venezia Giulia (526 mln), Valle d'Aosta (65 mln). In coda alla classifica: Umbria (-82 mln), Molise (-614 mln), Trento (-249 mln), Basilicata (-1.261 mln), Abruzzo (-1.301 mln), Sardegna (-5.262 mln), Campania (-5.705 mln), Calabria (-5.871 mln), Puglia (-6.419 mln) e Sicilia (-10.617 mln)".
IL DATO PRO CAPITE - Anche per quanto riguarda il residuo fiscale pro capite, la Lombardia presenta i valori più alti d'Italia, con 5.217 euro. Seguono Emilia Romagna (4.239), Veneto (3.141), Provincia Autonoma di Bolzano (2.117), Piemonte (1.950), Toscana (1.447), Marche (1.310), Lazio (641), Valle d'Aosta (508), Friuli Venezia Giulia (430), Liguria (386), Umbria (-92), Provincia Autonoma di Trento (-464), Campania (-974), Abruzzo (-979), Puglia (-1.572), Molise (-1.963), Sicilia (-2.089), Basilicata (-2.192), Calabria (-2.975) e Sardegna (-3.169)", spiega la Nota pubblicata.
Da sempre i giornali e le tv nordiste, spalleggiate dagli organi d’informazione stataliste, ce la menano sul fatto che ci sia un grande disavanzo finanziario tra le regioni del centro-nord ricco e le regioni povere del sud Italia. I conti, fatti in modo bizzarro, rilevano che il centro-nord paga molto di più di quanto riceva e che la differenza vada in solidarietà a quelle regioni che a loro volta sono votate allo spreco ed al ladrocinio. A fronte di ciò, i settentrionali, hanno deciso che è meglio tagliare quel cordone ombelicale e lasciar cadere quella zavorra che è il sud Italia. Ed il referendum secessionista è stato organizzato per questo, facendo leva sull’ignoranza della gente.
Ora facciamo degli esempi scolastici che si studiano negli istituti tecnici commerciali, per dimostrare di quanta malafede ed ignoranza sia propagandato questo referendum.
Una partita iva, persona o società, registra in contabilità la gestione e versa tasse, imposte e contributi nel luogo della sede legale presso cui redige i suoi bilanci semplici o consolidati (gruppi d’impreso con un capogruppo).
Il Centro-Nord Italia, con la Lombardia ed il Lazio in particolare, è territorio privilegiato per eleggere sede legale d’azienda, per la vicinanza con i mercati europei. Dove c’è sede legale vi è iscrizione al registro generale dell’imprese. Ergo: sede di versamento fiscale che alimenta quei numeri, oggetto di nota della Regione Lombardia. Quei dati, però, spesso, nascondono la ricchezza prodotta al sud (stabilimenti, appalti, manodopera, ecc.), ma contabilizzata al nord.
E’ risaputo che nel centro-nord Italia hanno stabilito le loro sedi legali le più grandi aziende economiche-finanziarie italiane e lì pagano le tasse. Il Sud Italia è di fatto una colonia di mercato. Di là si produce merce e lavoro (e disinformazione), di qua si consuma e si alimenta il mercato.
E’ risaputo che le aziende del centro nord appaltano i grandi lavori pubblici, specialmente se le aziende del sud Italia le fanno chiudere con accuse artefatte di mafiosità.
E’ risaputo che al nord il costo della vita è più caro e questo si trasforma proporzionalmente in reddito maggiorato rispetto ai cespiti collegati, come quelli immobiliari.
Il residuo fiscale era tollerato e l’assistenzialismo era alimentato, affinchè il mercato meridionale non cedesse e le aziende del nord potessero continuare a produrre beni e servizi e ad alimentare ricchezza nell’Italia settentrionale, condannando il sud ad un perenne sottosviluppo e terra di emigrazione.
Oggi lo Stato centralista assorbe tutta la ricchezza nazionale prodotta e l'assistenzialismo si è bloccato, ma il sud Italia continua ad essere un mercato da monopolizzare da parte delle aziende del Centro-Nord Italia. Una eventuale secessione a sfondo razzista-economica votata dai nordisti sarebbe un toccasana per i meridionali, che imporrebbero diversi rapporti commerciali, imponendo dei dazi od altre forme di limitazioni alle merci del nord. Il maggior costo di beni e servizi del nord Italia favorirebbe la nascita nel sud Italia di aziende, favorite economicamente dal minor costo della mano d’opera del posto e delle spese di trasporto e logistica locale. Inoltre quello che produce il centro nord è acquisibile su altri mercati. Quello che si produce al Sud Italia è peculiare e da quel mercato, per forza, bisogna attingere e comprare...
Quindi, viva il referendum…secessionista
A votare per questo referendum sono andati i mona. Questo l'ha detto lei, ma è vero". Risponde così il 24 ottobre 2017 all'intervistatore del programma Morning Showdi di Radio Padova il milanese Oliviero Toscani, il noto fotografo già protagonista, nel recente passato, di polemiche sui "veneti popolo di ubriaconi". "Sono andati a votare quattro contadini - rincara la dose - che non parlano neanche l'italiano". E ancora: "Nelle campagne la gente è isolata, incestuosa e vota queste cagate qua". Per lo stesso Toscani, invece, a non votare è stata "la minoranza intellettuale". Così il fotografo, maestro della provocazione, ritorna ad aprire una ferita solo apparentemente chiusa che aveva portato a querele all'epoca degli “imbriagoni”. Nell'intervista radiofonica sui referendum ha anche evidenziato un confronto con la Lombardia dove la percentuale di voto è stata minore. «Non a caso Milano - ha rilevato - è la prima città d'Italia per intellighenzia, e non a caso Milano è una città piena di immigrati. Milano è fatta così, è civile. Mentre i contadini là, che non parlano neanche italiano, cosa vuoi che votino?».
Un referendum da presa per il culo. Il 22 ottobre 2017 si chiede ai cittadini interessati. “Volete essere autonomi e tenere per voi tutto l’incasso?” E’ logico che tutti direbbero sì, senza distinzione di ideologia o natali. Ed i quorum raggiunti sono fallimentari tenuto conto dell’interesse intrinseco del quesito.
Specialmente, poi, se è stato enfatizzato tanto dai giornali e le tv del Nord, comprese quelle di Berlusconi.
“Al di là dell’enorme spreco di soldi pubblici per organizzare due referendum buoni solo a fare un po’ di propaganda elettorale a spese dei contribuenti, ha evidenziato il trionfo dell’egoismo di chi è più ricco e pensa di poter vivere meglio mantenendo sul territorio le risorse derivante dalle imposte dopo aver beneficiato per decenni di aiuti statali e del sostegno dello Stato”. Lo ha detto il consigliere regionale dei Verdi della Campania, Francesco Emilio Borrelli, per il quale “la Lega ha mostrato, ancora una volta, il suo vero volto che è fatto di odio verso il Sud e i meridionali”.
“Così come ha ricordato anche Prodi, chiedere ai cittadini se vogliono pagare meno tasse ancora una volta a danno dei meridionali è come un invito a nozze che non si può rifiutare, ma il problema è che, per chiederlo, in questo caso, Zaia e Maroni hanno speso milioni di euro di soldi pubblici per farlo” ha aggiunto Borrelli chiedendo ai cittadini lombardi e veneti: “Visto come sprecano i vostri soldi e come hanno speso, in passato, quelli, sempre pubblici, per il finanziamento ai partiti, siete proprio sicuri di volergliene affidare ancora di più?” “La Regione Campania viene privata ogni anno di 250 milioni di euro che vengono sottratti ai servizi sanitari e ai nostri concittadini perché considerata la regione più giovane d’Italia e grazie a una norma introdotta dai governatori leghisti e mai tolta” ha continuato Borrelli, sottolineando che “ogni anno la sola Campania viene depredata di centinaia di milioni di euro di fondi che invece vengono destinati al ricco Nord senza alcuna reale motivazione”. “La Rampa” 23 ottobre 2017.
In Italia conviene non fare nulla e non avere nulla, perché se hai o fai si fotte tutto lo Stato, per dare il tuo, non a chi è bisognoso, ma a chi non sa o non fa un cazzo. Cioè ai suoi amici o ai suoi scagnozzi professionisti corporativi.
L’Italia uccisa dai catto-comunisti, scrive Andrea Pasini il 30 ottobre 2017 su “Il Giornale”. Il comunismo ha ucciso l’Italia. “Max Horkheimer fornì d’altra parte, al termine della sua vita, con una sorprendete confessione, la spiegazione di questa incapacità di analisi da parte dei membri della scuola di Francoforte: riconobbe infatti con dolore che il marxismo aveva preparato il Sistema, che esso ne era responsabile allo stesso titolo dell’ideologia liberale borghese, in quanto la sua visione del mondo si fonda ugualmente su un progetto mondiale economicista e messianico”. Guillaume Faye, all’interno dello scritto "Il sistema per uccidere i popoli", recentemente ripubblicato dai tipi di Aga Editrice, ha fotografato l’evolversi delle idee forti provenienti dal diciannovesimo secolo. Loro ci odiano, odiano il nostro Paese, ma guardandosi allo specchio non possono fare a meno di odiarsi a loro volta. Una spirale senza fine, laddove astio, animosità ed acredini bruciano la base solida di questa nazione. Vittorio Feltri, in un animoso e vitale articolo apparso qualche anno fa sulle colonne di Libero, scrisse: “Gli stessi comunisti si vergognano di esserlo stati, ma la mentalità pauperistica è rimasta e non ha cessato di provocare danni. Risultato: in Italia è impossibile fare impresa o artigianato, aprire un’azienda, essere liberi professionisti senza essere considerati sfruttatori, evasori fiscali se non addirittura ladri”.
Proprio per questo motivo, ogni giorno, metto in campo tutte le mie energie al fine di stoppare, innanzitutto fisicamente, un oblio vertiginoso. Anche questo è il mio dovere in qualità di imprenditore. Lo Stato è in pericolo, la franata negli ultimi decenni è stata infausta. Ma davanti al fatalismo che attanaglia i popoli dobbiamo mettere in campo la nostra fede. Gli uomini di fede, uomini animati da un ardire che non conosce limiti, fanno paura ai catto-comunisti colpevoli di aver ridotto in cenere le speranze del domani. L’avvenire non sarà mai rosso di colore. Tornando ai piedi dello scrittore francese Faye leggiamo: “Gli intellettuali confessano, come Débray o Lévy, di fare oramai solamente della morale e non importa più che la loro verità si opponga alla realtà. La ragione ammette di non aver più ragione”. Il paradosso del marxismo 160 anni dopo. La ragione aveva torto scomodando, il sempre attuale, Massimo Fini. Ora conta credere, ciò che importa è come e quello che si fa per invertire la rotta, per non perdere il timone. Il Paese suona il corno e ci chiama a raccolta. Impossibile, a pochi giorni dal centenario di Caporetto, non rispondere, con tutto il proprio animo in tensione, presente.
In questo rimpallo, tra menti eccelse, contro il dominio sinistrato del presente e del futuro passiamo, nuovamente, la palla a Feltri: “E anche lo Stato, influenzato da alcuni partiti di ispirazione marxista, non aiuta con tutta una serie di vincoli burocratici, lacci e lacciuoli. E i sindacati hanno completato l’opera, contribuendo ad avvelenare i rapporti tra datore di lavoro e dipendenti, trasformando le fabbriche in luoghi d’odio e di lotta violenta, per umiliare i padroni e il personale non ideologizzato”. La storia non scorre più è tutto fermo nella mente dei retrogradi. Si avvinghiano alla legge Fiano i talebani di quest’epoca, per fare il verso a "Il Primato Nazionale", dimenticandosi dei problemi reali dell’Italia. Burocrati, sordidi e grigi, in doppio petto che accoltellano il ventre molle dello stivale, una carta bollata dopo l’altra. Alzare lo sguardo e tornare a cantare, davanti alle manette rosse della coscienza, non è facile, ma abbiamo il compito di tornare a farlo. Considerando il detto, “il lupo perde il pelo, ma non il vizio”, associandolo con le profetiche lezioni di Padre Tomas Tyn, scopriamo che il comunismo non è sparito, anzi si è rafforzato ed ha trovato gli alleati nei cattolici “non praticanti”. Potrà sembrare un’assurdità, invece è la mera realtà.
L’indiscutibile commistione di progressismo e comunismo, spesso umanitario ed accatto, ha creato con l’unione di un cattolicesimo snaturato una via collegata direttamente con i diritti civili, che non interseca, mai e poi mai, la sua strada con i diritti sociali. Aborto, divorzio, pacs, dico, unioni civili, matrimoni gay e chi più ne ha più ne metta. Fanno tutto ciò che non serve per gli italiani, fanno tutto ciò che non serve per difendere le fasce deboli della nazione. Tanti nostri connazionali hanno abbracciato il nemico, sono diventati uno di loro, per questo dobbiamo denunciare gli errori di chi sfida il tricolore e salvare la Patria. Il peccato, originale e capitale, è insito nell’ideologia marxista e rappresenta il male che sta distruggendo il nostro Paese, senza dimenticare il liberismo a tutti i costi della generazione Macron.
Milano, il paradosso: se la pena è la stessa per il giudice corrotto e per chi ha rubato una bottiglia di vino. Un noto avvocato, che ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro, grazie a vari sconti di pena ha concordato 4 anni in Appello. Quasi la stessa pena, 3 anni e 8 mesi, patteggiata in Tribunale per un reato da 8 euro, scrive Luigi Ferrarella il 30 ottobre 2017 su "Il Corriere della Sera”. Il problema è quando la combinazione dell’algebra giudiziaria, del tutto aderente alle regole, stride al momento di tirare la riga e, come risultato, fa patteggiare 3 anni e 8 mesi a chi ha rubato al supermercato una bottiglia di vino da 8 euro, mentre chi ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro esce dalla Corte d’Appello condannato a poco più: e cioè a pena concordata di 4 anni, ridotta rispetto ai 6 anni e 10 mesi del primo grado, che grazie allo sconto del rito abbreviato aveva già ridimensionato i teorici 10 anni iniziali. Luigi Vassallo è l’avvocato cassazionista che, nelle vesti di giudice tributario di secondo grado, alla vigilia di Natale 2015 fu fermato in flagranza di reato a Milano mentre intascava i primi 5.000 dei 30.000 euro chiesti ai legali di una multinazionale per intervenire su una collega di primo grado e «aggiustare» un contenzioso da milioni di euro. Due «corruzioni in atti giudiziari» nel giudizio immediato, e una «corruzione» e una «induzione indebita» nel successivo giudizio ordinario, lo avevano indotto ad accordarsi con il Fisco per 140.00 euro e a scegliere il rito abbreviato, il cui automatico sconto di un terzo gli aveva abbassato la prima sentenza a 4 anni e 8 mesi, e la seconda a 2 anni e 2 mesi. Per un totale, cioè un cumulo materiale, di 6 anni e 10 mesi. Ora in Appello arriva - come contemplato dalla recente legge in cambio del risparmio di tempo e risorse in teoria legato alla rinuncia difensiva a far celebrare il dibattimento di secondo grado - un altro sconto di un terzo, e si aggiunge già alla limatura di pena dovuta alla «continuazione» tra le 4 imputazioni delle due sentenze di primo grado riunite in secondo grado. Alla vigilia dell’udienza, dunque, l’avvocato Fabio Giarda rinuncia ai motivi d’appello diversi dal trattamento sanzionatorio, a fronte del sì del pg Massimo Gaballo all’accordo su una pena di 4 anni, ratificato dalla II Corte d’Appello presieduta da Giuseppe Ondei. Undici mesi Vassallo li fece in custodia cautelare (fra carcere e domiciliari), sicché non appare irrealistico l’agognato tetto dei 3 anni di pena da eseguire, sotto i quali potrà chiedere di scontarla in affidamento ai servizi sociali senza ripassare dal carcere. In Tribunale, invece, da detenuto arriva e da detenuto va via (senza sospensione condizionale della pena e senza attenuanti generiche) un altro imputato che nello stesso momento patteggia 3 anni e 8 mesi – quasi la stessa pena del giudice tributario – per aver rubato da un supermercato una bottiglia di vino da 8 euro e mezzo: il fatto però che avesse dato una spinta al vigilantes privato che all’uscita gli si era parato davanti, minacciandolo confusamente («non vedi i tuoi figli stasera») e agitando un taglierino, ha determinato il passaggio dell’accusa da «furto» a «rapina impropria», la cui pena-base è stata inasprita dai vari decreti-sicurezza, tanto più per chi come lui risulta «recidivo» a causa di due vecchi furti. Per ridurre i danni, il patteggiamento non scende a meno di 3 anni e 8 mesi. Quasi un anno di carcere per ogni 2 euro di vino.
“La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla”.
Intervista al sociologo storico Antonio Giangrande, autore di un centinaio di saggi che parlano di questa Italia contemporanea, analizzandone tutte le tematiche, divise per argomenti e per territorio.
Dr Antonio Giangrande di cosa si occupa con i suoi saggi e con la sua web tv?
«Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»
Perché dice che “La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla”.
«Libri, 6 italiani su dieci non leggono. In Italia poi si legge sempre meno. Siamo tornati ai livelli del 2001. Un dato resta costante da decenni: una famiglia su 10 non ha neppure un libro in casa. I dati pubblicati dall’Istat fotografano l’inesorabile diminuzione dei lettori, con punte drammatiche al Sud. Impietoso il confronto con l’estero, scrive il 27 dicembre 2017 Cristina Taglietti su "Il Corriere della Sera". La gente usa esclusivamente i social network per informarsi tramite lo smartphone od il cellulare. Non usa il personal computer perchè non ha la fibra in casa che ti permette di ampliare più comodamente e velocemente la ricerca e l'informazione. La gente, comunque, non va oltre alla lettura di un tweet o di un breve post, molto spesso un fake nato dall'odio o dall'invidia, e lo condivide con i suoi amici. Non verifica o approfondisce la notizia. Non siamo nell'era dell'informazione globale, ma del "passa parola" totale. Di maggiore impatto numerico, invece, è la ricerca sui motori di ricerca, non di un tema o di un argomento di cultura o di interesse generale, ma del proprio nome. Si digita il proprio nome e cognome, racchiuso tra virgolette, per protagonismo e voglia di notorietà e dalla ricerca risulta quanti siti web lo citano. Non si aprono quei siti web per verificare il contenuto. Si fermano sulla prima frase che appare sulla home page di Google o altri motori similari, estrapolata da un contesto complesso ed articolato. Senza sapere se la citazione è diffamatoria o meritoria o riconducibile all'autore da lì partono querele, richieste di rimozione per diritto all’oblio o addirittura indifferenza».
Ha un esempio da fare sull’impedimento ad informare?
«Esemplari sono le querele e le richieste di rimozione. Libertà di informazione, nel 2017 minacciati 423 giornalisti. I dati dell'osservatorio promosso da Fnsi e Ordine. La tipologia di attacco prevalente è l'avvertimento (37 per cento), scrive il 31 dicembre 2017 "La Repubblica". Ognuno di questi operatori dell'informazione è stato preso di mira per impedirgli di raccogliere e diffondere liberamente notizie di interesse pubblico. La tipologia di attacco prevalente è stata l'avvertimento (37 per cento) seguita dalle querele infondate e altre azioni legali pretestuose (32 per cento)».
E sull’indifferenza…
«Le faccio leggere un dialogo tra me e un tizio che mi ha contattato. Uno dei tanti italiani che non si informa, ma usa internet in modo distorto. Uno di quel popolo di cercatori del proprio nome sui motori di ricerca e che vive di tweet e post. Un giorno questo tizio mi chiede “Lei ha scritto quel libro?”
E' un saggio - rispondo io. - L'ho scritto e pubblicato io e lo aggiorno periodicamente. A tal proposito mi sono occupato di lei e di quello che ingiustamente le è capitato, parlandone pubblicamente, come ristoro delle sofferenze subite, pubblicando l'articolo del giornale in cui è stato pubblicato il pezzo. Inserendolo tra le altre testimonianze. Comunque ho scritto anche un libro sul territorio di riferimento. Come posso esserle utile?
“Volevo giusto capire, io mi sono imbattuto per caso nell'articolo, cercando il mio nome... E sotto l'articolo ho visto un link che mi collegava al suo saggio...Capire più che altro perché prendere articoli di giornale su altra gente e farne un saggio... Sono solo curiosità”.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte - spiego io. - I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta...” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso...” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale. In generale. Dico, in generale: io non esprimo mie opinioni. Prendo gli articoli dei giornali, citando doverosamente la fonte, affinchè non vi sia contestazione da parte dei coglioni citati, che siano essi vittime, o che siano essi carnefici. Perchè deve sapere che i primi a lamentarsi sono proprio le vittime che io difendo attraverso i miei saggi, raccontando tutto quello che si tace.
"Siccome io le ho detto mi sono solo imbattuto per "caso"... Io ho visto questa cosa e sinceramente l'ho letta perché ho visto il mio nome, ma se dovessi prendere il suo saggio e leggerlo non lo farei mai. Perché: Cerco di lavorare ogni giorno con le mie forze. I miei aggiornamenti sono tutt'altro. Faccio tutto il possibile per offrirmi un futuro migliore. Sono sempre impegnato e non riuscirei a fermarmi due minuti per leggere".
Rispetto la sua opinione - rispondo. - Era la mia fino ai trent'anni. Dopo ho deciso che è meglio sapere ed essere che avere. Quando sai, nessuno ti prende per il culo...
"Ma per le cose che mi possono interessare per il mio lavoro e il mio futuro nessuno mi può prendere per il culo ... Poi è normale che in ogni campo ci sia l'esperto…"»
Come commenta...
«Confermo che quando sai, nessuno ti prende per il culo. Quando sai, riconosci chi ti prende per il culo, compreso l’esperto che non sa che a sua volta è stato preso per il culo nella sua preparazione e, di conseguenza sai che l’esperto, consapevole o meno, ti potrà prendere per il culo».
Comunque rimane la soddisfazione di quei quattro italiani su dieci che leggono.
«Sì, ma leggono cosa? I più grandi gruppi editoriali generalisti, sovvenzionati da politica ed economia, non sono credibili, dato la loro partigianeria e faziosità. Basta confrontare i loro articoli antitetici su uno stesso fatto accaduto. Addirittura, spesso si assiste, sulle loro pagine, alla scomparsa dei fatti. Di contro troviamo le piccole testate nel mare del web, con giornalisti coraggiosi, ma che hanno una flebile voce, che nessuno può ascoltare. Ed allora, in queste condizioni, è come se non si avesse letto nulla».
Concludendo?
«La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla...e vota. Nel paese degli Acchiappacitrulli, più che chiedere voti in cambio di progetti, i nostri politici sono generatori automatici di promesse (non mantenute), osannati da giornalisti partigiani. Questa gente che non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla, voterà senza sapere che è stata presa per il culo, affidandosi ai cosiddetti esperti. I nostri politici gattopardi sono solo mediocri amministratori improvvisati assetati di un potere immeritato. Governanti sono coloro che prevedono e governano gli eventi, riformando ogni norma intralciante la modernità ed il progresso, senza ausilio di leggi estemporanee ed improvvisate per dirimere i prevedibili imprevisti».
L'informazione sulla politica? In Italia è troppo di parte (per 6 lettori su 10). I risultati di una ricerca del Pew Research Center di Washington in 38 Paesi: l'Italia è tra gli Stati dove la fiducia nell'imparzialità dell'informazione politica è più bassa. Per sette giovani su 10 è la Rete il luogo principale dove trovare notizie, scrive Giuseppe Sarcina, corrispondente da Washington, il 11 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". Solo il 36% degli italiani pensa che giornali, televisioni e siti web riportino in modo accurato le diverse posizioni politiche. Tra i Paesi occidentali solo gli spagnoli, con il 33%, e i greci, con il 18%, sono più critici. (In fondo all'articolo, la classifica completa). È uno dei risultati emersi dallo studio del Pew Research Center di Washington, appena pubblicato. Una ricerca di grande impegno, condotta dal 16 febbraio al 8 maggio 2017, raccogliendo 41.953 risposte in 38 Paesi.
Precisione e attendibilità. In tempi di «fake news» (qui la guida di Milena Gabanelli e Martina Pennisi), gli analisti del Pew Center hanno chiesto quanto siano considerati precisi, attendibili i media sui temi della politica. Tra gli Stati occidentali spiccano le percentuali di chi approva il lavoro di stampa e tv nei Paesi Bassi (74%), in Canada (73%) e in Germania (72%). Segue il gruppo intermedio con Svezia (66%) Regno Unito (52%), Francia (47%). Italia, Spagna e Grecia sono in coda. Negli Stati Uniti, già provati da un anno di presidenza di Donald Trump, il 47% degli interpellati apprezza il modo in cui vengono trattate le notizie politiche.
Meglio sugli Esteri. I numeri cambiano, anche sensibilmente, su altri quesiti. In Italia, per esempio, il 46% considera accurata l’informazione che riguarda l’azione di governo; il 60% quella sui principali eventi mondiali. In generale, considerando tutti i Paesi, il 75% del campione non considera accettabile un’informazione apertamente schierata su una posizione politica e il 52% promuove i media.
Per 7 giovani su 10 l'informazione è in Rete. Interessante anche il capitolo sulle news online. Si parte da un esito scontato, (i giovani si informano su Internet), per arrivare a compilare una classifica sul gap tra le diverse fasce di età tra gli utenti del web. Al primo posto il Vietnam, dove l’84% dei giovani tra i 18 e i 29 anni consulta la rete almeno una volta al giorno, contro solo il 10% degli ultra cinquantenni (gap pari al 74%). L’Italia è al terzo posto: 70% di giovani e 25% di navigatori oltre i cinquant’anni (gap del 45%). Gli Stati Uniti sono il Paese dove le distanze generazionali sono più ridotte: il 48% del pubblico più anziano consulta Internet, contro il 69% dei più giovani.
DUE PESI E DUE MISURE. Nicola Porro: "Fake news? No: se le scrive Repubblica, il giornale progressista", scrive il 28 Novembre 2017 "Libero Quotidiano". "Le fake news sono tali solo se non riguardano un tema politicamente corretto e non sono scritte a titoli cubitali...", scrive Nicola Porro sul suo profilo Twitter. Repubblica, sottolinea il vicedirettore de Il Giornale, "a pagina 4 sparava con grande evidenza un numero impressionante: 6.788.000. E la didascalia recitava: Italiane tra i 16 e i 70 anni che hanno subito qualche forma di violenza pari al 31,6%". Peccato che questa notizia sia assolutamente "falsa, doppia come un gettone. Il tutto a corredo di un pezzo che chiede maggiori risorse contro il femminicidio: cioè maggiori tasse per far sì che una donna su tre (così spiega la didascalia) non debba più subire ignobili violenze". Quel numero, continua Porro, "è un macigno" e "il giornale antibufale per eccellenza, e cioè Repubblica", non ci dice "da dove esce". Bene, continua Porro, "nasce da un rapporto Istat del 2015 su dati del 2014", e "non si tratta di un dato puntuale, ma di un sondaggio. Cioè non ci sono 6,7 milioni di donne che hanno denunciato o lamentato o raccontato una violenza. C’è un sondaggio su un campione di 24.761 donne". Proprio così. Non solo, "si dice che il 31,6% delle donne italiane subisce violenza". Ma la maggior parte di loro subisce quella psicologica: il 22% della popolazione nazionale secondo l'Istat, e cioè 4,4 milioni su 6,7 milioni delle loro stime, si lamenta solo della violenza psicologica e non già di quella fisica. Grave comunque, ma ci sarà una differenza tra l’una e l’altra".
Firenze, le fake news dei giornali sugli stupri inventati. Diversi quotidiani nazionali hanno pubblicato la notizia: A Firenze nel 2016 false 90% delle denunce per violenza sessuale. Il questore smentisce, scrive Domenico Camodeca, Esperto di Cronaca l'11 settembre su "it.blastingnews.com". “Tutte le studentesse americane in Italia sono assicurate per lo stupro e a #Firenze su 150-200 denunce all’anno, il 90% risulta falso”. È questo il passaggio incriminato, privo di virgolette nella versione originale, di un articolo apparso il 9 settembre scorso sui quotidiani La Stampa e Il Secolo XIX, a margine di una intervista al ministro della Difesa, Roberta Pinotti, sui fatti legati all’ancora presunto stupro di Firenze. Anche altre testate, tra cui Il Messaggero, Il Gazzettino e Il Mattino (o, almeno, questa la ricostruzione fatta dalla giornalista del Fatto Quotidiano Luisiana Gaita) hanno poi rilanciato la notizia che, però, si è rivelata essere una #Fake News, una bufala insomma. A smentire i Media ci ha pensato il questore di Firenze Alberto Intini: “Secondo la banca dati della polizia solo 51 denunce per#violenza sessuale nel 2016 e, nei primi 9 mesi del 2017, solo 3 da parte di ragazze americane”. Di fronte alla presunta fake news smascherata, Stampa e Secolo decidono di non mollare, virgolettano la frase da loro pubblicata e la attribuiscono a una non meglio precisata “fonte istituzionale attendibile”, anche se coperta dal segreto professionale. Dunque, a Firenze, nel 2016, ci sono state tra le 150 e le 200 denunce per violenza sessuale (reato che va dal palpeggiamento al vero e proprio stupro), oppure solo 51?. E poi, è vero che le denunce presentate dalle donne americane sarebbero false per il 90%? Sostenitori della prima tesi sono, come detto, le redazioni di Stampa e Secolo le quali, nella nota apparsa successivamente in calce al pezzo contestato, spiegano che “i dati cui fa riferimento la fonte non sono nelle statistiche ufficiali perché non sono ancora confluiti nei database Istat”. Una pezza di appoggio abbastanza fumosa che, infatti, il procuratore di Firenze Intini contraddice fornendo i numeri provenienti dalla banca dati della polizia. Per non parlare dell’altra fake news che tutte le studentesse Usa in Italia sarebbero assicurate contro lo stupro Infatti, come ha spiegato anche Gabriele Zanobini, avvocato delle due ragazze protagoniste della vicenda, l’assicurazione stipulata dalle donne americane che si recano in Italia è generica e comprende ogni tipo di incidente o aggressione in cui si può incorrere.
«Denzel Washington sostiene Trump», la bufala su Facebook. Ennesimo caso di propaganda veicolata da American News, sito che posta contenuti falsi per orientare il dibattito. L’attore trasformato in un supporter del presidente eletto, scrive Marta Serafini su “Il Corriere della Sera” il 16 dicembre 2016. Tanto Denzel Washington risponde ad un giornalista che gli chiedeva un’opinione sulle fake news e sul ruolo dell’informazione moderna. Se non leggi i giornali sei disinformato, se invece li leggi sei informato male. Quindi cosa dovremo fare? chiede il giornalista, Washington replica: “Bella domanda. Quali sono gli effetti a lungo termine di troppa informazione? Una delle conseguenze è il bisogno di arrivare per primi, non importa più dire la verità. Quindi qual è la vostra responsabilità? Dire la verità, non solo arrivare per primi, ma dire la verità. Adesso viviamo in una società dove l’importante è arrivare primi. “Chi se ne frega? Pubblica subito” Non ci interessa a chi fa male, non ci interessa chi distrugge, non ci interessa che sia vero. Dillo e basta, vendi! Se ti alleni puoi diventare bravo a fare qualsiasi cosa. Anche a dire stronzate” tuona il celebre attore e regista.
I giornalisti professionisti si chiedono perché è in crisi la stampa. Le loro ovvie risposte sono:
Troppi giornalisti (litania pressa pari pari dalle lamentele degli avvocati a difesa dello status quo contro le nuove leve);
Troppi pubblicisti;
Troppa informazione web;
Troppi italiani non leggono.
La risposta invece è: troppo degrado intellettuale degli scribacchini e troppi “mondi di informazione”. Quando si parla di informazione contemporanea non si deve intendere in toto “Il Mondo dell’Informazione”, quindi informazione secondo verità, continenza-pertinenza ed interesse pubblico, ma “I Mondi delle Informazioni”, ossia notizie partigiane date secondo interessi ideologici (spesso di sinistra sindacalizzata) od economici. Insomma: quanto si scrive non sono notizie, ma opinioni! I lettori non hanno più l’anello al naso e quindi, diplomati e laureati, sanno percepire la disinformazione, la censura e l’omertà. In questo modo si rivolgono altrove per dissetare la curiosità e l’interesse di sapere. I pochi giornalisti degni di questo titolo sono perseguitati, perchè, pur abilitati (conformati), non sono omologati.
FAKE NEWS, GIORNALI E MORALISMI SENZA PIÙ NOTIZIE, scrive Alessandro Calvi il 22 dicembre 2017 su "Stati Generali". Certo, il problema sono le fake news; eppure, si dovrebbe dire anche dell’informazione di carta, di certe sue degenerazioni; o forse oramai è tardi, forse l’informazione è già morta e quello pubblicato dalla Stampa mercoledì 22 novembre – «La notizia è falsa, ma la riflessione sopravvive» – ne è il perfetto necrologio. Quella frase l’ha scritta Mattia Feltri dopo aver chiesto scusa ai lettori per aver costruito un pezzo su una notizia poi rivelatasi falsa; e però quella chiusa – «La notizia è falsa, ma la riflessione sopravvive» – sembra dirci che i giornali oramai ritengono di poter fare a meno di fatti e notizie, accontentandosi delle opinioni, anche di quelle costruite su notizie false; il necrologio del giornalismo, appunto. La storia è piuttosto semplice. Feltri aveva dedicato una puntata della sua rubrica «Buongiorno» alla notizia secondo cui una bimba di 9 anni sarebbe andata in sposa a un uomo di 45 anni e poi da questo sarebbe stata violentata; tutto si sarebbe svolto nella comunità musulmana di Padova. Ebbene, dopo aver spiegato che di questo genere di storie si conosce poco o nulla poiché «avvengono dentro comunità chiuse, regolate dalla connivenza, persuase di essere nel giusto per volere divino», Feltri ricordava la «battaglia opportuna […] sebbene un po’ scomposta, un po’ genericamente recriminatoria» contro «i Weinstein e i Brizzi di tutto il mondo» e concludeva: «Tanta agitazione per ragazze indotte o costrette a concedersi in cambio di una carriera nel cinema è comprensibile e condivisibile, ma tanto silenzio per donne e bambine sequestrate a vita, in cambio di niente, è spaventoso». Ecco: peccato che alla fine sia uscito fuori che la storia della sposa bambina era falsa. A Feltri non è restato che ammettere l’errore e chiedere scusa, non rinunciando però ad affermare che, sebbene la notizia fosse falsa, «la riflessione sopravvive». E invece no: ché, anzi, a sopravvivere è semmai tutto quell’apparato fatto di notazioni e coloriture – «tanta agitazione» o «battaglia opportuna […] sebbene un po’ scomposta» – il quale, al venir meno dei fatti, si rivela per quello che è: una semplice impalcatura ideologica, forse persino un po’ infastidita da quella «battaglia opportuna […] sebbene un po’ scomposta». Tuttavia, il problema non è certo Feltri al quale piuttosto si dovrebbe riconoscere d’essere un gran signore avendo fatto ciò che pochi fanno: ammettere l’errore e chiedere scusa. D’altra parte, capita a tutti di sbagliare, soprattutto se ogni giorno – ogni giorno! – si è costretti a trarre una morale dalle notizie, con metodo oramai quasi industriale; è capitato anche al più inossidabile, al più inarrestabile, tra i dispensatori di morali e opinioni, Massimo Gramellini; la ricostruzione che fornì Alessandro Gilioli sull’Espresso di uno di questi errori – e di mezzo c’è sempre una fake news presa per buona – vale la lettura. Ma, appunto, il problema non è l’errore in sé, poiché l’errore può capitare. Il problema, sta invece nell’essere oramai diventata accettabile – tanto che non s’è visto alzarsi neppure un sopracciglio – un’affermazione come quella secondo cui «la notizia è falsa, ma la riflessione sopravvive». Il problema riguarda una idea di giornalismo che sembra prescindere dai fatti, per cui le opinioni oramai precedono la cronaca la quale spesso trova spazio soltanto se è in grado di confermare le opinioni, altrimenti se ne fa a meno, poiché comunque «la riflessione sopravvive». Il problema sta insomma nel fatto che l’informazione è stata da tempo ridotta a mero dispensario di opinioni, anche senza più fatti a sostegno. Di recente, sugli Stati Generali, è stato pubblicato un intervento – «Se noi giornalisti siamo sempre meno credibili, ci sarà un perché» – di Fabio Martini, anch’egli giornalista del quotidiano La Stampa, col quale non si può che concordare. E, peraltro, da queste parti si è ragionato spesso sulla crisi del giornalismo, e in particolare sulle conseguenze della marginalizzazione della cronaca. Lo si era fatto ad esempio prendendo spunto da fatti drammatici, come le stragi delle quali i quotidiani quasi non danno più notizia, e si era fatto lo stesso anche a partire da vicende più vicine, come il mancato racconto dell’agonia del lago di Bracciano. Di recente lo si è fatto a proposito di come l’informazione ha trattato le vicende di Ostia e del Virgilio. Comunque sia, il tema è sempre lo stesso: dai primi anni Novanta la cronaca inizia a essere massicciamente sostituita da altro, in particolare dai retroscena; e questo cambia tutto: cambia l’informazione e cambia anche il rapporto tra giornali e potere. «Sulle pagine dei giornali – si perdonerà l’autocitazione da quell’articolo che prendeva a pretesto la vicenda di Ostia per parlare di giornalismo – si affacciano sempre più massicciamente spifferi di Palazzo, brogliacci, verbali. Sembra che il lettore, attraverso la lettura di un verbale riportato pedissequamente dai giornali, possa essere immerso dentro la notizia senza più filtri né mediazioni. Sembra una rivoluzione. È invece l’esatto opposto. Per farsene una idea, basterebbe chiedersi chi dirige il traffico, chi sceglie quali verbali far uscire e quali spifferi lasciar trapelare. Ecco: per lo più, sono le fonti a stabilirlo, se non altro perché sono le fonti che conoscono a fondo il contesto. Insomma, sostituendo lo spazio della cronaca con il retroscena e rarefacendo sempre più il tradizionale lavoro di inchiesta giornalistica, i giornali si sono disarmati e consegnati alle fonti, quindi al potere». Il passaggio dalla cronaca al retroscena, e l’affermarsi progressivo delle opinioni sui fatti, finisce per trasformare anche la scrittura dei giornali. Il linguaggio della cronaca diventa sempre più simile a quello degli editoriali, intessuto di pedagogismi e di toni moralisticheggianti che non dovrebbero trovare spazio nel resoconto di un fatto. Anche questo contribuisce ad allentare il rapporto con la realtà, finendo per trasformare la cronaca – quando ancora trova spazio in pagina – in un racconto di maniera che non dice più molto del mondo. E non è ancora tutto. In questi giorni sono usciti in libreria due libri – non uno, due! – che Michele Serra ha dedicato alla rubrica che da anni cura per Repubblica, «L’amaca». In quello dei due che costituisce l’esegesi dell’altro, Serra scrive che gli anni nei quali iniziò a scrivere corsivi – «gli anni della post-ideologia», afferma – non erano più quelli di Fortebraccio e della sua ferrea faziosità. In realtà, rispetto all’epoca di Fortebraccio stava cambiando soprattutto il contenitore nel quale il corsivo veniva collocato: stavano cambiando i giornali e stava cambiando persino il giornalismo. Prima, informazione era per lo più il resoconto di un fatto e quindi aveva un senso l’esistenza di editoriali e corsivi; poi, con la marginalizzazione della cronaca e l’editorializzazione dell’intero giornale, i corsivi finiscono annegati in un mare di opinioni senza più cronaca, poiché, come s’è appena visto, la cronaca ha lasciato il posto al retroscena il quale ha a sua volta contribuito all’avvicinamento della informazione al potere attraverso il disarmo nei confronti delle fonti. In questo contesto, anche la funzione dei corsivi finisce per essere stravolta rispetto all’epoca di Fortebraccio: e il rischio permanente è che si passi dal graffio contro il potere al moralismo che accarezza lo stato delle cose e che massaggia il potere o la pancia dei lettori. Imboccata questa strada – sostituita la cronaca con il retroscena, scollegata l’informazione dai fatti, ridottala a ragionamento che può essere persino basato su una notizia falsa, stravolta infine la funzione dei corsivi – i giornali si sono ridotti a raccontare sempre meno le cose del mondo e per questo hanno sempre meno lettori e sono sempre più in crisi. A sentire chi i giornali li fa, però, il problema sarebbe soprattutto quello delle fake news o della rete che ruba lettori. E quindi si finisce per ritenere che la soluzione per recuperare lettori e credibilità sia quella di differenziarsi dalla rete, lasciando alla stessa rete il notiziario e concentrandosi ancor di più sulle opinioni. Lo ha spiegato piuttosto chiaramente il direttore di Repubblica Mario Calabresi presentando la nuova veste del giornale, scrivendo di aver addirittura «raddoppiato lo spazio per le analisi e i commenti». Bene. Ma davvero abbiamo bisogno di tutte queste opinioni? Possibile che si abbia tutta questa sfiducia nella capacità dei lettori – sempre che ai lettori si raccontino anche i fatti – di formarsi da sé una opinione? Non sarà, infine, che a forza d’andar dietro alle opinioni si stia rischiando di rendere ancor più flebile il rapporto tra giornali e fatti, oltre a quello oramai quasi evanescente tra giornali e lettori? Lo dirà il tempo. Tuttavia, proprio nel giorno in cui Calabresi annunciava il raddoppio delle analisi e dei commenti, la nuova Repubblica esordiva in edicola con una grande intervista al premier spagnolo Rajoy firmata dallo stesso Calabresi e posta in apertura di edizione. Quello stesso giorno, gli altri giornali raccontavano come Amsterdam avesse sfilato a Milano l’Agenzia europea del farmaco anche per il mancato accordo tra governo italiano e governo spagnolo. Ebbene, nella intervista uscita su Repubblica al capo di quel governo non c’era neppure una domanda su quel fatto. Sarà stata un scelta di opportunità, sarà stato perché l’intervista era stata chiusa prima, comunque si è rimasti con la sensazione che mancasse qualcosa. Quella scelta è stata legittima, certo; difficile però poi lamentarsi se i lettori quel qualcosa non lo cerchino più nei giornali.
Una Costituzione troppo elogiata. Commenti positivi si arrestano sistematicamente alla prima parte del testo, mentre la seconda è ampiamente discutibile e discussa, scrive Ernesto Galli della Loggia il 12 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". Non si può proprio dire che abbia destato un grande interesse il settantesimo anniversario appena trascorso dell’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica. Alla fine dell’anno passato, l’evento è stato naturalmente e doverosamente commemorato da tutte le autorità del caso ma nella più completa distrazione della gente immersa nelle festività natalizie. E altrettanto doverosamente esso ha innescato l’ormai consueto ciclo di celebrazioni ufficiali. Che stavolta ha preso la forma di un «viaggio della Costituzione» – organizzato dalla Presidenza del Consiglio - attraverso dodici città italiane ognuna destinata a essere sede di una lezione su un tema centrale della Carta (tra i quali temi fanno bella mostra di sé Democrazia e Decentramento, Stato e Chiesa e Diritto d’asilo, Solidarietà e Lavoro, mentre manca, assai significativamente, il tema della Libertà). Come di prammatica è stata organizzata anche una mostra itinerante, ovviamente multimediale, nella quale ciascuno dei dodici articoli principali è commentato dalla voce di Roberto Benigni, confermato anche in questa occasione nel suo ruolo ormai ufficiale di aedo della Repubblica. Paradossalmente, tuttavia, proprio l’assenza d’interesse da parte del pubblico unita alla piattezza celebrativa condita dei soliti discorsi esaltanti il «testo vivo» della Carta, la sua «sintesi mirabile» e così via magnificando, sono serviti a sottolineare per contrasto qualcosa che è assolutamente peculiare della nostra scena pubblica. Vale a dire la centralità che in essa ha la Costituzione. Una centralità beninteso tutta verbale, fatta per l’appunto di un continuo discorrere sulla Costituzione in ogni circostanza plausibile e implausibile, di una sua incessante evocazione ed esaltazione, di una profusione di elogi per ogni suo aspetto: per la sua saggezza, per la sua lungimiranza, completezza, incisività, bellezza stilistica, e chi più ne ha più ne metta. Credo che in tutta Europa non esista una Carta costituzionale fatta oggetto di un altrettanto inarrestabile fiume di parole laudative, così come credo che non esista un’altra classe politica (ma ci si aggiungono volentieri anche preti e vescovi) che se ne riempia tanto la bocca come quella italiana. A cominciare da coloro che rappresentano le istituzioni, il cui discorso, appunto, è, per la massima parte e in qualsivoglia circostanza più o meno «nobile», una trama di richiami di volta in volta ammonitori o storico-encomiastici alla Costituzione. È una caratteristica così tipicamente italiana da richiedere una spiegazione. La quale credo stia nel fatto che l’ufficialità italiana, non riuscendo a immaginarsi depositaria di un qualunque destino collettivo né investita di una qualunque prospettiva nazionale, non considerandosi attrice credibile e tanto meno portavoce di un qualunque futuro significativo del Paese, sa di non poter fare altro che richiamarsi al passato. Quando in una qualunque circostanza celebrativa la suddetta ufficialità è chiamata a dire di sé e di ciò che rappresenta in modo «alto», essa sa di non essere in grado di spingere lo sguardo avanti, di non avere la statura per dar voce a un progetto o a un destino, e quindi è costretta inevitabilmente a volgere lo sguardo all’indietro, solo all’indietro: cioè per l’appunto alla Costituzione. Naturalmente uno sguardo essenzialmente contemplativo: infatti, lungi dall’essere una retorica in vista dell’azione, la retorica ufficiale della Repubblica è vocazionalmente una retorica della memoria. La dimensione dei foscoliani «Sepolcri», insomma, è ancora e sempre la nostra: anche se oggi priva degli «auspici» che a suo tempo secondo il poeta da essi avremmo dovuto trarre. C’è ancora una considerazione da fare circa il discorso sulla Costituzione tipico della ufficialità italiana. Ed è che esso, nella sua abituale, pomposa, glorificazione del testo, tende sistematicamente a nascondere due verità. La prima è che forse quel testo medesimo così compiuto e perfetto non è, visto che fino a oggi sono almeno 16 (per un totale di oltre venti articoli) le modificazioni che è stato ritenuto utile o necessario apportarvi: e quasi sempre su aspetti per nulla secondari. La seconda verità nascosta dalla magniloquenza celebrativa quando nei suoi elogi si arresta, come fa sistematicamente, alla prima parte della Carta, riguarda la natura viceversa ampiamente discutibile e discussa della seconda parte, quella che tratta dei modi in cui il Paese è quotidianamente e concretamente governato e amministrato. Non a caso il modo come in Italia funzionano l’esecutivo, la giustizia, le Regioni o la burocrazia, non è mai fatto oggetto di attenzione e tanto meno di elogi dal discorso sulla Costituzione. Accortamente i ditirambi sono riservati solo ai massimi principi: alla solidarietà, al ripudio della guerra o al diritto allo studio e via dicendo. Sul resto, silenzio. Con il risultato che modificare ciò che pure a giudizio di moltissimi andrebbe modificato di questa seconda parte si rivela da sempre di una difficoltà titanica, dal momento che la cosa può facilmente essere fatta passare per un subdolo attacco ai principi suddetti. Ma se la Costituzione è così massicciamente presente nel discorso pubblico italiano questo avviene per un’ultima ragione, pure questa patologica. E cioè perché essa viene continuamente adoperata come arma contundente nella lotta politica quotidiana, piegata a suo uso e consumo. In realtà è la Costituzione stessa che si presta a esser adoperata in tal modo. Infatti, il lungo elenco di articoli dal 29 al 47 — articoli astrattamente prescrittivi riguardanti i rapporti «etico sociali» ed economici (l’astrattezza sta nello stabilire come obbligatori per la Repubblica, nella forma perlopiù di altrettanti «diritti» dei cittadini, una lunga serie di costosissimi obiettivi di una vasta quanto assoluta genericità) — tali articoli, dicevo, si prestano molto bene a essere fatti valere a difesa polemica di qualsiasi esigenza contro qualsiasi politica di qualsiasi governo. Non a caso, un tale uso strumentalmente politico della Costituzione cominciò fin dalla sua entrata in vigore, e si può dire che da allora non ci sia stato esecutivo italiano di destra o di sinistra che nelle più svariate occasioni non sia stato accusato in un modo o nell’altro di violare la Costituzione. Inutile dire quanto anche una simile pratica abbia contribuito e contribuisca a impedire che intorno alla Costituzione stessa si formi quell’aura di «sacralità» che invano i suoi celebratori vorrebbero.
INTRODUZIONE: LA GUERRA A BERLUSCONI.
I nostri politici sono solo mediocri amministratori improvvisati assetati di un potere immeritato. Governanti sono coloro che prevedono e governano gli eventi, riformando ogni norma intralciante la modernità ed il progresso, senza ausilio di leggi estemporanee ed improvvisate per dirimere i prevedibili imprevisti.
Su Berlusconi la Corte Europea sceglie di "non decidere". Dopo 5 anni e due mesi di dibattimento e polemiche oggi Strasburgo mette la parola fine in modo clamoroso, scrive Maurizio Tortorella il 27 novembre 2018 su "Panorama". Un clamoroso “nulla di fatto”. Sulla serie di ricorsi presentati da Silvio Berlusconi, alla fine, la Corte europea dei diritti dell’uomo, cioè la massima autorità giurisdizionale per 47 Paesi del Vecchio continente, ha deciso di non decidere. I 17 giudici della sua suprema “Grande chambre”, riuniti stamattina a Strasburgo a pronunciarsi sul ricorso del fondatore di Forza Italia contro la Legge Severino e contro la sua successiva decadenza dal Senato, hanno infatti annunciato che il caso è archiviato, perché "non ci sono le condizioni per continuare il procedimento"; la corte ha ritenuto anche che "non vi sia alcuna circostanza speciale riguardante il rispetto dei diritti dell'uomo". Davanti a sé, in realtà, la Corte europea aveva oggi quattro strade alternative: poteva decidere per l’assoluzione o per la condanna dell’Italia, oppure poteva dichiarare inammissibile il ricorso del leader di Forza Italia. La quarta via è quella che è stata scelta: radiare il ricorso berlusconiano dai registri della Corte e ritirarsi in buon ordine, senza decidere. Per questo indiscutibile buco nell’acqua, ai giudici di Strasburgo sono serviti ben cinque anni e due mesi, visto che il primo ricorso era stato depositato dai legali del Cavaliere il 10 settembre 2013: e già questo tempo infinito dimostra l’anomalia del trattamento riservato al caso Berlusconi. Ma il risultato di oggi, da qualsiasi parte lo si osservi, è comunque deludente: perché, ritirandosi dal decidere sul procedimento, la Corte europea ha perso l’occasione di emettere una sentenza che avrebbe potuto dire una parola fondamentale sulla legittimità della Legge Severino, la controversa norma che dalla fine del 2012 stabilisce i casi d’incompatibilità e d’incandidabilità alle cariche pubbliche. Berlusconi, che nel novembre 2013 era stato la prima vittima parlamentare di quella legge (a favore della sua decadenza, in Senato, si erano schierati Pd, M5S, Sel e Scelta civica; contrari Forza Italia, Gal, Nuovo centrodestra e Lega), ne ha sempre denunciato la scorretta applicazione retroattiva. Nei suoi ricorsi, il Cavaliere affermava che la legge Severino non avrebbe mai dovuto essergli applicata, nel 2013, perché i reati per cui era stato condannato, e per i quali quindi gli si contestava il diritto di sedere in Parlamento e di presentarsi come candidato alle elezioni, erano stati commessi anni prima dell'entrata in vigore della Legge Severino. Sempre a causa di quella noma, peraltro, Berlusconi non si è potuto candidare alle elezioni del 4 marzo scorso. Non si saprà mai, a questo punto, se la decadenza del Cavaliere dal Senato sia stato un atto di giustizia, come sostengono i suoi avversari politici, o invece il punto più alto di una manovra basata su un uso illegittimo di quella legge. A scrivere ai giudici di Strasburgo di non aver più interesse a una sentenza, d’altronde, era stato lo stesso Berlusconi il 27 luglio scorso, quando il tribunale di Milano lo aveva da poco riabilitato facendo cadere gli effetti della stessa Legge Severino. Per cinque anni, comunque, il quattro volte presidente del Consiglio è rimasto forzatamente fuori dal Parlamento, e a questo vulnus non c’è più rimedio. E questa amarezza si coglieva nella lettera con cui il Cavaliere aveva comunicato alla Corte di Strasburgo la sua rinuncia al ricorso. In quel testo, Berlusconi manifestava però il suo sconcerto per “i tempi assurdi di una decisione che arriva fuori tempo massimo”, quando ormai l’ingiustizia di cui si considera vittima “ha dispiegato i suoi effetti”.
Strasburgo, la Corte non decide e archivia il ricorso di Berlusconi. Cinque anni per non emettere nessuna sentenza. Sul caso nemmeno la Corte europea dei diritti dell'uomo fa giustizia, scrive Luca Fazzo, Martedì 27/11/2018, su "Il Giornale". “La Corte decide di cancellare la causa dal ruolo”. Diciassette giudici, diciannove avvocati, un apparato enorme e costoso di cancellieri, interpreti e addetti stampa, e soprattutto cinque anni di attesa. Tutto inutile. Il tentativo di Silvio Berlusconi di avere a Strasburgo la giustizia che non ritiene di avere avuto in Italia si infrange contro i ritmi biblici della Corte europea dei diritti dell'Uomo, che in questo caso - come in molti altri - non è riuscita a prendere una decisione in tempo utile perché avesse ancora un senso.
Alle 11 di questa mattina la Corte ha reso noto che del caso 58428/13 "Berlusconi contro Italia" non c'è più niente da decidere. Il ricorrente, ovvero l'ex premier, ha ritirato la sua richiesta nel luglio scorso, dopo avere ottenuto dal tribunale di Milano la riabilitazione che lo ha fatto tornare eleggibile a tutti gli effetti. I. La Corte di Strasburgo avrebbe potuto andare avanti per la sua strada ed emettere comunque la sentenza, stabilendo principi di civiltà giuridica che sarebbero divenuti punti di riferimento per tutti i paesi che ne riconoscono l'autorità. Invece ha colto di buon grado l'opportunità di non pronunciarsi. Caso chiuso. Una decisione era già stata presa, ma non sapremo mai (almeno ufficialmente) quale fosse. Berlusconi si era rivolto alla Corte nel 2013, quando era divenuta definitiva la sua condanna nel processo per i diritti TV e il Senato aveva votato a maggioranza, in applicazione della legge Severino, la sua decadenza dalla carica parlamentare. Si era trattato, secondo il Cavaliere, di una decisione essenzialmente politica, che privava uno dei principali partiti italiani della rappresentanza istituzionale del suo leader. Ai giudici di Strasburgo Berlusconi aveva chiesto di annullare la sua interdizione per più di un motivo: il principale, l'applicazione retroattiva nei suoi confronti di una norma, la Severino, approvata dopo la commissione dei reati. Un anno fa, nel corso della prima e unica udienza pubblica nel capoluogo alsaziano, era parso che una parte degli argomenti del Cav avessero fatto breccia in alcuni dei giudici. Ma oggi la Corte ha deciso di non decidere. La rinuncia al ricorso era stata decisa da Berlusconi, d'intesa con i suoi legali, sulla base di un semplice calcolo dei rischi e dei vantaggi. Una decisione favorevole della Corte avrebbe indubbiamente costituito una vittoria morale, sancendo irrevocabilmente l'ingiustizia della sua cacciata dal Senato, ma non avrebbe avuto alcuna conseguenza concreta. Ma c'era anche la possibilità di una pronuncia negativa, che avrebbe dato nuova linfa ai teorici della "impresentabilità" del Cavaliere. Nel dubbio, il leader azzurro ha preferito non rischiare. In agosto, ma lo si apprende solo ora, il governo Conte si era rimesso alla decisione della Corte sulla opportunità di andare avanti o fermare tutto. La decisione porta la sola firma della presidente della corte, la tedesca Angelika Nussberger, e dà atto che i diciassette giudici si sono spaccati, tanto che alla fine le conclusioni sono state raggiunte “a maggioranza”. Alcuni dei componenti, evidentemente, ritenevano che ci fossero buoni motivi per pronunciare una decisione che - in un senso o nell’altro - avrebbe stabilito un precedente significativo sulle questioni cruciali che il ricorso sollevava nei rapporti tra politica, giustizia e diritti civili. Invece la decisione si limita a riportare dettagliatamente i passaggi della vicenda, le argomentazioni della accusa e della difesa. E a dire che alla fine non c’è più niente da decidere.
La Cedu, il carrozzone inutile che costa 71 milioni all'anno. La Corte dei diritti dell'Uomo di Strasburgo ha il fascino dei grandi principi e delle utopie: che, come spesso accade, si traducono poi a fatica in prassi altrettanto elevate, scrive Luca Fazzo, Martedì 27/11/2018, su "Il Giornale". Costa ai contribuenti 71 milioni di euro all'anno. Sullo splendido edificio che la ospita, sventolano le bandiere dei 47 paesi che hanno sottoscritto la Convenzione europea dei diritti dell'Uomo: hanno rinunciato almeno in parte, cioè, a farsi giustizia da soli, a fare valere solo le proprie leggi; hanno ceduto, insomma, una parte della loro sovranità nel campo del diritto in favore di principi più alti e generali. La Corte dei diritti dell'Uomo di Strasburgo ha il fascino dei grandi principi e delle utopie: che, come spesso accade, si traducono poi a fatica in prassi altrettanto elevate. Un po' perché i giudici che ne fanno parte sono tutti, in un modo o nell'altro, di nomina politica. E soprattutto perché i tempi delle decisioni sono talmente smisurati da rendere, tranne pochi fortunati casi, le decisioni di Strasburgo del tutto ininfluenti sui casi concreti: quando ormai le presunte vittime delle prepotenze degli Stati sono libere, o addirittura morte. È accaduto ora con il caso di Silvio Berlusconi, che i giudici di Strasburgo hanno iniziato ad esaminare con tutta calma: hanno impiegato tre anni per chiedere il parere del governo italiano, un altro anno se n'è andato perché i giudici che avevano la pratica se ne spogliassero a favore della Grand Chambre, un altro anno è servito per la decisione. Nel frattempo la vita ha fatto il suo corso, il tempo è passato, la condanna di Berlusconi è stata cancellata: insomma alla fine il Cavaliere ha deciso di lasciar perdere, nonostante il robusto sforzo economico sostenuto per impiantare la causa a Strasburgo. Ma tempi analoghi la Corte li ha purtroppo quasi sempre. Li ha avuti con Bruno Contrada, ex funzionario dei servizi segreti, che si è visto dare ragione quando ormai aveva finito di scontare la sua pena. Rischia di accadere la stessa cosa con Marcello Dell'Utri, il cui ricorso è stato presentato nel 2015 e non verrà deciso prima del prossimo anno. E accade in continuazione con cittadini noti e meno noti dei 47 paesi. Proprio ieri, celebrando il ventesimo anno di attività della Corte, il suo presidente, l'italiano Guido Raimondi, ha fornito numeri che giustificano questi ritmi di decisione: davanti alla Corte sono attualmente fermi 58mila procedimenti, che sono un bel passo avanti rispetto ai 160mila giacenti nel 2011, ma che rendono comunque assai improbabile che la maggior parte dei ricorrenti riceva una risposta in tempi sensati. Certamente dietro a questo intasamento c'è anche una certa resistenza degli Stati membri, dai cui finanziamenti dipende il funzionamento della Corte, che non hanno troppo interesse ad avere una Corte in piena efficienza. Ma in alcuni casi a Strasburgo hanno saputo dare corso in fretta. Lo hanno fatto quando diedero ragione al terrorista Abu Omar nella sua causa contro l'Italia, lo hanno fatto quando hanno abrogato il reato di immigrazione clandestina previsto dalla legge Bossi-Fini. Ma qui almeno c'erano in ballo questioni rilevanti ed urgenti di libertà civili. Ma in tempi ben più rapidi del solito è stata decisa anche la causa sollevata da una televisione italiana su una questione di frequenze. Insomma, sarà anche vero che, come ha detto ieri Guido Raimondi, centinaia di milioni di europei sanno che a Strasburgo c'è qualcuno che vigila costantemente sui loro diritti". Ma raramente lo fa in tempo utile.
Berlusconi, niente sentenza della Corte di Strasburgo: caso chiuso. La Corte europea sui diritti umani ha deciso sul ricorso dell'ex premier, decaduto dalla carica di senatore secondo quanto previsto dalla Legge Severino, scrive la Redazione di TPI il 27 Novembre 2018. Caso chiuso senza sentenza. Accolta la richiesta dell’ex premier di non entrare in giudizio sul ricorso presentato dai suoi legali contro la decadenza da senatore dovuta all’applicazione della legge Severino. La Corte europea dei diritti umani (CEDU) poteva scegliere tra quattro “ipotesi”: assoluzione o condanna dell’Italia, totale o parziale; inammissibilità del ricorso di Silvio Berlusconi; il non pronunciamento sul caso. In una lettera presentata a Strasburgo lo scorso 27 luglio dopo la riabiliazione dell’ex premier stabilita dal tribunale di Milano i legali di Silvio Berlusconi hanno dichiarato di non avere più interesse alla sentenza perché, anche una condanna dell’Italia, non avrebbe prodotto “alcun effetto positivo” per il leader di Forza Italia. Secondo la tesi difensiva dei legali dell’ex premier la “Severino” non poteva essere applicata nel caso di Silvio Berlusconi in quanto i reati per i quali era stato condannato erano stati commessi prima dell’entrata in vigore della legge. Da sottolineare che proprio a causa della legge Severino Silvio Berlusconi non è stato candidabile alle ultime elezioni politiche, quelle del 4 marzo 2018. “Non c’era più necessità di portare avanti il ricorso” perché “nel frattempo Silvo Berlusconi era tornato nella pienezza dei propri diritti politici”. Così in un una nota i legali del leader di Forza Italia hanno commentato la (non) sentenza. Non solo. “Una condanna dell’Italia” hanno chiarito gli avvocati Franco Coppi, Bruno Nascimbene, Andrea Sacucci e Niccolò Ghedini, “avrebbe comportato ulteriori tensioni nella già più che complessa vita del Paese, circostanza che il Presidente Berlusconi ha inteso assolutamente evitare”. Nell’aprile di quest’anno l’intervenuta riabilitazione ha infatti anticipatamente cancellato gli effetti della predetta legge. Per questo secondo la difesa non c’era più la necessità di proseguire nel ricorso.
La decadenza di Silvio Berlusconi. La decadenza di Silvio Berlusconi è stata stabilita il 27 novembre 2013 con il voto del Senato a scrutinio palese come conseguenza della sentenza definitiva nel processo sui diritti tv Mediaset. La notizia ebbe ovviamente una vasta eco sulla stampa internazionale. Quel giorno le parlamentari di Forza Italia si presentarono al Senato vestite di nero per protesta contro quella che ritenevano una legge “contra personam”. Dopo il voto il Movimento 5 Stelle mostrò in Aula uno striscione con su scritto: “Fuori uno, tutti a casa!”.
La condanna di Silvio Berlusconi. La condanna di Silvio Berlusconi a quattro anni di reclusione è stata decisa il 1° agosto 2013. L’accusa: frode fiscale in merito alla compravendita dei diritti televisivi Mediaset.
Decadenza di Silvio Berlusconi, cosa dice la Legge Severino. La legge Severino regolamenta alcune aree della politica italiana e della Pubblica Amministrazione. La Legge numero 190 del 6 novembre 2012 prende nome di “Legge Severino” dall’ex Ministro della Giustizia, Paola Severino all’epoca del governo di Mario Monti.
I principi della Legge Severino. Temi centrali della Legge Severino sono: anticorruzione, concussione, ineleggibilità, sospensione, decadenza e incandidabilità.
Anticorruzione: l’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) attua le sue competenze per la prevenzione alla corruzione in Italia.
Concussione: chi viene condannato per questo reato sarà non idoneo per eventuali cariche nella Pubblica Amministrazione e per le cariche politiche.
Ineleggibilità: ineleggibili e non candidabili coloro che sono stati condannati a più di due anni di reclusione per i reati punibili almeno fino a quattro anni.
Sospensione: ha valore retroattivo e prevede, anche a nomina avvenuta regolarmente, la sospensione di una carica comunale, regionale e parlamentare se la condanna avviene dopo la nomina.
Incandidabilità: regola l’incandidabilità per le cariche nel Parlamento italiano, nel Parlamento Europeo e negli enti locali per tutti coloro che hanno condanne legate alla corruzione.
La Corte Europea dei diritti dell’uomo si è lavata le mani sul caso Berlusconi, scrive Enzo Boldi il 27/11/2018 su Giornalettismo. La Corte europea dei diritti dell'uomo non ha emesso sentenza sul caso Berlusconi. Per il Cavaliere, quindi, vale la sentenza del Tribunale di Milano dello scorso maggio. Il leader di Forza Italuia è, dunque, nuovamente candidabile. Dopo una lunghissima attesa di ben cinque anni, la Corte Europea dei diritti dell’uomo si è espressa sulla posizione di Silvio Berlusconi. Anzi, non si è espressa. Strasburgo ha infatti chiuso il caso senza una sentenza, appellandosi alla stessa volontà dell’ex Presidente del Consiglio. Ora, con il processo archiviato, il Cavaliere potrà nuovamente tornare nelle liste elettorali e candidarsi alle prossime elezioni, come già deciso dal tribunale di Milano lo scorso maggio che aveva valutata sbagliata l’applicazione retroattiva della legge Severino che non gli ha permesso di candidarsi alle elezioni politiche dello scorso 4 marzo. Non si saprà mai, quindi, se obbligando Silvio Berlusconi a lasciare il suo seggio in Senato nel 2013, e impedendogli di presentarsi come candidato alle elezioni, comprese quelle dello scorso 4 marzo, in base a quanto previsto dalla legge Severino, l’Italia abbia violato o no i suoi diritti. A chiedere l’archiviazione del caso, lungo oltre cinque anni, era stato lo stesso leader di Forza Italia e la Corte europea dei diritti umani ha deciso di chiudere il suo ricorso contro il modo in cui gli è stata applicata la legge Severino (quella che prevede la decadenza per i parlamentari condannati in via definitiva), senza una sentenza. Quindi senza dire se i diritti dell’ex premier sono stati violati o no.
La Corte di Strasburgo non ha emesso sentenza. «Tenendo conto di tutti i fatti del caso e in particolare della riabilitazione del richiedente l’11 maggio 2018 – si legge nel testo della nota che ha accompagnato l’archiviazione del caso da parte della Corte di Strasburgo -, così come del suo desiderio di ritirare la denuncia, la Corte non ritiene che ci siano circostanze particolari relative al rispetto dei diritti umani non richiedono la prosecuzione dell’esame». Lo stesso Berlusconi – data la lentezza di Strasburgo per arrivare a una sentenza, aveva richiesto l’archiviazione di quella causa contro l’applicazione della Legge Severino richiesta proprio da lui.
Berlusconi torna ufficialmente candidabile. Il tribunale di sorveglianza Milano, lo scorso 12 maggio, aveva già provveduto a riabilitare Berlusconi ritenendo inapplicabile retroattivamente la legge Severino dopo la condanna di Berlusconi a quattro anni (di cui tre coperti dall’indulto) per frode fiscale nel processo sui diritti televisivi di Mediaset del 2013. Non essendosi espressa, la Corte di Strasburgo ha di fatto consentito l’entrata in vigore della sentenza del tribunale di Milano. Ora Berlusconi torna a essere nuovamente (e ufficialmente) candidabile. Il prossimo passo sono le elezioni europee. Silvio sta tornando.
La versione del Cavaliere. «Ovviamente, così come riconosciuto quest’oggi dalla stessa Corte, non vi era più necessità di proseguire nel ricorso essendo ritornato il Presidente Berlusconi nella pienezza dei propri diritti politici – hanno affermato i legali del presidente di Forza Italia dopo la (non) decisione di Strasburgo -. Una condanna dell’Italia avrebbe altresì comportato ulteriori tensioni nella già più che complessa vita del paese, circostanza che il Presidente Berlusconi ha inteso assolutamente evitare».
Silvio Berlusconi, Corte europea dei diritti dell’uomo archivia ricorso su legge Severino. Come voleva l’ex premier. Non ci sono "circostanze speciali relative al rispetto per i diritti umani che richiedano di continuare l'esame" e per questo così come aveva chiesto il ricorrente il caso è stato archiviato. La Corte europea dei diritti umani (Cedu), a maggioranza dei 17 giudici che componevano il collegio, ha quindi cancellato il ricorso dalla sua lista di casi, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 27 novembre 2018. Non ci sono “circostanze speciali relative al rispetto per i diritti umani che richiedano di continuare l’esame” e per questo così come aveva chiesto il ricorrente il caso è stato archiviato. La Corte europea dei diritti umani ha cancellato il ricorso dalla sua lista di casi. Quindi non si saprà mai se facendo decadere Silvio Berlusconi dal suo seggio in Senato nel 2013, esattamente cinque anni fa, e impedendogli di presentarsi come candidato alle elezioni, in base a quanto previsto dalla legge Severino, l’Italia abbia violato o meno i suoi diritti umani. Nessuna sentenza, nessuna decisione, ma per volontà dello stesso ricorrente: e in assenza di motivi eccezionali che imponessero alle toghe europee di procedere comunque, il caso è stato chiuso. I magistrati di Strasburgo – che hanno deciso a maggioranza e non all’unanimità come spesso accade – hanno fatto riferimento all’articolo 37.1 della Convenzione che prevede che “in ogni momento della procedura, la Corte può decidere di cancellare un ricorso dal ruolo quando le circostanze permettono di concludere: che il ricorrente non intende più mantenerlo; oppure che la controversia è stata risolta; oppure che per ogni altro motivo di cui la Corte accerta l’esistenza, la prosecuzione dell’esame del ricorso non sia più giustificata. Tuttavia la Corte – si legge – prosegue l’esame del ricorso qualora il rispetto dei diritti dell’uomo garantiti dalla Convenzione e dai suoi Protocolli lo imponga”. Berlusconi, però, dopo la riabilitazione incassata nel marzo scorso ci ha ripensato: e nonostante i cinque anni di tempo impiegati per il ricorso a Strasburgo, ha preferito chiedere alla Cedu di chiudere il suo caso senza decidere. Non si sa mai.
La richiesta dell’ex premier inviata a Strasburgo il 27 luglio. Erano stati gli avvocati dell’ex presidente del Consiglio a presentare la richiesta in una lettera inviata il 27 luglio in cui sostenevano che, data la riabilitazione del leader di Forza Italia da parte del tribunale di Milano, Berlusconi non aveva più interesse ad avere un pronunciamento perché “non avrebbe prodotto alcun effetto positivo” per lui. E a leggere il provvedimento della Cedu la riabilitazione è diventata definitiva l’11 maggio 2018, come deciso dalla Cassazione. Eppure nel ricorso Berlusconi aveva affermato che la norma sulla decadenza per i parlamentari condannati in via definitiva, non avrebbe dovuto essergli applicata perché i reati per cui era stato condannato erano stati commessi prima dell’entrata in vigore della legge. A tre anni dall’espiazione della pena per frode fiscale, scontata in affidamento ai servizi sociali il leader di Forza Italia aveva ottenuto la riabilitazione dal tribunale di sorveglianza di Milano. Tra le polemiche perché l’ex premier resta imputato nel terzo filone del caso Ruby ed è indagato per concorso nelle stragi del 1993 a Firenze.
Il ricorso per la violazione degli articoli 3, 7 e 13 che non gli interessa più. L’annuncio che l’ex cavaliere avesse aveva chiesto alla Cedu di esprimersi sul suo caso, quando la procedura di decadenza era ancora in corso, era arrivato il 7 settembre 2013 alla Giunta per le elezioni e immunità. Nel dossier inviato a Strasburgo l’ex cavaliere sosteneva che c’erano “elementi sufficienti” per affermare che nell’intera vicenda “gli obiettivi politici hanno prevalso sulle ragioni del diritto” o, quanto meno, “ne hanno orientato i percorsi applicativi al deliberato scopo di espungere dal corpo dei rappresentanti il leader di uno dei principali partiti italiani” sottolineando che la volontà di parte del corpo elettorale viene esposta a “pericolose manipolazioni”. Berlusconi sosteneva che fossero stati violati gli articoli 3, 7 e 13 della Convenzione ovvero che non ci può essere pena in assenza di una legge, il diritto a libere elezioni, il diritto a un risarcimento (remedy). Ma a riabilitazione incassata evidentemente non gli interessa più saperlo.
I legali di Berlusconi: "Ricorso ritirato per evitare nuove tensioni sull'Italia". I legali di Berlusconi: "Ricorso ritirato perché una sentenza non avrebbe avuto più effetto. E per evitare nuove tensioni al Paese", scrive Chiara Sarra, Martedì 27/11/2018, su "Il Giornale". La decisione della Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo che ha archiviato il caso di Silvio Berlusconi è arrivata dopo il ritiro del ricorso da parte dei legali del Cavaliere. Una scelta, quella della difesa dell'ex premier, avvenuta dopo la riabilitazione da parte della giustizia italiana e per evitare "nuove tensioni" sull'Italia. "Il presidente Berlusconi a seguito di una ingiusta sentenza di condanna era stato privato, con indebita applicazione retroattiva dalla cosiddetta legge Severino, dei suoi diritti politici con conseguente decadenza dal Senato", hanno detto gli avvocati Franco Coppi, Bruno Nascimbene, Andrea Sacucci e Niccolò Ghedini, "Nell'aprile di quest'anno l'intervenuta riabilitazione ha anticipatamente cancellato gli effetti della predetta legge. La Corte EDU a distanza di quasi 5 anni dalla proposizione del ricorso, a quella data, non aveva ancora provveduto. Ovviamente, così come riconosciuto quest'oggi dalla stessa Corte, non vi era più necessità di proseguire nel ricorso essendo ritornato il presidente Berlusconi nella pienezza dei propri diritti politici. Non vi era dunque più alcun interesse dopo oltre 5 anni di ottenere una decisione che riteniamo sarebbe stata favorevole alle ragioni del presidente Berlusconi ma che non avrebbe avuto alcun effetto concreto o utile, essendo addirittura già terminata la passata legislatura. Una condanna dell'Italia avrebbe altresì comportato ulteriori tensioni nella già più che complessa vita del Paese, circostanza che il presidente Berlusconi ha inteso assolutamente evitare".
SILVIO BERLUSCONI: LA NUOVA FARSA E LA CORTE DI STRASBURGO, scrive Antonio Jr. Orrico il 27 novembre 2018 su Zon. La Corte di Strasburgo ha archiviato il caso Silvio Berlusconi senza una sentenza. Accolta richiesta dell’ex premier di non emettere un giudizio. Non si saprà mai. La Corte Europea dei Diritti Umani ha deciso di “cancellare dal ruolo” il ricorso di Silvio Berlusconi contro la sua incandidabilità per la legge Severino. In questo modo, non si saprà mai se l’ex premier sarà stato vittima o carnefice, dopo la tempesta che lo ha accolto lo scorso 4 Marzo. Strasburgo ha ritenuto che “non vi sia alcuna circostanza speciale riguardante il rispetto dei diritti dell’uomo.” La Grande Camera della Corte ha deciso in via definitiva di accettare la richiesta del Cavaliere, inviata lo scorso 27 Luglio, di non emettere una sentenza sul suo ricorso. Nella lettera inviata dallo stesso Silvio Berlusconi, l’ex premier aveva chiesto espressamente che data la sua riabilitazione, decisa dal tribunale di Milano, una sentenza della Corte di Strasburgo sul suo ricorso non avrebbe avuto alcun risultato utile. Il divieto a presentarsi come candidato era terminato e non poteva esserci alcun modo per rimediare alla decadenza. Il caso è stato radiato dalle liste della Corte di Strasburgo. Attenti, però. Quella che potrebbe sembrare una sorta di vittoria per il Cavaliere potrebbe trasformarsi in un’incredibile sconfitta non pronosticata. Ma non si parla del profilo umano della persona, ma di quello politico.
La riabilitazione. Agli occhi di tutti quanti, la sentenza e la volontà di non procedere nel caso da parte della Corte è sembrata davvero inopportuna. Berlusconi è scampato più e più volte alla giustizia (questa volta compresa) e sembra davvero l’inafferrabile, colui che è stato più volte sul punto di crollare ma che poi si è ripreso. Questo, almeno, in campo giudiziario. Perché la politica racconta tutt’altro. Forza Italia è un partito pressoché inesistente ai fini dello schema italiano, la coalizione di centrodestra (a cui tanto aspira Silvio) ormai non esiste più. Ma, anche se esistesse, non sarebbe certo il magnate di Arcore a comandare. La leadership, nel frattempo, è passata ad un altro uomo, che ha rubato i segreti del mestiere dal suo “mentore” ed è riuscito a scalzarlo dal trono. Stiamo parlando di Matteo Salvini. Ad oggi, Silvio Berlusconi è rimasto nella più completa solitudine, non si può più fidare nemmeno dei suoi stessi colleghi di Forza Italia. Questi ultimi, infatti, stanno abbandonando piano piano la barca, convinti sempre di più che sia la Lega la nuova frontiera dove poter sbarcare il lunario. Dunque, dal punto di vista prettamente politico, il magnate sta continuando a colare a picco sempre di più. E non bastano le solite storie sulla magistratura (Salvini gli ha rubato anche quelle, figurarsi), le solite definizioni gigantografiche, il cambio del “nemico” interno (passato dai “comunisti” ai 5 Stelle). Ad ottant’anni suonati, la riabilitazione di Silvio Berlusconi non sembra più possibile. Son cambiate le logiche di mercato della politica. La gente non è più presa dalla politica presentata come intrattenimento. La gente vuole dei leader sicuri, fermi, dalle quali labbra pendere, che incarnino alla perfezione il prototipo dell’italiano “virile”, coraggioso, prode paladino. E, non ce ne vogliate, ma il “povero” perseguitato dalla giustizia non sembra essere l’ideale. Aggiungiamo anche il fatto che, presi dal giustizialismo dettato dal duopolio di Governo Lega-M5S, agli occhi del pubblico Silvio appare come un vero e proprio “nemico del popolo”. Non è più tempo di fare marchette in pubblico, gli italiani si sono svegliati, il vecchio non attrae più. La logica televisiva della politica degli anni ’90 è quasi scomparsa, c’è stato un ritorno alla propaganda vecchia (quella stile anni ’30/’40, per farla breve) mescolata a mezzi e strumenti nuovi (ovvero i social). Assolto dalla Corte di Strasburgo, ma condannato dal popolo, che è stato il suo migliore amico fino a poco tempo fa. Per Silvio Berlusconi non è più tempo.
Così la sentenza Stato-mafia è un teorema per incolpare il Cav. Ogni evento rimanda a Berlusconi. Che non era imputato, scrive Luca Fazzo, Sabato 21/07/2018, su "Il Giornale". La bellezza di 5.252 pagine scritte in appena novanta giorni (media di quasi 60 al giorno, sabati e domeniche compresi) dal giudice Alfredo Montalto per sancire che lo Stato scese a patti con la mafia: la sentenza del processo di Palermo è un documento colossale, che nessun cronista ha ancora letto per intero, ma il cui obiettivo appare chiaro. Perché gli imputati per la Corte d'assise sono tutti colpevoli (tranne l'ex ministro Mannino) ma ancor più colpevole è un signore che imputato non era, e che si chiama Silvio Berlusconi. È lui il coimputato di pietra, la figura che aleggia su tutte le 5.252 pagine, evocato come terminale e referente ultimo del patto scellerato. Eh sì, perché della presunta trattativa tra Cosa Nostra e pezzi delle istituzioni, avviata secondo i giudici all'epoca del governo di Giuliano Amato, la sentenza non indica alcun vantaggio concreto di cui i mafiosi avrebbero goduto né all'epoca del governo Amato né di quello - succedutogli nell'aprile 1993 - di Carlo Azeglio Ciampi. Il favore postumo ai boss sarebbe stato ovviamente promesso dal governo Berlusconi, salito al potere nel maggio 1994. Fino al dicembre 1994, scrive la sentenza, Marcello Dell'Utri incontrava Vittorio Mangano «per le problematiche relative alle iniziative che i mafiosi si attendevano dal governo». La sentenza, citando il pentito Gaspare Spatuzza, dice che Dell'Utri avrebbe informato Mangano di una imminente modifica legislativa in materia di arresti per mafia. «Ciò dimostra che Dell'Utri informava Berlusconi dei suoi rapporti con i clan anche dopo l'insediamento del governo da lui presieduto, perché solo Berlusconi da premier avrebbe potuto autorizzare un intervento legislativo come quello tentato e riferirne a Dell'Utri per tranquillizzare i suoi interlocutori». Il percorso logico è già di per se piuttosto ardito: si prende per certo ciò che dice lo stragista Spatuzza, e se ne deduce che se Dell'Utri parlava di modifiche legislative il mandante poteva essere solo Berlusconi. Ci si aspetterebbe che a questo teorema inquietante la sentenza indichi un qualche riscontro anche labile, una legge o almeno un disegno di legge, un progetto, una dichiarazione d'intenti, insomma una traccia qualunque che confermi che in quel periodo ben determinato di tempo - tra maggio e dicembre 1994 - il governo abbia almeno ipotizzato un intervento legislativo di alleggerimento sul trattamento dei mafiosi. Invece di quel riscontro non c'è traccia, per il semplice motivo che nulla accadde. Anzi, negli otto mesi del primo governo Berlsconi finiscono in galera cento boss mafiosi. Ed è ancora con Berlusconi al governo, nell'aprile 2006, che viene arrestato Bernardo Provenzano, che la Procura di Palermo indica come il terminale ultimo della trattativa, e che morirà in carcere tredici anni dopo. Un affarone, per i clan, la trattativa con Berlusconi. Spatuzza insomma parla a vanvera, almeno in questo caso. Ma per i giudici palermitani è credibile come lo è l'altro testimone chiave, Giovanni Brusca, il capo del commando di Capaci, che pure in aula ha detto cose senza capo né coda. Ma il capolavoro vero, nella sentenza-kolossal, è quando si teorizza - sfidando ogni logica - che la trattativa abbia causato o almeno anticipato la strage di via D'Amelio e la morte di Paolo Borsellino. Non c'è scritto, nella sentenza, che il vero colpevole della morte di Borsellino è Berlusconi. Ma il concetto è quello.
Il Tempo, la prima pagina epocale per Silvio Berlusconi: adesso basta, il titolo cubitale, scrive il 21 Luglio 2018 Libero Quotidiano”. Una reazione d'orgoglio, nel silenzio generale. "Siamo tutti Berlusconi". Così il Tempo, in prima pagina, titola a caratteri cubitali. Un sostegno al Cav nella settimana più dura, quella che riassume le accuse di 25 anni di fango con il video rubato delle serate con le olgettine e le motivazioni della sentenza sulla trattativa Stato-Mafia pubblicate a poche ore di distanza l'uno dalle altre. "Dalla pedofilia alle stragi - scrive il Tempo -, non se ne può più". Per questo il quotidiano romano smonta punto per punto tutti gli attacchi all'ex premier.
SIAMO TUTTI BERLUSCONI. Dalla pedofilia alle stragi, 25 anni di fango. Ora pure il video con le Olgettine. Non se ne può più nemmeno della Trattativa: Il Tempo smonta le accuse al Cav, scrive Luca Rocca il 21 Luglio 2018 su “Il Tempo”. Non è provato che Marcello Dell’Utri abbia «minacciato» Silvio Berlusconi, però Dell’Utri è ugualmente colpevole perché, ipoteticamente, potrebbe averlo fatto. Sta tutto qui il fallace ragionamento della Corte d’Assise di Palermo che due giorni fa ha depositato le motivazioni alla sentenza del processo sulla «trattativa» Stato-mafia; sta tutto, dunque, nell’ammissione dell’assenza della «prova regina», che pure si tenta di scavalcare con quelle che il giudice Alfredo Montalto chiama «ragioni logico-fattuali». La tesi della procura di Palermo, accolta dai giudici, è chiara: verso la fine del 1993, i boss Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca avrebbero contattato Vittorio Mangano, stalliere di Arcore negli anni ’70, chiedendogli di riferire a Dell’Utri che, se non avessero ottenuto dei benefici di legge, le stragi di mafia sarebbero riprese. E Dell’Utri, processato per «minaccia a Corpo politico dello Stato», stando alle accuse avrebbe recapitato quella minaccia a Silvio Berlusconi, presidente del Consiglio dall’aprile al dicembre del 1994. Ma, come detto, la Corte d’Assise di Palermo è costretta ad ammettere che questo assunto non è dimostrato, tanto da scrivere che «se pure non vi è prova diretta dell’inoltro della minaccia mafiosa da Dell’Utri a Berlusconi, perché solo loro sanno i contenuti dei loro colloqui, ci sono ragioni logico-fattuali che inducono a non dubitare che Dell’Utri abbia riferito a Berlusconi quanto di volta in volta emergeva dai suoi rapporti con l’associazione mafiosa Cosa nostra mediati da Vittorio Mangano». La prova non c’è, dunque, ma non potendosi escludere che da qualche parte ci sia, si condanna ugualmente Dell’Utri a 12 anni di galera. I giudici, poi, sottolineano che la disponibilità dell’ex senatore a porsi come intermediario tra i clan e Berlusconi fornì «le premesse della rinnovazione della minaccia al governo quando, dopo il maggio del 1994, questo sarebbe stato appunto presieduto dallo stesso Berlusconi». In questo senso si ritiene provata, dunque, la teoria della «cinghia di trasmissione» della minaccia di Cosa nostra all’ex premier. Ma davvero quella «filiera» sarebbe dimostrata? I fatti dicono il contrario. Intanto, Brusca ha affermato di aver saputo della permanenza di Mangano ad Arcore, fatto notorio in mezza Sicilia, leggendo l’Espresso. Il pentito, inoltre, ha collocato l’incontro in cui avrebbe chiesto a Mangano di riprendere i rapporti con Dell’Utri nell’aprile del 1994, sostenendo di aver ricevuto una risposta pochi giorni dopo. Peccato che quando si trattò di precisare il momento esatto, lo associò a un furto di vitelli avvenuto a Partinico nel novembre del 1993. In sostanza, a voler dar retta al capo mandamento di San Giuseppe Jato, l’incarico a Mangano di contattare Dell’Utri sarebbe avvenuto nell’aprile del 1994 e la risposta...cinque mesi prima...
L’ardua verità del patto. Il compito più duro per gli storici sarà quello di far quadrare la memoria «politica» di ciò che accadde nel 1992-94 con le incongruenze di quella «giudiziaria», scrive Paolo Mieli il 23 luglio 2018 su "Il Corriere della Sera". Prima di archiviare l’ennesimo giudizio (stavolta di primo grado) sulla trattativa Stato-mafia, è opportuno mettere agli atti qualche considerazione. Fortunati gli storici del futuro i quali, per quel che attiene ai rapporti tra vertici istituzionali italiani e Cosa nostra, avranno a disposizione sentenze, le più varie, al cui interno potranno trovare pezze d’appoggio a qualsiasi congettura li abbia precedentemente affascinati. Ad esser baciati dalla fortuna saranno, beninteso, solo gli storici disinvolti. Per gli altri — quelli seri che non cercano riscontri a ciò che avevano già «intuito» ma, anzi, si impegnano, con metodo, ad individuare elementi di contraddizione con le proprie ipotesi di partenza — saranno dolori. Perché la magistratura, allorché si è occupata di vicende nazional-siciliane, ha da tempo accantonato la terraferma che dovrebbe esserle propria, quella del «sì sì, no no», per immergersi nell’immensa palude del «dico e non dico», delle circonlocuzioni ipotetiche, delle allusioni non esplicite, delle porte né aperte né chiuse, dei verdetti double face. Gli imputati eccellenti in genere sono usciti indenni dai giudizi definitivi. Ma tali giudizi definitivi non lo sono mai per davvero perché, nei tempi successivi ad ogni sentenza, nuovi processi sono tornati (e torneranno) ad occuparsi delle stesse vicende, talché qualche macchia inevitabilmente resterà sugli abiti dei suddetti imputati. Anche nel caso in cui siano stati assolti dall’ultima sentenza prima del loro decesso. Ma il compito più arduo per gli storici sarà quello di far quadrare la memoria «politica» di ciò che accadde tra il 1992 e il 1994 con le incongruenze di quella «giudiziaria». Per la memoria politica si ebbero in quel biennio (allungatosi poi al 1995) due stagioni tra loro assai diverse. La prima — dal ’92 ai primi mesi del ’94, sotto la regia dell’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro — fu in terremotata continuità con la cosiddetta Prima Repubblica e conobbe due capi di governo di sinistra moderata: Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi. È in questo biennio che, mentre la vita parlamentare veniva sconvolta da Tangentopoli, si verificarono i più rilevanti fatti di sangue riconducibili alla mafia: l’uccisione di Falcone e Borsellino (’92), gli attentati di via Fauro a Roma, di via dei Georgofili a Firenze, di via Palestro a Milano oltreché alle basiliche romane di San Giovanni e San Giorgio al Velabro, i quali provocarono complessivamente 15 morti e decine di feriti (’93). Ed è proprio in questo periodo che, stando alla sentenza appena depositata, tre carabinieri di medio-alto rango, Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, con la mediazione dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, avrebbero preso contatto con il vertice di Cosa Nostra (Totò Riina) provocando un’«accelerazione» dell’azione criminosa. A nome di chi si sarebbero mossi Mori, Subranni e De Donno? La sentenza non lo dice in modo esplicito ma lascia intendere che esponenti del governo Ciampi abbiano avallato l’iniziativa dei tre magari, come ha già fatto notare su queste pagine Giovanni Bianconi, senza averne una effettiva «consapevolezza». Sarà arduo per gli storici del futuro dare conto dell’attività di questa nutrita schiera di «inconsapevoli» che da Scalfaro in giù si attivarono per quasi due anni a favorire l’«improvvida iniziativa» di Mori arrivando nell’autunno 1993 a «liberare dal 41 bis», per decisione del ministro della Difesa Giovanni Conso, 334 mafiosi. Mafiosi che forse non erano di primissimo piano ma la cui uscita dal carcere duro fu — secondo i magistrati — un segnale a Cosa nostra dei passi avanti compiuti, appunto, dalla trattativa di cui si è detto. Dopodiché venne una seconda stagione, più breve (otto mesi tra il 1994 e il gennaio ‘95), in cui dominus politico fu Silvio Berlusconi alla sua prima esperienza di governo. Berlusconi, tramite Marcello Dell’Utri, avrebbe proseguito, intensificandola, l’interlocuzione con Cosa nostra avviata dai suoi predecessori. Strano: la memoria politica ci dice che tra Scalfaro e Berlusconi i rapporti furono pessimi e lo stesso discorso vale, anche se con minore intensità, per presidenti del Consiglio e ministri dei governi della legislatura ’92-’94: tutti, nessuno escluso, ostili a Berlusconi e Bossi. Marco Taradash ha fatto notare che l’unico campo in cui — stando alla sentenza — ci sarebbe stata un’assoluta opaca continuità tra la stagione dominata da Scalfaro e quella successiva di Berlusconi sarebbe stato il terreno dei patteggiamenti tra lo Stato italiano e Cosa nostra. Per i giudici questo non è un problema ma per gli storici lo sarà quando dovranno spiegare come mai le due Italie, quella berlusconiana e quella antiberlusconiana, si scontrarono su tutto tranne che sul rapporto con Riina e i suoi successori sul quale l’intesa fu pressoché totale. E come mai queste diaboliche relazioni siano iniziate ai tempi dell’ultimo centrosinistra quando la «discesa in campo» di Berlusconi era (forse) solo nei propositi del padrone della Fininvest. La sentenza lascia intendere — ma è un’interpretazione nostra — che ci sarebbe stato un salto dalla stagione della «inconsapevolezza» a quella della «consapevolezza», quando Berlusconi sarebbe stato informato da Dell’Utri (che aveva nello «stalliere» Vittorio Mangano il trait d’union con Cosa nostra) di ogni passaggio della trattativa, trattativa alla quale avrebbe dato incremento con specifici atti di governo. Prendiamo per buona questa tesi. C’è però un particolare di cui si è accorto Marco Travaglio che è destinato a complicare il lavoro degli storici. Di che si tratta? Procediamo con ordine: nell’estate del ’94 (13 luglio) ci fu il decreto del ministro della Giustizia berlusconiano Alfredo Biondi, che avrebbe dovuto porre un argine agli arresti dei corrotti, ma anche favorire i mafiosi. Quasi tutti i giornali si accorsero della parte che riguardava gli imputati di Mani Pulite talché quel pacchetto di norme fu ribattezzato «decreto salvaladri». Il capo del pool giudiziario milanese, Francesco Saverio Borrelli, fece caso al fatto che il decreto Biondi fosse stato approvato all’unanimità (e subito controfirmato da Scalfaro) mentre ai mondiali di calcio era in corso una partita contro la Bulgaria (vinta dall’Italia): il magistrato ironizzò sulla circostanza che il governo volesse nascondere quel suo atto di considerevole rilievo «dietro un pallone». Subito dopo i pm di Milano Antonio Di Pietro, Piercamillo Davigo, Francesco Greco e Gherardo Colombo protestarono a gran voce e chiesero pubblicamente di essere assegnati «ad altro e diverso incarico». Al che il ministro dell’Interno leghista Roberto Maroni «scoprì» che il testo del dispositivo era diverso da quello approvato in Consiglio dei ministri e nel giro di poche ore Berlusconi fu costretto a ritirare il decreto. Passarono pochi mesi, a fine anno il governo cadde e, con quello che fu definito un «ribaltone», venne sostituito da un nuovo gabinetto guidato da Lamberto Dini, ex titolare berlusconiano del Tesoro, futuro ministro del centrosinistra. Il tutto ancora una volta sotto la regia di Scalfaro. E qui veniamo al punto messo in evidenza dal direttore del Fatto: nel 1995, quella norma del decreto Biondi riguardante i mafiosi (solo quella) fu entusiasticamente votata dalle due Camere ai primi di agosto, quando Scalfaro, dopo aver negato a Berlusconi le elezioni anticipate, aveva ripreso in mano le redini dell’intera politica italiana. E fu approvata, sottolinea Travaglio, «grazie al fondamentale apporto del centrosinistra». E nel silenzio, aggiungiamo noi, di tutta (o quasi) la società civile che si era ribellata al «salvaladri». Tutti di nuovo «inconsapevoli»? Curiosa coda della «trattativa»… È facile per i giudici collocare una tale bizzarra successione di eventi sullo sfondo sfocato della loro ricostruzione. Ma sarà problematico per gli studiosi di storia dar conto in maniera rigorosa e ad un tempo plausibile di come in quei mari in tempesta l’unica imbarcazione che riuscì a navigare tranquilla, trovando sponde compiacenti sia sul versante del centrodestra che su quello antiberlusconiano, sia stata la zattera, non priva di falle, del generale trattativista.
Intervista a Berlusconi: “Le scuse di Merkel e il dolore per il mio amico Dell’Utri”, scrive Paola Sacchi il 23 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". L’ex premier parla al Dubbio: “Salvini è giovane e arriverà anche il suo momento”. E su Renzi: “Ha tagliato con la tradizione comunista, ma ha anche trasformato il Pd in una scatola vuota”. E sul paragone tra Di Maio e Craxi: “E’ offensivo, Bettino era uno statista, Di Maio è un piccolo politicante”.
Presidente Silvio Berlusconi, ritiene la vittoria del centro-destra vicina?
«Tutti i dati in nostro possesso, ma anche le sensazioni che ricavo dai tanti incontri di questi giorni, confermano che siamo avviati a vincere. Comunque, siamo l’unico schieramento che ha la possibilità di raggiungere e superare il 40% dei voti, che consente di avere una maggioranza parlamentare. Sia i Cinque Stelle che a maggior ragione il PD sono lontanissimi da questo risultato. Quindi l’unica alternativa alla nostra vittoria è un parlamento paralizzato e nuove elezioni a breve. Per questo continuo a ripetere che l’unico voto utile è quello per noi. Parafrasando Nenni, potrei ripetere che questa volta la scelta è “o Forza Italia o il caos”. Sono convinto che gli elettori, anche quelli in fuga dal PD, rifletteranno su questo».
In caso di vittoria, qualcuno si chiede come farà a governare con un alleato come la Lega di Matteo Salvini, che si attesta su posizioni più estreme di Forza Italia. Sarà un problema?
«Matteo non è un estremista. Usa il linguaggio che piace alla sua gente, un linguaggio e uno stile che sono evidentemente diversi dai miei. Ma sulle cose è un interlocutore serio, concreto e ragionevole. Con la Lega governiamo insieme, con ottimi risultati, alcune delle maggiori regioni italiane, abbiamo governato il Paese per molti anni, e non c’è mai stato nessun problema di sintonia».
Lei, Presidente, vuole un centro-destra guidato dalla componente moderata e liberale, rappresentata appunto dal partito azzurro. A quale soglia di consensi realisticamente pensa di arrivare per raggiungere questo obiettivo?
«Non mi pongo limiti, ma sono certo che possiamo superare il 20% e puntare al 25%. Gli ultimi giorni sono quelli nei quali molti elettori decidono. Mi rivolgo soprattutto a loro, agli incerti e ai delusi: votare per noi non è soltanto un atto di fede politica, significa anche votare per i loro legittimi interessi concreti. Meno tasse, meno burocrazia, più sicurezza, più lavoro. Siamo gli unici a poterli garantire, ad avere programmi seri e credibili, incentrati sulla riforma fiscale, la flat tax che in tanti Paesi del mondo, da Hong Kong alla Federazione Russa ha garantito non soltanto un alleggerimento della pressione fiscale ma una crescita straordinaria. Il nostro programma – vorrei ricordarlo – ha come priorità il lavoro per i giovani, lo sviluppo del sud, la garanzia di pensioni adeguate agli anziani, almeno 1000 euro al mese per 13 mensilità, il reddito di dignità per i 15 milioni di italiani che sono sotto la soglia di povertà. Voglio restituire una speranza agli italiani scettici e delusi. Credo di avere la competenza e l’esperienza, non solo politica, necessaria per poterlo garantire».
Salvini, che si presenta in virtù del Rosatellum, candidato premier del Carroccio, riuscirà mai a coronare il suo sogno?
«Se prendesse un voto più di noi, lo sosterremmo con piena lealtà. Ma questo stavolta non accadrà. Però Matteo è giovane, verrà anche il suo momento, ne sono certo».
Dopo i tragici fatti di Macerata, Forza Italia è parsa inseguire il leader leghista per non lasciare a lui mano libera sull’immigrazione. Ma non si rischia così di perdere gli elettori moderati, il cosiddetto centro che potrebbe spaventarsi per certi toni?
«Guardi che io non inseguo proprio nessuno. Trovo sbagliato ridurre a una questione di tattica politica o di calcolo elettorale un problema che invece è di drammatica gravità. I fatti di Macerata hanno avuto se non altro l’effetto di mettere tutti di fronte alla realtà: l’invasione di 600.000 clandestini è una bomba ad orologeria che i governi della sinistra hanno permesso venisse collocata in mezzo a noi. La necessità che siano rimpatriati mi pare così evidente che mi stupisco che qualcuno non sia d’accordo. E’ una questione di rispetto della legalità ma anche di buon senso. Come possiamo immaginare di tenere in mezzo a noi la popolazione di una città grande come Genova o Palermo, fatta esclusivamente di persone disperate, ai margini della legge, costrette a vivere di espedienti o di reati? L’Italia non è un Paese razzista, lo sparatore di Macerata è un folle isolato, ma se non facciamo nulla prima o poi le tensioni sociali esploderanno. La sinistra non se ne vuole rendere conto, e in questo si dimostra irresponsabile».
Lei si pone come l’argine vero contro “il pericolo” dei Cinque Stelle, giudicando il Pd “fuori gioco”. Perché questa impostazione?
«Lo dicono i numeri, ma anche lo scenario politico non solo italiano ma europeo. In tutto il nostro continente la sfida è fra ribellisti, pauperisti, giustizialisti, siano essi di destra o di sinistra, e i moderati, i liberali, i cristiani, le forze politiche espressione della grande famiglia del PPE. Nei giorni scorsi in Germania è uscito un sondaggio con un dato che considero epocale: per la prima volta dal dopoguerra i socialdemocratici non sono più il secondo partito tedesco. Sono stati superati dalla destra populista di Alternative für Deutschland. Per fortuna la CDU della signora Merkel tiene ed anzi guadagna consensi. Il fatto è che la sinistra, al di là degli errori o delle qualità dei singoli leader, non ha più una proposta credibile, un progetto per il 21° secolo. Sono rimasti legati alle vecchie ricette, già fallite nel ‘900, dello statalismo, dell’assistenzialismo, del fiscalismo esagerato. Il futuro della politica non è più lì. E’ nell’alternativa fra la cultura liberale di governo, e il ribellismo che nasce dal malessere sociale. La grande sfida delle classi dirigenti liberali è dare a quel malessere, che è economico ma anche espressione di una più generale sfiducia nel futuro, una risposta convincente prima che sia troppo tardi».
I più maliziosi pensano a un patto di non belligeranza tra Lei e Matteo Renzi per non precludersi la strada alle larghe intese, se dalle urne non uscirà un vero vincitore. È così?
«Credo che una delle pochissime cose sulle quali Renzi ed io siamo d’accordo sia nell’escludere questa ipotesi.
Lei si è detto contrario alla stessa parola “inciucio” perché non definirebbe mai così la Grande Coalizione tedesca. A Giorgia Meloni la cosa non è piaciuta. Come si spiega che in Italia sia entrato in voga questo termine?
«L’Italia e la Germania hanno storie e condizioni politiche molto differenti. In Germania i maggiori partiti hanno in comune una visione responsabile dell’interesse nazionale ed europeo. In Italia purtroppo questo denominatore comune, questa visione di fondo condivisa non esiste. E’ uno dei limiti della democrazia italiana, ma è un dato di fatto. Per questo in Germania la Große Koalition è un’operazione di grande dignità politica, mentre in Italia sarebbe un accordo di potere paralizzante, insomma quello che viene chiamato un inciucio (ma è un termine dalemiano, che non mi piace). Rimane comunque il fatto che io preferisco la democrazia dell’alternanza a qualsiasi altra formula, e ritengo che, anche per la Germania, la Große Koalition sia solo una soluzione di emergenza, indicativa di una fase di difficoltà del processo politico».
E’ stato ricevuto dai vertici del Ppe a Bruxelles, che guardano a Lei come garanzia di stabilità. Si è preso una rivincita sulla signora Merkel dopo i famosi risolini tra la Cancelliera e Sarkozy?
«Guardi, quell’episodio è stato una spiacevole e imbarazzante trappola orchestrata dal Presidente Francese, in quel momento molto ostile all’Italia per la questione libica, nella quale la signora Merkel si è trovata coinvolta suo malgrado e in forte imbarazzo. E per quell’episodio mi ha chiesto formalmente scusa. Quell’episodio non ha certo compromesso i nostri eccellenti rapporti, esattamente come non li hanno scalfiti le volgarità che sono inventate da alcuni giornali. Non avevo bisogno di rivincite, la stima reciproca non è mai venuta meno, da parte mia considero Angela Merkel uno dei pochi statisti di quest’epoca difficile, e lei ha sempre rispettato le nostre posizioni, anche quando ho dovuto difendere con forza l’interesse nazionale italiano o perseguire dei risultati sui quali non c’era accordo: penso alla nomina di Mario Draghi alla guida della BCE, ottenuta dal mio governo contro il parere della Germania».
Conferma che se il centro-destra non dovesse farcela, bisognerebbe andare a un nuovo voto, però dopo aver cambiato la legge elettorale e che quindi per questo lasso di tempo dovrebbe restare in carica il governo Gentiloni?
«Confermo che in questa ipotesi, che però considero irrealistica, bisognerebbe andare di nuovo al voto. Il fatto che rimanga in carica Gentiloni per il disbrigo degli “affari correnti”, in quel caso non è un mio auspicio né un’indicazione politica, è una prassi costituzionale che non ha alternative. Fino a quando non c’è una maggioranza per fare un nuovo governo, rimane in carica quello vecchio. Quanto alla possibilità di cambiare la legge elettorale, mi sembra molto difficile: in questo parlamento abbiamo raggiungo il migliore compromesso possibile fra le visioni delle diverse forze politiche. Non vedo come nel prossimo, per di più in assenza di una maggioranza, si potrebbe fare di meglio. In ogni caso, prima di parlare di cambiamenti alla legge elettorale, forse è il caso di provarla e di vedere come funziona, anche perché non fa bene alla democrazia cambiare le leggi elettorali troppo spesso».
Antonio Tajani, Presidente del Parlamento Europeo e tra i fondatori di Forza Italia, come candidato Premier sarebbe per Lei “una scelta ottima”. Ma ha anche aggiunto che ci sono altri. Chi sono?
«In effetti Antonio Tajani, uno dei fondatori con me di Forza Italia, sarebbe un premier di grande livello, stimato ovunque in Europa e nel mondo. Questa però è una constatazione, non una proposta né un’indicazione. Non risponderò a domande come questa fino a quando non avremo preso una decisione definitiva. Però vorrei chiarire una cosa: chiunque sceglieremo sarò comunque io il garante politico dei nostri impegni verso gli elettori, e verso i nostri partner nel mondo, anche se una sentenza politica e infame mi impedisce di avere ruoli pubblici. Questa è la ragione per la quale sulle schede elettorali c’è il mio nome. A proposito, posso ricordare ai lettori che questa volta votare è semplicissimo? Basta mettere un segno sul simbolo del partito prescelto, naturalmente Forza Italia, e il voto varrà sia per il candidato della parte uninominale che per i candidati di quella proporzionale. Ogni altro segno sulla scheda potrebbe disperdere o annullare il voto».
Tra poco, il 27 marzo, sarà l’anniversario della sua prima vittoria di 24 anni fa. Tra i suoi principali avversari ci sono stati Achille Occhetto che sconfisse nel ’94 e poi Massimo D’Alema con il quale fece anche la Bicamerale. Che differenza vede tra gli ex comunisti di allora e Renzi?
«La differenza sta proprio nel fatto che quei leader erano comunisti, erano cresciuti con le idee comuniste, erano stati formati dal Partito Comunista. D’Alema come è noto tenne il suo primo discorso pubblico davanti a Togliatti, che espresse profondo apprezzamento. Renzi rappresenta, non solo generazionalmente ma anche culturalmente, una profonda cesura rispetto a quella storia. Non per caso, le sue prime foto note lo ritraggono sorridente con Ciriaco De Mita. Questa rottura con il passato è certamente un merito di Renzi: però il PD, tagliate quelle radici, è rimasto una scatola vuota, senz’anima, senza valori, senza altra funzione che un esercizio del potere fine a sé stesso. Un esercizio che si è rivelato sterile, tanto è vero che oggi il voto a quel partito è sostanzialmente sprecato».
Intanto, l’ex senatore Marcello Dell’Utri, sebbene sia gravemente malato, continua a restare in carcere. Come si spiega questo accanimento che “Il Dubbio” è stato in prima fila nel denunciare?
«Mi levo il cappello di fronte al coraggio e all’onestà intellettuale del “Dubbio” e del suo direttore che – da nostro avversario politico – ha dimostrato, in questa come in altre vicende, di avere a cuore i principi dello stato di diritto prima che l’interesse di parte. La vicenda di Dell’Utri mi fa stare fisicamente male ogni giorno, perché è un mio amico che subisce questo trattamento per il solo fatto di essere mio amico».
Cosa pensa di questo paragone giudicato un po’ shock che Renzi ha fatto tra Craxi e Di Maio a proposito della vicenda cosiddetta “rimborsopoli” dei Cinque Stelle, seppur ci sia stata poi una precisazione?
«Che è profondamente offensivo per la memoria di Bettino: Craxi era uno statista, Di Maio è un piccolo politicante».
L’Espresso rilancia il suo incubo preferito: aiuto! Berlusconi può vincere, scriveva Lisa Turri già domenica 9 aprile 2017 su "Primato Nazionale". “Caimano is back”… L’Espresso lancia l’allarme, riportando Silvio Berlusconi in copertina e avanzando profezie sul futuro del centrodestra – “Rieccolo, perché Berlusconi può vincere ancora” – in grado di evocare ancora una volta il “nemico di sempre”, l’uomo di Arcore, l’unico in grado tuttavia di rompere lo schema binario Pd-M5S. Sono vari i fattori che giocano a favore di Berlusconi, ma il più eclatante è sicuramente la divisione a sinistra. Un altro fattore importante è costituito dal fatto che troppo spesso l’uscita di scena di Silvio Berlusconi è stata data per definitiva sbagliando le previsioni. Così, ricorda L’Espresso, avvenne nel 2014, quando il Cavaliere decaduto e condannato rientra il gioco con il Patto del Nazareno. E l’anno dopo la scelta di Renzi per il Quirinale, non concordata con Berlusconi, si rivela come l’inizio della parabola discendente dell’ex premier. E ora? Adesso, si legge in un altro servizio del settimanale, “vecchi alleati ed ex delfini fuggiti altrove” sembrano in preda a “crisi di nostalgia”. Mentre c’è alle porte la prova amministrativa di Genova, dove Marco Bucci, il chirurgo sostenuto da Lega, FI, FdI, Fitto e Lupi, potrebbe vincere approfittando dello sconcerto della base Cinquestelle dopo il siluramento della candidata scelta online, Marika Cassimatis. La caduta della roccaforte di Genova potrebbe rappresentare il colpo fatale per la sinistra. E allora davvero le chance del centrodestra apparirebbero solide e non trascurabili.
B. “delinquente naturale” che si compra tutti, scrive Marco Travaglio il 2 marzo 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Ecco un riepilogo sintetico delle principali sentenze su Silvio Berlusconi, più ampiamente raccontate nel libro “B. come basta!” (ed. PaperFirst).
Bugie sulla P2 (falsa testimonianza). Nel 1988, nel processo di Verona nato dalla sua querela ai recensori del libro Inchiesta sul Signor Tv di Ruggeri e Guarino, B. dichiara: “Non ricordo la data esatta della mia iscrizione alla P2, ricordo comunque che è di poco anteriore allo scandalo… Non ho mai pagato una quota di iscrizione, né mai mi è stata richiesta”. Ma lo scandalo è del 1981 e la sua iscrizione del 26.1.1978, con pagamento della quota associativa di 100 mila lire. Così, da parte lesa, B. diventa imputato per falsa testimonianza. La Corte d’Appello di Venezia, nel 1990, sentenzia: “Ritiene il Collegio che le dichiarazioni dell’imputato non rispondano a verità … smentite dalle risultanze della commissione Anselmi e dalle stesse dichiarazioni rese del prevenuto avanti al giudice istruttore di Milano, e mai contestate… Ne consegue che il Berlusconi ha dichiarato il falso”, rilasciato “dichiarazioni menzognere e compiutamente realizzato gli estremi obiettivi e subiettivi del delitto di falsa testimonianza”. Ma “il reato va dichiarato estinto per intervenuta amnistia” (del 1990).
Tangenti alla Guardia di Finanza (corruzione). Condannato per corruzione in primo grado per quattro tangenti a 12 ufficiali delle Fiamme Gialle, poi prescritto in appello per tre mazzette e assolto per insufficienza di prove sulla quarta, nel 2001 B. viene assolto in Cassazione per insufficienza di prove per tutti e quattro gli episodi, mentre i manager Fininvest e i finanzieri vengono tutti condannati. Per la Suprema Corte non si è riusciti a sciogliere il nodo di chi fra Silvio e Paolo B. autorizzò le mazzette. Ma è dimostrata la “predisposizione della Fininvest” a corrompere la Gdf, cioè a “gestire in modo programmato le situazioni oggetto di causa, anche con la formazione di fondi per pagamenti extrabilancio” comprando “la deliberata sommarietà e compiacenza delle verifiche fiscali” con “consistenti dazioni” e “favori”.
All Iberian-1 (finanziamento illecito ai partiti). Condannato in Tribunale insieme a Bettino Craxi per avergli versato nel 1991 estero su estero (in Svizzera) dai conti All Iberian mazzette per 23 miliardi di lire, B. si salva col suo complice in appello per prescrizione. Ricorre in Cassazione per essere assolto, ma la Suprema Corte nel 2000 conferma: è un colpevole che l’ha fatta franca. “Le operazioni societarie e finanziarie prodromiche ai finanziamenti estero su estero dal conto intestato alla All Iberian al conto Northern Holding (uno dei tre di Craxi in Svizzera, ndr) furono realizzate in Italia dai vertici del gruppo Fininvest Spa, con il rilevante concorso di Silvio Berlusconi quale proprietario e presidente” e da altri manager del gruppo. Dunque niente assoluzione. “Non emerge negli atti processuali l’estraneità dell’imputato”. Infatti è condannato a pagare le spese di giudizio.
All Iberian-2 (falso in bilancio). B. è imputato per centinaia di miliardi di lire di fondi neri nascosti ai bilanci Fininvest, accantonati all’estero nelle società offshore della tesoreria occulta All Iberian e usati negli anni 80-90 per fini inconfessabili: corrompere politici (come Craxi), giudici romani, prestanome (in Tele+ e Telecinco), scalare occultamente società (da Standa a Mondadori) in barba alle leggi e ai controlli di Borsa. Nel 2005 il Tribunale lo assolve con i suoi manager perché “il fatto non è più previsto dalla legge come reato” (l’ha depenalizzato lui nel 2001 con la riforma del falso in bilancio).
Medusa Cinema (falso in bilancio). Condannato per 10 miliardi di lire di fondi neri ricavati dalla compravendita della casa di produzione Medusa e nascosti su libretti al portatore intestati a prestanome, B. viene assolto in appello e in Cassazione per insufficienza di prove. Condannato invece il manager Carlo Bernasconi che gestì materialmente l’operazione. Motivo: “La molteplicità dei libretti riconducibili alla famiglia Berlusconi e le notorie rilevanti dimensioni del patrimonio di Berlusconi postulano l’impossibilità di conoscenza sia dell’incremento sia soprattutto dell’origine dello stesso”. Troppo ricco per accorgersi che il suo uomo gli ha versato 10 miliardi.
Terreni di Macherio (appropriazione indebita, frode fiscale e falso in bilancio). B. è imputato per 4,4 miliardi di lire pagati in nero all’ex proprietario dei terreni della villa di Macherio, dove vivono la moglie Veronica e i tre figli di secondo letto. In Tribunale è assolto dall’appropriazione indebita e dalla frode fiscale e prescritto per i falsi in bilancio di due società a cui “indubbiamente ha concorso”. In appello è assolto anche sul primo falso in bilancio, mentre il secondo rimane, ma è coperto dall’amnistia del 1990.
Caso Lentini (falso in bilancio). L’accusa riguarda 10 miliardi versati in nero dal Milan al Torino per l’acquisto del giocatore Gianluigi Lentini. I fatti sono tutti straprovati, ma B. (presidente del Milan) e il suo vice Adriano Galliani si salvano in Tribunale per prescrizione, grazie alle attenuanti generiche e alla riduzione dei termini introdotta dalla legge B. sul falso in bilancio.
Bilanci Fininvest 1988-92 (falso in bilancio e appropriazione indebita). B., il fratello Paolo e vari manager sono indagati per aver falsificato i bilanci Fininvest dal 1988 al ’92 per i fondi neri creati con l’acquisto a prezzi gonfiati di film tramite società offshore. Nel 2004 sono tutti archiviati dal gup per la solita prescrizione, grazie anche ai termini abbreviati dalla legge B. sul falso in bilancio.
Consolidato Fininvest (falso in bilancio). Nel 2003 il Gup dichiara prescritti, sempre grazie alle nuove regole sul falso in bilancio, i presunti fondi neri per circa 1.500 miliardi di lire accantonati da B. e dai 25 suoi coimputati su 64 società del “comparto B” della Fininvest, sconosciute al bilancio consolidato. Motivo: “La lettura degli atti… non permette certo di ritenere palese e chiara l’estraneità dei soggetti” ai reati. I legali ricorrono in Cassazione, reclamando un’assoluzione nel merito. Ma nel 2004 la Suprema Corte la nega: i reati sono estinti “in base alla nuova legge sul falso in bilancio” imposta dall’imputato principale.
Lodo Mondadori (corruzione giudiziaria). B. è imputato insieme ai suoi avvocati Cesare Previti, Giovanni Acampora, Attilio Pacifico e al giudice Vittorio Metta per la sentenza comprata, firmata da quest’ultimo nel 1991, che ribaltava il lodo Mondadori e sfilava il primo gruppo editoriale italiano a Carlo De Benedetti per regalarlo al Cavaliere. Ribaltando il proscioglimento per insufficienza di prove deciso dal gup, la Corte d’appello di Milano rinvia a giudizio tutti gli imputati per corruzione giudiziaria, tranne uno: B., che beneficia della prescrizione grazie alle solite attenuanti generiche (che ne dimezzano il termine) e alla derubricazione del reato (per lui solo) da corruzione giudiziaria a corruzione semplice. I suoi tre avvocati corruttori e il giudice corrotto verranno condannati fino in Cassazione. I giudici accerteranno che Metta fu corrotto con 400 milioni in contanti provenienti dai fondi neri Fininvest-All Iberian e versati dai tre avvocati “nell’interesse e su incarico del corruttore”, cioè del “privato interessato”, cioè di B., che puntava al “controllo di noti e influenti mezzi di informazione”. Ed è rimasto impunito, almeno penalmente. Nella causa civile, nel 2013 dovrà risarcire De Benedetti con 540 milioni.
Sme-Ariosto (corruzione e falso in bilancio). I processi per le tangenti al capo dei gip romani Renato Squillante, pagate dai soliti avvocati con fondi neri Fininvest, finiscono in un nulla di fatto. Previti, Pacifico, Acampora e Squillante vengono condannati in primo grado e in appello. Ma la Cassazione manda gli atti per competenza al Tribunale di Perugia perché riparta da zero, quando ormai è scattata la prescrizione. B. invece, processato separatamente, viene in parte assolto e in parte prescritto (solite attenuanti generiche). In appello scatta l’assoluzione totale per insufficienza di prove, confermata nel 2007 dalla Cassazione. Per i relativi falsi in bilancio dal 1986 al 1989, il Tribunale lo assolve nel 2008 perché “il fatto non è più previsto dalla legge come reato”. L’ha depenalizzato l’imputato.
Mazzette a Mills (corruzione giudiziaria del testimone). Il processo riguarda la tangente da 600 mila dollari versata nel 1999-2000 da Carlo Bernasconi (defunto) per conto di Silvio B. all’avvocato inglese David Mills, ex consulente delle società estere Fininvest, in cambio delle sue testimonianze false o reticenti nei processi Guardia di Finanza e All Iberian. Reato confessato dallo stesso Mills in una lettera al suo commercialista Bob Drennan: “La mia testimonianza aveva tenuto Mr B. fuori da un mare di guai in cui l’avrei gettato se solo avessi detto tutto quello che sapevo. Alla fine del 1999 mi fu detto che avrei ricevuto dei soldi… 600.000 dollari furono messi in un hedge fund… a mia disposizione”. Mills viene condannato in primo e secondo grado, poi in Cassazione si salva per prescrizione, anche se deve risarcire il governo italiano con 250 mila euro; e anche se i giudici scrivono che fu corrotto “nell’interesse di Silvio Berlusconi”. Invece B., grazie alle meline dei suoi avvocati e alla lentezza dei giudici di Milano, si salva nel 2012 per prescrizione già in Tribunale. Due prescrizioni, la sua e quella di Mills, propiziate dalla legge ex-Cirielli del governo B., che ne ha ridotto i termini.
Diritti Mediaset (falso in bilancio, frode fiscale, appropriazione indebita). L’inchiesta sui fondi neri accumulati da B. gonfiando i costi dei film acquistati da Mediaset presso le major americane, con vari passaggi su una miriade di società offshore nei paradisi fiscali, accerta una mega-frode per 368,5 milioni di dollari. Poi gli ostruzionismi degli avvocati, le leggi blocca-processi varate dall’imputato e l’ex Cirielli taglia-prescrizione fanno evaporare in dibattimento le appropriazioni indebite, i falsi in bilancio e quasi tutte le frodi fiscali, lasciando in piedi soltanto quelle del 2002-2003 per 7,3 milioni. B. viene condannato in tutti e tre i gradi di giudizio a 4 anni di carcere (di cui 3 indultati) e interdetto dai pubblici uffici per 2. Il Tribunale di Milano lo descrive come un delinquente naturale, con una “naturale capacità a delinquere”. La Cassazione nel 2013 lo definisce “ideatore” e “beneficiario” del sistema fraudolento: “Il sistema organizzato da Silvio Berlusconi ha permesso di mantenere e alimentare illecitamente disponibilità patrimoniali estere, conti correnti intestati ad altre società che erano a loro volta intestate a fiduciarie di Berlusconi”. Anche dopo l’entrata in politica: “Tutti i suoi fidati collaboratori ma anche correi” furono “mantenuti nelle posizioni cruciali anche dopo la dismissione delle cariche sociali da parte di Berlusconi e in continuativo contatto diretto con lui… in modo da consentire la perdurante lievitazione dei costi di Mediaset a fini di evasione fiscale”. Così Mediaset pagò per anni e anni i film molto più di quanto costassero, per alimentare i fondi neri dell’utilizzatore finale. Che non esitò a truffare lo Stato e la sua società (quotata in Borsa dal 1996) per metterseli in tasca.
Telefonata Fassino-Consorte (rivelazione di segreto d’ufficio). B. viene condannato in Tribunale a 1 anno (e suo fratello Paolo a 2 anni e 3 mesi) e poi salvato dalla prescrizione in appello per la telefonata segretata e mai trascritta dai pm di Milano tra il patron di Unipol Giovanni Consorte e il segretario Ds Piero Fassino (“Allora, abbiamo una banca?”), intercettata nel 2005 durante la scalata alla Bnl e pubblicata dal Giornale il 1° gennaio 2006, in piena campagna elettorale. A rubarla e portarla al premier nella villa di Arcore alla vigilia di Natale 2005 fu un dipendente infedele della società che realizzava gli ascolti per la Procura. B. ricorre in Cassazione per essere assolto nel merito, ma nel 2015 viene respinto con perdite perché è colpevole: “Il Tribunale prima e la Corte d’Appello poi, con motivazione ineccepibile, hanno ritenuto accertato che Silvio Berlusconi nell’incontro di Arcore abbia ascoltato la registrazione audio e abbia, anche col suo atteggiamento compiaciuto e riconoscente, dato il suo placet alla pubblicazione del colloquio intercettato… Berlusconi, chiamato a decidere dopo avere ascoltato la registrazione coperta da segreto, ha sostanzialmente dato il via, con il solo assenso e con il suo beneplacito, alla pubblicazione della notizia, rendendosi responsabile di concorso nel delitto di rivelazione di segreto di ufficio”.
Scandalo Ruby (concussione e prostituzione minorile). B. è imputato per concussione (telefonò al capo di gabinetto della Questura di Milano Pietro Ostuni per far rilasciare la minorenne marocchina Karima el Mahroug in arte Ruby, fermata per furto, nelle mani di Nicole Minetti e di un’altra prostituta, raccontando che era nipote di Mubarak e si rischiava l’incidente diplomatico con l’Egitto) e prostituzione minorile (sesso in cambio di denaro con Ruby nei festini del “bunga bunga” ad Arcore). Il Tribunale lo condanna a 7 anni, ma in appello scatta l’assoluzione. La concussione è stata riformata, in pieno processo, dalla legge Severino: senza violenza o minaccia, è “induzione indebita” ed è punibile solo se anche l’indotto ha ricavato “vantaggi indebiti” e Ostuni non ne ha avuti. Quanto alla prostituzione minorile, non ci sono prove sufficienti che sapesse della minore età di Ruby, che sul punto ha detto tutto e il contrario di tutto, mentre le altre “Olgettine” (tutte sul libro paga dell’allora premier) hanno sempre negato. La Cassazione nel 2015 conferma la sentenza d’appello anche dove afferma che B. “abusò della sua qualità di presidente del Consiglio”, ma l’abuso di potere “non è sufficiente a integrare il reato” di concussione, senza la “costrizione” del funzionario e il “vantaggio patrimoniale” del premier. È pure “acquisita la prova certa che presso la residenza di Arcore di Silvio Berlusconi e nell’arco temporale… 14 febbraio-2 maggio 2010 vi fu esercizio di attività prostitutiva che coinvolse anche Karima el Mahroug”. Altro che “cene eleganti”: erano “serate disinvolte e spregiudicate”. Ma, per legge, il cliente di prostitute è punibile se queste non sono minorenni o non c’è prova che lui sappia che lo sono. Il processo Ruby ter ci dirà se quella prova fu negata ai giudici da testimoni corrotti (e soprattutto corrotte).
Compravendita del senatore (corruzione). Sergio De Gregorio, eletto nel 2006 senatore dell’IdV e subito passato a FI, sottraendo un voto alla risicatissima maggioranza del Prodi-2, confessa di essere stato corrotto da Berlusconi con 3 milioni di euro: 1 via bonifico alla sua associazione Italiani nel Mondo, 2 cash in nero tramite il faccendiere Valter Lavitola. Il Tribunale di Napoli condanna B. a 3 anni, poi nel 2017 scatta la solita prescrizione in appello. Ma i giudici confermano definitivamente che B. è un corruttore impunito: “L’iniziativa dell’offerta e della promessa del denaro è stata presa da Berlusconi e non da De Gregorio. L’incontro delle loro volontà è stato senza dubbio libero e consapevole… Berlusconi ha, pacificamente, agito come privato corruttore e non certo come parlamentare nell’esercizio delle sue funzioni” per far scatenare a De Gregorio “la guerriglia urbana” in Parlamento che, a lungo andare, provocò la caduta di Prodi. “Le dazioni di denaro effettuate da Berlusconi, tramite Lavitola, a De Gregorio sono state effettuate quale corrispettivo della messa a disposizione del senatore e, quindi, della sua rinuncia a determinarsi liberamente nelle attività parlamentari di sua competenza e non certo come mero finanziamento al movimento Italiani nel Mondo”. Conclusione: “È del tutto pacifico che Berlusconi abbia agito con assoluta coscienza e volontà di corrompere un senatore della Repubblica”. Marco Travaglio 2 marzo 2018
Silvio Berlusconi e la mafia: vent'anni di soldi in nero (ma nessuno ne parla). Le verità scomode sul leader di Forza Italia: dal patto con i boss per assumere ad Arcore il mafioso Vittorio Mangano, al lavoro sporco di Marcello Dell’Utri, condannato perché portava a Cosa Nostra le buste di denaro di Silvio, ogni sei mesi, dal 1974 al 1992. Fatti comprovati e accertati in tutti i gradi di giudizio, ma ignorati nella campagna elettorale, scrive Paolo Biondani il 23 febbraio 2018 su "L'Espresso". C’è una storia di mafia e potere di cui in questa campagna elettorale si parla pochissimo, anche se riguarda il leader politico indicato dai sondaggi come il più probabile vincitore del voto di domenica 4 marzo. E' la storia di mafia, soldi in nero, ricatti, bombe e bugie raccontata nel processo che è costato una condanna definitiva a Marcello Dell’Utri. Dichiarato colpevole di aver fatto da mediatore, tesoriere e garante di un patto inconfessabile tra Silvio Berlusconi e Cosa nostra. Un patto con la mafia durato quasi vent’anni.
Il caso Dell'Utri è una vicenda cruciale nella biografia del miliardario imprenditore milanese. Dell’Utri è amico da una vita di Berlusconi ed è stato il suo braccio destro negli affari fin dagli anni Settanta, prima nell’edilizia, poi nella pubblicità televisiva. Tra il 1993 e il 1994 è lui che ha creato e organizzato in pochi mesi Forza Italia, il partito-azienda con cui Berlusconi ha conquistato anche il potere politico. Qui pubblichiamo un'ampia sintesi del caso Dell'Utri, estratta dalla nuova edizione del libro “Il Cavaliere Nero, la vera storia di Silvio Berlusconi”, scritto da un giornalista de L'Espresso, Paolo Biondani, con il collega Carlo Porcedda, per l'editore Chiarelettere. Un libro che si caratterizza, tra i tanti saggi sul leader di Forza Italia, perché racconta solo i fatti che risultano verificati, comprovati e accertati in tutti i gradi di giudizio, nei processi che hanno portato alle condanne definitive di Dell'Utri per mafia, a Palermo, e di Berlusconi per frode fiscale, a Milano, con la sentenza del primo agosto 2013 che lo ha reso incandidabile.
IL PROCESSO E LA CONDANNA DEFINITIVA DI DELL'UTRI. Marcello Dell’Utri è stato condannato per «concorso esterno» in associazione mafiosa. Non gli si imputa di essere entrato in Cosa nostra con il rituale giuramento di affiliazione, né di essere diventato un «uomo d’onore» di una specifica «famiglia» mafiosa. L’accusa è di aver fornito dall’esterno un sostegno consapevole, determinato, stabile, rilevante, ma nel suo caso strettamente economico, in grado di favorire quell’organizzazione criminale che per decenni ha dominato con il sangue la Sicilia e condizionato l’Italia. È una forma di complicità indiretta, teorizzata per la prima volta dai giudici dello storico pool antimafia di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (…). Dell’Utri viene rinviato a giudizio a Palermo il 19 maggio 1997, quando è parlamentare di Forza Italia già da tre anni. Con lui finisce a processo un presunto complice, Gaetano Cinà, morto prima del verdetto definitivo della Cassazione. Il processo, lentissimo, è segnato da udienze rinviate per scioperi degli avvocati, assenze o malattie di testimoni o per non interferire con gli impegni politici di Dell’Utri. La sentenza di primo grado viene emessa l’11 dicembre 2004, dopo circa 300 udienze: il Tribunale di Palermo condanna Dell’Utri a nove anni di reclusione, giudicandolo complice esterno di Cosa nostra «da epoca imprecisata, e sicuramente dai primi anni Settanta, fino al 1998». Nel primo processo d’appello la condanna per mafia viene confermata, ma solo per il periodo 1974-1992. Per gli anni successivi i giudici di secondo grado decretano un’assoluzione per insufficienza di prove: i rapporti tra Dell’Utri, Berlusconi e Cosa nostra si possono considerare certi, «al di là di ogni ragionevole dubbio», solo fino all’anno delle stragi di Capaci e via d’Amelio. La pena è ridotta a sette anni di reclusione. La successiva Cassazione riconferma la piena colpevolezza di Dell’Utri per il periodo 1974-1978, considera provati i suoi rapporti con gli esattori della mafia anche nel successivo decennio 1982-1992, ma impone di riesaminare e approfondire, in un nuovo giudizio d’appello, cosa era successo tra il 1978 e il 1982, quando il manager aveva lasciato le aziende di Berlusconi per andare a lavorare con l’immobiliarista siciliano Filippo Alberto Rapisarda. Nell’appello-bis la nuova corte riapre la questione Rapisarda e rivaluta tutti gli altri dubbi sollevati dalla difesa. Anche questo terzo verdetto di merito ribadisce la colpevolezza di Dell’Utri, che risulta pienamente provata per l’intero periodo 1974-1992, e lo ricondanna a sette anni di reclusione. La Cassazione approva e rende definitiva la condanna il 9 maggio 2014, ma intanto Dell’Utri è scappato all’estero. La Procura di Palermo accerta che nel frattempo ha venduto una villa a Berlusconi incassando 21 milioni di euro, per metà trasferiti a Santo Domingo. Dell’Utri, dopo una breve latitanza, viene arrestato in Libano ed estradato in Italia, dove il 13 giugno 2014 entra in carcere per scontare la sua seconda condanna definitiva. La prima gli era stata inflitta negli anni di Tangentopoli come tesoriere dei fondi neri di Publitalia, la cassaforte pubblicitaria dell’impero Fininvest, da lui utilizzati anche per pagare consulenti politici (nome in codice: «operazione Botticelli») e fondare Forza Italia.
VITTORIO MANGANO, UN MAFIOSO AD ARCORE. Il primo pilastro della condanna di Dell’Utri è l’assunzione ad Arcore di Vittorio Mangano: un mafioso di Palermo che nel 1974 va a vivere a casa di Berlusconi. Il suo vero ruolo nella villa di Arcore viene svelato proprio da questo processo. Vittorio Mangano al processo Andreotti Mangano è legato a Cosa nostra già dall’inizio degli anni Settanta. (…) Arrestato per la prima volta a Milano il 15 febbraio 1972, per una serie continuata di tentate estorsioni, il 27 dicembre 1974 Mangano torna in carcere per scontare una precedente condanna per truffa, e questa volta viene riammanettato proprio ad Arcore. Il 22 gennaio 1975 viene scarcerato per un cavillo legale e torna a vivere nella villa di Berlusconi, ma non è chiaro per quanto tempo. Di certo il primo dicembre 1975 viene riarrestato nelle strade dello stesso comune brianzolo per possesso di un coltello di genere proibito. Tornato in libertà il 6 dicembre 1975, sceglie ancora una volta la villa di Berlusconi come domicilio legale: è qui che le forze di polizia lo vanno a cercare per le notifiche, almeno fino all’autunno 1976. Nella seconda metà degli anni Settanta Mangano viene bersagliato da numerosi altri provvedimenti giudiziari. Il più grave è l’arresto, eseguito sempre nel territorio di Arcore, nel maggio 1980: Vittorio Mangano viene incriminato nella prima maxi-inchiesta del giudice Giovanni Falcone contro il clan Spatola-Inzerillo. Un’istruttoria fondamentale che, come evidenziano i giudici del caso Dell’Utri, per la prima volta ha svelato «un vastissimo traffico internazionale di eroina e morfina base, trasformata nei laboratori clandestini che il gruppo mafioso capeggiato da Salvatore Inzerillo controllava nel Palermitano. Droga che veniva poi smerciata grazie a una fitta rete di trafficanti anche all’estero», in particolare dal clan Gambino negli Stati Uniti. Le sentenze definitive di quel processo, acquisite nel giudizio contro Dell’Utri, documentano «il ruolo di primo piano rivestito da Mangano quale insostituibile tramite di collegamento nel traffico di partite di droga tra Palermo e Milano». (…) In questo inquietante spaccato di vita criminale, per i giudici di Palermo «costituisce un dato di fatto inconfutabile» che proprio a metà degli anni Settanta, cioè nel periodo in cui si rafforza il suo legame con Cosa nostra, «Vittorio Mangano è stato assunto da Silvio Berlusconi e si è insediato nella villa di Arcore con tutta la sua famiglia anagrafica» – la moglie, la suocera e le tre figlie – e che questo è successo «poco dopo l’arrivo di Dell’Utri a Milano e per effetto della sua mediazione».
IL PATTO SEGRETO TRA BERLUSCONI E COSA NOSTRA. Nel 1974, quando sposta ufficialmente il proprio domicilio ad Arcore, Mangano è già schedato dalle forze di polizia come un criminale legato alla mafia. Perché affidare proprio a lui, senza nemmeno informarsi sui precedenti penali, il ruolo di garante della sicurezza e gestore della proprietà di Berlusconi? La domanda resta senza risposte credibili fino al giugno 1996, quando viene estradato in Italia e inizia a collaborare con la giustizia un boss mafioso di altissimo livello, Francesco Di Carlo. (…) Di Carlo occupa una posizione unica all’interno di Cosa nostra, negli anni che vedono l’organizzazione criminale accumulare fortune immense con il traffico di eroina, gli stessi in cui inizia a essere attraversata da divisioni destinate a esplodere nella guerra di mafia che, tra il 1979 e il 1982, decreterà il trionfo dei corleonesi con lo sterminio dei vecchi padrini palermitani. Di Carlo infatti è tra i pochissimi a godere della fiducia, e a conoscere i segreti, di entrambi gli schieramenti mafiosi. Amico fin dall’infanzia di Stefano Bontate (chiamato talvolta, per errore, Bontade), per anni il boss più ricco e potente di Palermo, ha anche un fortissimo legame con i corleonesi, alleati del suo capomandamento Bernardo Brusca. Tanto che nel 1976 viene promosso al rango di capofamiglia per diretta volontà di Salvatore Riina e Bernardo Provenzano. Intelligente, accattivante, rispettato da tutti, Di Carlo è in grande confidenza con Bontate, che lo chiama «il barone» per la sua eleganza e lo porta spesso con sé agli incontri eccellenti. Ma è anche nel cuore di Riina, che si fa accompagnare da lui in varie trasferte di mafia. (…). Per la sua posizione unica, Di Carlo ha potuto fornire rivelazioni decisive su molti delitti eccellenti, come gli omicidi dei carabinieri Emanuele Basile e Giuseppe Russo, dei giudici Cesare Terranova, Gaetano Costa e Pietro Scaglione, dei giornalisti Mario Francese e Peppino Impastato, nonché del presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, fratello dell’attuale presidente della Repubblica. Di Carlo parla di Dell’Utri fin dal suo primo interrogatorio come collaboratore di giustizia (…): «Ero a Milano con Bontate, Teresi e Cinà. Siamo andati nell’ufficio di Martello in via Larga, vicino al Duomo, che era una specie di ufficio di Cosa nostra. Guidava Nino Grado perché conosceva Milano bene. Dopo la riunione con Martello, Stefano Bontate mi disse che dovevano incontrare un industriale, un certo Berlusconi: a quel tempo il nome non mi diceva niente…» E qui precisa: «Bontate ha sempre trattato con politici, Teresi era un grosso costruttore, per cui non mi impressionavo che andassero a trattare con vari industriali. (…) A quei tempi era una cosa normale: ognuno, industriale o qualcuno, si rivolgeva a Cosa nostra o per mettere a posto un’azienda o per garantirsi». Prosegue Di Carlo: «Era il 1974, poteva essere primavera o autunno, ricordo che non avevamo cappotti: io avevo giacca e cravatta... Siamo andati in un palazzo di inizio Novecento, non una villa. (…) Qui ci viene incontro Dell’Utri, che io avevo già visto con Tanino Cinà. Con gli altri, compreso Bontate, Dell’Utri si è salutato con il bacio, a me con una stretta di mano. Con Grado già si conoscevano, perché avevano battute di scherzo e si davano del tu. Quindi siamo entrati in una grande stanza, con scrivania, sedie e mi sembra qualche divano, e dopo mezz’ora è spuntato questo signore sui trenta e rotti anni, che ci è stato presentato come il dottore Berlusconi. (…) Dell’Utri era in giacca e cravatta, Berlusconi con un maglioncino a girocollo e la camicia sotto. Dopo il caffè cominciarono i discorsi seri». «Teresi disse che stava facendo due palazzi a Palermo, Berlusconi rispose che lui stava costruendo una città intera e che amministrativamente non c’è molta differenza: ci ha fatto una specie di lezione economica. Poi sono andati nel discorso di garanzia, che “Milano oggi è preoccupante perché succedono un sacco di rapimenti”... Io sapevo che Luciano Leggio, quando era ancora libero, diceva che voleva portarsi tutti i soldi del Nord a Corleone... Stefano Bontate aveva la parola, perché era il capomandamento, io c’ero solo per l’intimità con lui. Berlusconi ha spiegato che aveva dei bambini e non stava tranquillo, per cui avrebbe voluto una garanzia, e qua gli dice: “Marcello mi ha detto che lei è una persona che mi può garantire questo e altro”. Allora Stefano Bontate fa il modesto, ma poi lo rassicura: “Può stare tranquillo, deve dormire tranquillo, perché lei avrà vicino delle persone che qualsiasi cosa chiede avrà fatto. Poi lei ha Marcello qua vicino, per qualsiasi cosa si rivolge a Marcello...”. E poi aggiunge: “Le mando qualcuno”.» Di Carlo chiarisce la frase del boss spiegando che per garantire una piena protezione mafiosa a Berlusconi «ci voleva qualcuno di Cosa nostra», perché Dell’Utri non era affiliato come uomo d’onore. E aggiunge che, appena Bontate ha pronunciato quelle parole, «Cinà e Dell’Utri si sono guardati». Una volta usciti dagli uffici di Berlusconi, prosegue il pentito, «Cinà ha detto a Bontate e Teresi: “Ma qui c’è già Vittorio Mangano, che è amico anche di Dell’Utri”». Di Carlo ricorda che «Stefano non ci teneva particolarmente, però Mangano era della famiglia di Porta nuova con a capo Pippo Calò, quindi era nel mandamento di Bontate. Per cui Bontate ha detto: “Ah, lasciateci Vittorio”». Di Carlo è un testimone oculare di quell’incontro ed è l’unico sopravvissuto tra i boss che nel 1974 siglarono quel patto tra Berlusconi e il vertice mafioso dell’epoca: Cosa nostra proteggerà l’imprenditore milanese, come previsto, affiancandogli l’uomo d’onore indicato da Cinà, d’accordo con Dell’Utri. «Ci hanno messo vicino Vittorio Mangano certamente non come stalliere, perché, non offendiamo il signor Mangano, Cosa nostra non pulisce stalle a nessuno» rimarca Di Carlo, sottolineando l’utilità della protezione mafiosa: «Ci hanno messo uno ad abitare là, a Milano: Mangano trafficava e nello stesso tempo Berlusconi faceva la figura che aveva vicino qualcuno di Cosa nostra... Basta questo in Cosa nostra, perché qualunque delinquente voglia fare qualche azione, si prendono subito provvedimenti». Cosa nostra non è un ente di assistenza. La sua protezione si paga. E il ricatto comincia subito, tanto da imbarazzare lo stesso incaricato della prima estorsione mafiosa. È sempre Di Carlo a descrivere questo passaggio, di poco successivo all’incontro con Berlusconi: «Tanino Cinà mi dice: “Sono imbarazzato, perché subito mi hanno detto di chiedergli 100 milioni di lire... Mi pare malo”. (…) E io gli dissi: “Ma tu chi ti ’na fari? Tanto sono ricchi... E poi ci hanno voluto”». L’incontro del 1974 tra l’allora trentottenne Silvio Berlusconi e il superboss Stefano Bontate, così come il contenuto del contratto mafioso mediato da Dell’Utri, è considerato una certezza da tutti i giudici che si sono occupati di questo caso, in tutti i gradi di giudizio. Le sentenze di merito elencano migliaia di pagine di riscontri oggettivi e testimoniali (…).
SOLDI IN NERO DA MILANO A PALERMO. Da allora, dal 1974, Berlusconi comincia a pagare Cosa nostra. Le banconote passano dalle mani di Dell’Utri e Cinà, nella più assoluta segretezza, e arrivano a Palermo per quasi vent’anni, almeno fino al 1992, spiegano le sentenze definitive. Con le guerre e gli omicidi di mafia cambiano i capi delle famiglie criminali che si dividono il tesoretto di Arcore. Ma gli effetti del patto restano quelli consacrati nel 1974: soldi in nero in cambio di protezione mafiosa per i famigliari e per le attività economiche di Berlusconi. Sono versamenti periodici, sempre in contanti, che vanno tenuti nascosti. A Milano l’unico depositario del segreto è Dell’Utri, che gestisce un apposito tesoretto: impacchetta le banconote e le consegna nel proprio ufficio al tesoriere mafioso che viene a ritirarle, in genere ogni sei mesi, per portarle a Palermo. Qui i soldi di Berlusconi vengono spartiti tra i clan secondo rigide logiche mafiose. Il primo a riceverli, in ordine di tempo, è ovviamente Vittorio Mangano, uomo d’onore della famiglia di Porta nuova, che negli anni Settanta rientrava nel mandamento di Santa Maria di Gesù comandato da Bontate. Mangano può incassare i soldi di Berlusconi proprio perché è un mafioso del clan di Bontate, l’artefice del patto. Ma deve darne una parte al padrino a cui deve rispondere al Nord: Nicola Milano, che è affiliato alla famiglia di Porta Nuova. Tra il 1979 e il 1980 i corleonesi fanno esplodere la seconda guerra di mafia. Stefano Bontate viene assassinato il 23 aprile 1981. Negli stessi mesi i killer corleonesi uccidono il suo vice, Mimmo Teresi, fatto sparire con il metodo della «lupara bianca». Terminata la «mattanza», il mandamento di Bontate viene smembrato. E la famiglia di Porta nuova guidata da Pippo Calò, che ha tradito i boss «perdenti» passando con i corleonesi, viene elevata a mandamento. Negli anni successivi i soldi versati da Berlusconi attraverso Dell’Utri passano da diverse mani mafiose, ma seguono sempre il tracciato originario: finiscono ancora agli stessi clan, anche se, dopo la guerra corleonese, hanno cambiato capi. Antonino Galliano, affiliato alla Noce dal 1986, è nipote del capomandamento Raffaele Ganci e amico fidato di suo figlio Domenico detto Mimmo. È sicuramente in ottimi rapporti con Cinà, con cui è stato intercettato. Quando decide di collaborare con la giustizia, Galliano rivela che lo stesso Cinà gli ha descritto l’incontro tra Bontate e Berlusconi, dopo il quale il boss «ci manda Mangano» come «garanzia contro i sequestri». «Cinà mi disse che Berlusconi rimase affascinato dalla figura di Bontate: non immaginava di avere a che fare con una persona così intelligente» ricorda Galliano, che grazie alle confidenze di Cinà può rivelare anche come è stato spartito il denaro di Berlusconi prima e dopo la morte di Bontate. «Cinà si recava due volte all’anno per ritirare i soldi nello studio di Dell’Utri... Questi soldi, Cinà li consegnava prima a Bontate e poi, dopo la guerra di mafia, a Pippo Di Napoli, che a sua volta li faceva avere a Pippo Contorno, uomo d’onore di Santa Maria di Gesù, il quale li portava al suo capofamiglia Pullarà» Pullarà è un altro boss palermitano passato con i corleonesi e per questo premiato con la promozione a capofamiglia. Così, con il trono di Bontate, Pullarà eredita anche i soldi di Berlusconi.
IL TESORO DI SILVIO FINISCE A RIINA. Conclusa la guerra di mafia, dal 1983 la cosiddetta «dittatura» dei corleonesi, come spiegano i giudici, «ha avuto effetti rilevanti anche nei rapporti con soggetti esterni a Cosa nostra», ben visibili anche nel processo a Dell’Utri. Numerosi pentiti parlano del «pizzo sulle antenne televisive» imposto alle emittenti siciliane del circuito Fininvest negli anni Ottanta. Ma dopo una lunga istruttoria, i giudici si convincono che si tratta di livelli diversi. Il pizzo sui ripetitori viene effettivamente pagato alla singola famiglia mafiosa che controlla il loro territorio da alcuni proprietari delle tv locali consorziate e spesso riacquistate dalla Fininvest. Mentre i soldi di Berlusconi, quelli che continuano a passare attraverso Dell’Utri e Cinà, viaggiano su un piano più alto, quello dei boss, e servono ancora allo scopo originario: garantire una protezione generale a Berlusconi e alle sue aziende. A rivelare come vengano spartiti i soldi di Arcore nell’era dei corleonesi sono soprattutto tre pentiti, molto attendibili, della famiglia mafiosa della Noce, che è «nel cuore» di Riina e dal 1983 viene promossa a mandamento. (…) In quel periodo Dell’Utri si lamenta di essere «tartassato dai fratelli Pullarà»: Ignazio, arrestato il 2 ottobre 1984, e Giovanbattista, latitante e «reggente». Il problema è semplice: gli eredi di Bontate chiedono troppi soldi a Berlusconi. All’epoca, probabilmente, la tariffa è già raddoppiata: da 25 a 50 milioni di lire ogni sei mesi. Cinà, rispettando le gerarchie mafiose, informa il proprio capofamiglia, Pippo Di Napoli, che avvisa il suo capomandamento, Raffaele Ganci, che a quel punto riferisce a Riina. Il capo dei capi scopre solo allora che i Pullarà avevano tenuto «riservato» il loro rapporto con i signori della Fininvest, senza dirlo né a lui, né al loro capomandamento Bernardo Brusca. Riina si infuria. E decide di impadronirsi di quel rapporto economico, ma con un movente politico: progetta di «avvicinare Bettino Craxi attraverso Dell’Utri e Berlusconi» (…). Quanto ai soldi del Cavaliere, «Riina ordina che il rapporto deve continuare a gestirlo Cinà, ma nessuno deve intromettersi». E così «da quel momento Cinà va a Milano un paio di volte all’anno a ritirare il denaro da Dell’Utri, lo consegna al suo capofamiglia Di Napoli, che lo gira al boss Ganci, che lo porta a Riina». Sempre seguendo la rigida gerarchia mafiosa. (…) Un’ulteriore conferma che Riina, nell’impadronirsi del rapporto con Dell’Utri e Berlusconi, non persegue solo interessi economici è il suo diktat sulla spartizione finale del denaro in Sicilia. Riina tiene per sé pochi milioni di lire, probabilmente solo cinque. Il resto viene redistribuito dal boss della Noce, Raffaele Ganci (scarcerato nel 1988), secondo la volontà di Riina, che premia ancora una volta i nuovi capi delle famiglie mafiose di sempre: metà spetta a Santa Maria di Gesù (quindi prima ai Pullarà e poi a Pietro Aglieri), un quarto a San Lorenzo (cioè a Salvatore Biondino, l’autista di Riina) e l’ultima parte alla Noce, ossia a Ganci. I pentiti precisano che Riina ordina di lasciare la loro quota ai Pullarà, dopo averli estromessi dal rapporto con Dell’Utri, per far capire che «non è una questione di soldi». (…) Tra i riscontri oggettivi c'è anche un documento: in un libro mastro della cosca, che è alla base di una raffica di condanne per estorsioni mafiose, sono annotati – in due rubriche distinte, ma collegate con numeri in codice – la sigla dell’azienda, la cifra pagata e l’anno del versamento. Alla sigla «Can 5» corrisponde questa scritta: «regalo 990, 5000». I pentiti di quella specifica famiglia mafiosa spiegano che si tratta di «cinque milioni versati da Canale 5 nel 1990 a titolo di regalo, cioè senza estorsione». (…) La conclusione dei giudici è lapidaria: «Deve ritenersi raggiunta la prova che, anche successivamente alla morte di Stefano Bontate, durante l’egemonia totalitaria di Salvatore Riina, sia Marcello Dell’Utri che Gaetano Cinà hanno continuato ad avere rapporti con Cosa nostra, almeno fino agli inizi degli anni Novanta, rapporti strutturati in maniera molto schematica: entrambi gli imputati, consapevolmente, hanno fatto sì che il gruppo imprenditoriale milanese facente capo a Silvio Berlusconi pagasse somme di denaro alla mafia». Di fronte a queste deposizioni, rafforzate da molti altri riscontri e testimonianze, Dell’Utri decide di attaccare in blocco i pentiti, ipotizzando un complotto: tutti i collaboratori di giustizia, forse manovrati da qualcuno, si sarebbero messi d’accordo per calunniarlo e colpire politicamente Berlusconi. I giudici però ribattono che nessun pentito, quando ha cominciato a parlare, conosceva le versioni degli altri. E soprattutto che ogni collaboratore di giustizia sa e racconta solo un piccolo pezzo di verità, quello custodito dalla propria famiglia mafiosa. Ogni pentito parla di anni specifici, mentre ignora cosa succede prima o dopo, e quantifica solo la cifra incassata dal proprio clan, che varia nel corso del tempo. In particolare, Di Carlo rivela l’accordo del 1974 e il ruolo di Mangano; gli altri pentiti legati a Bontate confermano i pagamenti fino alla sua morte, nel 1981; Ganci, Anzelmo e Galliano descrivono i pagamenti degli anni Ottanta, nell’era dei corleonesi; Ferrante parla di un periodo ancora successivo, dal 1988 al 1992. Soltanto i giudici possono unire i singoli tasselli di verità e ricostruire un quadro d’insieme, che si rivela rigorosamente in linea con le regole e le logiche di Cosa nostra. Un mosaico completato da riscontri oggettivi, in alcuni casi letteralmente esplosivi. Come gli attentati mai denunciati da Berlusconi.
LE ULTIME PAROLE DI BORSELLINO. Vittorio Mangano viene riarrestato nell’aprile 1995. La Procura di Palermo ha infatti scoperto il suo ruolo di «co-reggente» del mandamento di Porta Nuova e lo accusa tra l’altro di essere il mandante di due omicidi. Durante la sua detenzione, Dell’Utri e altri parlamentari di Forza Italia si mobilitano chiedendo più volte che venga scarcerato per motivi di salute. Il 23 aprile 2000 la corte d’assise di Palermo chiude il primo grado di giudizio condannando Mangano all’ergastolo come boss di Porta Nuova e come mandante e organizzatore di un omicidio di mafia, commesso a Palermo il 25 ottobre 1994. Il boss muore nel luglio 2000, a casa sua, dopo aver ottenuto gli arresti domiciliari per malattia. Dell’Utri, nei vari gradi del suo processo, non ha mai attaccato Mangano, anzi è arrivato a definirlo «un eroe», perché «è stato messo in galera e continuamente sollecitato a fare dichiarazioni contro me e Berlusconi. Se lo avesse fatto, lo avrebbero scarcerato con lauti premi. Ma lui ha sempre risposto che non aveva nulla da dire». Dell’Utri ripete più volte queste parole, che destano scandalo anche nel centrodestra. Nel novembre 2013, però, è Berlusconi in persona a dargli ragione: «Credo che Marcello abbia detto bene quando ha definito Mangano un eroe», perché «quando fu arrestato si rifiutò di testimoniare il falso sui rapporti tra Dell’Utri e la mafia, tra Berlusconi e la mafia». Nella polemica che ne segue, sono in molti a obiettare che per gli italiani onesti gli eroi non sono i mafiosi, ma le persone che hanno combattuto la mafia sacrificando la vita. E a ricordare il duro giudizio su Mangano espresso da Paolo Borsellino poco prima di morire. Intervistato da due giornalisti francesi nel 1992, pochi giorni prima di essere ucciso con tutta la sua scorta da un’autobomba di Cosa nostra, Borsellino spiega che Mangano, quando fu assunto ad Arcore, era già «una delle teste di ponte dell’organizzazione mafiosa nel Nord Italia». I giudici del processo Dell’Utri acquisiscono la videoregistrazione integrale dell’intervista, in cui il magistrato rivela di essere stato tra i primi a scoprire il ruolo di Mangano in Cosa nostra. «L’ho conosciuto in epoca addirittura antecedente al maxiprocesso – dichiara testualmente Paolo Borsellino – perché tra il 1974 e il 1975 restò coinvolto in un’altra indagine, che riguardava talune estorsioni fatte in danno di cliniche private palermitane, che presentavano una caratteristica particolare: ai titolari di queste cliniche venivano inviati dei cartoni con all’interno una testa di cane mozzata... Mangano restò coinvolto perché si accertò la sua presenza nella salumeria nel cui giardino erano sepolti i cani con la testa mozzata... Poi ho ritrovato Mangano al maxiprocesso, perché fu indicato sia da Buscetta che da Contorno come uomo d’onore appartenente alla famiglia di Porta nuova capeggiata da Pippo Calò, la stessa di Buscetta. E già dal precedente processo Spatola, istruito da Falcone, risultava che Mangano risiedeva abitualmente a Milano, città da dove, come risultò da numerose intercettazioni telefoniche, costituiva un terminale dei traffici di droga delle famiglie palermitane. Arrestato nel 1980, fu condannato per questo traffico di droga a tredici anni e quattro mesi, pena poi ridotta in Appello.» L’intervista, che i due giornalisti riescono a pubblicare solo alla vigilia delle elezioni del 1994, crea un putiferio soprattutto per una frase, che il magistrato lascia volutamente incompleta: Borsellino accenna a una nuova indagine sui rapporti tra Cosa nostra e le grandi imprese del Nord, citando espressamente Berlusconi. Il magistrato però precisa che non è lui a indagare e rifiuta di fornire particolari, spiegando che se ne potrà parlare solo quando l’inchiesta verrà chiusa, non prima dell’autunno 1992. La morte di Borsellino, con tutti i suoi misteri ancora irrisolti, a cominciare dal vergognoso depistaggio, con un falso pentito, dei primi tre processi sulla strage di via D’Amelio, ha impedito di chiarire, tra l’altro, anche a quale inchiesta si riferisse nella sua ultima intervista.
Testo tratto dal libro “Il Cavaliere Nero, la vera storia di Silvio Berlusconi”, di Paolo Biondani e Carlo Porcedda, ed. Chiarelettere.
Berlusconi e la mafia: la vera storia della villa in Sardegna. Nel processo che si è chiuso con la condanna definitiva di Marcello Dell’Utri viene ricostruita anche la storia di un maxi-investimento mafioso in Sardegna, che nasconde un impressionante incrocio di storie criminali. Ne parlano decine di pentiti di comprovata attendibilità, a cominciare da Tommaso Buscetta, scrive Paolo Biondani il 23 febbraio 2018 su "L'Espresso". Il boss Pippo Calò, che tra gli anni Settanta e Ottanta vive a Roma sotto falso nome, investe somme enormi in speculazioni edilizie in Sardegna, realizzate attraverso costruttori-prestanome, riciclando così anche i riscatti dei sequestri. All’affare partecipano altri boss di Cosa nostra, che ripuliscono i profitti del narcotraffico, e due tesorieri-usurai della Banda della Magliana, Ernesto Diotallevi e Domenico Balducci. A gestire l’investimento in Sardegna, con il compito di comprare terreni vista mare e renderli edificabili con l’aiuto di politici e massoni, è Flavio Carboni, il faccendiere poi condannato come complice della colossale bancarotta del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Dello stesso investimento parlano anche i collaboratori di giustizia della Banda della Magliana. Questo permette agli inquirenti di trovare riscontri sia dal versante di Cosa nostra, sia dal lato della criminalità romana: capitali, società, prestanome. (…) Nel giugno 1993 Carboni crolla e ammette che, almeno per un gruppo di società, «i finanziamenti li ha procurati Balducci ottenendo un prestito da Calò». Mentre la sua storica segretaria testimonia che «il signor Mario», cioè Pippo Calò, «era solito frequentare il nostro ufficio per consegnare grosse somme di denaro a Carboni». Le indagini accertano che le prime ville costruite in Sardegna funzionano anche come covi. Una si trova a Punta Lada, a Porto Rotondo, e diventa il rifugio di Danilo Abbruciati: un killer della banda della Magliana, morto a Milano in un conflitto a fuoco nel 1982, mentre tenta di assassinare il vicepresidente dell’Ambrosiano e braccio destro di Calvi, Roberto Rosone. Gli atti di compravendita di quella casa-covo rappresentano un «formidabile riscontro» alle rivelazioni dei pentiti: uno dei tre proprietari della villa trifamiliare è Domenico Balducci in persona, il tesoriere-usuraio della Magliana, che prima di essere ucciso il 16 ottobre 1981 in un agguato cede la sua quota al braccio destro di Calò a Roma, Guido Cercola. Calò e Cercola sono stati poi condannati all’ergastolo, con sentenza definitiva, come organizzatori della strage del rapido 904, il «treno di Natale» fatto esplodere in una galleria il 23 dicembre 1984: il primo atto di «terrorismo mafioso», con 17 morti e 267 feriti. In questo quadro si inserisce anche Berlusconi. Nello stesso punto della costa sarda, Carboni possiede una villa meravigliosa, la stessa dove ha ospitato, oltre ai boss della Magliana, anche Roberto Calvi, prima di accompagnarlo a Londra, la città dove il banchiere, nel 1982, viene ucciso da ignoti killer che inscenano un finto suicidio. (…) Pressato dai suoi finanziatori e incalzato dai debiti, Carboni deve vendere la sua villa di Punta Lada. E trova subito due compratori: un certo Lo Prete e il signor Attilio Capra De Carrè, che è già finito agli atti del processo, perché era uno degli ospiti della cena di Arcore nella notte del sequestro D’Angerio. Ma si tratta solo di un brevissimo passaggio intermedio. Perché i due compratori non tengono la proprietà: la rivendono a Silvio Berlusconi, che la ribattezza Villa Certosa. Nella pericolosa partita con il faccendiere Carboni entra anche un altro affare, molto più ambizioso: il maxiprogetto «Olbia 2». Nel 1980 è proprio Carboni a contattare un grande amico sardo del Cavaliere, Romano Comincioli, per vendere ben mille ettari di terreni non ancora edificabili. Berlusconi partecipa all’affare sborsando 21 miliardi di lire. Sentito come testimone dopo il fallimento del Banco Ambrosiano, Berlusconi conferma di «aver acquistato tramite Carboni i terreni» per «il progetto di creare una città satellite a Olbia». Il Cavaliere riconosce anche di aver utilizzato come schermo l’amico Comincioli, «che ha ricevuto da noi mano a mano i finanziamenti necessari per l’acquisto dei terreni, intestati a due società fiduciarie acquistate dal gruppo Fininvest». I giudici concludono che «dunque, dalla viva voce di Berlusconi si è avuta la conferma dei suoi rapporti con Flavio Carboni e del ruolo di prestanome di Comincioli». Ma il Cavaliere non ha commesso reati: non c’è nessuna prova, riconoscono i giudici, che Berlusconi sapesse che dietro Carboni c’erano i capitali sporchi della mafia siciliana e della criminalità romana. Mentre Comincioli ammette di aver comprato i terreni «nell’interesse di Berlusconi» e conferma di aver «conosciuto Balducci, ma non Diotallevi e Abbruciati». E giura di «ignorare che Carboni fosse in mano a quegli usurai romani». Comunque, questa volta, Dell’Utri non c’entra: dal 1979 si è dimesso dal gruppo Berlusconi per diventare manager, con il fratello gemello Alberto, di un chiacchieratissimo immobiliarista siciliano, Filippo Alberto Rapisarda.
Testo tratto dal libro “Il Cavaliere Nero, la vera storia di Silvio Berlusconi”, di Paolo Biondani e Carlo Porcedda, ed. Chiarelettere.
Berlusconi e le bombe "affettuose" della mafia. Ecco la ricostruzione degli attentati di Cosa Nostra, tenuti segreti, di cui parla lo stesso Berlusconi in una telefonata intercettata dai magistrati che indagano su Dell'Utri, scrive Paolo Biondani il 23 febbraio 2018 su "L'Espresso". Marcello Dell’Utri, nel 1986, è sotto intercettazione a Milano per i suoi rapporti con il boss mafioso Vittorio Mangano, ormai condannato al maxi-processo come trafficante di eroina tra Italia e Stati Uniti. Dodici minuti dopo la mezzanotte del 29 novembre 1986, il manager di Publitalia riceve una telefonata da Berlusconi, che lo informa di aver subito un attentato. L’esordio è fulminante.
Berlusconi: «Allora è Vittorio Mangano che ha messo la bomba».
Dell’Utri: «Non mi dire, e come si sa?».
Berlusconi: «Da una serie di deduzioni, per il rispetto che si deve all’intelligenza... È fuori».
Dell’Utri: «Ah, non lo sapevo neanche».
Berlusconi: «E questa cosa qui, da come l’hanno fatta, con un chilo di polvere nera, fatta con molto rispetto, quasi con affetto. Ecco: un altro manderebbe una lettera o farebbe una telefonata: lui ha messo una bomba».
Dell’Utri: «Ah... perché, cioè non si spiega proprio».
Nella stessa telefonata l’imprenditore allude a un altro attentato, da lui subito nel 1975.
Berlusconi: «Poi, la bomba, fatta proprio rudimentale... con molto rispetto... perché mi ha incrinato soltanto la parte inferiore della cancellata, un danno da duecentomila lire... quindi una cosa rispettosa e affettuosa».
Dell’Utri (ride): «Sì, sì, pazzesco... Comunque sentiamo, sì».
Berlusconi: «Non c’è altra spiegazione... è la stessa via Rovani come allora».
Dell’Utri: «Sì, sì... Adesso vediamo... Comunque credo anch’io che non ci sono altre richieste. Anche perché non ci sono, voglio dire. Si sarebbero fatti sentire, insomma, no?».
Berlusconi: «Va be’, niente, stiamo a vedere...».
A questo punto cambiano argomento, ma poi tornano sul discorso della bomba.
Berlusconi: «Mi hanno aperto un po’ gli occhi i carabinieri, un chiaro segnale estorsivo, e quindi ripensi che a undici anni fa...».
Dell’Utri: «Sì, ma non vedo altro neanch’io, pensandoci bene hai ragione, da dove può arrivare insomma?... In effetti, se è fuori, non avrei dei dubbi netti. Va be’, tu sei sicuro che è fuori?».
Berlusconi: «Me l’hanno detto loro (i carabinieri)... Ti passo Fedele».
Confalonieri: «Marcello, allora, sei d’accordo anche tu, no?».
Dell’Utri: «Sì, guarda, non sapevo che è fuori, ma se è fuori non ci sono dubbi, direi».
Confalonieri: «Non è un uomo di fantasia... Si ripete. Ha cominciato a dieci anni a fare così, ha quarantun anni adesso...».
Dell’Utri: «E poi anche con un attentato timido, solo per dire: sono qui...» (ride).
Confalonieri: «Come la terra con la croce nera, come l’altra volta, ti ricordi?».
I giudici osservano che in questa telefonata Berlusconi, Dell’Utri e Confalonieri parlano di due diversi attentati, commessi a undici anni di distanza. Il più grave è il primo: il 26 maggio 1975 esplode una bomba nella villa di Berlusconi in via Rovani a Milano. La casa è in restauro, l’ordigno sfonda i muri perimetrali e fa crollare il pianerottolo del primo piano, provocando danni ingenti. L’attentato viene però denunciato solo dall’intestatario formale della villa, Walter Donati, per cui viene collegato a Berlusconi solo in seguito. A quel punto le indagini raccolgono indizi su un paventato progetto di sequestro del figlio di Berlusconi, ma l’autore dell’attentato resta misterioso.
Nella telefonata intercettata, Berlusconi, Dell’Utri e Confalonieri paragonano quella bomba del 1975 a un nuovo ordigno, meno potente, esploso poche ore prima, il 28 novembre 1986. Come evidenziano i giudici, «questa telefonata dimostra che Berlusconi, Dell’Utri e Confalonieri non avevano alcun dubbio sulla riconducibilità a Mangano dell’attentato di undici anni prima». (…) Ma anche se «nessuno dei tre nutriva alcun dubbio nel ricondurre la bomba del 1975 a Mangano – sottolineano i giudici – nessuna indicazione fu offerta agli investigatori, anzi si decise di non denunciare direttamente quell’attentato».
Poche ore dopo, nel pomeriggio del 29 novembre 1986, Dell’Utri telefona a Berlusconi per riferirgli cosa ha scoperto sull’attentato del giorno prima. Gli dice testualmente: «Ho visto Tanino, che è qui a Milano». Il Tanino in questione è sicuramente Cinà: non lo negano né lui né Dell’Utri. Già questo è un riscontro: Cinà vedeva davvero Dell’Utri a Milano proprio nel periodo delle riscossioni mafiose rivelate dai pentiti, come confermano anche altre intercettazioni del 1987.
Dopo aver fatto il nome di «Tanino», Dell’Utri racconta quali notizie ha raccolto tramite quell’amico palermitano: assicura a Berlusconi non solo che Mangano è ancora detenuto, ma anche che può stare «tranquillissimo», nonostante l’attentato. E precisa di essere certo dell’estraneità di Mangano («è proprio da escludere categoricamente») anche se i carabinieri sospettavano il contrario. Analizzando la telefonata, i magistrati osservano che, per identificare l’autore di un attentato di matrice mafiosa, «Dell’Utri si rivolge a Cinà proprio perché gli è nota la sua mafiosità». E appunto perché ha raccolto informazioni dall’interno di Cosa nostra «può escludere con certezza la matrice di Mangano, anche se è notorio che i mafiosi, quando vogliono, riescono a delinquere anche in carcere».
I giudici trascrivono anche una battuta che Berlusconi, al telefono con Dell’Utri, dice di aver fatto ai carabinieri, lasciandoli sbalorditi, e cioè: «Trenta milioni li avrei anche pagati». Un passaggio giudicato «sintomatico dell’atteggiamento mentale dell’imprenditore disponibile a pagare, ma non a denunciare le richieste estorsive».
Una posizione confermata anche da un’intercettazione del 17 febbraio 1988. Berlusconi parla con un amico immobiliarista, Renato Della Valle, di altre minacce criminali che non ha mai denunciato né chiarito. Questa volta il Cavaliere è preoccupatissimo. E confida all’amico: «Se fossi sicuro di togliermi questa roba dalle palle, pagherei tranquillo».
Le rivelazioni dei pentiti riconfermano questo quadro e aggiungono i pezzi mancanti. L’attentato del 1975 l’ha fatto Mangano, probabilmente per rientrare nel giro dei soldi di Arcore. L’ordigno del 1986 invece l’hanno collocato i catanesi. Per cui, come Dell’Utri riesce a sapere in tempo reale, i mafiosi palermitani e corleonesi non c’entrano. Riina però sa chi è stato. E ne approfitta per usare proprio Catania come base per le nuove intimidazioni, quelle che gli permettono di ricementare il rapporto Cinà-Dell’Utri e raddoppiare la posta.
Ricostruendo la storia di queste «affettuose» bombe mafiose, i giudici sottolineano tra l’altro che anche l’attentato del 1986 era rimasto «del tutto assente da ogni cronaca giornalistica». Eppure i boss di Cosa nostra sapevano tutto. E i pentiti hanno potuto raccontarlo.
Testo tratto dal libro “Il Cavaliere Nero, la vera storia di Silvio Berlusconi”, di Paolo Biondani e Carlo Porcedda, ed. Chiarelettere.
Soldi che cadono dal cielo: come è nata la Fininvest. Neppure il processo a Dell’Utri ha chiarito i dubbi sull’origine delle fortune di Berlusconi, scrive Paolo Biondani il 23 febbraio 2018 su "L'Espresso". Silvio Berlusconi, nel processo di Palermo a carico di Marcello Dell’Utri, non è mai stato accusato di nulla. Subire estorsioni e non denunciarle non è reato. La vittima del racket rischia di finire sotto accusa solo se commette falsa testimonianza in tribunale, negando di aver subito estorsioni che risultino provate comunque. C’è però un delicatissimo capitolo del processo che lo riguarda personalmente: per molte udienze i giudici cercano di risolvere il mistero delle origini delle fortune di Berlusconi. Il problema, dibattuto da decenni, è che le aziende del Cavaliere, tra gli anni Settanta e Ottanta, sono state finanziate con capitali provenienti da anonime società estere, di cui tuttora non si conoscono gli effettivi titolari. È la questione illustrata dal regista Nanni Moretti, nel film Il Caimano, con la scena dei «soldi che cadono dal cielo» sulla scrivania di Berlusconi. Durante il lungo processo a Dell’Utri, il tema diventa incandescente, perché diversi pentiti di mafia parlano di presunti investimenti milionari effettuati da boss come Bontate e Teresi proprio tramite Dell’Utri: soldi che, dopo la morte di quei capi-mafia, uccisi dai corleonesi, nessuno avrebbe più potuto rivendicare. La Procura di Palermo apre addirittura un’inchiesta su Berlusconi e Dell’Utri con un’ipotesi di riciclaggio, che alla fine però gli stessi pm devono archiviare: i pentiti possono citare solo presunte confidenze indirette dei boss che sono morti o non parlano, ma non sono in grado di fornire riscontri concreti. La questione viene ovviamente approfondita anche nel processo a Dell’Utri, che di Berlusconi è stato il braccio destro fin da quei fatidici anni Settanta. Vengono così interrogati i consulenti tecnici dell’accusa e della difesa, incaricati di ricostruire con certezza i flussi dei capitali finiti nelle aziende edilizie e televisive di Berlusconi. Per la Procura, depone un ispettore della Banca d’Italia, Francesco Giuffrida; per la difesa, un professore universitario, Paolo Iovenitti. Lo scontro in aula è durissimo. Esaminati tutti gli atti, già il tribunale conclude che le accuse di riciclaggio non sono provate, per cui nei successivi gradi di giudizio la questione cade. Ma gli stessi giudici avvertono che neppure il processo a Dell’Utri ha chiarito i dubbi sull’origine delle fortune di Berlusconi. Il collegio presieduto dal giudice Leonardo Guarnotta, l’unico a entrare nel merito dei fatti, riassume così il risultato del processo: «Da parte di entrambi i consulenti tecnici, non è stato possibile risalire, in termini di assoluta certezza e chiarezza, all’origine, qualunque essa fosse, lecita o illecita, dei flussi di denaro investiti nella creazione delle holding del gruppo Fininvest». In altre parole, se è vero che non ci sono «prove positive» di investimenti collegabili alla mafia, per cui «le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia non si possono ritenere riscontrate», è anche vero, scrivono i giudici, che «la scarsa trasparenza o l’anomalia di molte delle operazioni finanziarie effettuate dalla Fininvest negli anni 1975-84 non hanno trovato smentite nelle conclusioni del consulente della difesa», visto che «nemmeno il professor Iovenitti è riuscito a fare chiarezza, pur avendo la disponibilità di tutta la documentazione esistente presso gli archivi della Fininvest». Nel tentativo di fugare dubbi così gravi, i giudici di Palermo hanno invitato più volte lo stesso Berlusconi a testimoniare. La prima deposizione viene fissata per l’11 luglio 2001. Berlusconi è presidente del Consiglio, per cui decide di avvalersi della prerogativa legale di essere sentito a Palazzo Chigi. Quindi tutto il tribunale, con avvocati e cancellieri, deve trasferirsi a Roma. La testimonianza però salta all’improvviso, perché Berlusconi oppone «indifferibili impegni di governo». L’intero tribunale torna a trasferirsi a Palazzo Chigi il 26 novembre 2002, ma anche questa deposizione va a vuoto: Berlusconi, in quel momento indagato nell’inchiesta per riciclaggio poi archiviata, preferisce avvalersi della facoltà di non rispondere. Nella sentenza, che ricostruisce la mancata testimonianza del leader di Forza Italia nel processo a Dell’Utri, in particolare sul tema dell’origine dei capitali delle proprie società, i giudici chiudono il caso con queste parole: «Berlusconi ha esercitato legittimamente un diritto riconosciuto dal codice, ma, ad avviso del tribunale, si è lasciato sfuggire l’imperdibile occasione di fare personalmente, pubblicamente e definitivamente chiarezza sulla delicata tematica in esame, che incide sulla correttezza e trasparenza del suo operato di imprenditore, che solo lui, meglio di qualunque consulente o testimone e con ben altra autorevolezza e capacità di convincimento, avrebbe potuto illustrare. Invece, ha scelto il silenzio».
Testo tratto dal libro “Il Cavaliere Nero, la vera storia di Silvio Berlusconi”, di Paolo Biondani e Carlo Porcedda, ed. Chiarelettere.
I GIORNALISTI DI SINISTRA: VOCE DELLA VERITA’? L’ESPRESSO E L’OSSESSIONE PER SILVIO BERLUSCONI. Scrive il 14 maggio 2014 Antonio Giangrande su vari portali d'informazione. «Quando la disinformazione è l’oppio dei popoli, che li rincoglionisce. I giornalisti corrotti ed incapaci ti riempiono la mente di merda. Anziché essere testimoni veritieri del loro tempo, si concentrano ad influenzare l’elettorato manovrati dal potere giudiziario, astio ad ogni riforma che li possa coinvolgere e che obbliga i pennivendoli a tacere le malefatte delle toghe, non solo politicizzate», così opina Antonio Giangrande, sociologo storico ed autore di tantissimi saggi, tra cui “Governopoli”, “Mediopoli” ed “Impunitopoli”. Il declino di un’era. 20 anni di niente. Silvio Berlusconi: ossessione dei giornalisti di destra, nel difenderlo, e di sinistra, nell’attaccarlo.
1977: quell’articolo premonitore di Camilla Cederna su Silvio Berlusconi. Uno splendido pezzo di una grande firma de “L’Espresso”. Che aveva già capito tutto dell’ex Cavaliere, agli albori della sua ascesa.
1977: Berlusconi e la pistola. Il fotografo Alberto Roveri decide di trasferire il suo archivio in formato digitale. E riscopre così i ritratti del primo servizio sul Cavaliere. Immagini inedite che raccontano l’anno in cui è nato il suo progetto mediatico. Con al fianco Dell’Utri. E un revolver sul tavolo per difendersi dai rapimenti, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”.
Il Caimano in prima pagina: vent’anni di copertine dell’Espresso. Sono 88. La prima, il 5 ottobre del 1993. L’ultima, ma non ultima, il 25 novembre 2013. Ecco come l’Espresso ha sbattuto il Cavaliere in prima pagina.
5 ottobre 1993. Berlusconi a destra. Nuove Rivelazioni: QUI MI FANNO NERO! Dietro la svolta: Le ossessioni, la megalomania, la crisi Fininvest….
17 ottobre 1993. Esclusivo. I piani Fininvest per evitare il crac. A ME I SOLDI! Rischio Berlusconi. Rivelazioni. Il debutto in politica e l’accordo con segni. A ME I VOTI!
21 novembre 1993. Elezioni. Esclusivo: tutti gli uomini del partito di Berlusconi. L’ACCHIAPPAVOTI.
7 gennaio 1994. BERLUSCONI: LE VERITA’ CHE NESSUNO DICE. Perché entra in politica? Forse per risolvere i guai delle sue aziende? Che senso ha definirlo imprenditore di successo? Quali sono i suoi rapporti oggi con Craxi? Cosa combina se si impadronisse del Governo? Quali banchieri lo vedono già a Palazzo Chigi? Esistono cosi occulti nella Fininvest? Chi sono? Insomma: questo partito-azienda è una barzelletta o una cosa seria?
4 marzo 1994. Speciale elezioni. CENTO NOMI DA NON VOTARE. Dossier su: buoni a nulla, dinosauri, inquisiti, riciclati, voltagabbana.
11 marzo 1994. DIECI BUONE RAGIONI PER NON FIDARSI DI BERLUSCONI. Documenti esclusivi da: commissione P2, magistratura milanese, Corte costituzionale.
29 luglio 1994. Troppe guerre inutili. Troppi giochetti d’azzardo. Troppe promesse a vuoto. Troppo disprezzo degli altri. Troppe docce fredde per lira e borsa….LA FANTASTICA CANTONATA DEGLI ITALIANI CHE SI SONO FIDATI DI BERLUSCONI.
26 agosto 1994. Tema del giorno. Atroce dubbio su Berlusconi: ci sa fare o è un…ASINO?
18 novembre 1994. Dossier Arcore: LA REGGIA. Storia di un Cavaliere furbo, di un avvocato, di un’ereditiera. Dossier alluvione. LA PALUDE. Storia di un governo ottimista e di una catastrofe.
14 aprile 1995. L’incubo di pasqua. Ma davvero la destra vince? VENDETTA!
9 giugno 1995. L’AFFARE PUBBLITALIA. Tre documenti eccezionali. 1. Dell’Utri. Viaggio tra i fondi neri. Della società che voleva conquistare un paese. 2. Berlusconi. Le prove in mano ai giudici: dal caso Berruti alla pista estera. 3. Letta. I verbali dei summit di Arcore. Con i big di giornali e televisioni Fininvest.
10 settembre 1995. Case d’oro/ esclusivo. L’ALTRA FACCIA DELLO SCANDALO. Rapporto sui raccomandati di sinistra. Rivelazioni: manovre ed imbrogli della destra.
17 settembre 1995. L’ALTRA FACCIA DI AFFITTOPOLI/NUOVE RIVELAZIONI. 745.888.800.000! Come, dove e quanto hanno incassato i fratelli Berlusconi rifilando palazzi e capannoni agli enti previdenziali.
25 ottobre 1995. SHOWMAN. Berlusconi ultimo grido. L’attacco a Dini e Scalfaro: astuzie, bugie, sceneggiate.
2 febbraio 1996. L’uomo dell’inciucio. Segreti, imbrogli, stramberie, pericoli…. SAN SILVIO VERGINE.
5 aprile 1996. Dall’album di Stefania Ariosto: festa con il cavaliere. C’ERAVAMO TANTO AMATI. Nuove strepitose foto/La dolce vita di Berlusconi & C. Caso Squillante/Tutto sui pedinamenti. E sui gioielli Fininvest. Se vince il Polo delle Vanità/Poveri soldi nostri…
24 ottobre 1996. D’Alema e Berlusconi: il nuovo compromesso. Origini, retroscena, pericoli. DALEMONI.
18 dicembre 1996. FORZA BUFALE. Rivelazioni. Chi e come alimenta la campagna contro Di Pietro. Qual è la fabbrica delle false notizie agghiaccianti sul Pool Mani Pulite. Che cosa fa acqua nei rapporti della Guardia di Finanza. I segreti dell’agenda di Pacini Battaglia. Le grandi manovre per l’impunità. E il ritorno di fiamma dell’amnistia….C’è in Italia un partito antigiudici. Ha capi, quadri, ha compagni di strada. Per vincere deve spararle sempre più grosse. Inchiesta su un malessere che non passa. E che nessuna riforma risolve.
3 maggio 1996. THE END.
10 aprile 1997. ALBANIA SHOW. Speciale/tragedie e polemiche, sceneggiate e pericoli.
3 agosto 2000. Esclusivo. Un rapporto dei tecnici della Banca d’Italia. COSI’ HA FATTO I SOLDI BERLUSCONI.
22 marzo 2001. LA CARICA DEI 121. Fedelissimi, folgorati e riciclati. Con loro Berlusconi vorrebbe governare l’Italia.
16 maggio 2001. L’AFFONDO. Berlusconi si gioca il tutto per tutto. Ma la partita è ancora aperta. Le urne diranno se sarà alba o tramonto.
24 magio 2001. E ORA MI CONSENTA. L’Italia alle prese con il Cavaliere pigliatutto.
19 dicembre 2001. GIUSTIZIA FAI DA ME. Sondaggio choc: i giudici, gli italiani e Berlusconi.
7 febbraio 2002. L’importante è separare la carriera degli imputati da quella dei giudici. L’ILLUSIONE DI MANI PULITE.
15 maggio 2003. COMPARI. Negli affari, nella politica, nei processi. Berlusconi e Previti pronti a tutto. A riscrivere le leggi e a sconvolgere le istituzioni.
11 settembre 2003. Esclusivo. GLI ZAR DELLA COSTA SMERALDA. Le foto segrete dell’incontro Berlusconi-Putin.
29 gennaio 2004. RISILVIO. Vuole rifare il governo, rifondare Forza Italia, riformare lo Stato. E per cominciare si è rifatto.
13 maggio 2004. LE 1000 BUGIE DI BERLUSCONI. Il suo governo ha stabilito il record di durata. E anche quello delle promesse non mantenute. Ecco il bilancio.
24 giugno 2004. – 4.000.000. Ha perso voti e credibilità. Ora gli alleati gli presentano il conto. L’estate torrida del cavalier Silvio Berlusconi.
3 marzo 2005. AFFARI SUOI. Società e fiduciarie nei paradisi fiscali. Falsi in bilancio. Così Silvio Berlusconi dirottava i proventi del gruppo Mediaset sui diritti Tv.
7 aprile 2005. RISCHIATUTTO. Il voto delle regionali segnerà il destino dei duellanti. Romano Prodi e Silvio Berlusconi? Ecco che cosa ci aspetta dopo il verdetto delle urne.
21 aprile 2005. FARE A MENO DI BERLUSCONI. L’ennesima sconfitta ha chiuso un ciclo. Gli alleati del Cavaliere pensano al dopo. E a chi potrà prendere il suo posto.
2 febbraio 2006. PSYCHO SILVIO. Impaurito dai sondaggi tenta di rinviare la campagna elettorale. Occupa radio e tv. Promuove gli amici nei ministeri. Distribuisce una pioggia di finanziamenti clientelari. Così Berlusconi le prova tutte per evitare la sconfitta.
6 aprile 2006. DECIDONO GLI INDECISI. Identikit degli italiani che ancora non hanno scelto. Ma che determineranno l’esito del voto del 9 aprile.
9 novembre 2006. LA CASA DEI DOSSIER. Da Telecom-Serbia alle incursioni informatiche. Ecco il filo che lega le trame degli ultimi anni. Con un obbiettivo: delegittimare Prodi e la sinistra.
29 novembre 2007. Retroscena. VOLPE SILVIO. Il piano segreto di Berlusconi per far cadere Prodi e tornare al Governo. Fini e Casini azzerati. L’Unione sorpresa. Ma Veltroni è tranquillo. Non mi fanno paura.
24 aprile 2008. Elezioni. L’ITALIA DI B&B. Il ciclone Berlusconi. Il trionfo di Bossi. Lo scacco a Veltroni. E l’apocalisse della sinistra radicale rimasta fuori dal Parlamento.
15 maggio 2008. Inchiesta. LA MARCIA SU NAPOLI. Silvio Berlusconi arriva in città con il nuovo governo. Per liberarla dai rifiuti ma anche per spazzare via la sinistra da Comune e Regione.
25 giugno 2008. DOPPIO GIOCO. Si propone come statista. Aperto al dialogo. Ma poi Berlusconi vuole fermare i suoi processi. Ricusa i giudici. Vieta le intercettazioni. Manda l’esercito nelle città. Ed è solo l’inizio.
3 luglio 2008. Esclusivo. PRONTO RAI. Raccomandazioni. Pressioni politiche. Affari. Le telefonate di Berlusconi, Saccà, Confalonieri, Moratti, Letta, Landolfi, Urbani, Minoli, Bordon, Barbareschi, Costanzo….
19 febbraio 2009. Berlusconi. L’ORGIA DEL POTERE. L’attacco al Quirinale e alla Costituzione. Il caso Englaro. La giustizia. Gli immigrati. L’offensiva a tutto campo del premier.
19 marzo 2009. Inchiesta. PIER6SILVIO SPOT. Le reti Mediaset perdono ascolto. Ma fanno il pieno di pubblicità a scapito della Rai. Da quando Berlusconi è tornato al governo, i grandi inserzionisti hanno aumentato gli investimenti sulle tivù del cavaliere.
14 maggio 2009. SCACCO AL RE. Il divorzio chiesto da Veronica Lario a Berlusconi. Tutte le donne e gli amori del Cavaliere. La contesa sull’eredità. Le possibili conseguenze sulla politica.
11 giugno 2009. SILVIO CIRCUS. Per l’Italia la fiction: tra promesse fasulle e clamorose assenze come nel caso Fiat-Opel. Per sé il reality: le feste in villa e i voli di Stato per gli amici.
17 giugno 2009. Governo. ORA GUIDO IO. Umberto Bossi è il vero vincitore delle elezioni. E già mette sotto ricatto Berlusconi e la maggioranza. Nell’opposizione Di Pietro si prepara a contendere la leadership al PD, reduce da una pesante sconfitta.
25 giugno 2009. ESTATE DA PAPI. Esclusivo. Le foto di un gruppo di ragazze all’arrivo a Villa Certosa. Agosto 2008.
9 luglio 2009. Il vertice dell’Aquila. G7 E MEZZO. Berlusconi screditato dalle inchieste e dagli scandali cerca di rifarsi l’immagine. Con la passerella dei leader della terra sulle macerie. L’attesa per un summit che conferma la sua inutilità.
16 luglio 2009. SILVIO SI STAMPI. Tenta di intimidire e limitare la libertà dei giornalisti. Ma Napolitano stoppa la legge bavaglio. E i giornali stranieri non gli danno tregua. Umberto eco: “E’ a rischio la democrazia”.
23 luglio 2009. TELESFIDA. Tra Berlusconi e Murdoch è il corso una contesa senza esclusione di colpi. Per il predominio nella Tv del futuro. Ecco cosa succederà e chi vincerà.
30 luglio 2009. Esclusivo. SEX AND THE SILVIO. Tutte le bugie di Berlusconi smascherate dai nastri di Patrizia D’Addario. Notti insonni, giochi erotici, promesse mancate, E ora la politica si interroga: può ancora governare il paese?
12 agosto 2009. Governo. SILVIO: BOCCIATO. Bugie ed escort. Conflitti con il Quirinale. Assalti al CSM. Debito Pubblico. Decreti di urgenza. Soldi al Sud. Clandestini e badanti. Bilancio del premier Berlusconi. E, ministro per ministro, a ciascuno la sua pagella.
3 settembre 2009. DOPPIO GIOCO. Montagne di armi per le guerre africane. Vendute da trafficanti italiani a suon di tangenti. Ecco la Libia di Gheddafi cui Berlusconi renderà omaggio. Mentre l’Europa chiede di conoscere il patto anti immigrati.
10 settembre 2009. SE QUESTO E’ UN PREMIER. Si scontra con la chiesa. Litiga con l’Europa. Denuncia i giornali italiani e stranieri non allineati. E, non contento, vuol metter le mani su Rai 3 e La7.
1 ottobre 2009. GHEDINI MI ROVINI. Oggi è il consigliere più ascoltato del premier. Autore di leggi ad personam e di gaffe memorabili. Storia dell’onorevole-avvocato, dai camerati al lodo Alfano.
8 ottobre 2009. SUA LIBERTA’ DI STAMPA. Attacchi ai giornali. Querele. Bavaglio alle trasmissioni scomode della tv. Così Berlusconi vuole il controllo totale dell’informazione.
15 ottobre 2009. KO LODO. La Consulta boccia l’immunità, Berlusconi torna imputato. E rischia un’ondata di nuove accuse. Ma la sua maggioranza si rivolge alla piazza. E apre una fase di grande tensione istituzionale.
19 novembre 2009. LA LEGGE DI SILVIO. Impunità: è l’obbiettivo di Berlusconi. Con misure che annullano migliaia di processi. E con il ripristino dell’immunità parlamentare. Mentre Cosentino resta al governo dopo la richiesta di arresto.
16 dicembre 2009. SCADUTO. I rapporti con i clan mafiosi. Lo scontro con Fini. I guai con la moglie Veronica e con le escort. L’impero conteso con i figli. L’anno orribile di Silvio Berlusconi.
21 gennaio 2010. Palazzo Chigi. SILVIO QUANTO CI COSTI. 4.500 dipendenti. Spese fuori controllo per oltre 4 miliardi di euro l’anno. Sono i conti della Presidenza del Consiglio. Tra sprechi, consulenze ed eventi mediatici.
4 marzo 2010. UN G8 DA 500 MILIONI DI EURO. Quanto ci è costato il vertice tra la Maddalena e l’Aquila. Ecco il rendiconto voce per voce, tra sprechi e raccomandazioni: dal buffet d’oro ai posacenere, dalle bandierine ai cd celebrativi.
18 marzo 2010. SENZA REGOLE. Disprezzo della legalità. Conflitti con il Quirinale. Attacchi ai magistrati e all’opposizione. Scandali. E ora per la sfida elettorale Berlusconi mobilita la piazza. Con il risultato di portare il paese nel caos.
31 marzo 2010. STOP A SILVIO. Le elezioni regionali possono fermare la deriva populista di Berlusconi. Bersani: “Pronti al dialogo con chi, anche a destra, vuole cambiare”.
13 maggio 2010. IL CASINO DELLE LIBERTA’. Le inchieste giudiziarie. Gli scontri interni al partito. La paralisi del Governo. Dopo le dimissioni di Scajola, Berlusconi nella bufera.
27 maggio 2010. STANGATA DOPPIA. Prima il blocco degli stipendi degli statali, i tagli sulla sanità, la caccia agli evasori e un nuovo condono. Poi la scure sulle pensioni e un ritorno alla tassa sulla casa.
8 luglio 2010. I DOLORI DEL VECCHIO SILVIO. La condanna di Dell’Utri per mafia e il caso Brancher. La rivolta delle Regioni contro i tagli e l’immobilismo del governo. Le faide nel Pdl e i sospetti della Lega. Il Cavaliere alla deriva.
15 luglio 2010. SENZA PAROLE.
11 novembre 2010. BASTA CON ‘STO BUNGA BUNGA. BASTA LO DICO IO.
18 novembre 2010. QUI CROLLA TUTTO. Le macerie di Pompei. L’alluvione annunciata in Veneto. L’agonia della maggioranza. L’economia in panne. Per non dire di escort e bunga bunga. Fotografia di un paese da ricostruire.
16 dicembre 2010. La resa dei conti tra Berlusconi e Fini è all’atto finale. Chi perde rischia di uscire di scena. FUORI UNO.
22 dicembre 2010. FINALE DI PARTITA. Voti comprati. Tradimenti. Regalie…Berlusconi evita a stento la sfiducia, ma ora è senza maggioranza e deve ricominciare daccapo. Anche se resisterà, una stagione s’è chiusa. Eccola, in 40 pagine, di foto e ricordi d’autore.
27 gennaio 2011. ARCORE BY NIGHT. Un harem di giovanissime ragazze pronte a tutto. Festini, orge, esibizioni erotiche, sesso. L’incredibile spaccato delle serate di Berlusconi nelle sue ville. Tra ricatti e relazioni pericolose.
10 febbraio 2011. PRETTY MINETTI. Vita di Nicole, ragazza chiave dello scandalo Ruby. Intima di Berlusconi, sa tutto sul suo harem. Se ora parlasse.
26 maggio 2011. MADUNINA CHE BOTTA! Milano gli volta le spalle, Bossi è una mina vagante, il PDL spaccato già pensa al dopo. Stavolta Berlusconi ha perso davvero. Analisi di una disfatta. Che, Moratti o non Moratti, peserà anche sul governo.
21 giugno 2011. Esclusivo. VOI QUORUM IO PAPI. Domenica 12 giugno l’Italia cambia, lui no. Domenica 12 giugno l’Italia corre a votare, lui a villa Certosa a occuparsi d’altro. In queste foto, la wonderland del cavaliere. Lontana anni luce dal paese reale.
7 luglio 2011. Sprechi di Stato. IO VOLO BLU MA PAGHI TU. Il governo brucia centinaia di milioni per i suoi viaggi. E Berlusconi si regala due super elicotteri. A spese nostre.
21 luglio 2011. MISTER CRACK. La tempesta economica. La borsa in bilico. La paura del default. E un premier sempre isolato. Il varo della manovra è solo una tregua. Prima della resa dei conti. E spunta l’ipotesi di un governo guidato da Mario Monti.
25 agosto 2011. LACRIME E SANGUE. Diceva: meno tasse per tutti. Ma la pressione fiscale non è mai stata così alta. Chiamava Dracula gli altri. Ma ora è lui a mordere i soliti. Processo all’iniqua manovra d’agosto. Che ci cambia la vita e non tocca gli evasori.
15 settembre 2011. E SILVIO SI TAGLIO’ 300 MILIONI DI TASSE. Il Premier impone il rigore agli italiani. Ma gli atti sulla P3 svelano le trame per evitare la causa fiscale sulla Mondadori. Dal presidente della Cassazione al sottosegretario Caliendo, ecco chi si è mosso per salvarlo dalla maximulta.
29 settembre 2011. SERIE B.
13 ottobre 2011. SQUALIFICATO. Condannato dalla Chiesa, mollato dagli imprenditori, bocciato dalle agenzie di rating. E’ l’agonia di un leader né serio né credibile che non si decide a lasciare. Denuncia Romano Prodi a “L’Espresso”: Qualsiasi governo sarebbe meglio del suo.
17 novembre 2011. THE END. Berlusconi tenterà di sopravvivere, ma ha dovuto prendere atto della fine del suo governo. Intanto la crisi economica si fa sempre più drammatica e la credibilità dell’Italia è ridotta a zero. Non c’è più tempo da perdere.
19 gennaio 2012. I GATTOPARDI. Crescita, liberalizzazioni, lotta all’evasione e alla casta…Monti è atteso alla prova più dura. Ma i partiti frenano. Come se avessero voluto cambiare tutto per non cambiare niente.
5 luglio 2012. RIECCOLO. Attacco euro e Merkel. Destabilizza il governo Monti. Blocca la Rai. E rivendica la leadership del suo partito. Così Berlusconi prova ancora una volta a farsi largo.
14 febbraio 2013. VI AFFONDO IO. Pur di risalire al china Silvio Berlusconi sfascia tutto accende la campagna elettorale con promesse da marinaio e terrorizza i mercati. Davvero può farcela? Chi lo fermerà? E come dovrebbe reagire il PD? L’Espresso lo ha chiesto a due guru.
19 settembre 2013. BOIA CHI MOLLA. Accettare il silenzio la decadenza o l’interdizione. O fare un passo indietro prima del voto. Berlusconi ha pronta una via d’uscita. Per restare il capo della destra.
29 novembre 2013. EXTRA PARLAMENTARE. Per Berlusconi si chiude un ventennio e comincia lo scontro finale: fuori dal Senato e in piazza, dalle larghe intese all’opposizione dura. Contro il governo, contro Napolitano, contro l’Europa…..
“E mi devo sentire dire da questi qua che io davo i soldi alla mafia, che sono mafioso e lo dicono ai giornali stranieri. Vi rendete conto di che infamia mi buttano addosso. Io sono vittima della mafia, lo sono stato con i miei figli e con le mie aziende”. Lo dice Silvio Berlusconi a Milano, scrive il 25 febbraio 2018 Dire
L’esponente del M5S Alessandro Di Battista risponde alla dichiarazione di Berlusconi. “Pagando Cosa Nostra, Berlusconi ha contribuito a rafforzare Cosa Nostra, l’organizzazione criminale che ha ucciso Falcone, Borsellino, tanti altri servitori dello Stato e cittadini. A dirlo è la sentenza al processo Dell’Utri, passata in via definitiva. Qualunque sua affermazione contraria rispetto a questa verità è solo spazzatura”. Così l’esponente del M5S Alessandro Di Battista risponde alla dichiarazione odierna di Silvio Berlusconi, che ha affermato di essere una vittima della mafia.
Berlusconi: «Io mafioso? È il contrario. Sono una vittima di Cosa Nostra», scrive il 25/02/2018 "La Sicilia". In particolare, l’ex premier se l’è presa con "Il Fatto Quotidiano", definendolo «il falso quotidiano». «Mi fa star male - ha detto - che in questi giorni mi accusa di aver pagato la mafia». «Scrivono che io sono mafioso? Un’accusa di questo genere è un’infamia. Io sono al contrario una vittima della mafia, lo siamo stati io, i miei figli e le mie aziende». Lo ha detto Silvio Berlusconi che dal palco di Milano ha sostenuto di essere falsamente accusato di aver «pagato la mafia» per motivi elettorali. In particolare, l’ex premier se l’è presa con "Il Fatto Quotidiano", definendolo «il falso quotidiano». «Mi fa star male il “falso quotidiano” - ha detto Berlusconi - che in questi giorni mi accusa di aver pagato la mafia». Dal palco Berlusconi ha dunque fatto una sua ricostruzione dei rapporti con Vittorio Mangano e ha sostenuto che tutte le accuse nei suoi confronti sono finite archiviate dalla magistratura. E ha ricordato i tempi in cui dovette «assumere una polizia privata» a sua tutela e dei figli. «Adesso che ci sono le elezioni - ha concluso il leader di FI - il Fatto Quotidiano tira fuori questa storia e Travaglio ci fa anche un libro». Berlusconi ha voluto mandare anche un ironico «saluto ad Alfano, che per 12 anni da mio assistente ha tenuto al Milan, poi un giorno l’ho visto a una partita disperarsi per un gol subito dalla Juventus con il Benfica: ho fatto un’indagine ad Agrigento e ho saputo che lui è sempre stato uno juventino sfegatato dalla nascita. In politica bisogna anche far sapere che si è di un’altra opinione». Berlusconi ha scherzato a lungo sul suo ex delfino, raccontando anche che «un giorno Reagan disse che la politica è la seconda attività dell’uomo. Beh ho pensato che è molto vicina alla prima...bisogna stare attenti a fare politica con decoro».
Berlusconi: “Il Falso quotidiano mi accusa di aver pagato la mafia”. È scritto nero su bianco nella sentenza Dell’Utri. L'ex premier attacca questo giornale - citando l'offesa coniata da Matteo Renzi - nei giorni in cui esce in libreria B come Basta, il saggio di Marco Travaglio che ripercorre la storia del fondatore di Forza Italia: "Mi fa star male. Mai dati soldi ai boss. Anzi sono stato loro vittima". La motivazioni della decisione con cui la Cassazione ha condannato in via definitiva il suo storico braccio destro, però, dicono altro, scrive il Fatto Quotidiano il 25 febbraio 2018. Smentisce di aver mai pagato Cosa nostra, anzi rivendica di essere stato addirittura una vittima dei boss mafiosi. La corte di Cassazione, però, dice il contrario. Sarà per questo motivo che Silvio Berlusconi attacca il Fatto Quotidiano colpevole di ricordare cosa scrissero gli ermellini sul suo rapporto con le cosche siciliane. “Il Falso quotidiano, o il Fatto, come si chiama, mi accusa in questi giorni di aver pagato per tanti anni la mafia. Vi rendete conto che infamia buttarmi addosso un’accusa di questo genere? Io sono stato al contrario una vittima della mafia”, dice l’ex premier alla manifestazione di Forza Italia a Milano. Un’offesa, quella rivolta a questo giornale – definito il Falso quotidiano, epiteto coniato da Matteo Renzi ai tempi dell’inchiesta sulla Consip – legata all’uscita di B come Basta, il libro edito da Paper First in cui Marco Travaglio ripercorre la storia dell’ex cavaliere. “Mi fa star male il Falso quotidiano. Adesso che ci sono le elezioni tira fuori questa storia e Travaglio ci fa anche un libro”, ha continuato Berlusconi, sostenendo che tutte le accuse nei suoi confronti sono finite archiviate dalla magistratura e che in passato dovette “assumere una polizia privata” a sua tutela e dei figli. “Dell’Utri e l’accordo con la mafia” – Per la verità, però, Berlusconi è ancora indagato dalla procura di Firenze con un’accusa pesantissima: è sospettato di essere tra i possibili mandanti occulti delle stragi del 1993 a Firenze, Roma e Milano. Un addebito che gli è già stato rivolto due volte sia dai giudici toscani che da quelli della procura di Caltanissetta. A smentire l’ex cavaliere sui suoi rapporti con la mafia non è però un’indagine in corso ma una sentenza definitiva. Quella con cui nel maggio del 2014 Marcello Dell’Utri è stato condannato in via definitiva a sette anni di carcere per concorso esterno a Cosa nostra. Gli ermellini definiscono l’ex senatore come il garante “decisivo” dell’accordo tra Berlusconi e Cosa nostra e “la sistematicità nell’erogazione delle cospicue somme di denaro da Marcello Dell’Utri a Gaetano Cinà sono indicative della ferma volontà di Berlusconi di dare attuazione all’accordo al di là dei mutamenti degli assetti di vertice di Cosa nostra”.
“20 miliardi per comprare film” – E ancora, la Suprema corte – nelle stesse motivazioni depositate nel luglio del 2014 – ricorda che il “perdurante rapporto di Dell’Utri con l’associazione mafiosa anche nel periodo in cui lavorava per Filippo Rapisarda e la sua costante proiezione verso gli interessi dell’amico imprenditore Berlusconi veniva logicamente desunto dai giudici territoriali anche dall’incontro, avvenuto nei primi mesi del 1980, a Parigi, tra l’imputato, Bontade e Teresi, incontro nel corso del quale Dell’Utri chiedeva ai due esponenti mafiosi 20 miliardi di lire per l’acquisto di film per Canale 5“.
Riina: “Ci fava 250 milioni” – E più che di una polizia privata assunta per proteggere sé e la sua famiglia, la Suprema corte parla di un “patto di protezione andato avanti senza interruzioni”. Dell’Utri garantì “la continuità dei pagamenti di Silvio Berlusconi in favore degli esponenti dell’associazione mafiosa, in cambio della complessiva protezione da questa accordata all’imprenditore”. Insomma lo storico braccio destro di Berlusconi si ritrovò a svolgere un ruolo di “rilievo per entrambe le parti: l’associazione mafiosa, che traeva un costante canale di significativo arricchimento; l’imprenditore Berlusconi, interessato a preservare la sua sfera di sicurezza personale ed economica”. “A noialtri ci dava 250 milioni ogni sei mesi”, diceva Totò Riina intercettato in carcere con il codetenuto Alberto Lorusso.
L’eroe Mangano – “La Cassazione ci dice che tra Cosa nostra e Berlusconi e Dell’Utri il rapporto era paritario. Dell’Utri era un nuovo autorevole interlocutore del dialogo con Cosa nostra”, hanno detto invece – solo poche settimane fa – i pm del processo sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e la mafia chiedendo 12 anni di carcere per l’ex senatore. Una requisitoria in cui l’accusa ha ricordato anche il ruolo di Vittorio Mangano, il boss di Porta Nuova assunto da Berlusconi e Dell’Utri nel 1974: “La presenza di Vittorio Mangano ad Arcore mafioso del mandamento di Porta Nuova, per il tramite di Dell’Utri, rappresenta la convergenza di interessi tra Berlusconi e Cosa nostra”. “Una volta Manganò chiamò Berlusconi chiama al telefono e gli disse: se non mi dai tre miliardi ti rapisco tuo figlio Dudi”, ha svelato su Fq Millennium Alberto Bianchi, amico d’infanzia dell’ex premier. Eppure nonostante le minacce e le parole scritte dalla Cassazione, sia Berlusconi che Dell’Utri hanno un’altra idea di Mangano: per loro, e lo hanno ripetuto più volte, è un “eroe”.
Berlusconi, la ''vittima'' che pagava la mafia. L’accordo con Cosa nostra sancito nella sentenza Dell’Utri, scrive Aaron Pettinari il 26 Febbraio 2018 su Antimafia duemila. "Scrivono che io sono mafioso? Un'accusa di questo genere è un'infamia. Io sono al contrario una vittima della mafia, lo siamo stati io, i miei figli e le mie aziende". Parola di Silvio Berlusconi. Pregiudicato, condannato in via definitiva a quattro anni per frode fiscale, il Caimano è tornato protagonista in questi ultimi mesi e sempre più al centro dell’ennesima campagna elettorale, si difende da chi non fa altro che ricordare nient’altro che i fatti. Dal palco di Milano, alla manifestazione di Forza Italia, punta anche il dito contro la stampa ed in particolare contro Il Fatto Quotidiano: “Il Falso quotidiano, o il Fatto, come si chiama, mi accusa in questi giorni di aver pagato per tanti anni la mafia. Vi rendete conto che infamia buttarmi addosso un’accusa di questo genere? Io sono stato al contrario una vittima della mafia”. E’ evidente l’irritazione dell’ex premier rispetto all’uscita “B come Basta”, il libro edito da Paper First in cui Marco Travaglio ripercorre la storia dell’ex cavaliere. “Mi fa star male il Falso quotidiano - ha aggiunto Berlusconi - Adesso che ci sono le elezioni tira fuori questa storia e Travaglio ci fa anche un libro”. Berlusconi ha poi sostenuto che tutte le accuse nei suoi confronti sono finite archiviate dalla magistratura e che in passato dovette anche “assumere una polizia privata” a sua tutela e dei figli. Ovviamente non ricorda che è riuscito sempre a cavarsela con prescrizioni, amnistie e leggi ad personam. E non ricorda neanche le sentenze definitive, come quella nei confronti del co-fondatore di Forza Italia, Marcello Dell’Utri, condannato a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Nelle motivazioni della sentenza è scritto che per diciotto anni, dal 1974 al 1992, l’ex senatore è stato il garante “decisivo” dell'accordo tra Berlusconi e Cosa nostra con un ruolo di “rilievo per entrambe le parti: l’associazione mafiosa, che traeva un costante canale di significativo arricchimento; l’imprenditore Berlusconi, interessato a preservare la sua sfera di sicurezza personale ed economica”. Inoltre “la sistematicità nell'erogazione delle cospicue somme di denaro da Marcello Dell'Utri a Cinà (Gaetano Cinà, boss mafioso, ndr) sono indicative della ferma volontà di Berlusconi di dare attuazione all'accordo al di là dei mutamenti degli assetti di vertice di Cosa nostra”. La Cassazione ha poi evidenziato come “il perdurante rapporto di Dell'Utri con l'associazione mafiosa anche nel periodo in cui lavorava per Filippo Rapisarda e la sua costante proiezione verso gli interessi dell'amico imprenditore Berlusconi veniva logicamente desunto dai giudici territoriali anche dall'incontro, avvenuto nei primi mesi del 1980, a Parigi, tra l'imputato, Bontade e Teresi, incontro nel corso del quale Dell'Utri chiedeva ai due esponenti mafiosi 20 miliardi di lire per l'acquisto di film per Canale 5”. Inoltre i giudici della Suprema corte, più che di una polizia privata assunta per proteggere sé e la sua famiglia, parlano di un “patto di protezione andato avanti senza interruzioni”. E Dell’Utri era il garante per “la continuità dei pagamenti di Silvio Berlusconi in favore degli esponenti dell’associazione mafiosa, in cambio della complessiva protezione da questa accordata all’imprenditore”. Parole scritte nero su bianco.
Inchiesta aperta a Firenze sulle stragi. Berlusconi, sempre assieme a Dell’Utri, è anche indagato dalla Procura di Firenze con l’accusa di essere tra i possibili mandanti occulti delle stragi del 1993 a Firenze, Roma e Milano. Un addebito che gli è già stato rivolto due volte sia dai giudici toscani che da quelli della procura di Caltanissetta. Una riapertura dovuta del fascicolo dopo la trasmissione di atti, pervenuti da Palermo, con le intercettazioni dei colloqui in carcere del boss di Brancaccio Giuseppe Graviano, effettuate nell’ambito dell’inchiesta sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. "Berlusca mi ha chiesto questa cortesia, per questo c'è stata l'urgenza” diceva il capomafia durante l’ora di passeggio con il camorrista Umberto Adinolfi. Parole, quelle del capomafia stragista, che hanno portato anche a numerose polemiche con pareri discordanti tra i periti che hanno analizzato e trascritto i ventuno colloqui nell’ambito del processo trattativa Stato-mafia. Quelli nominati dalla Corte d’assise e quelli dell’accusa sono certi di sentire la parola “Berlusca” mentre il perito della difesa Dell’Utri ascolta “Bravissimo”. Il riferimento all’ex Premier compare in altri punti della conversazione ma sempre per il perito della difesa i dialoghi sarebbero incomprensibili mentre in altri punti le perizie non presentano differenze. Certo è che al processo solo 21 intercettazioni sono state depositate ma le registrazioni dei dialoghi del boss sono durate quattordici mesi e nelle carte non mancano gli omissis.
Le parole di Riina. Anche il Capo dei capi, Totò Riina, durante il passeggio nel carcere di Milano con il boss pugliese Alberto Lorusso aveva parlato di Berlusconi il 22 agosto 2013: “...si è ritrovato con queste cose là sotto, è venuto, ha mandato là sotto a uno, si è messo d’accordo, ha mandato i soldi a colpo, a colpo, ci siamo accordati con i soldi e a colpo li ho incassati’’. Quanti? “A noialtri ci dava 250 milioni ogni sei mesi”. E sempre Riina aggiungeva: “I catanesi dicono, ma vedi di... Non ha le Stande, gli ho detto, da noi qui ha pagato. Così, così li ho messi sotto, gli hanno dato fuoco alla Standa. Minchia, aveva tutte le Stande della Sicilia, tutte le Stande erano di lui. Gli ho detto: bruciagli la Standa. A noialtri ci dava 250 milioni ogni sei mesi, 250 milioni ogni sei mesi. Quello... è venuto il palermitano... mandò a lui, è sceso il palermitano ha parlato con uno... si è messo d’accordo... Dice vi mando i soldi con un altro palermitano. Ha preso un altro palermitano, c’era quello a Milano. Là c’era questo e gli dava i soldi ogni sei mesi a questo palermitano. Era amico di quello... il senatore (ovvero Dell'Utri, ndr)”. Certo, le parole del boss corleonese, oggi deceduto, non hanno a che fare con la sentenza Dell’Utri ma sono agli atti del processo Stato-mafia che è alle sue battute conclusive. Per i pm del pool Di Matteo, Del Bene, Tartaglia e Teresi sono elementi utili per ricostruire il ruolo di intermediario svolto da Dell’Utri nella seconda fase della trattativa per cui hanno chiesto la condanna a 12 anni di carcere. “La Cassazione - hanno detto i pm durante la requisitoria - ci dice che tra Cosa nostra e Berlusconi e Dell’Utri il rapporto era paritario. Dell’Utri era un nuovo autorevole interlocutore del dialogo con Cosa nostra”. Nella requisitoria è stato anche ricordato il ruolo avuto dallo “stalliere” Vittorio Mangano, il boss di Porta Nuova assunto da Berlusconi e Dell’Utri nel 1974 (“La presenza di Vittorio Mangano ad Arcore mafioso del mandamento di Porta Nuova, per il tramite di Dell’Utri, rappresenta la convergenza di interessi tra Berlusconi e Cosa nostra”). Quel Mangano, che Berlusconi e Dell’Utri hanno definito più volte come “un eroe” dopo la morte. Quello stesso Mangano che, a loro dire in un’intercettazione del 29 novembre 1986, metteva “bombe affettuose”. Anche Giovanni Falcone aveva annotato in un appunto “Cinà in buoni rapporti con Berlusconi. Berlusconi dà 20 milioni a Grado e anche a Vittorio Mangano”. Non è dato sapere il perché Falcone aveva scritto quel riferimento sull'ex Presidente del Consiglio, allora imprenditore. Sicuramente, ad anni di distanza, sono numerosi gli interrogativi che restano senza risposta.
Silvio Berlusconi è una semplice vittima o anche qualcos’altro? Certo è che in tanti anni non si è mai capito se l’allora imprenditore, poi per oltre vent’anni protagonista assoluto della politica del nostro Paese, pagasse soltanto un’estorsione colossale alla mafia o se fosse inserito in un’opera di riciclaggio. Le inchieste in questo senso sono state archiviate e il Tribunale presieduto da Leonardo Guarnotta scrisse in sentenza che “la scarsa trasparenza o l’anomalia di molte delle operazioni finanziarie effettuate dalla Fininvest negli anni 1975-84 non hanno trovato smentite nelle conclusioni del consulente della difesa”. Lo stesso Berlusconi avrebbe potuto fornire spiegazioni ma il 26 novembre del 2002, chiamato a deporre, si avvalse della facoltà di non rispondere. Resta dunque una certezza, sempre sancita dalla sentenza Dell’Utri. Berlusconi è stato un imprenditore “mai sfiorato dal proposito di farsi difendere dai rimedi istituzionali”, ma pronto a rifugiarsi “sotto l’ombrello della protezione mafiosa, assumendo Mangano e non sottraendosi mai all’obbligo di versare ingenti somme di denaro alla mafia, quale corrispettivo della protezione”. In un Paese normale tutto questo verrebbe ricordato quotidianamente dagli organi di informazione ma certi argomenti diventano tabù nelle conferenze stampa, negli incontri pubblici e nelle varie ospitate televisive. E’ ormai noto che questo è il Paese delle mancate verità, della memoria corta, o peggio, di chi vuol far finta di niente. Come se nulla fosse accaduto. E’ accaduto più volte in questi anni e il “Patto del Nazareno” ci ricorda come le stesse Istituzioni hanno voluto colpevolmente dimenticare. La speranza è che gli italiani, a partire dal prossimo 4 marzo, non facciano altrettanto.
L'ultimo dossier di Travaglio infanga la carriera di Grasso. Il giornalista riscrive la storia della nomina del procuratore antimafia per attaccare le sue frasi pro Berlusconi. Ma ne dimentica l'impegno, scrive Stefano Zurlo, Mercoledì 16/05/2012, su "Il Giornale". Noi non lo sapevamo. Ci era sfuggito che sulla poltrona di procuratore nazionale antimafia fosse seduto un abusivo. Un certo Piero Grasso, un furbetto non si sa bene di quale quartierino che ha letteralmente fregato il fregiato incarico al ben più titolato Gian Carlo Caselli, peraltro oggi ottimamente installato a Torino, dove si è guadagnato anche i nostri applausi per le inchieste senza se e senza ma su No Tav e relativa guerriglia. Così va il mondo, ci eravamo persi qualcosa e ora è Marco Travaglio a spiegarci la vera storia dell’antimafia militante, dopo averci già proposto negli ultimi quindici anni la vera storia di Cosa nostra. Semplificando, tutti e due i fiumi portano a Silvio Berlusconi. Dunque ieri sul Fatto quotidiano il Travaglio furioso ha messo a posto lo spudorato Grasso che a Radio 24, nel corso del programma La Zanzara, aveva riconosciuto a Berlusconi quel che è di Berlusconi e del suo governo: i meriti, alcuni meriti, nello lotta a cosa nostra. Eresia. Scandalo. Pianto greco. E allora il Travaglio sempre più furioso, invece di interrogarsi sul perché di quelle parole, le ha ricoperte di fango. Fango retrospettivo, fango capace di rovinare una carriera intera, fango che si attacca addosso. Sia chiaro: ci sono magistrati che non godono di una claque perenne, semplicemente perché fanno il loro lavoro, con discrezione. Alla Grasso, per intenderci: non c’è bisogno di strappare loro l’aureola perché nessuno l’ha mai appoggiata sulle loro teste. Altri giudici invece, al solo pronunciare il nome, vengono venerati come i santi. Due pesi e due misure. Pazienza. E allora Travaglio ha fatto di più: ha dipinto Grasso come un verme che striscia alla corte di Silvio e quando più gli serve, nel 2005, nei mesi in cui si deve nominare il nuovo procuratore nazionale, al posto di Piero Luigi Vigna, prossimo alla pensione, e due sono i contendenti: Grasso e Caselli. Due facce complementari della magistratura: Grasso è l’icona della normalità, Caselli è l’icona della magistratura militante. Ci eravamo persi però che Grasso fosse un verme. La sua colpa? Aver sfruttato le trame di Palazzo che, secondo il solito Travaglio, hanno accompagnato la sua elezione. Ecco, per il Fatto ci furono manovre e contromanovre per tenere alla larga da quella stanza Caselli e la compagine berlusconiana fra decreti e contorcimenti, le studiò tutte per affossare Caselli e mandare avanti il rivale. Non che non ci furono pressioni e schieramenti e divisioni, nella politica e nella magistratura, per quella poltrona come per tante altre. Stupisce però che si possa colpire così una persona perbene, fino a prova contraria, e si legga quella sofferta incoronazione come la didascalia di quella frase alla radio. Ma è avvilente che si possa interpretare tutta una lunga carriera solo per virare su Arcore. Se non sbagliamo, e non sbagliamo, l’obliquo Grasso è lo stesso magistrato catapultato come giudice a latere al leggendario maxiprocesso, quello imbastito a Palermo contro la bellezza di 475 mafiosi e chiuso, dopo una camera di consiglio lunga come un conclave, con decine di ergastoli. Grasso, sì sempre lui, è lo stesso magistrato cui Giovanni Falcone, sì proprio Falcone, dice: «Vieni, ti presento il maxiprocesso», come il procuratore racconta nel suo freschissimo e a tratti commovente Liberi tutti (Sperling & Kupfer). Grasso, sì ancora lui, è lo stesso magistrato che rischia di saltare in aria quando i picciotti di Cosa nostra lo avvistano insieme a Giovanni Falcone, ancora lui, e a tre giornalisti - Attilio Bolzoni, Felice Cavallaro e Francesco La Licata - in un ristorante di Catania. Peccato che Travaglio ignori questi fastidiosi dettagli e tanti altri. Anzi, no. Uno va divulgato, come ha fatto lo stesso procuratore con Tiziana Panella per Coffee break su La7. L’11 aprile 2006 quando viene catturato un certo Bernardo Provenzano, Grasso, pm fino al midollo, non si perde in proclami e conferenze stampa ma prova, da siciliano a siciliano, a prospettargli una collaborazione con lo Stato. Tanto che l’altro, disorientato, vacilla un istante prima di rispondere: «Sì, ma ciascun nel suo ruolo». Oggi Grasso guarda a quel passato che a Palermo è scritto nelle lapidi e replica: «Se penso alle delegittimazioni che in vita hanno subito Falcone e Borsellino mi sento fortunato». Chapeau.
Grasso elogia Berlusconi per la lotta alla mafia. E poi bacchetta Ingroia. Il procuratore nazionale antimafia loda gli sforzi del precedente governo: "In 3 sequestrati moltissimi beni, darei un premio speciale al Cav", scrive Lucio Di Marzo, Domenica 13/05/2012, su "Il Giornale". "Un premio speciale a Silvio Berlusconi e al suo governo per la lotta alla mafia". A proporlo è Pietro Grasso, procuratore nazionale antimafia che, in onda alla Zanzara su Radio24, loda il lavoro fatto dal precedente esecutivo e l'approvazione di norme che hanno portato a "sequestrare in tre anni moltissimi beni ai mafiosi", per una cifra totale di circa 40 miliardi di euro. Grasso fa anche presente come si stiano ancora aspettando le decisioni su diverse questioni, come le norme anticorruzione e antiriciclaggio. Ma il giudizio sulla lotta alla mafia rimane incontrovertibile: il tanto bistrattato governo Berlusconi merita una medaglia nella lotta alla mafia. Alla faccia di chi accusava l'esecutivo precedente di non aver mosso un dito contro la criminalità organizzata. La replica soddisfatta del Pdl arriva astretto giro di posta: "Grasso non fa che affermare una evidente verità. È stato tutto il centrodestra a condurre una rigorosa e seria azione legislativa e politica antimafia che la sinistra non si è mai sognata di realizzare", ha commentato il presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri. "Voglio ricordare che abbiamo rafforzato il 41bis garantendo l’applicazione del carcere duro in maniera ampia, a differenza di quanto fecero Mancino, Scalfaro, Ciampi e Amato che arresero lo Stato alla mafia - ha proseguito Gasparri -. E vedere poi Giuliano Amato, sotto il cui regno il 41bis veniva cancellato, fare il consulente del governo Monti per la riforma dei partiti è una vergogna per le istituzioni della quale chiederemo conto. Grasso quindi non fa altro che dire cose giustissime. Ma ci sono molti altri riconoscimenti che ci attendiamo ancora da lui. Evidentemente la sua prossima campagna elettorale lo spinge finalmente a dire qualche verità in più". Grasso mantiene invece il riserbo quando le questioni si fanno più personali. Chi voterà come sindaco di Palermo? Non lo dice: "Un magistrato non deve far conoscere le sue preferenze politiche". E infatti poi sgancia una bordata nei confronti del pm Antonio Ingroia quello che, tanto per dirne una, concionava dal palco dei comunisti: "Fa politica utilizzando la sua funzione, è sbagliato. Deve scegliere. E per me è tagliatissimo per fare politica". Ingroia non ci sta e replica: "Non voglio polemizzare con il procuratore Grasso. Ma so di aver esercitato un mio diritto: la possibilità, per ogni cittadino e magistrato, di esprimere in qualsiasi sede il proprio giudizio in materia di Costituzione e di politica della giustizia". Ma ormai la bacchettata è arrivata.
Antonio Ingroia cancella da solo la sua intera carriera: "Silvio Berlusconi una vittima della mafia", scrive il 15 Febbraio 2018 "Libero Quotidiano". Come cancellare una intera carriera da militante anti-Berlusconi - in veste di magistrato prima, più brevemente in veste di politico poi - con una semplice frase. Si parla di Antonio Ingroia, che ora fa l'avvocato, e in tale veste ha affermato che a suo parere Silvio Berlusconi è una vittima della mafia. La stessa mafia che Ingroia ha sempre cercato di dimostrare essere vicina a Berlusconi stessi. La frase che non ti aspetti, come sottolinea Il Tempo, Ingroia la ha estratta dal cilindro nel tentativo di difendere il suo ultimo cliente, Benedetto Bacchi, uno dei maggiori imprenditori italiani nel settore dei giochi e delle scommesse, arrestato un paio di settimane fa per l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e riciclaggio del denaro dei clan. Nel dettaglio, secondo la Dda di Palermo, l'imprenditore - a capo di una rete di agenzia di scommesse - avrebbe destinato parte delle somme, tra i 300 e gli 800mila euro l'anno, alle varie famiglie mafiose. Accuse gravissime, alle quali Ingroia sta cercando di rispondere, appunto, con un parallelo nel quale tira in ballo il suo arci-nemico, Berlusconi. L'ex pm prezzemolino ha infatti ricordato che "così come non c'erano elementi allora su Berlusconi, oggi non ci sono su Bacchi", e dunque "nessuno può essere condannato, se non ci sono prove". Ingroia si riferiva all'inchiesta per riciclaggio contro il Cavaliere: "Quel processo contro Berlusconi l'ho istruito io, ero pm all'epoca e all'inizio avevo determinate convinzioni: lui dava soldi alla mafia. Ma non si era chiarito se così facendo stesse di fatto sottostando a un'imposizione di pizzo o se li dava perché fossero poi reinvestiti. Motivo per cui ho chiesto io stesso l'archiviazione". Ma non è tutto. A parere di Ingroia, in entrambi i casi, ci sarebbero state "pressioni e intimidazioni", e "questo vale per Berlusconi, che era vittima più che complice, e vale ora per Bacchi. Ci sono delle forti similitudini tra le vicende del primo e quella odierna del secondo". E tralasciando le similitudini citate da Ingroia, senza dunque entrare nel dettaglio del caso del signor Bacchi, resta un evidenza: come detto, Ingroia stesso con una frase in difesa del suo assistito ha di fatto smentito tutto il suo passato, la sua lunghissima e infruttuosa caccia alle streghe, o meglio caccia a Berlusconi. Un curioso cortocircuito con il quale l'ex pm prezzemolino si archivia da solo.
Trattativa Stato- mafia: «Decidetevi, il Cav fu vittima o complice?» Scrive Errico Novi il 4 Marzo 2018 su "Il Dubbio". Il difensore del generale Mori “inchioda” i pm: “Come è possibile che l’ex premier sia rimasto amico di Dell’Utri anche dopo le minacce dei boss?” In genere i processi con più imputati parcellizzano le strategie di difesa. Difficile che una in particolare delle arringhe riassuma il senso dell’intero contraddittorio. Lo “Stato- mafia” fa eccezione anche in questo. All’udienza di ieri, l’avvocato Basilio Milio, difensore dei generali Mario Mori e Antonio Subranni, ha posto la domanda chiave: «Cara Procura, vuoi chiarirci se in questa vicenda la posizione di Silvio Berlusconi è quella della vittima di Cosa nostra o se invece fu autore di minacce mafiose?». Quesito non banale, anzi rivelatore. Evoca una delle più serie contraddizioni dell’accusa: il rapporto dell’ex premier con Marcello Dell’Utri, il solo dei due a figurare tra gli imputati del processone palermitano. «Se davvero Dell’Utri presenta a Berlusconi le minacce di Cosa nostra», chiede Milio alla Corte d’assise presieduta da Alfredo Montalto, «come può avvenire che lo stesso Berlusconi conservi l’amicizia con Dell’Utri e poi addirittura se ne serva come tramite per stabilire un accordo con la mafia?». Giusto, come può? E mica il dottor Nino Di Matteo, o gli atri pm impegnati nelle fluviali requisitorie, come Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia, hanno chiarito questa bizzarria? E non è certo il solo paradosso. Ce ne sono altri, sostanziali ma anche formali. E su questi ultimi si concentra ancora Milio, in particolare quando cita «la sentenza di assoluzione già emessa sul caso Mori-Obinu: il mio assistito», dice l’avvocato a proposito del generale, «non può essere giudicato due volte per fatti che sono sempre gli stessi». Non solo. Perché i “fatti” non sarebbero stati neppure specificamente indicati dalla Procura, secondo il legale: «È la pubblica accusa che deve dirci in quale circostanza Mori, Subranni o altri avrebbero portato la minaccia di Cosa nostra al presidente del Consiglio». Perché, dettaglio tutt’altro che irrilevante, la specifica imputazione per il generale è di «minaccia a corpo politico dello Stato». Nello specifico, il “corpo” è lo Stato inteso nella sua funzione di governo. Affinché dunque possa riconoscersi il reato, è la tesi di Milio, dovrebbe essere indicato lo specifico passaggio in cui Mori trasferì la minaccia dei boss al vertice di Palazzo Chigi. «È la Procura che deve dircelo». E appunto, non lo fa. Ma certo è affascinante, più di tutte, la questione Berlusconi. È la cartina di tornasole dell’intero processo: quel nome vorrebbe essere suggestione di una sostenibilità delle accuse, ma nell’arringa di ieri si rovescia in suggestione che smonta l’impianto: «Da un lato», osserva il legale di Mori e Subranni, la Procura dice che Berlusconi è una vittima, per altro verso ha fatto sentire le intercettazioni di Graviano per dimostrare che Berlusconi era quello che aveva siglato i patti con la mafia. E quali erano i patti? Quelli che, secondo i pm, avrebbero permesso a Berlusconi di andare al governo. Vedete che c’è una contraddizione tra il Berlusconi vittima e il Berlusconi autore della minaccia?». Interessante che una parte così ampia della difesa di Mori e Subranni chiami in causa altri aspetti sostanziali del procedimento: è qui appunto che le parole di Milio si rivelano come arringa contrapponibile non solo alle accuse specificamente rivolte ai due generali, ma alla sostanza ultima dell’intera tesi accusatoria. C’è spazio anche per la liquidazione del teste principale, Massimo Ciancimino («il suo racconto sulla trattativa è fantascientifico») e per un’analogia tra la contraddizione su Berlusconi e quella relativa alla posizione di Calogero Mannino: «È strana anche la sua doppia figura: autore del reato e vittima del reato». Non manca un passaggio su Bruno Contrada (fuori da questo processo) di cui Milio dice: «Non era un delinquente ma uno 007, non un boss mafioso come si tenta di farlo passare: e aggiungo che i servizi segreti non sono un covo di banditi e criminali ma servitori dello Stato». Fino alla evocazione di un vero e proprio metodo Ingroia, «iniziare un processo con un capo di imputazione e in corso d’opera puntare su un altro cavallo, con vagonate di atti a supporto delle nuove ipotetiche accuse. Tutto questo», lamentas l’avvocato Milio, «avviene in violazione della legge e determina l’inversione della prova». E d’altra parte, in quattro anni – da tanto dura questo procedimento ancora in primo grado – capita che le cose, un po’, cambino.
“Alberghi di lusso e stipendio d’oro”: sequestro di beni per l’ex pm Ingroia. Sotto accusa la sua gestione della società regionale per i servizi informatici, "Sicilia e-Servizi". La Finanza punta il dito su sprechi per 150mila euro, scrivono Salvo Palazzolo e Francesco Patanè il 16 marzo 2018 su "La Repubblica". Alberghi a cinque stelle e stipendio d’oro. L’ex pubblico ministero antimafia Antonio Ingroia, oggi avvocato e candidato con la "Lista del popolo per la Costituzione" alle Politiche del 4 marzo, finisce sotto accusa per la gestione di “Sicilia e-Servizi”, la società regionale che si occupa (fra tante inefficienze) dei servizi informatici. Il nucleo di polizia economico-finanziaria di Palermo gli ha notificato un provvedimento di sequestro di beni per 150mila euro, l’equivalente di quanto avrebbe intascato illegittimamente, durante la sua attività di amministratore unico e di liquidatore della società. Ingroia è indagato per peculato dai magistrati che fino a cinque anni fa erano i suoi colleghi. Per il procuratore Francesco Lo Voi, l’aggiunto Sergio Demontis e i sostituti Pierangelo Padova ed Enrico Bologna, avrebbe potuto ottenere solo il rimborso dei biglietti aerei nelle trasferte da Roma (sua nuova residenza) verso la Sicilia. Nulla, invece, era dovuto per i costosi alberghi: dal Grand hotel Villa Igiea, la storica residenza della Belle Epoque scelta da tanti sovrani per i loro soggiorni in Sicilia, all'Excelsior, al Centrale Palace hotel. E poi c’è la maxi-indennità di risultato da 117mila euro che Ingroia si è autoassegnato per tre mesi di lavoro come liquidatore della società a capitale pubblico della Regione. Nel 2013, l’anno contestato, gli utili erano stati di appena 33mila euro, nell’anno successivo furono di 3.800 euro. Utili, si fa per dire, di un carrozzone che doveva essere liquidato e invece è rimasto aperto. Il provvedimento di sequestro riguarda anche Antonio Chisari, revisore contabile della società che oggi si chiama Sicilia Digitale spa. Il caso Ingroia è nato dopo una segnalazione della procura della Corte dei conti, incuriosita da un articolo del settimanale L’Espresso, che nel febbraio 2015 dava conto dei rimborsi a tanti zeri di Ingroia e titolava: “Servizi e imbarazzi”. Nei mesi scorsi, l’ex pubblico ministero nominato dal governatore Rosario Crocetta ha ricevuto due avvisi di garanzia per questa vicenda. Interrogato in procura, ha rivendicato di avere rimesso in piedi un’azienda pubblica che faceva acqua da tutte le parti: “E’ la legge a prevedere riconoscimenti agli amministratori in caso di raggiungimento di determinati obiettivi”, ha dichiarato. Ma la difesa non ha convinto. La procura contesta che “Sicilia e-servizi” abbia avuto risultati e sostiene che la maxi-indennità di Ingroia avrebbe addirittura determinato un deficit di bilancio. Nell’atto d’accusa, i pubblici ministeri ricordano che l’indennità di risultato ha una nuova disciplina dal 2008: prevede la liquidazione delle somme “solo in presenza di utili e comunque in misura non superiore al doppio del cosiddetto compenso omnicomprensivo”. All'epoca, il compenso omnicomprensivo riconosciuto dall'assemblea della società era di 50 mila euro. Ingroia promette battaglia legale contro i suoi ex colleghi. Intanto non è più al vertice di “Sicilia e-servizi”, il nuovo presidente della Regione Nello Musumeci non l’ha confermato. E ora l’ex pubblico ministero fa l’avvocato a tempo pieno, fra i suoi clienti anche arrestati per mafia, il più recente è il “re” delle scommesse on line Ninì Bacchi, che in un’intercettazione diceva: “Una cosa è che uno si presenta con Antonio Ingroia, ex magistrato antimafia, conosciuto in tutto il mondo”. E l’imprenditore boss meditava di dare al suo avvocato l’uno per cento della società. Ma è rimasta un’idea. Negli ultimi tempi, Ingroia si è dedicato soprattutto alla campagna elettorale, con la sua “Lista del popolo per la Costituzione”, che però ha avuto un risultato deludente. Ma l'ex pm non si arrende: il giorno dopo il voto ha annunciato su Facebook che proseguirà nel suo impegno in politica.
La "seconda vita" dell'ex pm antimafia: un passo falso dietro l'altro, scrive Alessandra Ziniti il 16 marzo 2018 su "La Repubblica". Nella mia seconda vita metto a frutto gli errori della prima”, ama ripetere da qualche tempo a questa parte. Ma per Antonio Ingroia, fino a cinque anni fa icona dell’antimafia, la nuova vita è una sequenza di passi falsi uno dietro l’altro. Mandato in archivio il secondo flop politico con l’insignificante 0,02 per cento della sua “Lista del popolo per la Costituzione” presentata dal movimento “La mossa del cavallo” fondato con Giulietto Chiesa, adesso l’ex pm antimafia diventato avvocato veste gli scomodissimi panni di indagato. E per giunta dai colleghi della sua ex Procura, quella di Palermo, che – dopo averlo iscritto nel registro degli indagati con l’accusa di peculato – stamattina non hanno esitato a far eseguire un sequestro per equivalente da 150.000 euro, la stessa cifra del “bonus” che, da amministratore di Sicilia e-servizi, società informatica della Regione siciliana, si è liquidato per aver raggiunto il suo “obiettivo”. Una parabola imprevedibile quella del magistrato che, dopo aver istruito e avviato il processo sulla trattativa Stato-mafia, nel 2012 improvvisamente – quando già risuonavano le sirene di un suo impegno in politica – accettò l’incaico di presidente di una commissione internazionale Onu in Guatemala sul traffico di droga. Incarico durato il giro di poche settimane prima del precipitoso rientro in Italia per il lancio di Rivoluzione civile, il movimento politico con il quale Ingroia addirittura ambiva a diventare presidente del Consiglio. Progetto bocciato sonoramente dagli elettori. I tempi di Ingroia giovane allievo di Paolo Borsellino prima e di punta di diamante della Procura di Giancarlo Caselli negli anni dei processi su mafia e politica sembrano ormai lontanissimi. Fanno parte di quella che Ingroia definisce appunto la sua prima vita. La seconda lo ha visto saltare, in modo acrobatico, da un incarico all’altro, accettando anche quello offertogli dall’ex governatore siciliano Rosario Crocetta che lo chiama al vertice di Sicilia e-Servizi, società che gestisce i servizi informatici della Regione e dalla quale Ingroia si liquida un maxistipendio con un bonus per aver raggiunto il suo obiettivo. Poco importa che la società finisca sommersa dai debiti. “Non certo per la mia gestione”, ribatte lui che, nel frattempo, accetta anche l’incarico di commissario della provincia di Trapani. Lo spoil system alla Regione Siciliana segna anche la fine dell’incarico di Ingroia che, almeno per il momento si dedica a tempo pieno alla sua attività di avvocato. Ultimo cliente un imputato di mafia, accusato ovviamente dai suoi ex colleghi.
“Berlusconi vittima della mafia”: lo dice la Cassazione. E adesso che si fa? Scrive Jacopo Tondelli il 24 Aprile 2012 su L’Inkiesta. Qualcuno ci ha provato, ci sta provando. La voglia di leggere nell’ultima sentenza della Cassazione la conferma della mafiosità di Berlusconi tracima. Ed è ovvio, naturale, in un paese che per due decenni si è alimentato di lui, del suo carisma, dei suoi misfatti, del suo fascino, dei suoi disastri. È ovvio, naturale, ma insostenibile. Cosa volete farci: nella sentenza della Cassazione che spiega il perchè dell’annullamento della condanna a Marcello Dell’Utri si entra nel dettaglio del suo ruolo di “mediatore”. E per quel che si può leggere fin da subito, si capisce che Dell’Utri agevolò l’arrivo dello stalliere Mangano ad Arcore e poi portò soldi - molti, e tutti del Cavaliere - nelle casse di Cosa Nostra. Perchè? Per far evitare guai a Berlusconi e ai suoi familiari. In sostanza, il più banale dei giochini della mafia: vendere protezione da se stessa. Così scrissero i giudici, ed è davvero difficile fare finta di niente. Questa la “verità giudiziaria”. E quella storica? Quali i rapporti tra i grandi imperi economici del nord (non solo quello di Berlusconi) e la mafia, la più grande agenzia di potere della storia italiana? Quale - necessaria, obbligata e ovviamente deplorevole e disgustosa - relazione tra i grandi attori economico-politici del paese e Cosa Nostra? Non spetta ai giudici dirlo, e sarebbe bello che la ricerca delle radici della nostra storia non si fermasse di fronte a una sentenza, per provare invece a guardare avanti, a un problema che esiste e domina e persiste anche adesso che Berlusconi non governa più e Dell’Utri, eternamente imputato, si dedica solo agli amati vecchi libri. Io, per quanto mi riguarda, non mi muovo dalle mie convinzioni formate lungo gli anni: Berlusconi è stato un grande imprenditore delle tv; un leader politico intuitivo, spregiudicato e carismatico, che conosceva il paese che aveva in parte importante costruito; un disastroso uomo di governo. Si è mosso in ambienti border line, non ha ovviamente mai avuto paura di stringere mani che io non toccherei; si è circondato di gente discutibile, in molti casi proprio in virtù - e non nonostante - tale discutibilità. Sulla sua mafiosità, mi fido per definizione dei giudici della Cassazione, che mi spiegano - oggi - che della mafia è stato vittima, e ha ceduto al ricatto preferendo affidare la mediazione a uno che quelli li conosceva bene - Dell’Utri - piuttosto che denunciare e combattere. Da un leader politico mi aspetto altro, ma non posso considerarlo mafioso solo perchè ha pagato - così dice la mafia - per non farsi sparare o per non farsi rapire i figli. Insomma, preferisco parlare di politica e chieder agli storici di lavorare. Ai giudici delego il compito di scrivere sentenze e di parlare con quelle. Al resto - ieri, oggi, domani - dobbiamo pensarci noi. Io lo penso da sempre e oggi non faccio fatica a ribadirlo. Per quelli che hanno osannato la magistratura e sperato nelle sentenze come salvezza del paese e strumento unico e ultimo di verità, il discorso è diverso. Pazienza: il paese va avanti (più o meno), e ha bisogno di parole di futuro. Le sentenze, per definizioni, parlano solo al passato.
Berlusconi come i Cavallotti, senza confisca, però.
Lo Stato mi ha detto: «Cavallotti, ok sei innocente, però ti rovino». La lettera dell’imprenditore Pietro Cavallotti, distrutto nonostante l’assoluzione da accuse di mafia, scrive Pietro Cavallotti il 3 Aprile 2018 su "Il Dubbio". Lo scorso 22 marzo si è tenuta presso la sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo l’udienza per la revocazione della confisca disposta nei confronti dei miei familiari. Mi ci sono avvicinato con sentimenti contrastanti. Da un lato ero certo delle nostre ragioni; dall’altro non sapevo se riporre ancora la mia fiducia nella giustizia terrena. Quando la Cassazione, con nostra grande sorpresa, confermò la confisca, quando ricevemmo dai carabinieri – come al solito, in prossimità delle festività natalizie – l’atto con cui ci veniva ordinato di lasciare, senza indugio, le nostre case, provai a fare di tutto per evitare ai miei familiari l’ennesima umiliazione. Avevamo chiesto all’Agenzia nazionale dei beni confiscati la possibilità di occupare la casa, pagando un corrispettivo, in attesa del ricorso alla Corte europea. Non ricevemmo alcuna risposta. Proposi ricorso straordinario alla Corte europea, ma la Corte mi rispose che interviene d’urgenza solo nel caso in cui sia a repentaglio la vita di una persona, e si sa che togliere la casa non significa togliere la vita. Nulla valse ad evitare lo sfratto e, con l’anima in spalle, fummo costretti ad abbandonare le case costruite con il lavoro onesto dai nostri padri e nelle quali noi figli avevamo vissuto la nostra infanzia. “Sig. Cavallotti, lei le ha le prove nuove per fare l’istanza di revocazione?!”, mi rispondeva l’avvocato quando lo sollecitavo ad agire per la riapertura del processo. E la mia replica era: “Avvocato, ma se non le andiamo a cercare, come le dobbiamo avere le prove nuove?”. Anche questi discorsi capita di fare ad una persona impelagata con la giustizia. Compresi di dover impiegare gli ultimi anni della mia vita nello studio dei fascicoli della vicenda giudiziaria della mia famiglia, alla ricerca di prove nuove che permettessero la riapertura del processo. Non potevo mollare, non potevo lasciare che i sacrifici di una vita venissero per sempre cancellati. Lo dovevo a mio padre, a mia madre e a tutti i miei parenti che hanno condiviso le stesse sofferenze. All’immobilismo e alla rassegnazione che, pian piano, cominciavano a prevalere su di noi, doveva seguire una reazione. E la reazione ha comportato per me lo studio immane non solo degli atti processuali ma anche del contesto criminale a cui i miei familiari sono stati erroneamente ritenuti contigui. Se mi fossi limitato soltanto a studiare le carte processuali, difficilmente avrei potuto individuare prove nuove. La verità doveva essere ricercata là fuori. La prima difficoltà nella quale mi sono imbattuto era quella di dimostrare, con prove nuove, l’innocenza di persone, miei familiari, già assolte perché il fatto non sussiste. Questo è il paradosso delle misure di prevenzione: dimostrare di non avere avuto niente a che fare con la mafia di fronte a una sentenza che ti ha assolto perché non hai avuto niente a che fare con il crimine. Le fonti aperte, come internet, si sono rivelate preziose alleate per comprendere alcune dinamiche criminali e per smentire, con fatti certi, le accuse mosse nei nostri confronti. Mi ricordo i viaggi fuori dalla Sicilia, alla ricerca di riscontri alle nuove ipotesi difensive che pian piano affioravano nella mia mente. “Di fronte a una grave ingiustizia, non ci possiamo rassegnare”, dice- vo ai miei familiari cercando di sollevare il loro morale a pezzi, riaccendendo nei loro cuori la speranza ogni qualvolta li aggiornavo sulle nuove prove che man mano emergevano. È stato un viaggio pieno di insidie e di difficoltà, alla ricerca della verità. Un viaggio che ho compiuto con la forza del figlio che non si rassegna, con la grinta di chi è vittima di una ingiustizia e non vuole soccombere, ma anche con la lucidità del giurista che si deve estraniare dall’emozione per essere lucido e selezionare ciò che può essere utile per vincere la causa. Ma è stato anche un viaggio a ritroso nel tempo che mi ha permesso di rivedere la mia vita, di constatare come essa sia stata influenzata da questa vicenda giudiziaria e di immaginare come sarebbe stata se lo Stato non avesse deciso, un giorno, di intraprendere, per i motivi che le recenti notizie di cronaca hanno contribuito a chiarire, una campagna di annientamento nei confronti di persone innocenti che avevano fatto solo il bene. Per fortuna, nonostante tutto, siamo ancora vivi e lottiamo per l’affermazione dei nostri diritti. Dalla polvere del tempo è stata riportata alla luce una sentenza che si pone in netta contraddizione con la confisca; sono state raccolte oltre ottanta dichiarazioni che smentiscono le affermazioni dei periti allora nominati dal Tribunale, nuove dichiarazioni di collaboratori di giustizia, nuove dichiarazioni di persone informati dei fatti, nuove sentenze che permettono di chiarire i fatti di causa. I nostri avvocati sono stati bravissimi a esporre al Tribunale tutte le prove raccolte. I miei studi giuridici mi convincono che le ragioni per un accoglimento dell’istanza di revoca ci sono tutte. Ma l’esperienza personale mi convince che, forse, l’accoglimento dipende solo dalla volontà dei giudici, forse dalla volontà politica, in un contesto anomalo in cui rimettere in discussione un provvedimento che ha inchiodato alla croce per venti anni centinaia di famiglie, ridotto alla fame un intero paese, distrutto patrimoni costruiti con i sacrifici, significherebbe assestare un duro colpo ad un intero sistema sul quale molti individui hanno fondato carriere e si sono arricchiti in danno della comunità e di molti padri di famiglia. Cosa che ha riconosciuto indirettamente il Pubblico Ministero nel momento in cui ha chiesto il rigetto della nostra istanza.
Non so se aspettarmi giustizia, di certo vivo questi giorni di tremenda attesa con la serenità propria di chi sa di avere fatto tutto quanto era umanamente possibile fare per far valere le proprie ragioni. In questo viaggio ho conosciuto persone straordinarie, come gli avvocati Baldassare Lauria, Aucelluzzo, Marcianò, Iacona, Chinnici, Stagno d’Alcontres e Piazza; altre che non meritano di essere ricordate. E, per fortuna, ho incontrato il Partito radicale, l’unico che ha deciso di ascoltarci e fare della mia vicenda e di quelle analoghe alla mia una campagna coraggiosa di informazione e di lotta per affermare, anche nella lotta alla mafia, principi e metodi da Stato di Diritto, come invocava Leonardo Sciascia, non la “terribilità” dello Stato e delle misure di emergenza. Pietro Cavallotti
La famiglia Cavallotti vittima del pizzo presa per amica dei boss, scrive Errico Novi il 3 Aprile 2018, su "Il Dubbio". LA STORIA GIUDIZIARIA DEI CAVALLOTTI. I nomi delle loro aziende sono ormai da anni nella saga siciliana delle misure di prevenzione: Comest, Icotel, e poi Euro impianti plus. Sono i marchi della famiglia Cavallotti, una dinastia di imprenditori radicata nel Palermitano, a Belmonte Mezzagno. Mettono in piedi un piccolo impero nel campo della metanizzazione, che negli anni Novanta porta le condotte in molti comuni della Sicilia occidentale. Patrimonio oggi ridotto in polvere, prima dai sequestri per un’accusa di mafia rivelatasi infondata e poi dalla gestione dei beni condotta dagli amministratori giudiziari. Della seconda generazione dei Cavallotti fa parte Pietro, autore della testimonianza pubblicata in questa pagina: lui e i suoi fratelli sono ancora, tenacemente alle prese con un processo di prevenzione che consentirebbe loro di riacquisire almeno una parte dell’originaria struttura aziendale. Nella prossima udienza fissata per il 15 maggio saranno finalmente ascoltati i periti, che dopo 7 anni di stallo dovrebbero attestare come le società della famiglia di Belmonte abbiano un’origine lecita. Nella storia dei Cavallotti c’è un processo con accuse di mafia che nel 1998 aveva portato all’arresto di tre esponenti della “prima generazione” di questi imprenditori. Il pizzo pagato a boss vicini a Provenzano fu scambiato per un sostegno da parte Cosa nostra. La verità, dunque l’innocenza degli imprenditori siciliani, è stata accertata dopo 12 anni, nel 2010. Non è bastato a evitare che anche le aziende appartenenti alla seconda generazione dei Cavallotti finissero sotto sequestro, in un procedimento di prevenzione dinanzi alla specifica sezione del Tribunale palermitano, presieduta fino a pochi mesi fa da Silvana Saguto, la giudice espulsa dalla magistratura con accuse legate proprio alle anomalie del suo ufficio. Pietro Cavallotti e i suoi fratelli lottano per riappropriarsi di aziende indebitate ormai per milioni, convinti di poter ricostruire quello che gli amministratori giudiziari hanno messo in ginocchio.
Concorso esterno. Il reato non parlamentare, ma giurisprudenziale partigiano. Basta eliminare i magistrati dissidenti laici non comunisti e giustizialisti.
Parla Corrado Carnevale: «Avevo una mania pericolosa: applicare la legge…». Intervista di Valerio Spigarelli del 31 Marzo 2018 su "Il Dubbio". Ripubblichiamo l’intervista a Corrado Carnevale, ex presidente della prima sezione penale della Corte suprema di Cassazione dal 1985 al 1993, apparsa nel numero di marzo della rivista della Camera penale di Roma “CentoUndici”, firmata da Valerio Spigarelli e Giuliano Dominici, dunque negli stessi giorni in cui ricorrono i 25 anni dall’avviso di garanzia che il giudice ricevette da Gian Carlo Caselli e Antonio Ingroia, il 23 aprile 1993. “Quando venne introdotta la figura del 416 bis mi occupavo esclusivamente di civile, perché io diventai penalista per caso, dato che sono un penalista di complemento, così mi sono sempre qualificato, anche se mi sono laureato in Diritto penale e ho avuto il diritto alla pubblicazione della tesi, quindi, non ero digiuno. Allora, dissi, me ne vado nella più penalistica delle Sezioni Penali e andai nella Prima Penale”. “Alla prima Penale si cominciava a parlare di 416 bis, o meglio c’era già il 416 bis che fu introdotto dopo l’omicidio di Costa, del Procuratore della Repubblica Costa. Naturalmente, dai processi che cominciarono ad essere esaminati con la mia presidenza c’erano anche processi di 416 bis e, quindi, cominciai a studiarmi la questione. Durante il fascismo non fu necessario inventare una nuova figura di reato per punire i mafiosi, con risultati che poi non si sono più avuti. Lo stesso risultato non si era avuto in seguito e mi sorpresi che si fosse creata questa nuova figura anche se capii subito che il nucleo era costituito dalla pressione che questi soggetti esercitano, avvalendosi della forza intimidatrice dell’associazione, cioè a dire il soggetto passivo del reato soggiace molto di più alle richieste del mafioso perché teme le reazioni dell’associazione che sono certo eccessive rispetto alle comuni reazioni dei delinquenti, alle richieste di pagamenti, alle estorsioni insomma, perché la caratteristica della mafia, almeno all’epoca, era quella di esercitare estorsioni senza atti violenti ma solo avvalendosi della forza intimidatrice dell’associazione”.
Presidente, quando fu introdotta, la norma fotografava un fenomeno con una chiara una connotazione sociologica, oltre che criminologica: si può dire che le prime letture in Cassazione del 416 bis sono legate anche a questa identificazione sociocriminale?
«Sì, sono strettamente legate perché non c’è dubbio che la cosa ha delle caratteristiche diverse da tutte le altre, o comunque peculiari rispetto alle altre associazioni, quindi, il Giudice, nell’applicare la norma, se la applica in modo corretto, sa benissimo quali sono gli elementi da valorizzare, da centrare. Poi con il tempo le cose sono cambiate e sono cambiate soprattutto quando si è introdotto da parte dei giudici di merito il concorso esterno. Concorso esterno che noi, per la verità, escludemmo in maniera assoluta con tre o quattro sentenze della fine degli anni 80, tant’è che la Corte di Giustizia europea ha dovuto affermare che questa figura del reato si era consolidata soltanto con l’intervento delle Sezioni Unite, con la famosa sentenza del 1992 – mi pare che sia così – avallando quello che nel nostro sistema è inammissibile, e cioè che la giurisprudenza possa creare nuove figure di reato».
C’è qualcuno che dice, non soltanto in giurisprudenza ma anche parte della dottrina – Fiandaca uno per tutti –, che non è vero che il concorso esterno sia una stravagante invenzione della giurisprudenza: no, il concorso esterno nel reato associativo è da sempre riconosciuto nel sistema penale. La sua opinione su questo quale è?
«Io non riesco ad immaginare come uno che non fa parte di una associazione possa concorrervi; o è favoreggiamento oppure è concorso interno, perché io non credo che per poter essere responsabile di concorso in associazione mafiosa si debba per forza aver avuto il provvedimento di ammissione, il battesimo, la puncicata. Non credo che questo sia indispensabile, e infatti tutte le sentenze che sono state fatte nella seconda parte del 1980 erano su questa posizione, con la mia presidenza e anche senza la mia presidenza, dalla Prima Penale, perché all’epoca la Prima Penale aveva l’esclusiva, mentre successivamente fu fatto un certo spostamento».
Presidente, quello spostamento avvenne per caso? Come si arrivò a decidere che non doveva essere solo la Prima ad occuparsi di questi reati?
«Perché si diceva che non era opportuno che le decisioni fossero prevedibili, questo era il punto. Secondo me, invece, la prevedibilità delle decisioni è un vantaggio, è una cosa alla quale bisognerebbe tendere, non fare di tutto per evitarla; questo diminuirebbe anche il contenzioso, perché se l’avvocato deve sostenere una tesi e sa che non trova spazio, almeno in quel momento, si avrebbe anche una diminuzione dei ricorsi e siamo sempre lì: la giustizia in Italia va male perché è amministrata male».
Su questo ci tornerei più in là, rimaniamo sulla storia del reato, del concorso esterno e di quel filone giurisprudenziale. Viene inserito questo reato, un reato specifico che non era stato introdotto neppure ai tempi del fascismo, siamo in piena guerra di mafia; quella giurisprudenza, la cosidetta giurisprudenza di Carnevale – che come lei dice non era di Carnevale, ma della Prima Sezione – al di là del merito afferma un principio: quello della libertà della giurisdizione. Anche di fronte alla emergenza c’è un magistrato, ci sono dei magistrati, che vogliono fare i giudici “normali” per qualsiasi tipo di fenomenologia criminale, per qualsiasi tipo di reato, ma rispetto a questa “pretesa” di giudicare in maniera ordinaria fenomeni che vengono ritenuti straordinari succede che la Prima Sezione viene aggredita.
«Viene aggredita, e non episodicamente».
Come s’avvertiva la pressione politica, mediatica, giudiziaria, insomma l’aspettativa che un processo dovesse andare in una certa maniera piuttosto che in un’altra?
«Tutte le volte che ci occupavamo di ricorsi di quel tipo, l’indomani la stampa parlava dell’ammazzasentenze. Io lo sapevo benissimo, ma questo mi lasciava del tutto indifferente e quando seppi che c’era un magistrato di Palermo che aveva coniato il termine ammazzasentenze io risposi che noi non ammazzavamo nessuna sentenza, ma facevamo tutt’al più il lavoro dell’anatomopatologo, quello che fa l’analisi sul cadavere».
Tutto questo come veniva vissuto, non soltanto da lei personalmente ma dalla Corte?
«Guardi la Corte, i componenti del collegio, non l’avvertivano neppure per indignarsi, perché la vulgata attribuiva tutte le decisioni a me, e neppure avvertivano che, in fondo, se da un canto attaccavano solo me, implicitamente consideravano loro delle marionette, e non uno solo, tutti e quattro, e non erano sempre gli stessi tra l’altro. Però a loro dava fastidio che si parlasse della Prima Penale. Io ricordo che quando ci fu la prima ondata di queste cose, in una udienza successiva con un collegio completamente diverso dal precedente, ci occupammo del ricorso contro l’ordine di cattura nei confronti di un famoso personaggio dell’epoca che era stato attinto da un ordine di cattura per omicidio, strage. Siccome era proprio una cosa pazzesca io dissi “guardate, siccome dobbiamo decidere tutti dovete essere consapevoli tutti, quindi vi leggerò parola per parola la motivazione”. Alla fine della lettura il più anziano di cui ricordo il nome, ma non ve lo dico perché è morto, quindi non può più smentirmi, disse “è acqua fresca”. Allora dissi: “Annulliamo”. Sa come mi risposero? “E che vogliamo andare un’altra volta a finire sui giornali?”. Io, guardi, non ci vidi più: “A parte il fatto che sul giornale non ci siete finiti voi, perché voi non facevate parte di quel collegio e comunque neppure i componenti del collegio, Carnevale e basta, il giudice Carnevale, l’ammazza sentenze. Ma, dico noi ci dobbiamo preoccupare di quello che dice il mondo, di quello che dice il giornale? Ma no. Dico allora sentite una cosa, siccome io vi ho letto tutto, ognuno di voi ha ascoltato perché penso non sia stato distratto, votiamo e non ne parliamo più”. Finì 4 a 1. Dopodiché uscimmo, perché bisognava, i giornali ci attendevano, ed io dissi: “Giustizia è fatta”, e capirono che ero stato messo in minoranza».
Era prevedibile che si sarebbe arrivati alla lettura attuale della norma?
«No, non era prevedibile, se la prevedibilità fosse stata sorretta dalle regole di ermeneutica normativa, è successo perché adesso non si interpreta più la norma».
Nella lettura di queste norme la giurisdizione ha difeso la tassatività della norma penale, e assieme l’indipendenza della magistratura e la libertà della giurisdizione, secondo lei?
«Almeno nel periodo in cui io fui magistrato questo accadeva, certamente ad opera di alcuni collegi, anche se in Cassazione questa idea non era condivisa da tutti. Le debbo dire, però, non per difendere me stesso ma per onorare i miei colleghi, che su quella giurisprudenza alla fine non ci fu nessun dissenso, quei colleghi che avevano rigettato il ricorso di cui ho parlato prima cambiarono opinione, tutti».
Oggi la parola mafia, proprio da un punto di vista lessicale, significa quello che significava 50 anni fa, 60 anni fa o invece, soprattutto nella percezione collettiva, abbraccia una serie talmente vasta di comportamenti che definisce fenomeni diversi, per legittimare le piccole mafie, le mafie delocalizzate? …
«Ora, qualunque gruppo di persone commette reati che in quel momento storico meritano di essere particolarmente sanzionati, questo gruppo di persone diventa un’associazione mafiosa».
In questo gioca un ruolo il fatto della specialità del processo per fatti di mafia?
«Sì, soprattutto poiché ci sono degli strumenti istruttori e investigativi che sono tipici del processo di mafia. I Pm ed i Gip ritengono che qualificando un’associazione comune come un’associazione mafiosa possono avvalersi di quegli strumenti che agevolano molto il raggiungimento del risultato».
In questo tipo di processi le intercettazioni telefoniche o ambientali durano anni. Secondo Lei la magistratura italiana ha difeso l’articolo 15 della Costituzione o, nella prassi applicativa, invece lo ha sostanzialmente vanificato?
«Credo che si sia avvalsa della massima – che io non approvo – che il fine giustifica i mezzi: siccome loro si prefiggono uno scopo, per raggiungere quello scopo per loro qualunque mezzo è consentito. Io personalmente sono stato sottoposto ad intercettazione per anni, di seguito».
Processo di mafia, processo di doppio binario, strumenti eccezionali di investigazione, grande potere alle Procure della Repubblica. La domanda è molto diretta: chi comanda oggi, all’interno di un processo, la Procura o il giudice? Chi è più forte?
«Certamente la Procura, poi c’è anche il fatto che le Procure forniscono le notizie alla stampa».
Ecco, la stampa: quando faccio la domanda ‘ chi comanda’, lei risponde immediatamente ‘ le Procure, anche perché le Procure hanno dei rapporti con la stampa’. Questo è un tema delicatissimo per la democrazia di un Paese, non soltanto per il sistema giudiziario di un Paese. Si è discusso negli ultimi tempi del problema delle intercettazioni che finiscono sui giornali. Dal punto di vista degli avvocati, su questa questione, siamo entrati in una fase successiva rispetto a quei tempi. Noi vediamo che il rapporto che si è instaurato tra alcuni uffici investigativi e i canali di informazione, mentre prima serviva a fare ‘ pubblicità all’indagine’ ex post, oppure serviva – e quello che lei ci sta raccontando ce lo dimostra – a condizionare il giudice nel momento della decisione, oggi sottende qualcosa di diverso. L’impressione è che questi rapporti preparino il terreno all’accettabilità sociale delle future decisioni. Prima di arrivare al processo Mafia Capitale ci sono stati articoli su alcuni giornali che già raccontavano che cosa doveva essere questa nuova mafia, una sorta di lavoro preparatorio.
«Sì sì, ma non c’è dubbio che la stampa favorisca e insomma dia pubblicità alle cose clamorose: le assoluzioni non danno soddisfazione, vuol dire che la giustizia ha fallito. Invece, le condanne specialmente se sono poi condanne severe – sono quelle che dimostrano ai giornalisti: avete visto come funziona bene? Anche se poi magari, nei gradi successivi la sentenza si capovolge. Io sono convinto che le fughe di notizie non provengano dai giudici, ai tempi del giudice istruttore forse era così… ma attualmente non è così, sono i pubblici ministeri che…»
Presidente sono i pubblici ministeri o adesso, invece, il rapporto non si è direttamente instaurato tra le agenzie investigative e i giornalisti? Mentre prima arrivavano le notizie dalle Procure, adesso sembra quasi che arrivino nel corso delle indagini e finiscano sui giornali direttamente dalle polizie.
«C’è il fatto che a tutti piace avere una buona stampa, essere considerato un grande poliziotto, un grande investigatore e via discorrendo. Ci sono alcuni che questo vizietto non ce l’hanno, ma la maggior parte ce l’ha e quindi… poi vedono che se certe notizie non vengono date dalla polizia, comunque poi le dà il Pm, allora lo facciamo noi e ci guadagniamo la notorietà di grandi investigatori».
La sua vicenda, quella giudiziaria, fu il primo laboratorio anche di questo: perché prima si costruì la figura del giudice ammazzasentenze, per cui era un fallimento se veniva annullato il processo che arrivava in Cassazione e finiva nelle mani di Carnevale, dipinto come uno che non capiva quanto fosse importante lottare la mafia. Oggi, paradossalmente, questo metodo che allora riguardava una figura apicale della magistratura, un uomo che comunque aveva un grande potere, sta diventando un clichè: prima l’articolo sul giornale che dice che anche a Roma c’è la Mafia, poi magari la fiction televisiva che fa la medesima cosa, quindi arriva l’ordine di custodia cautelare e poi il giudice – a Roma fortunatamente non è successo per adesso – si trova costretto a lottare con una sentenza che è già scritta nella testa dell’opinione pubblica. Quindi gli si chiede di essere doppiamente coraggioso.
«Certo, si vuole che il giudice sia condizionato, e quindi è condizionato spesso. Io ho apprezzato molto i magistrati di quel processo, quella dottoressa del processo Mafia capitale, non so come si chiama…»
La Presidente Ianniello...
«Che ha diretto in maniera perfetta e poi secondo me ha deciso correttamente; adesso vedremo che stabilirà l’appello, perché poi la Corte d’Appello certe volte è ondivaga».
Però anche nella sua vicenda giudiziaria alla fine hanno resistito alle pressioni: finisce con una decisione della Corte, no? Insomma, come dire, per Lei giustizia è stata fatta.
«Lei però forse non ricorda che il Pg non solo chiese il rigetto del mio ricorso, ma addirittura disse che avrebbero dovuto contestarvi non solo il concorso esterno, ma l’associazione a delinquere di stampo mafioso».
No, no questo me lo ricordo, però lì il giudizio “libero” ci fu e la libertà della giurisdizione pure. Insomma, diciamocelo francamente, la sua vicenda era una vicenda di rilievo enorme, anche perché poi veniva associata ad un certo contesto politico, ma i suoi colleghi lì furono liberi, riuscirono a togliersi il peso.
«Ma furono liberi perché il Collegio fu composto in quel modo, se ci fossero stati altri non sarebbero stati così».
Torniamo al concorso esterno: la giurisprudenza è fermamente attestata sulla sussistenza del concorso esterno nonostante i dubbi di molti commentatori. A questo punto non sarebbe meglio, qualcuno sostiene, costruire una fattispecie ad hoc?
«Sì, innanzitutto perché le fattispecie di reato devono essere opera del legislatore, non del giudice. Il giudice deve interpretare e applicare, ma non creare. Quando c’è l’esigenza sociale di creare nuove figure di reato, c’è il legislatore».
Aspetti Presidente, Lei dice “quando c’è l’esigenza sociale”, ma in un sistema costituzionale come il nostro introdurre un reato non dovrebbe dipendere da questo. Non è che introduco un reato perché c’è una aspettativa sociale: lo faccio perché c’è un’esigenza vera che però è condizionata dalla Costituzione. E questo vale anche per il livello sanzionatorio per certi reati. Oggi il livello sanzionatorio non dipende dalla gerarchia costituzionale dei beni ma è direttamente proporzionale alle pressioni che si fanno sul Parlamento rispetto a un certo tipo di vere o presunte emergenze. A volte, per alcuni reati, c’è una escalation sanzionatoria parossistica e magari si aumentano le pene non in base al disvalore dei comportamenti ma solo per poter utilizzare certi strumenti processuali. È proprio il caso dell’associazione mafiosa, che ha triplicato le pene nei minimi e nei massimi, nel giro di una decina di anni, per cui le pene all’epoca degli attentati del ’ 92 erano un terzo di quelle di oggi.
«Ma questo conferma che lo Stato italiano è malato».
Qual è la malattia?
«Quella di non avere dei principi chiari e di trattare la Costituzione come un optional. Io credo di averlo detto in un’intervista che poi fu pubblicata su Panorama in cui si parlava dell’associazione a delinquere e dei mafiosi. L’hanno fatta per poter utilizzare gli strumenti investigativi che altrimenti non avrebbero potuto, ed è così purtroppo. Ma questo è reso possibile dal fatto che i vari giudici non fanno il loro mestiere».
C’è un presidente di Corte di Cassazione che in questo momento si batte per l’introduzione dell’agente provocatore per i reati di corruzione: che ne pensa?
«Appunto: che faccia un altro mestiere quel giudice».
In tutta questa trentennale storia di costruzione di norme che poi pian piano sfinano fino a diventare trasparenti dal punto di vista della tassatività, quale è stato il ruolo giocato dall’accademia?
«Non parliamo dell’accademia perché io ho subìto anche da parte di certi accademici… Quando scarcerammo per decorrenza dei termini certi imputati, che poi furono riarrestati quando venne emanato un decreto legge correttivo, insomma, lei deve sapere che chi mi attaccò era Neppi Modona, che era magistrato e poi era diventato professore e faceva l’avvocato a Torino, ma non aveva aperto bocca quando la Corte d’Assise di appello di Torino, che stava giudicando i mafiosi catanesi a Torino, aveva applicato la norma sulla scarcerazione che poi applicammo noi nel gennaio successivo. Non aprì bocca quando lo fecero a Torino ma attaccò me. L’accademia, caro avvocato, ha le stesse pecche della magistratura, fa politica, e questo è grave. Chi si salva un poco è Fiandaca, che se lei legge il commento alla prima sentenza della Corte d’Assise di primo grado, la sentenza di Grasso, Maxi uno, in cui assolti ce ne furono parecchi, lui prende atto di una di queste cose e non si lamenta delle assoluzioni, come hanno fatto invece altri».
Il fatto di essere stato, e di essere considerato molto tosto con i suoi colleghi e anche di avere pubblicamente rivendicato competenza rispetto all’incompetenza, ha avuto un peso nella sua vicenda?
«Non c’è dubbio su questo, non c’è dubbio! Perché quando io per esempio durante la relazione intervenivo e rettificavo o aggiungevo, il relatore sul momento non diceva niente, però… insomma, mentre gli avvocati mi ammiravano, quando io li correggevo i colleghi non la prendevano bene».
E c’ha ripensato?
«Sì, ci ho ripensato, ma sono arrivato alla conclusione che se dovessi rinascere e avere la sfortuna di fare il magistrato, farei le stesse cose di quelle che ho fatto».
Ma lo rifarebbe il magistrato?
«Forse no».
Veronica Lario, ha incassato 104 milioni da Silvio Berlusconi e ha un patrimonio di 400 milioni: ma i soldi ancora non le bastano, scrive il 23 Febbraio 2018 "Libero Quotidiano". In settimana, è tornato di stringente attualità il tema Veronica Lario. Il primo a chiamarla in causa, tirato per le orecchie da Lilli Gruber, è stato Silvio Berlusconia Otto e Mezzo. Il Cavaliere ha detto di essere pronto a rinunciare ai 46 milioni di euro contesi, la cifra che la Cassazione ha imposto alla Lario di restituirgli. Lei, da par suo, ha smentito che sia arrivata questa offerta. Insomma, la battaglia giuridica ancora non è finita: la Lario, infatti, ha già presentato ricorso contro la pronuncia della Cassazione. Eppure, di denari, la Lario ne ha già incassati e parecchi. I conti li ha fatti Franco Bechis su Il Tempo. Per esempio: possiede una casa a Milano dal valore 1,3 milioni di euro nei pressi della rotonda della Besana; è unica azionista di una società per azioni, il Poggio, che a sua volta possiede un appartamento a Portorotondo, uno a Bologna e diversi altri immobili (la lista è molto lunga). E ancora, possiede un appartamento a Kensignton, centro di Londra, una delle zone del mondo col più alto valore immobiliare in assoluto. Tutti possedimenti, nota Bechis, "messi da parte dalla signora attraverso una grande rinuncia, che deve averle creato grande sofferenza visto che la rimarca in continuazione: voleva fare l'attrice, ma scegliendo la famiglia e un marito importante ha dovuto interrompere la carriera". Questo, almeno, è quanto sostiene nel ricorso. Si pensi, inoltre, che dal giorno del divorzio la Lario ha incassato dall'ex marito la bellezza di 104.418.000 euro. Ma rifiutando il "condono" sui 46 milioni proposto dal Berlusconi (dopo la smentita, la Lario lo ha nuovamente respinto) ha nei fatti deciso di continuare la sua battaglia in Cassazione. No, i 104 milioni già incassati e un patrimonio, in primis immobiliare, pari a 400 milioni di euro non le bastano. La ratio del suo ricorso? Semplice: il suo tenore di vita, prima del divorzio, era addirittura superiore a quello attuale.
Perché Berlusconi somiglia a Mussolini. L'ex Cavaliere non è mai stato fascista. Ma come il Duce si è sempre rivelato abilissimo a cambiare posizioni politiche, scrive Eugenio Scalfari il 12 febbraio 2018 su "L'Espresso". Silvio Berlusconi non è mai stato fascista, e non ha mai pensato ad ispirare la vita del popolo a ideologie come quella della antica Roma, della capitale imperiale, del Fascio Littorio e a conquistare un impero. Il fascismo è venuto da questa mitologia, era gestito da un Duce e attribuì al Re e quindi a se stesso il titolo di Imperatore. Quindi niente fascismo per Berlusconi il quale tuttavia somiglia molto a Benito Mussolini, al punto d’essere una sorta di controfigura. Potrà sembrare assurdo sostenere una somiglianza che è quasi un’identificazione, ma questa è la realtà: un secolo dopo Mussolini è di nuovo con noi. In che cosa consiste questa così forte somiglianza? Direi nell’estrema flessibilità politica del loro comportamento, con una sola anche se importante differenza: Mussolini cambiò musica una volta diventato Duce e distrusse la democrazia. Berlusconi a questo non ha mai aspirato e forse perché sono passati cent’anni da allora, il mondo ha ormai una società globale, la tecnologia è profondamente cambiata. Vale comunque raccontare gli aspetti di fondo di quelle due vite, entrambe ancorate dal desiderio di conquista del potere avendo come strumenti la flessibilità e il fascino che ne deriva in un popolo come il nostro, che è assai poco interessato alla politica.
Mussolini iniziò la sua vita politica sotto l’insegna del socialista rivoluzionario e direttore del giornale del partito, l’Avanti!. All’epoca della guerra di Libia che faceva parte dell’impero turco, l’Avanti! si schierò contro quella guerra incitando con articoli di Mussolini la classe operaia a bloccare i binari ferroviari e le stazioni dove transitavano i treni militari diretti a Napoli per imbarcarsi verso Tripoli. I socialisti non volevano la guerra e cercavano di impedirla in tutti i modi. Se c’era da combattere bisognava lottare in casa contro il capitalismo dominante. Passarono appena tre anni da allora e scoppiò la prima guerra mondiale. Mussolini cambiò profondamente: divenne favorevole all’intervento italiano, fu espulso dal Psi e fondò un proprio giornale con il titolo Il Popolo d’Italia. A guerra scoppiata, l’Italia era rimasta neutrale. L’interventismo di Mussolini aveva come ispiratore Gabriele D’Annunzio che godeva di ben altro seguito e autorevolezza culturale e politica. Fu lui in quel periodo ad essere chiamato il “vate” dell’intervento a fianco della Francia e dell’Inghilterra e con la Russia, contro l’Austria e la Germania. Nel 1915 l’intervento avvenne, era scoppiata anche per noi la guerra mondiale. Finì nel 1918. L’anno successivo Mussolini fondò un movimento politico i “Fasci di combattimento”. Non aveva un seguito di massa, ma il suo era un piccolo movimento con qualche presenza soprattutto a Milano e in Lombardia e alcuni nuclei anche in Veneto, in Toscana e in Puglia. Il movimento mussoliniano diventò rapidamente un partito in gran parte sostenuto dagli ex combattenti, molti dei quali tornarono alle loro modeste occupazioni e orientati a favore del partito fascista che era in buona parte mobilitato a loro favore affinché lo Stato e la classe sociale ricca li sostenesse migliorando il più possibile la loro condizione. Il partito fascista si batteva dunque per un proletariato ex combattente nella guerra appena finita ma anche con una pronunciata venatura di nazionalismo. Il programma del fascismo inizialmente era stato quello di abolire la monarchia in favore della repubblica, ma il partito nazionalista, che pure esisteva, si orientò verso una fusione con i fascisti ponendo tuttavia come condizione che essi rinunciassero all’ideale repubblicano e aderissero invece alla monarchia cosa che avvenne e culminò nel primo congresso del Partito fascista che si svolse a Napoli nel 1921. Un anno dopo quel congresso, esattamente il 28 ottobre del 1922, ci fu la marcia su Roma dei fascisti provenienti da tutta Italia. Il re, Vittorio Emanuele III, si rese conto della loro forza e assegnò a Mussolini il compito di fare il governo. Naturalmente un governo democratico poiché i deputati fascisti rappresentavano soltanto il 30 per cento del Parlamento ma l’opinione pubblica era largamente con loro. Fu un governo democratico con forti tinte autoritarie. C’era comunque una rappresentanza consistente del Partito popolare mentre il Senato di nomina regia era in larga misura antifascista. Così quel governo andò avanti a direzione mussoliniana fino al 1924, quando il leader socialista Matteotti fu ucciso da un gruppo di fascisti. A quel punto Mussolini aveva due strade: o dimettersi o rilanciare il governo trasformandolo da semidemocratico in dittatoriale. Scelse questa seconda strada e con le “leggi fascistissime” nel 1925 creò il regime. Da allora nasce il Duce e l’ideologia della Roma antica che sarà l’ancora culturale del fascismo.
Berlusconi non ha nessuna velleità di imitare il fascismo imperiale. La sua somiglianza con Mussolini riguarda il primo periodo del fascista, quello durante il quale Mussolini cambiò veste, linea, alleanze, cultura politica in continuazione e cioè dal 1911 fino al 1921. Da questo punto di vista tra quei due personaggi esiste, come abbiamo già detto, una pronunciata somiglianza. Berlusconi fin da ragazzo si interessò di affari. Maestri e professori con modesti stipendi facevano un certo commercio attraverso ragazzi svegli tra i quali il più sveglio di tutti era per l’appunto Silvio. Quando c’era un compito in classe di matematica o anche di storia quegli insegnanti davano diverse versioni ma tutte degne di buoni voti a qualche ragazzo abbastanza intelligente e interessato, il quale vendeva quei compiti in classe trattenendo per sé una piccola ma interessante percentuale. Man mano che il tempo passava l’affarismo di Berlusconi diventava per lui più conveniente. Fece traffici con banche private di dubbia moralità e ne ricavò risultati notevoli. Poi dopo la nascita delle televisioni locali (esisteva ancora il monopolio nazionale della Rai) si interessò alla pubblicità televisiva e decise di acquistare alcune televisioni locali. A Milano ne comprò due e poi una terza dalla Mondadori. A quel punto collegò tra loro le locali coprendo attraverso di esse una buona parte dell’Italia settentrionale e centrale. Aveva nel frattempo sviluppato i suoi interessi nell’edilizia e costruì la cosiddetta Milano 2 dove alloggiavano una parte dei tecnici televisivi alle sue dipendenze ottenendo le necessarie concessioni edilizie dal comune interessato. Il possesso di un network non più locale ma seminazionale attirò naturalmente l’attenzione degli uomini politici alla guida dei partiti. Berlusconi aveva molti interessi a esserne amico usando a tal fine i poteri televisivi con i quali appoggiò soprattutto la Democrazia cristiana e il socialismo più moderato. Questa sua politica gli consentì di ottenere lavori rilevanti e gli ispirò infine il desiderio di essere anche lui direttamente il capo d’un partito. Poi arrivò la tempesta di Tangentopoli che distrusse totalmente la Democrazia cristiana. Berlusconi fondò Forza Italia mettendo alla guida della sua costruzione alcuni dei dirigenti d’una sua agenzia pubblicitaria, i quali tuttavia non avevano alcuna competenza politica ma soltanto organizzativa. La politica la faceva lui. Per Berlusconi Tangentopoli fu una manna perché parte dei dirigenti della Dc e gran parte degli elettori democristiani affluirono al partito berlusconiano di Forza Italia. A questo punto incombevano le elezioni, era il 1994 quando Berlusconi si presentò per il battesimo elettorale. Le sue televisioni avevano appoggiato senza alcuna remora i giudici di Tangentopoli, e le elezioni andarono molto bene anche perché aveva contratto delle strane alleanze: da un lato la Lega Nord di Bossi e dall’altro il neofascismo di Fini. Bossi e Fini tra loro non si parlavano né si salutavano ma tutti e due venivano consultati da Berlusconi. Naturalmente le consultazioni erano puramente teoriche perché era solo Silvio che decideva il da farsi. Nel frattempo, ad elezioni avvenute, Berlusconi fu incaricato di formare il governo. Questa situazione durò poco. La Lega decise di uscire dall’alleanza e Berlusconi dovette dimettersi da presidente del Consiglio. Il presidente della Repubblica, che lui sperava avrebbe respinto le dimissioni, viceversa le accettò e chiese però a lui di indicare un successore di suo gradimento per rendere meno traumatica quella crisi. Berlusconi indicò il nome di Lamberto Dini, che era stato il direttore generale della Banca d’Italia e nel suo governo il ministro del Tesoro. Dini governò per un anno e mezzo, poi nacque il primo governo Prodi che è stato probabilmente uno dei governi migliori dell’Italia degli anni Novanta. Forza Italia è rimasto comunque un partito importante nei vent’anni che cominciano nel ’93 ed ora siamo nel 2018 Berlusconi ha governato più volte, altre volte ha perso, restando sempre un’alternativa e concentrando sul suo nome ostilità e simpatia. Adesso ha un’alleanza con Salvini e insieme all’alleanza esiste tra i due una rivalità sempre più forte e due politiche sempre più diverse tra loro ma utili ad entrambi per ottenere una forza elettorale che attualmente nei sondaggi è la più favorita delle altre: una destra unita e divisa al tempo stesso. In passato Berlusconi ha anche appoggiato la legge elettorale proposta da Renzi e sarebbe probabilmente pronto a un’alleanza o quantomeno a una favorevole amicizia politica col medesimo Renzi, il quale finora ha negato in modo totale questa eventualità. Da questo racconto avrete ben capito che ho sostenuto che Berlusconi somiglia molto al Mussolini quale fu dal 1911 al 1925. È una curiosità storica credo di notevole importanza per il futuro.
1994-2018: Berlusconi ha vinto e tutto il resto è noia, scrive l'11/02/2018 Roberto Arditti, Giornalista su "L'huffingtonpost.it. Ventiquattro anni dopo possiamo dirlo con serenità olimpica, poiché i fatti sono talmente chiari da lasciare ben poco spazio ai dubbi: Silvio Berlusconi ha vinto su tutta la linea. Può essere un bene per alcuni e un male per altri, ma è una certezza che solo l'assenza di una pur minima indipendenza di giudizio può mettere in dubbio. Berlusconi nel 1994 lotta con Achille Occhetto e con i magistrati, tuffandosi in una campagna elettorale preparata con cura sin dall'estate precedente con metodi aziendali e moderni, l'esatto opposto di tutto quello che fanno i politici del tempo. Lotta e vince, sorprendendo tutti (anche alcuni sui amici, compreso Bettino Craxi) e diventa capo del governo. Oggi, cioè 24 anni dopo, si trova in una situazione ancora più favorevole, poiché a tre settimane dalle elezioni 2018 vi è una sola certezza sul dopo voto: nessun governo sarà possibile senza il suo esplicito appoggio e senza i voti del suo partito (meglio sarebbe dire movimento politico a leadership non contendibile). Nel frattempo nugoli di suoi avversari (e alleati) a geometria variabile sono usciti di scena o sono stati ridimensionati dal passare del tempo o dalle mutate condizioni: da Borrelli a Scalfaro, da Di Pietro a Prodi, da Veltroni a D'Alema, da Napolitano a Fini, da De Benedetti a De Mita, da Bossi a Monti. Chi più chi meno hanno tutti perso centralità, mentre lui, ventiquattro anni dopo, è ancora lì, addirittura baluardo internazionalmente riconosciuto contro le derive di ogni tipo che potrebbero prendere il sopravvento. Lui che ha conosciuto l'onta dell'isolamento, sbeffeggiato da Merkel e Sarkozy e trattato con sufficienza da Obama (ma sempre rispettato da Putin). Lui che ha sopportato intrusioni devastanti nella sua vita privata, che non hanno eguali in tutta la storia dell'Occidente democratico (di cui lui stesso però porta enormi responsabilità, oltre a quelle del suo impresentabile entourage). Lui che ha governato più di De Gasperi, ma che si è anche visto espellere dal Senato in virtù di una norma discutibile sul piano politico prima ancora che giuridico. Lui che ha fondato aziende meravigliose, mostrando genio e intuito in dosi industriali, ma anche lui che ha portato Mangano ad Arcore, lo stalliere più improbabile della storia. Stupendo, cinico ma romantico, con una concezione esuberante e positiva della vita, galante di quella galanteria cafona e scorretta che neanche i Vanzina hanno saputo (o voluto) raccontare fino in fondo. Lui, Silvio Berlusconi, capace di dire, credendoci pure, che Ruby è, o almeno sembra, la nipote di Mubarak: una balla talmente colossale da essere essa stessa un monumento alla genialità (sua e di nessun altro) e alla sfrontatezza. Su di lui hanno campato e campano trasmissioni televisive e giornali, anche soltanto per criticarlo, come dimostrano i successi indubitabili di Michele Santoro, Marco Travaglio e molti altri. Ma lui è anche il generatore di poderosi cambi di rotta, come quelli recenti di Bill Emmott o Eugenio Scalfari. Insomma lui è tutto o quasi quello che è successo in quest'ultimo quarto di secolo, come dimostra il fatto che oggi è con lui che se la prende l'unica grande novità della politica italiana dell'ultimo decennio, cioè il M5S con il suo giovane leader (pro tempore) Luigi Di Maio. Già, poi c'è la sinistra (lui direbbe i comunisti). Ma la sinistra italiana ha scelto da molto tempo di definirsi per "differenza" da lui, non cercando una propria identità. Finendo quindi inevitabilmente per dipenderne, come un subacqueo dalla sua bombola ad ossigeno.
Esclusiva mondiale, i diari segreti di Arafat: Craxi, Andreotti e i fondi neri di Berlusconi. Molte le rivelazioni del leader palestinese sull’Italia: dopo un incontro segreto con l'ex Cavaliere mentì in cambio di soldi per salvarlo da un processo. La verità sul caso Sigonella. Il giudizio su Saddam. Così viene riscritta la storia degli ultimi decenni. Ampi stralci sull'Espresso in edicola da domenica 4 febbraio, scrive Lirio Abbate il 2 febbraio 2018 su "L'Espresso". “L'Espresso” ha scoperto, in esclusiva mondiale, i diari segreti di Yasser Arafat, leader dell'Olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) e poi presidente dell'Autorità nazionale palestinese. Diversi stralci dei diari sono pubblicati sull'Espresso in edicola da domenica 4 febbraio. I diari sono 19 volumi scritti in arabo a partire dal 1985 e conclusi nell'ottobre del 2004, quando Arafat ha lasciato il suo quartier generale a Ramallah, in Cisgiordania, per essere ricoverato in un ospedale di Clamart, alla periferia di Parigi dove morì un mese dopo. I diciannove volumi sono una miniera di informazioni che raccontano intese politiche, azioni di guerra e affari che fino adesso erano rimasti oscuri. La lettura del diario rivela ad esempio che Arafat aiutò Berlusconi quando questi era sotto processo per aver finanziato illecitamente il Partito Socialista di Bettino Craxi. Arafat incontrò segretamente Berlusconi nel 1998, in una capitale europea, e dopo quell'incontro decise di confermare la falsa versione data da Berlusconi ai giudici, cioè che i dieci miliardi di lire al centro del processo erano destinati non al Partito Socialista Italiano bensì all'Olp, come sostegno della causa palestinese. Non era vero, ma Arafat rivela nei diari di aver confermato pubblicamente questa versione ricevendo in cambio un bonifico. Nel diario si trovano annotati i dettagli con i numeri di conto e i trasferimenti del denaro ottenuto da Arafat. I diari rivelano inoltre la trattativa tra Arafat e l’Italia avvenuta nel 1985, quando Craxi era primo ministro e Giulio Andreotti ministro degli Esteri, durante la vicenda dell’Achille Lauro, la nave da crociera dirottata da quattro terroristi palestinesi. Arafat rivela che fu Giulio Andreotti (e non Bettino Craxi, come si era sempre creduto) a consentire al terrorista Abu Abbas di scappare in Bulgaria e di lì rifugiarsi in Tunisia. Giulio Andreotti, secondo quanto emerge dai diari del leader palestinese, ha sempre avuto un ruolo importante nelle mediazioni internazionali che hanno riguardato la Palestina e sarebbe stato spesso una sorta di mediatore nascosto tra l’Olp e gli americani. Nei diari il leader palestinese non si assume mai la responsabilità di aver commissionato un attentato. Prende atto delle stragi compiute dai palestinesi e le commenta. A lui venivano proposti gli attentati e lui si limitava a rispondere: “Fate voi”. Poi quando scoppiavano le bombe che gli erano state annunciate, il comandante sorrideva e scriveva: “Bene, bene”. Nessun attentato dell’Olp coinvolse l'Italia dopo il 1985. «L’Italia è la sponda palestinese del Mediterraneo», scrive Arafat nei suoi diari, che confermano gli accordi segreti tra Olp e governo di Roma affinché il territorio italiano fosse preservato da attentati. La lettura dei diari rivela inoltre che Arafat era fortemente contrario alla Prima Guerra del Golfo (1990-1991), scatenata dall'allora presidente dell'Iraq Saddam Hussein: «Devo schierarmi con lui, il mio popolo me lo impone», scrive Arafat, «ma ho cercato con più telefonate di farlo desistere dalla follia che sta facendo». Arafat racconta anche di aver fatto negoziazioni di pace segrete con l’allora premier israeliano Yitzhak Rabin. E dell’ex presidente israeliano Shimon Peres scrive: «Una bravissima persona: un bel soprammobile». Arafat dedica molto spazio a raccontare i suoi stretti rapporti con il dittatore cubano Fidel Castro: racconta con affetto e stima i diversi incontri con lui, fino all'ultimo avvenuto all’Avana. I diciannove volumi di cui L’Espresso fornisce gli stralci sono stati affidati a due fiduciari lussemburghesi, che dopo una lunga negoziazione hanno ceduto i documenti a una fondazione francese con la clausola che il contenuto dei diari debba essere usato solo come “documentazione di studio” e non per pubblicare libri o girare film.
Silvio Berlusconi, Yasser Arafat nei suoi diari: "Ho mentito per salvarlo", scrive il 3 Febbraio 2018 "Libero Quotidiano". L’Espresso pubblica i diari segreti di Yasser Arafat, leader dell’Olp. Si tratta di 19 volumi scritti in arabo a partire dal 1985 e conclusi nell'ottobre del 2004, quando Arafat ha lasciato il suo quartier generale a Ramallah, in Cisgiordania. La lettura del diario rivela ad esempio che Arafat aiutò Silvio Berlusconi quando questi era sotto processo per aver finanziato il Partito Socialista di Craxi. Arafat incontrò Berlusconi nel 1998 e dopo quell'incontro decise di confermare la falsa versione data da Berlusconi ai giudici, cioè che i 10 miliardi di lire al centro del processo erano destinati non al Partito Socialista Italiano bensì all’Olp. L’avvocato Niccolò Ghedini smentisce immediatamente: "Si tratta di materiale offerto a più persone nei tempi passati sui quali non è stato fatto nessun controllo in relazione alla verifica sull'autenticità della provenienza, della completezza e del contenuto. I fatti ivi narrati, per quanto riguarda i rapporti con il presidente Silvio Berlusconi, sono assolutamente non fondati e contraddetti dalle stesse dichiarazioni ufficiali più volte rilasciate pubblicamente dallo stesso Arafat".
Arafat e i fondi neri di Berlusconi: ecco i diari segreti. Le bugie per salvare l'ex Cav dai processi. La verità sul caso Sigonella. L’incontro con Di Pietro. Gli appunti riservati del capo palestinese. Diciannove volumi, di cui solo adesso si è appresa l’esistenza. E che l'Espresso ha letto in esclusiva, scrive Lirio Abbate il 7 febbraio 2018 su "L'Espresso". Yasser Arafat, il guerrigliero più famoso del Medio Oriente, il più celebre e misterioso protagonista della causa palestinese, ha riversato per diciannove anni i suoi pensieri più segreti nelle pagine di diciannove volumi, di cui solo adesso si è appresa l’esistenza. Li ha scritti in arabo, iniziando nel 1985. Ha continuato fino all’ottobre del 2004, un mese prima della morte. I diari rivelano tutto quello che in vita Arafat non ha detto pubblicamente. Chi ha già letto ciò che ha scritto Arafat ne ha raccontato un’ampia parte all’Espresso. I diciannove volumi sono una miniera di informazioni che raccontano intese politiche, azioni di guerra e affari che fino adesso erano rimasti oscuri. Sono appunti che rivelano ciò che faceva e pensava uno dei protagonisti del XX secolo, prima leader dell’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) e poi presidente dell’Autorità nazionale palestinese, primo abbozzo di uno Stato che non è mai nato. Nei diari di Arafat si parla anche del nostro Paese. Ci sono molti riferimenti a Giulio Andreotti, Bettino Craxi e a Silvio Berlusconi, e soprattutto al dirottamento della nave da crociera “Achille Lauro” e alla conseguente crisi di Sigonella (1985), il più grave incidente diplomatico mai avvenuto tra Italia e Usa. Si parla poi del famoso (e fino a ieri solo ipotizzato) accordo per evitare che ci fossero attentati terroristici in Italia. Ma soprattutto nei diari si racconta del rapporto tra il leader palestinese e Berlusconi. C’è anche la rivelazione di un incontro segreto fra i due, avvenuto in una capitale europea nello stesso periodo in cui a Milano era in corso il processo nel quale il Cavaliere era imputato di aver gestito, attraverso la società offshore All Iberian, i miliardi in nero destinati dalla Fininvest al Partito socialista di Bettino Craxi.
Sono fatti poi dichiarati prescritti dal tribunale, ma di cui ora si apprendono retroscena sconosciuti. Il Cavaliere, per difendersi durante il processo, aveva indicato come beneficiario finale dei suoi dieci miliardi di lire l’Olp, a cui avrebbe fatto pervenire il denaro - come sostegno alla causa palestinese, su richiesta di Craxi - usando come mediatore Tarak Ben Ammar: produttore televisivo tunisino amico e socio di Berlusconi, oggi nel cda di Mediaset ma anche in quelli di Generali, Mediobanca, Telecom Italia e Vivendi. Tarak Ben Ammar aveva confermato questa versione, sostenendo che quei soldi erano andati a lui, legalmente, per poi essere destinati all’Olp. Quindi non erano, secondo Berlusconi e Ben Ammar, finanziamenti illeciti a Craxi. Arafat nei suoi diari racconta però una storia molto diversa. Scrive infatti di essere rimasto estremamente sorpreso nell’apprendere dai giornali che Berlusconi lo aveva finanziato: di quei dieci miliardi all’Olp non era mai arrivata nemmeno una lira. Per chiarire la vicenda, lo stesso Arafat organizza allora un incontro con Berlusconi, in un luogo segreto fuori dall’Italia, nella primavera del 1998. Il Cavaliere accetta. Sul diario si legge: «Berlusconi mi parla di Tarak Ben Hammar, ma io non lo conosco». Arafat ribadisce quindi di non aver mai ricevuto i dieci miliardi e lo dice chiaramente anche a Berlusconi. Ma il leader palestinese, contemporaneamente, apre una porta al Cavaliere: gli dice che se avesse voluto una sua dichiarazione di conferma di aver ricevuto quei soldi, da utilizzare ai fini processuali, l’avrebbe fatta. Naturalmente, in cambio di un versamento. E così è stato: la dichiarazione di Arafat in favore di Berlusconi (che quindi conferma la sua tesi difensiva) viene resa nota e pubblicata su un giornale israeliano.
L’incontro segreto rivelato da Arafat è confermato all’Espresso da personalità che erano presenti. A questa storia nel diario del leader palestinese vengono riservate dieci pagine, dove si trovano annotati i dettagli con i numeri di conto e i trasferimenti del denaro ottenuto da Arafat.
L’incontro con Di Pietro. Negli appunti c’è anche la notizia di un incontro tra Arafat e Antonio Di Pietro, nel 1998. L’ex magistrato arriva a Gaza nello stesso periodo in cui è in corso il processo All Iberian a Milano. E Arafat scrive nel suo diario: «Non ho potuto dire nulla a Di Pietro perché avevo già un accordo personale con Berlusconi». Contattato dall’Espresso, Di Pietro oggi dice: «Non era una rogatoria e non ero lì per All Iberian. In quel periodo avevo già lasciato la magistratura. È vero, ho incontrato Arafat, ma il motivo lo tengo per me». E poi aggiunge: «In quel periodo ero sotto attacco dall’area di Berlusconi». Facendo riferimento a quello che scrive il leader palestinese l’ex magistrato spiega: «So bene a cosa si riferisce Arafat negli appunti. Ripeto, l’ho visto e ci ho pure parlato a lungo. Abbiamo anche pranzato insieme e con noi c’erano altre quattro persone».
Il caso Sigonella. I diari rivelano poi la trattativa tra Arafat e l’Italia avvenuta nel 1985, quando Craxi era presidente del Consiglio, durante e dopo la vicenda dell’Achille Lauro, la nave da crociera dirottata da quattro terroristi palestinesi. Durante il sequestro della nave il governo italiano cerca di risolvere la vicenda contattando Arafat. Il quale invia sull’Achille Lauro un suo uomo, Abu Abbas, indicandolo come mediatore. Dopo pochi giorni i quattro dirottatori e Abu Abbas portano la nave in Egitto e rilasciano i passeggeri: ma uno di loro - l’americano Leon Klinghoffer, di origini ebraiche - era stato ucciso e gettato in mare. Secondo gli accordi, i terroristi sarebbero dovuti andare in Tunisia, con un aereo e un salvacondotto, sempre in compagnia di Abu Abbas. Venuti a conoscenza della morte di Klinghoffer, però, gli americani fanno alzare in volo i loro caccia e costringono l’aereo in cui i cinque si trovano ad atterrare nella base Nato di Sigonella, in Sicilia. Qui, dopo una lunga trattativa, i quattro terroristi si consegnano alle autorità italiane. Ma gli americani vogliono anche l’arresto di Abu Abbas, considerandolo un terrorista al pari dei quattro. Gli italiani si rifiutano di consegnarlo, al punto da circondare l’aereo con i carabinieri. E consentono così ad Abu Abbas di scappare in Bulgaria e di lì rifugiarsi prima in Tunisia poi a Gaza. Chi ha letto gli appunti di Arafat rivela che la linea dura del governo italiano verso le pretese americane sarebbe stata decisa non da Craxi - come si è sempre creduto - ma da Andreotti, che era in contatto diretto con Arafat. Sarebbe stato Andreotti a imporre di fatto a Craxi di fermare gli americani e di rispettare gli accordi presi con Arafat. Del resto Andreotti, secondo quanto emerge dai diari del leader palestinese, aveva sempre avuto un ruolo importante nelle mediazioni internazionali che hanno riguardato la Palestina e sarebbe stato spesso una sorta di “mediatore nascosto” tra l’Olp e gli americani. Nei diari il leader palestinese non si assume mai la responsabilità di aver commissionato un attentato o un omicidio. Prende atto delle stragi compiute dai palestinesi e le commenta. Chi lo ha conosciuto e gli è stato al fianco per diversi anni conferma all’Espresso che Arafat «non ha mai ordinato un attentato. A lui venivano proposti e lui si limitava a rispondere: “Fate voi”. Poi quando scoppiavano le bombe che gli erano state annunciate, il comandante sorrideva e diceva: “bene, bene”». Ma nessun attentato dell’Olp coinvolse il nostro Paese. «L’Italia è la sponda palestinese del Mediterraneo», scrive Arafat. E per questo doveva essere preservata da attacchi.
Il triangolo Gelli, Berlusconi, Craxi. Parlando di Craxi, Berlusconi e Licio Gelli, il capo dell’Olp racconta nei suoi appunti una storia che li vede tutti e tre collegati tra loro. Si tratta di una vicenda dei primissimi anni Ottanta, quando Roberto Calvi - allora presidente del Banco Ambrosiano e uomo di Licio Gelli - ha bisogno di un passaporto nicaraguense. Per procurarglielo, Gelli si sarebbe rivolto a Berlusconi (membro della sua loggia, la P2) e il Cavaliere a sua volta avrebbe chiesto aiuto all’amico Bettino Craxi. Il quale avrebbe investito della questione Arafat, ritenuto in grado di procurare un passaporto del Nicaragua. Ci sono anche alcuni aneddoti che Arafat riporta nei suoi appunti e collegati alle visite ufficiali in Italia. Ad esempio, il 5 aprile 1990 il capo dell’Olp arriva a Roma con un volo proveniente da Parigi. Deve incontrare, tra gli altri, il presidente della Repubblica, Francesco Cossiga. Arafat scrive nel diario che quando arriva al Quirinale il capo del protocollo gli fa togliere il cinturone con la pistola, quello che lui portava sempre con sé. Arafat racconta che a quel punto i pantaloni erano troppo larghi e gli cadevano. Per questo si presentò davanti a Cossiga tenendoli stretti con le mani, evitando una brutta figura istituzionale. Al Capo dello Stato disse: «Mi scusi signor Presidente, non è colpa mia ma del suo ambasciatore...», quello che gli aveva fatto togliere il cinturone. Anche il giorno della consegna del Premio Nobel per la Pace, il comandante palestinese scrive che il programma della cerimonia ha avuto un ritardo a causa della sua divisa militare che comprendeva la pistola. Il 17 luglio 1990 Arafat, che per lungo tempo era stato single (e mai erano apparse donne nella sua vita) sposa Suha Tawil. Lui confida sul diario: «Come faccio a sposarmi con Suha? Io sono già sposato con la Palestina ed il suo popolo».
L’amicizia con Fidel. Arafat dedica poi molto spazio a raccontare i suoi rapporti con il dittatore cubano Fidel Castro, fino all’ultimo incontro avvenuto all’Avana. Quasi coetanei, i due avevano in comune anche la militanza guerrigliera e i principali nemici, cioè Stati Uniti e Israele. Entrambi, inoltre, amavano le uniformi, portavano la barba e avevano il carisma del leader capace di suscitare grandi speranze e aspettative nei propri popoli. Oltre che a Cuba, Castro e Arafat si erano incontrati spesso alle riunioni dei Paesi non allineati e ai funerali dei vecchi leader sovietici, dai quali entrambi avevano ricevuto sostegno politico e un fiume di rubli negli anni della Guerra Fredda. Le pagine dei diari raccolgono poi il disagio e lo sfogo del capo palestinese quando deve appoggiare Saddam Hussein, durante la prima guerra del Golfo (1990-1991). Così scrive Arafat: «Devo schierarmi con lui: il mio popolo me lo impone. Ma ho cercato con più telefonate di farlo desistere dalla follia che sta facendo». Arafat racconta quindi di negoziazioni di pace, segrete, con l’allora premier Yitzhak Rabin, mentre dell’ex presidente israeliano Shimon Peres scrive: «Una bravissima persona: un bel soprammobile». I diciannove volumi sono stati affidati a due fiduciari lussemburghesi, che dopo una lunga negoziazione hanno terminato la cessione dei documenti a una fondazione francese con la clausola che il contenuto dei diari debba essere usato solo come “documentazione di studio” e non per pubblicare libri o girare film. Il carico di testimonianza che lascia Arafat è pesante. E non sarà facile, per molti, accettare le conseguenze delle rivelazioni contenute nelle pagine di questo diario.
I diari di Arafat, ecco i nuovi dettagli segreti. Mentre emergono nuovi inediti particolari, l’Anp apre un’inchiesta sul nostro scoop, scrive Lirio Abbate il 14 febbraio 2018 su "L'Espresso". I diari che il leader dell’Olp Yasser Arafat ha lasciato in eredità alla storia, i cui primi stralci sono stati pubblicati in esclusiva mondiale sull’ultimo numero dell’Espresso, ci mostrano il volto di un comandante temuto da molti ma innamorato del suo popolo. Nelle pagine dei diciannove volumi che solcano i fatti dal 1985 all’ottobre del 2004 c’è la storia di una tragedia, quella palestinese, vista con gli occhi di un uomo che scrive di vivere e resistere per la sua gente. E negli appunti ricorre spesso una frase: «Il mio più grande amore è la Palestina». Aver rivelato l’esistenza di questi diari e una parte del loro contenuto (stralci che L’Espresso ha pubblicato dopo averli riscontrati) ha mandato su tutte le furie il nipote del defunto leader palestinese, Nasser al-Kidwa, oggi presidente della Yasser Arafat Foundation (Yaf). Al-Kidwa ha scritto in un nota che Arafat «effettivamente ha lasciato dei diari nei quali ha segnato le sue osservazioni sugli eventi politici incorsi durante la sua lunga lotta, ma questi diari sono in possesso della Yaf e nulla di essi è stato ceduto». Kidwa ha assicurato che la fondazione «farà presto una revisione di tutti i contenuti dei diari e, dopo aver preso una decisione politica in merito, li svelerà al pubblico». Ma una parte delle memorie del leader palestinese sono, evidentemente, sfuggite al controllo del nipote. Tanto che l’Autorità palestinese ha deciso di aprire un’inchiesta per scoprire come sia avvenuta la fuga di notizie. I fiduciari che hanno in custodia gli appunti del leader dell’Olp rivelano anche altri punti del manoscritto. In particolare sui rapporti con Papa Giovanni Paolo II e alcune delle loro conversazioni private, durante gli incontri in Vaticano. Chi è stato accanto al leader palestinese conferma che Arafat «scriveva i suoi pensieri e quel che gli dicevano i suoi interlocutori su un quadernetto grande come il palmo d’una mano, da cui non si separava mai». E in questi lunghi anni c’è stato qualcuno vicino al leader che si è preso cura di conservare questi quadernetti. Dagli appunti, come ha rivelato L’Espresso, emergono incontri segreti, fra cui quello con Silvio Berlusconi, e il versamento di somme di denaro per ottenere una dichiarazione che avrebbe dovuto proteggere il Cavaliere dal processo per i fondi neri della società off shore All Iberian, in cui era imputato insieme a Bettino Craxi. Un favore a Berlusconi? Di sicuro, negli effetti. Ma nelle intenzioni «potrebbe essere stato anche un tentativo di salvare Craxi, che si era speso tanto per la Palestina», dice Luisa Morgantini, ex vice presidente del Parlamento europeo, impegnata per la difesa della Palestina e tra le fondatrici della rete internazionale delle “Donne in nero contro la guerra e la violenza”, che conosceva bene il capo dell’Olp e ne era amica. «La falsa dichiarazione di Arafat (aveva confermato la versione del Cavaliere, secondo la quale i fondi al centro del processo erano una donazione all’Olp e non un finanziamento illecito al Psi, Ndr) può essere quindi stato un atto di amicizia e di riconoscenza», aggiunge Morgantini. L’ex europarlamentare sostiene che «questi gesti di generosità facevano parte della personalità di Arafat», quindi «non credo che alla base ci sia stato uno scambio di favori. In fondo Craxi aveva fatto tanto per Arafat». Morgantini aggiunge che il suo amico Arafat invece «non aveva rispetto per Berlusconi. Ma se l’obiettivo era quello di salvare Craxi, allora potrebbe essersi reso disponibile a risolvere il problema». Ricevendo in cambio versamenti dal Cavaliere o no? «Non lo so. Ma non ho mai visto Arafat circondato dal lusso o dalla ricchezza. Conduceva una vita parca e i soldi li usava per la politica o per donarli a chi ne aveva di bisogno. Per se non teneva nulla e viveva in abitazioni modeste». Eppure era considerato uno degli uomini più ricchi del mondo... «Non so se nascondesse il denaro. Certo viveva in maniera molto sobria», risponde Morgantini. La celebrità mondiale di Yasser Arafat è durata a lungo. Sono stati pochi gli uomini politici a riuscire ad occupare, come ha fatto lui fino alla sua morte avvenuta nel novembre 2004 a Parigi, le prime pagine dei giornali e gli schermi televisivi. Occorre partire da lontano, nel dicembre 1968 quando il settimanale americano “Time” gli ha dedicato la copertina: allora, per la maggior parte dell’opinione pubblica occidentale Arafat era solo un capo terrorista e il portavoce d’una oscura organizzazione, Al Fatah, che aveva giurato la distruzione di Israele. L’aspetto esteriore dell’uomo contribuiva a questa immagine: con la “kefiah” araba o un berretto militare, mal rasato, gli occhi nascosti dietro lenti scure, un abito cachi pieno di tasche, portava sempre una pistola alla cintura o un mitra a tracolla. Tuttavia chi lo conosceva nell’intimità sostiene che queste apparenze erano ingannevoli. Lontano dai media, senza niente in capo e vestito normalmente, quell’ometto grassottello e calvo - dicono i suoi amici di un tempo - era un conversatore gioviale e un capo generoso. Paradossalmente, il comandante conosceva solo superficialmente le questioni militari e non era abile con la pistola. I suoi aggiungono anche che era un uomo sensibile al punto da singhiozzare quando fu proiettato per lui un documentario sul massacro di Sabra e Chatila del settembre 1982. E, secondo i testimoni che gli sono stati accanto, le lacrime gli spuntavano anche quando parlava delle sventure del suo popolo. Ad ascoltare i suoi amici, Arafat non era né un estremista né un sognatore. Sapeva, come del resto emerge anche dai diari, che bisognava trovare un modus vivendi con gli israeliani. Già nel 1968 diceva: «Se gli ebrei e i palestinesi potessero unirsi, il Medio Oriente entrerebbe nell’età dell’oro. Il genio, le risorse naturali e intellettuali dei nostri due popoli basterebbero a vincere l’egoismo, la corruzione e la doppiezza della maggior parte dei regimi arabi». Arafat aveva accumulato sconfitte senza mai disperare e anche nei momenti più difficili mostrava fiducia. Leggeva con attenzione i giornali e le sintesi della stampa internazionale che gli veniva fornita dai suoi collaboratori. E approfittava dei pochi momenti liberi per giocare a scacchi o guardare cartoni animati su videocassette. Il poeta palestinese Mahmoud Darwish ha sintetizzato così la figura di Arafat: «La sua politica non sempre è stata giusta. Lo critichiamo e talvolta lo giudichiamo con severità. Ma lui è il simbolo della nostra identità, della nostra unità e delle nostre aspirazioni nazionali».
Totò, Peppino, Arafat e Berlusconi. L’esclusiva “mondiale” dell’Espresso sui “diari” di Arafat non torna. I testi non li ha visti nessuno, le date ballano, i testimoni smentiscono. Controinchiesta di Luciano Capone del 7 Febbraio 2018 su “Il Foglio”. La notizia, annunciata già da sabato pure su Repubblica, tradotta anche in inglese, era davvero clamorosa: “L’Espresso ha scoperto, in esclusiva mondiale, i diari segreti di Yasser Arafat, leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e poi presidente dell’Autorità nazionale palestinese”. L’impressione era che quella di Lirio Abbate fosse l’inchiesta giornalistica dell’anno, o forse anche del secolo, vista l’importanza dal punto di vista storico e politico che può essere contenuta nei diari “segreti” di uno dei leader più importanti e controversi – questa è la formula di rito – della seconda metà del Novecento. Pareva strano che, di tutto ciò che di interessante c’è stato nella vita personale e politica di Arafat, l’anticipazione degli “ampi stralci” riguardasse un episodio giudiziario della vita di Silvio Berlusconi. E anche la storia, in realtà, non tornava molto: l’idea che nel 1998 Arafat si fosse incontrato in segreto con Berlusconi per chiedergli soldi in cambio di una falsa testimonianza nel processo “All Iberian” sul finanziamento illecito al Psi di Bettino Craxi appariva ben più bizzarra della storia di “Ruby nipote di Mubarak”. E la parte più inverosimile, naturalmente, è il fatto che un personaggio storico si descriva nel suo diario personale come un taglieggiatore o un corrotto. Ma se ci sono i documenti originali, se la grafia è quella di Arafat, c’è poco da discutere.
Pareva strano che, di tutto ciò che di interessante c’è stato nella sua vita, Arafat parlasse di un processo di Silvio Berlusconi. Dopo la pubblicazione, domenica, dell’“esclusiva mondiale” però il mondo ha ignorato l’esclusiva. Nessun grande giornale internazionale in questi giorni ha ripreso l’inchiesta giornalistica dell’anno. E per un semplice motivo: i “diari segreti” di Arafat sono talmente segreti che non ce li ha neppure l’Espresso. Il settimanale non solo non li ha pubblicati, ma non li ha neppure mai visti. L’inchiesta non ha alla base un documento scritto, ma è il frutto, almeno finora, della tradizione orale. Un aedo incontra Lirio Abbate e gli narra il contenuto dei diari segreti: “Chi ha già letto ciò che ha scritto Arafat ne ha raccontato un’ampia parte all’Espresso”, scrive il giornalista. Inoltre, oltre a non sapere chi sia la fonte orale, quale ruolo abbia e come sia entrato in possesso di questo prezioso materiale storico, non si capisce questi diari da dove provengano e dove siano adesso di preciso: “I diciannove volumi sono stati affidati a due fiduciari lussemburghesi – scrive il settimanale – che dopo una lunga negoziazione hanno terminato la cessione dei documenti a una fondazione francese con la clausola che il contenuto dei diari debba essere usato solo come “documentazione di studio” e non per pubblicare libri o girare film”. E qui la faccenda si fa già abbastanza evanescente. Il problema è che non solo non vengono resi noti i nomi dell’aedo e dei fiduciari lussemburghesi, che in qualche modo avrebbero prelevato da Ramallah e dal controllo dell’Anp i diciannove volumi, ma neppure il nome di questa fondazione francese che ora li custodisce. Eppure se l’obiettivo è mettere a disposizione questi “diari segreti” per lo studio, gli storici – che si fidano più dei documenti originali rispetto ai racconti – per studiare questi benedetti diari dovrebbero quantomeno sapere dove si trovano. In Francia, dove sarebbe questa fondazione che possiede le memorie del leader palestinese, i giornali hanno completamente ignorato la notizia. Silenzio totale sull’esclusiva mondiale.
Aiuta a inquadrare la possibile origine di questi presunti e invisibili “diari segreti” la versione dell’onorevole Niccolò Ghedini, l’avvocato di Silvio Berlusconi: “Alcuni mesi orsono – ha dichiarato – un tizio ha avvicinato me e una persona vicina al presidente Berlusconi, dicendo di essere in possesso di questi diari di Arafat in cui c’erano scritte cose compromettenti su Berlusconi, ma che avrebbe potuto distruggerli in cambio di denaro”. L’avvocato capisce che la cosa non è proprio limpida quando l’interlocutore, proveniente da ambienti “variegati” dice di poter fornire solo una traduzione in francese e si rifiuta di mostrare l’originale dei diari in arabo per valutarne la genuinità, e interrompe le comunicazioni. Convinto di essere di fronte a uno dei tanti falsi diari di personaggi storici che di tanto in tanto circolano, liquida tutto con un suo “mavalà”. Ora vede riemergere l’identico racconto orale come esclusiva inchiesta giornalistica: “Il settimanale l’Espresso pubblica con grande risalto stralci degli asseriti diari di Arafat. – scrive Ghedini in una nota – Il materiale in questione è stato offerto a più persone nei tempi passati e alle richieste di verifica della autenticità della provenienza, della completezza e del contenuto non è stato possibile alcun controllo”. L’avvocato smentisce il contenuto di ciò che è riportato e spiega tutto con la battaglia politica: “E’ sintomatico, che tale materiale in circolazione già da tempo e mai ritenuto di reale interesse appaia, guarda caso su l’Espresso, proprio a pochi giorni dalla consultazione elettorale”. Anche la Yasser Arafat Foundation, che possiede i veri diari del leader palestinese e non ha ancora deciso se pubblicarli o meno dopo averli revisionati e ripuliti, ha preso le distanze e annunciato querele: “Quello che l’Espresso ha pubblicato riguardo a ciò che sono stati definiti come i diari di Yasser Arafat è illegale e viola l’etica giornalistica”, ha dichiarato il presidente della fondazione Nasser al Kidwa che è il nipote di Arafat (davvero, non come Ruby).
Nella copertina su Ilaria Capua il documento era vero, ma le accuse false. I diari ricordano l’(inesistente) intercettazione di Crocetta. Ma quella di Ghedini, si dirà, è la naturale reazione di una persona che è il legale del Cav. e uno dei più importanti dirigenti di Forza Italia. Il punto è che, in termini molto simili, è la stessa identica posizione che ha preso l’ambasciatore di Palestina in Italia: “L’articolo dell’Espresso sostiene di basarsi su un presunto diario di Yasser Arafat, senza essere in grado di dimostrarne l’effettiva esistenza. Si tratta di un articolo che vuole mettere in cattiva luce il leader e simbolo della lotta nazionale del popolo palestinese – scrive l’ambasciatore Mai Alkaila – Chiediamo ai media e all’Espresso in particolare di essere scrupolosi nella verifica delle fonti prima della divulgazione delle loro notizie; e di non coinvolgere la questione palestinese in discussioni politiche accese dalla campagna elettorale”. Se già a questo punto i diari de relato di Arafat somigliano più a una patacca che a una rivelazione mondiale, è entrando nei dettagli che molte cose non tornano. L’Espresso scrive che nelle sue memorie Arafat parla di un incontro segreto con Berlusconi, avvenuto in una capitale europea, nello stesso periodo in cui a Milano era in corso il processo All Iberian nel quale Berlusconi era imputato per aver finanziato in maniera illecita il Psi di Craxi. Un processo in cui Berlusconi verrà condannato in primo grado e poi prosciolto per prescrizione. Ebbene, una versione della difesa era che i circa 10 miliardi di lire contestati non erano finiti nelle casse del Psi, ma erano andati su richiesta di Craxi all’Olp di Arafat attraverso la mediazione del produttore televisivo tunisino, e amico di Berlusconi, Tarak Ben Ammar. Niente finanziamento illecito a Craxi, quindi. Questa è la versione finora confermata da tutte le parti in causa, ma a cui non credettero i giudici di primo grado.
L’Espresso ora dice che nei suoi presunti diari Arafat scrive che questa storia è falsa, quei soldi non sono mai arrivati all’Olp. “Per chiarire la vicenda, lo stesso Arafat organizza allora un incontro con Berlusconi, in un luogo segreto fuori dall’Italia, nella primavera del 1998. – scrive il settimanale – Il Cavaliere accetta. Sul diario si legge: ‘Berlusconi mi parla di Tarak Ben Hammar, ma io non lo conosco’”. A quel punto il leader palestinese fa una proposta-ricatto a Berlusconi: “Gli dice che se avesse voluto una sua dichiarazione di conferma, da utilizzare ai fini processuali, l’avrebbe fatta. Naturalmente in cambio di un versamento. E così è stato: la dichiarazione di Arafat in favore di Berlusconi (che quindi conferma la sua tesi difensiva) viene resa nota e pubblicata su un giornale israeliano” (quale? E quando?). Sono molte le cose che non tornano nella vicenda. L’Espresso scrive che nel diario ci sono “i dettagli con i numeri di conto e i trasferimenti del denaro ottenuto da Arafat”, ma non pubblica nessuno di questi dettagli, non dice neppure quanto sarebbe costata questa falsa testimonianza. Ma la cosa più banalmente sorprendente è che questa testimonianza non esiste. “Arafat non è mai apparso nel processo – dice al Foglio il professor Ennio Amodio, all’epoca avvocato di Berlusconi nel processo All Iberian – Ho letto questa notizia con stupore, nel processo non si è mai parlato di questa vicenda, non so da dove salti fuori”. Arafat non ha testimoniato? “Ma si figuri”. E’ mai stata usata qualche sua intervista nella difesa? “No, è una notizia che non è mai emersa, me la ricorderei”.
“Mesi fa un tizio mi ha avvicinato, voleva soldi in cambio della distruzione di questi asseriti diari”, dice Niccolò Ghedini. L’altro aspetto che non torna è uno dei pochi virgolettati di Arafat, tra l’altro con un errore di trascrizione del nome di Ben Ammar: “Berlusconi mi parla di Tarak Ben Hammar, ma io non lo conosco”. Appare un’affermazione singolare. Ben Ammar è sì un amico di Berlusconi, ma da prima è un amico dei palestinesi. Tra i due è l’imprenditore maghrebino che conosce Arafat, non il Cavaliere. Ben Ammar proviene da un’importante famiglia tunisina: è il nipote del padre della patria Bourghiba (davvero, non come Ruby). Il padre, Mondher Ben Ammar, è stato ambasciatore tunisino in Italia e in mezza Europa e poi ministro del governo per una decina d’anni. Sua sorella e zia di Tarak, Wassila Ben Ammar, era la moglie del presidente Bourghiba e ha avuto un ruolo di primo piano nella politica tunisina: aveva una forte influenza su Bourghiba e fu la principale artefice nel 1982, dopo la guerra in Libano, del trasferimento di Arafat e del quartier generale dell’Olp in Tunisia, paese che ospiterà il centro delle operazioni palestinesi per una decina di anni. Il Foglio ha provato a contattare Tarak Ben Ammar, per sentire la sua versione sulla ricostruzione dell’Espresso: “Sono attualmente a Los Angeles. Comunque è fake news”, è la sua risposta. L’altro dettaglio riguarda l’incontro con Berlusconi organizzato da Arafat “in un luogo segreto fuori dall’Italia, nella primavera del 1998” in cui sarebbe stato raggiunto l’accordo economico in cambio della falsa testimonianza. Ora, c’è da dire che realmente Berlusconi ha visto Arafat nella primavera del 1998, ma non era all’estero e nient’affatto in segreto: si sono incontrati il 12 giugno 1998 a Roma durante il viaggio di Arafat in Italia. Il leader palestinese incontrò papa Giovanni Paolo II, poi il leader di Forza Italia all’Excelsior, il leader dei Ds Massimo D’Alema e anche l’allora presidente del Consiglio Romano Prodi. E se l’accordo fosse avvenuto in quella occasione? Appare improbabile, visto che ormai il processo All Iberian era chiuso: il 2 giugno, dieci giorni prima, il pm Francesco Greco aveva iniziato la requisitoria. E in ogni caso la testimonianza di Arafat in quel processo non c’è mai stata. Un altro punto con diverse incongruenze in questo diario di Arafat in cui si parla prevalentemente di Berlusconi, è il triangolo con Craxi e Gelli (c’è sempre Licio Gelli in qualche documento segreto e scottante). L’Espresso scrive che chi ha letto il diario di Arafat dice che Arafat nelle sue memorie parla di una vicenda che li vede collegati. “Roberto Calvi – allora presidente del Banco Ambrosiano e uomo di Licio Gelli – ha bisogno di un passaporto nicaraguense. Per procurarglielo, Gelli si sarebbe rivolto a Berlusconi – riporta l’Espresso – e il Cavaliere a sua volta avrebbe chiesto aiuto all’amico Bettino Craxi. Il quale avrebbe investito della questione Arafat, ritenuto in grado di procurare un passaporto del Nicaragua”. In questa specie di fiera dell’est del passaporto la prima cosa che non si capisce è cosa dovesse farsene Calvi di un passaporto nicaraguense (non esattamente un passepartout), la seconda è se poi l’abbia mai ricevuto. Ci sono poi, nella ricostruzione, due cose abbastanza inverosimili: la prima è che il segretario del Psi si mettesse a trafficare passaporti falsi in prima persona e la seconda è che il leader dell’Olp fosse consapevole di tutta la trafila. Ricordiamo che questi sono i diari di Arafat e quindi se è lui a scrivere la vicenda dovrebbe essere andata così, con Craxi che chiama e dice: “Ciao Yasser sono Bettino, mi ha detto Silvio Berlusconi, a cui l’ha chiesto Licio Gelli, che Roberto Calvi gli ha chiesto la cortesia di procurargli un passaporto falso del Nicaragua. Che dici, me ne procuri uno?”. C’è poi un problema di date, che non tornano. L’Espresso scrive che la vicenda del passaporto nicaraguense di Calvi è dei “primissimi anni Ottanta”. Calvi muore nel giugno 1982, quindi è prima. Nel marzo 1981 viene scoperta la lista degli appartenenti alla P2, da quel momento Gelli è latitante e verrà arrestato l’anno successivo, quindi i “primissimi anni Ottanta” è prima del 1981. Resta solo il 1980, ma non si capisce bene cosa debba farsene Calvi di un falso passaporto nicaraguense visto che è a piede libero. Tra l’altro, per la cronaca, quando il 18 giugno 1982 il presidente del Banco Ambrosiano viene trovato impiccato sotto il ponte dei Frati neri a Londra, nelle sue tasche viene trovato un passaporto falso a nome “Gian Roberto Calvini” e non è del Nicaragua (viste le sue conoscenze e frequentazioni, di certo non c’era bisogno di scomodare Gelli, Berlusconi, Craxi e Arafat per un documento falso).
“Ciao Yasser sono Bettino, mi ha detto Silvio che Licio Gelli gli ha detto che Calvi cerca un passaporto falso del Nicaragua. Ne hai uno?” Nel caso dell’Espresso non si può dire che l’inchiesta si basi su un documento falso, semplicemente perché il documento non c’è proprio. E’ quindi, questa dei “diari di Arafat”, una faccenda diversa rispetto all’“inchiesta” sui “trafficanti di virus” (sempre di Lirio Abbate) che ha disintegrato Ilaria Capua. In quel caso il documento era vero, ma le accuse false. Ed è anche diverso dallo scoop, sempre dell’Espresso, sul resoconto delle spese sostenute dal Vaticano per il rapimento di Emanuela Orlandi. In quel caso il documento era tarocco, ma esisteva. I “diari di Arafat” ricordano piuttosto l’intercettazione di Crocetta su Borsellino, quando l’Espresso chiese le dimissioni del presidente della Sicilia dopo aver pubblicato un’intercettazione che non esiste.
Silvio berlusconi, fango a orologeria: la notizia su Apicella solo un anno dopo, scrive l'8 Febbraio 2018 "Libero Quotidiano". Un semplice rinvio dell'udienza. Al prossimo 9 maggio. Ma tant'è bastato perchè su diversi giornali comparisse la richiesta di rinvio a giudizio per Silvio Berlusconi in uno dei filoni del "Ruby ter". Richiesta della procura di Roma che, come svela il quotidiano Il Tempo era già stata presentata diversi mesi fa. Ma allora si era ancora molto lontani dalle elezioni, mentre ora al voto del 4 marzo mancano poco più di tre settimane. La vicenda è quella legata all'inchiesta secondo cui Silvio Berlusconi avrebbe consegnato 157mila euro al cantante Mariano Apicella perchè mentisse nel procedimento giudiziario avviato dalla procura di Milano sull'affaire delle Olgettine a villa San Martino. La decisione verrà presa il prossimo 9 maggio, tra esattamente tre mesi e ben lontano dalla chiusura delle urne. Sempre che, un eventuale risultato di empasse non costringa a tornare al voto, con ogni probabilità a giugno. E in quel caso, l'eventuale rinvio a giudizio del leader di Forza Italia arriverebbe proprio a pochi giorni dalla tornata elettorale-bis.
Processo Escort-Berlusconi: richiesto il parere della Consulta sull’applicazione della Legge Merlin, scrive il 6 febbraio 2018 "Il Corriere del Giorno". Sospeso il processo sulle ragazze-escort portate dal faccendiere Gianpaolo Tarantini accusato di avere portato 26 giovani donne, affinché si prostituissero, ai party a casa di Silvio Berlusconi, leader di Forza Italia. Oltre a Tarantini sono imputati Sabina Began (l'”ape regina” dei party di Silvio Berlusconi), Massimiliano Verdoscia e il pr milanese Peter Faraone. Sarà la Corte Costituzionale a stabilire se sia ancora oggi costituzionale punire chi recluta escort che volontariamente si prostituiscono. La Terza sezione della Corte di Appello di Bari, dinanzi alla quale si sta celebrando il processo di secondo grado sulle donne portate fra il 2008 e il 2009 dall’imprenditore barese Gianpaolo Tarantini nelle residenze dell’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, ha infatti sospeso il processo “escort”, accogliendo l’istanza, che era stata rigettata nel processo di primo grado, è stata presentata dai difensori di Tarantini, gli avvocati Nicola Quaranta e Raffaele Quarta, e di Massimiliano Verdoscia, gli avvocati Ascanio Amenduni e Nino Ghiro. I giudici hanno rinviando gli atti alla Corte costituzionale perché, a 60 anni dall’approvazione della legge Merlin (1958), si esprima per la prima volta sulla incostituzionalità di alcune norme in essa contenute. L’istanza, rigettata nel processo di primo grado, è stata accolta dai giudici dell’appello che hanno ritenuto non manifestamente infondata la questione posta. Tarantini è accusato di avere portato 26 giovani donne ed escort, affinché si prostituissero, ai party a casa del leader di Forza Italia. La decisione dei giudici della Corte di Appello barese è stata adottata durante un’udienza del procedimento in cui sono imputati Gianpaolo Tarantini, Sabina Began (l'”ape regina” dei party nelle residenze dell’allora premier Silvio Berlusconi), Massimiliano Verdoscia e il pr milanese Peter Faraone. L’eccezione di incostituzionalità, nella parte in cui si affronta la questione dell’autodeterminazione nella scelta di prostituirsi, era stata rigettata nel processo di primo grado e riproposta dagli avvocati difensori in secondo. Il sostituto procuratore generale Emanuele De Maria che si era opposto dichiarandosi contrario: “è un lavoro che fa soffrire chi lo esercita – aveva detto – per questo, che lo di eserciti in locali di lusso o per strada, la sostanza non cambia”. Chi si prostitusce, in pratica, rinuncia alla libertà di scegliere. Per la posizione processuale dell’ex Cavaliere il Tribunale di Bari lo scorso 26 gennaio ha reso noto che deciderà dopo il voto del 4 marzo sul rinvio a giudizio. Il Gup del tribunale di Bari dottoressa Rosa Anna Depalo ha accolto l’istanza di rinvio presentata dall’ avvocato Francesco Paolo Sisto difensore dell’ex Presidente del Consiglio, “Abbiamo chiesto un differimento a data successiva al voto – ha spiegato l’avv. Sisto – – perche’ Berlusconi e Forza Italia non ricevano vantaggi sul piano elettorale in caso di proscioglimento, ma nemmeno subiscano danni in caso di rinvio a giudizio”. Sono già state fissate altre udienze, l’11 maggio per le repliche dell’accusa, il 14 e il 18 maggio, per le controrepliche e la decisione a conclusione dell’udienza preliminare.
Dieci anni dal predellino. Ma l’Italia continua a parlare di Berlusconi. Il 18 novembre 2007 lo storico discorso di San Babila e la nascita del Pdl. Ennesima intuizione di un leader che non riesce a uscire di scena. Ora il Cav punta alle settime elezioni Politiche della carriera, nonostante la condanna. Lui sembra sempre uguale, ma il mondo che gli sta attorno è cambiato, scrivono Marco Sarti e Alessandro Franzi il 3 Novembre 2017 su “L’Inkiesta”. Milano, domenica 18 novembre 2007. Sono le sei di sera quando Silvio Berlusconi sale sul predellino della sua auto nella centralissima piazza San Babila. Il leader di Forza Italia guida ormai da un anno e mezzo l’opposizione al governo Prodi. Criticato da alleati e avversari, sta vivendo uno dei rari momenti di vera difficoltà della sua carriera. Eppure, nell’improvvisato discorso alla folla di sostenitori, attorniato da un muro di microfoni e telecamere, quella sera di ormai dieci anni fa Berlusconi prende tutti in contropiede. Annuncia lo scioglimento del partito fondato nel 1994 e la nascita di una nuova formazione di centrodestra per unire tutte le anime della coalizione (tranne la Lega). Un azzardo, di cui gli alleati sono all’oscuro. Con il Popolo della Libertà, acronimo Pdl, Berlusconi vincerà di nuovo le elezioni Politiche, nell’aprile successivo. Da quella serata milanese sembra trascorso un secolo. Ma Berlusconi, a suo modo, è ancora in scena. La prossima primavera affronterà le elezioni Politiche per la settima volta, a 81 anni, malgrado una condanna definitiva per frode fiscale che gli impedisce di candidarsi in prima persona. È innanzitutto il panorama attorno a lui, a essere cambiato. All’epoca del discorso del predellino, Walter Veltroni guidava il neonato Partito Democratico, mentre a Palazzo Chigi c’era ancora Romano Prodi, con un elenco di ministri che comprendeva personalità del calibro di Mastella, Amato, Di Pietro. Matteo Renzi faceva ancora il presidente della Provincia di Firenze, praticamente sconosciuto fuori da lì. E il Movimento Cinque Stelle neppure esisteva, sebbene qualche settimana prima si fosse levato il boato del primo Vaffa Day di Beppe Grillo. Tutto era diverso, tranne lui. Oggi, dieci anni dopo, Berlusconi fa ancora Berlusconi. O almeno ci prova. Si veste e si trucca come allora, promette la rivoluzione liberale, entra ed esce da una nota beauty farm di Merano per mettersi in forma in vista dell’ennesima campagna elettorale. Continua a considerarsi il garante del cosiddetto popolo dei moderati.
Dopo 14 anni da "La finestra di fronte”, Ozpetek torna a dirigere Giovanna Mezzogiorno in un thriller ricco di mistero, ragione, follia e sensualità. Milano, domenica 18 novembre 2007. Sono le sei di sera quando Silvio Berlusconi sale sul predellino della sua auto nella centralissima piazza San Babila. Il leader di Forza Italia sta vivendo uno dei rari momenti di vera difficoltà della sua carriera. Eppure, nell’improvvisato discorso alla folla di sostenitori, attorniato da un muro di microfoni e telecamere, prende tutti in contropiede. È il segno evidente di una longevità politica rara e, forse, di un Paese che non sa cambiare. «Non c’è solo il predellino, Berlusconi è protagonista della scena dal 1994» sottolinea Altero Matteoli, senatore berlusconiano e più volte ministro dei governi di centrodestra. «Anzitutto ha una capacità di lavoro impressionante, non ho mai visto nessuno lavorare tante ore come lui. E poi il Cavaliere ha una forte personalità. Ha attraversato una serie di vicissitudini personali che avrebbero ucciso un toro. Lui, invece, è rimasto sempre al suo posto». Ai tempi del predellino, Matteoli era un dirigente di primo piano di Alleanza nazionale, allora saldamente nelle mani di Gianfranco Fini. Che pur non condividendo da subito l’idea del Pdl, alla fine la accettò, confidando anni dopo di aver commesso il suo più grande errore politico. «Quello del partito unico - insiste Matteoli - fu un passaggio fondamentale. Non è un caso se ancora oggi molti rimpiangono il Pdl, e io sono tra loro. Era un partito che metteva insieme tante anime e diverse esperienze». Non durò moltissimo, per la verità. Il Pdl è finito durante la crisi dell’ultimo governo guidato dal Cav, mentre si consumava una drammatica scissione proprio con Fini. Nel 2013, un altro gruppo di ex An si sarebbe presentato alle elezioni con un nuovo soggetto politico: Fratelli d’Italia. E così qualche mese più tardi, dopo la condanna che lo ha estromesso dal Senato, Berlusconi è tornato al vecchio amore: Forza Italia. Sancendo la rottura con l’ex delfino Angelino Alfano, allora vicepremier del governo di larghe intese guidato da Enrico Letta. In quei mesi, Piero Ignazi, politologo dell’Università di Bologna, scriveva un libro dal titolo esplicito: Vent’anni dopo. Berlusconi, comunque la si veda, aveva profondamente segnato un ventennio della politica italiana, più di qualsiasi altro leader del dopoguerra: «Una presenza dominante e continua, un’impronta che non si limita al piano specificamente politico, ma investe gli atteggiamenti e i valori, la comunicazione e lo stile di leadership, la cultura politica in senso lato». Il politologo oggi vede in tutte queste caratteristiche anche il limite che non ha permesso a Berlusconi di trovare un erede: «Non lo ha voluto, tutti i leader con il suo profilo - risponde - non lo vogliono mai. E poi oggettivamente Berlusconi ha i soldi, le televisioni… Come si fa a trovare un vero successore con gli stessi strumenti?».
Per fare una sintesi: Il modello berlusconiano di uomo di successo con il sorriso in tasca ha incarnato nell’immaginario italiano tutto e il contrario di tutto. Il populismo di governo, che ha anticipato molti fenomeni internazionali, qualcuno dice anche Donald Trump. E ha stuzzicato la natura profonda del Paese: un’italianità che sfocia nella contrapposizione allo Stato e al politicamente corretto, ma senza eccessi. Amato e odiato nella stessa misura, anche per questo Berlusconi è sempre rimasto protagonista. Persino sul fronte delle grane giudiziarie: appena l’altro giorno si è saputo di una nuova indagine sulle stragi di mafia del 1993. «Ma le doti comunicative da sole non bastano - sostiene Matteoli -. Anche Matteo Renzi è un grande comunicatore, eppure la sua stagione politica è durata al massimo un paio di anni». Il paragone non è casuale. Sono stati in molti ad aver accostato il segretario del Pd al Cavaliere. Stesso approccio alla politica, uguale ingresso dirompente sulla scena. «Lasciamo stare - sbotta l’ex ministro - Quella è tutta un’altra storia, Berlusconi è di un altro spessore». Semmai Renzi potrebbe presto entrare nel lungo elenco degli avversari sconfitti. E in buona parte scomparsi dalla scena. Da Prodi a Rutelli allo stesso Veltroni, che comunque resta uno dei pochi padri nobili del centrosinistra a sognare un ritorno sulla ribalta. Berlusconi è sopravvissuto a Mario Monti, che nel 2011 prese il suo posto a Palazzo Chigi nel mezzo di una tempesta finanziaria che avrebbe dovuto seppellire definitivamente il ventennio. Pierluigi Bersani, che nella campagna elettorale del 2013 aveva promesso di “smacchiare il giaguaro”, ormai è fuori dal Pd. E poi c'è la lista degli eredi mai cresciuti e alla fine ripudiati: Fini, Fitto, Alfano. Persino nella Lega l’alleato di ferro Umberto Bossi - «lascerò la politica quando la lascerà Silvio» - non conta più nulla. ll modello berlusconiano di uomo di successo con il sorriso in tasca ha incarnato nell’immaginario comune tutto e il contrario di tutto. È stato il populismo di governo, ha stuzzicato la natura profonda del Paese. Amato e odiato nella stessa misura, anche per questo il Cavaliere è sempre rimasto protagonista. Ma Berlusconi, alla fine, è davvero sempre al centro della scena? È lui che può dare le carte, che può decidere gli equilibri del prossimo Parlamento? O è solo una suggestione giornalistica? Per il professor Ignazi il mito Berlusconi ormai sopravvive alle stesse fortune del Cavaliere. Una bulimia mediatica che sopravvaluta le reali forze in campo. «Oggi la Lega raccoglie più consensi di Forza Italia, c’è voluto un esterno come Salvini - sostiene il politologo - per emarginare Berlusconi. Nei confronti di quest’ultimo c’è una specie di coazione a ripetere che non rispecchia la realtà. Forza Italia non ha più l’egemonia, al massimo ci sarà un grosso equilibrio con la Lega che sarà gestito attraverso una contrattazione fra le parti». Nemmeno la leadership carismatica di Berlusconi è rimasta centrale? «No, fa parte di un passato lontano, la crisi - risponde Ignazi - ha travolto l’immagine di successo di Berlusconi. Che semmai cercherà di far dimenticare le malefatte del passato, e il suo successo dipenderà solo dalla capacità di mistificazione che metterà in campo». I suoi sostenitori la vedono ovviamente in modo diverso. Almeno in pubblico, dove i dubbi sulla stanchezza di un leader dalle mille vite vengono mantenuti nascosti. Per Matteoli, il Cavaliere è quello di sempre: «Fateci caso - confida - se Berlusconi parla, tutti i giornali ne scrivono. Se non parla, tutti i giornali cercano di interpretare i suoi silenzi. Lui è così: si può odiare o amare - è vero, c'è persino chi lo ama - gli si può essere amici o avversari, ma tutti concordano su un dato: il protagonista è sempre Berlusconi. La stampa e le tv non possono fare a meno di parlarne. In un mondo dove non ci sono più leader, è una verità indiscussa».
Viviamo nell’età dell’invidia. Viviamo tempi di sentimenti estremi, dice il pensatore Gunnar Hindrichs. Divisi su tutto. E uniti solo dalla paura e dalla rabbia verso gli altri. Così oggi sono livore e tristezza ad alimentare i populismi, scrive Stefano Vastano il 29 dicembre 2017 su "L'Espresso". Viviamo incollati a i telefonini e alla Rete. Pratichiamo sport estremi, siamo ossessionati da cibi e diete sempre più radicali. E non crediamo a nessun ideale, non investiamo in associazioni né in partiti, corrotti per definizione. Quello che ci unisce è, da una parte, la livida, schiumante rabbia e l’acido dell’invidia verso tutti i potenti del pianeta, politici, manager o artisti che siano. Dall’altra, il panico per il prossimo attacco terroristico, strage di kamikaze solitari o sedicenti fanatici religiosi. «Siamo nell’era degli estremismi diffusi, nel regno dell’assoluta immanenza», esordisce Gunnar Hindrichs, accogliendoci nel suo studio a Basilea. Nel suo ultimo saggio, “Philosophie der Revolution” (“Filosofia della rivoluzione”, edito da Suhrkamp Verlag Ag., e non ancora tradotto in italiano), il giovane filosofo tedesco ha analizzato i motivi che nell’era moderna, dal 1789 al 1917, hanno spinto l’Occidente alle rivoluzioni. Per concludere che «oggi non c’è più alcuna rivoluzione all’orizzonte e manca ogni senso per la trascendenza. Per questo siamo in preda a una confusa spirale di diversi estremismi».
Per lo storico Eric Hobsbawm il ventesimo secolo è stato il Secolo degli Estremi, cioè delle ideologie radicali. Il ventunesimo sarà dunque quello degli Estremismi?
«L’idea di “estremismo” è difficile da definire, ma il ventunesimo secolo si annuncia come un pullulare di tendenze estremistiche che non seguono più, come è accaduto nelle rivoluzioni della modernità, progetti utopici o trascendenti, ma restano legate al piano della realtà immanente. L’era dell’Estremismo è una inversione rispetto a quella delle Rivoluzioni. Sì, viviamo in un diffuso neo-romanticismo, immersi in una pluralità di trend estremi e soggettivi: non a caso Camus, nell’“Uomo in rivolta”, definì i terroristi “i cuori estremi”».
Per Hegel il terrore giacobino era la furia della sparizione: il terrore non segue opere politiche, dice, solo un fare negativo. Il terrorismo islamico si basa sullo stesso nichilistico cupio dissolvi?
«Nella furia della Rivoluzione i giacobini praticano una doppia “sparizione”, sia delle istituzioni e norme che dell’individuo, ghigliottinato senza pietà. Hegel criticava nel Terrore l’idea soltanto negativa della libertà, ma nel terrorismo islamico non vediamo nessuna idea di libertà, né negativa né universale».
Il Rivoluzionario, scrive nel suo libro, non è guidato, come il Conte di Montecristo, da vendette personali: da Robespierre a Lenin al Che, qual è allora l’idea di fondo della rivoluzione?
«Dopo gli attentati dell’11 settembre, il filosofo Sloterdijk ha visto nel terrorista “una malignità senza scopi”, cioè una strumentalità perversa e fine a se stessa. La forza della rivoluzione sta nel creare invece non solo discontinuità rispetto alle norme tradizionali della politica, ma nel rifondare regole nuove per un nuovo contesto sociale. Rivoluzione è la magia dell’inizio e di una nuova praxis dell’agire sociale, così come abbiamo visto all’inizio della rivoluzione russa con i Consigli dei Soviet».
Insieme all’incubo del terrorismo, altro fortissimo estremismo è il potere di Internet nella nostra vita. L’avvento del regno virtuale ha spento l’ardore per una politica rivoluzionaria?
«Non sopravvalutiamo il potere di Internet. Come la stampa nell’era di Gutenberg anche il web sta modificando le nostre vite, ma computer e tastiere non sono certo l’avvio di una vera rivoluzione. Ha ragione Hannah Arendt che nella rivoluzione vedeva all’opera appunto la creazione di nuove regole, come dicevo, per una nuova praxis sociale. E non mi pare che l’uso dei computer produca creatività e trascendenza».
In Rete circolano intanto, ed è un’altra forma di estremismo, moltissime astruse teorie, complotti e congiure, ondate di fake news da far pensare a un nuovo oscurantismo…
«La sociologia americana ha coniato al riguardo l’espressione “Lunatic fringe”, una follia che parte dai margini del sapere e si espande verso il senso comune. Oggi queste zone oscure sono entrate con Donald Trump nel cuore della Casa Bianca e nel centro della società digitale e dell’informazione, cambiando il senso dell’opinione pubblica. L’estremismo oscurantista delle fake news e congiure, travestendosi da “fatti alternativi”, stravolge il pubblico discorso. E di questo trend sono gli estremisti della politica, i populisti, ad approfittarne».
In che modo?
«I nuovi movimenti populisti non sono solo un concentrato di antipolitica, ma “maligni” nel loro attaccare senza posa e vergogna i più deboli, i profughi e le altre minoranze. Il sentimento-guida che spinge oggi i populismi in Europa non è tanto la paura dello straniero o dei profughi e nemmeno l’acido del risentimento di cui parlava Nietzsche, ma l’occhio velenoso dell’invidia».
Può spiegare meglio questo punto?
«Nella grande tradizione di Tommaso d’Aquino l’invidia è la tristezza per l’essere. Da una triste radice velenosa sprizza l’invidia per la vita e per le risorse altrui. I populisti soffiano sull’invidia quando dicono che quelli al potere - la casta - fanno ciò che vogliono o i migranti incassano i nostri soldi. Nell’era degli estremismi il linguaggio della politica e dell’opinione pubblica è pervaso da tristezza e rabbia viscerali, l’opposto del “gaudium entis”, cioè della felicità per l’essere e per la vita propria e altrui».
Siamo diventati dei mesti Paperino nell’era dell’Estremismo, schiumanti di rabbia per le gioie altrui?
«L’invidioso confronta di continuo il suo essere con quello altrui, per questo la propria vita gli appare misera. È da questo humus accidioso che i populismi oggi traggono la loro forza. I movimenti rivoluzionari e operai erano spinti da una forte carica utopica e da una lucida prospettiva nel futuro, mentre la cupa tristezza è il marchio d’identità nell’era degli Estremismi».
«La nostra è un’epoca di estremismi», scriveva anche Susan Sontag: «Viviamo sotto la minaccia di due prospettive spaventose: la banalità ininterrotta e un terrore inconcepibile»...
«Un’analisi perfetta questa della Sontag perché combina, nella loro immanenza, terrore e banalità, e ci consente di superare il luogo comune che nel terrorismo vede una forma, ancorché violenta, di trascendenza. No, l’estremismo terrorista è il gemello della più cruda banalità, l’apoteosi dell’arbitrarietà e della contingenza».
L’Estremismo è un ingrediente anche delle nostre abitudini alimentari: a tavola siamo tutti ossessionati da trend vegani o da diete sempre più spartane.
«Di recente sono stato invitato ad una conferenza per i 100 anni di “Stato e rivoluzione” di Lenin. A cena i più giovani sostenevano la tesi che con la rivoluzione non solo il menù, ma anche il nostro rapporto con gli animali, la carne e il cibo dovrebbe cambiare».
Hanno ragione questi ultra-rivoluzionari?
«No, credo che vi siano degli standard della società borghese dietro i quali non si possa regredire. Lo storico Karl Schlögel ci assicura che anche dopo la rivoluzione del 1917 nei ristoranti di San Pietroburgo menù e camerieri non erano affatto cambiati. Oggi persino tra giovani leninisti colpisce un certo estremismo dell’immanenza».
Una dose di estremismo fa parte della giovinezza: quando pensavano alla Rivoluzione francese i giovani Schelling, Hegel e Hölderlin osannavano una “Kunstreligion”, una Religione dell’arte in grado di spargere armonia nella società. Oggi l’industria della cultura ha riempito ogni città di musei, gallerie e biennali.
«Il mio maestro Rüdiger Bubner coniò la formula di “estetizzazione delle forme di vita” per caratterizzare la massima espansione di arte ed estetica nella nostra vita post-moderna. Anche le forme della protesta, sia nell’estrema destra che sinistra, hanno assunto ora la forma di pseudo feste rivoluzionarie o eventi estetici, come ad esempio al recente G-20 ad Amburgo. I giovani Hegel, Schelling ed Hölderlin sognavano una mitologia della Ragione, ma oggi del sogno rivoluzionario ci è rimasto solo un vago Estremismo estetico, come Negri e Hardt immaginavano nel loro “Impero”».
Ejzenstejn, invece, rivoluzionò il cinema e il montaggio. Majakowski e i poeti russi hanno ricostruito un linguaggio poetico…
«I futuristi russi si sentivano avanguardia di una nuova Bellezza che spingesse verso nuove forme di vita. Non è un caso se nel mio libro non parlo di Stalin: ho scritto un libro sulla filosofia della rivoluzione, non sul suo fallimento».
Anche Gramsci, nei “Quaderni del carcere”, sognava una politica oltre le paludi del senso comune, che spingesse verso il cosiddetto “Buon senso”.
«Il pensiero di Gramsci è essenziale per chiunque voglia articolare una filosofia della rivoluzione. Il “senso comune” a cui Gramsci si riferiva è il dominio dell’immanenza nelle forme estreme che abbiamo analizzato. Contro il quale si erge una prassi utopica, il “buon senso” di Gramsci appunto, che progetta nuove norme della prassi sociale. Oggi non vediamo da nessuna parte una esigenza rivoluzionaria di nuove forme di trascendenza».
A proposito di trascendenza, Robespierre inventò un culto dell’Essere Supremo. Ma il Dio del Rivoluzionario qual è?
«Il Dio della rivoluzione è quello che nella Bibbia (Esodo 3, 14) si presenta in latino come: “Ego sum qui sum”, e nella versione ebraica come “Ehye asher ehye”, e cioè “sarò colui che sarò”. È nella dimensione escatologica della Bibbia e del Dio d’Israele, come ha visto Michael Walzer, la matrice di ogni prassi rivoluzionaria».
L’era degli Estremismi segna il ritorno ad arcaici politeismi?
«I filosofi del postmoderno sentono il politeismo come più scettico, tollerante e pacifista del monoteismo. Ma più che scegliere tra politeismo o monoteismo, la questione è se l’era degli Estremismi abbia davvero un Dio o no».
E lei cosa dice?
«Che il Dio degli Estremismi è una variabile del tutto immanente e dai tratti antropomorfici: un Dio che non è un vero Dio, senza teologia né trascendenza, percepito come mera religione umana. Ma, come diceva Karl Barth, “la religione non è fede”».
Non per niente l’unico feticcio nell’era dell’Estremismo è il Nazionalismo, l’American First di Trump.
«La casa editrice della Nuova Destra tedesca si chiama “Antaios”, da Anteo, il gigante che come ogni nazionalismo trae la sua forza dalla madre Terra, dalle presunte radici o dai confini tellurici della società. Ma persino il cosiddetto “Movimento Identitario’”, la destra radicale, ha nelle sue bandiere una Lambda greca ispirata a un film sugli spartani di Hollywood, l’industria culturale più globale della storia. Un ennesimo segno dell’estremo mix di rabbia, invidia, tristezza e banalità quotidiana in cui siamo totalmente immersi».
L’analisi più suggestiva di Marx è “Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte”, la storia di una rivoluzione fallita, nel ’48, e della deriva autoritaria in Francia. Gli estremismi che circolano oggi in mezza Europa puntano verso nuovi Bonapartismi?
«Quel saggio di Marx è senza dubbio la chiave per capire gli Estremismi del presente. Bonapartismo è l’ambigua unione dei poteri forti con dubbiosi faccendieri e avventurieri, terroristi e criminali. Oggi persino la Faz, il quotidiano dei conservatori, scrive articoli a favore del movimento xenofobo di Pegida, e Afd fa proseliti tra i professori. Ai tempi di Marx la Repubblica francese implodeva nella forma totalitaria del bonapartismo, ed oggi populisti e l’estrema destra osannano Putin, il nuovo “Uomo forte”. A differenza dei tempi di Marx, però, non c’è più alcuna minaccia rivoluzionaria, ma i populisti rileggono il motto di Cicerone “res publica, res populi” in senso illiberale: nel loro estremismo, la Repubblica è proprietà del popolo e non delle sue libere norme ed istituzioni».
We are under a Mediaset. Generation Attack! Scrive Giuseppe Giusva Ricci venerdì 07 luglio 2017 su Next Quotidiano. La tragedia della situazione politica contemporanea (che travalica e fa apparire obsoleti i concetti di destra e sinistra) risiede nel fatto che individui appartenenti alla MediasetGeneration sono approdati a cariche istituzionali in modo naturale per scadenza biologica dei predecessori. Mezzi-adulti educati e cresciuti nel contesto culturale del berlusconismo carico di molteplici retaggi, di varie diramazioni, e di infiniti caratteri seduttivi, questi perenni adolescenti senza passato vivono secondo una coscienza deforme mossa da arrivismo, egoismo, edonismo, cialtronismo e disincanto nei confronti del Sociale, la dimensione imprescindibile del Bene Comune che una volta si poteva definire Società. In un paese culturalmente devastato dall’ognun-per-sé, dove la lotta di classe si è trasformata in invidia di classe – e che Pierpaolo Capovilla compendia così “Dai, vai, uno su mille ce la fa, stai a vedere, che sei proprio tu … sono accadute tante cose ma non è successo niente, che m’importa a me, che t’importa a te, che c’importa a noi … se tuo fratello resta al palo, mandalo affanculo, non aver pietà o rispetto per nessuno, parola d’ordine nutrire l’avvoltoio è dentro di te”** – data la loro formazione diretta o sublimata e la loro appartenenza a questa condizione ormai cristallizzata, gli attuali giovani leader non possono che essere intimamente e forse inconsapevolmente dediti a ways of life pop-nichilisti nei quali l’ambizione determina scelte e posizioni. È plausibile che siano la vanità e l’arrivismo a muoverli e a farli soccombere alle sirene del benessere privato, ossia quei valori che hanno vinto definitivamente con la resa di gran parte della precedente generazione politica contaminata dal berlusconismo perché già segnata irreparabilmente dalla caduta delle Idee e dal trionfo del privilegio e del profitto privato. Le dinamiche delle rottamazioni (in tutti gli apparati) evidentemente fallite, vista la riesumazione di figure quali Berlusconi e Prodi, furono prefigurate da Antonio Gramsci in Quaderni dal carcere [Vol. 4, 1929-1935] con queste parole: “Fare il deserto per emergere e distinguersi […] Nella svalutazione del passato è implicita una giustificazione della nullità del presente: chissà cosa avremmo fatto noi se i nostri genitori avessero fatto questo e quest’altro, ma essi non l’hanno fatto e, quindi, noi non abbiamo fatto nulla di più.” Con l’impostura del giovanilismo usato come paradigma di rinnovamento e basato sul concetto mistificatorio che approssima il vecchio al superato e allo sbagliato, all’interno degli apparati si sono attuate pseudo-rivoluzioni che hanno instaurato un regime della mediocrità. Questo regime supera l’appartenenza alle tradizioni e ai pensieri forti che non solo hanno mosso il Novecento, ma che paiono imprescindibili visto l’andazzo delle disparità economiche che investono oggi, come già prima delle lotte per i diritti, tutti gli ambiti della società reale. Da quando la principale agenzia di educazione-formazione è diventata la TV con le sue divizzazioni di giovani individui qualunque (o con l’enfatizzazione del ruolo dei professionisti dell’intrattenimento), le gioventù hanno assimilato la mistificazione del nuovo secolo, quella che ripone e misura il significato dell’esistenza quasi esclusivamente sulla base del successo pubblico e del relativo denaro ottenibile, sull’arrivismo e sull’individualismo. Nell’introduzione al suo Atlante illustrato della TV (2011), Massimo Coppola, senza definirla, la spiega così: “La generazione formata in quegli anni – quelli dell’affermazione della tv commerciale – non può che essere formata da anime scisse, indecise, forse incapaci di provare davvero piacere […] gente priva di uno straccio di passato cui attaccarsi senza provare rimorso, rabbia, sottile vergogna”. Questa dinamica nel tempo ha formato la MediasetGeneration, che per forza di cose sarebbe approdata, in parte, anche ai gruppi sociali dirigenti composti dagli attuali trentenni/quarantenni:
–Alessandro Di Battista, classe 1978, a 35 anni deputato e leader di Movimento, a 20-22 anni partecipò a provini per Amici di Maria De Filippi spinto da vocazione attoriale.
–Rocco Casalino, classe 1972, a 42 anni responsabile della comunicazione del M5S, a 28 anni partecipò alla prima edizione del Grande Fratello (poi ospite e opinionista di altre trasmissioni Mediaset: Buona Domenica, ecc.).
– Luigi Di Maio, classe 1986, a 27 anni Vicepresidente della Camera e leader di Movimento, con l’avvento della triade Mediaset del 1984 potrebbe avere assistito all’operazione culturale berlusconiana già dalla culla.
– Matteo Salvini, classe 1973, già a 36 anni europarlamentare, oggi leader della Lega, ancora giovanissimo partecipò a telequiz trasmessi dalle reti berlusconiane – nel 1985 (a dodici anni) a Doppio Slalom; nel 1993 (a vent’anni) a Il pranzo è servito.
– Matteo Renzi, classe 1975, a 29 anni Presidente della Provincia di Firenze, a 34 Sindaco di Firenze, a 38 segretario del PD, a 39 Presidente del Consiglio, nel 1994, diciannovenne, partecipò al telequiz di Canale5 La ruota della fortuna.
[A proposito: Hitler: a 36 anni leader del Partito Nazionalsocialista, a 44 Cancelliere del Reich. Stalin: a 43 anni Segretario Generale del Comitato Centrale, a 47 Capo dell’Urss. Mussolini: a 36 Capo del Partito Fascista, a 39 anni Presidente del Consiglio].
Ancora, il 18 ottobre 1975, dalle colonne del Corriere della Sera, Pier Paolo Pasolini scriveva: “Se i modelli son quelli, come si può pretendere che la gioventù più esposta e indifesa non sia criminaloide o criminale? È stata la televisione che ha praticamente concluso l’era della Pietà, e iniziato quella dell’Edonè. Era in cui dei giovani presuntuosi e frustrati a causa della stupidità e insieme dell’irraggiungibilità dei modelli proposti loro, tendono inarrestabilmente a essere o aggressivi fino alla delinquenza o passivi fino all’infelicità”.
Gli esemplari umani recentemente consacrati mediaticamente come personaggi istituzionali e politici (Renzi, Boschi, Serracchiani, Salvini, Di Maio, Di Battista, Meloni, ecc.) sono, prima di tutto, leader mediatici abili nella spettacolarizzazione di se stessi, sono l’incarnazione dell’affermazione dell’Immagine sulla “Statura”, dello Spettacolo sulla Politica, del marketing sull’esperienza. Questi “giovani politici” sono stati graziati dalla logica da Grande Fratello della “nomination”, hanno partecipato al talent show della non-Politica moderna, e hanno vinto (forse). Se siano stati scelti e nominati da chissà quali alte sfere del Dominio, “cupole” anche diverse tra loro, non è dato sapere con certezza, ma i segnali che siano figure compiacenti e collaborative ci sono…
L’appartenenza alla MediasetGeneration in parte li scagiona, perché è mutazione genetica, poiché essi possono essere ritenuti innocenti delle strutture mentali alle quali obbediscono; ambizione e successo. Ma possono essere ritenuti inconsapevoli dell’arroganza generazionale, del modernismo scalpitante, e del superomismo che li descrive nel loro carrierismo data l’appartenenza alla società dell’opulenza?
SCONTRO DI INCIVILTÀ. «Crepa, bastardo!»: quando a incitare all'odio sono politici e giornalisti. Auspici di morte, irrisioni e ingiurie sessuali. Dalla "patata bollente" della Raggi agli insulti antisemiti a Fiano, passando per tweet e prime pagine scandalose: non c'è solo il web a fomentare rancore e violenza, scrive Susanna Turco il 26 dicembre 2017 su "L'Espresso". Testate, aggressioni, insulti, finte decapitazioni, bavagli e fotomontaggi. Violenze, non solo verbali. E meno remore. Pillole incivili dall’Italia che ci avviluppa, con l’orizzonte aspro della campagna elettorale. Antologia di piccoli orrori in crescendo: eccoli.
TESTE. «Le sopracciglia le porta così per coprire i segni della circoncisione». Lo scrive su Facebook a luglio il deputato di Direzione Italia Massimo Corsaro, sopra una foto del dem Emanuele Fiano, firmatario e relatore del ddl sull’apologia del fascismo. Sommerso di critiche, si difende così: «Nessuna volontà di antisemitismo, ho piuttosto inteso dargli del testa di cazzo».
MALARIA. «Morire di malaria non è normale. La infezione viene da lontano, dall’Africa nera. Basta accoglienza». (Tweet di Vittorio Feltri).
BAVAGLI. «Incredibile. Questa è vera violenza. Non mi fanno paura, mi danno ancora più forza: andiamo a governare!». Così il segretario della Lega Matteo Salvini, dopo aver postato una foto che lo ritraeva imbavagliato, alla Moro, davanti al simbolo delle Brigate rosse con il commento «ho un sogno». La minaccia era stata pubblicata sulla pagina facebook “Vento ribelle”: gruppo seguito da 113 mila persone che si definisce antifascista, antirazzista, anticapitalista, antimilitarista, anticolonialista e anti imperialista, il cui sottotitolo è: «Disprezzo assoluto al sistema e al suo governo, né omertà né padroni su questa terra». Tra i membri, un Davide Codenotti che espone nel suo profilo il simbolo del Movimento 5 Stelle. Il giorno dopo, come “provocazione” per la scarsa solidarietà offerta a Salvini, il Tempo pubblica lo stesso fotomontaggio ma con la presidente della Camera Laura Boldrini al posto di Salvini. Vittorio Feltri si complimenta caldamente col direttore Gian Marco Chiocci per l’iniziativa.
FACCE. «Non abbiamo paura di sparire, noi! Ma di avere un parlamento con le solite facce di cazzo!» (il senatore Sergio Puglia, segretario di gruppo dei M5S, in Aula al Senato).
MAIALI. In estate la pagina Facebook Club Luigi Di Maio pubblica una foto di Emanuele Fiano accanto all’immagine di un suino. Di Maio si dissocia subito. Dei 72 mila del club, scrive la Stampa, fa parte almeno un suo amico di sempre: Dario De Falco, già compagno di liceo e di università, oggi nel comitato elettorale ristretto che si occuperà di raccogliere i fondi per la corsa dei Cinque stelle verso le politiche.
ASSASSINI. «Il treno di Renzi non ha ucciso nessuno perché Renzi non ha un treno. La macchina di Grillo invece una famiglia l’ha davvero sterminata». Così recita una card postata dalla pagina facebook Per Matteo Renzi insieme, pro-Pd ma (come per i Cinque stelle) non ufficialmente collegata alla comunicazione dem. Il riferimento è all’incidente che a fine novembre aveva coinvolto una quarantatreenne di Civita Castellana, investita dal treno noleggiato per la campagna elettorale di Renzi, contrapposto all’incidente stradale per il quale il fondatore del M5S è stato condannato per omicidio colposo in Cassazione.
VOLONTÀ PORCA. «Criminali dalla volontà porca, direi genetica, figli del Porcellum. Vi riproducete con le porcate, fate ammucchiate elettorali per grufolare voti. Ma se vi ripugna il parallelo, torno a chiamarvi cri-mi-na-li» (il senatore M5S Sergio Endrizzi, in aula al senato).
VIVI. «Rosato facciamo un patto, se questa legge sarà cassata dalla Consulta, noi ti bruceremo vivo, ok?». (Tweet contro il Pd, Ettore Rosato, scritto da Angelo Parisi, M5S).
DECAPITATI. A settembre, Torino, i manifestanti anti G7 decapitano due fantocci: uno col volto di Matteo Renzi, l’altro con quello del Ministro del Lavoro Giuliano Poletti. Sempre a Torino, ma a maggio, durante la Cannabis Parade, si esibiscono manichini di poliziotti investiti da un furgone. A Rho, fine ottobre, il fantoccio del ministro dell’Interno Marco Minniti, in giacca e cravatta, gli abiti riempiti come quelli di uno spaventapasseri, sul volto la sua foto, e quello del leader della Lega Matteo Salvini, in felpa verde e pantaloni di una tuta, vengono trovati davanti le sedi di Pd e Lega accanto a un cartello firmato “Brigate moleste”. Accanto al fantoccio del titolare del Viminale la scritta in stampatello «Minniti fascista- Fate leggi contro il fascismo, ma avete il Duce come ministro degli interni».
CAPOCCIATE. In piena campagna elettorale a Ostia Roberto Spada, incensurato dell’omonimo clan, in favore di telecamera spacca con una testata il setto nasale al giornalista di Nemo Davide Piervincenzi.
Daniele Piervincenzi, inviato del programma di Rai2 Nemo, è stato colpito al volto con una violenta testata da Roberto Spada, titolare di una palestra e fratello del boss Carmine, condannato a 10 anni di carcere. Piervincenzi, che stava incalzando Spada sul suo "endorsement" per il candidato di Casapound Luca Marsella, ha riportato la frattura del setto nasale ed è stato sottoposto a un intervento d'urgenza. Durante l'aggressione, Spada ha utilizzato anche una mazza con la quale ha colpito anche l'operatore della troupe. Sul suo profilo Facebook, Spada ha poi riportato la sua versione dei fattiVideo da Nemo - Rai2.
VOMITARE. «Questo è sequestro di persona, io vi mangerei soltanto per il gusto di vomitarvi, voi siete i principi del pettegolezzo, quindi non mi coinvolgerete più». Lo afferma, uscendo dall’hotel Forum, Beppe Grillo rivolgendosi ai cronisti che lo attendevano. «Un minimo di vergogna voi la percepite per il mestiere di che fate, sì o no?». (Ansa 19 settembre 2017).
MATTONI. Quattro aggressioni in venti giorni per l’inviato di Striscia la notizia Vittorio Brumotti e la sua troupe, nel corso di servizi sullo spaccio di droga. Il 15 novembre li avevano puntati alcuni pusher stranieri nel parco bolognese della Montagola. Quindici giorni dopo nello stesso parco nuova aggressione. Il 22 novembre, l’inviato di Striscia ed i suoi operatori erano stati aggrediti a Padova, vicino alla stazione. L’ultima, il 2 dicembre nel popolare quartiere romano di San Basilio, una delle piazze dello spaccio della Capitale: Brumotti tentava di fare interviste, un uomo incappucciato si è messo a lanciare mattoni, insulti dai palazzi adiacenti, due spari, aperta un’inchiesta.
OMINO. «Taci omino da quattro soldi, le ore son contate», «Ottimo messaggio», «muori». Sono alcuni degli insulti ricevuti via Facebook a inizio dicembre dal sindaco di Pesaro Matteo Ricci, colpevole di aver negato una sala del comune a Casa Pound per la presentazione del libro di un disabile. Ora è sotto scorta.
FAKE. Tra tante, due recenti. Su Facebook un utente che ha come foto profilo un simbolo pro M5S, condivide una foto che ritrae Boldrini, Boschi e altri esponenti dem a un funerale, con il commento: «Guardate chi c’era a dare l’ultimo saluto a Totò Riina». Mille condivisioni in poche ore, per una cosa mai avvenuta. Il funerale in realtà era quello di Emmanuel, il nigeriano massacrato di botte a Fermo un anno e mezzo fa, per aver provato a difendere la moglie dai razzisti. L’altra: il 29 ottobre la pagina Facebook “Fiamma Nazionale” condivide una vecchia bufala pubblicata nel 2016 nel sito Adessobasta.org, secondo la quale Cecile Kyenge avrebbe detto no ai mercatini di natale, offendono le altre religioni. Il commento più leggero: «Vattene a casa tua».
PIAZZA FORCONA. Alessandro Di Battista sommerso di fischi e insulti dopo essersi presentato a piazza Montecitorio per arringare una piazza che credeva grillina, e invece era dei forconi: «Vattene via, servo di Goldman Sachs», l’offesa più bruciante. Il giorno appresso Vittorio Di Battista, Dibba padre, ha tentato di picchiare il generale dei forconi Antonio Pappalardo: schiaffo mancato. Alessandro Di Battista, convinto di rivolgersi ai militanti pentastellati che protestano in piazza Montecitorio dalla mattina, arringa la folla che manifesta davanti alla Camera. Invece dei sostenitori del Movimento 5 stelle, però, si trova davanti i simpatizzanti del Movimento di Liberazione Italia guidato dall'ex generale Antonio Pappalardo. Di Battista viene accolto con fischi e contestazioni. I seguaci di Pappalardo infatti considerano le posizioni del M5s troppo morbide. Per loro tutti i parlamentari sono abusivi a seguito della sentenza che ha dichiarato incostituzionale il Porcellum che ha portato alla loro elezione.
PIAZZA DIVISA. Dieci dicembre, piazza Santi Apostoli, due manifestazioni in contemporanea. Da un lato il popolo della Lega contro lo Ius soli davanti alla Basilica, dove da quattro mesi vivono accampate nell’atrio 60 famiglie sgomberate a Cinecittà. Dall’altro lato i movimenti per il diritto alla casa e i migranti manifestano (non autorizzati) a sostegno degli sfollati e contro la Lega: «Salvini Roma non ti vuole» e «Odio la lega», tra gli slogan. In mezzo, un blindato della polizia.
ORTICA. Cavalcavia Buccari, al quartiere Ortica, dove studenti, abitanti e gli artisti di zona avevano scritto a grandi lettere: “Bella Ciao Milano”, per festeggiare i 70 anni della resistenza. In una notte di dicembre, qualcuno ha cambiato il murale in un inno fascista: «Duce a noi».
PATATE. Alcuni titoli recenti da Libero, che ne ha fatto un genere. «Dopo la miseria portano le malattie»; «Bastardi islamici», all’indomani delle stragi di Parigi; «Italia 1 - Germania 0», dopo l’uccisione dell’attentatore tunisino al mercatino di Natale di Berlino. Per il filone donne, dopo «Veronica Velina ingrata», «La patata bollente, vita agrodolce della Raggi». «Provocazione per l’otto marzo. Più patate, meno mimose»; «Dal burqua alla museruola».
BANDIERE. In mezzo a tante fake news autentiche, l’esposizione alla caserma Baldissera di Firenze della bandiera del secondo Reich e il tentativo di farla passare come una gaffe storica o addirittura una bufala. La ministra della Difesa, Roberta Pinotti: “Ho condannato con nettezza l’esposizione della bandiera neonazista, da quel momento sono stata ricoperta da insulti e minacce di ogni tipo da parte di chi vorrebbe far credere che in realtà quella bandiera sia semplicemente una vessillo della Marina imperiale tedesca”.
TERRORISTI. “Dovremmo smetterla di considerare il terrorista un soggetto disumano con il quale nemmeno intavolare una discussione” (Alessandro di Battista, sul blog di Grillo, 2014).
STUPRI. «Confessione. Ho fatto fatica a scopare quelle che la davano volentieri, come potrei stuprare una che non ci sta? Superiore alle mie forze» (tweet di Vittorio Feltri per sminuire la campagna #metoo. Ottiene subito 175 retweet e 773 “mi piace”).
VIOLENZE. «Quando una prima acconsente e poi se ne pente, toglie credibilità alle storie delle donne che veramente vengono violentate» (Vladimir Luxuria a Carta Bianca, per sminuire la denuncia delle molestie subite da Asia Argento da parte di Weinstein).
ARRESTIAMOLI TUTTI. «Questi parlamentari, usurpatori di potere politico li arresteremo noi, perché noi siamo dalla parte della legge. Questi sono golpisti, gentaglia, delinquenti che stanno rubando i soldi del nostro paese e stanno affamando il popolo italiano». Il generale dei Forconi Antonio Pappalardo, capo del Movimento per la liberazione dell’Italia, nel videomessaggio sul proprio sito.
Scontro di inciviltà: ecco la politica dell'odio. Insulti, violenze, minacce. E intolleranza verso le idee dell’avversario. Che diventa un nemico da distruggere. Così l’Italia va al voto nel modo peggiore, scrive Marco Damilano il 15 dicembre 2017 su "L'Espresso". C’è un bene più prezioso della stabilità di un governo e anche, per fortuna, di una campagna elettorale vinta o persa che in democrazia dovrebbe essere la routine e non un giudizio di Dio? Sì, c’è, è la qualità del dibattito pubblico. La possibilità di riconoscere l’altro: un avversario da battere nelle urne, non un nemico da eliminare. Quando se ne parla appare una questione di educazione, di bon ton, di galateo, una roba da parrucconi, da bigotti custodi delle regole di buon comportamento. Ma non è così, non di mala educación qui si parla, e neppure soltanto dell’avvicinarsi della campagna elettorale. Perché c’è qualcosa di più inquietante e di più profondo. Un’intolleranza al pensiero altrui. Un’ostilità nei confronti di chi non fa parte della tua stretta cerchia dei veri credenti. Una sotterranea volontà di annientare il diverso, come dimostra anche il tentativo di assalto alle redazioni di Espresso e Repubblica del 6 dicembre ad opera di manifestanti del gruppo neo-fascista di Forza Nuova. Un gruppo di militanti mascherati di Forza Nuova hanno fatto irruzione nel cortile di via Cristofotro Colombo, sede dell'Espresso e di Repubblica. Nel video si vede chiaramente uno di questi figuri che lancia un fumogeno contro una delle finestre della redazione. Non preoccupano solo l’attacco, le maschere sul volto come gli attivisti di Anonymous, il megafono che fa subito anni Settanta, gli striscioni e i fumogeni, il vero simbolo di questa stagione perché tutto copre, confonde, occulta in una nuvola di confusione, ma soprattutto le parole spese nel comunicato pubblicato su facebook con gli insulti («infami, pennivendoli, diffusori del verbo immigrazionista») e le minacce: «Roma e l’Italia si difendono con l’azione, spalla a spalla, se necessario a calci e pugni...». Propositi ribaditi l’11 dicembre, in occasione del presidio delle associazioni sotto la sede dei nostri giornali: «Le guardie dell’antifascismo di regime, nemici della patria e traditori, si sono date appuntamento... preferiamo prendervi a schiaffi nelle piazze piuttosto che doverci difendere dalle vostre calunnie». L’annuncio di azioni violente sulla pagina fb di un’organizzazione che si definisce partito politico e che intende candidarsi alle elezioni. La campagna elettorale inizia nel peggiore clima di tensione, tra aggressioni verbali e minacce, segno di una stagione in cui non si vuole più il dialogo con l'altro. Poi sul giornale l'inchiesta sugli affari di Roberto Fiore, leader dei neofascisti Forza Nuova; l'intervista al ministro Carlo Calenda, uno dei personaggi politici del momento; il ritratto di Federico Ghizzoni, ex amministratore di Unicredit e test chiave della Commissione banche; il nuovo divismo della società contemporanea e le sue strategie. Si può tentare in modo rassicurante di isolare il fenomeno e di ridurlo a un gruppo di ragazzotti, al balzo sulla scena mediatica di un ormai attempato capo fascista, quel Roberto Fiore che nel 2006 aveva provato a entrare in Parlamento grazie all’accordo tra Alessandra Mussolini e Silvio Berlusconi, bloccato dalla reazione degli alleati del Cavaliere (Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini). E poi si può allargare la condanna al gruppo rivale di Forza Nuova, l’altra scheggia di estrema destra Casa Pound, il cui leader Simone Di Stefano meno di tre anni fa, il 28 febbraio 2015, salì sul palco di piazza del Popolo accanto a Matteo Salvini (oggi il leader leghista candidato premier lo dimentica e fa lo schizzinoso: «Io certi voti non li prendo»). Inchiesta della magistratura dopo l'azione intimidatoria di dodici camerati. E sui social network tanta solidarietà alla redazione dell'Espresso. Ma non si fermano i vergognosi attacchi. Intanto Fiore scrive a Minniti: «Perché si dà la colpa a me?» Ma sarebbe un errore circoscrivere. Perché insulti, aggressioni, minacce, gli attacchi squadristi che escono dal virtuale e si fanno reali si muovono in un contesto accogliente per le loro scorribande, amichevole, friendly. Da mesi si rincorrono sul web e nei talk televisivi inviti ad asfaltare, cancellare, polverizzare, bruciare vivi gli esponenti di un altro partito. Si invoca la fine di Aldo Moro, rapito e assassinato nel bagagliaio di un’auto quarant’anni fa, ora per Matteo Salvini ora per Laura Boldrini, sul web o sulla prima pagina di una gloriosa testata, il Tempo di Roma, che un tempo fu soavemente diretta da Gianni Letta. Le testate reali contro un cronista delle Iene davanti alle telecamere del familiare di un clan mafioso a Ostia e gli inviti virtuali a masticarli e vomitarli da parte del fondatore del più votato partito politico italiano (stando ai sondaggi), Beppe Grillo e M5S. Non è finita, perché la delegittimazione reciproca rimbalza dalle piazze virtuali alle aule parlamentari, dalla base al vertice, dal basso - per così dire - verso l’alto, con la legislatura che si conclude nel peggiore dei modi, con lo spettacolo della commissione di inchiesta sulle banche che inghiotte e divora quel che resta della credibilità della Banca d’Italia, di un pezzo di magistratura (ad esempio la procura di Arezzo) e i partiti in campo interessati a distruggere ognuno per parte sua un pezzetto di istituzione pur di portare a casa un brandello di vittoria. E poi l’inchiesta sui carabinieri infedeli che truccano le carte sull’inchiesta Consip per incastrare Matteo Renzi. E quel magistrato consigliere di Stato che usa e abusa della sua posizione per organizzare corsi di formazione che con la scienza e il diritto hanno poco a che fare e che si sente come Albert Einstein, un genio incompreso. «Non si può essere violenti con chi pensa cose diverse da noi. Passato questo limite non si torna più indietro». Il ministro critica duramente il blitz di Forza Nuova nel corso di un lungo colloquio con Marco Damilano. E sullo Ius Soli: «È fondamentale per il futuro del paese» Sono situazioni lontane tra loro, a ciascuno il suo. A metterle insieme si rischia il generico, il mischione, il sospiro perbenista e snob per i brutti, sporchi e cattivi, il signora mia, in un annoiato tintinnar di posate. Ma nell’insieme ognuno di questi casi uniti dalle cronache e dai retroscena politici rappresenta un pezzo di fiducia che se ne va. E qualcosa di profondo che viene corroso. «Sento un rumore di denti di talpe che rodono incessanti le radici di molti alberi», mi ha scritto qualche giorno fa uno degli osservatori più intelligenti e disinteressati che in passato ha ricoperto rilevanti incarichi governativi. Questo dovrebbe interessare tutti: le radici corrose. L’Italia ha vissuto albe elettorali molto più pericolose di questa. Nell’anno che viene, per dirne una, sarà ricordato il 18 aprile 1948, settant’anni fa. Uno scontro di civiltà vero, tra l’Occidente e il socialcomunismo, tra Dio e Stalin, il bene contro il male. Da un lato Togliatti, Nenni, Garibaldi, il vento del Nord, l’Armata rossa. Dall’altro gli americani, Pio XII, le madonnine in lacrime, De Gasperi, il manifesto dello scudocrociato della Dc ponte levatoio che si abbatte sulla masnada rossa: «Non si passa». Walter Lippmann, il guru dei politologi americani, scrisse sul “New York Herald Tribune”: «Se l’Italia sarà il primo paese a diventare comunista, significherà una serie di lotte senza fine, irresolvibili dalla diplomazia». Come dire che dal voto degli italiani dipendeva la pace nel mondo. La classe dirigente dell’epoca, però, provava a tenere lo scontro nei binari della civiltà. Era riluttante a delegittimare il partito politico avverso, nonostante l’asprezza e la violenza della battaglia politica in un paese di frontiera nel tempo della guerra fredda, perché il processo di apprendistato democratico prevedeva esattamente il percorso opposto. Educarsi tutti insieme a convivere nella casa comune dello Stato democratico: cattolici e laici, liberali e comunisti. Oggi viviamo in un’epoca di debolezza della struttura statale e di dissolvenza dei partiti e degli altri canali di rappresentanza. E quelli che resistono non hanno alle spalle ideologie, progetti, identità, una visione delle cose, un’idea di politica. Preferiscono in gran parte carezzare l’elettorato per il verso del pelo, l’Italia del rancore di cui ha parlato l’ultimo rapporto Censis. Il rancore è la nuova ideologia. L’inciviltà non è l’incapacità di rispettare l’etichetta, ma il rifiuto dell’altro, per di più in nome di simboli posticci, di appartenenze virtuali. Il fumogeno da stadio è uno dei simboli di questa epoca perché disvela un dibattito collettivo ridotto a stadio, a curva degli ultras. Si va verso una campagna elettorale di ultras, in cui prevale l’odio per l’avversario piuttosto che l’amore per la propria squadra. E il frastuono dei cori assordante che copre le voci critiche o semplicemente disponibili a comprendere le ragioni degli altri. Un clima rafforzato dal virus proporzionalistico che trasforma il partito più vicino in nemico assoluto, che frantuma gli schieramenti, che esalta l’autoreferenzialità di un leader come Matteo Renzi, contento di essere rimasto quasi da solo, senza coalizione, e la sindrome di autosufficienza del partito in testa nei sondaggi, il Movimento 5 Stelle, orgoglioso di dichiararsi indisponibile a ogni alleanza, considerando tutte le altre forze politiche in blocco una malattia da estirpare. Si possono inseguire le centrali straniere delle fake news, i punti che irradiano sulla rete la falsificazione e la mistificazione, la sfera di influenza di Putin che sostituisce quella antica sovietica. Denunciato ogni tentativo di manipolazione, chi fa politica, cultura, giornalismo ha poi però l’obbligo di seguire i fili, cercare di risalire alle radici dell’odio, comprendere perché intolleranza e violenza hanno ripreso diritto di cittadinanza in un paese democratico, perché l’inciviltà sembra prevalere sulla civiltà e contagiare tutto. Non basta condannare, indignarsi, organizzare manifestazioni e raduni antifascisti. Quando si sarà spenta quella che si annuncia come una delle più brutte e inutili campagne elettorali della storia repubblicana, destinata a non produrre alcun risultato, bisognerà riandare alle radici dello scontro di inciviltà. Per comprendere e raccontare cosa si muove nelle periferie e nelle frontiere del nostro Paese. Diradare i fumogeni.
Odio ad personam, scrive Francesco Maria Del Vigo, Giovedì 2/11/2017, su "Il Giornale". Caccia all'uomo. Il nemico che i grillini vogliono abbattere è prima di tutti uno: Silvio Berlusconi. L'antiberlusconismo ossessivo non è una meteora, nel firmamento dei Cinque Stelle. L'odio per il leader di Forza Italia è una delle prime ragioni sociali del Movimento. E ora, alla vigilia delle elezioni siciliane e all'antivigilia di quelle politiche, con un Cavaliere sempre più forte, tirano fuori le loro vecchie cartucce. Ma la polvere da sparo ormai è bagnata. Tutto è iniziato a metà degli anni Novanta, Berlusconi non aveva fatto in tempo a mettere un piede nell'arena politica che Grillo lo aveva già messo nel mirino. Prima lo faceva dai palchi dei propri show portando a casa una lauta ricompensa. Poi ha deciso di passare all'incasso elettorale. Lo ha dipinto come un imprenditore sull'orlo del crac finanziario (ma l'unica cosa che è fallita è stata la sua previsione), un capitalista senza scrupoli e un mafioso. Ma era solo l'inizio di una campagna contra personam che sarebbe proseguita per anni, passando dalle minacce agli insulti fisici, dagli auguri di sventure ai nomignoli dispregiativi. Un odio viscerale che dal copione del comico sarebbe poi entrato anche nei programmi del politico. Gli attacchi si fanno sempre più personali, morbosi e violenti. Grillo è sempre in prima linea contro il leader di Forza Italia: nel 2002 porta in giro uno spettacolo di 150 minuti monopolizzato dalla figura del Cavaliere, nel 2003 aderisce a un'azione di boicottaggio contro i prodotti che fanno pubblicità sulle reti Mediaset. Lo scopo? «Difendere la libertà di informazione». Danneggiando un'azienda che offre occupazione a migliaia di persone. Ma era l'Italia dell'antiberlusconismo con la bava alla bocca, del nemico da abbattere a tutti i costi. Quando può, Grillo si accoda a tutte le manifestazioni anti Cav da piazza Navona al Popolo viola, e se ha bisogno di una platea maggiore va in tv, dal suo amico Santoro. Il giorno in cui il Cavaliere viene condannato in via definitiva il leader dei Cinque Stelle brinda «a un evento storico come la caduta del muro di Berlino». Si sa, lui ama sconfiggere i nemici per via giudiziaria più che elettorale. È un'ossessione ai limiti dello stalking. Grillo odia Berlusconi e tutto quello che fa riferimento a lui. A partire da Fininvest: nel 2004 scrive su Internazionale che il colosso di Cologno Monzese ha accelerato il declino del Paese. Non si sa su quali basi. Ma non c'è da stupirsi: Grillo è anche quello che diceva che l'Aids non esiste e che i vaccini sono inutili. Nel 2012 viene condannato per diffamazione a risarcire 50mila euro al Biscione. Ma la persecuzione verso il patrimonio della famiglia Berlusconi (e non solo, nel sedicente francescanesimo grillino i ricchi sono tutti dei pericolosi nemici) arriva anche nella prima bozza del programma dei pentastellati sull'informazione, nel quale è scritto nero su bianco che con un loro ipotetico governo non potrà esistere nessun canale televisivo nazionale posseduto a maggioranza da alcun soggetto privato con più del 10 per cento. Vi viene in mente qualcuno in particolare? Ecco, appunto. Praticamente un esproprio di Stato. Una misura sartoriale fatta per spegnere Mediaset. E poi - insulto dopo minaccia - arriviamo fino agli ultimi mesi, con il tentativo di far fuori Berlusconi dalla vita politica con un emendamento ad hoc da infilare nel Rosatellum. Per chiudere con la ridicola indagine, aperta a Firenze, sulle stragi di mafia, che ricalca uno dei refrain grillini e porta in calce la firma di Nino Di Matteo, amico e grande ispiratore del Movimento 5 Stelle. E siamo solo all'inizio di una lunga campagna elettorale.
Beppe Grillo e il fascismo sessantottino, scrive di Fabio Cammalleri su "Lavocedinewyork.com" il 28 Febbraio 2014. Qualsiasi espressione di dispotismo evoca Mussolini, ma nel caso del Movimento Cinque Stelle bisogna guardare agli anni ’70. Il popolo grillino sa più di assemblearismo scolastico e di fabbrica. Ma la memoria a breve termine è troppo scomoda. È comprensibile che generalmente si tenti di spiegare il Movimento 5 Stelle senza il Movimento 5 Stelle. Perché l’Italia è un Paese antico e perciò i paralleli, le analogie, le suggestioni rampollano dal suo vastissimo passato con naturale facilità. E, nonostante non manchi mai il dubbio “sull’utilità e il danno della storia per la vita”, resta questa facilità di evocazione e di confronto. Meno comprensibile che l’indagine nel tempo susciti risonanze obbligate. Se Grillo si muove in modo dispotico e plebiscitario, a chi si pensa? Al fascismo, naturalmente, sia pure al fascismo in statu nascendi. È una suggestione. Ma se anche non fosse, è l’unico paragone possibile? Forse no. Forse se ne può svolgere un altro più stringente, più comprensibile. Per farlo, però, bisogna uscire da quelle risonanze obbligate. Proviamo. Secondo lo storico Arthur Schlesinger Jr., che fu anche consigliere di John Kennedy, per comprendere i caratteri e le aspirazioni di una realtà politica, sia essa una singola personalità o un gruppo, bisogna considerare gli anni della sua giovinezza, quelli in cui coloro che gli diedero anima e sangue si affacciarono al mondo: gli anni dell’università o del primo lavoro. Espose questa teoria in un saggio, significativamente intitolato: I cicli della storia americana. I giovani di Roosevelt sarebbero stati la società adulta di JFK, la Nuova Frontiera, figlia del New Deal; e il ritenuto conservatorismo degli anni di Reagan, sarebbe derivato da quello degli anni di Ike, della Guerra Fredda entrata a regime. E così via. S’intende che è uno schema molto generale, ed anche generico, ma rende l’idea. Seguendo questa traccia, per capire Grillo non ci serve Mussolini, ci serve l’Italia repubblicana, ci servono gli anni ’70. Si potrebbe obiettare che molti dei “cittadini” non hanno vissuto quel periodo, e non ne potrebbero avere ereditato i caratteri. Se è per questo, non hanno vissuto neanche il fascismo, come nessuno di noi. E poi, essendo il Movimento smaccatamente personalistico, è sulla persona del Capo che occorre soffermarsi, proprio e mentre più protesta la sua fungibilità, la sua non indispensabilità. Perciò, il criterio gioventù-maturità, stretto all’arco della “generazione”, appare quanto mai appropriato. Giacché costringe a soffermarsi sulle persone in carne ed ossa, senza cedere alle comode vie di fuga di un’astrazione che, di fronte ad un quadro, guarda solo alla figura e mai all’autore. Così, il popolo casaleggesco del web, sa più di assemblearismo scolastico e di fabbrica in sedicesimo che di “adunate oceaniche”; più di una compulsione petulante e narcisistica, solo preoccupata di sé e col solo problema di lasciare il segno della parola più forte, della frase più figa, che di uno stazionamento attonito e ammutolito sotto un balcone oracolante; emana un monadismo delle coscienze chiuso nella mera contiguità, sazia e galleggiante, di abitudini inerti e modaiole, più che la tragica comunione di un’autentica povertà che, sperando di superarsi, si inabissa. E non è un caso che il paradigma-Mussolini sia così ampiamente sponsorizzato. Ora che Occupy-Parlamento mima indimenticate occupazioni universitarie e di fabbrica; ora che le espulsioni on line tradiscono il lezzo settario dei “venduti” e “servi del sistema”; ora che la violenza verbale tende sempre più frequentemente a concretarsi, come accadde con l’affabulazione esaltata della “controinformazione”, fattasi poi “lotta continua”, quindi “salto di qualità nella lotta”, e infine “lotta armata” e tutto il resto; ora che i “Poteri Forti” sembrano assolvere alla stessa funzione già attribuita al “terrorismo di stato” e all’ “imperialismo capitalistico”, l’infame funzione di cui ogni deliquio massificato, facinoroso e irresponsabile ha sempre bisogno, la funzione di autogiustificarsi; ora che siamo a questo, che c’entra Mussolini? C’entra, secondo quelle risonanze obbligate. Infatti, per parlare di un secolo fa, per la memoria a lungo termine, c’è sempre spazio. Ma il rispecchiamento imbarazzante, quello che si potrebbe subire appena passando da una stanza all’altra, estraendo il cassetto del comodino e avendo il coraggio di sfogliare il diario del liceo, no; la memoria a breve termine, mai. Meglio la luna. Perché lì, così vicino, c’è tutta la violenza, tutta la viltà, tutta la rozzezza, tutta la miseria, tutto il trasformismo che si attribuiscono all’Orco fascista. Solo che l’Orco fascista, dopo il liturgico richiamo di giornata, sfuma inevitabilmente in una rarefazione fiabesca, in una comoda inattualità. Mentre quel sordo rancore, quella truce disposizione d’animo, possono riprendere a gonfiarsi, ad agire, ad offendere dicendosi offesi, a colpire dicendosi colpiti. E ad inseguire palingenesi e carriere.
Il processo diventa comizio: Di Matteo contro Berlusconi, scrive Errico Novi il 12 gennaio 2018 su "Il Dubbio". Riecco il film sulla trattativa, in cui Oscar Luigi Scalfaro diventa la vera anima nera. Una grande invettiva. Più che una requisitoria, quello del pm Nino Di Matteo pare un bombardamento al veleno, che non risparmia nessuno. Mette su un unico, virtuale banco degli imputati figure incompatibili: Oscar Luigi Scalfaro e Silvio Berlusconi, Nicola Mancino e Marcello Dell’Utri, Luciano Violante e Giuseppe De Donno. Alcuni, come Dell’Utri, sono effettivamente imputati al processo che il magistrato ieri ha continuato a ricapitolare, l’imponente “Stato– mafia”. Altri hanno avuto il torto, pur senza commettere atti perseguibili, di aver parlato tardi. “Personaggi come Martelli e Scalfari hanno ritrovato la parola solo dopo aver sentito le dichiarazioni di Massimo Ciancimino”. Ma è il meno. Alla fine, nella sua coazione a ripetere la storia della trattativa, Di Matteo è costretto a difendere l’attendibilità di Ciancimino e Riina. Inevitabile in termini di tecnica processuale, rivendicare la “purezza” delle loro dichiarazioni. Intercettate nel cortile del carcere di Opera, nel caso del capo dei capi; rilasciate alla Procura di cui Di Matteo ha fatto parte, quella di Palermo, nel caso del “superteste” del processo.
SCALFARO E VIOLANTE. Non è una giornata qualsiasi. Questa nuova puntata del lungo racconto offerto, nell’aula bunker dell’Ucciardone, dalla Procura alla Corte d’assise di Palermo presieduta da Alfredo Montalto sarà a lungo ricordata come un’avvelenata degna di un comizio. A colpire sono soprattutto le parole che il magistrato, oggi in servizio presso la Dna, riserva a due figure del calibro di Scalfaro e Violante. A ben guardare, l’uomo asceso al Colle dopo la strage di Capaci diventa un burattinaio della trattativa. Curioso che non si fosse pensato a incriminarlo, quando era in vita, alla luce delle parole rimbombate ieri in Aula: “Scalfaro con il suo attivismo e le sue decisioni non si è limitato al ruolo di arbitro”. Primo colpo. Il secondo: “È stato il principale attore delle decisioni che in questo processo abbiamo dimostrato: la nomina di Mancino al posto di Scotti, quella del nuovo direttore del Dap e di Conso al ministero della Giustizia al posto di Claudio Martelli. Il ruolo di Scal- faro nell’avvicendamento tra Scotti e Mancino ha fatto emergere le evidenti reticenze e falsità delle sue stesse dichiarazioni, rese a questa Procura nel 2010”. Reticenze? “Scalfaro addirittura dichiarò di non sapere nulla dell’avvicendamento al Dap tra Amato e Capriotti”. Falsità? “Ci disse anche che non aveva mai saputo nulla della connessione tra il 41 bis e gli episodi stragisti”. Eppure, incalza il pm Di Matteo, “un altro ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, il 28 ottobre 2014, ci disse che ‘ dopo gli attentati del 1993, nei discorsi tra le più alte cariche dello Stato era chiaro che quelle bombe corrispondevano a un ricatto’ dell’ala corleonese di Cosa nostra”. Ma come si può sostenere che il collegamento tra stragi e richiesta di annullamento del 41 bis era dato per certo dalle più alte cariche della Repubblica nel 1993 e far discendere da tale diffusa consapevolezza le manovre di Scalfaro per sostituire Martelli e Scotti risalenti a un anno prima? Non è il solo punto in cui, nella sua veemenza, la requisitoria di Di Matteo pare difettare di logica. In ogni caso Scalfaro è una delle anime nere della storia d’Italia, se le parole pronunciate ieri dal pm hanno un senso: “Ci si doveva spostare verso la linea del dialogo, e per fare questo era necessario spezzare l’asse della fermezza portato avanti dall’azione congiunta di Scotti e Martelli”. Ed ecco quello che per il pm è “l’attivismo” del defunto ex Capo dello Stato. Violante? Dalla ricostruzione ne viene fuori una figura cauta e opportunista: insieme con Martelli e Liliana Ferraro, “aveva sempre taciuto”, nonostante fosse stato sentito più volte sui periodi delle stragi, sia “nei processi a Caltanissetta” che “in commissione Antimafia”. Ebbene, l’ex terza carica dello Stato “ha voluto essere sentito dopo avere letto un articolo sul Corriere della Sera in cui Massimo Ciancimino aveva detto che il padre Vito gli aveva chiesto di parlare con Violante”. Corse in Procura solo per timore che si dicesse male di lui, non per altro. E un’altra figura di grande rilievo della sinistra italiana degli ultimi trent’anni è sistemata.
IL BUON MARTELLI. Ma pure Martelli, il buon Martelli, ha aspettato che Ciancimino vuotasse il sacco: fino ad allora aveva, come Violante, assunto “un atteggiamento prudente, volto a cercare di salvaguardare gli imputati. Mentre al di fuori del processo, in tv”, entrambi avevano criticato “l’impianto accusatorio”, poi “consolidato” dalle “loro dichiarazioni” ai magistrati. Violante e Martelli sono due voci importanti quasi quanto Massimo Ciancimino, nella lunga (molto lunga) marcia palermitana verso la verità. Il primo rende una testimonianza “eccezionale” quando afferma: “Mario Mori, dopo che mi insediai come presidente dell’Antimafia, mi chiese la disponibilità a dei colloqui riservati con Vito Ciancimino. Mi disse di non avere informato l’autorità giudiziaria su questi incontri perché la finalità era di tipo politico”. Martelli racconta della visita di De Donno alla direttora del dipartimento Affari penali di via Arenula, Ferraro: il capitano andò al ministero a chiedere “un sostegno politico alla loro iniziativa di incontrare Vito Ciancimino”.
IL CLOU, AL SOLITO, CON BERLUSCONI. Montalto ascolta. I pm che sostengono l’accusa con Di Matteo, pure: Vittorio Teresi, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. Lui, il magistrato finito alla superprocura Antimafia, va avanti con la grazia di un rullo compressore: spiega che la “Trattativa” era iniziata con Riina, ispiratore se pure non autore materiale del papello, e poi andata avanti con Provenzano. Che nell’ormai famosa intercettazione a Opera del 2013, Riina spiega al compagno di socialità Alberto Lorusso come Binnu fosse uno “spione” che, dice Di Matteo, aveva “venduto” Totò. E che ancora, il capo dei capi definì Dell’Utri “una persona seria”. Fino alla tradizionale colata di letame su Berlusconi, un po’ scombinata a dire il vero. Perché, sì, Di Matteo ricorda che secondo Riina “i Graviano avevano Berlusconi”, e che lui, il superboss, non aveva certo bisogno di Giovanni Brusca per mettersi in contatto col Cav. Ma poi dice anche che Berlusconi lo avrebbe cercato “in qualche nodo” finché lui, Riina, non gli fece saltare i ripetitori circa 6 volte. Come a dire: il fondatore dell’impero Fininvest era preoccupato dei ricatti mafiosi. Non una scoperta sconvolgente. Ma non è il solo aspetto, nella confusa raffica sparata ieri, ad avere poco a che spartire con una precisa definizione delle accuse.
«Pardon monsieur Berlusconi». O come diremmo in italiano, Scusateci tanto. Firmato Le Monde, scrive il 10 gennaio 2018 "Il Dubbio". Désolés. O come diremmo in italiano, Scusateci tanto. Firmato Le Monde. Non è vero, prosegue la rettifica pubblicata dall’autorevole testata tanto sul cartaceo quanto sul sito, che monsieur Silvio Berlusconi era sceso «a patti con la Piovra», come segnalato dal quotidiano il 4 agosto 2015, e neppure che «trattava con Cosa nostra», come ribadito il 10 luglio scorso. Chiacchiere. La realtà, buttata lì nero su bianco ieri, è che «le sentenze definitive reputano che non esista prova alcuna che Fininvest e M. Berlusconi abbiano potuto beneficiare di capitali di origine mafiosa». E’ probabile che le plateali scuse servano a evitare un causa che avrebbe colpito il quotidiano nella borsa oltre che nell’onore, ma il risultato non cambia. M. Berlusconi segna un punto importante nella sfida che ha ingaggiato ormai da qualche anno per ricostruire da capo a piedi la propria immagine nei salotti europei, oltre che italiani, che contano. Si tratta in realtà di una doppietta messa a segno nel giro di tre giorni. Tanti ne sono passati da quando Bill Emmott si è rimangiato in un’intervista al Corriere della Sera il parere tassativamente negativo esposto 17 anni fa sull’Economist, il giornale che allora dirigeva. La celebre copertina del settimanale inglese accompagnava la foto del Cavaliere con un titolo definitivo: «Perché è inadeguato a guidare l’Italia». Oggi Emmott dichiara che invece l’inadeguato potrebbe essere «il salvatore della Patria». L’ex direttore, per la verità, assicura che il suo giudizio sull’uomo di Arcore non è cambiato. Le circostanze invece sì e oggi proprio Berlusconi «potrebbe essere determinante per formare una coalizione centrista». Persino il Financial Times, che tra tutte le testate estere è stata per decenni la più severa con il leader di Forza Italia, ha lievemente abbassato i toni rispetto a quando, dopo la condanna del 2013, titolò impietoso: ‘ Cala il sipario sul buffone di Roma’. La sterzata dei media internazionali fa eco a quella dell’establishment europeo. La strategia di Berlusconi, che punta a imporsi come leader moderato e antipopulista, sin dalle elezioni del 2013, è stata di fatto premiata. Se la Corte di Strasburgo, ancora molto sensibile agli umori di Angela Merkel, dovesse dichiarare illegittima la sua cacciata dal Parlamento per il condannato del 2013 sarebbe un vero e proprio en plein. In realtà è probabile che la stessa Angela Merkel potrebbe oggi far proprie le parole di Bill Emmott. A essere cambiata è la situazione complessiva più il suo giudizio sull’uomo che nel 2011 lei e l’allora presidente francese Sarkozy quasi seppellirono con quella fatale e umiliante risatina in conferenza stampa. Nel nuovo quadro Silvio Berlusconi non è più la minaccia ma la diga. Aver saputo cogliere al volo l’occasione, intravedendola in anticipo, è l’arte dell’uomo, che quando si tratta di vendere qualcosa, immagine inclusa, resta insuperabile. Il punto debole del supporto internazionale di cui gode oggi il leader che proprio sullo scenario europeo registrava ai tempi d’oro il punto più debole, un po’ paradossalmente, è proprio un successo dell’operazione che potrebbe andare oltre le previsioni. Come Emmott afferma chiaramente l’establishment europeo preferisce di gran lunga un Berlusconi alleato di Renzi, forte sufficiente per tenere il ragazzo di Rignano a bada ma non per fare a meno di lui, che non un Berlusconi in grado di vincere le elezioni con una coalizione che conta al proprio interno una delle forze contro le quali Arcore dovrebbe fare da diga, come la Lega di Salvini. Per questo, di qui alla chiusura delle urne la sera del 4 marzo, Berlusconi dovrà riuscire a di- mostrare, nel fuoco della campagna elettorale, di essere capace di fare da perno a uno schieramento sociale oltre che politico moderato anche qualora la sua destra vincesse le elezioni. I salotti buoni lo hanno già individuato come uomo giusto per governare con Renzi frenando gli ardori del fiorentino. Ma ora che una vittoria della destra sembra tutt’altro che impossibile deve dimostrarsi capace di esercitare lo stesso ruolo anche nei confronti dell’ ‘ altro Matteo’, quello lombardo.
Renzi a Giannini: "Dritte a De Benedetti? Chieda al suo editore". Berlusconi: “Preso con mani nella marmellata”. L'Ingegnere, in una telefonata intercettata, ha detto al suo broker di acquistare titoli delle banche a cui il governo ha poi imposto la trasformazione in spa. L'ex premier gli aveva detto che il provvedimento sarebbe passato. Il leader di Forza Italia: "Fosse successo a me, sarei già in croce. De Benedetti preso con le mani nella marmellata, il conflitto d'interessi attribuito a me fa sorridere al confronto". Di Maio: "Scandalo". Capezzone: "Se non è insider trading questo...". De Petris: "Senso dello Stato sostituito dai rapporti amicali". Il portavoce dell'Ingegnere: "Nessun abuso, l'approvazione era nota", scrive "Il Fatto Quotidiano" il 10 gennaio 2018. Matteo Renzi dice di chiedere a Carlo De Benedetti, mentre per Silvio Berlusconi l’ingegnere con il quale è in guerra dai tempi di Mondadori “è stato preso con le mani nella marmellata”. La telefonata del 16 gennaio 2015 – pubblicata mercoledì da Fatto Quotidiano, Corriere, La Stampa, Messaggero e Sole24Ore – nella quale De Benedetti parla della riforma delle banche popolari con il suo broker Gianluca Bolengo, che si occupa degli investimenti del presidente onorario del gruppo Gedi scatena reazioni politiche contrapposte. Tra il Pd che tace e le opposizioni che vanno all’attacco, spiccano le risposte dell’ex premier, citato dall’ingegnere nella telefonata finita agli atti della commissione Banche, e quella del leader di Forza Italia, storico nemico dell’ex editore di Repubblica. “Io penso che se fosse capitato a me sarei già in croce, vediamo come andrà a dipanarsi ma quel conflitto di interessi attribuito a me e alle mie aziende fa sorridere mentre vedo che il signor De Benedetti, i cui giornali hanno fatto campagna contro di me, oggi è stato preso con le mani nella marmellata”, ha detto Berlusconi a Radio 105. “Lo chieda a De Benedetti visto che è il suo editore… C’era un’agenzia sul fatto che avremmo fatto quella riforma”, aveva detto invece Renzi, a Circo Massimo su Radio Capital, al giornalista Massimo Giannini che gli chiedeva conto della telefonata nella quale De Benedetti dice al broker di acquistare titoli di quegli istituti perché “il decreto (che avrebbe imposto alle popolari con oltre 8 miliardi di patrimonio di trasformarsi in spa, ndr) passa, me l’ha detto Renzi”. Le opposizioni attaccano, sostenendo che si è trattato di insider trading. In serata un portavoce dell’Ingegnere risponde che “non vi è stato alcun abuso di informazione privilegiata” perché “l’approvazione della norma era ampiamente nota, al punto che Ubs aveva tenuto una conferenza stampa sul tema due settimane prima, presso la Borsa di Milano, consigliando di acquistare azioni delle banche Popolari”. I pm di Roma, nell’ambito dell’indagine avviata tre anni fa su segnalazione di Consob, hanno chiesto l’archiviazione per quel reato in quanto sia Renzi sia il vicedirettore di Bankitalia Fabio Panetta, quando sono stati sentiti, hanno sostenuto che si è trattato di conversazioni in termini generici e senza “nulla di specifico su tempi e strumento giuridico”. Ora il gip Gaspare Sturzo dovrà decidere se accogliere la richiesta della Procura e la vicenda sarà affrontata nella relazione finale della commissione parlamentare di inchiesta sulle banche. La trascrizione della telefonata intercettata, risalente a quattro giorni prima del via libera al decreto, è stata acquisita proprio dalla commissione dopo le dichiarazioni dell’ex presidente Consob Giuseppe Vegas. Il candidato premier M5s Luigi Di Maio ha commentato la vicenda parlando di “scandalo” e dicendo che “se questo è il modello del Pd, di coloro che dovevano esser la sinistra, io quel modello lo combatterò con tutte le mie forze. Non vanno votati, quei signori al massimo possiamo mandarli all’opposizione ma io sarei per mandarli a casa”. “Mentre i risparmiatori sono stati mandati sul lastrico e non sono mai stati risarciti”, ha aggiunto la capogruppo in Senato Vilma Moronese, “i potenti amici di Renzi invece ne hanno tratto solo vantaggi patrimoniali. L’uso e, soprattutto, l’abuso delle istituzioni da parte di questa gente è ormai intollerabile”. Daniele Capezzone, deputato Noi con l’Italia, commenta: “Se non è insider trading questo, ditemi cos’è l’insider trading… In tutte le sedi – pubbliche, private, orali, scritte – ho chiesto che la Commissione Banche audisse anche i vertici di Assopopolari e si occupasse a fondo della storiaccia del decreto renziano sulle popolari. La risposta è stata negativa. Quel decreto, non dimentichiamolo, è stato un intervento dirigista e illiberale: tale da favorire non la concorrenza ma un oligopolio bancario”. La capogruppo di Sinistra italiana al Senato Loredana De Petris, esponente della lista Liberi e Uguali, ha affermato che “la ‘soffiata’ è una delle cose più gravi che si siano mai verificate. Per anni a palazzo Chigi il senso dello Stato e delle istituzioni è stato sostituito dai rapporti amicali e dalla logica dei favori reciproci: forse mai in precedenza una presidenza del consiglio era arrivata così in basso. L’autodifesa di Renzi, secondo cui ‘tutti’ erano al corrente dell’imminente decreto è semplicemente ridicola. L’intercettazione agli atti della commissione banche dimostra infatti al di là di ogni dubbio che quell’informazione fu passata a De Benedetti direttamente da Renzi ed è assurdo che la procura di Roma abbia evitato di procedere di fronte a un caso così lampante di insider trading”.
Carlo De Benedetti, la soffiata di Dagospia: "Vuol comprarsi un altro giornale", scrive il 15 Gennaio 2018 "Libero Quotidiano". Perso un giornale, Carlo De Benedetti se ne fa un altro. Uscito ormai di scena dalla proprietà del gruppo Repubblica-Espresso, nelle mani anche di suo figlio Marco, l'Ingegnere si è ritrovato al centro del tritacarne mediatico dopo la diffusione dell'intercettazione tra lui e il suo broker finanziario, al quale consigliava di comprare titoli degli istituti di credito che pochi giorni dopo sarebbero stati salvati dal decreto salva-banche del governo Renzi. A dare quell'informazione all'Ingegnere era stato naturalmente l'attuale segretario del Pd, all'epoca presidente del Consiglio, nei guai però ci è finito solo il broker. Lo scandalo però è scoppiato lo stesso e ha travolto l'ex editore di Repubblica, tanto che il suo stesso giornale anziché difenderlo gli ha di fatto voltato le spalle. E mentre il suo acerrimo nemico Silvio Berlusconi sembra tornato alla carica di un tempo, l'Ingegnere si ritrova con le armi spuntate. Ecco che torna il bisogno viscerale di rifarsi. Secondo Dagospia, De Benedetti: "progetta di farsi un giornale tutto suo. E sta pensando di acquisirne uno, magari - aggiunge il sito di Roberto D'Agostino - Il Sole 24 ore, attraverso un'Opa". Non sarà missione semplice in realtà, di certo non impossibile per l'Ingegnere. Resta solo da convincere Confindustria, azionista di maggioranza del quotidiano, a farsi un po' da parte.
Carlo De Benedetti, dopo Renzi, banche e bufala su Berlusconi la notizia più brutta: rischia la galera, scrive il 15 Gennaio 2018 "Libero Quotidiano". I guai di Carlo De Benedetti sono solo iniziati. La settimana caldissima dell'Ingegnere (prima la pubblicazione dei verbali alla Consob sulle frequentazioni con Matteo Renzi e Maria Elena Boschi, poi la bufala sulla "sua" Stampa dell'inchiesta per riciclaggio su Berlusconi e Milan) è solo l'antipasto di quello che accadrà il prossimo 7 febbraio, a Torino. Quel giorno è in programma il giudizio d'Appello del processo sui morti d'amianto alla Olivetti di Ivrea, che ha visto l'Ingegnere già condannato in primo rado a cinque anni di carcere per omicidio colposo plurimo. Proprio per questo, come suggerito anche da Alessandro Sallusti sul Giornale di domenica, l'editore di Repubblica (scaricato maldestramente dal suo direttore Mario Calabresi e dai suoi giornalisti) starebbe malcelando un nervosismo crescente. Proprio la nota di Repubblica, sottolinea ancora il Giornale, pare il preludio allo "scaricamento" vero e proprio, quasi un presagio sul destino dell'editore di riferimento della sinistra italiana. L'accusa, d'altronde, è la più grave di tutte: De Benedetti nulla avrebbe fatto per bonificare dalle polveri di amianto gli impianti in cui morivano gli operai della Olivetti. Per l'Ingegnere è anche svanita una possibile via di fuga, la prescrizione. Troppi, i morti in ballo (7 ufficiali, 85 i sospetti), per far cadere l'oblio su questo processo. Anche se alla sbarra c'è un padrone delle ferriere.
Repubblica contro l'Ingegnere: "Non c'entriamo coi suoi affari".
Il giornale prende le distanze dal suo patròn storico e si dissocia: i suoi rapporti privati non ci hanno mai influenzati, scrive Paolo Bracalini, Domenica 14/01/2018, su "Il Giornale". L'editoriale più duro su Carlo De Benedetti e le sue manovre per speculare in Borsa grazie alle dritte del governo Renzi suo abituale ospite di casa, alla fine arriva proprio su Repubblica, il quotidiano del gruppo di cui CDB è presidente onorario. Una nuova presa di distanza del quotidiano di famiglia De Benedetti dal suo capostipite che fa capire lo stato dei rapporti tra il top management del gruppo Gedi (fusione dell'ex Espresso con l'editrice della Stampa), cioè i figli di De Benedetti, e l'Ingegnere. Le telefonate con il suo broker dopo la soffiata di Renzi sull'imminente decreto sulle popolari, e poi l'imbarazzante verbale dell'audizione alla Consob sulle frequentazioni con l'ex premier Renzi e i suoi ministri, un esecutivo che Repubblica ha molto sostenuto nei mesi in cui Carlo De Benedetti era ancora al timone del gruppo, rappresenta un danno all'immagine per il quotidiano (fustigatore ventennale di Berlusconi, le dieci domande, la campagna su Ruby etc) che quindi è costretto a dissociarsi dal suo storico patron per chiarire che la linea di Repubblica sul Pd e su Renzi non è stata influenzata dai rapporti di grande familiarità tra l'editore e Matteo Renzi (e la Boschi, e Delrio). Un sospetto che non era stato neppure avanzato, ma che la direzione del quotidiano del gruppo De Benedetti tiene a smentire preventivamente: «In merito alle vicende giudiziarie e di regolazione dei mercati, che faranno il loro libero corso e che riguardano investimenti personali e rapporti privati dell'Ingegnere con esponenti politici e istituzionali, ci teniamo a sottolineare che nessun interesse improprio ha mai guidato le scelte giornalistiche di Repubblica e nessun conflitto di interessi ne ha mai influenzato le valutazioni - si legge nel fondo, non firmato quindi attribuibile al direttore Mario Calabresi - Le posizioni che il giornale ha preso in questi anni sono il frutto della libera scelta della direzione e dei giornalisti». Poco dopo, ancora più severo: «I rapporti, i giudizi e le iniziative di Carlo De Benedetti sono fatti personali dell'Ingegnere. Questo giornale ha sempre avuto a cuore la propria indipendenza e goduto di una totale libertà di scelta». Peggio di così Carlo De Benedetti non poteva essere trattato dal suo giornale, in prima pagina. Ma si era già capito che Repubblica ormai disconosce il suo ex editore (CDB ha lasciato l'azienda ai figli nel giugno scorso), e che la cosa è reciproca. Ha fatto saltare sulla sedia tutto il cda del gruppo l'intervista che De Benedetti ha rilasciato al Corriere - competitor diretto - in cui demolisce la linea del quotidiano e la sua doppia direzione («Un giornale non è solo latte e miele; è carne, è sangue. Può avere curve; ma deve avere anche spigoli»). Al punto che pochi giorni dopo, su pressione della redazione, su Repubblica è uscita una nota durissima verso Carlo De Benedetti, firmata dal presidente della società, il figlio Marco De Benedetti: «L'intervista rilasciata da mio padre ha generato disorientamento, con riferimento alla posizione della società nei confronti di Repubblica. Le opinioni espresse nell'intervista non rappresentano né il pensiero degli azionisti, né quello della società». Tantomeno lo rappresentano, diceva ieri Repubblica, le scorribande azionarie di CDB e il suo discutibile ruolo di «advisor» del governo Renzi.
Vittorio Feltri il 14 Gennaio 2018 su "Libero Quotidiano", a Repubblica fingono di non sapere chi è il loro padrone. Ieri mattina la lettura dei giornali è stata particolarmente amena. L' articolo più spassoso lo abbiamo letto su la Repubblica, un editoriale irresistibile, presumibilmente scritto dal direttore, Mario Calabresi, nel quale si dice con forza che l'editore, Carlo De Benedetti, non conta un cacchio in redazione, è un estraneo. In altri termini più espliciti, il padrone non sarebbe padrone in casa sua. Pertanto le sue vicende personali e finanziarie non sarebbero tenute in considerazione dai cronisti. Calabresi, detto l'orfano, un ragazzo talmente simpatico da aver digerito gli assassini di suo padre come una foglia di lattuga scondita, ci vuol far credere che De Benedetti quando frequenta la Repubblica, e parla al personale, nessuno lo ascolta, viene preso sotto gamba come se fosse un qualunque Pinco Pallino. Mario, fammi il piacere: vai in mona. Non c' è anima che ti possa credere. È vero che i giornalisti italiani sono i più liberi del mondo di attaccare l'asino dove vuole il proprietario dell'azienda. Ed è altrettanto vero che tu sia indipendente, ma solo da te stesso. Per capirlo basta aver letto la Repubblica dal 1976 in poi. Ogni direttore ha tenuto, legittimamente, una linea rigorosamente di sinistra. Ci sarà un perché, caro Calabresi. Quando sei stato assunto da De Benedetti, con lui avrai fatto due chiacchiere. Non dirmi che avete sorvolato sulla politica e sui fatti privati del tuo potenziale datore di lavoro. Io ho guidato sette o otto pubblicazioni più o meno di spessore, pertanto conosco la delicata materia. Editore e direttore si mettono d'accordo. A intesa raggiunta, non sui dettagli, si firma il contratto e a questo ci si attiene. Il fondo di Mario uscito ieri è una coltre di ipocrisia infantile, non contiene un solo aggettivo o un solo sostantivo digeribile. La Repubblica si è dilettata anni e anni ad attaccare violentemente Berlusconi però non ha sprecato una virgola per criticare De Benedetti, che in politica ha avuto ed ha un'importanza enorme. Ovvio. Carlo è il padrone della baracca. Se lo sfrucugli oltre che un uomo libero sei un cretino, dato che lui, se gli rompi le scatole, ti licenzia e tu vai a casa con la coda tra le gambe. E allora, illustre direttore dei miei stivali, risparmiaci le tue lezioncine e ammetti che sei soltanto un impiegato, di lusso, ma pur sempre un impiegato che esegue ordini così come fan tutti i miei colleghi, me compreso. Lo stesso discorso va fatto per Maurizio Molinari, numero uno della Stampa di Torino, eccellente professionista, e lo affermo con cognizione di causa, essendo egli stato mio giornalista all' Indipendente, il quale ieri ha dedicato tre pagine per demolire Berlusconi, accusandolo di brogli nella vendita del Milan ai cinesi (cosa smentita per ora dalla Procura). Molinari in realtà è stato abbastanza onesto: ha pubblicato un pezzo, sul proprio quotidiano, riguardante la vicenda di De Benedetti (suo editore) e delle banche popolari. Gliene diamo atto. Ma sul Cavaliere è andato giù assai più pesantemente, interferendo con veemenza nella campagna elettorale in corso. Chissà per quale ragione ogni qualvolta ci si avvicina ad elezioni, la stampa cosiddetta iperdemocratica, illuminata e progressista si scatena per sputtanare Silvio (che per altro, spesso, si sputtana da sé) con l'evidente intento di fargli perdere consenso. Da un ventennio e passa ormai assistiamo a questo desolante spettacolo, il tiro al bersaglio di Arcore. Fatichiamo a comprendere la ratio di ciò. Silvio è in politica dal 1993, un quarto di secolo, e ha dovuto combattere di più contro i media e la magistratura che non per conquistare suffragi. Ha governato in varie riprese per nove anni, gli altri 16 anni sono stati dominati dalla sinistra, ma addossano al Cav la responsabilità di ogni nefandezza compiuta da qualsiasi esecutivo, da quelli prodiani a quello montiano a quello lettiano, poi renziano e gentiloniano. Vi sembra serio un simile modo di agire, amici della mia categoria? Non dico che dovreste vergognarvi, perché so che la pagnotta conta maggiormente della dignità, ma consentitemi di invitarvi a mantenere almeno un po' di contegno. Berlusconi ha tanti difetti, però sempre meno di noi e comunque nella vita egli non si è distinto solamente per l'attaccamento alle mignotte. Noi neanche a quelle per mancanza di mezzi. Vittorio Feltri
Milan e l'inchiesta su Berlusconi. Marina De Berlusconi contro De Benedetti: "Falsità, siamo indignati", scrive il 13 Gennaio 2018 "Libero Quotidiano". "Il tempo sembra passare invano per certi metodi di intendere lo scontro politico e per chi di questi metodi da vent'anni è ostinato protagonista. La falsificazione di cui stamane si sono resi responsabili due quotidiani controllati dal gruppo De Benedetti, La Stampa e Il Secolo XIX, lascia indignati ed esterrefatti per la sua gravità". Arriva nel pomeriggio la replica di Marina Berlusconi, presidente Fininvest, alla notizia di una inchiesta della Procura di Milano su Silvio Berlusconi per riciclaggio relativo alla vendita del Milan ai cinesi. La Procura ha smentito, la Stampa ha confermato l'attendibilità delle sue due fonti. Ma Marina ribadisce l'assoluta regolarità dell'operato di Fininvest: "In tutta la lunga e complessa trattativa per la vendita del Milan, la Fininvest si è comportata con la massima trasparenza e correttezza, come conferma la stessa Procura della Repubblica di Milano, avvalendosi della collaborazione di advisor finanziari e legali di livello internazionale", aggiunge. "L'uscita dei due quotidiani, in piena campagna elettorale - aggiunge - l'enorme spazio e i toni riservati ad una notizia che era già stata segnalata come falsa e che falsa è stata confermata dalla Procura della Repubblica, non lasciano dubbi sulle reali intenzioni di questa operazione. Condotta peraltro, sarà un caso? Proprio nei giorni in cui Carlo De Benedetti è sulle prime pagine per presunte vicende di insider trading. La Stampa e il Secolo XIX stamane hanno davvero scritto una pessima pagina di giornalismo! Un giornalismo che - continua -, impegnato nella sacrosanta guerra contro le fake news, non merita di vedere la propria autorevolezza mortificata da chi, in redazione, utilizza notizie false per logiche di parte. L'antiberlusconismo acceca ancora fino a questo punto?".
La procura smentisce l’inchiesta sul Milan. Ghedini: aggressione da giornale “nemico”, scrive il 13 gennaio "Il Dubbio". Greco smonta lo “scoop” della Stampa: “Nessun fascicolo aperto, non ci risultano irregolarità”. La Procura di Milano ha smentito di aver avviato un’inchiesta penale in relazione alla vendita del Milan all’imprenditore cinese Yonghong Li. “Non c’è nessun fascicolo di indagine per sospetto riciclaggio”, ha affermato il pm Francesco Greco che ha parlato ai giornalisti nel suo ufficio in Procura, “nemmeno un fascicolo conoscitivo, a modello 25, nè con ipotesi di reato senza indagati. La notizia che si è diffusa ieri in serata di Silvio Belusconi indagato e assolutamente falsa”. Non solo, Greco riferisce anche che Niccolo Ghedini, “veniva spesso nel mio ufficio durante la trattativa per la vendita del Milan per dirmi che stavano analizzando questa operazione”. “A un certo punto, volevano fare una segnalazione anche loro, potevano anche essere parti offese se i soldi non arrivavano”, ha spiegato il pm, “erano preoccupati, era il periodo in cui tutti i giornali parlavano di questa vicenda”. Per operazioni “non del tutto chiare” come questa, ha aggiunto Greco, “gli intermediari finanziari hanno l’obbligo di identificazione dei soggetti e se non è chiaro segnalano all’Uif (Ufficio Informazione Finanziaria di Bankitalia) e ci chiedono di intervenire col cosiddetto freezing, il blocco dei soldi. In questo caso nessuno ci ha chiesto niente”. E proprio Gedini ha inviato una nota contro La Stampa, la cui proprietà è in mano alla famiglia De Benedetti: “Ancora una volta un giornale con una precisa connotazione politica e imprenditoriale aggredisce il presidente Berlusconi con una notizia totalmente inventata”, spiega il legale del Cavaliere. “Il giornalismo d’inchiesta e uno straordinario valore che va tutelato e incentivato perchè è uno dei cardini, oltre che salvaguardia, di un sistema democratico. Quando pero si utilizzano false notizie non già per informare ma per aggredire e danneggiare una parte politica durante una delicata campagna elettorale, non si tratta più di giornalismo ma di fatti penalmente, civilmente e ancor prima deontologicamente rilevanti”. “E ciò che e ancor più grave”, ha aggiunto, “è rappresentato dal fatto che nella serata di ieri eravamo stati avvisati che la notizia, falsa, sarebbe stata pubblicata sul quotidiano La Stampa. Immediatamente avvertimmo il direttore del quotidiano e uno dei giornalisti della totale infondatezza, inverosimiglianza e falsità dell’assunto. Nonostante ciò la pubblicazione è avvenuta”. Il quotidiano La Stampa in edicola oggi aveva parlato Procura di un’inchiesta sulla vendita del Milan ipotizzando che i conti siano stati gonfiati per motivi di riciclaggio. Il giornale aveva anche sottolineando come la tegola giudiziaria avrebbe potuto ripercuotersi sulla campagna elettorale di Silvio Berlusconi che nell’aprile scorso, dopo 31 anni, aveva ceduto il club rossonero per 740 milioni all’imprenditore cinese Yonghong Li.ong.
Greco smentisce la bufala e "La Stampa" lo censura. Il procuratore ha negato qualsiasi indagine sul Milan Ma il giornale dell'Ingegnere occulta le sue parole, scrive Luca Fazzo, Lunedì 15/01/2018, su "Il Giornale". Qualcuno non la racconta giusta. O la Stampa e il Secolo XIX che ribadiscono di avere avuto da due fonti la notizia dell'inchiesta sulla vendita del Milan ai cinesi aperta dalla Procura di Milano. O la Procura, e direttamente il suo capo Francesco Greco, che sabato ha smentito tutto con lo smalto delle grandi occasioni: rientro in ufficio in pieno week end, giornalisti convocati, dichiarazione dettata parola per parola: «Non c'è nessun fascicolo». Un smentita talmente netta da trasformare la notizia dell'ennesimo impeachment di Berlusconi in una sorta di boomerang ripiombato addosso agli esponenti della sinistra che già si preparavano a utilizzarla in campagna elettorale. Ma come stanno esattamente le cose, in questa vicenda che ha tutti i requisiti per diventare un caso di studio sui rapporti tra giustizia, informazione e politica? Ieri la Stampa non parla più di un'inchiesta formale ma di una «indagine» e di «verifiche» in corso. Che un fascicolo vero e proprio non esista, dunque, appare ritenerlo possibile anche il quotidiano torinese: e d'altronde davanti alla nettezza delle smentite di Greco era difficile sostenere il contrario. Anche se negli ambienti di palazzo di giustizia si dice che la sera di venerdì, prima della pubblicazione del presunto scoop, Greco aveva risposto in modo un po' più possibilista alla richiesta di conferme di un giornalista della Stampa. Per difendere la propria linea, però, ieri il quotidiano torinese riporta solo in parte le dichiarazioni di Greco: che non si è limitato a negare l'esistenza di una inchiesta, ma anche quella di un fascicolo esplorativo, il cosiddetto «modello 45»; e soprattutto ha spiegato come l'intera operazione Milan-Cina sia passata sotto la lente di ingrandimento della Banca d'Italia, attraverso il suo Ufficio informazioni finanziarie (Uif), che ha dato il via libera non avendo riscontrato irregolarità. E non è tutto: nella lunga chiacchierata con i cronisti Greco ha smentito anche l'ipotesi che elementi sull'affare Milan siano emersi dalle rogatorie sull'asta per i diritti tv («Non c'entra un cavolo»); e ha ribadito di essere stato tenuto al corrente da Niccolò Ghedini («lui mi informava step by step») dei vari passi avanti delle trattative. E aveva concluso ribadendo che la Procura non aveva motivo di intervenire: «Noi ci muoviamo se c'è una denuncia». Ma una denuncia, allo stato, non c'è: a meno che non si voglia considerare tale l'esposto del Movimento 5 Stelle, ovvero di un soggetto politico in aperto scontro con Berlusconi: difficile che la Procura di Milano voglia farsi usare in una polemica elettorale. Eppure, qualcosa sul tavolo dei pm c'è. Come scritto ieri dal Giornale, la Procura ha in mano un rapporto della Guardia di finanza, che riporta anche le conclusioni dell'Uif. La Stampa e il Fatto riportano la medesima notizia. E d'altronde la stessa Fininvest conferma di avere consegnato documentazione a Greco sui rapporti con Li Yonghong e la sua cordata. La questione vera è ora capire quale sia il contenuto della informativa delle Fiamme gialle. Un nulla di fatto, un accertamento che conclude per la regolarità dell'operazione, sull'onda dell'analisi della Banca d'Italia: questo risulta al Giornale, ma solo sulla base di fonti di seconda mano. Chi invece spinge sulla tesi del riciclaggio e dell'autoriciclaggio (soldi di Fininvest fatti rientrare con lo schermo dell'operazione) è convinto invece che gli accertamenti Uif abbiano dimostrato l'irregolarità dell'operazione. Ma se così fosse, la Procura avrebbe avuto il dovere, a norma dell'articolo 335 del codice di procedura penale, iscrivere «immediatamente» la notizia di reato nel registro apposito. E questo, ormai è sicuro, non è avvenuto.
Milan, nessuna anomalia nell'affare. E la Procura ribadisce: è tutto ok. Il rapporto della Finanza non è sfociato in un'inchiesta perché gli accertamenti hanno dimostrato che era tutto regolare, scrive Luca Fazzo, Martedì 16/01/2018, su "Il Giornale". Vanno delineandosi con maggiore precisione i contorni del «caso Milan», ovvero la presunta indagine in corso sulla cessione del club rossonero alla cordata cinese guidata da Li Yonghong: indagine annunciata sabato da due quotidiani (Stampa e Secolo XIX) e immediatamente smentita dal capo della Procura milanese, Francesco Greco. Ieri un lancio dell'agenzia Agi conferma quanto scritto nei giorni scorsi dal Giornale e dal Fatto: alla Procura è effettivamente pervenuto un rapporto del Nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza, incentrato sui movimenti finanziari che hanno portato la Rossoneri Sport Investment Co. di mister Li ad acquisire da Fininvest la quasi totalità del pacchetto di controllo del Milan. Le Fiamme gialle riportano le conclusioni cui era pervenuta la Unità informazioni finanziarie della Banca d'Italia, l'organismo di analisi e vigilanza che ha il controllo sulle operazioni internazionali, e che aveva scavato, in relazione al caso Milan, su alcune «segnalazioni di operazioni sospette». La Banca d'Italia, con cui il procuratore Greco collabora strettamente da sempre, ha all'interno della Procura milanese un suo terminale investigativo, ma è prassi costante che le conclusioni degli accertamenti Uif vengano girate alla Finanza e sia questa a consegnarli direttamente in Procura. Una attività di segnalazione dunque esiste, pacificamente: e del resto Greco, nella sua improvvisata conferenza stampa di sabato mattina, non l'aveva negata. Ma le conclusioni di questa attività, stando a quanto risulta al Giornale, non confermano i dubbi avanzati da più parti sulla trasparenza dell'operazione Milan. Le cosiddette «segnalazioni di operazioni sospette» scattano praticamente in automatico, ogni volta che la provenienza o l'importo dei flussi finanziari appaiano anomale: e oggettivamente lo schema utilizzato da Li Yonghong per fare approdare i soldi in Italia, triangolandoli tra le Isole Vergini e Hong Kong, poteva dare adito a qualche dubbio: fugato però, a quanto si può capirne, dagli accertamenti. A dirlo sono due passaggi della conferenza stampa di Greco: quello in cui afferma che «non c'è stata nessuna denuncia», mentre in presenza di reati la Gdf avrebbe dovuto denunciarli; e quello in cui racconta che Niccolò Ghedini, legale di Fininvest, aveva ipotizzato di presentare lui stesso un esposto contro i cinesi, e che «poi hanno deciso di non farlo dopo avere ricevuto il via libera dalle banche», ovvero da Intesa e Rotschild, obbligate anch'esse a vigilare sulla regolarità dei flussi. E poi, sempre dalla conferenza stampa di Greco: «Loro (Ghedini e Fininvest, ndr) si rimettevano alle valutazioni degli organi istituzionali sulla regolarità della procedura, e ci fu un parere dell'autorità di controllo che diede il via libera». Sarebbe stato proprio il placet dell'Uif a tranquillizzare la Fininvest sulla serietà e la praticabilità dell'operazione. Insomma: non c'è una inchiesta vera e propria, non c'è un procedimento penale aperto, ma esiste un informale cono di attenzione degli inquirenti sull'operazione Milan, basato sulle attività di Bankitalia e Guardia di finanza. È accaduto più volte in passato che la Procura milanese partisse con verifiche informali simili a questa, e poi passasse all'attacco ben più pesantemente. Ma la nettezza della smentita di Greco, e la serenità ostentata dai legali del gruppo di Silvio Berlusconi fanno ipotizzare che stavolta tutto potrebbe concludersi senza né morti né feriti.
DUE PESI E DUE MISURE. Nicola Porro: "Fake news? No: se le scrive Repubblica, il giornale progressista", scrive il 28 Novembre 2017 "Libero Quotidiano". "Le fake news sono tali solo se non riguardano un tema politicamente corretto e non sono scritte a titoli cubitali...", scrive Nicola Porro sul suo profilo Twitter. Repubblica, sottolinea il vicedirettore de Il Giornale, "a pagina 4 sparava con grande evidenza un numero impressionante: 6.788.000. E la didascalia recitava: Italiane tra i 16 e i 70 anni che hanno subito qualche forma di violenza pari al 31,6%". Peccato che questa notizia sia assolutamente "falsa, doppia come un gettone. Il tutto a corredo di un pezzo che chiede maggiori risorse contro il femminicidio: cioè maggiori tasse per far sì che una donna su tre (così spiega la didascalia) non debba più subire ignobili violenze". Quel numero, continua Porro, "è un macigno" e "il giornale antibufale per eccellenza, e cioè Repubblica", non ci dice "da dove esce". Bene, continua Porro, "nasce da un rapporto Istat del 2015 su dati del 2014", e "non si tratta di un dato puntuale, ma di un sondaggio. Cioè non ci sono 6,7 milioni di donne che hanno denunciato o lamentato o raccontato una violenza. C’è un sondaggio su un campione di 24.761 donne". Proprio così. Non solo, "si dice che il 31,6% delle donne italiane subisce violenza". Ma la maggior parte di loro subisce quella psicologica: il 22% della popolazione nazionale secondo l'Istat, e cioè 4,4 milioni su 6,7 milioni delle loro stime, si lamenta solo della violenza psicologica e non già di quella fisica. Grave comunque, ma ci sarà una differenza tra l’una e l’altra".
Firenze, le fake news dei giornali sugli stupri inventati. Diversi quotidiani nazionali hanno pubblicato la notizia: A Firenze nel 2016 false 90% delle denunce per violenza sessuale. Il questore smentisce, scrive Domenico Camodeca, Esperto di Cronaca l'11 settembre su "it.blastingnews.com". “Tutte le studentesse americane in Italia sono assicurate per lo stupro e a #Firenze su 150-200 denunce all’anno, il 90% risulta falso”. È questo il passaggio incriminato, privo di virgolette nella versione originale, di un articolo apparso il 9 settembre scorso sui quotidiani La Stampa e Il Secolo XIX, a margine di una intervista al ministro della Difesa, Roberta Pinotti, sui fatti legati all’ancora presunto stupro di Firenze. Anche altre testate, tra cui Il Messaggero, Il Gazzettino e Il Mattino (o, almeno, questa la ricostruzione fatta dalla giornalista del Fatto Quotidiano Luisiana Gaita) hanno poi rilanciato la notizia che, però, si è rivelata essere una #Fake News, una bufala insomma. A smentire i Media ci ha pensato il questore di Firenze Alberto Intini: “Secondo la banca dati della polizia solo 51 denunce per#violenza sessuale nel 2016 e, nei primi 9 mesi del 2017, solo 3 da parte di ragazze americane”. Di fronte alla presunta fake news smascherata, Stampa e Secolo decidono di non mollare, virgolettano la frase da loro pubblicata e la attribuiscono a una non meglio precisata “fonte istituzionale attendibile”, anche se coperta dal segreto professionale. Dunque, a Firenze, nel 2016, ci sono state tra le 150 e le 200 denunce per violenza sessuale (reato che va dal palpeggiamento al vero e proprio stupro), oppure solo 51?. E poi, è vero che le denunce presentate dalle donne americane sarebbero false per il 90%? Sostenitori della prima tesi sono, come detto, le redazioni di Stampa e Secolo le quali, nella nota apparsa successivamente in calce al pezzo contestato, spiegano che “i dati cui fa riferimento la fonte non sono nelle statistiche ufficiali perché non sono ancora confluiti nei database Istat”. Una pezza di appoggio abbastanza fumosa che, infatti, il procuratore di Firenze Intini contraddice fornendo i numeri provenienti dalla banca dati della polizia. Per non parlare dell’altra fake news che tutte le studentesse Usa in Italia sarebbero assicurate contro lo stupro Infatti, come ha spiegato anche Gabriele Zanobini, avvocato delle due ragazze protagoniste della vicenda, l’assicurazione stipulata dalle donne americane che si recano in Italia è generica e comprende ogni tipo di incidente o aggressione in cui si può incorrere.
«Denzel Washington sostiene Trump», la bufala su Facebook. Ennesimo caso di propaganda veicolata da American News, sito che posta contenuti falsi per orientare il dibattito. L’attore trasformato in un supporter del presidente eletto, scrive Marta Serafini su “Il Corriere della Sera” il 16 dicembre 2016. Tanto Denzel Washington risponde ad un giornalista che gli chiedeva un’opinione sulle fake news e sul ruolo dell’informazione moderna. Se non leggi i giornali sei disinformato, se invece li leggi sei informato male. Quindi cosa dovremo fare? chiede il giornalista, Washington replica: “Bella domanda. Quali sono gli effetti a lungo termine di troppa informazione? Una delle conseguenze è il bisogno di arrivare per primi, non importa più dire la verità. Quindi qual è la vostra responsabilità? Dire la verità, non solo arrivare per primi, ma dire la verità. Adesso viviamo in una società dove l’importante è arrivare primi. “Chi se ne frega? Pubblica subito” Non ci interessa a chi fa male, non ci interessa chi distrugge, non ci interessa che sia vero. Dillo e basta, vendi! Se ti alleni puoi diventare bravo a fare qualsiasi cosa. Anche a dire stronzate” tuona il celebre attore e regista.
I giornalisti professionisti si chiedono perché è in crisi la stampa. Le loro ovvie risposte sono:
Troppi giornalisti (litania pressa pari pari dalle lamentele degli avvocati a difesa dello status quo contro le nuove leve);
Troppi pubblicisti;
Troppa informazione web;
Troppi italiani non leggono.
La risposta invece è: troppo degrado intellettuale degli scribacchini e troppi “mondi di informazione”. Quando si parla di informazione contemporanea non si deve intendere in toto “Il Mondo dell’Informazione”, quindi informazione secondo verità, continenza-pertinenza ed interesse pubblico, ma “I Mondi delle Informazioni”, ossia notizie partigiane date secondo interessi ideologici (spesso di sinistra sindacalizzata) od economici. Insomma: quanto si scrive non sono notizie, ma opinioni! I lettori non hanno più l’anello al naso e quindi, diplomati e laureati, sanno percepire la disinformazione, la censura e l’omertà. In questo modo si rivolgono altrove per dissetare la curiosità e l’interesse di sapere. I pochi giornalisti degni di questo titolo sono perseguitati, perchè, pur abilitati (conformati), non sono omologati.
FAKE NEWS, GIORNALI E MORALISMI SENZA PIÙ NOTIZIE, scrive Alessandro Calvi il 22 dicembre 2017 su "Stati Generali". Certo, il problema sono le fake news; eppure, si dovrebbe dire anche dell’informazione di carta, di certe sue degenerazioni; o forse oramai è tardi, forse l’informazione è già morta e quello pubblicato dalla Stampa mercoledì 22 novembre – «La notizia è falsa, ma la riflessione sopravvive» – ne è il perfetto necrologio. Quella frase l’ha scritta Mattia Feltri dopo aver chiesto scusa ai lettori per aver costruito un pezzo su una notizia poi rivelatasi falsa; e però quella chiusa – «La notizia è falsa, ma la riflessione sopravvive» – sembra dirci che i giornali oramai ritengono di poter fare a meno di fatti e notizie, accontentandosi delle opinioni, anche di quelle costruite su notizie false; il necrologio del giornalismo, appunto. La storia è piuttosto semplice. Feltri aveva dedicato una puntata della sua rubrica «Buongiorno» alla notizia secondo cui una bimba di 9 anni sarebbe andata in sposa a un uomo di 45 anni e poi da questo sarebbe stata violentata; tutto si sarebbe svolto nella comunità musulmana di Padova. Ebbene, dopo aver spiegato che di questo genere di storie si conosce poco o nulla poiché «avvengono dentro comunità chiuse, regolate dalla connivenza, persuase di essere nel giusto per volere divino», Feltri ricordava la «battaglia opportuna […] sebbene un po’ scomposta, un po’ genericamente recriminatoria» contro «i Weinstein e i Brizzi di tutto il mondo» e concludeva: «Tanta agitazione per ragazze indotte o costrette a concedersi in cambio di una carriera nel cinema è comprensibile e condivisibile, ma tanto silenzio per donne e bambine sequestrate a vita, in cambio di niente, è spaventoso». Ecco: peccato che alla fine sia uscito fuori che la storia della sposa bambina era falsa. A Feltri non è restato che ammettere l’errore e chiedere scusa, non rinunciando però ad affermare che, sebbene la notizia fosse falsa, «la riflessione sopravvive». E invece no: ché, anzi, a sopravvivere è semmai tutto quell’apparato fatto di notazioni e coloriture – «tanta agitazione» o «battaglia opportuna […] sebbene un po’ scomposta» – il quale, al venir meno dei fatti, si rivela per quello che è: una semplice impalcatura ideologica, forse persino un po’ infastidita da quella «battaglia opportuna […] sebbene un po’ scomposta». Tuttavia, il problema non è certo Feltri al quale piuttosto si dovrebbe riconoscere d’essere un gran signore avendo fatto ciò che pochi fanno: ammettere l’errore e chiedere scusa. D’altra parte, capita a tutti di sbagliare, soprattutto se ogni giorno – ogni giorno! – si è costretti a trarre una morale dalle notizie, con metodo oramai quasi industriale; è capitato anche al più inossidabile, al più inarrestabile, tra i dispensatori di morali e opinioni, Massimo Gramellini; la ricostruzione che fornì Alessandro Gilioli sull’Espresso di uno di questi errori – e di mezzo c’è sempre una fake news presa per buona – vale la lettura. Ma, appunto, il problema non è l’errore in sé, poiché l’errore può capitare. Il problema, sta invece nell’essere oramai diventata accettabile – tanto che non s’è visto alzarsi neppure un sopracciglio – un’affermazione come quella secondo cui «la notizia è falsa, ma la riflessione sopravvive». Il problema riguarda una idea di giornalismo che sembra prescindere dai fatti, per cui le opinioni oramai precedono la cronaca la quale spesso trova spazio soltanto se è in grado di confermare le opinioni, altrimenti se ne fa a meno, poiché comunque «la riflessione sopravvive». Il problema sta insomma nel fatto che l’informazione è stata da tempo ridotta a mero dispensario di opinioni, anche senza più fatti a sostegno. Di recente, sugli Stati Generali, è stato pubblicato un intervento – «Se noi giornalisti siamo sempre meno credibili, ci sarà un perché» – di Fabio Martini, anch’egli giornalista del quotidiano La Stampa, col quale non si può che concordare. E, peraltro, da queste parti si è ragionato spesso sulla crisi del giornalismo, e in particolare sulle conseguenze della marginalizzazione della cronaca. Lo si era fatto ad esempio prendendo spunto da fatti drammatici, come le stragi delle quali i quotidiani quasi non danno più notizia, e si era fatto lo stesso anche a partire da vicende più vicine, come il mancato racconto dell’agonia del lago di Bracciano. Di recente lo si è fatto a proposito di come l’informazione ha trattato le vicende di Ostia e del Virgilio. Comunque sia, il tema è sempre lo stesso: dai primi anni Novanta la cronaca inizia a essere massicciamente sostituita da altro, in particolare dai retroscena; e questo cambia tutto: cambia l’informazione e cambia anche il rapporto tra giornali e potere. «Sulle pagine dei giornali – si perdonerà l’autocitazione da quell’articolo che prendeva a pretesto la vicenda di Ostia per parlare di giornalismo – si affacciano sempre più massicciamente spifferi di Palazzo, brogliacci, verbali. Sembra che il lettore, attraverso la lettura di un verbale riportato pedissequamente dai giornali, possa essere immerso dentro la notizia senza più filtri né mediazioni. Sembra una rivoluzione. È invece l’esatto opposto. Per farsene una idea, basterebbe chiedersi chi dirige il traffico, chi sceglie quali verbali far uscire e quali spifferi lasciar trapelare. Ecco: per lo più, sono le fonti a stabilirlo, se non altro perché sono le fonti che conoscono a fondo il contesto. Insomma, sostituendo lo spazio della cronaca con il retroscena e rarefacendo sempre più il tradizionale lavoro di inchiesta giornalistica, i giornali si sono disarmati e consegnati alle fonti, quindi al potere». Il passaggio dalla cronaca al retroscena, e l’affermarsi progressivo delle opinioni sui fatti, finisce per trasformare anche la scrittura dei giornali. Il linguaggio della cronaca diventa sempre più simile a quello degli editoriali, intessuto di pedagogismi e di toni moralisticheggianti che non dovrebbero trovare spazio nel resoconto di un fatto. Anche questo contribuisce ad allentare il rapporto con la realtà, finendo per trasformare la cronaca – quando ancora trova spazio in pagina – in un racconto di maniera che non dice più molto del mondo. E non è ancora tutto. In questi giorni sono usciti in libreria due libri – non uno, due! – che Michele Serra ha dedicato alla rubrica che da anni cura per Repubblica, «L’amaca». In quello dei due che costituisce l’esegesi dell’altro, Serra scrive che gli anni nei quali iniziò a scrivere corsivi – «gli anni della post-ideologia», afferma – non erano più quelli di Fortebraccio e della sua ferrea faziosità. In realtà, rispetto all’epoca di Fortebraccio stava cambiando soprattutto il contenitore nel quale il corsivo veniva collocato: stavano cambiando i giornali e stava cambiando persino il giornalismo. Prima, informazione era per lo più il resoconto di un fatto e quindi aveva un senso l’esistenza di editoriali e corsivi; poi, con la marginalizzazione della cronaca e l’editorializzazione dell’intero giornale, i corsivi finiscono annegati in un mare di opinioni senza più cronaca, poiché, come s’è appena visto, la cronaca ha lasciato il posto al retroscena il quale ha a sua volta contribuito all’avvicinamento della informazione al potere attraverso il disarmo nei confronti delle fonti. In questo contesto, anche la funzione dei corsivi finisce per essere stravolta rispetto all’epoca di Fortebraccio: e il rischio permanente è che si passi dal graffio contro il potere al moralismo che accarezza lo stato delle cose e che massaggia il potere o la pancia dei lettori. Imboccata questa strada – sostituita la cronaca con il retroscena, scollegata l’informazione dai fatti, ridottala a ragionamento che può essere persino basato su una notizia falsa, stravolta infine la funzione dei corsivi – i giornali si sono ridotti a raccontare sempre meno le cose del mondo e per questo hanno sempre meno lettori e sono sempre più in crisi. A sentire chi i giornali li fa, però, il problema sarebbe soprattutto quello delle fake news o della rete che ruba lettori. E quindi si finisce per ritenere che la soluzione per recuperare lettori e credibilità sia quella di differenziarsi dalla rete, lasciando alla stessa rete il notiziario e concentrandosi ancor di più sulle opinioni. Lo ha spiegato piuttosto chiaramente il direttore di Repubblica Mario Calabresi presentando la nuova veste del giornale, scrivendo di aver addirittura «raddoppiato lo spazio per le analisi e i commenti». Bene. Ma davvero abbiamo bisogno di tutte queste opinioni? Possibile che si abbia tutta questa sfiducia nella capacità dei lettori – sempre che ai lettori si raccontino anche i fatti – di formarsi da sé una opinione? Non sarà, infine, che a forza d’andar dietro alle opinioni si stia rischiando di rendere ancor più flebile il rapporto tra giornali e fatti, oltre a quello oramai quasi evanescente tra giornali e lettori? Lo dirà il tempo. Tuttavia, proprio nel giorno in cui Calabresi annunciava il raddoppio delle analisi e dei commenti, la nuova Repubblica esordiva in edicola con una grande intervista al premier spagnolo Rajoy firmata dallo stesso Calabresi e posta in apertura di edizione. Quello stesso giorno, gli altri giornali raccontavano come Amsterdam avesse sfilato a Milano l’Agenzia europea del farmaco anche per il mancato accordo tra governo italiano e governo spagnolo. Ebbene, nella intervista uscita su Repubblica al capo di quel governo non c’era neppure una domanda su quel fatto. Sarà stata un scelta di opportunità, sarà stato perché l’intervista era stata chiusa prima, comunque si è rimasti con la sensazione che mancasse qualcosa. Quella scelta è stata legittima, certo; difficile però poi lamentarsi se i lettori quel qualcosa non lo cerchino più nei giornali.
Ma un leader non si inventa. A cinquanta giorni dalle elezioni, nello scenario politico ne emergono soltanto tre: due in corsa, Berlusconi e Renzi, e uno nascosto, Grillo, scrive il 12 gennaio 2018 su Panorama Giorgio Mulè. Ricorderete senz'altro la storia del quid, di quel tassello per nulla irrilevante che mancava ad Angelino Alfano per essere davvero un leader. Il tempo ha mostrato quanto fosse reale quel deficit strutturale nel politico che per superbia e molta mediocrità si illuse di avere le carte in regola per guidare il fronte dei moderati. Sparito dall'orizzonte insieme con la sua creaturina parlamentare, poco ci manca e sentiremo presto qualcuno sorridere beffardo e affermare: "Alfano, chi?". Un destino che rischia di travolgere anche altri reduci di questa stagione di voltagabbanismo che si propongono come leader in cerca di identità dopo essere faticosamente riusciti a trovare almeno un logo, vedi il caso di Beatrice Lorenzin. Il problema è tutto lì e risiede in una parola: leadership. Ne siamo a corto in Italia. Perché un leader non si improvvisa, non si inventa e non si costruisce in laboratorio. Si è leader perché si è capaci di avere visione e indicare la strada, perché si ha la competenza per sorreggere gli argomenti, perché si ha il carisma per convincere gli elettori. A cinquanta giorni dal voto si vedono distintamente tre leader, due in corsa e uno nascosto. Non v'è dubbio che Silvio Berlusconi e Matteo Renzi lo siano per qualità e requisiti. Ognuno potrà poi obiettare all'uno o all'altro difetti e attitudini: è certo però che per Berlusconi parlano da soli in maniera incontestabile i traguardi raggiunti prima in campo imprenditoriale e successivamente in politica; nel caso di Renzi manca pressoché totalmente la trincea lavorativa mentre non gli si può disconoscere l'arte nella gestione della politica. Il terzo leader che attualmente gioca a nascondino è Beppe Grillo il quale, siccome stupido non è, ha lanciato in campo una pallina da flipper qual è Luigi Di Maio. Che, esattamente come una pallina in un flipper, rimbalza impazzito da una parte all'altra nel tentativo di intercettare il favore popolare e accendere lo special del consenso elettorale. Da qui il profluvio di promesse fantasmagoriche, decine di miliardi di misure lanciate a capocchia fino a immaginare un taglio di 40 (quaranta!) punti percentuali nel rapporto debito/Pil in due legislature. Ambiscono a guidare il Paese anche Pietro Grasso e Matteo Salvini. Il primo ha esordito in modo certamente non brillante con lo scivolone sulle tasse universitarie dopo aver macchiato di partigianeria la figura alta e nobile della presidenza del Senato, quanto a Salvini può solo migliorare. Magari potrebbe ispirarsi a Roberto Maroni...
L'Italia della disperanza, scrive il 26 novembre 2017 Massimo Giannini su “La Repubblica”. L'ottava Leopolda renziana a Firenze, l'ottantesimo predellino berlusconiano a Milano, l'incubo grillino al Teatro Flaiano di Roma. Le solite riscosse annunciate a sinistra, le solite promesse spudorate a destra, le solite percosse pentastellate al "sistema". Nella campagna elettorale già si colgono i segni di un'inquietante stanchezza democratica. Tanti anni fa Josè Donoso scrisse un magnifico romanzo sul suo Cile: La disperanza. Credo che questo sia ...
Sgravi e contributi, le solite promesse del vecchio Cavaliere, scrive il 28 dicembre 2017 Filippo Ceccarelli su “La Repubblica”. I cavalli di battaglia del leader di Forza Italia per la nuova campagna elettorale sono quelli che ripropone da sempre. Nel paese di Acchiappacitrulli, più che chiedere voti in cambio di progetti, Silvio Berlusconi è un generatore automatico di promesse. Si perdoni il tono risoluto del giudizio, ma sono ormai 24 anni di campagne elettorali, per cui l'ultimissimo scampolo dei suoi impegni - sgravi totali per i giovani, aumento pensioni minime, reddito "di dignità" e flat tax al 23 con automatico calo al 13 per cento - finisce per aggrovigliarsi nella memoria con il penultimo....
Elezioni 2013: campagna elettorale con le solite promesse (mai mantenute). Meno tasse e lavoro, scrive "Finanza Utile" il 14/01/2013. Pagina aggiornata il 2017-12-14. Parole, parole, parole. E’ iniziata la campagna elettorale che ci porterà alle elezioni politiche del prossimo 24 febbraio. E come per “magia” i leader politici che si contendono palazzo Chigi hanno iniziato a fare le solite promesse ai cittadini: meno tasse e più lavoro. Peccato però, che negli ultimi anni (almeno un decennio) queste promesse non sono mai state mantenute.
LE PROMESSE 2013.
Ovviamente la promessa più “roboante” è il calo delle tasse, a cominciare dal balzello più odiato dagli italiani, l'Imu sulla prima casa. Vediamo cosa promettono i tre principali contendenti alla guida del governo: Pier Luigi Bersani, Mario Monti e Silvio Berlusconi.
Il Cavaliere promette, in caso di vittoria, di abolirla, ma non per le abitazioni di lusso.
Bersani propone di affiancare all'Imu, per alleggerirla, un'imposta personale sui grandi patrimoni immobiliari. Per rendere meno pesante il carico fiscale sulle prime case con rendite più modeste, con una soglia di esenzione fino ai 500 euro.
Monti e i suoi alleati centristi centristi promettono agli elettori una modifica che vada nel senso di una maggiore equità. E c'è disponibilità anche per le richieste Ue in tema di riforma del catasto per avvicinarne maggiormente le rendite al valore di mercato.
IL LAVORO.
Altro tema caldo è il lavoro con il conseguente rilancio dell'economia. Anche in questo caso i tre maggiori contendenti hanno idee diverse.
Berlusconi lancia l'idea di esentare le imprese che assumono sia i contributi previdenziali, sia le tasse, per un periodo da 3 a 5 anni. In più, l'ex premier propone di rendere più facile avviare un'impresa, «togliendo tutte le autorizzazioni chesi devono chiedere per aprire un negozio, dare il via ad un cantiere», trasformando queste autorizzazioni in «controlli successivi». Tre le riforme promesse dal leader del Pdl: «un piano per il nuovo apprendistato, la liberalizzazione del collocamento e un fondo per i giovani che vogliono fare gli imprenditori che non pagheranno tasse per i primi tre anni e successivamente pagheranno solo il 5% per altri due anni».
La ricetta di Monti è «più concorrenza e meno favori per tutelare i giovani» e la loro possibilità di avere un futuro nel mondo del lavoro, e contro l'evasione fiscale, il premier si dice pronto a «continuare la battaglia di civiltà». Monti si dice ottimista: tagliare di punto l'Irpef e non alzare di un punto l'Iva.
Per Bersani il tema centrale è alleggerire il peso del fisco sul lavoro e sull'impresa, lottando contro l'evasione e spostando il peso del fisco sulla rendita e sui grandi patrimoni finanziari e immobiliari.
Campagna elettorale. Dal canone Rai al bollo sulle auto: gli sgravi promessi dai politici. Si rincorrono le proposte di abolizione di tasse, balzelli e oneri vari. Ma le coperture? Scrive Enrico Marro il 5 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". È una corsa a chi toglie di più: tasse, balzelli, oneri. Adesso tocca al canone Rai, che l’ex presidente del Consiglio, Matteo Renzi, vorrebbe abolire. Proposta che scatena la polemica con Carlo Calenda che proprio Renzi volle ministro dello Sviluppo e col quale un tempo andava molto d’accordo. Ma è solo l’ultima proposta fra quelle che arrivano un po’ da tutti i partiti: via il bollo auto (Berlusconi); via la riforma Fornero (Salvini); via il Jobs act, con il ritorno all’articolo 18 (Di Maio); basta con le aliquote Irpef, meglio la flat tax (Berlusconi e Salvini). Proposte costosissime in termini di minor gettito per le casse dello Stato. Ovviamente gli autori delle stesse assicurano che ci sarebbero entrate alternative. Che, come è intuibile, sono tutte da verificare.
Canone Rai. È stato il governo Renzi a spostare il tributo, che prima gli utenti dovevano adempiere spontaneamente, nella bolletta elettrica. Una sorta di ritenuta alla fonte, che ha stroncato la fortissima evasione che colpiva questa tassa, permettendo di ridurre l’importo del canone da 113,5 a 100 euro. «Pagare meno, pagare tutti», sottolinea il segretario del Pd Renzi, promettendo: «Continueremo, perché siamo credibili». Nel 2016 ci sono stati 5,6 milioni di abbonati Rai in più, per un maggior gettito di oltre 500 milioni, che ha portato l’incasso finale a 1,7 miliardi. È questa dunque la cifra che andrebbe coperta in caso di abolizione del canone. «Una presa in giro» polemizza Calenda, sottolineando che la Rai andrebbe comunque finanziata con la fiscalità generale, a meno di non privatizzarla, come vorrebbe lo stesso ministro.
Bollo auto. «Via il bollo sulla prima auto», promette il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, che aggiunge: «No anche a imposte sulla prima casa, no a tasse sulla successione e sulle donazioni». Si tratta di un insieme di tributi che riguardano praticamente tutti. Anche qui conviene fare due conti. Le entrate del bollo auto sono di circa 6 miliardi l’anno. Anche limitandosi alla prima auto, si tratta di molti soldi. Invece, l’Imu sulla prima casa è rimasta solo su abitazioni di lusso, ville e castelli, categoria nella quale ricade solo lo 0,2 degli immobili. Nel 2016 l’imposta è stata pagata da 138mila proprietari per un gettito complessivo di una ottantina di milioni. Coprire questo mancato gettito non sarebbe dunque un problema. Infine le tasse di successione e donazione: hanno fruttato complessivamente all’erario 723 milioni nel 2016. Anche questo un ostacolo non insormontabile.
Pensioni. Abolizione graduale della Fornero, «in 5 anni», dice il candidato premier del Movimento 5 Stelle, Luigi Di Maio. «Quali 5 anni, in 5 mesi», ribatte il leader della Lega, Matteo Salvini. In ogni caso, secondo i calcoli della Ragioneria generale dello Stato, cancellare la Fornero significa rinunciare a circa 350 miliardi di euro di risparmi cumulati fino al 2060. E il grosso del buco si realizzerebbe nel decennio 2020-30, con circa un punto di Pil ogni anno, cioè 17 miliardi, con un massimo di 1,4 punti nel 2020.
Flat tax. Aliquota unica Irpef al 23-25% per Berlusconi. Al 15% per Salvini. Si aprirebbe, secondo gli esperti, un buco minimo di 30-40 miliardi l’anno. Ma i proponenti assicurano: non serve una copertura perché ripartirebbe l’economia e arriverebbe maggior gettito di ora. Berlusconi taglia corto: «La flat tax si finanzia da sola», anche perché rende «meno conveniente l’evasione». Il Pd lavora su proposte meno hard, che prevedono la rimodulazione delle aliquote Irpef a beneficio del ceto medio, con un costo per l’erario fra i 12 e i 15 miliardi. Lega, Forza Italia e M5S promettono anche l’abolizione dell’Irap, l’imposta regionale sulle attività produttive che vale circa 13 miliardi l’anno e concorre a finanziare la sanità.
Jobs act. Di Maio non lo butterebbe tutto. Alcune parti si possono salvare, dice. Ma cancellerebbe comunque il superamento dell’articolo 18 sui licenziamenti senza giusta causa. Il diritto al reintegro nel posto di lavoro tornerebbe così nelle aziende con più di 15 dipendenti. Qui non servono coperture. Diversi miliardi servirebbero invece per il taglio del cuneo fiscale, come propongono non solo i 5 Stelle, ma tutti i partiti.
Tutte le promesse elettorali in attesa del voto. Reddito di inclusione, bonus, pensione minima ai giovani: in vista delle elezioni il governo dimentica ogni vincolo di bilancio e annuncia prebende per ogni categoria, scrive il 14 settembre 2017 Stefano Cingolani su Panorama. Di bonus in malus: la battuta circolava a Cernobbio durante l'annuale appuntamento dello studio Ambrosetti, mentre Pier Carlo Padoan metteva le mani avanti: "Il sentiero è stretto, le risorse sono limitate, la legge di bilancio non deve far danni". Insomma, "meglio meno, ma meglio". Il ministro dell'Economia non intendeva certo ricordare il Lenin della Nuova politica economica. È che ha cominciato ad alzare il ponte levatoio davanti all'assalto clientelare. A forza di bonus, appunto, di incentivi, di mance a pioggia. Siamo solo ai primi di settembre e di qui al prossimo mese la cacofonia è destinata ad aumentare, ma già adesso è possibile mettere in fila un bell'elenco di elargizioni. C'è il reddito d'inclusione, naturalmente, per tarpare le ali al Movimento 5 stelle; ci sono le pensioni per i giovani che non lavoreranno mai, tanto ci pensa lo Stato-mamma, mentre per quelli che non fanno nulla, ma vorrebbero un posto, ecco il super bonus sui contributi previdenziali (fino a 29 anni, ma forse slitterà a 32, in fondo la popolazione invecchia e anche i giovani non sono più quelli di una volta); è in arrivo anche la proroga del superammortamento che tanto bene fa alle imprese che vogliono investire in nuovi macchinari; non possono mancare i sostegni alle case da ricostruire e mettere in sicurezza, né i sacrosanti stanziamenti per i terremotati che saranno estesi anche alle seconde case e forse ancora più in là; è in vista una sanatoria sulle tasse comunali; infine spunta l'eterna questione romana. È già cominciata una campagna sostenuta da giornali come il Corriere della Sera, secondo la quale il collasso finanziario della capitale deve diventare "una priorità nazionale". In altri termini, tutti i contribuenti italiani, compresi i più poveri o quelli delle città con i conti a posto, dovrebbero pagare per la cattiva amministrazione di una città il cui reddito medio per abitante è superiore alla media nazionale e i cui cittadini continuano a scegliere amministratori incompetenti. C'è una logica in questa follia? C'è, ma inutile cercarla nella razionalità economica, nella giustizia distributiva, nei sacri principi della democrazia, perché è tutta e solo elettorale. Difficile capire quanto costerà questa pioggia di sostegni dalla chiara impronta assistenziale. Ma in via XX Settembre, nei lunghi e silenti corridoi di palazzo Sella, si comincia a tirar giù qualche cifra. Gli incentivi ai giovani dovrebbero pesare per due miliardi di euro, quelli per l'industria un miliardo e mezzo, le misure contro la povertà circa un miliardo, ma poi c'è il rinnovo dei contratti pubblici (attorno a un miliardo e 200 milioni), mezzo miliardo andrà alle Province (che dovevano essere sciolte), e via di questo passo. Vanno aggiunti almeno due miliardi per spese inevitabili (missioni militari all'estero, trasferimenti alle partecipazioni statali e via via spendendo) che si sommano alla ghigliottina fiscale non più rinviabile: cioè l'aumento dell'Iva e delle accise per le clausole di salvaguardia. Se si vuole evitare che tagli la testa alla ripresa, bisogna trovare qualcosa più di 15 miliardi. La somma, approssimativa e provvisoria, porta la manovra, al minimo degli impegni già presi, attorno ai 23 miliardi di euro. Saranno coperti soprattutto in deficit, come negli anni scorsi: almeno 9 miliardi se il Tesoro terrà ferme le previsioni per il prossimo anno. Tre miliardi entreranno automaticamente grazie alla maggiore crescita del Prodotto interno lordo, dalla cosiddetta spending review non verrà più di un miliardo. Naturalmente c'è sempre la lotta all'evasione che non manca mai a ogni Finanziaria. Quanto mettere in preventivo? Si fanno stime ragionevoli per due miliardi, non molto e in ogni caso è poco più di una scommessa. Facendo il conto del dare e dell'avere, così, mancano tra gli otto e i dieci miliardi. Senza una stangata, esclusa per motivi politici, il deficit oggi previsto all'1,8 per cento è destinato a salire. Paolo Gentiloni a Cernobbio ha detto che la legge di bilancio deve essere rigorosa, ma senza danneggiare la crescita, una formula magica alla quale si applicheranno gli stregoni della Ragioneria generale dello Stato. Ma attenzione, dalla lista in circolazione manca la promessa più volte ripetuta e mai realizzata: la riduzione dell'Irpef per i ceti medi e del cuneo fiscale per i lavoratori dipendenti. Il presidente della Confindustria Vincenzo Boccia ha chiesto addirittura 10 miliardi. Le stime sparagnine di Padoan avevano messo in conto tra i due e i tre miliardi, però allo stato attuale non ci sono nemmeno quelli. Che dirà Matteo Renzi, segretario del Pd di lotta e di governo, il quale loda Gentiloni e Padoan mentre chiede loro sempre di più? E le opposizioni? E la premiata coppia Di Maio&Di Battista che nel tour estivo per spiagge e resort turistiche ha promesso, è il caso di dirlo, mari e monti?
I molti inganni (svelati) nelle promesse elettorali. È pericoloso evadere dalla realtà, rimuovendo la forza delle cose e l’amarezza stringente di un elevato indebitamento: non illudiamo gli elettori, scrive Ferruccio de Bortoli il 2 dicembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Possiamo dire, senza una punta d’orgoglio, che nella cura dei tanti interessi particolari e territoriali siamo imbattibili. La discussione appena terminata in Senato sulla legge di Bilancio (ora tocca alla Camera) ha dimostrato ancora una volta che la discussione sull’opportunità di introdurre un vincolo di mandato per deputati e senatori — espressamente vietato dall’articolo 67 della Costituzione — è del tutto oziosa. Certo, se ci fosse quel vincolo non avremmo assistito finora, in questa legislatura, alla transumanza di 343 parlamentari da un gruppo all’altro. E spesso in più di uno. Ma la marea di piccoli provvedimenti approvati al Senato, alcuni assolutamente necessari per carità, a favore di questo o quel gruppo d’interesse o delle comunità di origine o riferimento degli eletti, ha confermato ancora una volta che i vincoli esistono. Ed è naturale che sia così, che si dia ascolto alle tante richieste di categorie e territori. Accade anche in sistemi più evoluti del nostro. Ogni passaggio si misura anche in voti e la campagna elettorale è già cominciata. Ma non ci rassegniamo al fatto che non vi sia un’analoga determinazione sulle questioni più importanti per il futuro del Paese: debito, spesa pubblica, investimenti. Se le ragioni dei giovani — uno degli obiettivi dichiarati della manovra — fossero difese con la stessa pervicacia con la quale si infila un comma a favore della copertura dei costi del Carnevale fino al 2020 o per dichiarare Bolzano sede disagiata, il livello delle scelte sarebbe di tutt’altro tenore. Il vincolo che manca è proprio questo. Un vincolo di responsabilità. Non c’è la consapevolezza dell’urgenza di affrontare i grandi temi da cui dipende il futuro del Paese. Si rinvia, si rimuove. E non ci resta che apprezzare, di conseguenza, lo spirito dei costituenti quando scrissero il contestato articolo 67 sulla rappresentanza generale dell’intera nazione. Se poi guardiamo alla composizione della manovra appena licenziata dal Senato — che sarà ovviamente emendata dalla Camera — ci accorgiamo della semplice verità dei numeri. Circa l’80 per cento degli impieghi serve a disinnescare le cosiddette clausole di salvaguardia a garanzia di spese già fatte o correnti; il 15 per cento va agli statali, meno del 5 per cento allo sviluppo. Dal lato delle risorse, oltre il 55 per cento è in disavanzo, e dunque fa salire il debito; il 25 per cento in tasse o recupero evasione fiscale e meno del 20 per cento è in taglio delle spese. Finito. Quel vincolo di responsabilità dovrebbe essere richiesto dai cittadini alle forze politiche anche nella prossima campagna elettorale. E forse, se ci possiamo permettere, sarebbe opportuno che se ne facesse interprete — magari in occasione del discorso di fine anno — lo stesso capo dello Stato. Inutile promettere quello che non si può mantenere. Pericoloso evadere dalla realtà, rimuovendo la forza delle cose e l’amarezza stringente di un elevato indebitamento. Basta ingannare gli elettori illudendoli che vi sia una torta da dividere. Non c’è più da tempo. E non è detto che proposte serie, circostanziate e credibili, non raccolgano più consenso dei giochi di prestigio programmatici. La proposta dibattuta nel centrodestra della flat tax, una tassa piatta, è suggestiva, popolare. Non sappiamo però quale sia l’aliquota unica, né le necessarie coperture, le deduzioni, l’ampiezza della cosiddetta «no tax area». Salvini insiste sul 15 per cento. Irrealistico. Forse sarebbe il caso di spiegare agli elettori l’estrema pericolosità di un taglio immediato delle tasse che aprirebbe un catastrofico buco di bilancio. Ed è assai probabile che il primo atto di un nuovo governo dopo le elezioni sia una manovra correttiva. Altro che flat tax. Inutile poi parlare di nuove clausole di salvaguardia che si aggiungerebbero a quelle che non riusciamo a disinnescare da anni. Ha scritto opportunamente Renato Brunetta sul «Foglio» che senza riduzione del debito non vi è sovranità fiscale. Discorso assai diverso, dunque, se a un’ipotetica aliquota unica si dovesse arrivare con gradualità, in cinque anni, avendo tagliato prima la spesa pubblica per realizzare un’adeguata provvista. La proposta di Nicola Rossi e dell’Istituto Bruno Leoni di una flat tax al 25 per cento ha come presupposto irrinunciabile la neutralità dell’effetto sul bilancio pubblico. L’idea, che affascina Forza Italia, di una moneta parallela o fiscale poi, con cui lo Stato potrebbe pagare per esempio i fornitori, è ugualmente attraente. Ma temeraria perché equivale a emettere dei pagherò, cioè a fare altro debito. Ultimamente non se ne parla più. È stata accantonata definitivamente? Un altro azzardo è la proposta di Matteo Renzi, contenuta nel suo libro «Avanti», di spingere il deficit al limite del 3 per cento per abbattere le tasse, non rispettando il criticato fiscal compact. Si sottovalutano, anche in questo caso, le reazioni europee e dei mercati di fronte a un taglio delle tasse che verrebbe realizzato in deficit, anziché riducendo la spesa pubblica. E intanto l’ombrello monetario di Draghi, possibile grazie al famigerato fiscal compact, si sta chiudendo. I Cinquestelle promettono il reddito di cittadinanza a nove milioni di persone. Si assicura l’integrazione del reddito per arrivare a 780 euro per individuo, 1100 per una coppia, 1300 con un figlio e via a salire. Nei limiti della soglia di rischio povertà Eurostat. Costo 17 miliardi, di cui 1,5 per i centri dell’impiego che, nell’idea pentastellata al limite dell’utopia, dovrebbero essere creatori di nuove imprese fra gli stessi disoccupati. Una proposta di lavoro a più di 80 chilometri da casa potrebbe essere rifiutata senza perdere il reddito di cittadinanza. Dove trovare tutti questi soldi? Tagliando 20 voci di spesa pubblica, dagli enti inutili, ai sussidi alle imprese, alle spese militari. Prima i tagli e poi il reddito, naturalmente? No, dicono i Cinquestelle, li faremo insieme. Impossibile. Non è il caso di accertarsi preliminarmente che i tagli siano effettivi? Nella legge di Bilancio 2018, con uno «sforzo titanico», si promette di tagliare le spese di soli 3,5 miliardi. Sogni e realtà.
130 miliardi di promesse elettorali. Il Sole 24ore fa un check dei costi delle proposte avanzate dai partiti in vista del voto. I costi sono lontani anni luce dall'indicazione alla concretezza di Mattarella, scrive il 02/01/2018 "Huffingtonpost.it". Nel discorso di fine anno, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella è stato chiarissimo: "Servono proposte realistiche e concrete, necessarie per la dimensione dei problemi del Paese". Un appello rivolto alla politica che si prepara alle elezioni del 4 marzo. Il Sole 24 ore ha fatto un check dei costi delle proposte avanzate dai partiti e l'importo, per difetto, è tutt'altro che orientato al realismo, come auspicato dal capo dello Stato: 130 miliardi.
Il Sole ricostruisce così le promesse elettorali dei partiti e i relativi costi, iniziando dalla flat tax: "Il centrodestra con Lega e Fi in testa puntano sulla flat tax, ossia su una aliquota unica (per Salvini al 15% per Berlusconi al 20%) che sostituirebbe quelle previste attualmente per l'Irpef. Un'operazione da circa 40 miliardi che, secondo i proponenti, verrebbero in parte recuperati grazie all'emersione del nero o dalla rivisitazione delle agevolazioni fiscali".
Onerosa anche l'operazione sostenuta da Silvio Berlusconi, cioè portare le pensioni minime a mille euro al mese: il costo è pari a circa 18 miliardi. Cara a Forza Italia è anche l'abolizione dell'Irap: farlo, tuttavia, implica un costo di 13 miliardi.
C'è poi il reddito di cittadinanza proposta dal Movimento 5 Stelle: sempre secondo le stime del Sole, l'istituzione di questa misura costerebbe circa 15 miliardi.
Tra le promesse elettorali onerose anche quelle del Partito democratico. Scrive ancora Il Sole: "Anche Matteo Renzi spinge sulla leva fiscale oltre che sul mantenimento del bonus degli 80 euro. La proposta del Pd è però più 'modesta' nei numeri (circa 15 miliardi) rispetto a quella del centrodestra e punta alla rimodulazione delle aliquote per favorire soprattutto le famiglie con figli". Storia a parte per la promessa delle promesse: l'abolizione della riforma delle pensioni targata Elsa Fornero. A proporla è il Carroccio. Il costo? Circa 140 miliardi.
SLOGAN IN CERCA DI COPERTURE CREDIBILI. Da flat tax ad abolizione legge Fornero, quanto costano le promesse elettorali dei partiti, scrivono Barbara Fiammeri, Marco Mobili, Mariolina Sesto il 2 gennaio 2018 su “Il Sole 24 ore". Più che un auspicio un monito. In vista dell’appuntamento elettorale il Capo dello Stato nel suo discorso di fine anno richiama i partiti al «dovere» di presentarsi con proposte «realistiche e concrete», capaci di rispondere alla «dimensione» dei problemi del Paese. Ma scorrendo i canovacci di programma che le diverse forze politiche propagandano da settimane, di questo «dovere» al momento non c’è traccia. Anzi, i partiti sembrano aver ingaggiato una gara per accaparrarsi il consenso elettorale promettendo sconti fiscali, aiuti ai disoccupati, abbassamento dell’età per accedere alla pensione e aumenti degli assegni previdenziali. Ognuna di queste voci costa diverse decine di miliardi di euro che i proponenti sostengono di poter ricavare attraverso una serie di “risparmi” o partite di giro. Promesse che sembrano non tener conto del permanere di una grave situazione finanziaria, che ha nel nostro debito pubblico il dato più preoccupante e sulla quale i nostri partner europei difficilmente ci faranno sconti.
Basti pensare che a prescindere da chi governerà, già prima dell’estate si aprirà il confronto con Bruxelles per circa 4 miliardi di correzione e che nella prossima legge di Bilancio una decina di miliardi dovranno essere recuperati per impedire l’aumento dell’Iva previsto dalle clausole di salvaguardia. Voci decisamente stonate per chi ha bisogno di accrescere il consenso tra gli elettori, ai quali al contrario viene proposta l’uscita dal fiscal compact (vedi l’ipotesi rilanciata da Renzi e Salvini) piuttosto che il referendum sull’Euro che di tanto in tanto il M5s tira fuori dal cilindro per poi fare marcia indietro il giorno dopo. I filoni su cui scommettono i partiti sono più o meno gli stessi: fisco, pensioni, lavoro. Il centrodestra con Lega e Fi in testa puntano sulla flat tax, ossia su una aliquota unica (per Salvini al 15% per Berlusconi al 20%) che sostituirebbe quelle previste attualmente per l’Irpef. Un’operazione da circa 40 miliardi che, secondo i proponenti, verrebbero in parte recuperati grazie all’emersione del nero o dalla rivisitazione delle agevolazioni fiscali. Ma per Salvini al primo punto del programma c’è l’abolizione della legge Fornero e quindi la riduzione dell’età per accedere alla pensione. Il leader della Lega però non ha ancora spiegato in che modo sarebbe garantito l’equilibrio del sistema previdenziale visto che la cancellazione della legge Fornero viene valutata in circa 140 miliardi di euro. Berlusconi invece preferisce concentrarsi sulle pensioni minime, che vorrebbe portare a mille euro ma anche lui non si dilunga nello spiegare come recuperare le risorse necessarie (18 miliardi) per coprire l’operazione.
Anche Matteo Renzi spinge sulla leva fiscale oltre che sul mantenimento del bonus degli 80 euro. La proposta del Pd è però più “modesta” nei numeri (circa 15 miliardi) rispetto a quella del centrodestra e punta alla rimodulazione delle aliquote per favorire soprattutto le famiglie con figli. E 15 miliardi vale anche il reddito di cittadinanza proposto dal M5s che verrebbe coperto aumentando le tasse su banche e assicurazioni e riducendo le attuali agevolazioni fiscali. Ci sono poi le proposte che non richiedono una copertura finanziaria ma dal “costo” elevatissimo. È il caso della paventata uscita all’euro, che di tanto in tanto si riaffaccia (anche se con maggior prudenza rispetto al passato) ma anche dell’abolizione del jobs act messa in cima alle priorita da LeU, il partito di D’Alema e Bersani guidato dal presidente uscente del Senato Grasso.
Anatomia della bugia, scrive Emiliano Vitaliano il 27 ottobre 2017 su "la Repubblica". Una bugia serve a proteggerci, a creare al nostro interno un piccolo mondo di cui solo noi (e pochi altri eventualmente) siamo a conoscenza. Un meccanismo di difesa insomma. Perché diciamo le bugie? Quali sono le loro caratteristiche? Si possono smascherare? Gli studi sulle frottole che quotidianamente si presentano nella vita di tutti noi, sia quando siamo protagonisti della menzogna, sia in qualità di spettatori, si sono moltiplicati negli anni. Varie ricerche hanno tentato di capire cosa ci spinge a mentire, altre hanno analizzato le bugie per comprenderne gli effetti e altre ancora, come quella della Cornell University, si sono interrogate sulle modalità attraverso cui intuire se il nostro interlocutore sta dicendo il falso…Una bugia serve a proteggerci, a creare al nostro interno un piccolo mondo di cui solo noi (e pochi altri eventualmente) siamo a conoscenza. Un meccanismo di difesa insomma. I motivi per cui si mente possono essere infiniti e tutti diciamo bugie. Occorre, però, distinguere tra i bugiardi seriali e quelli occasionali. Nel primo caso il nostro cervello pericolosamente si “abitua”, causando un pericoloso effetto domino, poiché si perdono i freni inibitori. Alcuni anni fa, una ricerca dell'University of Notre Dame nell'Indiana ha scoperto che mentire alla lunga danneggia la salute, perché aumenta il livello di stress. Quello del poligrafo, altrimenti conosciuto come “macchina della verità”, è un mito; infatti, diversi studiosi hanno dimostrato che è tutt’altro che infallibile e che è possibile mentire senza che la strumentazione lo noti. Uno studio canadese di alcuni anni fa ha provato che le menzogne dei bambini sono segno anche di intelligenza, perché riuscire a manipolare la realtà senza fare errori richiede capacità complesse. Quando si cerca di smascherare una bugia, uno dei segnali da considerare è il tentativo di prendere tempo durante un discorso. Guadagnare secondi, infatti, serve a costruire velocemente una frottola. Chi racconta una fandonia ha qualcosa da nascondere e, tanto involontariamente, quanto simbolicamente, tende a occultare anche altro (le mani per esempio, mettendole in tasca). Reagire male al silenzio dell’interlocutore, per paura che la propria bugia sia stata subito smascherata, è un segnale di nervosismo tipico di un ciarlatano. Anche chiedere di ripetere quanto appena detto può farci capire qualcosa sull’interlocutore. Chi mente, infatti, non gradisce dover ripetere la bugia e spesso dimostra insofferenza nel ribadire le sue dichiarazioni. La velocità con cui si affronta una conversazione può essere un indizio rivelatore; infatti, nelle prime fasi del discorso il bugiardo procede con più lentezza per verificare se la frottola viene accettata e solo in seguito, dopo aver ricevuto una sorta di “conferma”, parla con più scioltezza.
Bagnasco contro le false promesse elettorali: "Gli italiani non si faranno più abbindolare". Il numero uno dei vescovi risponde a una domanda sugli impegni dei politici su fisco e condoni: "Bisogna guardare avanti partendo dal realismo", dice, scrive il 7 febbraio 2013 "La Repubblica". "Gli italiani hanno bisogno della verità delle cose, senza sconti, senza tragedie, ma anche senza illusioni", perchè "la gente non si fa più abbindolare da niente e da nessuno". Così il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, rispondendo a una domanda sulle promesse elettorali, tra cui quelle riguardanti fisco e condoni. Già aprendo il consiglio permanente della Cei, dieci giorni fa, il numero uno dei vescovi aveva detto un no netto e fermo ai populismi. Ora, alla luce della nuova ondata di promesse elettorali, il suo tono si fa più duro. Bagnasco ha parlato a margine di un convegno a Roma del movimento cristiano lavoratori. Il porporato ha poi aggiunto che solo nella verità, "si potrà percorrere quelle strade che portano ai frutti per il bene del paese e della gente". Commentando quindi le parole di un editoriale odierno del quotidiano dei cattolici "avvenire" nel quale si affermava che i cattolici stanno ricevendo dai politici risposte vecchie e deludenti, il presidente della Cei ha detto che più che di una critica si tratta "di una spinta a superare il rischio e la tentazione di una politica vecchia. Bisogna, invece - ha aggiunto - guardare avanti partendo dal realismo anche perchè la gente - ha aggiunto - non si fa più abbindolare da niente e da nessuno".
Le promesse mancate dei politici ce le andiamo a cercare. La psicologia suggerisce che chi si indigna per le promesse non mantenute non voterebbe un politico che facesse solo promesse realizzabili, scrive Giovanni M. Ruggiero, State of Mind, su "L’Inkiesta" il 19 Aprile 2015. In politica e nel calcio e forse nella vita le promesse mancate, le bombe inesplose, sono la regola. Nel calcio rimangono dei nomi nella memoria che raccontano sogni mancati: Comandini, Ventola, Morfeo, Gascoigne e Denilson. E poi Recoba. Ancora più lontano nel tempo ricordo un uruguayano, tale Ruben Paz. Perfino per un distratto orecchiante di calcio come me questi nomi significano qualcosa in cui si era molto sperato e poi molto disperato. E nel calcio la promessa mancata è in genere un ricordo malinconico. Nel calcio rimangono dei nomi nella memoria che raccontano sogni mancati: Comandini, Ventola, Morfeo, Gascoigne e Denilson. E poi Recoba. In politica la promessa mancata si carica invece di risentimento e rancore. Leggo sui quotidiani che in Brasile la presidente Dilma è una delusione, una promessa mancata. Sono pessimista, credo che tutta la politica sia sempre una promessa mancata e che quel poco che c’è di buono in essa consista nella capacità comunque di apprezzare i pochi risultati positivi che talvolta ci regala, sempre ben inferiori rispetto alle promesse. Ogni capo politico, ogni eroe è anche il punto di convergenza di speranze, aspettative, delusioni e infine rancori. Ovvero di odio. Questa parabola è inevitabile. Ed effettivamente, se ci pensiamo bene, ancor oggi è così. Pensiamo a Obama: dopo le speranze eccessive la disillusione, altrettanto eccessiva. In un tempo antichissimo, la promessa mancata dei politici preludeva al loro linciaggio, inizialmente spontaneo e bestiale, poi ritualizzato. In un tempo antichissimo, la promessa mancata dei politici preludeva al loro linciaggio, inizialmente spontaneo e bestiale, poi ritualizzato. E se nel momento della crisi e della disillusione il legame sociale e la solidarietà di gruppo si erano deteriorati in una diffidenza di tutti contro tutti a rischio di diventare una guerra civile, nel linciaggio del capo, spontaneo o rituale, la solidarietà si ricomponeva. In molte società tribali era previsto che il re regnasse per un periodo predeterminato, dopo il quale era ritualmente ucciso (Fornari, 2006; Girard, 1982). Questa cerimonia aveva sostituito i precedenti scoppi periodici di guerre civili, faide e vendette reciproche. In seguito, anche l’uccisione del capo andò incontro a una progressiva civilizzazione. Inizialmente un sacrificio umano sostituì quello del re in carica. Poi si passò a sacrifici animali fino ad arrivare a cerimonie di morte e resurrezione solo metaforiche. Naturalmente, nulla è superato per sempre. Eliminazioni più o meno formalizzate di capi politici sono avvenute anche dopo l’istituzione e l’estinzione dei sacrifici umani. Da Cesare a Luigi XVI fino a Gheddafi fare il capo politico è sempre un mestiere ad alto rischio. Per comandare occorre promettere, e se si promette prima o poi si delude, scatenando la reazione di chi abbiamo illuso. Si può sfuggire a questo intreccio perverso di promessa e delusione? Di idealizzazione e svalutazione? Si può sfuggire a schemi rigidi o pervasivi che prevedono sempre lo stesso tipo di relazione? In cui i comportamenti relazionali tendono a diventare ripetitivi e stereotipati? In cui l’eterna attesa di promesse meravigliose porta a un’eterna disillusione? Cosa è rimasto dell’atmosfera messianica che circondò la campagna elettorale di Barack Obama, fino ad arrivare al video che diffondeva su youtube la canzone intonata da Will.i.am dei Black Eyed Peas e ispirata dal discorso “Yes We Can”? Forse chi crede nelle promesse è anche qualcuno che promette troppo a se stesso. Forse chi crede nelle promesse è anche qualcuno che promette troppo a se stesso. Come nelle relazioni patologiche in cui il ruolo è il rovesciamento del ruolo speculare dell’altro. Come accade nel caso classico dei ruoli di abusato e abusante, descritto in alcuni disturbi di personalità, in cui persone che sono state vittime di maltrattamenti tentano di raggiungere una transitoria tranquillità rispetto al timore di essere oggetto di violenza o sopraffazione esercitando sugli altri una violenza preventiva. Oppure immaginiamo una persona, un elettore, che percepisce tendenzialmente se stesso come qualcuno cui è stata promessa una palingenesi o almeno un qualche cambiamento sostanziale nella sua vita e vede l’altro, il politico, come colui che ha promesso questa palingenesi, o questo possibile cambiamento. Forse alla base di queste aspettative redentive di molti elettori, aspettative che si rinnovano periodicamente all’emergere di nuove figure politiche, vi è una memoria dolorosa d’insoddisfazione o di esclusione. Ed ecco che la psicologia ci suggerisce che chi davvero promette un cambiamento profondo non è tanto il politico, l’aspirante eletto ma l’elettore stesso, desideroso di trovare nella politica un compenso alle sue insoddisfazioni. È quindi l’elettore stesso che ha fatto a se stesso una promessa che non è in grado di mantenere. La psicologia ci suggerisce che chi davvero promette un cambiamento profondo non è tanto il politico, l’aspirante eletto ma l’elettore stesso. Questa però suona un po’ troppo come il classico parere dello psicologo, che va a dire al paziente che egli stesso contribuisce a causare i problemi di cui soffre. E questo genera colpevolizzazione, perché è come dire al paziente: “Te la vai a cercare”, facendo sentire il paziente giudicato. Interventi del genere frequentemente generano un potenziamento dell’immagine negativa di sé, che a sua volta può generare depressione o ostilità. Lo psicologo viene così percepito come un giudice critico, dominante, ostile. Che fare, allora? Seguiamo Giancarlo Dimaggio, psicoterapista che si è occupato di come rendere le persone consapevoli dei loro schemi senza colpevolizzarle, e vediamo se la sua saggezza è applicabile a noi che cadiamo vittime di eterne promesse, elettorali e non. Dimaggio raccomanda di partire non dalla colpevolizzazione, ma dall’accesso al desiderio: «Lei desidera realizzare quello e si aspetta che gli altri reagiscano così e a causa di questo tende a cadere. La terapia tenta di darle una luce nuova nella vita». Questo già di suo dà speranza, è progettuale e genera un’attitudine positiva. Quegli stessi elettori pronti a indignarsi davanti alle promesse non mantenute, presumibilmente non voterebbero un politico che facesse solo promesse certamente realizzabili. Cosa desidera realizzare l’elettore votando? Che si realizzino i suoi sogni. Il che è buono e giusto. Occorre però che si sia coscienti di questo enorme investimento personale su una persona che, pur sembrandoci sincera e intima come Obama sapeva esserlo mentre pronunciava il suo celebre discorso, in realtà nulla sa di noi ed è costretto da noi stessi a non essere del tutto sincero, a non dirci francamente c’è poco da promettere e ancor meno da sperare e quello che si può realizzare sarà sempre molto meno di quanto atteso. Nessuno lo voterebbe. Quegli stessi elettori pronti a indignarsi davanti alle promesse non mantenute, presumibilmente non voterebbero un politico che facesse solo promesse certamente realizzabili, ovvero minimali. Che si fa allora? Ci si rassegna a questo gioco delle parti, a questa doppia menzogna? Forse sì. Però possiamo iniziare a vivere tutto questo con maggiore consapevolezza, con leggerezza più distaccata, non cadere vittime né dell’entusiasmo facile delle promesse e nemmeno della sterile saggezza di chi non sa dare fiducia negli altri.
Poche tasse, tanto lavoro: promesse e bugie elettorali. Campagna al via tra gli annunci di tutti i leader su improbabili tagli e costosissimi impegni. Quando Gobetti descriveva «un popolo di dannunziani», scrive Gian Antonio Stella il 7 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". «Imbianchiamo la casa a tutti! Gratis!». Nel ventaglio di promesse via via offerte agli elettori manca ancora solo il tinteggiatore con vernice e pennello. L’ultimo, col ritorno del pesce spada sotto costa, degli impegni presi da Cetto La Qualunque nel comizio tivù dove assicura l’abolizione delle bollette del gas e della luce. «E se non siete contenti aboliremo la tassa sulla spazzatura, il bollo auto e l’assicurazione». Pausa. «Applauso, va!». Nonostante una storia di propagande elettorali lunga lunga, che vide un «Partito della bistecca» garantire «l’abolizione totale delle tasse» e «svaghi, divertimenti, poco lavoro e molto guadagno per tutti», fatichiamo a ricordare infatti una campagna elettorale così gonfia di promesse. Come se l’Italia, dopo la crisi, non stesse oggi appena appena cominciando a respirare. L’appello di buon senso di Sergio Mattarella, che ha esortato a Capodanno al «dovere di proposte adeguate, realistiche e concrete, fortemente richiesto dalla dimensione dei problemi», pare non aver inciso troppo. E così il richiamo ai «ragazzi del 1899» per ammonire i giovani d’oggi su come pace, libertà, democrazia, diritti non siano «acquisiti una volta per tutte». Parole che al politologo Paolo Feltrin han dato i brividi perché «la drammaticità del momento attuale» gli ricorda «la generazione che visse la confusione fra il 1919 e il 1922, in cui la delegittimazione fra le classi dirigenti provocò lo sbandamento del Paese».
Certo è che anche l’impegno preso ieri da Pietro Grasso di «abolire le tasse universitarie» con una spesa di «1,6 miliardi, recuperando un decimo delle risorse spese dall’Italia per finanziare attività dannose all’ambiente», per quanto sia vero che occorre investire in cultura e che in Germania e altri Paesi d’Europa gli studenti pagano meno o nulla, è apparso come l’ultimo spunto di un «promettificio» fuori controllo. Dove ogni venditore del pacco proprio, come ha scritto Enrico Marro, fa «proposte costosissime in termini di minor gettito per le casse dello Stato» assicurando ovviamente «che ci sarebbero entrate alternative». Tutte da verificare.
Ed ecco Matteo Renzi che, scommettendo su «un altro Jobs act» e nuove decontribuzioni per passare «da 23 a 24 milioni di occupati», vuol cambiar tutto sul canone Rai e dopo averlo messo nella bolletta elettrica («pagare meno, pagare tutti») promette di cancellarlo in nome d’una riforma dell’azienda che darebbe (pare) fastidio a Mediaset ma è appesa a mille incertezze parlamentari. E Luigi Di Maio che sventola l’impegno del M5S a «ridurre il rapporto debito/Pil di 40 punti percentuali nel corso di due legislature» (quaranta punti!) con una «razionalizzazione della spesa» ma «senza ovviamente toccare quella sociale necessaria», e allo stesso tempo vuole distribuire un «reddito di cittadinanza» di 780 euro al mese recuperando i 15 miliardi necessari con tasse su gioco d’azzardo, banche e petrolieri e tagli ad auto blu, enti inutili, pensioni d’oro e vitalizi. Settecentottanta? «Noi di più!», risponde Silvio Berlusconi: a chi sta sotto la soglia di povertà andrà un «reddito di dignità» di «mille euro al mese, da aumentare per ciascun figlio a carico». Non bastasse, in un messaggio video «da coetaneo» al congresso nazionale di Federanziani, ha garantito la nascita di un «ministero della terza età». Primo obiettivo: «È moralmente doveroso aumentare i minimi pensionistici a 1.000 euro al mese per tredici mensilità». E «vale anche per le nostre mamme che han lavorato tutti i giorni a casa».
Matteo Salvini no, a differenza anche di Renzi che vorrebbe aumentare lo stanziamento di due miliardi per il «reddito di inclusione» a due milioni di persone in difficoltà, il leader leghista si dice convinto che «gli italiani chiedono lavoro non soldi a destra o a manca». Promette invece: 1) «Una riforma del sistema fiscale, introducendo una Flat Tax al 15% per famiglie e imprese» (otto punti meno di quanto offre l’ex Cavaliere) con un costo paventato di decine di miliardi. 2) «Paga minima oraria di 9 euro». 3) «Riposo domenicale garantito almeno due domeniche al mese». 4) Riforma della scuola (con una sanatoria per «le maestre d’asilo o elementari, molte delle quali rischiano di essere cancellate dalle graduatorie dopo anni di precariato») e abolizione dell’obbligo di laurea per gran parte delle professioni.
Non manca la soppressione «non negoziabile» della legge Fornero. Luigi Di Maio la propone «graduale, in cinque anni», perché intimorito forse dagli allarmi della Ragioneria generale sul fatto che cancellare la Fornero significa rinunciare a circa 350 miliardi di risparmi messi in conto fino al 2060? Risposta salviniana: «Quali 5 anni, in 5 mesi!» Immaginiamo Giorgio Gaber: «Avanti, avanti, avanti, si può spingere di più!». Per andar dove poi? Perché questo è uno dei paradossi: mentre i sondaggi continuano a premiare, perfino al di là delle fazioni e degli schemi, la compostezza e la sobrietà di uno come Paolo Gentiloni, le incessanti scommesse al rialzo (anche su questioni serie che meriterebbero un impegno serio e comune) stanno drogando la campagna elettorale oltre ogni limite. Un secolo fa andò a finire male. Pochi anni dopo, ne «La rivoluzione liberale», Piero Gobetti scriveva che il nuovo regime fascista era «una catastrofe, un’indicazione d’infanzia decisiva» perché segnava «il trionfo della facilità, della fiducia, dell’ottimismo, dell’entusiasmo». E concludeva amaro con parole che oggi non autorizzano certo a tracciare paralleli tra le muscolari promesse di allora e quelle ammiccanti di oggi. Ma dovrebbero far riflettere: «A un popolo di dannunziani non si può chiedere spirito di sacrificio».
Conta solo essere brillanti e la politica diventa show, risponde Luciano Fontana l'8 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera".
Caro direttore, una volta, quando si pensava alla politica, veniva in mente un mondo magari grigio, ma serio. I personaggi che lo popolavano, responsabili dei destini di milioni di esseri umani, potevano avere caratteristiche diverse gli uni dagli altri, ma tutti tenevano a un comportamento equilibrato che li facesse sembrare affidabili e onesti. Una volta eravamo, o almeno lo sembrava, governati da «persone serie». Adesso non è più così: oramai il mondo politico è contiguo a quello dello spettacolo al punto che non si scorgono più i margini che li differenziano: vedere lo sketch di un comico o il comizio di certi politici è quasi la stessa cosa. Mauro Chiostri
Caro signor Chiostri, Purtroppo per tanti personaggi che calcano la scena politica le cose stanno come lei le descrive. Qualche volta, vedi ad esempio il caso del senatore Antonio Razzi, si diventa famosi proprio per la perfetta identificazione tra il politico e l’imitazione che ne fa un comico come Crozza. La serietà perduta è uno dei punti. Ma potremmo aggiungere che tutto il processo di selezione della classe dirigente sta diventando imbarazzante: l’incompetenza è diventata quasi un valore, così come non conta più nulla il percorso che portava passo dopo passo a salire dalle esperienze amministrative locali agli incarichi nazionali o in Parlamento. Si è sempre alla ricerca del successo immediato, conta più essere brillanti su Twitter, sapere rispondere in maniera fulminante in tv mettendo in difficoltà l’avversario piuttosto che la conoscenza dei problemi, l’esperienza e la capacità di proporre soluzioni che guardino non solo al giorno per giorno. D’altra parte noi italiani siamo in buona compagnia. La politica internazionale ormai si fa a colpi di tweet, con una gara tra Trump e e il nordcoreano Kim a chi ha il bottone nucleare più grosso. E il presidente americano può affermare, facendo ridere tutti, che lui non è intelligente ma un genio. La logica del numero dei clic, della quantità di like, dello share televisivo sembra aver afferrato la classe dirigente trasformandola in showman. Tutto molto divertente. Ma voi vi affidereste a un medico la cui dote è la capacità di fare battute? Penso proprio di no.
Silvio Berlusconi. Data di nascita: 29 settembre 1936 (età 80), Milano. Altezza: 1,65 m. Partner: Francesca Pascale (dal 2012). Patrimonio netto: 5,6 miliardi USD (2016) Forbes. Figli: Barbara Berlusconi, Pier Silvio Berlusconi, Marina Berlusconi, Luigi Berlusconi, Eleonora Berlusconi. Coniuge: Veronica Lario (s. 1990–2014), Carla Elvira Lucia Dall'Oglio (s. 1965–1985).
Berlusconi su Netflix. Sorprese nel documentario ispirato alla biografia scritta da Alan Friedman. Il documentario diretto da Antogiulio Panizzi e prodotto dalla casa di produzione dei figli di Sergio Leone racconta Silvio Berlusconi, luci, ombre e molte scuse. Online su Netflix, scrive lunedì 21 novembre 2016 “Art Tribune”. La storia di un uomo che ha cambiato l’Italia, piaccia non piaccia, torna in auge in questi giorni. Non solo perché il Guardian ha paragonato Donald Trump a Silvio Berlusconi, trovando numerose analogie tra il nuovo Presidente degli Stati Uniti e l’ex leader italiano di Arcore: è di recentissima uscita, infatti, l’articolo della corrispondente Stephanie Kirchgaessner che mette a confronto i due. Li definisce “due showmen che si sono scagliati contro gli immigrati, hanno deriso le donne, preso di mira la libertà di stampa, sono fatti della stessa stoffa. Poche persone forse capiranno la costernazione dei liberali americani nei prossimi anni, come gli italiani”. Ma in questi giorni si ritorna a parlare di Silvio anche perché Netflix ha appena lanciato il film documentario My Way. Berlusconi in his own words, un gioiellino diretto da Antongiulio Panizzi e prodotto dalla Leone Film Group, della famiglia Sergio Leone, basato sul racconto, sul libro, che ne fa il giornalista americano Alan Friedman, in Italia molto noto per il programma cofirmato con Minoli sullo scorcio degli anni ’90, Maastricht – Italia. E che peraltro lo scorso settembre ha lasciato la Rizzoli, proprio di Silvio, per andare alla Newton Compton. Il bellissimo documentario mette in scena la figura del Cavaliere a tutto tondo, la storia dell’imprenditore, dell’uomo politico, le origini, le luci e le tante ombre. Ma soprattutto ci racconta una figura ormai del passato, quasi gli concedesse l’onore delle armi, tuttavia derubricandolo ad un tempo della storia ormai archiviato. Non mancano i motti di spirito, di cui Berlusconi fu un vero campione, il suo rapporto con il Milan e con il pubblico, le excusatio più volte “petite”, gli inganni, mentre poche sono le autocritiche. È interessante, ad esempio, quanto scrive su La Stampa Jacopo Jacoboni: “Berlusconi racconta per esempio di esser stato fatto fuori da un golpe ordito da potenze straniere, complice la crisi finanziaria in Europa del 2011, quando, al culmine della crisi degli spread nell’area dell’euro, i leader di Francia e Germania provarono a convincere il presidente Barack Obama ad aiutarli a buttar giù l’allora premier italiano. José Luis Zapatero – in un’intervista alla Stampa – in qualche modo confermò che, stavolta, il Grande Mentitore non l’aveva raccontata del tutto sbagliata. Sarà la storia, a giudicarlo; di certo con la sua uscita di scena, più che un golpe si compiva il passaggio dall’età della propaganda verticale delle tv e delle veline a quella della black propaganda virale. È questo, in fondo, il motivo per cui Berlusconi non è stato Trump”. E non è più il Caimano.
Intrighi di potere, tradimenti, lusso sfrenato, scandali. La vita di Silvio Berlusconi, politico, editorialista, gotha della comunicazione, è un caleidoscopio di esperienze e aneddoti, scrive Salvatore Giannavola il 23 novembre 2016. Una biografia ricca e affascinante che metterebbe in difficoltà le doti creative di qualsiasi sceneggiatore. My Way, il documentario scritto da Alan Friedman disponibile dal 21 Novembre su Netflix, vi porta nel cuore di Villa San Martino. For many years, many journalists have asked me to tell my life story. I have always refused. I agreed to cooperate with Alan because I trust him. My way inizia così, con l’inglese claudicante del Cav che si presenta al pubblico di Netflix. È la prima volta che Berlusconi apre le porte – meglio dire i sontuosi cancelli – di villa San Martino ad Arcore, provincia di Monza e Brianza. Una scenografia perfetta che ricorda molto gli scorci e le vedute suggestive viste nel recente The Young Pope di Paolo Sorrentino. My Way: The Rise and Fall of Silvio Berlusconi, distribuito dalla Leone Film Group e realizzato da Alan Friedman, ex corrispondente del Financial Times ed editorialista del Corriere della Sera, è un documentario tratto dalla biografia best seller di Silvio Berlusconi, scritto proprio dal giornalista statunitense. Alan Friedman ricopre un ruolo cruciale in My Way. La sua neutralità apparente è linfa vitale per questo documentario, perchè ci offre una visione chiara della figura di Berlusconi, scevra di faziosità offuscanti, diretta e cristallina. Un giornalista liquido e imprevedibile che regge senza affanni il peso comunicazionale del Cavaliere. Compagnone freddo, spietato, accondiscendente, ficcante, velatamente sarcastico, il ritmo incalzante e la minuziosità contenutistica delle domande di Alan Friedman che non lasciano scampo a Berlusconi che perplesso e infastidito lancia occhiate allo staff onnipresente e onnisciente, una presenza costante durante tutto il corso delle riprese. Berlusconi giovane cabarettista sulle navi da crociera, Berlusconi chansonniere a Parigi, Berlusconi universitario, Berlusconi giovane immobiliarista di successo coadiuvato dalle conoscenze poco cristalline del padre, Berlusconi visionario del settore delle comunicazioni, le reti locali, Fininvest, le silhouette procaci del Drive In, Berlusconi e i depositi off shore, Berlusconi e Craxi, Berlusconi presidente trionfante dell’AC Milan, Berlusconi fondatore di Forza Italia e il Presidente del Consiglio più longevo nella storia della Repubblica Italiana, Berlusconi sedotto, tradito e burlato dalla Merkel e da Sarkozy, Berlusconi amico dei despoti dell’era moderna (Putin e Gheddafi su tutti), Berlusconi e il bunga bunga, Berlusconi e la mafia, connubio infondato secondo l’ex-premier, frutto di illazioni dettate dall’invidia, a suo avviso carattere distintivo del popolo italico. Sapevate che lo stalliere di Villa San Martino era Vittorio Mangano, killer spietato di Cosa Nostra e poi factotum della dimora del Cavaliere? Un particolare messo in evidenza da Alan Friedman checon le sue domande mette a repentaglio la collaudata arte oratoria dell’ex premier, che ancora una volta, smarrito e spiazzato, rivolge lo sguardo ai suoi collaboratori per capire se e come rispondere alle affermazioni del giornalista statunitense. Interessante il montaggio di My Way, che nonostante l’ostruzionismo perpetrato dallo staff di Berlusconi, riesce e catturare fuori onda singolari e inquadrature poco politically correct: la telecamera che inquadra più volte le scarpe ortopediche rialzate del Cav, la Pascale che assiste stizzita e infastidita alla descrizione delle pratiche goderecce note al mondo come bunga bunga, il quadro di Mussolini custodito in una delle otto stanze dove il premier stipa le opere d’arte che negli anni gli sono state donate dai suoi sostenitori, quadri, sculture, gigantografie, ritratti di famiglia. Villa San Martino ospita anche una collezione d’arte personale che annovera un Tiziano, un Michelangelo e alcuni monoliti dell’epoca romana estirpati dal suolo libico e premurosamente regalatigli da Gheddafi. Alan Friedman, intervista altri esponenti della politica internazionale come: Vladimir Putin che tesse le lodi di Berlusconi, l’ex primo ministro l’ex presidente della Commissione europea José Manuel Barroso che svela i retroscena della cacciata di Berlusconi e l’ex premier spagnolo Zapatero che riserva parole dure nei confronti della Merkel e di Sarkozy, supponenti e poco rispettosi della situazione dell’Italia e della Spagna in occasione del G20 tenutosi a Cannes che precedette la destituzione di Berlusconi e quindi il passaggio dei poteri del Parlamento a Mario Monti. Il documentario contiene anche nuove rivelazioni sul cruciale summit sulla Libia tenutosi nel marzo del 2011 a Parigi, quando il presidente francese Nicolas Sarkozy convinse la segretaria di Stato Hillary Clinton a bombardare le truppe di Gheddafi e tentare il cambio di regime, nonostante non ci fosse alcun piano B per il periodo successivo. My Way va visto, soprattutto dalle generazioni più giovani di questo paese, perchè dà una visione chiara ed esaustiva della storia italiana dell’ultimo trentennio.
Cosa l'America di Trump può apprendere dall'Italia di Berlusconi. New York, 16 novembre 2016 (Agenzia Nova) - Anche l'editorialista del "Corriere della Sera", Beppe Severgnini, si cimenta sulle pagine del "New York Times" in un raffronto tra le figure del presidente eletto degli Stati Uniti, Donald Trump, e dell'ex premier italiano Silvio Berlusconi. Severgnini apre esternando il suo malumore per la vittoria di Trump, un presidente "inadeguato, probabilmente imbarazzante, e quantomeno imprevedibile". L'Italia, secondo il Pew Research Center, è il paese europeo più affascinato dalla figura del magnate newyorkese: una fascinazione che Severgnini associa a presunte nostalgie per "un autoritarismo in stile mussoliniano", per "un leader virile che abbia sempre ragione", e alla "smania di brandire il bastone - verbalmente - contro chiunque osi criticare il capo". In altre parole, afferma l'editorialista del "Corriere della Sera", "in Italia il Berlusconismo è vivo e vegeto, anche quando si esprime nell'ammirazione per un leader forte straniero". In un certo senso, sostiene Severgnini, "ora tocca agli Usa essere lo zimbello dell'Europa". In realtà, aggiunge, il paragone tra Trump e Berlusconi è ingeneroso. "Affiancato a Trump, il nostro ex premier fa la figura di un Winston Churchill", nonostante le loro "numerose somiglianze": l'ammirazione per il presidente russo Vladimir Putin; il mascherare la loro mancanza di esperienza nelle istituzioni "con la rivendicazione di presunte doti politiche innate". La loro realizzazione che non è importante tanto l'operato politico, quanto "l'immagine che di sé si trasmette all'elettorato". I cittadini statunitensi che non hanno votato per Trump, afferma Severgnini, dovrebbero guardare con preoccupazione alla parabola politica di Berlusconi, che "nonostante tre mandati alla guida del paese per un totale di nove anni, tra il 1994 e il 2011 (...) non ha mai voluto rinunciare ai tratti più preoccupanti della sua personalità emersi nelle campagne elettorali. Ha rifiutato di risolvere i suoi conflitti d'interessi, ed ha approvato leggi che hanno favorito i suoi affari". La lezione più importante che gli elettori statunitensi dovrebbero apprendere dai trascorsi politici italiani, però, è quella "di non concedere al presidente il beneficio del dubbio". Tutto sommato, conclude Severgnini, dall'Italia può giungere anche "un messaggio di speranza: noi siamo sopravvissuti a Berlusconi, e gli Stati Uniti sopravvivranno a Trump" che, gli riconosce il giornalista, "è il leader eletto di una democrazia consolidata e di un paese amico".
I grillini vogliono uccidere Berlusconi. Il M5S: legge per impedire all'ex premier di guidare Forza Italia, scrive Alessandro Sallusti, Sabato 30/09/2017, su "Il Giornale". Il partito di Grillo-Di Maio ha depositato un emendamento alla legge elettorale per togliere qualsiasi agibilità politica a Silvio Berlusconi, fosse solo quella di essere il capo di Forza Italia. Fino a ieri i grillini erano solo degli arroganti buffoni, da oggi sono degli arroganti buffoni impauriti. Hanno paura che il centrodestra a guida Berlusconi, come al momento certificano tutti i sondaggi, possa impedire loro di conquistare il potere per via elettorale. E quindi sfoderano il peggiore giustizialismo, andando financo oltre lo scempio che abbiamo visto negli ultimi vent'anni da parte della sinistra. Salvo poi tenere al loro posto i loro sindaci, amministratori e candidati indagati e inquisiti non appena messi alla prova. Il tentativo, almeno mi auguro, non ha nessuna probabilità di andare in porto ma la dice lunga su che cosa ci aspetterebbe nell'ipotesi che i seguaci della setta grillina riuscissero a controllare il Paese. I nemici - è la loro filosofia - non vanno battuti nelle urne ma eliminati per via giudiziaria o legislativa. Oggi tocca a Berlusconi, domani potrebbe capitare a chiunque non sia allineato alle loro deliranti posizioni. Il partito della presunta onestà si è ben presto trasformato nel partito dei certamente farabutti, nonostante la faccia tranquillizzante di Di Maio. Già c'è da chiedersi come sia possibile escludere dalla competizione elettorale il leader di un grande partito, ma volere impedire allo stesso di essere leader va contro i basilari diritti naturali. Nessuno si è posto il problema di impedire a Grillo, condannato in via definitiva addirittura per omicidio, di fondare, dirigere e guidare il suo partito. Il capo di Di Maio è un assassino, su questo non ci piove (e non ha mai smentito l'accusa di essere stato un grande evasore fiscale), la sua sindaca di Roma è sotto inchiesta per falso e truffa, quella di Torino per incapacità, lui per diffamazione, altri suoi sodali per reati vari. Più che un partito sono una combriccola di sciagurati immorali che vorrebbero alterare le regole della democrazia, così come hanno fatto e fanno al loro interno. Ci hanno già provato in tanti, in questi anni, e tutti hanno poi preso una musata nelle urne. Sono certo, vedrete, che anche questa volta finirà così.
Nuovo golpetto di Napolitano. Napolitano e Grillo sono i nuovi "il gatto e la volpe": falsari che alla fine rimangono vittime dei loro imbrogli, scrive Alessandro Sallusti, Mercoledì 11/10/2017, su "Il Giornale". Approvare una legge elettorale ponendo il voto di fiducia non è mai cosa bella, ma chi oggi nella sinistra strepita ha la memoria corta. Gli ultimi governi, tutti di sinistra, proprio perché privi di una solida maggioranza in quanto nominati e non eletti, hanno posto la fiducia praticamente su tutto, dalle riforme (compresa quella costituzionale) alle nozze gay, senza contare che anche l'ultima legge elettorale passò - Renzi regnante - con lo stesso metodo (del resto, solo in Italia si cambia il modo di votare con la stessa disinvoltura e frequenza con cui ci si cambia d'abito). E ogni «fiducia» è stata benedetta dal capo dello Stato, compreso quel Giorgio Napolitano che oggi, con una prassi assolutamente anomala, urla al colpo di Stato e invita il suo successore Mattarella a intervenire per «ripristinare la democrazia». Premesso che oggi Napolitano è solo un vecchio e incattivito pensionato d'oro della politica, per cui il suo pensiero non vale più del mio, e che sotto il suo regno la democrazia è stata sostanzialmente sospesa e sostituita da intrighi di palazzo, è curioso rilevare la coincidenza di toni e argomenti tra il vecchio comunista e i giovani grillini, che sul tema invocano e convocano la piazza: questa legge elettorale non s'ha da fare. Meglio sarebbe dire: non s'ha da fare nessuna legge elettorale, comunque non una che dia a Silvio Berlusconi e al centrodestra - e qui sta il comune intento di Napolitano e Grillo - anche una sola possibilità di vincere le elezioni. Nelle prossime ore e nei prossimi giorni assisteremo a di tutto e di più. Ma la vera questione è una sola: nonostante la condanna (e sappiamo come andò), l'espulsione dal Senato (retrodatata), l'umiliazione dei servizi sociali e un quasi infarto Silvio Berlusconi e il suo centrodestra non solo sono ancora in pista, ma sono dati per possibili vincitori. Questo, ai loro occhi e per motivi diversi, è semplicemente insopportabile e si apprestano quindi a riaprire la guerra civile politica e mediatica che ben conosciamo e che pensavamo, e speravamo, archiviata. Non solo a Berlusconi va impedito con ogni mezzo di candidarsi, gli deve essere vietato anche il semplice apparire in politica attraverso l'introduzione di norme e leggi - da loro ribadite anche ieri - che definire illiberali è un eufemismo. Napolitano e Grillo sono i nuovi «il gatto e la volpe» di Collodi: falsari che alla fine rimangono vittime dei loro imbrogli, purtroppo non prima di aver combinato un mucchio di guai.
Tutte le tappe che nel 2011 portarono al golpe anti Cav. Dallo spread al ruolo del Colle: ecco cosa accadde nel 2011, scrive Sabato 14/10/2017 "Il Giornale". Dopo l'attacco giudiziario sul caso Ruby, nel 2011 si scatena contro il governo Berlusconi l'aggressione economica. Ecco le tappe, a partire dal secondo trimestre.
1 - Viene attribuita al premier Berlusconi una frase volgare sulla cancelliera tedesca Angela Merkel. È un falso. Ma fa il giro d'Europa. E irrita la Merkel.
2 - Il 19 marzo la Francia di Sarkozy attacca la Libia. Berlusconi è contrario. Ma viene «costretto» da Napolitano a concedere ai francesi l'uso delle basi italiane.
3 - Montano le pressioni internazionali. Ma il Cavaliere a giugno ottiene la nomina di Mario Draghi a presidente della Bce.
4 - La Bundesbank intima alle banche tedesche di vendere sul mercato secondario tutti i titoli del debito pubblico italiano. La quotazione si riduce del 30%. Lo spread vola.
5 - Circola la falsa notizia che l'Italia sia sull'orlo del baratro a causa dello spread.
6 - A giugno c'è un intenso scambio di telefonate tra Napolitano e la Merkel. Il capo dello Stato incontra segretamente Mario Monti e Corrado Passera, che elabora un programma per l'economia.
7 - Monti fa le sue personali «consultazioni» e incontra Romano Prodi e Carlo De Benedetti, editore del gruppo Espresso in causa con Fininvest. De Benedetti non mette i suoi giornali al corrente del progetto di Napolitano.
8 - Il 5 agosto la Bce invia una lettera al governo chiedendo di rafforzare le «riforme strutturali» e di anticipare di un anno, al 2013, il pareggio di bilancio.
9 - A settembre i derivati sul debito sovrano raggiungono il picco di valore (504 contro 171 di giugno). Barroso incontra Berlusconi e mette l'Italia sotto accusa.
10 - Ai primi di ottobre Moody's declassa il debito pubblico italiano da AA2 ad A2. Giudizi negativi anche da Fitch.
11 - Il 23 ottobre, a margine del vertice dei capi di Stato, la Merkel e Sarkozy irridono pubblicamente Berlusconi.
12 - Il 26 ottobre il governo italiano manda una lettera all'Ue con l'agenda degli impegni per le riforme.
13 - Gli impegni per le riforme confluiscono in un decreto legge, Berlusconi assicura all'Europa che sarà approvato subito.
14 - Tremonti comunica a Berlusconi che Napolitano non firmerà il decreto legge.
15 - Il 3 novembre Berlusconi si trova a mani vuote al G20 di Cannes. All'Italia viene offerto un finanziamento del Fmi da 30 a 50 miliardi. Berlusconi dice no.
16 - La proposta di prestito sale a 100 miliardi. Berlusconi ribadisce il «no».
17 - Otto parlamentari lasciano il Pdl «per senso di responsabilità».
18 - Il 9 novembre Napolitano nomina Monti senatore a vita. Si vota alla Camera il rendiconto generale per l'esercizio finanziario 2010, che viene approvato con soli due voti di maggioranza.
19 - Napolitano convoca Berlusconi e gli intima di dimettersi per fare un governo tecnico.
20 - Il 12 novembre Berlusconi si dimette.
"Non ho mai tramato contro Berlusconi. Ora vi svelo la verità". L'ex ministro Tremonti ripercorre i giorni della caduta del governo Berlusconi: "Tre prove mi scagionano...", scrive Gian Maria De Francesco, Sabato 14/10/2017, su "Il Giornale". «Lo scoop mi ha fatto molto piacere perché mi permette per la prima volta di fare chiarezza su questo caso. Si parla di due ministri traditori del governo Berlusconi. Ammesso che uno fossi io, non sarei il solo colpevole, ma dimostrerò che sono assolutamente estraneo». Il senatore Giulio Tremonti, ministro dell'Economia dell'epoca, sottolinea al Giornale come le manovre e i dossieraggi contro Silvio Berlusconi dimostrino in modo assoluto come all'interno di quell'esecutivo qualcuno, non Tremonti, complottasse contro il governo.
Senatore, non parlò mai di quei fatti con l'ambasciata?
«Un vero ministro del Tesoro utilizza le proprie linee telefoniche per parlare direttamente con il segretario al Tesoro Usa o con il Fondo monetario internazionale, nella fattispecie con Geithner e Lagarde con cui avevo frequenti conversazioni. Chi usa questo canale non ha bisogno di passare, con tutto il rispetto, dal canale secondario dell'ambasciata».
Lei, dunque, non mise in dubbio i contenuti del decreto sulla manovra correttiva 2011?
«Chiunque conosca minimamente l'etica sa che non si può dire una cosa e farne un'altra. Se firmi un decreto e lo sostieni in tutte le sedi, non vai in separata sede a parlarne male, si perde automaticamente credibilità. Chi ha fatto questo, pur essendo ministro, non temeva l'accusa di contraddizione e di slealtà. Poi c'è una terza prova semantica...»
Quale?
«Le affermazioni il quadro macroeconomico è troppo ottimistico, la spirale recessiva e la manovra è troppo sbilanciata dal lato delle entrate sono lessico da economisti. Ed è un lessico che non mi appartiene e non mi appassiona dunque l'impronta lessicale porta da altre parti».
Come si dipanò allora il complotto, secondo lei?
«Nel mio ultimo libro Rinascimento c'è la cronologia dei fatti. Il 31 maggio 2011 nelle ultime Considerazioni finali di Draghi da governatore della Banca d'Italia si lodava la prudente gestione della spesa, le correzioni inferiori a quelle richieste agli altri Paesi. Il 21 luglio la Commissione Ue approvò le misure di bilancio. Dunque sono stati tre anni di gestione prudente perché il governo, del quale sono onorato di aver fatto parte, è stato sostenuto in Parlamento dal presidente del Consiglio».
Lei come si adoperò?
«Gestire il terzo debito pubblico del mondo senza essere la terza economia del mondo nella crisi più grave del secolo è un'esperienza che ti prova duramente e che richiede grande forza. Basta leggere il libro del 2014 dell'ex premier spagnolo Zapatero, El dilema, nel quale si sottolinea come nel vertice di Cannes del 2011 Obama prese le difese dell'Italia impedendo che Merkel e Sarkozy la commissariassero. Sono parole di grande apprezzamento, poi per inciso si riconosce che dopo che Tremonti parlò con Geithner Obama disse: Silvio is right».
Perché fu assente al voto sul rendiconto 2010 dove il governo Berlusconi perse la maggioranza?
«Il voto importante c'era già stato sul bilancio, non ho mai votato il rendiconto, è un adempimento poco rilevante. Ero al lavoro al ministero ma quando mi avvertirono dell'uscita dalla maggioranza di un gruppo di parlamentari mi precipitai alla Camera. Mentre ero in Piazza Montecitorio mi chiamò la batteria del Viminale per conto del Quirinale, i tabulati sono a disposizione di chiunque ma anche la memoria del mio telefonino. Mi passarono il presidente Napolitano che era con i presidenti di Camera e Senato che si lamentavano per i tagli agli organi costituzionali. Chiusa la telefonata, entrai in Aula nel momento in cui si chiuse la votazione. Se avessi voluto complottare, quanto meno non mi sarei fatto vedere.
Ma c'era anche Bossi?
«Se c'è uno che è stato sempre fedele e non ha mai complottato, è stato Umberto Bossi, alleato leale di Berlusconi. Era alla buvette e avrebbe votato se avesse saputo».
Si ipotizzò un governo Tremonti con Grilli al Tesoro e Milanese ai Servizi.
«Per quanto il presidente Napolitano fosse spregiudicatamente attivo, dubito che avrebbe proposto quei nomi».
Ma il complotto era interno o esterno?
«Il complotto inizia con la lettera della Bce, preparai in sette giorni il decreto legge che anticipava il pareggio di bilancio. Il Financial times lo definì perfect. Se avessi voluto mandare a fondo la nave, avrei affidato l'attività al gruppo dei volenterosi, traditori compresi, che con gli emendamenti di maggioranza ridussero la forza di quel decreto non comprendendo la drammaticità del momento».
Perché il decreto sviluppo non fu presentato al vertice di Cannes?
«Lo bocciò Napolitano perché troppo articolato e spezzettato e dunque oggetto non possibile di un decreto. La stessa autorità ha cambiato giurisprudenza con i governi successivi. Sarebbe stato inserito con un emendamento in un decreto e convertito entro pochi giorni. Anche se il decreto fosse passato, il plotone di esecuzione era già pronto».
Berlusconi e le uscite razziste, scrive l'11 ottobre 2016 "Lettera 43". «Una che va con un negro mi fa schifo», disse B riferito a Fico e Balotelli. Ma non è stato un caso isolato. «Che poi, te lo dico, a me una che va con un negro mi fa schifo». No, non è l'ennesimo video rubato di Donald Trump. Arcore, Villa San Martino. Silvio Berlusconi sta parlando amabilmente nel suo salotto con Marysthelle Polanco e altre due ragazze della relazione tra Roberta Fico e Mario Balotelli. «Raffaella Fico…Raffaella…», dice la showgirl domenicana al Cav che le risponde, ignorando di essere ripreso: «A me una che va con un negro mi fa schifo».
«PAPI, ANCHE IO SONO NEGRA». Polanco a quel punto fa notare al gentile e generoso ospite che in fondo anche lei proprio caucasica non è. «Papi, ma io sono negra!». «No tesoro», risponde lui sorridendo, «lascia stare, tu sei abbronzata». Con Polanco quel giorno ad Arcore c'erano anche altre due ragazze accorse per chiedere all'ex premier un posticino in televisione. Come la Fico, oppure come «quella di Sipario» o come Emilio Fede. «Devi chiamare e dire: lui non fa più il direttore, lo faccio io il direttore del Tg4», scherza Polanco che per inciso era l'olgettina che durante i dopocena eleganti raccontò di essersi travestita anche da Ilda Boccassini.
L'INCHIESTA RUBY TER. Il video di 27 minuti, il cui contenuto è stato reso pubblico da Giustiziami, è stato depositato agli avvocati dalla Procura di Milano e proviene dalla rogatoria Svizzera condotta nell’ambito dell’inchiesta Ruby ter. «Abbronzato, bello e giovane» per il Cav era pure Barack Obama. Una dichiarazione del 2008 che fece scoppiare una bufera. Non è stato però l'unico scivolone a sfondo razzista di Berlusconi.
OSSESSIONE BALOTELLI. Il 21 febbraio scorso, festeggiando a Milanello i suoi 30 anni di Milan, era tornato su Balotelli «che è italiano, ma ha preso un po' troppo sole». Quella del calciatore bresciano pare essere una ossessione di famiglia visto che a febbraio 2013 a cadere in fallo era stato pure Paolo. «E adesso», chiuse un suo intervento durante la campagna elettorale il fratello dell'ex premier, «andiamo a vedere come se la cava il negretto di famiglia, la testa calda». Il meglio di sé B. però lo diede nel giugno 2009.
«MILANO? UNA CITTÀ AFRICANA». «Non posso accettare che quando circoliamo nelle nostre città ci sembra di essere, e mi è capitato nel centro di Milano, in una città africana e non in una città europea per il numero di stranieri che ci sono». Città africana nella quale però una giovane marocchina fermata in questura venne fatta rimettere in libertà su pressione di B perché «nipote di Mubarak». Karima El Mahroug forse non era al 100% africana, ma solo abbronzata.
II Mattino del 15 aprile 1995. Ieri sera l'onorevole Berlusconi a "Tempo reale" ha indirettamente offeso napoletani e meridionali usando l'aggettivo borbonico in senso spregiativo incorrendo in uno dei più squallidi luoghi comuni che si perpetuano da tanto tempo. Rispondendo ad un articolo comparso sulla Voce molti mesi fa su questo giornale avevo dimostrato l'infondatezza del "facite ammuina", un falso decreto che facendo bella mostra di sé in tanti uffici e in tante case settentrionali e non, mortifica i meridionali facendoli passare per quello che non sono stati, e noto con amarezza che per ridare alla nostra gente la dignità che gli spetta non basteranno cent'anni. Il lavoro scientifico di denigrazione e di cancellazione della memoria operato per più di un secolo è proprio difficile da smontare. Quando sostengo che noi meridionali veniamo alla luce con delle tare genetiche e siamo quindi un po' mafiosi, un po' camorristi, un po' furbetti, un po' ladruncoli, un po' lazzari non lo dico per piangermi addosso, lo dico solo perché sono i fatti che lo dimostrano. Le pubblicità con i napoletani della Findus o quella della pizza surgelata, oggetto di polemiche in questi giorni ne sono la dimostrazione. Ieri davanti a milioni di italiani Berlusconi ha usato l'aggettivo borbonico per ricordare per l'ennesima volta quel falso regolamento di marina che campeggia forse anche nei suoi uffici. Quel "facite ammuina" inventato per denigrare i napoletani, per farli passare sempre e comunque per fannulloni e imbroglioni continua a dilettare la gente soprattutto quella che ci vuole male. E' lo stesso andazzo che fa sì che un manuale Mondadori per le scuole medie riporti come immagine di Napoli capitale del Regno delle Due Sicilie un piccolo e "folkloristico vicolo dei quartieri spagnoli". Berlusconi faccia ricercare i regolamenti della marina napoletana, che fu la terza d'Europa e vedrà che di quel decreto non v'è traccia e se pensa seriamente di operare in favore di quel Sud di cui tutti si riempiono la bocca senza poi far niente o pensando di sradicare ancora una volta i suoi abitanti per farli emigrare di nuovo, magari con una ventina di milioni per incoraggiamento, vedi vicenda dei portalettere, trovi modo di fare ammenda e di rettificare. Se non lo farà saranno i meridionali e i napoletani a regolarsi di conseguenza.
Autonomia Veneto, Berlusconi: "Sì convinto, non è contro unità", scrive il 13 ottobre 2017 "TgCom". Il referendum "non ha ovviamente nulla in comune con le drammatiche notizie che ci vengono dalla Catalogna". "Se il Veneto deve tornare ad essere una delle locomotive d'Italia, ha bisogno di istituzioni che siano in grado di supportare e non ostacolare il lavoro dei veneti. Per questo voteremo 'sì' con grande convinzione al referendum di domenica 22". Lo ha detto il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, precisando che il referendum per l'autonomia "non è contro l'unità nazionale, anzi: un Veneto più libero e avanzato è un vantaggio per l'Italia intera". "Non ha ovviamente nulla in comune con le drammatiche notizie che ci vengono dalla Catalogna - prosegue Berlusconi -. Quello Veneto e' un referendum per affermare il principio di sussidiarietà, che è nel nostro programma fin dal 1994.
“I meridionali? Altro che cultura, hanno esportato solo mafia e pidocchi”, scrive il 9 dicembre 2014 Francesco Pipitone su "Vesuvio Live". In occasione delle elezioni europee dello scorso maggio Matteo Salvini e la sua Lega Nord hanno trovato il conquistato qualche decina di migliaia di voti al Sud: 43.180 nella circoscrizione meridionale, equivalente allo 0,75% dei voti; 15.235 voti in Campania, lo 0,66% del totale. Numeri piccoli, ma da non trascurare a causa dell’astensionismo e della capacità dei leghisti di far leva sugli istinti bassi delle persone, sull’intolleranza, sull’ignoranza, fattori che potrebbero determinare un aumento dei consensi per Salvini, specialmente se costui sarà messo a capo di una coalizione di “destra” sostenuta, tra gli altri, da Silvio Berlusconi, il quale ha già fatto sapere che intende elevare il segretario della Lega al rango di goleador. Grazie al potere mediatico di Berlusconi, prima che politico ed economico, ci dobbiamo insomma aspettare una rilevante presenza di Matteo Salvini in Televisione e sui giornali, dove avrà l’occasione di riferire le proprie sciocchezze atte a raggirare i poveri cristi che, pur avendo la memoria corta e capendo poco dei fatti della politica, intendono esercitare lo stesso il proprio diritto di voto: la Lega Nord incrementerà il proprio consenso al Sud, e troppo se non stiamo attenti e non creiamo un’alternativa a questi individui che da 154 anni stanno succhiando il sangue del Mezzogiorno. Non dobbiamo dimenticare i decenni di razzismo praticati dal Nord a discapito del Sud, non dobbiamo dimenticare che ci hanno chiamato e continuano a chiamarci scimmie, marocchini (in senso dispregiativo), terroni, colerosi, mafiosi, pidocchiosi, ladri, assassini, scansafatiche e tutto il resto. Milioni di persone hanno abbandonato la propria casa, la moglie e i figli per andare a produrre al Nord, il quale ha guadagnato con il lavoro degli emigrati del Sud, che vivevano peggio delle bestie in stanze piccolissime e affollate, tenuti alla larga dai signori “perbene” come fossero appestati. “Non si affitta ai meridionali”, questa è l’accoglienza dei nostri fratelli italiani. Su questi sentimenti la Lega Nord ha edificato la propria forza, per poi vedere un crollo dei consensi dopo due decenni in cui non ha fatto niente a parte rubare, e lo dimostrano gli scandali che hanno coinvolto gli uomini di punta del partito del Nord, compreso il fondatore Umberto Bossi che usava i soldi pubblici per pagare il proprio lusso. Nel video seguente potete ascoltare la registrazione di qualche telefonata degli ascoltatori all’emittente Radio Padania Libera, dove emergono il razzismo e il ribrezzo verso i “terroni”, ignoranti e nullafacenti, che hanno rubato il lavoro e esportato solamente la mafia e i pidocchi. Questa è la Lega Nord, votatela.
Berlusconi è tornato: chi sono i suoi elettori? Silvio è tornato. E i suoi sostenitori, dati in via di estinzione, sono sempre più combattivi, pronti a condizionare gli esiti del voto in arrivo. Elettori emotivamente coinvolti in un tempo in cui sono le spinte emotive a dettare l’agenda politica, scrive il 29 settembre 2017 Federico Baccomo su "Il Corriere della Sera". Berlusconi è tornato. Tre parole che per una fetta di italiani segnano l’inizio di un incubo; tre parole che per un’altra fetta suonano la sveglia da quello stesso incubo. Ma chi sono questi neoberlusconiani che, come gli orsi sull’Appennino, erano stati dati per spacciati e ora tornano, combattivi, a condizionare gli esiti elettorali? Non è facile indagare la psicologia collettiva di un gruppo tanto variopinto, che sfugge alle generalizzazioni. I neoberlusconiani sono ragazzini al primo voto e vecchi leoni da cabina; signore in tacco dodici scese a Fiuggi per rivedere il capo; silenziosi, preoccupati pensionati. Tutti delle più disparate provenienze sociali, economiche, culturali. Si può tuttavia provare ad abbozzarne un profilo, per quanto sfocato, partendo proprio dal ponte in grado di unire certe distanze altrimenti incolmabili. Lui, Silvio Berlusconi. Ineleggibile per legge, intramontabile di fatto. C’è qualcosa di straordinario nell’affetto che l’ex Cavaliere – scegliete un altro nome, se preferite – riesce a suscitare nei sostenitori. Siano essi benzinai o consulenti finanziari, letterati o nemici del congiuntivo, per tutti Berlusconi è semplicemente Silvio, con la confidenza che si accorda a uno di famiglia. Del resto, fino dalla “discesa in campo” del 1994, Berlusconi ha lavorato intensamente sull’aspetto empatico, impersonando una sorta di Zelig della politica capace di stimolare nell’elettorato una spontanea immedesimazione. Gli antichi manifesti del presidente-operaio con tanto di elmetto giallo in testa. La nuova foto bucolica dove, in periodo pasquale, il capo ottantenne allatta col biberon un agnellino chiamato Fiocco di neve. Il recentissimo scatto in autogrill. Berlusconi ha sempre praticato una narrazione emotiva di sé, calibrata sulle sensibilità del momento. Ridicolo? Kitsch? Prevedibile? Forse, ma efficace nel centrare l’obiettivo: sedurre un numero di elettori maggiore di quello che avrebbe conquistato attraverso una dottrina politica. E affascinarli in modo più profondo e duraturo, come la recente resurrezione dimostra. Non è un caso che, nella brochure autopromozionale intitolata Una storia italiana (correva il preistorico 2001), Berlusconi avesse confinato il programma elettorale in poche paginette in coda al volume, favorendo invece il racconto umano, personale, quasi intimo. I capitoli avevano titoli come Il carattere e le passioni e I piccoli segreti di Silvio. Ehi, ma lo sapete che il Cavaliere è un esperto di alberi e cespugli? Ama persino chiamarli con il nome botanico in latino! E così via. È un elettore emotivamente coinvolto, il neoberlusconiano. In questo senso, è un elettore moderno, pioniere di questa strana epoca in cui sono le spinte emotive a dettare l’agenda politica: non solo in Italia, come sappiamo. Si può discutere della bontà di questo approccio; ma è innegabile che, nell’era della comunicazione, Berlusconi abbia saputo incarnare prima di altri il mutamento che, in pochi e velocissimi anni, ha sconvolto i paradigmi. Non solo della politica, ma della nostra vita. In un mondo dominato dalle dinamiche social, dove la reputazione e l’apprezzamento non dipendono più dal grado di privacy che si riesce a mantenere, bensì dall’esposizione che si è disposti a concedere, Berlusconi non ha esitato a sovrapporre il privato al pubblico. Già ventitré anni fa; e, come imprenditore immobiliare, sportivo e televisivo, anche prima di allora. In un mondo che abolisce la complessità, Berlusconi si è presentato con slogan e simboli a presa immediata, che hanno fatto dell’enfasi il principale modulo espressivo (un esempio? “L’amore vince sempre sull’invidia e sull’odio!”). In una società che ogni giorno ci sbatte in faccia un nemico nuovo, Berlusconi è sempre stato pronto a orientare la rabbia di un vago noi contro un preciso loro (comunisti, magistrati politicizzati, no global, giornalisti, tecnocrati e così via). E ancora: in un mondo che rifiuta la political correctness come una forma di menzogna buonista, Silvio B. non si è mai preoccupato di rispettare forme ed etichette, esprimendosi a suon di corna, battute e barzellette. Berlusconi e i suoi sostenitori, piaccia o no, hanno saputo intuire la trasformazione sociale. Qualcuno protesta: «Ne sono stati la causa!». Non è così: un mutamento tanto dirompente può essere intuito, forse favorito, ma non provocato. Certo, Berlusconi e i neoberlusconiani non si sono preoccupati che la trasformazione fosse positiva o meno. Si sono comportati come coloro che, di fronte a un cielo che minaccia pioggia, si limitano a prendere l’ombrello. Che senso ha discutere col cielo? Il fenomeno, sebbene ridotto nei numeri, continua. Questa è l’impressione, a pochi mesi dalle prossime elezioni politiche. Il senso di intimità che lega i neoberlusconiani al loro capitano – dargli del tu, usarne le espressioni, imitarne i vezzi – da un lato ha cementato una fedeltà capace di far dimenticare vent’anni di promesse mancate e passi falsi. Dall’altro, ha fatto sì che, a ogni nuova sconsideratezza del leader, i seguaci reagissero con indulgenza, seguita da un’alzata di spalle: «Lo conosciamo, è fatto così!». Una frase che ricorda la strategia dei consiglieri di Donald Trump nel 2016, alla vigilia delle elezioni presidenziali. Il candidato insultava, esagerava, mentiva, parlava senza rispetto delle donne? «Let Trump be Trump», lasciate che Trump sia Trump, rispondevano. Nessuno sarebbe riuscito a rialzarsi dopo i capitomboli – politici, giudiziari, personali, familiari – di cui Berlusconi si è reso protagonista. Nessuno, tranne lui. Perché – dicono i suoi – il Silvio è il Silvio, è fatto così! Lasciatelo stare, lui almeno è una persona vera! In qualche caso sembra quasi che i neoberlusconiani provino gusto nel vedere fin dove il loro paladino è capace di spingersi. Fagliela vedere tu, Silvio! Ai politicanti di mestiere, ai radical chic, ai sinistri che non vogliono il bene dell’Italia, fagliela vedere tu! In questo lui è fatto così! non è difficile riconoscere un noi siamo fatti così! Silvio: uno di noi! L’uomo che ci assolve dai nostri peccati (sociali, fiscali, morali). Noi. Badate bene: questo non significa che i neoberlusconiani siano come Berlusconi. Ma lo capiscono. S’immedesimano. Lo ammirano. E, soprattutto, lo giustificano. È buffo: il renziano deluso si smarca; il grillino deluso si indigna; il leghista deluso si infervora; l’alfaniano deluso… oddio, qualcuno ha mai riposto fiducia politica in Alfano? Il neoberlusconiano deluso non esiste. Vacilla, ma si riprende subito. È testardo, un Don Chisciotte incapace di scorgere ombre sul viso a lungo amato, lavorato negli anni dal chirurgo estetico. È sempre pronto a sfoderare alibi in difesa del capo. I deludenti risultati politici? «L’avessero lasciato lavorare!». Evasione fiscale? «Chi non s’è mai sentito vessato?». Una vita privata anomala? «A casa sua ognuno è libero di fare come crede». Pose da giullare, intemperanze? «Una risata non ha mai fatto male a nessuno». Le condanne? «I soliti magistrati!». E avanti così, con l’ottimismo anacronistico rivolto a un eterno 1994. O all’eroico 2001. Illusi? Ingenui? Cosa sono i neoberlusconiani? Torna in mente la storiella del bunga-bunga. Non i discutibili festini e la saga giudiziaria che ne è seguita. Restiamo alla barzelletta da cui la vicenda ha preso il nome. Ricordate? La raccontava proprio Berlusconi. Tre esploratori si perdono nella giungla e vengono catturati da una tribù ostile. Il capo-tribù offre loro una scelta: «Bunga-bunga o morte?». Il primo risponde: «Non so cosa sia questo bunga-bunga, ma è pur sempre meglio che morire». La folla esulta, poi lo assale e ne abusa per ore, lasciandolo privo di sensi. Il secondo, stessa sorte. Il terzo, no. Malgrado il desiderio di vivere, sente di non avere le forze per reggere le sevizie subite dai compagni, per cui sceglie la morte. «Una scelta saggia», dice il capo-tribù alla folla ammutolita. «Che gli sia data la morte per bunga-bunga!». (Ah ah ah) Ecco, viene da pensare che il segreto del più longevo leader politico italiano stia qui. Nel disincanto che ci ha regalato la politica italiana, dove è facile persuadersi che la scelta si riduca a questo: bunga-bunga o morte per bunga-bunga. Il primo è meglio. E allora, pensa il neoberlusconiano, che bunga bunga politico sia.
Come e perché Forza Italia ha tradito la rivoluzione liberale sbandierata, scrive Raffaele Reina su "Formiche" il 21/04/2016. L’intuizione politica del direttore Michele Arnese nella sua limpida onestà intellettuale non utilizza cattiveria d’analisi né piglio maligno, a proposito di quanto sta accadendo dentro Forza Italia (parla di suicidio politico), non solo per ciò che è successo in Senato con la mozione di sfiducia, più teatrale che reale, ma anche per quanto sta accadendo nelle grandi città dove si vota per il rinnovo delle amministrazioni comunali. Arnese ha evidenziato le palesi e profonde contraddizioni del documento politico di sfiducia del gruppo di FI con l’azione svolta da Berlusconi & C. nel suo ventennio politico. Verità sacrosanta. Forza Italia a parole nasce con l’obiettivo della grande rivoluzione liberale, di “rottamare”, com’era anche nelle primarie intenzioni di Renzi, la vecchia politica: dell’inciucio, dell’accordo sottobanco, delle spartizioni cencelliane, ma poi ogni occasione è risultata utile per trattare con alleati e avversari sui temi della informazione televisiva e non, e quelli della giustizia, ottenendo indubbi vantaggi nel settore della grande informazione, dell’editoria, della distribuzione, ma anche in campo giudiziario. Non c’è stata un’azione di governo che tenesse in conto dovuto l’interesse generale, ma solo quello di alcuni sodali, amici e parenti. Dietro il paravento dello slogan della “rivoluzione liberale” Berlusconi ha concluso i più importanti affari di famiglia. Il Paese infatti, durante il suo ventennio politico, non ha visto benefici, tanto da essere allo stato quasi fanalino di coda dell’UE. Il ventennio forzitaliota sta evaporando clamorosamente e miseramente sotto i colpi della nequizia politica e della farsa. Constatare che il capo di FI è poco presente su tutto dà l’esatta sensazione, se non la certezza, che sta svolgendo il ruolo di melanconica comparsa nello spazio politico-istituzionale. Non è un risultato di certo confortante, potrà esserlo per il PD di Renzi, ma non per un vasto elettorato laico, liberale, cattolico, riformatore che non ha simpatia per l’attuale capo del governo e per il suo fumoso “partito della nazione”, e che quindi cerca un’opzione politica diversa e di opposizione al renzismo. Le sottolineature di Michele Arnese hanno l’ulteriore pregio, considerato il declino dell’altra gamba del sistema politico italiano, non si possono di certo seguire gli aleatori disegni di Beppe Grillo, di indurre ad una riflessione concreta e propositiva, per far nascere un’idea che diventi fatto politico in alternativa al PD.
Forza Italia, prove tecniche di suicidio? Scrive Michele Arnese il 20/04/2016 su "Formiche". Ma è più “berlusconiano” il Pd di Matteo Renzi o è più “de sinistra” l’attuale Forza Italia? L’interrogativo è sorto a molti ieri sentendo le parole del premier in Senato e leggendo la mozione di sfiducia presentata da Forza Italia contro il governo. Le frasi di Renzi contro la “barbarie del giustizialismo”, in difesa delle garanzie, le critiche contro l’abominio degli avvisi di garanzia come preavviso di condanna, i provvedimenti del governo orgogliosamente rivendicati per sbloccare o accelerare opere pubbliche e private (non solo Tempa Rossa) considerate strategiche, riecheggiavano il primo Silvio Berlusconi. Ma a certificare e ad accentuare la metamorfosi del Pd ci ha pensato Forza Italia, vergando una mozione di sfiducia intrisa di lessico alla Marco Travaglio, di narrazioni alla Nichi Vendola e di cospirazioni internazionali alla Giulietto Chiesa. Si esagera? Eccovi, per comodità, tre concetti chiave della mozione di sfiducia presentata da Forza Italia contro il governo Renzi. Si legge, a proposito del governo e di Renzi: “La logica dell’uomo solo al comando, il disprezzo per la democrazia, le lobbies, i poteri forti, l’occupazione militare dell’informazione”. Cioè le stesse argomentazioni usate per anni, anzi per decenni, dalla sinistra contro Berlusconi. E ancora: “L’inserimento di simili misure (emendamento pro Tempa Rossa, ndr) conferma un giudizio totalmente negativo nei confronti delle modalità procedurali del Governo, considerato che un Esecutivo che, nell’assumere decisioni e scelte, non guarda all’interesse di quasi 60 milioni di Italiani, non merita fiducia”. Non merita dunque fiducia un governo che cerca – come detto – di accelerare a sbloccare la realizzazione di infrastrutture. Parole che affossano venti anni di attività parlamentare e governativa del movimento fondato da Berlusconi. Infine, una perla degna del quotidiano il Manifesto. La mozione di Forza Italia stigmatizza il governo Renzi per – udite udite – il “sostegno opaco di poteri forti (gruppi finanziari e bancari, che controllano anche ampi settori dell’editoria) fino a diventare terminale di interessi di multinazionali in settori strategici per il nostro Paese”. Si scorgono i prodromi, più che del declino di un partito, del suicidio programmatico e ideale di Forza Italia.
E Silvio promette la “rivoluzione liberale” (oggi, non nel ‘94). Silvio Berlusconi torna in campo sbandierando il vecchio sogno della rivoluzione liberale. Non ci sarebbe nulla di male, se non fosse che a tradire lo “spirito del ’94” è stato proprio lui. Assieme al suo antireaganiano ministro dell’Economia. Privatizzazioni, liberalizzazioni, meno tasse, meno S...scrive Marco Sarti il 16 Luglio 2012 su “L’Inkiesta”. Una nuova rivoluzione liberale. Meno Stato, meno partiti, meno tasse. Silvio Berlusconi torna in pista e rilancia il sogno “americano” che diciotto anni fa caratterizzò la sua prima discesa in campo. Per riconquistare il favore degli italiani si torna allo spirito del ’94. Una scelta politicamente e mediaticamente legittima. Forse anche redditizia. Peccato che a tradire quella rivoluzione sia stato proprio il Cavaliere. Dopo tre esperienze di governo e dieci anni a Palazzo Chigi il grande progetto berlusconiano è rimasto un’ipotesi. E adesso, come se nulla fosse, l’ex premier ci riprova. Non solo slogan. Come coniugare l’abbattimento della pressione fiscale con il rigore di bilancio reso necessario dalla crisi? Per discutere le nuove strategie da presentare in campagna elettorale il Cavaliere incontra oggi il gotha del liberismo internazionale. Economisti europei e americani convocati a Lesmo per un summit a porte chiuse. Un incontro a cui sta lavorando da almeno due mesi il teorico dell’impostazione originaria di Forza Italia. L’ex ministro Antonio Martino, oggi deputato del Pdl. Stretto riserbo sugli ospiti del forum. Dovrebbero essere una settantina, tra cui alcuni premi Nobel (tra questi l’economista statunitense Gary Becker ). Sicuramente non ci sarà Giulio Tremonti. Il titolare di via XX Settembre durante i governi Berlusconi (salvo un breve parentesi imposta da Gianfranco Fini). La longa manus del Cavaliere in tema di economia e finanza. L’uomo cui, per un decennio, Berlusconi aveva affidato le chiavi dei suoi dicasteri economici, senza troppo guardare alle promesse liberali della discesa in campo. Meno tasse per tutti. Tra le campagne di comunicazione di Berlusconi questa è una delle più ricordate. Ma la rivoluzione antistatalista di Forza Italia era molto di più. «Il neonato partito si presentò alle sue prime elezioni con un programma di riforme liberali quale non si era mai visto in Europa» ricordava sul suo blog Antonio Martino. Più spazio per imprese e individualità. Magari a discapito degli accordi con i sindacati. Meno allo Stato invadente e illiberale. «Credevamo che dalla privatizzazione delle troppe attività statali si sarebbero ricavate risorse per ridurre l’immenso stock di debito pubblico e che, grazie anche alle liberalizzazioni, avrebbero dato un impulso alla crescita». Al di là della nostalgia, cosa resta oggi di quel sogno? Poco. Forse niente. Ecco perché il ritorno allo spirito del ’94 di Berlusconi assume i connotati della presa in giro. L’ennesima, dato che il progetto viene ciclicamente recuperato. Intanto la spesa pubblica continua a crescere. Solo dal 2001 al 2006 - a Palazzo Chigi c’era Silvio Berlusconi - è aumentata di quasi il 17 per cento. Così la pressione fiscale. «Se il cittadino percepisce le tasse come giuste, se gli si richiede di versare il 33 per cento, è invogliato a pagare - diceva il Cavaliere nel 2004 - Se invece gli si chiede il 50 per cento del suo reddito si sente moralmente autorizzato ad evadere». Otto anni dopo - quasi sei dei quali con il centrodestra al governo - il peso del fisco sugli italiani sta per passare dal 45,6 al 47,3 per cento (dati Eurostat). La lista delle promesse disattese e oggi riproposte è lunga. Chi ricorda gli enti inutili da abbattere? E la cancellazione delle province, pomposamente promessa durante l’ultima campagna elettorale ma resa effettiva solo dal governo Monti? Poi ci sono i capitoli delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni (non è stato proprio il Cavaliere a criticare la vendita francese di Alitalia?). I risvolti sono spesso paradossali. Tanto che le liberalizzazioni in Italia portano il nome di Pierluigi Bersani. All’epoca ministro dello Sviluppo economico, oggi leader del Partito democratico. Liberalizzazioni poco incisive, forse. Ma di centrosinistra. Stessa sorte per la riduzione dei costi della politica. Un provvedimento portato avanti dal Parlamento sotto il governo Monti. Approvato da una maggioranza di larghe intese, dato che nessuna coalizione - per prima quella berlusconiana - era mai riuscita a riformare il capitolo. Niente rivoluzione. Berlusconi e il suo colbertista e protezionista ministro dell’Economia non ci sono riusciti. D’altronde Giulio Tremonti era lo stesso che proponeva di chiudere le frontiere per proteggere il mercato italiano ed europeo dall’invasione cinese. Un progetto più che legittimo, intendiamoci. Ma certo non in linea con il sogno liberale annunciato da Silvio Berlusconi. E sì che le ampie maggioranze parlamentari del 2001 e del 2008 avrebbero permesso anche le riforme più incisive. Ogni volta, una nuova scusa. Nel 1994 la rivoluzione fermata dai giudici rossi. Sette anni dopo dall’attentato alle Torri gemelle di New York. Poi dalla crisi finanziaria internazionale (che pure Berlusconi ha a lungo smentito). Una rivoluzione sconfitta dal destino, ma anche dai suoi nemici. Le forze politiche conservatrici, le corporazioni, i gruppi di potere che negli anni hanno bloccato nella palude romana l’azione del Cavaliere. Così raccontano suoi estimatori, almeno. Adesso il nuovo Berlusconi ci riprova. Come se nel frattempo nel Paese fosse cambiato qualcosa. Come se non ci fossero nuove giustificazioni da adottare in caso di un altro fallimento. A diciotto anni di distanza torna in campo il Cavaliere liberale. E antidemocratico. Che fine hanno fatto le primarie del Popolo della libertà istituite formalmente nell’ultima riunione del direttivo pidiellino?
Deludenti Pera: "E' il tradimento dei liberali. Caro Berlusconi, non ti accorderò la fiducia". L'ex presidente del Senato annuncia il suo 'no' alla manovra: "Mani in tasca alla gente? Contro nostri principi", scrive il 17 Agosto 2011 Marcello Pera su "Libero Quotidiano". "Caro direttore, quando, fra circa un mese, si voterà in Senato la nuova manovra finanziaria, sarà la seconda volta che farò mancare la mia fiducia al governo. La prima è stata poco tempo fa, in occasione della legge sul cosiddetto “processo lungo”. Considerai questo provvedimento un tradimento plateale dei nostri princìpi, e dell’unica riforma costituzionale, quella sul “giusto processo”, che il centro-destra, allora (1999) all’opposizione, aveva proposto e fatto approvare in materia di giustizia, grazie ad un buon accordo con la sinistra al governo. Lì, in Costituzione, avevamo scritto tutti i princìpi che occorrono per avere una giustizia trasparente ed efficiente: «Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata». Dunque, parità accusa-difesa, separazione del ruolo (carriera) del giudice da quello del pubblico ministero, nessuna prova precostituita, nessuna lungaggine inutile. Che proprio noi, gli autori di quella riforma, introducessimo per legge che il giudice ha l’obbligo di ascoltare chiunque sia desiderato dalle parti, mi sembrava uno scandalo. Un processo non può avere ragionevole durata se non è ragionevole la lista dei testimoni che il giudice deve ascoltare prima di giungere a sentenza. Sul processo lungo votai contro il governo ma mi consolai pensando che il provvedimento, chiaramente una camicetta su misura disegnata dagli avvocati-parlamentari del premier, non sarebbe mai stato approvato dalla Camera oppure che sarebbe stato cancellato dalla Corte costituzionale oppure disatteso dalla giurisprudenza. Ora, sulla manovra finanziaria, se non sarà cambiata, voterò contro il governo per la stessa ragione: è anch’essa un tradimento plateale dei nostri princìpi. Ottuso come sono, ho capito in ritardo che i princìpi anche nel centro-destra non contano nulla, e sono buoni solo nei manifesti e nei comizi delle campagne elettorali. Ma, ostinato come anche sono, ho continuato a pensare che, se non valessero in positivo, almeno contassero in negativo. Cioè, anche se non li si traduce in legge, neppure quando siamo al governo, almeno si evita di violarli per legge quando governiamo. Invece no: il principio “meno tasse per tutti”, “mai le mani in tasca agli Italiani” (due cartelloni pubblicitari, appunto), cioè i princìpi della “rivoluzione liberale di massa” (altro slogan acchiappacitrulli come me) sono ora violati con un decreto del centro-destra. Sono due i punti che più mi colpiscono e irritano. Il primo è il contributo di solidarietà a carico dei “ricchi”. Cioè a carico di chi, lavoratore o pensionato, guadagna sui quattromila euro al mese, deve ancora mantenere figli non occupati e nipoti senza futuro, deve sostenere i costi per l’università, la scuola, la sanità e gli altri servizi che lo Stato non offre o offre male ma fa pagare lo stesso, deve consentire alla giovani signore protette da Cgil-Cisl-Uil di andare in pensione a sessant’anni o anche meno, e naturalmente deve pagare le tasse. Questo signore avrà, alla fine del gioco, una pressione fiscale del cinquanta per cento del suo stipendio o pensione o anche più. Non esattamente, “un terzo, un terzo e un terzo”, non esattamente liberale, non esattamente equo e onesto, vero Signor Presidente del Consiglio? C’è poi l’altra misura di cui gli interessati preferiscono non parlare ma su cui invece non intendo tacere, anche perché essere impopolare soprattutto fra la gente che piace o che si piace è una mia specialità. Si tratta del contributo di solidarietà in misura doppia a carico dei parlamentari. L’art.3 della Costituzione tollera (si fa per dire, ma vai a spiegarlo alla Corte costituzionale!) che si possa chiedere un sacrificio a chi guadagna 100 e nessun sacrificio a chi guadagna 99. Ma quell’articolo non tollera che il sacrificio sia misurato non sull’entrata del cittadino ma sulla qualità della sua professione o incarico. Per cui, se si chiede un contributo a chi guadagna 100, quel contributo deve essere lo stesso sia che a guadagnare 100 sia chi fa il dentista, il maniscalco, il manager o il parlamentare. Un contributo doppio, a parità di reddito, a carico di alcuni e non di altri è incostituzionale, vero Signor Presidente della Repubblica? Naturalmente sappiamo bene da dove viene questa odiosa discriminazione di cui si è fatto greve portavoce il ministro (dentista, appunto) Calderoli. Viene dalla guerra alla “casta”, dal considerare i parlamentari dei lavoratori qualunque, ma privilegiati, fannulloni, crapuloni, parassiti, cioè viene dalla più becera campagna di aggressione al Parlamento che si sia vista dall’epoca dell’Uomo Qualunque, precisamente quella che, pur di abbattere il governo Berlusconi, non esita ad abbattere la democrazia. Che ora, proprio Berlusconi indichi nei suoi parlamentari (i vecchi compagni della “rivoluzione”) dei traditori da mettere alla gogna, a me sembra un grave errore, ma forse è solo una idiozia. Tutto avrei pensato che mi accadesse in vita mia, ma mai di dovermi vergognare del mio lavoro! Capisco che, per togliere il contributo di solidarietà ai “ricchi”, lasciando invariati i saldi, occorrono misure alternative. Ma questo non è un gran problema: per risolverlo, occorrerebbe un normale ministro dell’Economia (forse basterebbe un ragioniere), uno che, non dico che alla rivoluzione liberale ci credesse almeno un po’, ma che almeno non passasse la vita a fare un monumento alla propria incapacità e ignoranza. Invece, no, e allora che grondi il sangue dei ricchi e che gli untori siano bruciati! Marcello Pera ex presidente del Senato".
IL DELINQUENTE ABITUALE.
B. “delinquente naturale” che si compra tutti. Marco Travaglio 2 marzo 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Ecco un riepilogo sintetico delle principali sentenze su Silvio Berlusconi, più ampiamente raccontate nel libro “B. come basta!” (ed. PaperFirst).
Bugie sulla P2 (falsa testimonianza). Nel 1988, nel processo di Verona nato dalla sua querela ai recensori del libro Inchiesta sul Signor Tv di Ruggeri e Guarino, B. dichiara: “Non ricordo la data esatta della mia iscrizione alla P2, ricordo comunque che è di poco anteriore allo scandalo… Non ho mai pagato una quota di iscrizione, né mai mi è stata richiesta”. Ma lo scandalo è del 1981 e la sua iscrizione del 26.1.1978, con pagamento della quota associativa di 100 mila lire. Così, da parte lesa, B. diventa imputato per falsa testimonianza. La Corte d’Appello di Venezia, nel 1990, sentenzia: “Ritiene il Collegio che le dichiarazioni dell’imputato non rispondano a verità … smentite dalle risultanze della commissione Anselmi e dalle stesse dichiarazioni rese del prevenuto avanti al giudice istruttore di Milano, e mai contestate… Ne consegue che il Berlusconi ha dichiarato il falso”, rilasciato “dichiarazioni menzognere e compiutamente realizzato gli estremi obiettivi e subiettivi del delitto di falsa testimonianza”. Ma “il reato va dichiarato estinto per intervenuta amnistia” (del 1990).
Tangenti alla Guardia di Finanza (corruzione). Condannato per corruzione in primo grado per quattro tangenti a 12 ufficiali delle Fiamme Gialle, poi prescritto in appello per tre mazzette e assolto per insufficienza di prove sulla quarta, nel 2001 B. viene assolto in Cassazione per insufficienza di prove per tutti e quattro gli episodi, mentre i manager Fininvest e i finanzieri vengono tutti condannati. Per la Suprema Corte non si è riusciti a sciogliere il nodo di chi fra Silvio e Paolo B. autorizzò le mazzette. Ma è dimostrata la “predisposizione della Fininvest” a corrompere la Gdf, cioè a “gestire in modo programmato le situazioni oggetto di causa, anche con la formazione di fondi per pagamenti extrabilancio” comprando “la deliberata sommarietà e compiacenza delle verifiche fiscali” con “consistenti dazioni” e “favori”.
All Iberian-1 (finanziamento illecito ai partiti). Condannato in Tribunale insieme a Bettino Craxi per avergli versato nel 1991 estero su estero (in Svizzera) dai conti All Iberian mazzette per 23 miliardi di lire, B. si salva col suo complice in appello per prescrizione. Ricorre in Cassazione per essere assolto, ma la Suprema Corte nel 2000 conferma: è un colpevole che l’ha fatta franca. “Le operazioni societarie e finanziarie prodromiche ai finanziamenti estero su estero dal conto intestato alla All Iberian al conto Northern Holding (uno dei tre di Craxi in Svizzera, ndr) furono realizzate in Italia dai vertici del gruppo Fininvest Spa, con il rilevante concorso di Silvio Berlusconi quale proprietario e presidente” e da altri manager del gruppo. Dunque niente assoluzione. “Non emerge negli atti processuali l’estraneità dell’imputato”. Infatti è condannato a pagare le spese di giudizio.
All Iberian-2 (falso in bilancio). B. è imputato per centinaia di miliardi di lire di fondi neri nascosti ai bilanci Fininvest, accantonati all’estero nelle società offshore della tesoreria occulta All Iberian e usati negli anni 80-90 per fini inconfessabili: corrompere politici (come Craxi), giudici romani, prestanome (in Tele+ e Telecinco), scalare occultamente società (da Standa a Mondadori) in barba alle leggi e ai controlli di Borsa. Nel 2005 il Tribunale lo assolve con i suoi manager perché “il fatto non è più previsto dalla legge come reato” (l’ha depenalizzato lui nel 2001 con la riforma del falso in bilancio).
Medusa Cinema (falso in bilancio). Condannato per 10 miliardi di lire di fondi neri ricavati dalla compravendita della casa di produzione Medusa e nascosti su libretti al portatore intestati a prestanome, B. viene assolto in appello e in Cassazione per insufficienza di prove. Condannato invece il manager Carlo Bernasconi che gestì materialmente l’operazione. Motivo: “La molteplicità dei libretti riconducibili alla famiglia Berlusconi e le notorie rilevanti dimensioni del patrimonio di Berlusconi postulano l’impossibilità di conoscenza sia dell’incremento sia soprattutto dell’origine dello stesso”. Troppo ricco per accorgersi che il suo uomo gli ha versato 10 miliardi.
Terreni di Macherio (appropriazione indebita, frode fiscale e falso in bilancio). B. è imputato per 4,4 miliardi di lire pagati in nero all’ex proprietario dei terreni della villa di Macherio, dove vivono la moglie Veronica e i tre figli di secondo letto. In Tribunale è assolto dall’appropriazione indebita e dalla frode fiscale e prescritto per i falsi in bilancio di due società a cui “indubbiamente ha concorso”. In appello è assolto anche sul primo falso in bilancio, mentre il secondo rimane, ma è coperto dall’amnistia del 1990.
Caso Lentini (falso in bilancio). L’accusa riguarda 10 miliardi versati in nero dal Milan al Torino per l’acquisto del giocatore Gianluigi Lentini. I fatti sono tutti straprovati, ma B. (presidente del Milan) e il suo vice Adriano Galliani si salvano in Tribunale per prescrizione, grazie alle attenuanti generiche e alla riduzione dei termini introdotta dalla legge B. sul falso in bilancio.
Bilanci Fininvest 1988-92 (falso in bilancio e appropriazione indebita). B., il fratello Paolo e vari manager sono indagati per aver falsificato i bilanci Fininvest dal 1988 al ’92 per i fondi neri creati con l’acquisto a prezzi gonfiati di film tramite società offshore. Nel 2004 sono tutti archiviati dal gup per la solita prescrizione, grazie anche ai termini abbreviati dalla legge B. sul falso in bilancio.
Consolidato Fininvest (falso in bilancio). Nel 2003 il Gup dichiara prescritti, sempre grazie alle nuove regole sul falso in bilancio, i presunti fondi neri per circa 1.500 miliardi di lire accantonati da B. e dai 25 suoi coimputati su 64 società del “comparto B” della Fininvest, sconosciute al bilancio consolidato. Motivo: “La lettura degli atti… non permette certo di ritenere palese e chiara l’estraneità dei soggetti” ai reati. I legali ricorrono in Cassazione, reclamando un’assoluzione nel merito. Ma nel 2004 la Suprema Corte la nega: i reati sono estinti “in base alla nuova legge sul falso in bilancio” imposta dall’imputato principale.
Lodo Mondadori (corruzione giudiziaria). B. è imputato insieme ai suoi avvocati Cesare Previti, Giovanni Acampora, Attilio Pacifico e al giudice Vittorio Metta per la sentenza comprata, firmata da quest’ultimo nel 1991, che ribaltava il lodo Mondadori e sfilava il primo gruppo editoriale italiano a Carlo De Benedetti per regalarlo al Cavaliere. Ribaltando il proscioglimento per insufficienza di prove deciso dal gup, la Corte d’appello di Milano rinvia a giudizio tutti gli imputati per corruzione giudiziaria, tranne uno: B., che beneficia della prescrizione grazie alle solite attenuanti generiche (che ne dimezzano il termine) e alla derubricazione del reato (per lui solo) da corruzione giudiziaria a corruzione semplice. I suoi tre avvocati corruttori e il giudice corrotto verranno condannati fino in Cassazione. I giudici accerteranno che Metta fu corrotto con 400 milioni in contanti provenienti dai fondi neri Fininvest-All Iberian e versati dai tre avvocati “nell’interesse e su incarico del corruttore”, cioè del “privato interessato”, cioè di B., che puntava al “controllo di noti e influenti mezzi di informazione”. Ed è rimasto impunito, almeno penalmente. Nella causa civile, nel 2013 dovrà risarcire De Benedetti con 540 milioni.
Sme-Ariosto (corruzione e falso in bilancio). I processi per le tangenti al capo dei gip romani Renato Squillante, pagate dai soliti avvocati con fondi neri Fininvest, finiscono in un nulla di fatto. Previti, Pacifico, Acampora e Squillante vengono condannati in primo grado e in appello. Ma la Cassazione manda gli atti per competenza al Tribunale di Perugia perché riparta da zero, quando ormai è scattata la prescrizione. B. invece, processato separatamente, viene in parte assolto e in parte prescritto (solite attenuanti generiche). In appello scatta l’assoluzione totale per insufficienza di prove, confermata nel 2007 dalla Cassazione. Per i relativi falsi in bilancio dal 1986 al 1989, il Tribunale lo assolve nel 2008 perché “il fatto non è più previsto dalla legge come reato”. L’ha depenalizzato l’imputato.
Mazzette a Mills (corruzione giudiziaria del testimone). Il processo riguarda la tangente da 600 mila dollari versata nel 1999-2000 da Carlo Bernasconi (defunto) per conto di Silvio B. all’avvocato inglese David Mills, ex consulente delle società estere Fininvest, in cambio delle sue testimonianze false o reticenti nei processi Guardia di Finanza e All Iberian. Reato confessato dallo stesso Mills in una lettera al suo commercialista Bob Drennan: “La mia testimonianza aveva tenuto Mr B. fuori da un mare di guai in cui l’avrei gettato se solo avessi detto tutto quello che sapevo. Alla fine del 1999 mi fu detto che avrei ricevuto dei soldi… 600.000 dollari furono messi in un hedge fund… a mia disposizione”. Mills viene condannato in primo e secondo grado, poi in Cassazione si salva per prescrizione, anche se deve risarcire il governo italiano con 250 mila euro; e anche se i giudici scrivono che fu corrotto “nell’interesse di Silvio Berlusconi”. Invece B., grazie alle meline dei suoi avvocati e alla lentezza dei giudici di Milano, si salva nel 2012 per prescrizione già in Tribunale. Due prescrizioni, la sua e quella di Mills, propiziate dalla legge ex-Cirielli del governo B., che ne ha ridotto i termini.
Diritti Mediaset (falso in bilancio, frode fiscale, appropriazione indebita). L’inchiesta sui fondi neri accumulati da B. gonfiando i costi dei film acquistati da Mediaset presso le major americane, con vari passaggi su una miriade di società offshore nei paradisi fiscali, accerta una mega-frode per 368,5 milioni di dollari. Poi gli ostruzionismi degli avvocati, le leggi blocca-processi varate dall’imputato e l’ex Cirielli taglia-prescrizione fanno evaporare in dibattimento le appropriazioni indebite, i falsi in bilancio e quasi tutte le frodi fiscali, lasciando in piedi soltanto quelle del 2002-2003 per 7,3 milioni. B. viene condannato in tutti e tre i gradi di giudizio a 4 anni di carcere (di cui 3 indultati) e interdetto dai pubblici uffici per 2. Il Tribunale di Milano lo descrive come un delinquente naturale, con una “naturale capacità a delinquere”. La Cassazione nel 2013 lo definisce “ideatore” e “beneficiario” del sistema fraudolento: “Il sistema organizzato da Silvio Berlusconi ha permesso di mantenere e alimentare illecitamente disponibilità patrimoniali estere, conti correnti intestati ad altre società che erano a loro volta intestate a fiduciarie di Berlusconi”. Anche dopo l’entrata in politica: “Tutti i suoi fidati collaboratori ma anche correi” furono “mantenuti nelle posizioni cruciali anche dopo la dismissione delle cariche sociali da parte di Berlusconi e in continuativo contatto diretto con lui… in modo da consentire la perdurante lievitazione dei costi di Mediaseta fini di evasione fiscale”. Così Mediaset pagò per anni e anni i film molto più di quanto costassero, per alimentare i fondi neri dell’utilizzatore finale. Che non esitò a truffare lo Stato e la sua società (quotata in Borsa dal 1996) per metterseli in tasca.
Telefonata Fassino-Consorte (rivelazione di segreto d’ufficio). B. viene condannato in Tribunale a 1 anno (e suo fratello Paolo a 2 anni e 3 mesi) e poi salvato dalla prescrizione in appello per la telefonata segretata e mai trascritta dai pm di Milano tra il patron di Unipol Giovanni Consorte e il segretario Ds Piero Fassino (“Allora, abbiamo una banca?”), intercettata nel 2005 durante la scalata alla Bnl e pubblicata dal Giornale il 1° gennaio 2006, in piena campagna elettorale. A rubarla e portarla al premier nella villa di Arcore alla vigilia di Natale 2005 fu un dipendente infedele della società che realizzava gli ascolti per la Procura. B. ricorre in Cassazione per essere assolto nel merito, ma nel 2015 viene respinto con perdite perché è colpevole: “Il Tribunale prima e la Corte d’Appello poi, con motivazione ineccepibile, hanno ritenuto accertato che Silvio Berlusconi nell’incontro di Arcore abbia ascoltato la registrazione audio e abbia, anche col suo atteggiamento compiaciuto e riconoscente, dato il suo placet alla pubblicazione del colloquio intercettato… Berlusconi, chiamato a decidere dopo avere ascoltato la registrazione coperta da segreto, ha sostanzialmente dato il via, con il solo assenso e con il suo beneplacito, alla pubblicazione della notizia, rendendosi responsabile di concorso nel delitto di rivelazione di segreto di ufficio”.
Scandalo Ruby (concussione e prostituzione minorile). B. è imputato per concussione (telefonò al capo di gabinetto della Questura di Milano Pietro Ostuni per far rilasciare la minorenne marocchina Karima el Mahroug in arte Ruby, fermata per furto, nelle mani di Nicole Minetti e di un’altra prostituta, raccontando che era nipote di Mubarak e si rischiava l’incidente diplomatico con l’Egitto) e prostituzione minorile (sesso in cambio di denaro con Ruby nei festini del “bunga bunga” ad Arcore). Il Tribunale lo condanna a 7 anni, ma in appello scatta l’assoluzione. La concussione è stata riformata, in pieno processo, dalla legge Severino: senza violenza o minaccia, è “induzione indebita” ed è punibile solo se anche l’indotto ha ricavato “vantaggi indebiti” e Ostuni non ne ha avuti. Quanto alla prostituzione minorile, non ci sono prove sufficienti che sapesse della minore età di Ruby, che sul punto ha detto tutto e il contrario di tutto, mentre le altre “Olgettine” (tutte sul libro paga dell’allora premier) hanno sempre negato. La Cassazione nel 2015 conferma la sentenza d’appello anche dove afferma che B. “abusò della sua qualità di presidente del Consiglio”, ma l’abuso di potere “non è sufficiente a integrare il reato” di concussione, senza la “costrizione” del funzionario e il “vantaggio patrimoniale” del premier. È pure “acquisita la prova certa che presso la residenza di Arcore di Silvio Berlusconi e nell’arco temporale… 14 febbraio-2 maggio 2010 vi fu esercizio di attività prostitutiva che coinvolse anche Karima el Mahroug”. Altro che “cene eleganti”: erano “serate disinvolte e spregiudicate”. Ma, per legge, il cliente di prostitute è punibile se queste non sono minorenni o non c’è prova che lui sappia che lo sono. Il processo Ruby ter ci dirà se quella prova fu negata ai giudici da testimoni corrotti (e soprattutto corrotte).
Compravendita del senatore (corruzione). Sergio De Gregorio, eletto nel 2006 senatore dell’IdV e subito passato a FI, sottraendo un voto alla risicatissima maggioranza del Prodi-2, confessa di essere stato corrotto da Berlusconi con 3 milioni di euro: 1 via bonifico alla sua associazione Italiani nel Mondo, 2 cash in nero tramite il faccendiere Valter Lavitola. Il Tribunale di Napoli condanna B. a 3 anni, poi nel 2017 scatta la solita prescrizione in appello. Ma i giudici confermano definitivamente che B. è un corruttore impunito: “L’iniziativa dell’offerta e della promessa del denaro è stata presa da Berlusconi e non da De Gregorio. L’incontro delle loro volontà è stato senza dubbio libero e consapevole… Berlusconi ha, pacificamente, agito come privato corruttore e non certo come parlamentare nell’esercizio delle sue funzioni” per far scatenare a De Gregorio “la guerriglia urbana” in Parlamento che, a lungo andare, provocò la caduta di Prodi. “Le dazioni di denaro effettuate da Berlusconi, tramite Lavitola, a De Gregorio sono state effettuate quale corrispettivo della messa a disposizione del senatore e, quindi, della sua rinuncia a determinarsi liberamente nelle attività parlamentari di sua competenza e non certo come mero finanziamento al movimento Italiani nel Mondo”. Conclusione: “È del tutto pacifico che Berlusconi abbia agito con assoluta coscienza e volontà di corrompere un senatore della Repubblica”.
Travaglio, senti chi parla: anche lui è un delinquente. Il giornalista insulta di continuo l'ex premier, ma una sentenza lo inchioda: con una condanna definitiva sul groppone è tecnicamente un pregiudicato, scrive Stefano Zurlo, Venerdì 13/09/2013, su "Il Giornale". Delinquente. Pregiudicato. Ancora delinquente. Travaglio & co fanno rullare per h24 i tamburi della loro soddisfazione manettara e infarciscono il Fatto quotidiano come e più di un panino dagli ingredienti forti. Da quando Antonio Esposito ha letto la sentenza che coronava i sogni inseguiti per un ventennio, il travaglismo è tutto un rotolare stentoreo di sostantivi questurini. E, diciamo la verità, c'è tutto un giornalismo ebbro che sta affogando nel linguaggio cupo e burocratico dei mattinali. L'altra sera, nel corso del programma di Gianluigi Paragone, la Gabbia, in onda su La7, Daniela Santanchè gioca maliziosamente con i punti esclamativi, le manette virtuali e il lampeggiante perennemente acceso di Travaglio e l'attacca usando la stessa moneta. La Pitonessa, più Pitonessa che mai, esibisce davanti alle telecamere un pacco di fogli, si presume una sentenza, poi attacca: «Travaglio chiama sempre il mio leader Berlusconi delinquente. Bene, Travaglio è condannato in terzo grado di giudizio e quindi per me è un delinquente e diffamatore». Poteva pure finire lì. Ma l'idolo del giustizialismo italiano evidentemente va a nozze con un mondo che sta tutto nei verbali, negli interrogatori, nei lunghi corridoi mal spolverati di caserme e palazzi di giustizia. Così risponde alla provocazione, invece di riflettere e fermarsi un istante prima: «Se la Santanchè vuol sapere qualcosa su giornalisti delinquenti si rivolga in famiglia». Allusione chiara al direttore del Giornale Alessandro Sallusti, punito, pure lui, in via definitiva con 14 mesi. Nello studio volano gli insulti, anzi in studio ci sono solo le stoccate e i colpi proibiti perché i due contendenti sono fisicamente lontani e collegati via video. «Godo da bestia a chiamarlo delinquente», insiste lei. Travaglio diventa puntiglioso e prova a spiegare la differenza fra i reati fiscali, quelli di cui è accusato il Cavaliere, e la diffamazione, una sorta di malattia professionale del giornalismo: «Quella condanna mi è costata mille euro di multa. Mille euro in trent'anni di professione. Mi reputo fortunato». Come no, ma è vero che a voler essere coerenti fino in fondo l'Italia è una gabbia, altro che quella di Paragone, strapiena di pregiudicati, delinquenti e recidivi. Basta poco per essere marchiati. Come è capitato a molte firme nobili del giornalismo e molti personaggi da prima pagina, per i motivi più disparati. Certo, ha ragione Travaglio nel sostenere che non tutti i reati sono uguali: l'omicidio volontario non è paragonabile all'omicidio colposo che è costato un verdetto di colpevolezza ad un altro protagonista della politica italiana, Beppe Grillo. Ma il problema è un altro. L'imbarbarimento del vocabolario e del resto quella sintassi, ingolfata di termini giudiziari e parapolizieschi, esprime l'ideologia di chi a sinistra ha coltivato l'eliminazione di Berlusconi per via processuale. Ora che i risultati sono arrivati ci si accorge anche di come si è degradato l'orizzonte di tante gazzette e gazzettieri: per anni si è parlato solo e soltanto di avvisi di garanzia, inviti a comparire, leggi ad personam, leggi bavaglio e salvacondotti. Ora siamo alle sentenze irrevocabili, ai pregiudicati, ai delinquenti. E alla decadenza del Cavaliere. No c'è nessun tentativo di pesare il valore di una storia politica che ha segnato questo Paese e ha calamitato milioni di voti. Niente. Solo deposizioni. Solo pentiti e stallieri. Solo prestanome. E la complessità del mondo schiacciata nel buco della serratura di una cella. Nient'altro. Poi ricomincia lo scambio di complimenti e spagnolismi per la gioia di Paragone: «Godo da bestia a chiamarlo delinquente. E poi come tratta le donne - rilancia la Santanchè - ho dei dubbi che gli piacciano». «Le assicuro che non avrà mai modo di provarlo con me», contraccambia lui gentilmente. Prima di chiudere in bellezza: «Qui ci vuole il Tso. Mettetele la camicia di forza».
Travaglio punito dal giudice scivola sulle intercettazioni. Multa più risarcimento di 30mila euro per diffamazione Accusò una giornalista del Tg1 di dare cifre «a casaccio», scrive Stefano Zurlo, Sabato 21/07/2018, su "Il Giornale". L'aveva definita, senza tanti complimenti, la «minzolina di complemento». E l'aveva messa alla berlina, spiegando come il servizio firmato da Grazia Graziadei per il Tg1, sul delicatissimo tema delle intercettazioni telefoniche, fosse zeppo di cifre e numeri ubriachi e campati per aria. Non era così, anche se il pezzo confezionato per il telegiornale delle 20 conteneva in effetti alcuni errori. Marco Travaglio e il Fatto Quotidiano del 4 luglio 2010 hanno passato il segno. Per questo, dopo otto lunghissimi anni, il noto editorialista è stato condannato per diffamazione: la pena, una multa più un robusto risarcimento di 30mila euro a favore della Graziadei, è poco più che simbolica, anche perché sul caso pende la scure della prescrizione, ma in ogni caso per il celebre scrittore è arrivata la condanna. Un verdetto forse inatteso, che giunge dopo un braccio di ferro quasi surreale all'interno della magistratura: per ben tre volte tre giudici diversi di Roma, tre gup, avevano disposto il non luogo a procedere e chiuso il match. E altrettante volte la Cassazione ha annullato quei provvedimenti e riaperto la partita. Quasi un record, con una battaglia sui confini del diritto di critica e di cronaca. «Ieri sera - aveva attaccato Travaglio - il Tg1 per supportare le balle del Banana al Tg4 sulle intercettazioni, ha sparato cifre a casaccio spacciandole per cifre ufficiali del ministero della giustizia». Poi, andava avanti, «ecco il dato farlocco: gli obiettivi messi sotto esame ogni anno sono 130mila». Insomma, per il Fatto Quotidiano il Tg1, allora diretto da Augusto Minzolini, aveva montato la panna descrivendo un Paese immaginario in cui tutti sono intercettati e sotto il controllo di una sorta di Grande Fratello giudiziario. Peccato che il numero dei bersagli «spiati» non fosse stato detto a vanvera ma esatto. Anche se, naturalmente, ogni persona può avere più utenze, fisse o mobili, e dunque certe moltiplicazioni facili e generalizzazioni vanno prese con le pinze. E possono provocare illusioni ottiche e percezioni lontane dalla realtà. Travaglio però aveva contestato proprio quel dato, corretto, e su quello aveva costruito una critica feroce, fino a ridicolizzare l'autrice del servizio. Graziadei aveva infatti messo in evidenza un elemento sorprendente: «Sono pochissime le inchieste di mafia basate solo su intercettazioni». «Sarebbe interessante sapere quante sarebbero finite nel nulla - aveva replicato lui - se non si fossero avvalse anche di intercettazioni. Ma per saperlo ci vorrebbe un telegiornale. Pretesa assurda, trattandosi del Tg1». Per la Cassazione, che ha gettato le fondamenta su cui oggi è scattata la condanna, il «teorema» di Travaglio non sta in piedi, proprio perché altera il punto di partenza: «Una volta accertato che il numero degli obiettivi sottoposti a controllo su base annua era veritiero (e la notizia non poteva che avere la fonte nel competente ministero) ne seguiva che alla giornalista era stato attribuito, contrariamente al vero, l'uso di cifre individuate arbitrariamente («a casaccio») e la loro falsa attribuzione alla fonte ministeriale, con lesione della sua immagine professionale». Travaglio è andato troppo in là. E dopo un ping pong davvero unico, ecco ora la condanna. Anche se quasi al novantesimo dei tempi della giustizia.
Marco Travaglio condannato per diffamazione. Il direttore del Fatto Quotidiano è stato condannato per un articolo sulla trattativa Stato-Mafia...Il Tribunale ha disposto una provvisionale di 150 mila euro, scrive Mercoledì 21 marzo 2018 Affari italiani. Il direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio è stato condannato dal Tribunale di Roma per diffamazione ai danni di tre magistrati siciliani per un articolo sull’assoluzione degli imputati del processo sulla latitanza e la mancata cattura di Bernardo Provenzano. Lo rende noto, scrive confrontodemocratico.com, Carlo Arnulfo, legale dei magistrati Mario Fontana, Wilma Mazzara e Annalisa Tesoriere. Il Tribunale ha disposto una provvisionale di 150 mila euro, riferisce l’avvocato, “una cifra mai vista”, sostiene. I tre formavano il collegio – IV Sezione Penale – che giudicò gli ex ufficiali dei carabinieri Mario Mori e Mauro Obinu, accusati di favoreggiamento alla mafia nella persona del superboss e che vennero assolti. Nell’articolo del 16 ottobre 2016 Travaglio scrisse tra l’altro “ora abbiamo anche la ‘cluster sentenza’ che non si limita a incenerire le accuse del processo in cui è stata emessa ma, già che c’è, si porta avanti e fulmina anche altri processi, possibilmente scomodi per il potere”. Travaglio si riferiva al processo sulla presunta trattativa Stato-mafia, attualmente ancora in corso a Palermo, che sarebbe stato condizionato da quella sentenza.
Strasburgo condanna il metodo Travaglio. La libertà d’espressione non contempla il diritto allo sputtanamento, scrive il 17 Febbraio 2017 Il Foglio. C’è un giudice a Strasburgo. Ieri pomeriggio le agenzie hanno battuto una notizia gustosa che riguarda una condanna significativa contro il nostro eroe Marco Travaglio. La storia è nota: nel 2008 e nel 2010, Travaglio fu condannato per aver diffamato Cesare Previti in un articolo pubblicato nel 2002 sull’Espresso per aver riportato solo una parte della dichiarazione del colonnello dei Carabinieri Michele Riccio “generando così nel lettore – si legge nella decisione della Corte, diffusa giovedì dall’Ansa – l’impressione che il ‘signor P.’ fosse presente e coinvolto negli incontri riportati nell’articolo”. Aggiunge la Corte: “Come stabilito dai tribunali nazionali, tale allusione era essenzialmente fuorviante e confutata dal resto della dichiarazione non inclusa dal ricorrente nell’articolo”. In sostanza: Travaglio accusò Previti di aver partecipato a una riunione dove invece non aveva messo piede, ma nonostante la falsità raccontata il futuro direttore del Fatto, nel 2014, andò contro la decisione dei giudici e scelse di difendersi di fronte alla Corte di Strasburgo rivendicando il diritto alla libertà d’espressione. Nella difesa dell’allora collaboratore dell’Espresso – difesa fatta a fette da un tribunale di primo grado, da uno di secondo grado e da una Corte europea – c’è però qualcosa che vale la pena notare e che riguarda quello che più volte questo giornale ha definito un metodo giornalistico che è stato precursore di un metodo politico fatto proprio dal Movimento 5 stelle: utilizzare in modo creativo lo stile del taglia e cuci delle carte giudiziarie per costruire un fatto alternativo e mascherare poi con il diritto alla libertà d’espressione (o il diritto alla satira) ciò che in realtà è una richiesta più semplice, ovvero il diritto allo sputtanamento. La Corte di Strasburgo ieri ha ribadito che uno sputtanamento è uno sputtanamento e che le post verità non si possono definire verità alternative, come vorrebbe far credere il Movimento 5 stelle, ma si possono definire solo in un modo: bugie. E pubblicare una storia a metà, con il metodo del taglia e cuci, non è un fatto alternativo: è una non verità. C’è un giudice a Strasburgo.
Ecco il casellario giudiziario di Travaglio, il grande inquisitore. Previti, Confalonieri, Del Noce, Schifani: ecco tutte le condanne per diffamazione subìte dal fondatore del Fatto Quotidiano, scrive il 11 Gennaio 2013 su "Libero Quotidiano" Filippo Facci. La letterina con l’elenco delle condanne di Travaglio - letto molto parzialmente da Berlusconi - rimarrà nella piccola storia della nostra televisione come una nemesi straordinaria: le sedie e le parti invertite, lui che legge e l’altro non può replicare, il clima da mattinale di questura. A chi non è piaciuta, non piace Travaglio. Il che non toglie che i contenuti della lettera siano assolutamente veri.
• Nel 2000 è stato condannato in sede civile per una causa intentata da Cesare Previti dopo un articolo su L’Indipendente del 24 novembre 1995: 79 milioni di lire, pagati in parte attraverso la cessione del quinto dello stipendio.
• Nel giugno 2004 è stato condannato dal Tribunale di Roma in sede civile a un totale di 85.000 euro (più 31.000 euro di spese processuali) per un errore contenuto nel libro «La Repubblica delle banane» scritto assieme a Peter Gomez e pubblicato nel 2001. Nel libro, a pagina 537, così si descrive «Fallica Giuseppe detto Pippo, neo deputato Forza Italia in Sicilia»: «Commerciante palermitano, braccio destro di Gianfranco Miccicché... condannato dal Tribunale di Milano a 15 mesi per false fatture di Publitalia. E subito promosso deputato nel collegio di Palermo Settecannoli». Dettaglio: non era vero. Era un caso di omonimia tuttavia spalmatosi a velocità siderale su L’Espresso, su il Venerdì di Repubblica e su La Rinascita della Sinistra: col risultato che il 4 giugno 2004 sono stati condannati tutti a un totale di 85mila euro più 31mila euro di spese processuali; 50mila euro in solido tra Travaglio, Gomez e la Editori Riuniti, gli altri sparpagliati nel gruppo Editoriale L’Espresso. Nel 2009, dopo il ricorso in appello, la pena è stata ridotta a 15.000 euro.
• Nell’aprile 2005 eccoti un’altra condanna di Travaglio per causa civile di Fedele Confalonieri contro lui e Furio Colombo, allora direttore dell’Unità. Marco aveva scritto di un coinvolgimento di Confalonieri in indagini per ricettazione e riciclaggio, reati per i quali, invece, non era inquisito per niente: 12mila euro più 4mila di spese processuali. La condanna non va confusa con quella che il 20 febbraio 2008, per querela stavolta penale di Fedele Confalonieri, il Tribunale di Torino ha riservato a Travaglio per l’articolo Mediaset «Piazzale Loreto? Magari» pubblicato sull’Unità del 16 luglio 2006: 26mila euro da pagare; né va confuso con la citata condanna a pagare 79 milioni a Cesare Previti (articolo sull’Indipendente) e neppure va confuso con la condanna riservata a Travaglio dal Tribunale di Roma (L’Espresso del 3 ottobre 2002) a otto mesi e 100 euro di multa per il reato di diffamazione aggravata ai danni sempre di Previti, reato - vedremo - caduto in prescrizione.
• Nel giugno 2008 è stato condannato civilmente dal Tribunale di Roma al pagamento di 12.000 euro più 6.000 di spese processuali per aver descritto la giornalista del Tg1 Susanna Petruni come personaggio servile verso il potere e parziale nei suoi resoconti politici: «La pubblicazione», si leggeva nella sentenza, «difetta del requisito della continenza espressiva e pertanto ha contenuto diffamatorio».
• Nell’aprile 2009 è stato condannato dal Tribunale penale di Roma (articolo pubblicato su L’Unità dell’11 maggio 2007) per il reato di diffamazione ai danni dell’allora direttore di Raiuno Fabrizio Del Noce. Il processo è pendente in Cassazione.
• Nell’ottobre ottobre 2009 è stato condannato in Cassazione (Terza sezione civile) al risarcimento di 5.000 euro nei confronti del giudice Filippo Verde, che era stato definito «più volte inquisito e condannato» nel libro «Il manuale del perfetto inquisito», affermazioni giudicate diffamatorie dalla Corte in quanto riferite «in maniera incompleta e sostanzialmente alterata».
• Nel giugno 2010 è stato condannato civilmente dal Tribunale di Torino (VII sezione civile) a risarcire 16.000 euro al Presidente del Senato Renato Schifani, avendo evocato la metafora del lombrico e della muffa a «Che tempo che fa» il 10 maggio 2008.
• Nell’ottobre 2010 è stato condannato civilmente per diffamazione dal Tribunale di Marsala: ha dovuto pagare 15mila euro perché aveva dato del «figlioccio» di un boss all’assessore regionale siciliano David Costa, arrestato con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e successivamente assolto in forma definitiva.
• Ora la condanna più significativa. Si comincia in primo grado nell’ottobre 2008: il presunto collega beccò otto mesi di prigione (pena sospesa) e 100 euro di multa in quanto diffamò Previti. L’articolo, del 2002 su l’Espresso, era sottotitolato così: «Patto scellerato tra mafia e Forza Italia. Un uomo d’onore parla a un colonnello dei rapporti di Cosa nostra e politica. E viene ucciso prima di pentirsi». Lo sviluppo era un classico copia & incolla, dove un pentito mafioso spiegava che Forza Italia fu regista di varie stragi. Chi aveva raccolto le confidenze di questo pentito era il colonnello dei carabinieri Michele Riccio, che nel 2001 venne convocato nello studio del suo avvocato Carlo Taormina assieme a Marcello Dell’Utri. In quello studio, secondo Riccio, si predisposero cose losche, tipo salvare Dell’Utri, e Travaglio nel suo articolo citava appunto un verbale reso da Riccio. E lo faceva così: «In quell’occasione, come in altre, presso lo studio dell’avv. Taormina era presente anche l’onorevole Previti». E così praticamente finiva l’articolo. L’ombra di Previti si allungava perciò su vari traffici giudiziari, ma soprattutto veniva associato a un grave reato: il tentativo di subornare un teste come Riccio. Il dettaglio è che Travaglio aveva completamente omesso il seguito del verbale del colonnello. Eccolo per intero: «In quell’occasione, come in altre, presso lo studio dell’avv. Taormina era presente anche l’onorevole Previti. Il Previti però era convenuto per altri motivi, legati alla comune attività politica con il Taormina, e non era presente al momento dei discorsi inerenti la posizione giudiziaria di Dell’Utri». Il giudice condannò Travaglio ai citati otto mesi: «Le modalità di confezionamento dell’articolo risultano sintomatiche della sussistenza, in capo all’autore, di una precisa consapevolezza dell’attitudine offensiva della condotta e della sua concreta idoneità lesiva della reputazione». In lingua corrente: Travaglio l’aveva fatto apposta, aveva diffamato sapendo di diffamare. La sentenza d’Appello è dell’8 gennaio 2010 e confermava la condanna, ma gli furono concesse attenuanti generiche e una riduzione della pena. La motivazione, per essere depositata, non impiegò i consueti sessanta giorni: impiegò un anno, dall’8 gennaio 2010 al 4 gennaio 2011. Così il reato è caduto in prescrizione. «La sentenza impugnata deve essere confermata nel merito... (vi è) prova del dolo da parte del Travaglio». Il quale, ad Annozero, ha bofonchiato di un ricorso in Cassazione: attendiamo notizie.
“Silvio Prescrizioni” di Marco Travaglio – Il Fatto Quotidiano 21 Aprile 2017 – Ieri Silvio Berlusconi ha collezionato la nona prescrizione della sua brillante carriera di imputato nel processo d’appello per la corruzione del senatore Sergio De Gregorio, passato nel 2006 dall’Idv a Forza Italia per la modica cifra di 3 milioni di euro, di cui almeno 1 in nero. In primo grado era stato condannato a 3 anni di reclusione. La prescrizione, specie quando scatta dopo la condanna in primo o secondo grado, non significa assoluzione, ma il contrario: l’imputato è colpevole, però la fa franca perché è trascorso troppo tempo. Se fosse innocente, il giudice dovrebbe assolverlo – scrive Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano nell’editoriale di oggi 21 aprile 2017, dal titolo “Silvio Prescrizioni”. Del resto gli innocenti che vogliono essere assolti nel merito da un reato infamante, rinunciano alla prescrizione per farsi giudicare oltre i termini: B. se n’è sempre guardato bene. Anzi nel 2005 impose la legge ex-Cirielli (il proponente di An se ne dissociò) che di fatto ne dimezzava i termini, raddoppiando i processi destinati al macero e i colpevoli all’impunità. Il tutto in un Paese già affetto da regole processuali demenziali (almeno per gli onesti): mentre in tutti gli altri Stati la prescrizione decorre da quando il reato viene commesso oppure si interrompe alla richiesta di rinvio a giudizio o al rinvio a giudizio o alla condanna di primo grado, qui parte quando il reato viene commesso e non finisce mai, infatti può scattare persino alla vigilia della condanna in Cassazione. Una pacchia che i politici hanno disegnato su misura di sé medesimi e degli altri colletti bianchi, salvo fingere sdegno se ad approfittarne sono gli altri criminali, quelli fuori dal giro. Ovviamente, il fatto che ieri anche la Corte d’appello di Napoli abbia ritenuto B. colpevole di aver corrotto un senatore della maggioranza per annetterlo all’opposizione, agevolando la caduta del governo Prodi nel 2008, cioè per il reato grave che possa commettere un politico ne ll ’esercizio perché ribalta le regole più elementari della democrazia, nei tg e sui giornaloni finirà tra le brevi di cronaca: B. è il più grande prescritto della storia non solo per la giustizia, ma anche per l’“informazione”, dunque per la memoria degli italiani. Tant’è che Forza Italia – fondata da un pregiudicato pluriprescritto e ideata da un attuale detenuto per associazione mafiosa – continua a raccogliere il 12-13% dei consensi e si accinge a correre per il primo posto alle elezioni con Lega e FdI. E viene indicata dal capogruppo Pd Luigi Zanda e dal ministro Carlo Calenda come il principale interlocutore del centrosinistra per una grande coalizione democratica che, al prossimo giro, salverà l’Italia e l’EurC hi si azzarda a ricordare i precedenti penali del Caimano e della sua ghenga viene sommerso da fischi e pernacchie: “Ancora i processi a B.? Ma è un’ossessione!”. Ebbene sì: ecco, in sintesi, quello che i giudici hanno finora accertato su questo recordman mondiale di delitti senza castigo. Facile immaginare quanti anni di galera (non di servizi sociali) avrebbe collezionato in un altro Paese: uno a caso fra quelli (tutti) che non conoscono strane usanze tribali come la prescrizione eterna e le amnistie e gl’indulti à gogo. Mettiamo da parte i processi vinti: 4 assoluzioni (3 dubitative per corruzione della Guardia di Finanza, corruzione Sme-Ariosto-1 e fondi neri Medusa; una piena nel caso Ruby), 2 proscioglimenti (Mediatrade) e 18 archiviazioni (4 a Milano per traffico di droga, Progetto Botticelli, Telepiù, Edilnord commerciale; una a Caltanissetta per le stragi del ’92; una a Firenze per le stragi del ’93; 6 a Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa e riciclaggio; 5 a Roma per i voli di Stato, la compravendita di altri senatori, il caso Saccà, il caso Sanjust e il caso Agcom-Annozero; una a Madrid per Telecinco). Sospendiamo il giudizio sui due processi in corso (corruzione di testimoni nel Ruby-ter a Milano; induzione a mentire del teste Gianpaolo Tarantini a Bari). E concentriamoci su quelli che hanno accertato o dichiarato altamente probabile la sua colpevolezza. B. ha frodato 7,3 milioni al fisco col trucco dei diritti Mediaset (condanna definitiva a 3 anni). Ha giurato il falso sull’iscrizione alla P2 (amnistia n.1). Ha pagato in nero i terreni della villa di Macherio (amnistia n.2). Ha frodato il fisco col trucco dei diritti Mediaset per circa 350 milioni di dollari (prescrizione n.1 di tutte le appropriazioni indebite e gran parte delle frodi fiscali durante il processo approdato alla condanna). Ha fatto corrompere dai suoi avvocati Previti&C. il giudice Vittorio Metta per scippare la Mondadori a De Benedetti (prescrizione n.2 in appello). Ha pagato 21 miliardi in nero a Bettino Craxi (prescrizione n.3 in appello al processo All Iberian-1 dopo la condanna in tribunale a 2 anni e 4 mesi) e falsificato i bilanci per stornare i relativi fondi neri in Svizzera (proscioglimento al processo All Iberian-2 perché il fatto non è più reato n.1, avendolo lui stesso depenalizzato). Ha falsificato i bilanci delle sue aziende, come accertato nei processi Milan-Lentini (prescrizione n. 4), contabilità Fininvest 1988-’92 (prescrizione n.5), consolidato Fininvest (prescrizione n.6), Sme-Ariosto-2 (proscioglimento perché il fatto non è più reato n.2, avendolo lui stesso depenalizzato). Ha ricevuto e girato al suo Giornale il file rubato della telefonata segreta Fassino-Consorte su Unipol (prescrizione n.7 in appello dopo la condanna a 1 anno in tribunale). Ha fatto pagare 600 mila dollari a David Mills perché non testimoniasse contro di lui (prescrizione n.8). E ha comprato un senatore (prescrizione n.9 in appello dopo la condanna in tribunale a 3 anni). Alla prescrizione n.10, vince una bambolina. O un posto d’onore nel prossimo governo per salvare l’Italia.
Travaglio: “Prescrizione? Eliminarla sarebbe rivoluzionario”. Bindi: “Fiducia su ddl? Sì, se stop dopo primo grado di giudizio”, scrive Gisella Ruccia il 29 aprile 2016 su "Il Fatto Quotidiano". “La fiducia posta su un ddl che dice che la prescrizione si interrompe dopo la sentenza di primo grado, sarebbe un punto di incontro della politica con la magistratura e con i cittadini. Ma sarebbe anche un campanello d’allarme nei confronti di chi corrompe”. Lo afferma a Otto e Mezzo (La7) il presidente della commissione antimafia, Rosy Bindi (Pd), in confronto con il direttore de Il Fatto Quotidiano, Marco Travaglio, riguardo all’ipotesi di porre la fiducia al Senato sul ddl penale, che comprenda gli interventi sulla prescrizione. L’ex presidente del Pd si pronuncia anche sulle dure parole del presidente dell’Anm, Piercamillo Davigo: “Non solo ora, ma anche ai tempi di Mani pulite c’era chi non si vergognava, ma allora si rubava per i partiti, ora la corruzione è legata ai destini personali o delle proprie cordate”. Circa la corruttibilità dei partiti, Travaglio ripercorre il caso Quarto, che ha coinvolto il M5S e osserva: “Quella vicenda insegna a tutti che, in primo luogo, non bisogna avere rapporti organici coi clan e tagliare gli elementi che hanno relazioni con le cosche. In secondo luogo, non si deve candidare gente ricattabile”. Bindi spiega che proprio per questa ragione ha consigliato al M5S e al Pd di non far diventare la lotta alla mafiauno strumento di lotta tra le forze politiche, perché è il più grande regalo che si può fare alle mafie. Travaglio si pronuncia sulla prescrizione: “Anche per me la prescrizione deve andare a morire nel momento in cui la magistratura esercita l’azione penale. I tempi della giustizia sono lenti sia perché facciamo troppi processi, sia perché abbiamo troppi gradi di giudizio. Ma anche perché, se all’inizio del processo sai che, tirando in lungo, arrivi alla prescrizione, intasi la giustizia facendo i tre gradi di giudizio e soprattutto il tuo legale ha l’obbligo di tirare in lungo per salvarti se sei colpevole. Se invece” – chiosa – “non hai nessuna aspettativa di prescrizione, tutte le lungaggini artificiose, che vengono messe in campo soprattutto dagli imputati ricchi e abbienti, non vengono messe in campo. Così, già si contrarrebbero i tempi dei processi. Sarebbe rivoluzionario se sparisse la prescrizione durante il processo”.
Il Tg1 e la prescrizione di Travaglio, scrive il 7 marzo 2011 Trarco Mavaglio, Videoblogger, su "Il Fatto Quotidiano". Il Tg1 dedica la rubrica Media alla prescrizione di Travaglio. Il grandioso scoop era già stato anticipato in prima pagina il 23 febbraio sull’house organ di casa Arcore. Sotto il titolone “Il partito dell’odio” e altre amenità tipiche del Giornale (“I giudici lenti salvano Travaglio”, “E adesso il Fatto Quotidiano vuole bloccare il Parlamento”) campeggiava l’immagine minacciosa di Travaglio che simulava un tiro al bersaglio. “Travaglio aveva citato un verbale di interrogatorio – si legge nell’articolo di Luca Fazzo – ma aveva ‘tagliato’ il pezzo in cui il testimone spiegava che in effetti, forse Previti quel giorno era passato nello studio di Taormina, ma per tutt’altre faccende, e senza partecipare alla riunione incriminata. «Una cesura arbitraria che ha modificato il senso della frase travisando il fatto».” La news ha solleticato anche il palato del quotidiano gemellato, Libero, che nei giorni successivi ha proposto un articolo firmato da Filippo Facci. E all’appetibile banchetto non poteva non partecipare Minzolini, che, nell’edizione pomeridiana del Tg1 del 4 marzo, ha incentrato la rubrica Media proprio su Travaglio e sulla prescrizione a lui concessa per un reato di diffamazione nei confronti di Cesare Previti. Il servizio di Media, curato da Mario Prignano e Francesca Oliva, ha un incipit non un granchè originale: “Chi di prescrizione ferisce, di prescrizione perisce”. E via con il j’accuse del Tg1, lo stesso che lo scorso anno annunciò l’assoluzione di David Mills, quando in realtà fu prescritto: “E così Marco Travaglio, dopo anni di veementi articoli e di invettive televisive, cade nella sua stessa rete”, sentenzia la voce fuori campo di Francesca Oliva, che spiega con ammirevole dovizia di dettagli i fatti. E prosegue: “Travaglio prescritto, dunque. La notizia fa il giro dei blog, meno sui giornali, anche se puntuale arriva la controffensiva di alcuni colleghi. Primo fra tutti, Filippo Facci”. Scorrono nel frattempo le pagine e i titoli del Giornale, frasi del tenore di “Travaglio fatti processare, non fare come Andreotti, D’Alema e Berlusconi” o “Travaglio razzola male, anche lui salvato dalla prescrizione”. Poco meno di due minuti di fango gettato generosamente nel ventilatore all’indirizzo di Travaglio e della magistratura (accusata di “lentezza”). Su questo servizio scandaloso del Tg1, solo il capogruppo dell’Italia dei Valori in commissione di Vigilanza, Pancho Pardi, ha espresso con veemenza il suo dissenso: “Il metro di paragone del Tg1 continua a essere deformato da un eccesso di disperazione: dopo il ridicolo accostamento tra la vicenda del presidente Leone e i torbidi scandali del premier, ora si mette in mezzo Marco Travaglio per nascondere il carattere ad personam della prescrizione inseguita da Berlusconi. Inutile gettare fumo negli occhi, è evidente che c’è una differenza abissale tra la normale applicazione di un istituto di legge e la creazione di una nuova norma su misura per i reati del presidente del Consiglio. Né è possibile dimenticare che la vantata serie di assoluzioni a favore del premier null’altro è che il prodotto delle leggi ad personam che si è fatto costruire dalla sua maggioranza in questi anni e che questo è l’unico motivo per cui è incensurato. Questo tentativo di voler a tutti i costi trovare dei simili alla rara specie del Caimano è un insulto alla linea editoriale pluralistica ed istituzionale che dovrebbe distinguere il Tg1″. Il mio parere personale è che è vero che, per coerenza, Travaglio avrebbe dovuto rinunciare alla prescrizione soprattutto perchè lui stesso ha sempre accostato il termine prescritto a quello di colpevole (trovandomi assolutamente contrario in quanto non è automatico ma è necessario valutare caso per caso), ma non possiamo assolutamente fare paragoni con l’atteggiamento processuale di Berlusconi (o suoi amichetti) e metterli sullo stesso piano. Vediamo le differenze:
1) un reato di opinione contro i reati gravissimi di Berlusca & Co;
2) la pena inflitta erano 1.000 euro e non anni di carcere;
3) Travaglio non ha il potere di modificare leggi o termini di prescrizione.
Poi inutile ricordare che stiamo paragonando il comportamento di un presidente del Consiglio con quello di un giornalista, fate voi…
Diffamazione o prescrizione. Il dilemma di Travaglio. Il condirettore del Fatto Quotidiano diffamò l'ex direttore Rai Del Noce parlando di "cretinismo". Sanzionato in primo grado ma graziato dai ritardi, scrive Annalisa Chirico, Giovedì 06/11/2014, su "Il Giornale". Vi immaginate Marco Travaglio «prescritto» come un Andreotti qualunque? Travaglio «prescritto» come un Berlusconi qualunque? Sia chiaro: non accadrà. Cioè, noi non lo sappiamo, ma non abbiamo motivo di dubitare che il condirettore del Fatto quotidiano farà esattamente quello che ha sempre predicato per gli altri, e rinuncerà alla prescrizione. I fatti risalgono al 2007: l'11 maggio di quell'anno compare su l'Unità diretta da Antonio Padellaro un articolo dal titolo «Di niente di meno» nella rubrica «Uliwood party» di Travaglio. Il giornalista critica l'allora direttore di RaiUno Fabrizio Del Noce paragonandolo a un «Re Mida alla rovescia», capace di clamorosi insuccessi con ogni conduttore da lui «sfiorato». Del Noce s'incazza e lo querela, anzi, lo ha già querelato per un precedente articolo cui Travaglio fa riferimento nello scritto incriminato: «Vorrei rassicurarlo (Del Noce, ndr), il titolo dell'articolo La prevalenza del Cretino era tratto da un celebre libro di Fruttero e Lucentini. Potrebbe farselo leggere da qualcuno che ci capisce e poi farselo raccontare. Il mio titolo tentava di descrivere il cretinismo imperante nella rete ammiraglia, elencando tutti i talenti con i quali Noisette è riuscito a scontrarsi nella sua ridicola gestione di RaiUno». Noisette è un francesismo poco apprezzato dal giudice del tribunale di Roma Paola de Martiis che ravvisa «attacchi personali diretti a colpire su un piano morale» la persona criticata, ben al di là del legittimo diritto di critica. Il 28 aprile 2009 Travaglio viene condannato per diffamazione (insieme a Padellaro per omesso controllo). Travaglio deve pagare una multa di tremila euro, cui se ne aggiungono 10mila a titolo di risarcimento alla persona offesa. L'imputato, che è a tutti gli effetti un presunto innocente, ricorre in appello, proprio presso quelle corti d'appello da lui bollate spregiativamente come «scontifici». La corte d'appello di Roma è sbalorditivamente lenta, anzi, con Travaglio batte il record di lentezza dato che a distanza di cinque anni non viene fissata neanche l'udienza di apertura. Rimane tutto sospeso fino al prossimo 11 novembre, quando il reato sarà definitivamente prescritto. Sia chiaro: se capitasse a noi, non rinunceremmo certo alla prescrizione. Ma si sa, da queste parti navighiamo in acque impure, e senza sensi di colpa. Noi, a differenza di Travaglio, non scriveremmo mai che «la prescrizione non è assoluzione, anzi l'esatto contrario». Semplicemente perché non lo pensiamo. La prescrizione è un istituto di garanzia per il cittadino che non può essere perseguitato a vita. Noi non scriveremmo mai che Travaglio prescritto vuole «farla franca». Non scriveremmo mai che Travaglio deve rinunciare alla prescrizione «se non ha nulla da temere». Non scriveremmo mai che deve fare così «chi è raggiunto da sospetti infamanti» (Travaglio versus Moratti ai tempi di Calciopoli). La diffamazione, del resto, non è una bagatella né una marachella. Con la penna si può uccidere, e chi scrive deve tenerlo a mente. La reputazione delle persone non è una caramella da sciogliere in bocca. Niente, nella nostra insulsa impurità noi ci terremmo stretta «'sta prescrizione», come un Andreotti qualunque. Lui, ancora una volta, ci sbatterà in faccia la nostra sconfinata mediocrità e si staglierà al di sopra di noi tutti con un gesto eclatante e rivelatore: «Io sono Marco Travaglio, maestro di purezza».
La maxiballa delle condanne di Travaglio, scrive il 18 gennaio 2013 la redazione di Servizio Pubblico su "Michele Santoro". Marco Travaglio risponde all’accusa di essere un diffamatore di professione: “Sono incensurato, condanne nessuna. In 30 anni di carriera su 20mila articoli, 200 trasmissioni tv, 2000 conferenze e 30 libri ho perso alcune cause civili su un totale di 200”. Travaglio ripercorre alcune delle sue vicissitudini giudiziarie e mostra il suo casellario giudiziale intatto: “Berlusconi mi attacca? Contro di lui ho vinto sempre le cause. Il Cavaliere non conosce la differenza tra civile e penale: nel primo caso si accerta il danno, nel secondo il reato”. Ma cosa aveva detto il Cavaliere nel corso della puntata di Servizio Pubblico? Ecco la lettera a Travaglio: “Signor Travaglio, la sua carriera è legata a me. Io sono il suo core business. Lei si è laureato, poi grazie ad una raccomandazione trovò posto da un editore. Che ero io, al Giornale”. “Per la sua attività editoriale è stato condannato 10 volte dai tribunali, ha anche usufruito di una prescrizione […]. La sua attività editoriale, della quale io rappresento il protagonista, le ha portato ingenti guadagni. Ha vissuto in maniera più che agiata, se il metodo del copia incolla che utilizza non gli avesse costato enormi spese”. Santoro interviene – “E’ una scartoffia che le hanno scritto. E’ una cosa vergognosa” - il Cavaliere replica – “Lei dovrebbe andarsene, Travaglio è un diffamatore professionista”. Santoro chiosa: “E’ allora Sallusti cos’è?”. Pochi minuti dopo la scena passata alla storia: Berlusconi che pulisce la sedia su cui era seduto proprio il giornalista del Fatto.
Il dolo di Travaglio, scrive Filippo Facci sul suo blog il 19 gennaio 2013. Scusate, se l’argomento vi annoia vi basta non leggere. Ma è per completezza: perché Marco Travaglio, vedete, è tornato sul tema a lui tanto caro (economicamente) delle sue condanne per diffamazione. L’ha fatto a Servizio Pubblico, ovviamente, parlando da solo, ovviamente. L’ha fatto per via dei lettori e teleutenti che chiedevano chiarimenti: segno che non ne aveva mai dati. Il presunto collega ha mostrato il suo casellario giudiziale – è il quarto anno di fila che lo fa – dove «c’è scritto nulla», quindi ha gongolato come se stringesse in mano un’indulgenza per l’altro mondo. Penalmente, è incensurato: esattamente come Silvio Berlusconi. Però Berlusconi è prescritto: anche Travaglio, visto che l’ultima sua condanna penale è andata in prescrizione il 4 gennaio 2011. Nei sette minuti supplettivi da lui sequestrati a Servizio Pubblico, in sostanza, Travaglio ha spiegato di essere il migliore come sempre: migliore dei colleghi e direttori berlusconiani «condannati per diffamazione» – loro sì – e migliore dei giudici che «non hanno capito» in quanto l’hanno condannato, migliore dell’intera stampa italiana che dopo Servizio Pubblico, badateci, «la differenza tra penale e civile non l’hanno capita neanche loro». A meno che a questa differenza, più semplicemente, i giornali italiani non abbiano dato l’importanza che Travaglio le attribuisce. Il presunto collega, infatti, continua a parlare (da solo) come se le condanne civili non nascessero comunque da un illecito e da un cattivo giornalismo, e come se il primo a mischiare e pubblicare le condanne penali e civili dei colleghi, a suo tempo, non fosse stato lui.
Qui tocca aprire una parentesi. Il presunto collega, su l’Unità del 21 ottobre 2008, pubblicò il casellario giudiziale dello scrivente là dove compariva soltanto l’esito di una querela dell’avvocato Giuseppe Lucibello (che in un libro avevo sbeffeggiato per via del suo abbigliamento) e cioè una condanna a 500mila lire di multa più 10 milioni di provvisionale. Poi il presunto collega passò alle cause civili: tutte di magistrati amici suoi più una di Enzo Biagi. E poi, ancora, siccome il bottino era oggettivamente scarso, ecco la carognata: pubblicò anche estratti di condanne non definitive per querele che nel frattempo erano state ritirate, in quanto le parti (gli studi legali, cioè) avevano raggiunto accordi in via transattiva. Cioè: quei procedimenti non esistevano più (nel casellario non ci sono mai stati) ma lui li pubblicò lo stesso. E ora, quattro anni dopo, si lagna che mischiare il civile e il penale «è scorretto». Ora che la sua stessa arma gli si ritorce contro, cioè, ecco fiorire distinguo su distinguo: e così giovedì sera ha cercato di separarsi dai «direttori berlusconiani, loro condannati più e più volte, loro sì diffamatori professionali», gente diversa da «noi, che non abbiamo nessuna condanna per diffamazione». Interessante. Noi chi? Una risposta a tono, purtroppo, implicherebbe l’elenco dei suoi amici e colleghi che sono incappati pure loro in condanne per diffamazione, magari con la specifica che anche il grande Indro Montanelli me ha collezionate a bizzeffe, di condanne. E così pure tutti i grandi del giornalismo. Rispondere a tono, cioè, implicherebbe il dare corda al gioco prediletto da Travaglio in tutti questi anni: sostituire la fedina penale alla carta d’identità, spiegare ai più beoti tra i suoi fans che un giornalista condannato per diffamazione sia tutta ‘sta cosa. Meglio di no. Meglio lasciare a Travaglio il suo certificato di purezza, da esibire in cento altre trasmissioni.
1) Solo, ecco: si difenda un po’ meglio. Giovedì sera ha detto d’aver perso una querela con Previti, parole sue, «perché l’avvocato non è andato a presentare le mie prove». Colpa dell’avvocato.
2) Poi ha detto che una causa – persa col magistrato Filippo Verde – gli è andata male «perché il giudice ha capito» una cosa sbagliata. Colpa del giudice. Il quale, a dire il vero, nella sentenza ha scritto che Travaglio si era espresso «in maniera incompleta e sostanzialmente alterata». Ma questo non c’era bisogno di dirlo a Servizio Pubblico.
3) Però ha detto, Travaglio: «Avevo scritto che Confalonieri doveva vergognarsi di accusare la sinistra di voler espropriare Mediaset come a Piazzale Loreto», e questa semplicemente è stata ritenuta dal giudice «una critica eccessiva». Tutto qui. Agli amici di Servizio Pubblico non ha detto altre cose, però. Non ha detto che, secondo il giudice, lui – Travaglio – aveva dato per certe «ipotesi d’accusa non ancora accertate», che aveva riferito «illeciti non veritieri», che le notizie riferite da Travaglio «devono ritenersi non conformi al principio della verità e pertanto devono ritenersi sussistenti gli estremi del reato di diffamazione». Ops, scandalo, il giudice ha scritto «reato» nonostante fosse una causa civile. Un altro ignorante da segnare sul quadernino, Marco.
4) Poi Travaglio ha detto: «Ho scritto che Confaloinieri era imputato assieme a Berlusconi nel processo mediaset, ma non che era imputato per un altro reato. Il giudice ha capito che gli avessi detto che era imputato per lo stesso reato». Colpa del giudice.
5) Travaglio ha spiegato, poi, d’esser stato condannato per aver evocato «la metafora della muffa e del lombrico» riferita al presidente del Senato, Renato Schifani. Una metafora, ha detto il presunto collega, che era riferita eventualmente al successore di Schifani, non a Schifani. E però – ha detto agli amici di Servizio Pubblico – «il giudice o non ha capito o non ha apprezzato la battuta». Colpa del giudice. Non ha capito.
6) Travaglio ha poi riassunto nel seguente modo la condanna civile per causa della collega Susanna Petruni: «Una giornalista della Rai, berlusconiana di ferro, mi ha denunciato perché ho detto che è una berlusconiana di ferro. Dodicimila euro m’è costata». Eh no. Travaglio l’aveva definita «non obiettiva e asservita al potere della maggioranza di governo…», con episodi specifici di cronaca politica «narrati con evidente parzialità». Poteva dirlo.
7) Infine: Travaglio ha parlato di una condanna (penale, ma prescritta) elargita «perché avevo riassunto troppo un verbale di ottanta pagine in una pagina dell’Espresso… bastava che Previti mi mandasse una rettifica… ». Fine. E così non ha sentito il bisogno di riferire, ai gonzi di Servizio Pubblico, le parole utilizzate dal giudice: «Accostamento insinuante», «omissione evidente», «significato stravolto», «distorta rappresentazione del fatto… al precipuo scopo di insinuare sospetti sull’effettivo ruolo svolto da Previti». Questo in primo grado. In Appello: «È appena il caso di ribadire la portata diffamatoria!, «vi è prova del dolo da parte del Travaglio». Prova. Dolo. Travaglio.
Da Wikipedia. Marco Travaglio (Torino, 13 ottobre 1964) è un giornalista e saggista italiano, dal 2015 direttore de il Fatto Quotidiano. Le sue principali aree di interesse sono la cronaca giudiziaria e l'attualità politica, occupandosi di questioni che spaziano dalla lotta alla mafia ai fenomeni di corruzione.
Biografia. È figlio di un geometra torinese, «progettista di treni alla Fiat Ferroviaria»; suo fratello, Franco Travaglio, è autore, regista e librettista di musical moderno. Dopo la maturità classica, conseguita al Liceo salesiano Valsalice di Torino con il voto di 58/60, si è laureato in Lettere Moderne con una tesi in Storia Contemporanea presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di Torino all'età di 32 anni, dopo esser già divenuto, nel 1992, giornalista professionista. Ha cominciato la propria attività come giornalista freelance in piccole testate di area cattolica, come Il nostro tempo, dove lavorava all'epoca anche Mario Giordano.
La collaborazione con Indro Montanelli.
Il Giornale. A Il nostro tempo conobbe Giovanni Arpino, che lo presentò a Indro Montanelli. Questi, alla vigilia di Pasqua del 1987, lo chiamò a collaborare a il Giornale come vice-corrispondente da Torino, incarico che durò fino al 1992. In quell'anno rifiutò una proposta di ingaggio a la Repubblica motivando molti anni dopo tale scelta col fatto che, considerandosi al tempo convinto anticomunista, non apprezzava la vicinanza politica all'area di sinistra del quotidiano romano. Scelse allora di rimanere con Montanelli, che così lo assunse stabilmente nella sua redazione.
La Voce. Marco Travaglio lavorò per il Giornale fino al 1994 allorquando, insieme ad altri cinquanta redattori, lo lasciò per seguire Montanelli a La Voce, il nuovo quotidiano che questi costituì dopo aver abbandonato il Giornale, da lui fondato venti anni prima. Durante l'esperienza a La Voce ebbe modo di collaborare con Enzo Biagi per il programma televisivo Il Fatto, su Rai Uno. Al tempo Travaglio curava nel quotidiano di Montanelli la rubrica Una voce poco fa, in cui dava evidenza delle contraddizioni in cui incappavano uomini politici con le loro dichiarazioni; la collaborazione con Biagi nacque dalla volontà di quest'ultimo di sceneggiare tali pezzi all'interno della sua trasmissione. Con riferimento al periodo di collaborazione con il Giornale e La Voce, Montanelli, nella prefazione a un libro di Travaglio, ebbe a scrivere di lui: «È un Grande Inquisitore, da far impallidire Vyšinskij, il bieco strumento delle purghe di Stalin. Non uccide nessuno. Col coltello. Usa un'arma molto più raffinata e non perseguibile penalmente: l'archivio. Immaginate il dossier che un simile segugio può aver compilato su Berlusconi, che a pranzo ha completamente dimenticato ciò che ha detto a colazione» (Indro Montanelli, Prefazione a Il pollaio delle libertà. Detti, disdetti e contraddetti, di Marco Travaglio, Vallecchi Editore, 1995)
Il periodo con la Repubblica e l'Unità. Dopo la chiusura de La Voce, nel 1995, Travaglio ebbe collaborazioni come freelance con diversi quotidiani e periodici, fra cui Sette, Cuore, Il Messaggero, Il Giorno, L'Indipendente, Il Borghese, e ancora con Il Fatto di Enzo Biagi. Nel 1997, in occasione del 25º anniversario della morte del commissario Luigi Calabresi, curò sul settimanale di destra Il Borghese la pubblicazione, in versione integrale e a puntate, delle intercettazioni telefoniche al movimento Lotta Continua (che coinvolgevano fra gli altri Gad Lerner, Giuliano Ferrara, Andrea Marcenaro e Luigi Manconi), riguardanti le telefonate avvenute il giorno seguente l'arresto di Adriano Sofri per l'accusa di essere il mandante dell'omicidio Calabresi. Nel 1998 veniva assunto a la Repubblica come redattore ordinario a Torino per la cronaca giudiziaria. Nel 2001, con il quotidiano romano, concordò poi un contratto da collaboratore fisso, che proseguì fino al 2009. Per la Repubblica tenne una rubrica on-line dal titolo Carta canta, uno spazio in cui sottolineava le incoerenze dei politici italiani, dei commentatori e dei suoi colleghi, attingendo dalle fonti archivistiche giornalistiche. Sempre per il quotidiano fondato da Scalfari curò ancora, nell'edizione cartacea torinese, una rubrica di posta coi lettori intitolata Il Cittadino. È del periodo in cui è redattore torinese a la Repubblica la sua clamorosa intervista rilasciata a Daniele Luttazzi alla trasmissione Satyricon, in onda il 14 marzo 2001 su Rai Due. Tale evento lo renderà famoso al pubblico televisivo e lo metterà al centro di aspre polemiche e dibattiti sulla libertà d'informazione e di stampa e sulla censura della satira in Italia. Qui, due mesi prima delle elezioni politiche del 2001, il giornalista presenta il suo libro-inchiesta L'odore dei soldi, scritto con Elio Veltri, in cui è affrontata l'origine dell'arricchimento di Silvio Berlusconi e sono presentati documenti su atti processuali che descrivono possibili coinvolgimenti del Cavaliere e del suo stretto collaboratore Marcello Dell'Utri con esponenti di Cosa nostra. Dopo quell'intervista vari soggetti (Silvio Berlusconi, Forza Italia, Mediaset, Fininvest i principali) intenteranno in totale otto cause civili per danni contro gli autori e l'editore del libro, nonché contro i responsabili della trasmissione RAI; tutte le cause si concluderanno con il respingimento di tali domande. Dopo quell'intervista il programma dello showman sarà rimosso dai palinsesti RAI tra mille polemiche, che rinfocoleranno ulteriormente a distanza di un anno quando il Cavaliere – ormai presidente del Consiglio – pronuncerà in conferenza stampa da Sofia il cosiddetto "editto bulgaro". Nel settembre 2002, chiamato dai direttori Furio Colombo e Antonio Padellaro, Travaglio inizia una collaborazione con l'Unità come editorialista e commentatore, fino al 2009. Per il quotidiano Travaglio ha curato una rubrica satirica, originariamente intitolata Bananas, in riferimento, sia al film Il dittatore dello stato libero di Bananas di Woody Allen, sia alla frase del 2001 di Gianni Agnelli sulle opinioni di alcuni giornali stranieri riguardo a un'eventuale vittoria elettorale di Silvio Berlusconi: «La cosa che mi è dispiaciuta è che alcuni giornali stranieri hanno dato giudizi sul possibile Presidente del Consiglio, rivolgendosi al nostro elettorato come all'elettorato di una repubblica delle banane». Con l'avvento del governo Prodi la rubrica ha poi cambiato nome in Uliwood Party, in riferimento al film Hollywood Party e alla formazione politica di centro-sinistra L'Ulivo. Nel 2007 questa rubrica ha portato il suo autore a vincere il Premio Satira Politica di Forte dei Marmi. Dopo le Elezioni politiche italiane del 2008 la sua rubrica si trasforma in Ora d'Aria, e, dall'ottobre 2008, in seguito alla riduzione di formato de l'Unità susseguente alla nomina di Concita De Gregorio come nuovo direttore, ne veniva ridotta la pubblicazione al solo lunedì. Contestualmente, per gli altri giorni della settimana, cura una nuova rubrica più breve, in terza pagina, dal nome Zorro, in onore del programma radiofonico di Oliviero Beha Radio Zorro. Il 29 giugno 2009 Travaglio si congeda dai suoi lettori de l'Unità preannunciando il suo passaggio al nuovo giornale, il Fatto Quotidiano: la rubrica Zorro termina il 30 giugno mentre Ora d'Aria chiude definitivamente a settembre. Tra le sue battaglie di questo periodo si ricorda una decisa opposizione alla legge di indulto del 2006, approvata dal Parlamento con maggioranza trasversale, da lui considerata un "colpo di spugna" a favore della parte corrotta della classe politica. In una puntata della trasmissione Annozero di Michele Santoro, ha anche espresso il suo parere negativo nei confronti della riforma Mastella – approvata all'unanimità dalla Camera nell'aprile 2007 (447 Sì, nessun No, 7 astenuti) e mai approvata al Senato per l'anticipata interruzione della XV Legislatura – da lui considerata una "legge bavaglio", poiché fortemente limitativa nell'utilizzo da parte dei giornalisti delle intercettazioni telefoniche. Nel dicembre 2007 si è anche espresso negativamente sull'ipotesi di concessione della grazia all'ex funzionario del Sisde Bruno Contrada, condannato a dieci anni per concorso esterno in associazione mafiosa. A causa di questa posizione è stato duramente contestato da Giuliano Ferrara su Il Foglio. L'8 settembre 2007 ha partecipato con un lungo intervento alla manifestazione V-Day organizzata da Beppe Grillo in Piazza Maggiore a Bologna. Il 25 aprile 2008 ha aderito al V2-Day, partecipando alla manifestazione in Piazza San Carlo a Torino. Nel 10 maggio 2008, nel corso della trasmissione condotta da Fabio Fazio sulla terza rete televisiva della RAI, Travaglio ha parlato del neo Presidente del Senato Renato Schifani, eletto nelle liste del PdL, in riferimento a rapporti societari con persone a vario titolo collegate con attività mafiose. Da questo intervento è nato un "caso" molto discusso nei media con forti prese di posizione da entrambe le parti. Per queste affermazioni Schifani ha querelato Travaglio. L'8 luglio 2008 ha partecipato al No Cav Day, organizzato da Paolo Flores d'Arcais, Furio Colombo e Pancho Pardi per protesta contro le cosiddette "leggi canaglia" varate nei primi mesi del Governo Berlusconi. Oltre a lui e agli organizzatori, sul palco si sono alternati Antonio Di Pietro, Sabina Guzzanti, Rita Borsellino, Moni Ovadia e, in video conferenza, Beppe Grillo.
La fondazione de il Fatto Quotidiano. Marco Travaglio è cofondatore, editorialista e dal 3 febbraio 2015 direttore de il Fatto Quotidiano, il nuovo giornale uscito in edicola il 23 settembre 2009 diretto da Antonio Padellaro. Tale quotidiano è stato annunciato dal giornalista e dagli altri co-fondatori come risposta a una situazione editoriale italiana da molti sentita come non completamente libera, viziata dalle ingerenze dei poteri politici, finanziari e industriali che generalmente costituiscono, finanziano e influenzano la grande informazione e la stampa nazionale. Per queste ragioni il Fatto Quotidiano – di cui sono proprietari in piccola parte anche lo stesso Travaglio, il direttore Padellaro e altri giornalisti membri della redazione – è stato fondato sulla base di scelte del tutto peculiari, come la rinuncia all'utilizzo di finanziamenti pubblici, un equilibrio economico basato principalmente sui ricavi dalle vendite e limitato nella pubblicità, nonché l'impiego di rigorose norme statutarie che prevedono il frazionamento della proprietà su piccoli soci, senza possibilità dunque di avere un azionista di controllo.[29] Per tutte queste ragioni Travaglio e gli altri co-fondatori hanno sempre rivendicato la piena libertà e indipendenza del loro giornale. Il 3 febbraio 2015 il consiglio di amministrazione del Fatto delibera la sua nomina come nuovo direttore del giornale succedendo ad Antonio Padellaro, che rimane editorialista e viene nominato presidente della Società Editoriale il Fatto.
Televisione. Il 14 marzo 2001 viene invitato da Daniele Luttazzi alla trasmissione Satyricon (Rai Due). L'intervista verte sul libro-inchiesta L'odore dei soldi, da lui scritto con Elio Veltri, e scatena vivaci polemiche rendendolo famoso. L'intervista a Marco Travaglio a Satyricon precedette in ordine cronologico l'editto bulgaro di Silvio Berlusconi contro Luttazzi. La presenza come collaboratore in trasmissioni d'informazione televisiva è in seguito caratterizzata dalla cooperazione col giornalista Michele Santoro, col quale formò un sodalizio dal 2006 al 2015. Negli anni sono emerse frizioni e divergenze tra i due - acuitesi in particolare dopo il contestato format offerto da Santoro nella puntata di Servizio Pubblico all'ospite Silvio Berlusconi, dove Travaglio fu escluso dagli intervistatori - mettendo in discussione la collaudata collaborazione, che spinse Michele Santoro a dichiarare sempre più probabile la rottura con Travaglio in quella che fu ultima stagione del talk-show, autunno 2014 - maggio 2015. Travaglio glissò sulle frizioni affermando: "Ogni anno, a fine annata, con Michele facciamo il punto e parliamo della stagione successiva. Lui, come si sa, vuole rinnovare il format. Se Michele mi proporrà di lavorare anche l'anno prossimo, e se il nuovo format mi convincerà, sarò ben felice di continuare". Dal 14 settembre 2006 al giugno 2011 fu collaboratore fisso di Santoro nella trasmissione di approfondimento giornalistico di Rai 2 Annozero, dove ogni anno ha presentato una rubrica personale, e nel 2008 e 2009 ne ha curato la copertina. I monologhi riflessivi di Travaglio all'interno del programma sono stati riconosciuti tra i momenti di maggiore apprezzamento da parte del pubblico televisivo, in cui lo share mediamente accresce di 4 o 5 punti. Sempre con Santoro, nel marzo 2010, Marco Travaglio partecipa a Raiperunanotte, programma realizzato dalla FNSI e USIGRai e trasmesso dal PalaDozza di Bologna in diretta streaming sul web e su diverse emittenti digitali e analogiche, realizzata da Santoro per aggirare la sospensione della messa in onda dei talk show politici della RAI, imposta in occasione delle elezioni regionali del 2010. Esperienza analoga viene riproposta con l'evento Tutti in piedi realizzato da Santoro in collaborazione con la FIOM in occasione della festa dei suoi 110 anni, presso la quale Marco Travaglio è nuovamente ospite, davanti a un pubblico di 25.000 persone, nel parco di Villa Angeletti a Bologna. La collaborazione fra Travaglio e Michele Santoro si rinnovò ancora, dal 2011 al 2015, con la trasmissione Servizio pubblico. La trasmissione nacque dalle ceneri del talk-show Annozero, dopo l'interruzione del rapporto di lavoro tra Santoro e la RAI, seguendo nella prima stagione ancora una volta il modello multipiattaforma di televisioni locali, Internet e il canale satellitare Sky TG 24. Dall'autunno 2012 la trasmissione andò in onda settimanalmente su LA7. L'8 maggio 2014 iniziò la trasmissione Announo, format condotto da Giulia Innocenzi, alla quale Travaglio partecipò con la sua rubrica di commento ai fatti della settimana. Dal settembre 2015, Travaglio è collaboratore fisso della trasmissione Otto e mezzo, condotta da Lilli Gruber su LA7, in esclusiva ogni giovedì.
Periodici, settimanali e riviste. Nel contesto degli outlet legati al mondo della carta stampata, Marco Travaglio ha collaborato sin dagli anni novanta a varie pubblicazioni italiane: il settimanale Sette, allegato del Corriere della Sera, Cuore e Il Borghese. Su l'Espresso arrivò nel 1997, per volere dell'allora direttore Claudio Rinaldi e di Giampaolo Pansa, con due rubriche: una sui voltagabbana e l'altra sulle sciocchezze dette dai politici. Entrambe le rubriche gli furono tolte dal successivo direttore, Giulio Anselmi. Nel 2007, alla morte di Claudio Rinaldi, ne ha ereditato la sua rubrica Signornò. Con l'ex direttore de l'Espresso Bruno Manfellotto la sua rubrica, chiamata Carta canta, occupò l'intera pagina. Dal secondo semestre del 2013 la sua collaborazione a l'Espresso si diradò, venendo pubblicata solo a settimane alterne. Sul numero del 20 febbraio 2015 è uscito l'ultimo articolo della rubrica, chiudendo una collaborazione alla testata durata complessivamente 18 anni. Marco Travaglio scrive dal 1997 anche su MicroMega, rivista italiana di cultura, politica, scienza e filosofia, diretta da Paolo Flores d'Arcais. Travaglio scrisse sul settimanale A, chiamatovi dall'ultima direttrice Maria Latella, dove tenne dal 2006 la sua rubrica fissa Il Guastafeste fino alla chiusura definitiva del periodico, avvenuta col numero dell'11 luglio 2013. Ha scritto anche con i periodici Giudizio Universale, Linus e nel 2008 (assieme a Giuseppe Carlotti) sulla rivista La voce del ribelle, fondata e diretta da Massimo Fini.
Internet. Per quanto riguarda il mondo dell'informazione sul web il giornalista torinese si è da sempre prodigato in molteplici iniziative. Nel 2007, con Peter Gomez e Pino Corrias, ha fondato il blog Voglio Scendere, che ha curato fino a dicembre 2010, trasformatosi poi da quella data nell'attuale Cado in piedi, portale d'informazione gestito dalla casa editrice Chiarelettere. Dal 19 maggio 2008 fino al 27 settembre 2011 ha curato una videorubrica settimanale in diretta streaming sul blog di Beppe Grillo denominata Passaparola, dove commentava generalmente fatti di attualità politica, da settembre 2010 trasmessa anche su Current TV. In termini di numero di visualizzazioni su YouTube Passaparola è stata costantemente nella top 5 dei video italiani settimanali per la categoria "Notizie e politica".
Cinema. Nel 2003 e nel 2005 Marco Travaglio compare nei film-documentari Citizen Berlusconi di Andrea Cairola e Susan Gray e Viva Zapatero! di Sabina Guzzanti. Sempre nel 2005 collabora come consulente alla sceneggiatura del film Bye Bye Berlusconi!, di Jan Henrik Stahlberg. Nel 2006 compare nel film Shooting Silvio di Berardo Carboni nel ruolo di se stesso, ed afferma che uccidere Silvio Berlusconi non è un rimedio al berlusconismo. Nell'ottobre 2007 registra un'intervista sul Partito Democratico e le relative elezioni primarie per il film Visto dal basso di Piergiorgio Bellocchio. Nel 2009 compare nel documentario prodotto da Alessandro Tartaglia Polcini, un ex assistente di volo Alitalia, Tutti giù per aria - L'aereo di carta di Francesco Cordio, sulla svendita della compagnia di bandiera avvenuta nel 2008. Nel 2012 partecipa al documentario sulla situazione politica italiana Girlfriend in a Coma. Nel 2013 compare nel documentario Suicidio Italia - Storie di estrema dignità di Filippo Soldi, vincitore nel 2013 del Globo d'Oro come migliore documentario, sul caso dei suicidi in Italia determinati dalla crisi economica. Nel 2013 interpreta se stesso con un cameo nel film di Marco Ponti Passione sinistra, tratto dall'omonimo libro scritto da Chiara Gamberale. Nello stesso anno partecipa, per la prima volta come attore, al film lungometraggio Il venditore di medicine di Antonio Morabito, prodotto da Amedeo Pagani e presentato l'11 novembre fuori concorso al Festival Internazionale del Film di Roma: Travaglio vi compare nel ruolo di un incorruttibile primario di Oncologia, il professor Malinverni, personaggio che occupa un ruolo strategico nella storia, quasi un punto di svolta nello sviluppo della trama.
Teatro. Nel 2009 e 2010 Marco Travaglio si è esibito in numerosi teatri italiani con lo spettacolo teatrale Promemoria - Quindici anni di storia d'Italia, un monologo del quale è stato autore e protagonista. Dall'aprile 2011 è stato in scena con il suo spettacolo Anestesia totale, di cui è autore e protagonista, insieme all'attrice Isabella Ferrari. Ambientato in una Italia post-berlusconiana venivano prospettate le conseguenze dei decenni appena trascorsi di progressivo sfascio dell'informazione. Da gennaio 2013, ancora insieme a Isabella Ferrari, Travaglio va in scena nei teatri italiani con il suo spettacolo È Stato la Mafia, incentrato sulle vicende della trattativa che coinvolse corleonesi e uomini dello Stato. Nel 2015 organizza il nuovo spettacolo teatrale Slurp - Lecchini, Cortigiani & Penne alla Bava. La stampa al servizio dei potenti che ci hanno rovinati, con la partecipazione di Giorgia Salari per la regia di Valerio Binasco.
Musica. Nel 2013 collabora con i Two Fingerz nella canzone Vaffancuba e con gli ATPC nel brano Sangue, a cui partecipano anche Luca Morino dei Mau Mau, Bunna degli Africa Unite e Nitto dei Linea 77.
Collocazione politica. Travaglio si definisce un liberale da sempre, o meglio, come lui stesso afferma, "liberal-montanelliano". Nella sua ormai celebre intervista rilasciata a Daniele Luttazzi nella trasmissione Satyricon (2001), ha dichiarato di essere un liberale (precisamente «un allievo di Montanelli») che ha trovato "asilo" nell'area di sinistra, ma che non si identifica in quest'area politica. E in interviste più recenti (2010), confermando tali dichiarazioni, ha ribadito piuttosto di avere idee molto più vicine a posizioni che, in altri paesi, normalmente considera rappresentate dalla destra. In un'intervista rilasciata nel 2008 a Claudio Sabelli Fioretti, riportata nel libro Il rompiballe, Travaglio dichiara: «in Francia voterei a occhi chiusi per uno Chirac, un Villepin». «In Germania voterei Merkel sicuro. Mi piacevano molto Reagan e la Thatcher». Ma conclude: «la mia destra non esiste. È immaginaria. È la destra liberale. Cavour, Einaudi, De Gasperi, Montanelli. Tutti morti». Durante la trasmissione di Rai 2 Dodicesimo round ha dichiarato che nelle elezioni 2006 ha votato al Senato «senza turarsi il naso per la prima volta»: questo perché l'Italia dei Valori, afferma Travaglio, «mi ha fatto il regalo di candidare una persona che stimo e che mi onora della sua amicizia, Franca Rame». Sul blog di Antonio Di Pietro, viene pubblicato il 29 marzo 2008 un articolo di Travaglio dove esprime pubblicamente il suo voto ancora a favore dell'Italia dei Valori per le elezioni politiche del 2008, aggiungendo però «in attesa di un nuovo Einaudi o un nuovo De Gasperi», confermando la sua ispirazione liberale. Sul blog Voglioscendere, il 5 giugno 2009, alla vigilia delle elezioni europee ed amministrative 2009, dichiara l'intenzione di sostenere con il voto, ancora una volta, l'Italia dei Valori, perché soddisfatto del suo modo di fare opposizione al governo Berlusconi. Intervistato da Antonello Piroso il 22 marzo 2011, nella trasmissione Niente di personale su LA7, ha ammesso di aver votato Lega Nord – anche se solo in una delle due Camere[49] – alle elezioni politiche del 1996. Il voto al partito leghista è stato giustificato da Travaglio come un adempimento a una promessa che aveva fatto a se stesso subito dopo aver lasciato il Giornale nel 1994: da quel momento avrebbe votato per chiunque avesse «buttato giù» Silvio Berlusconi. Per le elezioni politiche del 2013, in un articolo pubblicato su MicroMega e anche durante le trasmissioni su La7 Servizio Pubblico di Michele Santoro e Otto e mezzo di Lilli Gruber, ha dichiarato il voto per Rivoluzione Civile di Antonio Ingroia alla Camera e per il Movimento 5 Stelle al Senato. Per le elezioni politiche del 2018, l'8 marzo 2018 a Otto e mezzo di Lilli Gruber su LA7, ha dichiarato il voto per il Movimento 5 Stelle.
Inchieste. Numerosi suoi lavori sono stati successivamente pubblicati sotto forma di libri-inchiesta: il più noto fra questi è senz'altro L'odore dei soldi (scritto con Elio Veltri, pubblicato nel 2001 e riedito nel 2009), in cui attraverso i vari atti processuali si affronta la questione delle origini delle fortune di Silvio Berlusconi. La presentazione del libro durante l'intervista che Daniele Luttazzi fece a Travaglio nel corso della sua trasmissione Satyricon su Rai Due suscitò nel mondo della politica e nei media forti reazioni, soprattutto perché con essa venivano sollevati pubblicamente alcuni dubbi sui rapporti di Berlusconi e Dell'Utri con Cosa nostra. Tali relazioni erano rappresentate dal giornalista ripercorrendo vari atti processuali, in particolare quelli delle inchieste svolte dalla Procura di Caltanissetta sui mandanti delle stragi di Capaci e via d'Amelio (in cui erano indagati Berlusconi e Dell'Utri) e quelli sul processo a Palermo a carico di Dell'Utri per concorso esterno in associazione mafiosa (dove fu poi condannato in primo grado a nove anni di reclusione e in appello a sette anni). Il suo libro-inchiesta e la sua intervista a Satyricon scateneranno in totale otto citazioni a giudizio nei confronti degli autori del libro Marco Travaglio ed Elio Veltri, del suo editore Editori Riuniti, nonché dei responsabili della trasmissione Daniele Luttazzi, Ballandi Entertainment (produttore del programma), RAI e Carlo Freccero (direttore di Rai Due). Gli attori Silvio Berlusconi, Forza Italia, Mediaset e l'ex Ministro delle finanze Giulio Tremonti richiederanno un risarcimento complessivo di 62 miliardi di lire e un ulteriore risarcimento (di importo non precisato) sarà richiesto da Fininvest. La magistratura stabilirà che per tutti gli otto casi in giudizio non vi è stata diffamazione e condannerà pertanto gli attori al pagamento delle spese processuali.
Riconoscimenti per l'attività di giornalista. L'associazione nazionale dei giornalisti tedeschi DJV (Deutscher Journalisten-Verband) gli ha conferito nel 2009 il "premio per la libertà di stampa" Pressefreiheit Preis. La decisione è stata accompagnata da una dichiarazione del presidente dell'associazione Michael Konken: «Onoriamo in Marco Travaglio un collega coraggioso e attento, che si impegna contro tutti gli ostacoli per difendere la libertà di stampa in Italia». Tra i vincitori che l'hanno preceduto ci sono il giornalista serbo Miroslav Filipović e la giornalista russa Ol'ga Kitova. Filipović ha ricevuto il premio per aver scoperto e denunciato pubblicamente i crimini di guerra serbi in Kosovo, Kitova è stata premiata per la sua continua battaglia contro la corruzione in Russia. Il 17 febbraio 2010 gli viene assegnato il Premiolino, assegnato annualmente a sei giornalisti della carta stampata e della televisione come premio alla carriera e per il loro contributo nel campo della libertà di stampa, quale riconoscimento per la sua attività di giornalista.
Conferenze. Nel 2010 è invitato a Parigi quale relatore al dodicesimo ciclo presso i Salons de l'Aveyron sul tema La Democratie en Danger: Les récentes dépénalisations des crimes financiers et économiques en Italie, en France et leur traitement au sein des institutions européennes (Depenalizzazioni dei crimini finanziari ed economici in Italia e Francia e il loro trattamento nel contesto delle istituzioni europee). Nel 2010 è invitato dalla London School of Economics in qualità di relatore per il ciclo di conferenze organizzato a Londra sul tema della libertà di informazione (The Status of Freedom of Information in Italy), illustrando lo stato della libertà di informazione e stampa in Italia con riferimento alla situazione sociale, la legislazione corrente in tema di finanziamento e disciplina dei gruppi editoriali e le concentrazioni monopolistiche nei settori della carta stampata e della televisione. È stato invitato nel 2010 dall'associazione spagnola ItaliaES a tenere una conferenza insieme al direttore de Il Fatto Quotidiano, Antonio Padellaro sui casi di corruzione politica in Italia e della libertà di informazione. La conferenza si è tenuta nell'aula magna dell'ordine degli avvocati di Barcellona.
Processi per diffamazione. Nel corso della sua carriera è stato più volte querelato o citato in giudizio per quanto da lui scritto o dichiarato. All'inizio del 2017 risulta che almeno un procedimento penale si è concluso con una sentenza definitiva di condanna, mentre un altro è in corso. Di seguito sono descritti alcuni dei procedimenti più significativi che lo hanno coinvolto:
Sentenze favorevoli: Dopo aver scritto assieme a Elio Veltri il libro L'odore dei soldi era stato citato in giudizio da Silvio Berlusconi per diffamazione. Nel 2005 il Tribunale civile di Roma ha stabilito che il libro non è diffamatorio ed ha condannato Berlusconi a pagare le spese processuali.
Nel 2013 la sentenza viene confermata in appello.
Nel 2015 anche in cassazione, ma le spese processuali sono state in parte compensate. In seguito all'intervista rilasciata al comico Daniele Luttazzi nel programma Satyricon è stata avviata un'azione civile per danni da parte di Mediaset contro Travaglio, Luttazzi, RAI, il direttore di Rai Due Carlo Freccero e il produttore del programma Bibi Ballandi. Nel 2005 la causa si risolve in primo grado con il rigetto della domanda e con la condanna per Mediaset a rifondere le spese processuali. Nel 2011 la sentenza viene confermata in appello. Il 20 gennaio 2015 la Cassazione conferma la sentenza di appello.
Nel 2005 Cesare Previti ha citato in giudizio Travaglio per una presunta diffamazione nei suoi confronti e nei confronti di Silvio Berlusconi nell'articolo comparso nella rubrica Bananas de l'Unità il 19 aprile 2005. Nel 2007 il tribunale civile di Roma ha rigettato la domanda di Previti e lo ha condannato a rifondere le spese processuali.
Il 6 febbraio 2009 Travaglio, Lucio Caracciolo e Paolo Flores d'Arcais ottengono dal Tribunale di Roma il risarcimento dei danni per la causa per diffamazione intentatagli dal deputato Cesare De Piccoli, per via di un intervento di Marco Travaglio al convegno Proposte per un arcobaleno di pulizia morale, tenutosi a Roma il 14 gennaio 2006 e anche per l'articolo I sommersi ed i salvati, pubblicato su Micromega del marzo 2006, in cui si rivelava che De Piccoli sarebbe stato in possesso di conti in Svizzera, sui quali gli sarebbe stata accreditata una somma di duecento milioni di lire da parte della FIAT.
Nel maggio 2009 la Cassazione conferma un proscioglimento sancito l'11 dicembre 2008 dal GIP di Roma, relativo ad un'indagine per presunta diffamazione ai danni di Fabrizio Del Noce, attraverso la pubblicazione di un articolo su l'Unità del 6 marzo 2007, condannando il querelante al pagamento delle spese processuali e a 1500 euro di ammenda.
Il 9 dicembre 2009 il gip di Roma ha disposto l'archiviazione della causa per diffamazione a mezzo stampa intentata da Cesare Geronzi contro Marco Travaglio, accusato di aver «fornito un'immagine del querelante come persona responsabile di molteplici reati» travalicando «ogni limite nella corretta informazione» e ponendo in essere un pesante attacco «mediante la prospettazione di notizie in parte false e in parte maliziosamente rappresentative», nel suo intervento alla trasmissione Annozero del 1º novembre 2007, nella puntata Arrivano i mostri.
Il 30 gennaio 2013 il tribunale civile di Roma condanna Mediaset e RTI a risarcire la somma di 30.000 euro a Marco Travaglio e Antonio Padellaro in seguito all'ingiusto processo a loro carico riguardo ad un articolo de Il Fatto Quotidiano del 19 settembre 2010.
Il 28 aprile 2009 è stato condannato in primo grado dal Tribunale penale di Roma per il reato di diffamazione ai danni dell'allora direttore di Raiuno, Fabrizio Del Noce, perpetrato mediante un articolo pubblicato su L'Unità dell'11 maggio 2007. A fine maggio 2009 viene definitivamente prosciolto in Cassazione dall'accusa di diffamazione. La Corte, oltre aver respinto il ricorso, ha condannato Fabrizio Del Noce al pagamento delle spese processuali e a versare 1500 euro alla cassa delle ammende.
Procedimenti estinti per remissione della querela. Dal 2004 è stato oggetto di un procedimento penale per il reato di diffamazione aggravata dal mezzo della stampa, a seguito degli articoli M'illumino d'incenso e Zitti e Vespa, pubblicati sul quotidiano l'Unità nei giorni 12 marzo e 6 maggio di quello stesso anno. Il procedimento ai danni del giornalista si è concluso nel 2008 dopo che la persona offesa, il giornalista Antonio Socci, ha deciso di rimettere la querela a seguito delle scuse pubbliche di Travaglio.
Procedimenti con condanna penale definitiva.
Nel gennaio 2010 la Corte d'Appello penale di Roma lo ha condannato a 1.000 euro di multa per il reato di diffamazione aggravato dall'uso del mezzo della stampa, ai danni di Cesare Previti. Il reato, secondo il giudice monocratico, era stato commesso mediante l'articolo Patto scellerato tra mafia e Forza Italia pubblicato sull'Espresso il 3 ottobre 2002. La sentenza d'appello riforma la condanna dell'ottobre 2008 in primo grado inflitta al giornalista ad 8 mesi di reclusione e 100 euro di multa. In sede civile, a causa del predetto reato, Travaglio era stato condannato in primo grado, in solido con l'allora direttore della rivista Daniela Hamaui, al pagamento di 20.000 euro a titolo di risarcimento del danno in favore della vittima del reato, Cesare Previti. Il 23 febbraio 2011 la condanna per diffamazione confermata in appello per il processo Previti dovrebbe cadere in prescrizione, beneficio al quale Travaglio, che presenta ricorso per Cassazione, non rinuncia. Tuttavia la Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso e la condanna diventa definitiva. Travaglio, sostenendo che sia stata lesa la sua libertà di parola, ricorre alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, la quale però conferma nel 2017 che l'articolo di Travaglio Patto scellerato tra mafia e Forza Italia fosse effettivamente diffamatorio, poiché l'intercettazione riportata "era essenzialmente fuorviante e confutata dal resto della dichiarazione non inclusa dal ricorrente nell'articolo".
Procedimenti in corso. Travaglio è stato citato in giudizio per diffamazione nei confronti di Tiziano Renzi, per i suoi articoli riguardanti un processo penale per bancarotta che ha visto lo stesso Tiziano Renzi assolto con formula piena.
Sentenze di condanna in sede civile.
Nel 2000 è stato condannato in sede civile, dopo essere stato citato in giudizio da Cesare Previti a causa di un articolo in cui Travaglio ha definito Previti «un indagato» su L'Indipendente, Previti era effettivamente indagato ma a causa dell'impossibilità da parte dell'avvocato del giornale di presentare le prove in difesa di Travaglio in quanto il legale non era retribuito, il giornalista fu obbligato al risarcimento del danno quantificato in 79 milioni di lire.
Il 4 giugno 2004 è stato condannato dal Tribunale di Roma in sede civile a un totale di 85.000 euro (più 31.000 euro di spese processuali) per un errore contenuto nel libro La Repubblica delle banane scritto assieme a Peter Gomez e pubblicato nel 2001; in esso, a pagina 537, si attribuiva erroneamente all'allora neo-parlamentare di Forza Italia, Giuseppe Fallica, una condanna per false fatture che aveva invece colpito un omonimo funzionario di Publitalia. L'errore era poi stato trasposto anche su L'Espresso, il Venerdì di Repubblica e La Rinascita della Sinistra, per cui la condanna in solido, oltreché alla Editori Riuniti, è stata estesa anche al gruppo Editoriale L'Espresso. Nel 2009, dopo il ricorso in appello, la pena è stata ridotta a 15.000 euro.
Il 5 aprile 2005 è stato condannato dal Tribunale di Roma in sede civile, assieme all'allora direttore dell'Unità, Furio Colombo, al pagamento di 12.000 euro più 4.000 di spese processuali a Fedele Confalonieri (Mediaset) dopo averne associato il nome ad alcune indagini per ricettazione e riciclaggio, reati per i quali, invece, non era risultato inquisito.
Il 20 febbraio 2008 il Tribunale di Torino in sede civile lo ha condannato a risarcire Fedele Confalonieri e Mediaset con 26.000 euro, a causa di una critica ritenuta «eccessiva» nell'articolo Piazzale Loreto? Magari[96] pubblicato nella rubrica Uliwood Party su l'Unità il 16 luglio 2006.
Nel giugno 2008 è stato condannato dal Tribunale di Roma in sede civile, assieme al direttore dell'Unità, Antonio Padellaro, e a Nuova Iniziativa Editoriale, al pagamento di 12.000 euro più 6.000 di spese processuali per aver descritto la giornalista del TG1 Susanna Petruni come personaggio servile verso il potere e parziale nei suoi resoconti politici: «La pubblicazione - si leggeva nella sentenza, - difetta del requisito della continenza espressiva e pertanto ha contenuto diffamatorio».
Il 21 ottobre 2009 è stato condannato in Cassazione (Terza sezione civile, sentenza 22190) al risarcimento di 5.000 euro nei confronti del giudice Filippo Verde che era stato definito «più volte inquisito e condannato» nel libro Il manuale del perfetto inquisito, affermazioni giudicate diffamatorie dalla Corte in quanto riferite «in maniera incompleta e sostanzialmente alterata» visto il «mancato riferimento alla sentenza di prescrizione o, comunque, la mancata puntualizzazione del carattere non definitivo della sentenza di condanna, suscitando nel lettore l'idea che la condanna fosse definitiva (se non addirittura l'idea di una pluralità di condanne)».
Il 18 giugno 2010 è stato condannato dal Tribunale di Torino – VII sezione civile – a risarcire 16.000 € al Presidente del Senato Renato Schifani (che aveva chiesto un risarcimento di 1.750.000 €) per diffamazione avendo evocato la metafora del lombrico e della muffa a Che tempo che fa il 10 maggio 2008. Il Tribunale ha invece ritenuto che le richieste di chiarimenti, da parte di Travaglio, circa i rapporti di Schifani con esponenti della mafia siciliana rientrino nel diritto di cronaca, nel diritto di critica e nel diritto di satira.
L'11 ottobre 2010 Travaglio è stato condannato in sede civile per diffamazione dal Tribunale di Marsala, per aver dato del "figlioccio di un boss" all'assessore regionale siciliano David Costa, arrestato con l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e poi assolto in appello. Travaglio è stato condannato a pagare 15.000 euro.
Il 15 febbraio 2017 il giornale Fatto Quotidiano, diretto da Marco Travaglio, è stato condannato in primo grado dal tribunale civile di Roma per diffamazione nei confronti di Giuliano Amato. La sentenza afferma che negli articoli del Fatto, a firma di Marco Travaglio: "non può non riconoscersi la sussistenza del reato di diffamazione aggravata a mezzo stampa, sussistendone gli elementi oggettivo e soggettivo, che, come noto, il giudice civile può accertare in via incidentale".
Il 23 gennaio 2018 è stato condannato per diffamazione dal Tribunale di Roma in merito ad un articolo contro tre magistrati siciliani, riguardo alla latitanza di Bernardo Provenzano; la provvisionale disposta ammonta a 150.000 euro.
LA FINE DELLA DIVERSITA' MORALE. I PANNI SPORCHI SI LAVANO IN...LA REPUBBLICA.
Così De Benedetti rottama Scalfari e demolisce Repubblica, scrive Paolo Delgado il 19 gennaio 2018 su "Il Dubbio". Lo scontro dentro il quotidiano diretto da Mario Calabresi. Anche con le migliori intenzioni è difficile evitare la sensazione di una rotta un po’ sgangherata. Ieri il cdr di Repubblica ha risposto con un comunicato durissimo alle critiche del suo stesso editore, Carlo De Benedetti, che «si unisce al coro di chi con cadenza quasi quotidiana attacca questo giornale e ciò che rappresenta». Poi i redattori si sono riuniti in assemblea per fronteggiare l’assalto del «nemico interno». Immancabilmente nei prossimi giorni arriverà la replica, prevedibilmente rigida, del padre fondatore strapazzato dall’Ingegnere dal salottino tv di Lilli Gruber: Scalfari «l’ingrato» a cui De Benedetti ha «dato un pacco di miliardi», il «vanitoso» che tra Berlusconi e Di Maio ha scelto il primo invece di rispondere come da copione «né l’uno né l’altro», il «signore molto anziano che non è più in grado di sostenere domande e risposte». Il rimbambito, insomma. Non è stata solo la violenza davvero inusuale degli attacchi dell’editore a Repubblica e all’ex amico Scalfari a suscitare quell’impressione di caduta degli dei che si ricavava inevitabilmente dall’intervista di Carlo De Benedetti. L’Ingegnere voterà Pd, però, come si diceva ai bei tempi, turandosi il naso, avendolo Renzi deluso. Sul caso increscioso di insider training sulla riforma delle Popolari, poi, l’editore di Repubblica si è arrampicato palesemente sugli specchi, essendo a disposizione del colto e dell’inclita l’intercettazione che lo sbugiarda. Il segreto della sbandata mediatica sta probabilmente in quella telefonata ricevuta dal nemico di sempre, Silvio Berlusconi, «dopo la stupidaggine che ha detto Scalfari». Il Cavaliere offriva la pace in nome dell’asse contro il nemico comune, quell’M5S che De Benedetti, Scalfari, Berlusconi, Renzi e Moscovici, divisi su tutto il resto, considerano il pericolo pubblico numero uno nella Penisola. L’offerta è stata respinta al mittente con il dovuto gelo: «Ho risposto che non faccio politica». Ma il senso di quella stupefacente telefonata resta tutto: a comporre il numero è stato chi dalla guerra iniziata trent’anni fa a Segrate esce oggi vincitore, vicino a trionfare sul fronte decisivo che col tempo è diventato quello della politica e non più quello della competizione aziendale a colpi di sgambetto. Quando è cominciata la guerra il Cavalier Berlusconi e l’Ingegner de Benedetti erano due industriali rampanti, molto diversi ma con in comune qualcosa che avrebbe potuto persino spingerli verso un’alleanza. Erano gli intrusi, i nuovi arrivati che tentavano di incrinare e infrangere il potere assoluto delle grandi famiglie del capitalismo italiano: erano parvenu. Seguivano strategie distinte: l’Ingegnere manteneva un piede fuori e uno dentro il mondo dei salotti comme il faut, il Cavaliere tentava l’arrembaggio solo dall’esterno. Politicamente appoggiavano e si appoggiavano a partiti diversi ma alleati nel pentapartito. De Benedetti, intimo di Bruno Visentini, era vicino al Pri, il partito di La Malfa, Spadolini e della borghesia illuminata. Berlusconi si beveva Milano e non solo quella con il socialista grintoso, Bettino Craxi. Si diedero battaglia, per questioni d’interesse ma anche per incompatibilità di carattere. Lo sbotto di Berlusconi alla notizia di quella soffiata di Renzi che permise all’ingegnere di guadagnare 600mila euro di plusvalenze in un batter d’occhio, «L’hanno preso con le mani nella marmellata», era di cuore. I duellanti hanno incrociato le lame davvero su tutti i fronti: in quello torbido delle scalate aziendali, nelle aule di tribunale, con un risarcimento di quasi mezzo miliardo versato dal proprietario Fininvest a quello Cir come risarcimento per l’acquisizione con mezzi indebiti di Mondadori, ma anche nelle battaglie navali tra fregate mediatiche e poi, sempre di più, direttamente nell’agone politico. Il sire di Arcore in prima persona, costretto dalla repentina uscita di scena del suo protettore Craxi, a impegnarsi direttamente per difendere il suo biscione. De Benedetti invece ha sempre preferito tenersi dietro le quinte, ma se c’è stato un vero capo del centrosinistra, diretto antagonista del Cavaliere nel ventennio e passa che gli storici definiranno sbrigativamente ‘ il berlusconismo’, è proprio lui. Quando De Benedetti vantò «la tessera numero uno» del Pd Veltroni di fatto confermò fingendo di smentire: «Quella fu una boutade! Certo però i suoi giornali hanno avuto un ruolo molto importante nell’evoluzione della sinistra italiana. La sua è una cultura non ideologica ma molto seria, rispettosa della produttività dell’impresa e delle regole del gioco e attenta alla giustizia sociale». Una fotocopia del dna che, secondo il suo primo segretario, il Pd avrebbe dovuto poter vantare. Oggi quel partito moderato di sinistra che doveva veicolare la rappresentanza del nuovo capitalismo rampante italiano, diverso da quello all’arrembaggio di Berlusconi ma anche da quello eterno delle grandi famiglie è alle corde. Se il deludente di Rignano tornerà al governo, e di certo non in prima persona ma per interposto Gentiloni, sarà grazie all’alleanza col nemico di Arcore, il cui prezzo sarà certamente esoso. Se si dovrà tornare alle urne in breve tempo, a giocarsi la partita saranno la plebe stracciona di Di Maio e quella ripulita di Berlusconi, che è anche il solo attore politico a poter sperare in una vittoria secca il 4 marzo. Il partito modellato dall’esterno da De Benedetti, dopo la guerra dei trent’anni è un comprimario guidato da un leader di cui lo stesso ingegnere ha detto chiaramente, di fronte alla commissione parlamentare sulle banche che «di economia, onestamente, ci capisce veramente poco» e che in privato pare definisca più sinteticamente: «Un cazzone». Se del caso, Carlo De Benedetti, il riformista illuminato ha sempre giocato durissimo. Non a caso nel breve periodo trascorso in Fiat prima di essere messo alla porta dall’Avvocato lo chiamavano la tigre perché, come scriverà decenni più tardi Stefano Merlo, era «implacabile, aggressivo, sprezzante e dal licenziamento facile a tutti i livelli». Ma stavolta non si tratta solo di mano pesante. Se davvero ci fosse la mano dell’Ingegnere dietro il falso scoop della Stampa, titolone con notizia di un’indagine sulla vendita del Milan adoperata a scopo di maxi- riciclaggio da Berlusconi seguito da drastica smentita del procuratore Greco, sarebbe un preciso segnale di disperazione e sbandamento. A peggiorare la situazione ci si mette del resto anche l’appello del processo per i morti d’amianto alla Olivetti di Ivrea. Il primo grado si è concluso con una condanna a cinque anni per l’Ingegnere. Se la sentenza fosse confermata il rischio di dover seguire la strada di Berlusconi, tra carcere e affidamento ai servizi sociali, diventerebbe molto concreto. Ma in questa italianissima Guerra dei trent’anni (per ora) colpi di scena e ribaltamenti imprevisti non sono mai mancati. Non è detto che sia finita qui.
De Benedetti, le cene eleganti e "la Repubblica". Al giornale fondato da Scalfari non hanno gradito le esternazioni dell'editore: ha violato la regola del "si fa ma non si dice", scrive il 19 gennaio 2018 su Panorama Giorgio Mulè. Dalle parti di Repubblica hanno un'idea di sé molto prossima a una chiesa. Pontificano su tutto e su tutti: distribuiscono patenti di moralità a destra e manca, segnano a dito i reprobi, si elevano a castigatori dell'umanità politica e giornalistica. Si prendono sul serio: hanno i loro riti, rivendicano di essere una comunità pregna di valori (ah, i valori...), hanno un gran sacerdote in Eugenio Scalfari che santifica ogni domenica con un sermone spesso autocelebrativo e un editore che non è transeunte ma al contrario è eterno e assoluto. Il nome di quest'ultimo è Carlo De Benedetti. Quella di Repubblica è in realtà una chiesa sconsacrata perché è popolata di peccatori e finti moralisti. Tanto per capirci: a quella chiesa è capitato di azzannare gli "infedeli" sulle furberie salvo poi scoprire che il suo direttore aveva acquistato un attico ai Parioli dichiarando nell'atto un prezzo inferiore di 850 milioni di lire versati in nero con assegni da 20 milioni ciascuno; a quella chiesa è successo di imbastire una campagna feroce contro i giornalisti puzzoni di destra (per loro essere di destra è già un'offesa grave) sulla "macchina del fango" attivata con gli articoli sulla casa di Montecarlo della premiata ditta Fini-Tulliani salvo poi scoprire che era tutto vero e non avvertendo se non il pudore almeno la necessità di chiedere scusa. Mi fermo qui per non rubare spazio al protagonista di questo articolo e dunque torno a De Benedetti. Nella chiesa sconsacrata lui è il Deus ex machina, l'elemento che nel teatro greco risolveva le tragedie. L'Ingegnere è persona astutissima incappato spesso nelle maglie della giustizia. Tanto per dire, tra qualche giorno dovrà affrontare un processo d'Appello al quale arriva con una condanna a cinque anni e due mesi di carcere per omicidio colposo plurimo per le morti causate dall'amianto alla Olivetti. Pochi giorni fa, poi, sono stati rivelati un'intercettazione telefonica e un verbale del medesimo sulla vicenda delle banche popolari. Lettura interessantissima negata in massima parte ai lettori di Repubblica, abituati a ingurgitare in questi anni paginate e paginate di intercettazioni telefoniche di ogni genere farcite da immancabili pistolotti moralisteggianti destinati a rimanere invenduti persino ai saldi delle indulgenze. Ma tant'è. De Benedetti, al telefono con la persona che ne cura gli investimenti, sa per certo che arriverà un decreto sulle banche popolari e assicura: "Passa, ho parlato con Renzi, passa...". De Benedetti fa investire 5 milioni di euro acquistando titoli delle popolari e quattro giorni dopo il Consiglio dei ministri approva il decreto che impone alle banche di trasformarsi in società per azioni. I titoli salgono e l'Ingegnere porta a casa, cotto e mangiato, un guadagno di 600 mila euro. Chiamato dalla Consob a spiegare il tutto (la Procura di Roma poi archivierà), De Benedetti ricostruisce il suo rapporto con Renzi e rivela i rapporti con altri ministri. Dalla lettura ricaviamo che "normalmente" De Benedetti e Renzi "fanno breakfast" (sarebbe la prima colazione della plebe) insieme a palazzo Chigi. Succede perché Renzi è stato folgorato quando era ancora sindaco di Firenze dalla levatura di Don Carlo e gli disse quando si davano del lei: "Senta, io avrei il piacere di poter ricorrere a lei per chiederle pareri, consigli quando sento il bisogno". Accolta la richiesta del discepolo, l'Ing. diventò "l'advisor gratuito, saltuario e senza impegni" del segretario Pd ma puntualizzò: "Guardi, va benissimo. Non faccio... non stacco parcelle però sia chiara una roba: che se lei fa una cazzata io le dico: caro amico è una cazzata". In sintesi si riservò "il diritto di dirgli che era un cazzone quando mi sembrava fosse il caso". A giudicare dai risultati ottenuti da Renzi, il "cazzometro" non deve aver mai registrato importanti oscillazioni. Di sicuro bisogna dare credito all'Ingegnere quando racconta di aver cercato di trasferire più o meno inutilmente a Renzi, tra un caffè e un cornetto, elementi di economia in quanto l'ex premier, come milioni di italiani sanno, "di economia capisce onestamente poco". Il discepolo un po' somarello in economia si fidò del Maestro sul Jobs act con i risultati che conosciamo (la creazione di una valanga di precari). E infatti l'Ingegnere ricorda: "Io gli dicevo che lui doveva toccare, per primo, il problema lavoro e il Jobs act è stato - qui lo dico senza, senza vanto, anche perché non mi date una medaglia - ma il il Jobs act gliel'ho... gliel'ho suggerito io all'epoca come una cosa che poteva secondo me essere utile e che, di fatto, lui poi è stato sempre molto grato perché è l'unica cosa che gli è stata poi riconosciuta". Colui che si definisce "l'ultimo grande vecchio che è rimasto in Italia... non per merito ma per decorrenza dei termini" entra ed esce dalle stanze del potere. In realtà preferisce ricevere in casa. Siccome il breakfast è riservato a Renzi c'è spazio per i dinner. Insomma, dà vita e vere e proprie cene eleganti con esponenti del governo che si abbeverano alla sua saggezza: "Sono molto amico di Elena Boschi, ma non la incontro mai a Palazzo Chigi. Lei viene sovente a cena a casa nostra ma non…diciamo io, del Governo vedo sovente la Boschi, Padoan. Anche lui viene a cena a casa mia e basta. Perché poi sa, quello lì si chiama Governo, ma non è un Governo, sono quattro persone, ecco". Dopo questo inno alla collegialità e lette queste confessioni, a Repubblica si sono resi conto che l'Ingegnere l'ha fatta fuori dal vaso. Perché ha contravvenuto alla prima regola della casa, pardon! della chiesa sconsacrata: si fa ma non si dice.
(L'editoriale del direttore di Panorama è stato pubblicato sul numero del 18 gennaio 2018 del settimanale con il titolo: "Le cene eleganti di quell'elegantone dell'ingegnere")
De Benedetti, quando l’ingegnere vestiva alla marinara, scrive Paolo Delgado il 5 Dicembre 2017 su "Il Dubbio". Il ritratto di Carlo De Benedetti. Galeotto fu Silvio, e non per a prima volta. Tra Eugenio Scalfari, decano dei direttori italiani, capo del partito dei moralizzatori in pianta stabile, e Carlo De Benedetti, finanziere spericolato in apparenza e freddo come il ghiaccio nella sostanza, editore democratico e di sinistra per antonomasia, volano scintille per quell’incauta apertura del barbuto direttore sulla possibilità di votare addirittura per il Cavaliere del Male pur di sbarrare la strada ai barbari con la bandiera a cinque stelle. Non è la prima volta che capita. Però nella precedente occasione le parti erano invertire: a flirtare con l’infrequentabile, provocando la levata di scudi del giornalista intrepido, era stato nel 2005 l’Ingegnere, sino a quel momento nemico giurato del reprobo di Arcore. Un fondo comune per le aziende in crisi e un’offerta a sorpresa di Berlusconi: «Tu ci metti 50 milioni? Niente in contrario se faccio lo stesso anche io?». «Ma figuriamoci». Ad avere qualcosa in contrario fu però Scalfari e non risparmiò la rampogna neppure quando De Benedetti, preso di mira, ingranò la retromarcia. Al contrario Scalfari pontificò alla grande invocando «il legittimo disagio in quanti condividono la linea morale, culturale e politica del nostro gruppo editoriale e del nostro giornale». Poi, giusto per chiarire: «Forse Carlo De Benedetti non aveva valutato a fondo l’ampiezza di questo disagio». Prima di quel disagiatissimo momento solo una volta l’ombra del divorzio aveva aleggiato sul felice sodalizio: quando nel 1993, nel pieno vortice di tangentopoli, l’Ingegnere era finito in manette. Scalfari vide incrinarsi «i profondi e comuni convincimenti romani», ammise di considerare il divorzio, poi scelse di soprassedere. L’imputato è poi uscito dal guaio legato agli appalti per le Poste pulitissimo. Un po’ per assoluzione, un po’ per prescrizione. Il duello eterno tra l’Ingegnere e il Cavaliere è stato combattuto negli ultimi decenni su tutti i fronti: in Borsa, nelle manovre losche ai margini delle grandi scalate, nelle aule processuali, sulle colonne delle grandi testate giornalistiche, nell’arena di una politica legata a filo triplo agli scontri tra potentati economici e finanziari. Non è un caso che quando Berlusconi aprì il sipario sulla sua avventura politica con il famoso endorsement a favore di Fini nella sfida per la guida di Roma, nel 1993, il primo a rimbeccarlo notificando che lui invece avrebbe votato per Rutelli fu proprio De Benedetti. C’è il rischio però che quella lunghissima disfida nasconda il braccio di ferro precedente e quasi altrettanto lungo tra De Benedetti e l’industriale che nel panorama economico- finanziario italiano rappresentava in tutto e per tutto l’opposto esatto di Silvio Berlusconi: l’Avvocato Gianni Agnelli, signore incontrastato dei salotti buoni dell’altissima borghesia italiana. Il rapporto tra il futuro Ingegnere e la famiglia Agnelli nasce sui banchi di scuola dove studiavano fianco a fianco il figlio dell’industria-le ebreo torinese di media taglia Rodolfo De Benedetti e Umberto Agnelli. I pargoli sono entrambi del 1934 frequentano lo stesso ambiente – quello descritto da Susanna Agnelli nel suo “Vestivamo alla marinara” – si trovano nella stessa classe. La famiglia De Benedetti aveva lasciato l’Italia per la Svizzera con l’avvento delle leggi razziali e decenni dopo l’esule diventato nel frattempo uno dei principali industriali italiani avrebbe reso omaggio all’ospitale Elvezia prendendo la cittadinanza svizzera pur se continuando a pagare le tasse nella natìa penisola. Umberto non aveva avuto di questi problemi ma quando i due diventano amiconi quei tempi bui sono alle spalle. Il neo Ingegnere acquista in tandem col fratello Franco, futuro senatore, una società di affari immobiliari, la Gilardini e la trasforma anno dopo anno in holding di rilievo specializzata nel settore metalmeccanico. Nel ‘ 76, grazie all’amicizia con Umberto Agnelli, diventa amministratore delegato Fiat: vende la Gilardini e investe i proventi in azioni Fiat. Se ne va sbattendo la porta quattro mesi dopo: «E’ uno a cui piace comandare in casa propria», commenta ironico l’Avvocato. Vendute le azioni Fiat l’Ingegnere compra quelle della Cir e si ritrova così editore di Repubblica e dell’Espresso. Rivale degli Agnelli su tutti i fronti, incrina il fronte degli industriali compattamente anti Pci, intrecciando relazioni con il partito che i salotti buoni ancora considerano nemico irriducibile. Incontenibile passa alla Olivetti, dove sfodera un piglio autocratico opposto a quello sbandierato in politica, del resto è proprio lui a spiegare che gli industriali e la politica attiva sono poco compatibili: un buon politico deve essere democratico, un imprenditore capace deve invece essere dittatoriale. La guerra con Berlusconi inizia quasi per caso. De Benedetti ha messo gli occhi sulla Sme, gigante del settore alimentare. Romano Prodi, dagli spalti dell’Iri, vende a prezzi di sconto nel 1985. Craxi cerca qualcuno da opporre all’editore che dalle colonne di Repubblica lo cannoneggia quotidianamente e punta sull’emergente Silvio Berlusconi per organizzare una cordata alternativa. L’affare Sme va a monte la faccenda si concluderà solo nel 1992 con lo spezzettamento della Sme e la vendita in diverse tranches per complessivi 2000 miliardi contro i meno di 400 pattuiti nell’intesa Prodi- De Benedetti. Finita una battaglia ne inizia subito un’altra, quella per la conquista di Mondadori, che si porta dietro un codazzo di processi e condanne lungo chilometri. Berlusconi pianta la bandiera col biscione sulla pregiata casa editrice: il prezzo sarà un decennio più tardi la condanna di Cesare Previti, avvocato e corruttore, e un risarcimento di 493 milioni da parte del vincitore scorretto. Agnelli, Berlusconi e De Benedetti sono i tre volti del capitalismo italiano: il sovrano dell’establishment, l’ambizioso scalatore che ha provato a sovvertire le regole dall’interno dell’establishment stesso, l’avventuriero parvenu. Si sono dati battaglia per decenni e senza esclusione di colpi, adoperando stampa e politica come pedine nel loro gioco. Si sono riempiti spesso la bocca con la parola democrazia, qualche volta credendoci davvero, molto più spesso adoperando anche quella paroletta augusta come viatico per qualcosa di molto più importante: gli affari.
Carlo De Benedetti contro Scalfari e Repubblica, scrive giovedì 18 gennaio 2018 Il Post. L'ex editore di Repubblica ha detto che Scalfari è un ingrato e che il giornale ormai ha perso coraggio e rilevanza. Intervistato da Lilli Gruber durante la puntata di Otto e mezzo di mercoledì 17 gennaio, il fondatore e storico editore di Repubblica Carlo De Benedetti ha detto cose sorprendentemente dure nei confronti di Eugenio Scalfari, che di Repubblica è stato direttore dal 1976 al 1996, e dell’attuale linea editoriale del giornale. Dopo aver parlato della recente questione delle presunte informazioni riservate che De Benedetti avrebbe ricevuto da Renzi sul salvataggio delle banche popolari e dopo aver parlato del Movimento 5 Stelle, Gruber ha chiesto a De Benedetti se condividesse l’opinione di Eugenio Scalfari – primo storico direttore di Repubblica – secondo cui tra Di Maio e Berlusconi sarebbe meglio Berlusconi. De Benedetti ha detto che «la risposta ovvia da dare se uno non ha problemi di vanità» è che tra Di Maio e Berlusconi è meglio nessuno dei due, ma a quel punto è stato incalzato da Gruber sulla “vanità” di cui aveva accusato Scalfari e il discorso ha cambiato direzione. De Benedetti allora ha ricordato i molti favori economici che ha fatto a Scalfari e a Repubblica nel corso degli ultimi 40 anni e ha seccamente preso le distanze da Scalfari: Ho contribuito a fondarla, li ho salvati dal fallimento e ho dato un pacco di miliardi pazzesco – miliardi di lire – ma un pacco pazzesco a Eugenio quando ha voluto essere liquidato dalla sua partecipazione. Quindi Eugenio deve solo stare zitto tutta la vita, con me. Poi può parlare del Papa, di Draghi, di queste cose di cui lui si diletta parlare, ma non può parlare dei rapporti con me. Quindi pensa che sia un ingrato? Assolutamente sì. Pochi secondi dopo, De Benedetti ha interrotto Gruber per continuare a parlare di Repubblica, dicendo di aver «solo pagato dei prezzi» per esserne stato l’editore e di essere particolarmente triste «quando vedo che perde la sua identità». De Benedetti si è lamentato del fatto che su Repubblica non si faccia più politica – «Repubblica è un giornale politico nato per essere un giornale politico» – e del fatto che in un recente editoriale non firmato in cui il giornale prendeva le distanza da lui, lui stesso non fosse stato ringraziato per «l’indipendenza che sono io che ho dato a loro, non loro che hanno preteso da me».
Chiudendo l’intervista, Gruber ha chiesto: Come definirebbe i suoi rapporti con Repubblica, oggi? Assenti. [..] Mi dica un consiglio che darebbe oggi al direttore di Repubblica. Mah, sa, Don Abbondio diceva che il coraggio uno non se lo può dare. Se non ce l’ha non se lo può dare.
Oggi il Comitato di redazione di Repubblica – ovvero l’assemblea di tutti i suoi giornalisti – ha risposto a De Benedetti con un comunicato in cui si dice: Il Comitato di Redazione respinge le accuse lanciate ieri sera a Otto e mezzo dall’Ingegner De Benedetti nei confronti di Repubblica e di Eugenio Scalfari. Non è la prima volta che Carlo De Benedetti, da quando ha lasciato gli incarichi operativi all’interno del Gruppo Espresso, si unisce al coro di chi con cadenza quasi quotidiana attacca questo giornale e ciò che rappresenta. Ma vogliamo tranquillizzare Carlo De Benedetti: l’identità e il coraggio che Repubblica dimostra nell’informare i propri lettori e nel portare avanti le proprie battaglie sono vivi e sono testimoniati innanzitutto dal lavoro dei giornalisti che ogni giorno difendono e dimostrano la propria indipendenza senza bisogno che qualcuno gliela conceda. L’assemblea dei redattori di Repubblica si riunirà oggi per ribadire la propria determinazione a rispondere a ogni attacco che voglia mettere in dubbio la loro professionalità e il patrimonio di valori che il giornale in quarant’anni si è costruito.
La risposta di Repubblica a Carlo De Benedetti, scrive venerdì 19 gennaio 2018 Il Post. Mario Calabresi e Eugenio Scalfari hanno ribattuto alle accuse dell'ex proprietario: proprio con i toni di un litigio tra ex. Il direttore di Repubblica Mario Calabresi ha scritto un editoriale in cui risponde alle critiche che l’imprenditore Carlo De Benedetti aveva mosso al giornale, di cui è stato finanziatore e proprietario e di cui ora è presidente onorario. Intervistato da Lilli Gruber a Otto e mezzo lo scorso mercoledì, De Benedetti aveva detto cose sorprendentemente dure nei confronti di Eugenio Scalfari e dell’attuale linea editoriale di Repubblica: aveva parlato di perdita di identità e di un’assenza di riconoscenza nei suoi confronti, ricordando di aver sempre investito molto nel giornale, senza ottenere molto in cambio. Nell’editoriale pubblicato oggi, Mario Calabresi ha riconosciuto il ruolo fondamentale che De Benedetti ha ricoperto nella storia di Repubblica, ma ha anche stigmatizzato la sua scelta di criticare il giornale durante la trasmissione di un editore concorrente. Calabresi ha ribadito l’indipendenza della redazione e della direzione del giornale. Carlo De Benedetti è stato per oltre un quarto di secolo l’editore di questo giornale, finché cinque anni fa decise di dare la società ai suoi figli per tenerne solo la presidenza. Alla fine di giugno dello scorso anno ha lasciato anche quella mantenendo solo la carica di presidente onorario, senza alcun ruolo decisionale. Purtroppo questa transizione — è ormai sotto gli occhi di tutti — invece di essere risolta in modo sereno, ha lasciato strascichi polemici contro il giornale ma che danneggiano innanzitutto il lascito e la storia di De Benedetti come editore. La rottura con Eugenio Scalfari e le critiche ingenerose al fondatore di Repubblica non erano immaginabili, così come quelle mosse al giornale, alla sua identità e a questa direzione. In queste settimane anche al New York Times un padre ha lasciato la guida della società al figlio. Non accadrà mai di vedere quel padre attaccare il giornale sugli schermi televisivi di un gruppo concorrente. Inconcepibile farlo mentre si dice di amare profondamente questa testata e la sua storia.
Sempre nel numero di Repubblica di oggi c’è anche un’intervista a Eugenio Scalfari, che oltre ad aver fondato il giornale lo ha diretto fino al 1996. Anche Scalfari ha risposto alle cose che aveva raccontato De Benedetti, contestualizzando alcune sue affermazioni sul ruolo che ebbe nel fondare e poi finanziare il giornale e ribattendo all’accusa di essersi un po’ rimbambito, come ha lasciato intendere De Benedetti nella sua intervista su La7.
Davvero non c’è De Benedetti tra i fondatori di Repubblica?
“No. I soldi che diede non legittimano la parola fondatore. E aggiungo che è la prima volta che glielo sento dire. Repubblica è figlia dell’Espresso che fu fondato da Adriano Olivetti, Carlo Caracciolo ed Eugenio Scalfari. Non ce ne solo altri”.
Quanti soldi mise?
“Per far nascere Repubblica io e Caracciolo avevamo bisogno di cinque miliardi di lire. La Mondadori ne mise la metà. L’altra metà toccava a noi, ma non ce l’avevamo. Nella ricerca di danaro io mi rivolsi anche a Carlo De Benedetti che era allora il presidente degli industriali di Torino. Fu il primo che cercai perché a Torino tra l’altro mio suocero aveva diretto La Stampa, e dunque credetti così di sfruttarne il grande prestigio. De Benedetti mi diede cinquanta milioni, ma non voleva che si sapesse. Mi spiegò che lo faceva perché gli piaceva il progetto. Ma aggiunse: “Non lo racconti mai a nessuno” (allora ci davamo del lei). E infine: “Non lo racconti, ma non lo dimentichi”. E io non l’ho dimenticato”.
Vuoi dire che gli sei stato grato?
“Ha contribuito con cinquanta milioni ad un capitale di 5 miliardi. Non sono abituato a fissare i prezzi della gratitudine. Sicuramente ce ne siamo ricordati quando poi gli abbiamo venduto Repubblica”.
Dice che il gruppo senza di lui sarebbe tecnicamente fallito.
“C’è stato un momento in cui avevamo fatto supplementi belli e costosi, tra cui “Mercurio” diretto da Nello Ajello. Ci eravamo indebitati e avevamo l’acqua alla gola. Ci salvò il presidente del Banco di Napoli, Ventriglia, che ci concesse un fido senza garanzie. Poi quando De Benedetti divenne proprietario della Mondadori gli vendemmo le azioni di Repubblica con il patto che alla fine della famosa guerra di Segrate, quella con Berlusconi, gli avremmo venduto tutte le azioni allo stesso prezzo. E così fu”.
È questo il pacco di miliardi che dice di averti dato?
“Fu un affare per lui che divenne il proprietario di Repubblica”.
Ne divenne l’editore.
“Quello dell’editore è un mestiere che non ha mai fatto. È stato l’amministratore dei suoi beni. Oltre a Repubblica aveva un patrimonio personale molto ragguardevole”.
I giornalisti di «Repubblica» condannano De Benedetti. Duro comunicato contro l'ex editore: "Non è la prima volta che ci attacca". Oggi attesa la replica di Scalfari, scrive Massimo Malpica, Venerdì 19/01/2018, su "Il Giornale". Guerra civile in Largo Fochetti. Il ciclone di critiche firmate Carlo De Benedetti e sganciate a Otto e Mezzo, dove l'Ingegnere, ospite dell'amica Lilli Gruber, ha attaccato sia il fondatore Eugenio Scalfari («Ingrato? Assolutamente sì») che la linea editoriale della «sua» Repubblica - e dunque la direzione di Mario Calabresi («Don Abbondio diceva che il coraggio uno non se lo può dare», il sarcastico «consiglio» riservatogli da De Benedetti su assist della Gruber) - ha innescato l'inevitabile reazione del quotidiano romano. La prima replica è quella del cdr, che in un comunicato ha respinto «le accuse lanciate ieri sera a Otto e mezzo dall'Ingegner De Benedetti nei confronti di Repubblica e di Eugenio Scalfari», ricordando anche che la storia non è nuova: «Non è la prima volta - prosegue la nota del comitato di redazione - che Carlo De Benedetti, da quando ha lasciato gli incarichi operativi all'interno del Gruppo, si unisce al coro di chi con cadenza quasi quotidiana attacca questo giornale». Pure sull'accusa di aver «concesso» lui ai giornalisti l'indipendenza il cdr ringhia contro l'ex editore, ricordando che i colleghi «ogni giorno difendono e dimostrano la propria indipendenza senza bisogno che qualcuno gliela conceda». Lo sfogo a caldo precede, nel pomeriggio, l'assemblea dei redattori del quotidiano, convocata «per ribadire la propria determinazione a rispondere a ogni attacco che voglia mettere in dubbio la loro professionalità e il patrimonio di valori che il giornale in quarant'anni si è costruito». Ma al termine dell'assemblea non arrivano nuovi comunicati né una nuova presa di posizione del comitato di redazione. Mario Calabresi resta in silenzio. Viene però annunciata, per oggi, un'intervista a Scalfari, a firma di Francesco Merlo. Già di suo una replica del fondatore all'affondo dell'Ingegnere, visto che quest'ultimo l'aveva definito «un signore molto anziano che non è più in grado di sostenere domande e risposte». Ma al di là del volo di stracci, le conseguenze del braccio di ferro tra De Benedetti e il quotidiano che l'ex editore sostiene di avere ancora «nel cuore» non sono chiare. Di certo la cura Calabresi seguita alla nascita del polo Repubblica-Stampa e al battesimo della Gedi non ha dato i frutti sperati in edicola dove, certo complice anche la crisi generale dell'editoria, il quotidiano continua a perdere copie, e ha già visto svaporare quasi del tutto il momentaneo picco di vendite coinciso con il lancio della nuova grafica. E l'attacco alla linea «poco politica» di Repubblica lanciato da De Benedetti andava proprio in questa direzione, rimarcando il distacco del quotidiano dalla propria storica identità. L'affiancamento a Calabresi del condirettore Tommaso Cerno, chiamato a «coadiuvare» il successore di Ezio Mauro, era stato letto come un segno di riavvicinamento proprio alla linea editoriale della precedente direzione. Ma evidentemente non ha soddisfatto i gusti da lettore «Pazzo per Repubblica» dell'Ingegnere. Sprezzante con Calabresi, attaccato senza nemmeno citarlo all'indomani del suo secondo compleanno sulla tolda di comando di Largo Fochetti. Di certo la frattura tra lo storico editore e il «suo» giornale è di quelle che fanno male. E tradisce come gli equilibri nel nuovo polo un po' scricchiolino. Non è da escludere, tra l'altro, che le bastonate televisive di De Benedetti avessero un destinatario preciso, fuori dalla redazione. Il suo secondogenito, Marco, che da sei mesi ha preso il suo posto alla guida di Gedi come presidente. Al «vecchio padrone», forse, non piace troppo il nuovo corso.
Scalfari replica a De Benedetti: "Non ha fondato Repubblica". Il fondatore di Repubblica Eugenio Scalfari duro contro De Benedetti: "Ama questo giornale come ami una donna di cui vuoi liberarti", scrive Chiara Sarra, Venerdì 19/01/2018, su "Il Giornale". Un editoriale del direttore Mario Calabresi e un'intervista al fondatore Eugenio Scalfari. È la risposta - durissima - di Repubblica a Carlo De Benedetti. L'ennesimo capitolo di uno scontro che va avanti da mesi. Da quando, il giornalista aveva spiegato di preferire Berlusconi a Di Maio in caso di sfida tra i due. "Scalfari è un ingrato che con me dovrebbe star zitto perché gli ho dato un pacco di miliardi", ha detto l'Ingegnere a Otto e Mezzo qualche giorno fa, "Parla per vanità, è un signore molto anziano non più in grado di sostenere domande e risposte". Di parere opposto lo stesso Scalfari che non crede di essere "rimbambito", ma di appartenere alla categoria "dei vegliardi": "Spesso sono rimbambiti, ma talvolta sono ancora più lucidi degli altri perché vedono di più e meglio. A volte sono bambini altre volte sono saggi e tra le cose che vedono meglio ci sono i rancori e le acidità. I vegliardi sanno riconoscerli e, se è il caso, anche aggirarli", dice il giornalista a Francesco Merlo, "Il vanitoso è chi si gloria di qualcosa che ha fatto o peggio non ha fatto; chi si attribuisce meriti che non ha. Che cosa c' entra la vanità con la scelta tra Berlusconi e Di Maio? Mi spiace dirlo, ma è invece da vanitoso definirsi fondatore di un giornale che non hai né fondato né cofondato". Secondo Scalfari, infatti, "i soldi che diede non legittimano la parola fondatore": "Repubblica è figlia dell'Espresso che fu fondato da Adriano Olivetti, Carlo Caracciolo ed Eugenio Scalfari. Non ce ne solo altri", taglia corto il giornalista. Ricordando che per far nascere il suo giornale servivano cinque miliardi di lire: "La Mondadori ne mise la metà", spiega, "L'altra metà toccava a noi, ma non ce l'avevamo. Nella ricerca di danaro io mi rivolsi anche a Carlo De Benedetti che era allora il presidente degli industriali di Torino. Fu il primo che cercai perché a Torino tra l'altro mio suocero aveva diretto La Stampa, e dunque credetti così di sfruttarne il grande prestigio. De Benedetti mi diede cinquanta milioni, ma non voleva che si sapesse. Mi spiegò che lo faceva perché gli piaceva il progetto. Ma aggiunse: Non lo racconti mai a nessuno (allora ci davamo del lei). E infine: Non lo racconti, ma non lo dimentichi. E io non l'ho dimenticato. Ha contribuito con cinquanta milioni ad un capitale di 5 miliardi. Non sono abituato a fissare i prezzi della gratitudine. Sicuramente ce ne siamo ricordati quando poi gli abbiamo venduto Repubblica".
E anche sul presunto "salvataggio" del gruppo da parte di De Benedetti, Scalfari racconta una storia diversa: "Ci salvò il presidente del Banco di Napoli, Ventriglia, che ci concesse un fido senza garanzie", assicura, "Poi quando De Benedetti divenne proprietario della Mondadori gli vendemmo le azioni di Repubblica con il patto che alla fine della famosa guerra di Segrate, quella con Berlusconi, gli avremmo venduto tutte le azioni allo stesso prezzo. E così fu". Altro che "pacco di miliardi", quindi. "Fu un affare per lui che divenne il proprietario di Repubblica", taglia corto il giornalista, "Quello dell'editore è un mestiere che non ha mai fatto. È stato l'amministratore dei suoi beni. Oltre a Repubblica aveva un patrimonio personale molto ragguardevole... E non prese certamente un baraccone che perdeva soldi. Repubblica ha fatto attivi economici molto significativi. Ed è sicuro che De Benedetti non ci rimise. La sua abilità di finanziere gli ha consentito di vivere da ricchissimo. E bastino a dimostrarlo la strepitosa villa che ha in Andalusia e il grande yacht con cui fa le crociere in giro per il mondo. Il suo fiuto in Borsa è noto a tutti. E infatti, adesso che ha regalato le sue azioni ai figli, gli sono rimaste tutte le grandi ricchezze personali". Ancge sulla carica di presidente onorario del gruppo Scalfari inizia ad avere qualche dubbio. Pur essendosela meritata rispettando sempre la libertà del giornale, "non so se quel che adesso va dicendo in tv e sui giornali sia compatibile con la carica di presidente onorario, non so se la onori", spiega. E aggiunge: "Credo che quell' accusa di avere speculato grazie alle informazioni riservate ottenute da Renzi abbia avuto un ruolo importante nel suo cattivo umore". Infine la stilettata: "Repubblica la ama come quegli ex che provano a sfregiare la donna che hanno amato male e che non amano più".
Lo "sparatutto" tra De Benedetti e Repubblica. Cronistoria della battaglia dell'Ingegnere contro Eugenio Scalfari (e viceversa), scrive Enrico Cicchetti il 18 Gennaio 2018 su "Il Foglio". Quando Lilly Gruber chiede a Carlo De Benedetti, ospite di Otto e mezzo, se sia interessato a fondare un nuovo giornale, la risposta è perentoria: "Mai. Nella vita io sono un monogamo, in questo senso, la mia unica moglie é Repubblica". Oggi tuttavia i suoi rapporti con il quotidiano, ha spiegato l'Ingegnere, sono "assenti" ed "è per questo che soffro", ha aggiunto. Ma come si è arrivati a questo punto? Un veloce ripasso dello scontro tra il presidente onorario del Gruppo Gedi e Eugenio Scalfari e il direttore di Repubblica Mario Calabresi.
23 GIUGNO 2017. Carlo De Benedetti si dimette da presidente e consigliere del cda di Gedi Gruppo Editoriale Spa. Al suo posto diventa presidente il figlio Marco.
24 NOVEMBRE 2017. Ospite a diMartedì Eugenio Scalfari dichiara: “Tra Di Maio e Berlusconi sceglierei Berlusconi”.
3 DICEMBRE 2017. In un’intervista al Corriere della Sera, Carlo De Benedetti critica Scalfari: “Tra Di Maio e Berlusconi mi asterrei. Scalfari farebbe meglio a preservare il suo passato. Penso l’abbia fatto per vanità, per riconquistare la scena. Ma è stato un pugno nello stomaco per gran parte dei lettori di Repubblica, me compreso”.
10 GENNAIO 2018. Ospite di Bianca Berlinguer a Cartabianca, Eugenio Scalfari replica alle critiche di De Benedetti: “È stato molto critico con me. Da allora io non più rapporti con lui. Se mi dispiace di come siano andate le cose? Chi supera il decennio della morte e arriva al decennio dei 90, se ne fotte”.
13 GENNAIO 2018. Esplode il caso della telefonata tra l’allora premier Matteo Renzi e Carlo De Benedetti sulla riforma delle banche popolari. In prima pagina di Repubblica viene pubblicato un editoriale, non firmato, dal titolo “Indipendenza e libertà al servizio dei lettori”. “Nessun interesse improprio - si legge - ha mai guidato le scelte giornalistiche di Repubblica e nessun conflitto di interessi ne ha mai influenzato le valutazioni. Le posizioni che il giornale ha preso in questi anni sono il frutto della libera scelta dei giornalisti, nella linea tracciata da Eugenio Scalfari e poi proseguita da Ezio Mauro. I rapporti, i giudizi, le iniziative di Carlo De Benedetti sono fatti personali dell’Ingegnere”.
17 GENNAIO 2018. Ospite di Otto e mezzo, Carlo De Benedetti torna ad attaccare Scalfari: “Non voglio più commentare un signore molto anziano che non è più in grado di sostenere domande e risposte. Con me deve stare zitto, gli ho dato un pacco di miliardi, è un ingrato”. E quando Lilly Gruber gli chiede di dare un consiglio al direttore di Repubblica Mario Calabresi aggiunge: “Don Abbondio diceva che il coraggio uno non se lo può dare. Se non ce l’ha non se lo può dare”.
17 GENNAIO 2018. Il Cdr di Repubblica risponde con un comunicato: “Non è la prima volta che Carlo De Benedetti, da quando ha lasciato gli incarichi operativi all’interno dl Gruppo Espresso, si unisce al coro di chi con cadenza quasi quotidiana attacca questo giornale e ciò che rappresenta. Vogliamo tranquillizzarlo: l’identità e il coraggio che Repubblica dimostra nell’informare i propri lettori e nel portare avanti le proprie battaglie sono vivi e sono testimoniati innanzitutto dal lavoro dei giornalisti che ogni giorno difendono e dimostrano la propria indipendenza senza bisogno che qualcuno”.
La risposta di Scalfari e Calabresi ai veleni di De Benedetti su Repubblica. Il direttore e il fondatore del quotidiano rispondono punto per punto a quello che l'ex editore ha raccontato al Corriere e in tv, scrive il 19 gennaio 2018 "Agi". Lo scontro tra Repubblica e il suo ex editore non sembra destinato a sanarsi. Dopo il duro affondo di Carlo De Benedetti, intervistato dal Corriere il 17 dicembre e poi in tv da Lilli Gruber rispondono sia il direttore del quotidiano, Mario Calabresi, che il suo padre fondatore, Eugenio Scalfari che con l'ingegnere aveva avuto un primo scambio di battute quando il giornalista, rispondendo a una domanda in tv, aveva spiegato di preferire Berlusconi a Di Maio.
Cosa scrive Calabresi. La transizione da Carlo De Benedetti ai suoi figli "invece di essere risolta in modo sereno, ha lasciato strascichi polemici contro il giornale ma che danneggiano innanzitutto il lascito e la storia di De Benedetti come editore". "La rottura con Eugenio Scalfari e le critiche ingenerose al fondatore di Repubblica non erano immaginabili, così come quelle mosse al giornale, alla sua identità e a questa direzione". De Benedetti "non ha gradito di non essere stato ringraziato per aver concesso l'indipendenza ai giornalisti di Repubblica, ma crediamo che questa libertà sia alla base come è oggi e come è sempre stato di un corretto rapporto tra editori e giornalisti". "Voglio rassicurare i lettori che l'impegno e l'orgoglio dei giornalisti di Repubblica, della sua intera redazione, sono intatti e che godiamo del sostegno dei nostri azionisti e del nostro vertice aziendale. Un gruppo focalizzato sul futuro". "Questo giornale deve molto a Carlo De Benedetti e alla sua passione, ma anche l'Ingegnere dovrebbe sentire un debito di gratitudine nei confronti di una testata che ha occupato una parte importante della sua vita. Le donne e gli uomini che lavorano a Repubblica lo meritano. Il presidente onorario deve difendere e tutelare l'immagine e l'onorabilità del giornale: il contrario di quanto è accaduto".
Cosa dice Scalfari. "La mia non è vanità e De Benedetti non ha fondato questo giornale. Mi spiace dirlo, ma è invece da vanitoso definirsi fondatore di un giornale che non hai né fondato né cofondato. I soldi che diede non legittimano la parola fondatore. Repubblica è figlia dell'Espresso che fu fondato da Adriano Olivetti, Carlo Caracciolo ed Eugenio Scalfari. Non ce ne solo altri»". "Sono arrivato a un'età, tra i novanta e i cento, che non è più quella dei vecchi né dei molto vecchi, ma quella dei vegliardi. Spesso sono rimbambiti, ma talvolta sono ancora più lucidi degli altri perché vedono di più e meglio. A volte sono bambini altre volte sono saggi e tra le cose che vedono meglio ci sono i rancori e le acidità. I vegliardi sanno riconoscerli e, se è il caso, anche aggirarli". "Repubblica era il meglio della stampa italiana. E quando dunque De Benedetti ne divenne il proprietario esclusivo non prese certamente un baraccone che perdeva soldi. Repubblica ha fatto attivi economici molto significativi. Ed è sicuro che De Benedetti non ci rimise". "La sua abilità di finanziere ha consentito a De Benedetti di vivere da ricchissimo. E bastino a dimostrarlo la strepitosa villa che ha in Andalusia e il grande yacht con cui fa le crociere in giro per il mondo. Il suo fiuto in Borsa è noto a tutti. E infatti, adesso che ha regalato le sue azioni ai figli, gli sono rimaste tutte le grandi ricchezze personali". "L'indipendenza di Repubblica è stata sempre garantita dalla forza della direzione, dalla libertà e dal prestigio delle sue firme e di tutti i suoi giornalisti, e dal successo in edicola. De Benedetti è stato rispettoso di questa libertà. Diciamo ché l'ha onorata. E però non so se quel che adesso va dicendo in tv e sui giornali sia compatibile con la carica di presidente onorario, non so se la onori". "Oggi Repubblica vive la crisi dei giornali di carta, e cerca con coraggio nuove strade, sperimenta, si rinnova, scommette sul futuro ma non è vero che ha perduto l'identità e che non aggredisce la politica. Non solo io ne sono la prova e la garanzia. Ci sono i suoi giornalisti e c'è il direttore che, lo ricordo con un sorriso, è stato scelto da Carlo De Benedetti. Lui sì, sta aggredendo l'identità del giornale di cui, come ho già detto, era stato a lungo il rispettoso proprietario. Credo che quell'accusa di avere speculato grazie alle informazioni riservate ottenute da Renzi abbia avuto un ruolo importante nel suo cattivo umore".
Ma quanti soldi ha dato De Benedetti a Repubblica? Eugenio Scalfari ha anche ricostruito la storia della partecipazione economica di Carlo De Benedetti a Repubblica. "Per far nascere Repubblica io e Caracciolo avevamo bisogno di cinque miliardi di lire. La Mondadori ne mise la metà. L'altra metà toccava a noi, ma non ce l'avevamo. Nella ricerca di danaro io mi rivolsi anche a Carlo De Benedetti che era allora il presidente degli industriali di Torino. Fu il primo che cercai perché a Torino tra l'altro mio suocero aveva diretto La Stampa, e dunque credetti così di sfruttarne il grande prestigio. De Benedetti mi diede cinquanta milioni, ma non voleva che si sapesse. Mi spiegò che lo faceva perché gli piaceva il progetto. Ma aggiunse: 'Non lo racconti mai a nessuno'. Ha contribuito con cinquanta milioni ad un capitale di 5 miliardi. Non sono abituato a fissare i prezzi della gratitudine. Sicuramente ce ne siamo ricordati quando poi gli abbiamo venduto Repubblica" Quando "ci eravamo indebitati e avevamo l'acqua alla gola ci salvò il presidente del Banco di Napoli, Ventriglia, che ci concesse un fido senza garanzie. Poi quando De Benedetti divenne proprietario della Mondadori gli vendemmo le azioni di Repubblica con il patto che alla fine della famosa guerra di Segrate, quella con Berlusconi, gli avremmo venduto tutte le azioni allo stesso prezzo. E così fu".
Quando Giulio De Benedetti disse a Valletta: “La Stampa deve piacere agli operai”. La lettera del fondatore di Repubblica ricorda il suocero a quarant’anni dalla scomparsa: “Fu tra i più grandi direttori”, scrive Eugenio Scalfari il 14 gennaio 2018 su "La Repubblica". Sono 40 anni dalla morte di quello che fu mio suocero, sepolto nel cimitero di Rosta il 15 gennaio del 1978. È stato uno dei più grandi direttori di quotidiani di quel secolo. Era molto giovane quando cominciò a fare il correttore di bozze alla Stampa, allora di proprietà di Alfredo Frassati. Le sue capacità di giornalista lo portarono da correttore di bozze al ruolo di inviato. In quella veste fu corrispondente di guerra e poi corrispondente da Berlino dove il nazismo era ancora nell’incubatrice storica ma già impressionava soprattutto i giovani. In quella sede riuscì anche ad intervistare Hitler che già meditava il proprio futuro e ne parlò in quell’incontro con De Benedetti. Rientrato in Italia, diresse la Gazzetta del Popolo ma dopo poco tempo dovette lasciarla e partire per l’estero perché non piaceva a Mussolini l’antifascismo che De Benedetti stava in qualche modo dimostrando. Passò in Svizzera il periodo bellico e rientrò in Italia a guerra finita e a democrazia finalmente ritornata. Fu nominato dalla Fiat e da Frassati vice direttore e poi, dopo un anno, direttore de La Stampa ed è da lì che comincia il suo periodo di giornalismo eccezionale, probabilmente il più eccezionale di tutti e, a mio avviso, anche di Albertini che aveva diretto il Corriere della Sera agli inizi del Novecento. Giulio De Benedetti mise insieme una serie di iniziative giornalistiche che non trova riscontro nella storia del nostro mestiere: la cronaca locale e contemporaneamente quella nazionale e internazionale assurse a un livello mai raggiunto prima, ma a un livello ancora maggiore assurse la cultura, la politica italiana, quella europea e quella americana. Altrettanto avvenne con lo sport, calcio e ciclismo in particolare, ed infine con la rubrica da lui non solo inventata ma messa in pagina e chiamata “Specchio dei Tempi”. Si raccoglievano in quella rubrica opinioni di cittadini dei quartieri torinesi e dei comuni del circondario su questioni di grande attualità locale alle quali De Benedetti rispondeva soltanto con il titolo che poneva sopra ciascuna delle risposte ottenute; sceglieva i testi più importanti e li titolava. A quell’epoca quella rubrica stava nella seconda pagina della Stampa ed era probabilmente la parte più letta del giornale. Desidero infine ricordare la linea politica: l’azionista di maggioranza del giornale era la Fiat ma la linea imposta da De Benedetti era socialdemocratica, avendo Saragat come punto di riferimento ed anche come amico. Ricordo ancora che Valletta, allora consigliere delegato della Fiat, gli chiese all’inizio della sua direzione come mai un giornale della Fiat fosse di ispirazione socialista. La risposta fu molto netta: Torino occupa il popolo operaio più importante e numeroso d’Italia. Se vogliamo vendere dobbiamo fare un giornale gradito agli operai e da loro comprato. Questo non danneggerà la Fiat ma anzi darà alla sua proprietà un colore liberale e socialista insieme. Questa originalità ampiamente positiva a quell’epoca, in quella città, con quella proprietà, fu il requisito più prezioso di Giulio De Benedetti. Invio questo saluto anche a nome delle mie figlie Enrica e Donata di cui lui fu il nonno più amato.
Una guerra che dura dagli anni Settanta, scrive Paolo Guzzanti, Venerdì 19/01/2018, su "Il Giornale". Che fra i due corresse pessimo sangue me ne ero già reso conto durante la lunga intervista con Carlo De Benedetti che pubblicai fa con l'editore Aliberti. Carlo De Benedetti aveva già licenziato in tronco Eugenio Scalfari nel corso di una cena a casa di Carlo Caracciolo, strappando da un momento all'altro era il 1996 Ezio Mauro dalla direzione della Stampa. Tanta furia inspiegabile e priva di garbo mandò in bestia il presidente della Fiat Gianni Agnelli che si trovò senza direttore dalla mattina alla sera, perché l'editore di Repubblica voleva assolutamente liberarsi del fondatore Eugenio Scalfari. Quel che adesso salta fuori con l'intervista di De Benedetti alla Gruber è soltanto la sferzata finale di una tensione che risale al tempo in cui la Repubblica (fine anni Settanta) andava a rotta di collo. In quei tempi Scalfari si presentò con l'editore Carlo Caracciolo da De Benedetti per chiedere aiuto. L'Ingegnere mise mano al portafoglio ma volle anche avere voce in capitolo sull'azienda. Seguirono anni tempestosi, gloriosi e nebulosi allo stesso tempo, durante i quali il quotidiano di piazza Indipendenza annaspò prima di decollare con la crisi del Corriere della Sera alimentata dallo scandalo della P2 di Licio Gelli, uno scandalo simmetrico a quello del tutto prefabbricato con cui fu costretto alle dimissioni il presidente della Repubblica Giovanni Leone. Il giornale fiammeggiava ma restava fragile. Eugenio Scalfari commise il suo più grave atto di ostilità nei confronti Di De Benedetti come lui stesso mi raccontò - andando da Silvio Berlusconi ad per far balenare al Cavaliere la possibilità di acquistare il quotidiano. De Benedetti se la legò al dito. Sborsò un bel malloppo di miliardi al fondatore facendogli credere di volerlo ancora tenere, ma cercando la sua sostituzione che trovò in Ezio Mauro. Eugenio incassò così il valore di cui aveva dotato la testata, vendendo però l'anima al diavolo, o almeno vendendo il proprio futuro all'Ingegnere. De Benedetti mi disse che quando prese la decisione di licenziare Scalfari fu costretto a recitare una stucchevole commedia di inchini e di riverenze, ma non voleva compromessi: era ora di guidare la sua proprietà pagata a caro prezzo, senza riconoscere il diritto alla perpetuità mitizzata di Eugenio. De Benedetti gli disse: non sei tu che tieni in piedi Repubblica, ma sono io. E posso farla anche migliore senza te. E dunque, compiuti i riti previsti, De Benedetti volle che Eugenio si levasse dai piedi. Ma il vecchio direttore ottenne sia la certificazione di fondatore sotto la testata che il diritto feudale al fondo della domenica. De Benedetti ha sempre mal digerito quella specie di pontificato perpetuo: «Qualche volta quel che scrive mi piace - disse - ma in genere gli sproloqui di Eugenio sono di una noia mortale». La tensione è diventata poi conflitto aperto dopo la dichiarazione televisiva di Scalfari pro Berlusconi. Quel che è accaduto dalla Gruber ha avuto l'effetto di una bomba nucleare sui resti dell'antico «partito di Repubblica».
[Il ritratto] Il tramonto di De Benedetti, la tigre che ha sconfitto il capitalismo familista e cassandra della sinistra. Che piaccia o no, che siano simpatici o antipatici, Berlusconi e De Benedetti sono stati due grandi capitalisti che sono riusciti a trovarsi un posto al sole nel Paese più familista del mondo, quasi schiacciato sotto la Storia e il Potere delle Grandi Famiglie. Rispetto al capitalismo conservatore, De Benedetti è un innovatore, scrive Pierangelo Sapegno, giornalista e scrittore, il 15 gennaio 2018 su Tiscali notizie. Se c’è una cosa che ha sempre saputo fare, è quella di trasformare in oro quasi tutto quello che tocca. L’ultima volta, diciamo che ha esagerato: appena ha saputo da Renzi che la riforma delle banche popolari sarebbe andata in porto, ha chiamato il suo broker di fiducia, Gianluca Bolengo, e ha investito 5 milioni, realizzando plusvalenze di 600mila euro. La Consob ha ipotizzato il reato di Insider trading. L’ex commissario Salvatore Bragantini, editorialista del Corriere dall’aplomb parecchio borghese e abbastanza raffinato, ha commentato che è stato perlomeno «sconveniente». Molto english.
La guerra di Segrate. I suoi nemici, invece, si sono scatenati, Berlusconi in testa: «E’ stato preso con le mani nella marmellata, e se fosse capitato a me sarei già in croce». Poi La Stampa tira fuori una inchiesta sulla cessione del Milan, e Il Giornale risponde che quel falso scoop è un agguato al Cavaliere per vendetta e per distogliere l’attenzione dai peccati dell’Ingegnere. La solita guerra. Sui giornali va avanti dal ‘91, la famosa «guerra di Segrate», rimbalzata da allora fra imboscate e puntate sanguinanti.
Due grandi capitalisti. E’ il volto del capitalismo italiano, che ogni tanto sembra quello da una baruffa di cortile fra comari inacidite. Ma non date retta alle apparenze. Che piaccia o no, che siano simpatici o antipatici, Berlusconi e De Benedetti sono stati due grandi capitalisti che sono riusciti a trovarsi un posto al sole nella Terra più familista del mondo, quasi schiacciata sotto la Storia e il Potere delle Grandi Famiglie. Per farlo, hanno anche finito per identificarsi nel bipolarismo all’italiana, seduti sugli scranni opposti della singolar tenzone, uno contro l’altro armato.
Gli esordi Carlo De Benedetti. In realtà, Carlo De Benedetti, torinese, classe 1934, figlio di Rodolfo, ebreo sefardita convertito al cattolicesimo ma costretto a scappare in Svizzera per le leggi razziali, negli Anni 80, quando lui e Silvio cominciavano a farsi largo nella piazza ribollente dell’economia nostrana, affermava candidamente di sentirsi il paladino del capitalismo italiano, asserendo cose molto poco di sinistra e molto più liberali: «Ho 49 anni, mi piace fare il capitalista e sono fiero di esserlo». Che lo sapeva fare se ne erano già accorti tutti. Dopo la laurea in ingegneria e il servizio militare negli alpini da soldato semplice nel ‘72 aveva acquisito la Gilardini con il fratello Franco, trasformandola in una holding di successo: da 50 a 1500 dipendenti. Con la famiglia erano andati a vivere nella palazzina Agnelli di corso Matteotti, che Truman Capote nel 1969 su Vogue aveva descritto come «splendore italiano» con i tasti da premere per convocare all’istante forbiti maggiordomi in livrea. Carlo era andato a scuola con Umberto, dalla terza media alla quinta ginnasio, e fu lui a portarlo alla Fiat dopo i primi successi imprenditoriali.
La tigre. Nei famosi 100 giorni della sua governance, in azienda lo chiamavano «la tigre», perché era «implacabile, aggressivo, sprezzante e dal licenziamento facile a tutti i livelli», come ha scritto Salvatore Merlo sul Foglio. Alla faccia della sinistra. Gianni Agnelli aveva accettato il consiglio del fratello perché era affascinato dalla sua intraprendenza e dal suo dinamismo oltre che dalla sua immagine di successo. Solo che dopo neanche 4 mesi, lui (e Romiti) lo fecero fuori. La famiglia Agnelli non voleva ridurre in modo drastico il numero degli addetti alla manodopera. Queste difficili scelte, raccontò poi lo stesso De Benedetti, furono prese 4 anni più tardi, ma dopo aver perso «una barcata di soldi».
Il giovane capitalista. Come si vede, il giovane Carlo è prima di tutto un capitalista, niente affatto diverso da tutti gli altri. Dà lavoro anche a costo di toglierlo. Ma i capitalisti non sono dei benefattori. Sono dei costruttori della società. Nel 1976, l’Ingegnere ha rilevato le Concerie Industriali Riunite cambiando la denominazione della società in Cir, e trasformandole in una grande holding industriale. Nel ‘78 entra in Olivetti, azienda ormai decotta e dal futuro nero. Bruno Visentini, gentiluomo del partito d’azione, presidente del Pri e dell’Olivetti, gli dice: «Non guardi i bilanci, se non accetterà mai. Ma sono convinto che solo uno come lei può riuscirci». E difatti ce la fa. Trasforma l’azienda, producendo personal computer e ampliando la gamma dei prodotti con stampanti, telefax, fotocopiatrici e registratori di cassa. In 24 mesi, l’Olivetti passa da una perdita di 70 miliardi all’anno, a un profitto di 50 che raggiungono i 350 nel 1983, quando apre il capitale sociale a un colosso americano, l’At&t, in cambio del 25 per cento del capitale. L’anno dopo ingloba l’inglese Acorn Computer.
Imprenditore illuminato. La sua immagine di imprenditore illuminato, che dichiara di votare repubblicano, conquista l’opinione pubblica. Rispetto al mondo conservatore del capitalismo italiano, De Benedetti è un innovatore, un visionario. E Corrado Passera dice che «rappresentava il simbolo della nuova imprenditoria di mercato», in contrapposizione ai grandi gruppi e alle famiglie potenti del nostro Paese. Lui in quei tempi dichiara che non si può ghettizzare il pci e comincia a instaurare un dialogo con Berlinguer. Intanto, nell’85 acquista la Buitoni Perugina, venduta 3 anni dopo alla Nestlé. Nell’81 è entrato nell’azionariato del Banco Ambrosiano, lasciando però subito l’istituto dopo appena due mesi, sulla soglia del fallimento. Fu accusato di aver fatto plusvalenza da 40 miliardi, processato per bancarotta fraudolenta, condannato con sentenze poi annullate dalla Cassazione perché non esistevano i presupposti per i quali era stato processato.
La finanza e la Borsa. Carlo De Benedetti, imprenditore e scalatore, è diventato anche e soprattutto finanziere e sta per diventare pure editore. Attirato dal boom della Borsa, che gli ha permesso di raccogliere 3 miliardi di mezzi freschi, ha cominciato ad acquisire una miriade di partecipazioni finanziarie e assicurative. Gianni Agnelli lo definisce «un centometrista». Compra di tutto e parte alla conquista dell’estero. Dopo aver tentato di acquisire, assieme a Bruno Visentini, il Corriere della Sera travolto dallo scandalo P2 e aver tentato di mettere le mani sul Tempo di Roma, nel 1987, attraverso le partecipazioni della Arnoldo Mondadori entra nel gruppo Espresso e Repubblica, il giornale che lui aveva già finanziato. Nel 90 comincia la guerra di Segrate con Berlusconi, temporaneamente chiusa nel 2011 con un risarcimento danni di 500 milioni di euro che la Fininvest ha dovuto versare alla Cir, perché la precedente sentenza del 1991 sarebbe stata in realtà comprata corrompendo un giudice. Nel 96, a causa di una grave crisi dell’Olivetti, De Benedetti decise di lasciare l’azienda, dopo aver fondato la Omnitel, venduta a Colaninno (forse, col senno di poi, l’unico errore commesso).
Il rapporto con la sinistra. In tutto questo tempo, ha assunto anche un ruolo molto importante nella sinistra italiana, diventandone persino, nella sua ultima incarnazione, un profeta abbastanza pessimista. Dal suo pulpito giudica storia e personaggi. Su D’Alema: «Credo che abbia fatto tantissimi errori e non capisca più la sua gente». Bersani: «Lo stimo moltissimo, ma come leader è assolutamente inadeguato. Lui e D’Alema stanno ammazzando il pd». Matteo Renzi, invece, prima «è un fuoriclasse». Poi si dichiara deluso da lui. Fino a definirlo «un cazzone». Ma anche gli altri sono delusi da De Benedetti. Corrado Passera racconta che quando aveva cominciato a lavorare con lui, «era una vera speranza per l’industria e il capitalismo italiano. Poi ha deluso tutti».
Vince da solo. Se gli parli assieme, dicono però che sembra sempre quello di prima, un uomo molto lucido e molto veloce, capace di leggere con grande rapidità quello che sta accadendo e di coglierne gli sviluppi, in economia come in politica. Poi, è ovvio, puoi scegliere di stare con chi vince o con chi perde. L’impressione è che lui abbia sempre vinto da solo. Ancora adesso non ha perso il suo istinto degli affari, a 83 anni, nel suo esilio dorato di Marbella, dove è riuscito a mettere su un proficuo business immobiliare, acquistando immobili per almeno venti milioni, secondo Franco Bechis. Ma ora è un uomo libero, probabilmente felice, dopo aver passato il suo impero ai tre figli, il cento per cento della scatola di controllo.
L’avvicendamento a La Repubblica. A Repubblica non è più lui quello che conta. E si vede. Rodolfo è molto diverso, formazione liberal, uomo di potere, ma non di establishment. E Marco, sposato con la giornalista Paola Ferrari che si sarebbe candidata nel centrodestra, lo ha già criticato per la sua presa di posizione contro Scalfari, che aveva detto di preferire Berlusconi a Di Maio. La risposta di Scalfari, in pratica «me ne fotto», è già abbastanza indicativa. E’ cambiato tutto, il Gruppo Espresso si è fuso con l’Itedi, la società editoriale degli Agnelli, Carlo De Benedetti ha lasciato la presidenza, l’Espresso è diventato un allegato di Repubblica, il fondatore Eugenio Scalfari tiferebbe Berlusconi, dimenticando 20 anni di battaglie e nel crepuscolo della galassia Espresso Repubblica c’è un po’ la nostra storia. Il tempo che è passato, è già andato via. Anche le vecchie guerre sono già finite. Adesso ce ne sono altre. Prima o poi ce ne accorgeremo.
Renzi, De Benedetti e Repubblica: la fine della diversità morale, scrive il 12 gennaio 2018 Stefano Feltri, Vicedirettore de Il Fatto Quotidiano. Molti lettori possono aver l’impressione che tutto questo interesse alle vicende che riguardano Carlo De Benedetti, Repubblica e ilGruppo Espresso (che ora si chiama Gedi) siano questioni interne alla piccola casta dei giornalisti, regolamenti di antichi conti o sfogo di ambizioni professionali frustrate. Magari c’è pure questo, ma quanto sta succedendo intorno a Repubblica riguarda tutto il Paese o almeno quella parte, in senso lato di centrosinistra, che in quel giornale e in quel gruppo editoriale ha sempre cercato una bussola etica e culturale, ben prima che politica. Ne scrivo, pur stando in un giornale concorrente, perché di quel pezzo del Paese ho fatto (e forse faccio) parte anche io, cresciuto leggendo e talvolta ritagliando Repubblica, l’Espresso, Micromega, Limes. Se mettiamo in fila gli eventi di questi ultimi due anni capiamo che è davvero finita un’epoca. Il Gruppo Espresso si è fuso con l’Itedi, la società editoriale degli Agnelli che pubblica la Stampa, Carlo De Benedetti ha lasciato la presidenza, l’Espresso è diventato un allegato di Repubblica, molti editorialisti hanno lasciato il giornale (alcuni proprio per il Fatto), in una delle più accese battaglie politiche di questi anni, il referendum 2016 sulla riforma costituzionale, Repubblica non ha preso posizione. Il suo direttore Mario Calabresi ha dedicato più editoriali critici al sindaco di Roma Virginia Raggi che all’ex premier Matteo Renzio a Silvio Berlusconi. Il fondatore, Eugenio Scalfari, ha detto che, dovendo scegliere tra Silvio Berlusconi e Luigi Di Maio, preferisce Berlusconi, ridimensionando vent’anni di leggi ad personam e di politiche economiche contrarie a tutto quello che Repubblica e Scalfari hanno sempre professato. De Benedetti ha attaccato Scalfari in una intervista sul Corriere della Sera, ha definito le sue posizioni “un pugno nello stomaco per gran parte dei lettori di Repubblica, me compreso”. Scalfari, che ha troncato ogni rapporto, gli ha risposto martedì da Rai3, a Cartabianca, dicendo che uno arrivato a 94 anni “se ne fotte” di quello che pensa De Benedetti. Ultima, ma solo in ordine di tempo, la vicenda della speculazione di Carlo De Benedetti grazie alle informazioni avute da Matteo Renzi e dalla Banca d’Italia. Questa, come ha detto l’ex commissario Consob, Salvatore Bragantini, è come minimo “sconveniente”, a prescindere dal fatto che sia reato. Per mille ragioni che provo a riassumere.
Primo: Carlo De Benedetti ha accesso a Renzi e alla Banca d’Italia non tanto perché è (stato) un finanziere di successo – l’impero economico l’ha passato da tempo ai figli – ma in quanto editore di giornali rilevanti. Il non detto di questi rapporti è che il politico o l’uomo delle istituzioni coltiva le simpatie dell’editore convinto di ottenere, per questa via, un trattamento di favore dai giornalisti. E quando poi il giornale dovesse invece dimostrarsi completamente autonomo, si genera la spiacevole telefonata del tipo “Ma come, pensavo fossimo in buoni rapporti…”. In questo si vede che Renzi non è diverso dagli altri politici che voleva rottamare, corteggia gli editori nella speranza di avere trattamenti di favore dai giornali. E De Benedetti non ritiene che invitare a cena ministri e presidenti del Consiglio possa complicare la vita ai suoi direttori ed editorialisti.
Secondo: Carlo De Benedetti, che ha consolidato la sua carriera da finanziere in un’Italia in cui l’uso di informazioni privilegiate per fare operazioni di Borsa non era neppure reato, rivendica la correttezza del proprio operato con questa argomentazione: se avessi saputo davvero qualcosa di specifico, non avrei investito solo 5 milioni ma almeno 20. Autodifesa che diventa ammissione dell’assenza di ogni vincolo etico. Renzi, da parte sua, ha dimostrato di non avere alcun filtro, alcuna prudenza nel gestire provvedimenti e informazioni con un impatto sui mercati. Negli anni 2014-2015 a palazzo Chigi c’era un vorticoso ricambio di consulenti, amici del premier, collaboratori più o meno ufficiali che discutevano di Telecom, Eni, banca Etruria, riforma delle popolari e delle banche di credito cooperativo. Ora abbiamo chiaro con quale prudenza e quale riservatezza. Chissà quanti “casi De Benedetti” ci sono stati di cui non sappiamo.
Terzo profilo sconveniente, nella vicenda Renzi-De Benedetti, quello più rilevante: la reazione del sistema a tutela del potere costituito. Renzi e De Benedetti fanno qualcosa, a gennaio 2015, che può essere reato o non esserlo, che può portare a sanzioni o meno. Dipende dalla valutazione che ne viene fatta. La Consob indaga e decide, nel collegio dei commissari, di non sanzionare. La Procura di Roma, a quanto emerge, praticamente non indaga affatto ma chiede subito l’archiviazione dell’unico indagato, il povero broker che esegue l’ordine d’acquisto di azioni di banche popolari arrivato da De Benedetti. La vicenda esce una prima volta sui giornali dopo gli attacchi di Renzi alla Consob di Giuseppe Vegas, riesplode ora che, con grande fatica, i parlamentari della commissione di inchiesta sulle banche sono riusciti ad avere una parte dei documenti dell’inchiesta da una molto riottosa Procura di Roma.
I punti critici sono vari: per quasi tre anni in tanti, troppi, hanno saputo che incombeva questa bomba su Renzi (incombe ancora, visto che l’inchiesta non è stata archiviata). Non è mai una cosa sana quando un politico sa di essere potenzialmente ricattabile. Poi la Procura di Roma, che tanto zelo ha dimostrato in varie occasioni, non ha davvero niente da rimproverarsi nella gestione del caso? Perché è così importante secretare tutto? Perché il procuratore Pignatone considera grave che il contenuto delle carte sia filtrato dalla commissione banche? Non lo ha mai spiegato. E quante richieste di archiviazione vengono trattate come se fossero un segreto di Stato?
E quando Vegas è andato allo scontro con il governo, dopo la sua mancata riconferma al vertice della Consob, rivelando gli interessamenti di Maria Elena Boschi su Etruria, sapeva di avere nel cassetto l’arma segreta: tutte le carte di quello che i suoi uffici avevano classificato come insider trading, prima che la Commissione lo archiviasse. Sicuramente non ha avuto bisogno neppure di evocare la vicenda. Lui sapeva, Renzi sapeva, chi doveva sapere sapeva. E tutti si sono comportati di conseguenza.
E poi ci sono i giornali, parte non irrilevante di questa storia. Il giorno in cui esce la trascrizione della telefonata di De Benedetti con il suo broker, Repubblica non ha la notizia. Succede. Diciamo che è stato uno scoop della concorrenza, anche se di questa fanno parte praticamente tutti i giornali italiani incluso La Stampa, testata dello stesso gruppo editoriale. Il giorno dopo viene dato conto solo del “caso politico” intorno alla telefonata. Poi il Sole 24 Ore pubblica sul proprio sito web in modo quasi integrale il verbale di De Benedetti in Consob dove l’editore di Repubblica si difende e rivela i suoi rapporti con Renzi, Boschi, Padoan, Visco, rivendica perfino di essere stato il primo ispiratore del Jobs Act. Non una riga esce oggi su Repubblica di tutto questo. E, cosa ancora più singolare, solo un francobollo sul Sole 24 Ore cartaceo, che invece spesso ha ospitato gli editoriali di De Benedetti. Scelta bizzarra questa di regalare lo scoop on line ma di non valorizzarlo nell’edizione a pagamento. Gli imprenditori della Confindustria che ricevono ogni mattina la copia del giornale che hanno portato vicino al disastro così non hanno dovuto leggere il verbale del loro collega De Benedetti. Il Corriere della Sera dedica al caso un colonnino. Non è sempre stato così. Negli archivi si trovano ampi e completi articoli, per esempio, su quando alcuni familiari di De Benedetti sono stati sanzionati dalla Consob per 3,5 milioni per un insider trading su Cdb Web Tech, all’epoca uno dei veicoli finanziari dell’Ingegnere.
Durante le feste ho letto un libro di qualche anno fa di Francesco Piccolo, Il desiderio di essere come tutti (Einaudi), appena ripubblicato proprio in una collana di allegati a Repubblica. E’ la storia di una maturazione politica e di una scelta individuale di Piccolo, quella di preferire una sinistra del compromesso, pragmatica e disposta a sporcarsi nella pratica quotidiana del potere rispetto a quella che invece rivendica la superiorità morale, una diversità antropologica, che considera chi vota Berlusconi moralmente disprezzabile. E’ la storia di come Francesco Piccolo ha scelto l’Enrico Berlinguer del compromesso storico al posto di quello della “questione morale” e della diversità comunista. E di come ha accettato di essere italiano, nel bene e nel male, invece che considerarsi sempre diverso, una persona un po’ migliore degli italiani raccontati dalla tv, quelli che votavano prima Democrazia cristiana e poi Forza Italia.
Scalfari, De Benedetti e Repubblica sono stati per quarant’anni gli alfieri e la voce di un’Italia che si riteneva migliore della media, che rivendicava il diritto a fare una gerarchia di valori, a inseguire qualche ideale invece che rassegnarsi al “così fan tutti”, che guardava Silvio Berlusconi e il suo stile di vita e poteva permettersi di criticarlo. Abbiamo sempre saputo che, sotto sotto, era un po’ un’illusione, che non esiste una Italia migliore e una peggiore, che gli uomini, visti da molto vicino, sono tutti uguali o che, almeno, nessuno ha titolo di giudicare il suo prossimo. Però quell’illusione è servita, al centrosinistra e a tutta l’Italia, ha dato alla politica (soprattutto alla sinistra), agli elettori e soprattutto ai lettori una tensione etica, ha trasmesso il messaggio che poteva esistere un Paese migliore. Magari un po’ tromboneggiante e moralista, talvolta noioso, spesso più conformista di quello che era disposto ad ammettere, ma migliore. E invece, per citare Francesco Piccolo, Scalfari, De Benedetti e Repubblica hanno realizzato il loro inconfessato e inconfessabile “desiderio di essere come tutti”, perché chi è come tutti non può essere criticato da nessuno. Ma neppure può criticare. Hanno dissipato ogni illusione di alterità. E se sono tutti uguali, allora non c’è differenza tra De Benedetti e Berlusconi, tra Renzi e D’Alema, tra Salvini e Di Maio. Senza illusioni e senza questione morale restano soltanto il cinismo e l’antipolitica. Quando, dopo le elezioni di marzo, commentatori e politologi vorranno spiegare il tracollo del Pd e l’inspiegabile tenuta del Movimento Cinque Stelle nonostante le mille prove di dilettantismo, sarà bene considerare tra le variabili rilevanti il crepuscolo della galassia Espresso-Repubblica.
GLI ULTIMI 25 ANNI DEGLI ITALIANI.
Ecco come è cambiato il mondo in 25 anni. Da Tangentopoli all’Euro passando per l’11 settembre e l’avvento dei cellulari. In 25 anni sono mutati costumi, governi, confini e mode. Ma Totti dal 1993 è sempre lo stesso. Ed lo abbiamo sempre al nostro fianco, scrive Francesco Balzani il 27/09/2016 su “Forza Roma”.
1993 – Il prologo del 1992 aveva portato le carneficine di Capaci e via D’Amelio, e il battesimo dell’inchiesta Mani pulite. Nel 1993 la Mafia purtroppo torna a colpire: prima il cronista Beppe Alfano poi Don Puglisi. Il 15 di gennaio viene arrestato a Palermo il capo di Cosa Nostra, Totò Riina, latitante da ben 23 anni. Il giorno dopo a Firenze è il turno di Pietro Pacciani, che si presume sia il cosiddetto “Mostro di Firenze. In politica nasce la cosiddetta Seconda Repubblica: hanno ricevuto avvisi di garanzia tutti i leader della Dc, del Psi, del Pri, del Pli. Un intero sistema viene raso al suolo a colpi di codice penale: da Craxi ad Andreotti. Senza sconti. E il volto del magistrato Antonio Di Pietro diventa popolarissimo. Il Sindaco di Roma diventa Rutelli.
1994 – Tredici giorni dopo le dimissioni del governo Ciampi c’è un volto nuovo a scuotere la politica italiana. E’ quello di Silvio Berlusconi che il 24 gennaio annuncia di “voler scendere in campo”. E’ l’anno del processo ad Andreotti e delle dimissioni di Occhetto dal Pds. Da segnalare in cronaca nera l’evasione di Felice Maniero dal carcere di Padova, l’omicidio da parte della ‘ndrangheta’ dei carabinieri Garofalo e Fava sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria nei pressi dello svincolo di Scilla (Reggio Calabria). E quello a Mogadiscio della giornalista della Rai Ilaria Alpi e del cameraman Miran Hrovatin. La Alpi indagava su traffici internazionali di armi e di rifiuti tossici.
1995 – In politica è ancora caos e a governare è Lamberto Dini dopo lo scioglimento delle Camere e la fine di quello Berlusconi mentre nasce Alleanza Nazionale di Fini e l’Ulivo di Prodi e Veltroni. La cronaca registra l’omicidio del tifoso genoano Vincenzo Spagnolo durante Milan-Genoa del 25 gennaio e l’estradizione dell’ex-capitano delle SS Erich Priebke in Italia. Si apre anche il processo di Andreotti per associazione mafiosa.
1996 – Il 13 gennaio Lamberto Dini rassegna le dimissioni da Primo Ministro e il 21 aprile a trionfare sarà Romano Prodi che diventa così Presidente del Consiglio superando Berlusconi e la Lega Nord di Bossi. A febbraio Pietro Pacciani viene assolto per non aver commesso il fatto, dalla Corte d’appello di Firenze, dopo essere stato condannato all’ergastolo per i delitti del Mostro di Firenze. Era in carcere da 1.100 giorni.
1997 – L’anno si apre con una tragedia. Il 12 gennaio a Piacenza infatti l’ETR 460 “Pendolino” deraglia all’entrata della stazione medesima provocando 8 morti e 29 feriti. Nel mezzo del convoglio si trova anche l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, per cui molti pensano si tratti di attentato. L’11 aprile un incendio provoca danni al Duomo di Torino mentre il 31 ottobre a Milano, presso l’Ospedale Galeazzi, 11 persone muoiono carbonizzate nell’incendio di una camera iperbarica. E’ anche l’anno dei Referendum abrogativi e dell’omicidio di Marta Russo all’Università La Sapienza di Roma.
1998 – Prodi si dimette il 9 ottobre e il suo posto sarà preso da Massimo D’Alema. Il 5 maggio le località di Sarno, Quindici, Bracigliano e Siano sono colpite da un gravissimo fenomeno franoso, composto da colate rapide di fango, l’evento provocò la distruzione di molte abitazioni e la morte di 137 persone nella sola Sarno. Il 13 novembre giunge in Italia il leader del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) Abdullah Öcalan, ricercato dalla polizia turca. Un evento che porterà a una crisi tra i due paesi.
1999 – Il Presidente del Consiglio è ancora D’Alema col cosiddetto “Governo D’Alema 2”. E’ un maggio caldissimo: il 13 viene proclamato presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi che succede a Scalfaro. Undici giorni prima Papa Giovanni Paolo II proclama beato Padre Pio da Pietrelcina. Il 20 a Roma, invece, le Brigate Rosse uccidono il consulente del ministero del lavoro Massimo D’Antona. Tragedia a Foggia l’11 novembre quando per il crollo di un palazzo in viale Giotto muoiono 67 persone.
2000 – L’inizio del nuovo millennio viene vissuto anche in Italia tra paura del Millenium Bag e l’apertura della Porta Santa per il Giubileo più importante della storia. E’ l’anno dello storico accordo tra Fiat e General Motors, della divulgazione del Terzo segreto di Fatima, della condanna alle agenzie assicurative e dell’addio alla Lira. E’ anche l’anno delle dimissioni di D’Alema e del grigio Governo Amato che riapre una stagione di dura lotta tra i partiti.
2001 – L’anno dello scudetto romanista si apre a gennaio con la scomparsa dalla sua villa di Portofino della contessa Francesca Vacca Agusta. Il cadavere sarà trovato sugli scogli francesi tra Marsiglia e Tolone. E anche con l’apertura dell’inchiesta sui decessi di alcuni soldati. Si sospetta che la morte sia causata dall’uso di armi all’uranio impoverito nei Balcani. Il 21 febbraio invece un delitto scuote il Paese: Erika e Omar, i due fidanzatini di Novi Ligure, uccidono barbaramente il fratellino e la mamma di Erika. L’otto ottobre all’aeroporto di Linate un Cessna sbaglia raccordo durante il rullaggio ed entra in pista scontrandosi con un altro aereo e causando 118 morti. Intanto il Governo i raggiunge accordi per cancellare il debito estero di 22 paesi poveri. Si conclude il processo per l’omicidio di Marta Russo, la sentenza di secondo grado condanna Scattone a 8 anni di carcere e Ferraro a 6 anni. E’ anche l’anno della condanna alla satira: dei licenziamenti di Luttazzi e Travaglio, delle polemiche tra Santoro e Berlusconi. Il 27 marzo il Ministero della sanità, firma l’ordinanza anti mucca pazza che bandisce la bistecca alla fiorentina dal primo aprile al 31 dicembre. A giugno nasce il secondo Governo Berlusconi e in seguito all’undici settembre vengono varate le prime norme anti-terrorismo. Qualche mese prima il G8 di Genova era stato teatro di fortissimi scontri, del massacro della scuola Diaz e dell’omicidio di Carlo Giuliani. Sindaco di Roma diventa Walter Veltroni.
2002 – Il 19 marzo fanno il loro ritorno le Brigate Rosse con l’omicidio a Bologna dell’economista e consulente del ministero del Lavoro Marco Biagi, ma a scuotere l’Italia è il delitto di Cogne: Anna Franzoni uccide il figlioletto Samuele di appena 3 anni con violenti colpi alla testa. Ci vorranno anni prima di arrivare a una sentenza definitiva. E’ l’anno delle grandi manifestazioni contro le modifiche del governo all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, dell’approvazione della legge Bossi-Fini contro l’immigrazione e del ritorno dei Savoia. Il 31 ottobre un’altra tragedia: le scosse di un violento terremoto in Molise dell’8º grado della Scala Mercalli causano il crollo di una scuola a San Giuliano di Puglia (CB), uccidendo 27 scolari e un’insegnante. Altre due persone muoiono in paese. A novembre, infine, il senatore Giulio Andreotti viene condannato a 24 anni di carcere al processo per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli.
2003 – Dopo la Mucca Pazza arriva il pericolo Sars. Per la prima volta a marzo viene isolato a Milano il virus della la polmonite atipica che ha ucciso 376 persone e contagiato quasi altre 6 mila. Il 26 giugno, invece, è il giorno del grande black-out a sorpresa per sei milioni di italiani che si ripete in particolar modo a Roma il 28 settembre durante la Notte Bianca. La data, purtroppo, da cerchiare col rosso però è quella del 12 novembre quando un attentato suicida a Nassiriya contro il quartier generale dei Carabinieri, uccide 13 Carabinieri, 4 militari dell’Esercito Italiano e 2 civili iracheni.
2004 – Il 14 febbraio viene ritrovato morto nel residence “Le Rose” di Rimini il ciclista Marco Pantani, accanto ad una confezione di ansiolitici. Nell’appartamento erano presenti anche altri farmaci. Qualche giorno prima il mondo del calcio e dell’imprenditoria aveva subito due brutti colpi coi crack di Cirio e Parmalat e l’arresto di Cragnotti e Tanzi. Nelle piazze italiane intanto sono sempre più popolati i girotondi in nome della Pace e contro la guerra in Iraq. Il 29 luglio dopo 143 anni di coscrizione, il parlamento approva l’abolizione del servizio militare obbligatorio (leva obbligatoria) mentre ad ottobre a Mazara del Vallo, in provincia di Trapani, scompare la piccola Denise Pipitone, di soli 4 anni. La bambina non è stata ancora ritrovata. Al governo c’è ancora Berlusconi che viene assolto in numerosi processi a suo carico.
2005 – Il 2 aprile muore il Papa più amato della storia: Giovanni Paolo II. Tutto il mondo lo piange e a Roma arrivano a milioni per il suo funerale a San Pietro. Il 20 aprile invece Berlusconi annunciò in Senato la volontà di costituire un nuovo governo di e tre giorni dopo si presentò al Quirinale con la nuova lista dei ministri. Il giorno dopo in Piazza San Pietro si svolge la Messa di insediamento e di inaugurazione del Pontificato del neo-eletto Papa Benedetto XVI (Ratzinger). Il 29 dicembre Mario Draghi diventa il nuovo Governatore della Banca d’Italia. Tra i fatti di cronaca purtroppo spicca la storia della piccola Matilde morta per un calcio infertole mentre in casa con lei c’erano solo la madre e il suo convivente.
2006 – L’Italia è scossa dal rapimento del piccolo Tommaso Onofri alla porte di Parma. Dopo settimane col fiato sospeso il corpo del bambini viene ritrovato senza vita. Un altro terribile fatto di cronaca andrà in scena l’undici dicembre quando Olindo Romano e Rosa Bazzi ad Erba compiono una strage uccidendo a coltellate e sprangate i vicini di casa Raffaella Castagna, il figlio Youssef Marzouk di soli 2 anni, Paola Galli (nonna del bambino) e Valeria Cherubini. Il 12 febbraio vengono scoperti dei cigni affetti da influenza aviaria in Sicilia e in altre regioni italiane. L’allarme pian piano contagia tutta Europa. L’undici aprile invece viene arrestato il boss siciliano Bernardo Provenzano, dopo 43 anni di latitanza. Il senatore a vita Giorgio Napolitano viene eletto 11º Presidente della Repubblica Italiana. Nei giorni precedenti era caduto di nuovo il governo Berlusconi e il 17 maggio sarà di nuovo Prodi a essere eletto.
2007 – E’ un anno terribile. Cinque delitti scuotono l’Italia: In occasione del derby calcistico Catania-Palermo, scoppia infatti una guerriglia tra le tifoserie che porta alla morte dell’ispettore di Polizia Filippo Raciti. Il 13 agosto la ventiseienne Chiara Poggi viene uccisa nella sua villetta di via Pascoli 8 a Garlasco e il suo cadavere viene scoperto dal fidanzato Alberto Stasi. Il primo novembre muore a Roma Giovanna Reggiani, quarantasettenne aggredita e uccisa due sere prima alla stazione di Tor di Quinto da un immigrato rumeno di etnia rom. Due giorni dopo viene uccisa a Perugia la studentessa inglese Meredith Kercher. Verranno accusati dell’omicidio Amanda Knox, studentessa statunitense coinquilina della vittima; Raffaele Sollecito, fidanzato di quest’ultima e Rudy Hermann Guede. L’undici novembre, infine, in un autogrill di Badia Al Pino il tifoso laziale Gabriele Sandri viene ucciso da un colpo di pistola sparato dal poliziotto Spaccarotella. In Politica è sempre mare mosso: dopo una bocciatura al Senato in materia di politica estera, il presidente del Consiglio italiano Romano Prodi rassegna le sue dimissioni al Quirinale che però vengono respinte da Napolitano.
2008 – Tra febbraio e marzo Prodi annuncia il suo addio alla politica italiana e nel frattempo Berlusconi e Fini fondano il partito Popolo della Libertà. Proprio il Cavaliere tornerà al potere per la terza volta e resterà a capo del Governo fino al 2011. E’ l’anno in cui esplode la polemica per le morti bianche sul lavoro. Il più grave a Molfetta dove cinque operai rimangono asfissiati da esalazioni di anidride solforosa in un’autocisterna. Veltroni lascia alla fine del secondo mandato da Sindaco. Il 29 aprile viene eletto Gianni Alemanno del Centro Destra.
2009 – Sarà ricordato come l’anno del violentissimo terremoto in Abruzzo. Il 6 aprile, infatti, una scossa di magnitudo 6,3 fa tremare la Provincia dell’Aquila alle 3:32 causando 309 vittime, 1500 feriti, 65000 sfollati e il crollo di molti edifici. A Viareggio il 29 giugno deraglia un treno merci con 14 cisterne di Gpl, una esplode causando crolli e incendi nelle case nel raggio di 200 metri, il bilancio è di 32 morti e 23 feriti. il 2 ottobre altra tragedia a Messina: una frana devasta due paesi e provoca 35 morti. Il 15 ottobre, infine, muore Stefano Cucchi durante la custodia cautelare.
2010 – Un altro delitto diventa oggetto dell’attenzione morboso dei media. Il 26 agosto, infatti, la 15 enne Sarah Scazzi scompare ad Avetrana. Il suo corpo sarà ritrovato in un pozzo. La vicenda ha avuto un grande rilievo mediatico in Italia, culminato nell’annuncio della confessione dello zio in diretta sul programma Rai Chi l’ha visto? dove era ospite, in collegamento, la madre di Sara. Per il delitto sono stati condannati in primo grado e poi in appello all’ergastolo dalla Corte d’assise di Taranto, la cugina Sabrina Misseri e la zia Cosima Serrano con le accuse di concorso in omicidio volontario premeditato aggravato, mentre Michele Misseri, padre di Sabrina e marito di Cosima, è stato condannato alla pena di otto anni di reclusione per soppressione di cadavere e inquinamento delle prove. Nello stesso anno a Brembate di Sopra (BG) il 26 novembre scompare la 13 enne Yara Gambirasio. Il suo corpo senza vita sarà trovato tre mesi dopo in un campo aperto.
2011 – Ricorre il 150° anniversario dall’Unità d’Italia. Il 4 novembre a Genova muoiono 6 persone tra cui 2 bambini a causa dell’alluvione. Esondano Bisagno, Fereggiano, Sturla e Scrivia a causa delle intense precipitazioni. Il 12 novembre Berlusconi rassegna di nuovo le dimissioni. Dopo alcuni giorni di consultazioni, nasce ufficialmente (prestando giuramento) il Governo tecnico presieduto da Mario Monti tra crisi economiche, spread e proteste popolari.
2012 – Il 13 gennaio il naufragio della Costa Concordia nei pressi dell’Isola del Giglio provoca 33 morti e la condanna per il comandante Francesco Schettino. Un altro terremoto provoca danni e vittime. Stavolta a essere colpita è la provincia di Modena dove una scossa di magnitudo 6,0 causa 7 morti e diversi milioni di euro di danni. A Brindisi, invece, il 29 giugno davanti all’Istituto professionale “Francesca Laura Morvillo-Falcone” vengono fatti esplodere due ordigni: una ragazza sedicenne, Melissa Bassi, originaria di Mesagne, muore sul colpo. Altre sei studentesse rimangono ferite. Il responsabile, Giovanni Vantaggiato, verrà fermato pochi giorni dopo e condannato all’ergastolo. il 26 ottobre l’ex premier italiano Silvio Berlusconi è condannato in primo grado a 4 anni (di cui 3 condonati) nel processo per frode fiscale sull’acquisizione di diritti televisivi del gruppo Mediaset. Il 22 dicembre nuovo scioglimento delle Camere.
2013 – E’ un anno contraddistinto dalle dimissioni da pontefice di Papa Benedetto XVI. E’ l’undici febbraio e la notizia fa il giro del mondo in pochi minuti grazie ai social. Il 13 marzo, dopo lunghe consultazioni, sarà eletto Jorge Maria Bergoglio nuovo pontefice col nome di Papa Francesco. Il 20 aprile, invece, Giorgio Napolitano viene rieletto Presidente della Repubblica Italiana, divenendo il primo presidente nella storia della Repubblica ad ottenere un secondo mandato. Una settimana dopo Enrico Letta diventa Presidente del consiglio, anche se non ci sono state elezioni. il 29 dicembre l’ex pilota Schumacher entra in coma dopo un incidente sugli sci. Sindaco di Roma viene eletto Ignazio Marino del Pd.
2014 – Il 22 febbraio, di nuovo senza elezioni, Matteo Renzi assume l’incarico di presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica Italiana. Il 23 novembre la prima donna italiana astronauta, Samantha Cristoforetti, inizia il viaggio verso lo spazio. Alle elezioni per il Parlamento Europeo Matteo Renzi e il suo PD ottengono il 40% dei voti, seguiti dal sorprendente Movimento 5 Stelle con il 21% e Forza Italia con il 16,8%.
2015 – E’ un anno contraddistinto dalle tragedie dei migranti in mare. Il più grave avviene il 18 aprile nel Canale di Sicilia dove una imbarcazione carica di887 migranti al largo delle coste libiche, impattato incidentalmente con la nave King Jacob. Oltre 800 i morti, il numero più alto di vittime mai registrato. Il 31 gennaio Sergio Mattarella diventa Presidente della Repubblica mentre il 13 marzo Papa Francesco annuncia il Giubileo straordinario. Marino viene “esonerato” come sindaco di Roma dal governo Renzi in seguito a numerosi scandali tra cui Mafia Capitale che ha scoperchiato il rapporto tra mafia italiana e appalti pubblici.
2016 – Lo stiamo vivendo e purtroppo dobbiamo registrare un altro terremoto terribile che il 24 agosto scorso ha distrutto molti paesi del Centro Italia tra cui Amatrice. La scossa principale si è prodotta alle 3:36:32 e ha avuto una magnitudo momento 6 e provocato oltre 200 vittime. Viene eletto come Sindaco di Roma il candidato dei Cinque Stelle Virginia Raggi.
LE BUGIE DEI POLITICANTI CHE SCHIAVIZZANO I NOSTRI GIOVANI.
Ecco come i politici manipolano i numeri. Da Berlusconi a Renzi, 20 anni di bugie. Dal milione di posti di lavoro al bonus di 80 euro, passando per tesoretti che appaiono e scompaiono e stime (come quelle Istat) su contratti e disoccupazione: sondaggi, tabelle e statistiche hanno invaso media e tv, e sono usate dai politici come strumento di propaganda. Così anche la matematica è diventata un'opinione, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. Quando dà i numeri, Matteo Renzi sembra ispirarsi alla leggendaria lezione di economia di “The Wolf of Wall Street”. «Regola numero uno: nessuno (ok, se sei Warren Buffett allora forse sì), nessuno sa se la Borsa va su, va giù, di lato o in circolo», ragiona il broker Matthew McConaughey mentre spiega strafatto di coca a Leonardo DiCaprio come fare soldi e fregare i clienti. I dati e le cifre? «Sono tutto un “fughesi”, un “fugasi”, cioè falso, volante... polvere di stelle, non esiste, non tocca terra, non ha importanza, non è sulla tavola degli elementi, non è reale cazzo!». Ecco. A vedere le statistiche snocciolate dal premier e dai suoi ministri nelle ultime settimane, sembra che in Italia, come nel film di Martin Scorsese, la matematica sia diventata un’opinione, un luogo dove 2 più 2 può fare anche 5, 7 o 39, a secondo delle esigenze e degli esegeti del numero. Così, se un tesoretto da «1,6 miliardi» può apparire improvvisamente in un bel giorno di primavera e scomparire 48 ore dopo, per rinascere ancora (accresciuto o sgonfiato, a seconda dell’economista che ne scrive) in qualche dichiarazione al tg, e se le previsioni di crescita del Pil piazzate nel Documento di programmazione economica sembrano scientifiche quanto una partita a dadi, i dati sugli effetti del nuovo Jobs Act sono metafora perfetta dell’affidabilità delle tabelle che dominano il dibattito pubblico. Già: sia a fine marzo che a fine aprile il ministro Giuliano Poletti ha annunciato il miracolo, spiegando che la nuova legge aveva creato 79 e 92 mila contratti in più. Dopo una settimana l’Istat ha però certificato che il tasso di disoccupazione, proprio a marzo, ha raggiunto il suo massimo storico, toccando il 13 per cento. «I numeri non sono confrontabili», hanno spiegato fuori di sé da Palazzo Chigi. Oggi l'Istituto ha rilasciato un'altra sfilza di dati, stavolta trimestrali, che evidenzierebbero un boom (grazie al taglio delle tasse per chi assume) di contratti a tempo indeterminato. Insomma, ce più o meno lavoro di prima? Nemmeno i chiromanti e gli economisti più quotati finora ci hanno ancora capito nulla. Dal milione di posti di lavoro promessi da Silvio Berlusconi nel 1994 fino agli 80 euro del bonus Renzi, passando per l’ossessione europea del 3 per cento nel rapporto tra deficit e Pil, sono più di vent’anni che la dittatura dei numeri condiziona le elezioni, il confronto politico e, conseguentemente, l’evoluzione della società. La passione per le tabelle è diventata una moda e poi una malattia, un diluvio di cifre ci piove in testa tutti i santi giorni. «È vero. Il boom delle cifre è un fenomeno evidente, tangibile, ed è contestuale alla fine delle ideologie», spiega Ilvo Diamanti, ordinario all’università di Urbino che con dati e sondaggi ci lavora da sempre. «Durante la Prima Repubblica politica e partiti erano fondati su certezze granitiche, ma la fine della contrapposizione tra democristiani e comunisti, sommata al declino della fede religiosa, ha cambiato tutto. Le statistiche rappresentano una risposta alla crisi dei valori tradizionali, hanno riempito un vuoto, e sono diventate un totem». Scomparsi i fondamenti culturali e le visioni etico-morali su cui si disegnavano gran parte delle misure politiche e delle strategie sociali, dunque, la matematica e la statistica sono diventate il filtro più usato per rappresentare e analizzare la realtà. I politici, ovviamente, ci sguazzano dappertutto, ma sotto le Alpi lo fanno con accanimento e modalità che altrove non hanno attecchito: non è un caso che nel “Grande dizionario della lingua italiana” la locuzione «dare i numeri» vuol dire anche «apparire insincero, suscitare il sospetto di tramare un inganno, di agire con doppiezza, con fini reconditi». Di sicuro i numeri sono diventati un corredo indispensabile a ogni strategia comunicativa. Ma, oltre a dare sostegno alle chiacchiere e una parvenza di concretezza alle parole, in Italia vengono usati soprattutto per impressionare, suggestionare, muovere passioni, speranze e paure. Se nel contratto con gli italiani Berlusconi prometteva «l’innalzamento delle pensioni minime ad almeno un milione di lire al mese» e «la riduzione delle imposte al 23 per cento per i redditi fino a 200 milioni di lire annui», nel 2013 Bersani spiegò di voler restituire alle imprese «50 miliardi in 5 anni» in modo da diminuire i debiti della pubblica amministrazione. Il cavallo di battaglia di Beppe Grillo è, da sempre, il reddito minimo di cittadinanza «da mille euro al mese», mentre Matteo Salvini afferma, da giorni, che «un milione di immigrati è pronto a salpare dalla Libia per le nostre coste». Secondo il linguista Michele Porcaro, dell’università di Zurigo, c’è anche una strategia precisa nel dare i numeri, a seconda di cosa si vuole comunicare: la cifra tonda (un milione, un miliardo) «è in funzione di aggressione verbale», scrive l’esperto, «serve non a essere credibili, ma a suggestionare. Se si vuole suonare affidabili, invece, si usa la cifra esatta». In quest’ultimo caso, però, l’eccesso di pignoleria può causare effetti comici, come quando Berlusconi annunciò che durante il suo mandato a Palazzo Chigi «gli sbarchi di clandestini si sono ridotti del 247 per cento». Fosse stato vero, sarebbe addirittura un saldo negativo, sotto zero. Già nel 1954 Darrell Huff nel best seller “Mentire con le statistiche” spiegava che i politici hanno una tendenza innata alla manipolazione della matematica. Che in sé è oggettiva e non opinabile, ma la sua interpretazione è assai discutibile. Prendiamo il tasso di disoccupazione: un dato che dovrebbe essere obiettivo e invece dipende da decine di parametri: hai risultati diversi se consideri o meno gli scolarizzati, l’ampiezza della popolazione che misuri, puoi decidere se dare il tasso annuale, mensile, tendenziale. «Alla fine il politico sceglie quello che gli conviene maggiormente. L’ambizione primaria dei partiti non è quella di riformare il Paese, ma costruire consenso», spiega ancora Diamanti. «E i numeri sono invece facili da strumentalizzare. Io per primo, quando faccio sondaggi elettorali, so che il mio lavoro può essere usato come mezzo di condizionamento delle masse. Bisogna, proprio per questo, che gli studi siano autorevoli, e che i media sappiano discernere tra fatti e fattoidi». La propaganda non è l’unico modo in cui i politici e gli opinionisti stuprano le cifre. Altra caratteristica nazionale è quella di commentare fenomeni che non si conoscono a fondo, e imbastire analisi con numeri orecchiati al volo. «Nessuno studia, nessuno sa nulla, e così gli errori non si contano più. Anche perché ministri e deputati hanno mutuato dalla Borsa, sempre affamata di previsioni, una tendenza a pubblicare dati provvisori, che dopo poco tempo possono subire enormi revisioni», ragiona Giacomo Vaciago, economista all’Università Cattolica di Milano. «Questo avviene soprattutto in Italia, dove i politici hanno ormai una veduta non corta, come diceva Tommaso Padoa-Schioppa, ma cortissima: se esce un dato sull’occupazione o sul Pil, un sondaggio o uno studio dell’ultima associazione dei consumatori, il politico vuole subito commentarlo, in modo da comparire sui telegiornali delle 20, sui siti, sulla stampa e nei talk show. Pazienza se il dato è solo una stima che può cambiare dopo qualche giorno: mal che vada si fa sempre in tempo a tornare in tv e ricommentarlo, dicendo il contrario di quanto affermato prima. È tutta fuffa, una bolla, numerologia irrazionale. La cosa incredibile è che tutti noi ci viviamo in mezzo, a questa panna montata, come fossero sabbie mobili». Così non deve stupire che esperti vari, economisti, e persino i cervelloni di Bankitalia abbiano prodotto decine di interventi per spiegare come spendere al meglio il tesoretto da 1,6 miliardi di euro che dopo un po’ si è ridotto della metà, e che oggi rischia di scomparire mangiato da un nuovo buco miliardario causato dalla sentenza della Consulta che ha bocciato come incostituzionale quella parte della riforma Fornero sul blocco delle pensioni (anche qui si è passati da 5 a 13 miliardi di euro in due giorni appena). Un provvedimento che angosciò anche i cosiddetti esodati, lavoratori finiti in un limbo tra lavoro e pensione. Per mesi non si capì quanti fossero davvero: se il governo Monti li quantificò in 65 mila persone, l’Inps parlò inizialmente di 130 mila casi, lievitati in una seconda relazione tecnica a 390 mila, mentre il sindacato ne contò 300 mila. Nemmeno fossimo alla tombola di Natale. Se fin dalle scuole elementari i numeri danno ai futuri contribuenti un’illusoria garanzia di precisione, oggi gli italiani non riescono a sapere con certezza nemmeno quante tasse pagano: se il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha annunciato che il 2014 s’è chiuso con una riduzione della pressione fiscale, l’Istat - classificando il bonus da 80 euro come spesa sociale e non come riduzione del peso fiscale - ha fotografato invece un nuovo picco, arrivato al 43,5 per cento del Pil. Anche i numeri ballerini sulla spending review hanno intasato per mesi tv e giornali: se l’ex commissario Carlo Cottarelli parlò di tagli «per 8-14 miliardi», il governo Renzi ha recentemente ipotizzato «tagli per 10 miliardi». Alla fine, visto che gran parte degli impegni è rimasta solo su carta, la spesa pubblica ha continuato a crescere. Almeno così sostiene la Ragioneria dello Stato. Se le cifre hanno sostituito le ideologie, coloro che le maneggiano sono diventati i nuovi guru, i sacerdoti della modernità. «E i numeri», aggiunge Diamanti, «sono il nuovo dio: peccato che, per definizione, siano molto meno obiettivi e infallibili di quanto si creda». La voglia incontenibile di tabelle e grafici ha fatto esplodere la domanda di cifre e sondaggi già da qualche lustro, ma oggi, nell’era dei Big Data, la tendenza è ancora più evidente. La società chiede ai numeri le risposte alle domande che pone: decisioni aziendali, personali, politiche vengono prese innanzitutto su dati statistici. I numeri fanno ascolto, piacciono alla gente, e non è un caso che economisti ed esperti, veri o presunti, siano diventati star assolute della tv e del web: sondaggisti come Renato Mannheimer, Nicola Piepoli e Nando Pagnoncelli sono ospiti fissi nei talk, ascoltati e riveriti da politici e giornalisti come fossero la Sibilla Cumana (e pazienza se a ogni elezione le loro previsioni si dimostrano distanti dalla realtà); economisti come Tito Boeri hanno fondato siti di successo come lavoce.info e hanno fatto carriere importanti (Renzi l’ha nominato presidente dell’Inps, mentre cinque suoi redattori sono in aspettativa dopo aver ottenuto incarichi politici); piccole associazioni di artigiani, come la Cgia di Mestre, hanno pure creato un inedito business delle tabelle, grazie a un ufficio studi che macina centinaia di analisi e classifiche l’anno, riprese quotidianamente da agenzie di stampa e giornali. «Per fortuna non ho beccato neppure una smentita», disse il segretario Giuseppe Bortolussi in un’intervista a “Panorama”, dimenticando però le critiche arrivate da Asl, assessori comunali, Regioni ed economisti assortiti. «Questa associazione ha una buona notorietà, ma a volte dà i numeri», notò pure Marco Ponti, ordinario di Economia a Milano. «Non che i numeri che dà siano tecnicamente sbagliati, ma confonde tra di loro dati che non c’entrano affatto». Bortolussi, per la cronaca, ha ottenuto un ritorno d’immagine straordinario, e nel 2010 è stato anche candidato del Pd in Veneto alle regionali contro Luca Zaia. Il doping informativo ha travolto tutto, e non c’è fenomeno che non venga misurato e quantificato. Dal presunto boom dei suicidi degli imprenditori (bufala di cui i media si sono occupati per mesi) all’«inflazione percepita» in voga dopo il passaggio dalla lira all’euro, non c’è organismo o consorteria che non abbia un suo centro studi che macina dati e fornisce tabelle facendo concorrenza a Istat, Ocse e Eurostat: dai sindacati alla Confcommercio, da Confindustria al Codacons di Carlo Rienzi, dalle banche al Censis, il delirio di cifre su Pil, fatturati industriali, tasse, stime per la ripresa e crisi dei consumi non lascia tregua a nessuno, ventiquattro ore su ventiquattro. Vittima predestinata dell’overdose è ovviamente l’opinione pubblica, intontita da dati che alla lunga perdono di senso e di valore, in uno tsunami di matematica che, se da un lato allontana dalla verità, dall’altro distanzia le masse dalla politica, dalla televisione e dai giornali. Perché in tanti, ormai, cominciano a comprendere l’aforisma dell’ex primo ministro inglese Benjamin Disraeli: «Esistono tre tipi di bugie: le bugie, le bugie sfacciate e le statistiche».
LA POLITICA DEL CENTRO DESTRA NEL REPARTO DI GERIATRIA.
Berlusconi, l'impunità e il paese per vecchi, scrive Giulio Mattioli, martedì 13 luglio 2010, su "Blogo". La notizia di oggi non è tanto il fatto che Berlusconi abbia definito l'inchiesta sull'eolico che vede coinvolto Denis Verdini come "una montatura dei giornali", ma una dichiarazione collaterale del premier, che rischia di passare inosservata. In merito all'arresto di Flavio Carboni per il caso nuova P2/P3, il Cavaliere ha infatti affermato che "non si mette in galera uno che ha settantotto anni". Un'uscita che, a pensarci bene, sa un po' di fregatura. Non è l'Italia infatti il paese in cui 70 anni non sono troppi per fare il premier, 80 il minimo per diventare Presidente della Repubblica e 50 l'età in cui si è ancora "giovani speranze" della politica del futuro? In altre parole, la nazione con la classe politica più anziana d'Europa? Abbastanza giovane per governare il paese - e non cedere un minimo di potere alle generazioni successive - ma a quanto pare già troppo decrepita, dopo i 75 anni, per poter andare in galera. A Milano, dove sono cresciuto, questo si chiama in un solo modo: ciurlare nel manico. E l'uscita berlusconica assume tinte ancora più inquietanti e ridicole allo stesso tempo se pensiamo alle dichiarazioni di Don Verzè di ieri: Silvio Berlusconi mi ha chiesto di farlo campare fino a 150 anni. Lui pensa che arrivando a 150 anni metterà a posto l’Italia. Ecco, altro che Lodo Alfano e compagnia bella: con un Lodo-vecchi che proibisca il carcere dopo i 75, Berlusconi a fine legislatura avrebbe già raggiunto il traguardo tanto agognato dell'impunità - per circa metà della sua esistenza terrena. Don Verzè permettendo, ovviamente.
Lega, Bossi: Base è stufa di Salvini, ora il congresso. La replica: So già chi vincerà. Il richiamo alle origini e la bocciatura del partito formato nazionale arrivano da piazza del Podestà, Varese, durante la festa per i 30 anni della prima sede del Carroccio. "Soprattutto in Lombardia e in Veneto non frega niente dell’Italia", attacca l'ex leader. "Salvini ha i voti? I voti non servono a niente, se non sai per che cosa li prendi", infierisce poi parlando con i giornalisti. La replica a IlFattoQuotidiano.it: "Sto lavorando per il No al referendum. Chi fa polemica ora aiuta Renzi", scrive "Il Fatto Quotidiano" il 27 novembre 2016. Il Senatùr piazza la zampata in un pomeriggio di novembre, a una settimana dal referendum costituzionale. Boccia senza possibilità di appello la Lega Nord formato nazionale sognata da Matteo Salvini e mette un’ipoteca sul futuro del Carroccio. “Rischia di cambiare la Lega? No, rischia di cambiare il segretario, la base non vuole più Salvini, non vuole più uno che ogni giorno parla di un partito nazionale”. Il richiamo alle origini Umberto Bossi lo lancia da piazza del Podestà, a Varese, durante la festa per i 30 anni della prima sede del Carroccio. “Queste affermazioni mi fanno sorridere – smorza la polemica Salvini, raggiunto al telefono da IlFattoQuotidiano.it – in questo momento sto facendo battaglia sul referendum e sono impegnato nella difesa della Costituzione. Il congresso lo faremo a tempo debito e non ho dubbi su come andrà a finire. Chi in questo momento va dietro a queste beghe politiche fa il gioco di Renzi”. Proprio quando la Lega è chiamata a dimostrare di poter aspirare al rango di partito nazionale e il giovane Salvini si gioca le proprie chance per mettere il Carroccio alla guida del centrodestra italiano, il vecchio leone mette nel mirino il segretario nazionale, chiedendo che si tenga il congresso federale al più presto, visto che “il 16 dicembre scade il mandato”. E chi dev’essere il nuovo segretario? “Lo deciderà il congresso – ha risposto – il congresso è sovrano”. Come un apprendista imbranato che non ha ancora ben capito le regole del gioco, ecco come l’Umberto sceglie di trattare il giovane Matteo. Come, o peggio di come Berlusconi tratterebbe un Parisiqualsiasi. “Salvini ha i voti? – domanda in via retorica l’Umberto, seduto nel bilocale dal quale 30 anni fa lanciò il sogno della Padania libera – i voti non servono a niente, se non sai per che cosa li prendi”, infierisce parlando con i giornalisti. Secondo l’ex leader della Lega, “alla base, soprattutto in Lombardia e in Veneto, non frega niente dell’Italia”. Quindi, a suo avviso, ci vuole un nuovo congresso federale che stabilisca una linea, anche se per Bossi la linea è una sola: l’indipendenza della Padania, che è scritta nel primo articolo dello Statuto della Lega Nord. E, possibilmente, “un nuovo segretario, uno che si attenga allo Statuto e non faccia quello che vuole”.
Il Senatùr annusa l’aria, sente il vento populista che spira sull’Europa alla vigilia delle elezioni in Austria, Francia e Germania. La poltrona di Renzi scricchiola sempre di più ogni minuto che passa prima del referendum costituzionale e gli squali il sangue lo avvertono da lontano. Il 4 dicembre “bisogna votare No, penso che arriverà una valanga di No, che asfalterà Renzi”, preconizza, convinto che il premier sarà sconfitto non tanto per il testo della riforma della Costituzione, quanto “perché la gente voterà contro il governo che ha distrutto il Paese, bisogna guardare i numeri del lavoro”. A Bossi è stato anche chiesto in che cosa il premier sia diverso da Silvio Berlusconi, che nei giorni scorsi aveva definito Renzi l’unico altro leader in circolazione. “Beh, Renzi è un bauscione, è sfacciato, fa troppa pubblicità a se stesso – è stata la risposta del fondatore della Lega – fa così, ma poi è uno che non è capace di fare le cose. I numeri lo condannano”. La prima sede del movimento a Varese, aperta nel 1986, ancora in affitto. Il Senatùr si è seduto alla scrivania, sigaro in bocca, davanti ai militanti, alcuni dei quali c’erano già trent’anni fa. Poi ha tagliato la torta insieme a Roberto Maroni e all’ex senatore Giuseppe Leoni, fra i fondatori della Lega Lombarda con Bossi nel 1984. Poi mentre si alzava dalla scrivania, Bossi ha notato un manifesto dell’epoca con lo slogan Più lontani da Roma, più vicini all’Europa. “Bisogna mandarlo a Salvini!”, ha esclamato, scoppiando in una risata. Ha collaborato Alessandro Madron
Bossi: voglio bene a Berlusconi, ho sofferto come lui. Quelle sere ad Arcore tra politica e minestrina. Il Senatùr parla del leader di Forza Italia che compie 80 anni: tra poco potrà tornare nelle piazze a parlare al suo popolo, anche la Lega ne ha bisogno, scrive Paola Di Caro il 27 settembre 2016 su "Il Corriere della Sera". Alla fine, da dietro la scrivania del suo ufficio a Montecitorio — bandiera della Lega alle spalle, sul mobiletto accanto foto con lui e Berlusconi abbracciati — chiede un «favore»: «Se può, scriva col cuore». Perché il lungo rapporto tra il Senatùr e il Cavaliere è uno strettissimo e tumultuoso sodalizio politico, ma anche la storia di una grande amicizia. «Gli voglio bene», dice Umberto Bossi dell’alleato storico, che alla soglia degli 80 anni «non ha chiuso la sua stagione. Ha lasciato il segno nella politica, ma ancora serve il suo tratto per cambiarla». E — gli dirà domani quando gli farà gli auguri per il compleanno — il momento per tornare in campo è ora: «Ha passato mesi durissimi, quell’operazione comporta dolori insopportabili. E quando soffri così, o ce la fai a girare la manopola o non lo superi. A me successe di afferrarla quando per la prima volta, nella clinica Svizzera dove ero ricoverato, ripresi a fare i primi passi. Lui ha già cominciato a girarla. Tra poco potrà tornare nelle piazze, a parlare al suo popolo: gli basterà per far risalire FI, anche la Lega ne ha bisogno». Perché non crede Bossi che Berlusconi pensi a mollare: «Me lo dice ogni volta, “lascio la politica solo quando la lasci tu”». E lui, il Senatùr, non ne ha intenzione: «Io sono stato aggredito dalla magistratura, e per il bene della Lega ho fatto un passo indietro. Lui deve resistere». Non è ora di passare la mano: «L’ha pensato solo rispetto ai figli, a Piersilvio in particolare. Ma per il resto “FI — dice — l’ho fatta io, perché dovrei consegnarla a chi aspetta solo la pappa pronta?”». Sospira Bossi: «Il rinnovamento serve, ma noi vecchi ci credevamo, avevamo ideali. Questi nuovi pensano solo alla carriera». Altra pasta, l’amico Silvio: «È simpatico, vicino alla gente, umano. Al primo consiglio dei ministri dopo la vittoria del ’94 ci disse serio: “Comportatevi bene, che il titolo di ministri vi resterà tutta la vita”, pensava fosse una cosa nobiliare, che si tramanda... È sempre stato semplice dentro Berlusconi, e come diceva Leopardi gli uomini più importanti sono quelli semplici». Che poi «all’inizio avevo il sospetto che come tanti ricchi non gli importasse molto dei lavoratori. Macché: lui si preoccupa per tutti. Una volta qui fuori dalla Camera una signora chiese aiuto, voleva vendere un rene per pagare la clinica a suo marito malato. Lo chiamai: “Silvio, c’è una persona che solo tu puoi aiutare”. La ricevette immediatamente, ascoltò, staccò l’assegno per pagare tutte le spese. E quante volte l’ha fatto». Informale: «La canottiera a Villa Certosa? Mi chiamò all’improvviso, io ero in Sardegna da un amico, gli dissi “ma sto in relax, non ho nemmeno una camicia”. E lui: “Ti mando a prendere, che importa cosa hai addosso?”». Ossessivo: «Mi voleva convincere a tingermi i capelli: “Ti levano vent’anni, è importante!”. E io: “Sono troppo pigro, pensa se ogni settimana devo farmi il ritocco...”». Appassionato: «I lunedì di Arcore andavamo avanti per ore io, lui e Tremonti a parlare solo di politica, davanti alla solita minestrina, che quella si mangiava lì». Curioso: «Facevo da tramite tra lui e il mio figlio più piccolo, tifoso del Milan. Uno gli dava i suggerimenti su chi comprare, l’altro gli svelava cose di spogliatoio». Sospettoso: «Il suo difetto è ascoltare troppa gente, fidarsi di chi lo monta contro questo o quello. Si convinse che Tremonti volesse scalzarlo, sbagliò». Sbagliò ancora, Berlusconi: «Quando si separa dalla moglie, resta senza la famiglia, gli amici, un uomo può sbandare. Avrei dovuto dirglielo con più chiarezza». Ma «si è rialzato, eccome: pensavano di punirlo mandandolo a curare i vecchietti malati, e invece “sto bene lì, faccio pure gli scherzi quando li imbocco, sapessi le risate”, mi raccontava». Ora c’è l’ultima salita, tornare in campo: «Può farcela, anche il cuore è un muscolo, si allena. Al mio compleanno (il 19 settembre, 75 anni, ndr) è notte e mi telefona, tutto ansimante: “Silvio, stai bene”? “Sì, è che ho fatto le scale di corsa per farti gli auguri prima della mezzanotte!”. Bene, vuol dire che è guarito».
Tutte le volte che la Lega ha detto "Mai più con Berlusconi". In origine fu Bossi, poi arrivarono Maroni, Calderoli e adesso Salvini. Tutti contro Berlusconi, ma tutti pronti a tornare in coalizione con lui quando servono i voti, scrive Lorenzo Giarelli il 20 Settembre 2016 su "L’Inkiesta”. Il rapporto tra i leader della Lega Nord e Silvio Berlusconi è stato sempre schizofrenico: un giorno è cenetta a lume di candela, il giorno dopo volano piatti a altezza uomo in cucina. Oggi (ma domani chissà) siamo proprio in mezzo a una crisi coniugale, con Salvini che da Pontida ha emesso la sentenza di divorzio: “Mai più con Berlusconi”. La frase non dev'essere suonata del tutto nuova agli orecchi più fini. Tra Bossi e Berlusconi fu amore nel '94, ma all'inizio le cose non furono semplici. Dieci giorni prima delle elezioni, quelle della discesa in campo di Silvio, Bossi tuonò: “Berlusconi presidente del Consiglio? Non se ne parla nemmeno. Dalla Prima alla Seconda Repubblica si passa con uomini nuovi, il nuovo premier dev’essere un leghista: Maroni”. Tredici giorni dopo i due saranno due cuori una coalizione e sbaraglieranno la concorrenza, andando a braccetto al governo. L'idillio però durò solo qualche mese, finché Bossi non staccò la spina all'esecutivo. I due sposini si beccarono a distanza. Berlusconi: “Non mi siederò mai più (ma proprio mai più, ha detto così, ndr) a un tavolo con Bossi, è una persona completamente inaffidabile”. Bossi: “Berlusconi ha preso i soldi da Cosa Nostra”, “E' un nazistoide”, “Con lui non ci si può alleare”. E Berlusconi diventava Berluskàz o Berluskaiser, a seconda delle interviste.
"Non siamo noi a litigare con Berlusconi, è la Storia che litiga con lui". Umberto Bossi
Era il 1995, Dini andava al Governo con il sostegno di factotum di Arcore e senza quello di Bossi. Ma certi amori, si sa, non finiscono. Nel '96 c'è ancora maretta, ma Prodi dimostra che il centrodestra, diviso, perde. Bossi, nonostante tutto, è chiaro: “Berlusconi ha fatto tanti imbrogli nella sua vita. Oggi è servo di quel fascista di Fini”. Nel '99 rincara la dose: “Non saliremo mai sul carro di Berlusconi, che al massimo è una carriola”. Deve averci ripensato, Umberto, perchè nel 2001 Lega e Forza Italia si presentano alleate alle elezioni, vincendo. Non solo: insieme al fascista di cui sopra, Bossi scriverà a quattro mani l'ormai storica legge sull'immigrazione (la Bossi-Fini, appunto), a dimostrazione del feeling ritrovato. Tutti insieme appassionatamente per un bel decennio, fino a che Berlusconi non cade alla fine del 2011. E' il famoso periodo del golpe, come piace dire a Silvio. Mario Monti va al governo appoggiato dal Cav, ma non da Bossi. E' l'ennesima rottura. Bossi si defila e lascia spazio ai giovani (Maroni) e ai giovanissimi (suo figlio), non prima di aver espresso la sua delusione: “Berlusconi è andato coi comunisti”. E' il liberi tutti: il Cav sembra finito politicamente e si può fare a gara a chi la spara più grossa. Calderoli: “Non ci può essere alleanza, le cene del lunedì se le faccia con Monti”. La Lega non fa alleanze con chi sostiene Monti”. Il rampante Salvini: “Basta Berlusconeide”. Insomma, il 2012 è proprio l'anno della svolta, tanto che il grande capo Umberto torna sulla scena per mettere la parola fine alla vicenda: “La frattura è insanabile”. Pochi mesi e si torna a votare, nel febbraio 2013. Indovinate un po'? Lega e Berlusconi ancora insieme, più forti che mai. Il resto è storia recente: il Cav sostiene Letta mentre cala a picco nei sondaggi, la Lega, con Salvini, fa il boom facendo opposizione perenne. I battibecchi continuano perchè le urne sono lontane, ma in prossimità del voto tutto potrebbe cambiare. In tutto questo, però, una lancia in favore della Lega la dobbiamo spezzare. D'altra parte lo aveva detto lo stesso Bossi: “Non siamo noi a litigare con Berlusconi, è la Storia che litiga con lui”. Provateci voi, a gestire il mago della piroetta retorica, il maestro del “sono stato frainteso”, l fuoriclasse del “non ho mai detto”. Bisogna, come minimo, mettersi sullo stesso livello.
I 75 anni di Bossi, il leone del Nord dalle crociate padane ai siluri a Salvini. È il fondatore-contestatore, ma tutti sorvolano: se non c'era lui..., scrive Paolo Bracalini, Martedì 20/09/2016, su "Il Giornale". Milano Settantacinque anni, un trentennio di politica tra ampolle, secessioni e governi, di mezzo una botta micidiale che l'ha quasi fatto fuori e un'inchiesta che ha travolto la sua famiglia, ma Umberto Bossi è ancora lì, a urlare «Padania libera» a Pontida, a contestare la linea del segretario federale («la Lega è nata per liberare il Nord oppresso dal centralismo italiano, il resto sono chiacchiere»), a fumare il toscano nel cortile di Montecitorio, forse a vagheggiare un impossibile ritorno in auge. Per il vecchio leone del Nord questi ultimi sono compleanni un po' amari, mentre negli anni d'oro del potere c'era la fila per riverirlo e omaggiarlo e ancora nel 2010 Telepadania lo celebrava mandando in onda il videoclip Buon compleanno capo, ora Bossi spegne le candeline nella casa di Gemonio rimuginando sul passato tra nostalgie e recriminazioni («Mi hanno tradito»). Per i 75 anni del vecchio Umberto qualcosa però si muove, i deputati gli hanno preparato un brindisi a Roma, mentre Tremonti - il suo ministro dell'Economia preferito - stasera gli ha organizzato una cena. In via Bellerio è sopportato come l'anziano brontolone che abbaia alla luna, ma siccome è Bossi bisogna avere pazienza e lasciar correre: «Mi dice che non capisco un c... ma che devo fare? Lo abbraccio e vado avanti» abbozza Salvini che gli ha fatto gli auguri un giorno in anticipo, perché «senza Umberto Bossi non esisterebbe nulla di tutto ciò». Il debito gli è riconosciuto, anche se si ostina a non starsene zitto: «È il compleanno di Bossi, gli ho fatto gli auguri, lui è la nostra storia, senza di lui non saremmo qua» scrive Maroni, che lo conosce bene, fin dagli inizi di quella storia picaresca, a tratti funambolica, da cui nasce la Lega Lombarda con atto ufficiale nel 1984, prendendo ispirazione dall'«Unione Valdôtaine» di Bruno Salvadori da cui eredita le idee ma pure i debiti («Lui si vanta di averli pagati lui, io so che li ho pagati io» raccontò Maroni). Prima Bossi aveva fatto di tutto: il muratore, l'addetto in una lavanderia, il cantante (ha pure inciso un 45 giri), il dipendente dell'Aci, lo scaricatore di frutta e verdura, l'assistente alla camera operatoria in un ospedale, lo studente di Medicina all'Università di Pavia senza mai finirla, eterno fuoricorso («Oh, stiamo parlando di uno che ha organizzato tre feste di laurea senza mai essersi laureato» dirà di lui il cognato Pierangelo Brivio»). Politicamente era stato di sinistra, ma in modo confuso (dal gruppo comunista del Manifesto al Pdup ai Verdi), finché non ha l'intuizione che gli cambia la vita: fondare un partito che abbia come programma «la trasformazione dello Stato italiano in un confederazione di regioni autonome», come si legge nel programma della primissima Lega Lombarda. La propaganda, fatta artigianalmente con la Renault 4 del cognato e i manifesti attaccati a mano, è inizialmente grezza ma per scelta: «Decidemmo di sfruttare l'antimeridionalismo diffuso in Lombardia, con un taglio un po' rozzo delle parole d'ordine sia per far scandalo sia per gettare fumo negli occhi dei partiti romani che ci presero per una combriccola di bontemponi e tardarono ad alzare la guardia» raccontò poi lo stesso Bossi. Il messaggio sarà pure rozzo ma sfonda alla grande, dopo solo tre anni dopo è giá «Senatùr» (mentre al suo paese si era guadagnato un altro soprannome, il mantegnù, «quello lì ha passato la vita a farsi mantenere» dirà la sorella Angela). Scrive l'Ansa del giugno '87: «Umberto Bossi, 46 anni, varesino, ex ricercatore all'Università di Pavia (sic), è il primo senatore della Lega Lombarda». Nel '90 la Lega è già il quarto partito italiano, di lì a poco conquisterà Milano con Formentini, e il governo di Roma con Berlusconi nel '94, fatto cadere col «ribaltone», poi ancora nel 2001 e nel 2008, dopo la malattia, l'inizio del tramonto bossiano. Il colpo di grazia sono le inchieste sulla «Family» e i soldi del Carroccio, secondo lui manovrate dai nemici interni al Viminale, che lo portano alle dimissioni da segretario e all'emarginazione nel partito. Resta il «presidente federale», il rompiballe che alla Lega tocca sopportare, «perché se non c'era lui...».
Berlusconi, 80 anni e 1 nemico: la destra, scrive Michele Serra su "Vanity Fair". Mi consenta. Più tormentone di così non si può. Se c’è un’espressione che fa pensare immediatamente a Silvio Berlusconi, è senza dubbio: «Mi consenta». L’avremo sentita almeno un migliaio di volte: dal 1994, anno in cui il presidente ha deciso di “scendere in campo”, questa frase ci ha accompagnato fino a oggi. Ormai è impossibile dire «mi consenta» senza pensare a Berlusconi. Silvio Berlusconi compie ottant’anni il 29 settembre nella condizione (imprevista) di comprimario. Gli esiti titanico-catastrofici, alla Caimano, sono rimasti fortunatamente sulla carta: non ha incendiato Roma. È rimasto a galleggiare ai margini della sua fama come una vecchia gloria. Come un De Mita qualunque. Vedendolo così, desueto e inoffensivo, è lecito domandarsi se non si sia esagerato, ai tempi, nella sua mostrificazione. Facciamolo, ma a condizione che la memoria, che per sua natura tende a essere corta, ci restituisca tutta intera la paurosa mancanza di misura, di portamento democratico e persino di logica del periodo detto «berlusconismo». Il romanzo giudiziario che lo ha ingabbiato in trame processuali le più varie (alcune, vedi i dibattimenti pettegoli sulle «cene eleganti», non proprio fondamentali) ha avuto il torto di mettere in secondo piano la sostanza politica del suo lungo regno, che è stata la dismisura. Aveva troppi soldi, troppe televisioni, troppi giornali, troppo potere e – in conseguenza dei precedenti «troppo» – troppi servi. Era ipertrofico anche il suo ego. Vanitoso, presuntuoso, gaffeur, importuno con le donne, puerilmente convinto di essere meritevole dell’ammirazione incondizionata di tutti e di conseguenza offeso a morte, e furibondo, se qualcuno osava non amarlo e applaudirlo. Mentitore seriale e impudente, forse il solo politico dell’intera storia mondiale ad aver promesso che avrebbe «sconfitto il cancro in tre anni». Per queste sue qualità divenuto popolarissimo in tutto il mondo come maschera italiana nel senso più triste del termine, sbruffone esciupafemmine, millantatore e inaffidabile. Riassumendo: non serio. Magari simpatico, ma non serio, che è lo stigma che ci perseguita, nel mondo, da secoli. Se la democrazia è un insieme di misure (regole, controlli reciproci, compromessi), Berlusconi ha tentato di essere l’esatto contrario, rimpiazzando il vuoto di senso della politica in crisi con un «pieno di sé» quasi incredibile per vanità e ancora più incredibile per il credito elettorale riscosso così a lungo, e a dispetto dell’inconsistenza politica dei suoi governi. Difficile dire se abbia cambiato il Paese o se il Paese fosse già predisposto a darsi un leader come lui. Certo è che, a bocce ferme, si è avverata una profezia che anche chi scrive ha contribuito a diffondere: Silvio Berlusconi avrebbe distrutto dalle fondamenta non la sinistra (così buona incassatrice, ormai, da essere quasi indistruttibile), ma la destra italiana. Il decoro formale, il rispetto della legalità e delle regole, il buon senso addirittura eccessivo dei nostri padri borghesi erano quel poco o quel tanto di alfabeto civile che i conservatori italiani avevano saputo darsi, e darci. Non a caso gli eroi di quella destra, e per esteso eroi della Repubblica, sono stati due uomini di legge, il giudice Borsellino e l’avvocato Ambrosoli. Di quella destra Berlusconi ha distrutto persino il Dna. Il suo scontro con Indro Montanelli rimarrà una pagina importante della storia italiana: il conservatore scettico che non regge più i modi e le mire del populista arricchito, e viceversa. Il precedente più illustre era stato l’avvento del fascismo, trionfo della piccola borghesia nazionale e sconfitta dell’Italia liberale giolittiana. Ma la storia non si è ripetuta né poteva ripetersi: gli anticorpi della democrazia repubblicana sono ben più robusti di quelli dell’Italietta sabauda. Il prossimo test, per nostra fortuna ma anche per nostra sfortuna, sarà negli Stati Uniti, dove un clone di Berlusconi (compreso il machismo da balera) dopo avere scassinato il partito Repubblicano va all’assalto della Nazione. Per nostra fortuna, dicevo, perché da Donald Trump, e da chi lo osanna, ci separa un oceano. Per nostra sfortuna, perché quello che accade in America è dieci volte più importante, nel bene e nel male, di quello che accade qui in provincia.
Una cosa è certa, però. Non sarà la coerenza di questi nostri politicanti a cambiare le sorti delle nostre famiglie.
SILVIO BERLUSCONI ED I PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA GOLPISTI.
Berlusconi: «Scalfaro e Napolitano registi di 4 colpi di stato», scrive il 6 gennaio 2016 "Altro quotidiano". In occasione di una maratona televisiva benefica organizzata dalla tv pugliese Telerama Silvio Berlusconi ha lanciato un nuovo affondo contro Matteo Renzi e Giorgio Napolitano, che ha accusato di essere, con Oscar Luigi Scalfano, il “regista dei 4 colpi di Stato”, l’ultimo dei quali “ha portato alle dimissioni forzate del governo di centrodestra”. L’ex premier è tornato a puntare anche il dito contro gli ex colleghi di partito, che – ha detto – “eletti con il centrodestra ora sostengono la sinistra”. Poi assicura i suoi dirigenti di Forza Italia: “nel nostro partito non ci sarà nessuna rottamazione, soprattutto perché i professionisti della politica sono andati tutti via”.
Berlusconi a Telerama: “Scalfaro e Napolitano golpisti, a breve verrò nel Salento”, scrive il 7 gennaio 2016 "TrNews". “Le responsabilità di Napolitano sono enormi, come quelle di Scalfaro. Ci sono stati quattro colpi di Stato negli ultimi 20 anni, con la complicità della più alta Istituzione dello Stato. In Italia c’è una grave emergenza drammatica che molti non vedono e di cui nessuno parla”. Così il Presidente di Forza Italia Silvio Berlusconi, nel suo intervento telefonico durante la diretta di CuoreAmico. “Mi riferisco alla sospensione della democrazia -continua Berlusconi- Siamo al terzo governo non eletto e abbiamo un premier con una maggioranza incostituzionale che si regge sui di parlamentari eletti con il centrodestra che hanno tradito gli elettori e sono diventati sostegno della sinistra. Una maggioranza e un governo all’opposto della volontà degli elettori. Con una maggioranza illegale e moralmente inaccettabile il premier non solo governa ma si permette di cambiare la Costituzione, per costruire un sistema di potere su misura per se stesso, un vero e proprio regime. Ora devo fare quello che posso fare per uscire l’Italia da una situazione di democrazia sospesa, facendo in modo che non cada nelle mani del movimento 5stelle, che rappresenta qualcosa di orrido per il nostro futuro. Mi impegno in prima persona con Forza Italia per portare in ogni angolo del Paese la crociata della democrazia. Oltre all’impegno di aiutare chi ha bisogno -conclude- chiedo un impegno a convincere tutti gli italiani che non sono andati a votare a farlo. Diamo all’Italia una vera democrazia!”
Da Scalfaro a Napolitano: le trame anti Cav del Colle nei rapporti segreti Usa. Ecco le carte choc della diplomazia americana che dimostrano il pressing del Quirinale dietro le cadute dei governi Berlusconi nel 1994 e nel 2011, scrive Stefano Zurlo, Domenica 28/02/2016, su "Il Giornale". Strategie e complotti. Washington e Silvio Berlusconi. Amministrazioni diverse, repubblicana e poi soprattutto democratica, ma grande attenzione ai volteggi del Cavaliere, alle convulsioni della politica italiana dominata da Berlusconi alle cospirazioni di Palazzo. Un monitoraggio fittissimo e a tratti invasivo lungo un ventennio. Alcune carte inedite, oggi pubblicate per la prima volta dal Giornale, documentano rapporti consolidati e preferenziali con alcune personalità, dubbi e oscillazioni dei presidenti a stelle e strisce e dei loro staff. Una mole di carte che Andrea Spiri, professore a contratto alla Luiss, ha scovato al Dipartimento di Stato di Washington, dopo la progressiva desecretazione dei file fra l'ottobre 2012 e il dicembre 2015. Gli americani mostrano di avere antenne molto sensibili nel nostro Paese e individuano subito, addirittura nell'ottobre '92, in piena tempesta Mani pulite, Silvio Berlusconi come possibile leader di un nuovo partito. Siamo molto prima della discesa in campo, a Washington sono gli ultimi mesi della presidenza di Bush padre, ma i riflettori si accendono subito su un futuro che ancora nessuno conosce. L'ambasciatore Peter Secchia invia un documento classificato come confidential: Le incertezze italiane. La soluzione è un nuovo partito politico? L'ambasciatore ha fatto indagini che riassume con concisione e pragmatismo: «Il segretario del Pli Altissimo ha organizzato una cena di lavoro segreta il 12 ottobre per proporre la formazione di un nuovo partito... La cena si è tenuta il 13 ottobre presso il Grand Hotel. Da quanto viene riferito il gruppo, di cui faceva parte il magnate dei media Berlusconi, così come Francesco Cossiga, ha deciso di chiedere allo stesso Cossiga di formare un nuovo partito... La partecipazione di Berlusconi è di speciale significato, per via della vicinanza di Craxi. La sua apparizione come un nuovo leader politico potrebbe avere la benedizione dello stesso Craxi. Comunque è anche la riprova che la potenza di Craxi, duramente colpito dagli scandali, continua a declinare». In ogni caso, «gli italiani - spiega - sono confusi e cercano il cambiamento». Una discontinuità che porterà a Palazzo Chigi nel '94 proprio Berlusconi. Due anni più tardi, a fine '94, il nuovo ambasciatore Reginald Bartholomew scrive a Washington e descrive con una certa preoccupazione l'agonia del primo esecutivo Berlusconi, minato dall'avviso di garanzia e dalla manovre del presidente Oscar Luigi Scalfaro. «Il governo Berlusconi - nota l'ambasciatore - sembra cadere. E poi? Se cade, questo potrebbe rafforzare l'impressione che l'Italia stia scivolando indietro verso la politica screditata che ha visto succedersi dalla fine della Seconda guerra mondiale 52 governi. Potrebbe inoltre consolidare la percezione che la politica operi essenzialmente in maniera indipendente e lontana dalla gente». Bartholomew, insomma, ha più di un dubbio sull'operazione in corso a Roma per sloggiare il Cavaliere. Ma non c'è niente da fare. Il 20 dicembre, due giorni prima delle dimissioni, Bartholomew invia una nota a Washington in cui spiega senza tanti giri di parole che il presidente Scalfaro l'ha giurata a Berlusconi e vuole cacciarlo da Palazzo Chigi. A svelargli gli intrighi è stato un testimone eccellente come Francesco Cossiga. «Cossiga - scrive l'ambasciatore rivolgendosi alo staff di Bill Clinton - ha sottolineato che uno dei fattori che stanno incidendo sulla crisi è la rottura irrecuperabile fra Scalfaro e Berlusconi. Cossiga ha riferito che Scalfaro si sentiva profondamente offeso dalle recenti batoste pubbliche ricevute dai berlusconiani, in particolare dal portavoce del governo Ferrara. Cossiga ha detto di ritenere che Scalfaro farebbe qualunque cosa pur di evitare un ritorno di Berlusconi al governo». Il destino è segnato. Di crisi in crisi si arriva fino all'attualità. E all'ultimo giro di valzer del Cavaliere a Palazzo Chigi. A novembre 2011, con lo spread impazzito e la coppia Merkel-Sarkozy che lo guarda con sorrisetti di scherno, Berlusconi getta la spugna. Il 12 novembre il sottosegretario alla crescita economica Robert Hormats invia una mail a Jacob Sullivan, capo dello staff del segretario di Stato Hillary Clinton. Hormats riprende il report spedito il 9 novembre dall'ambasciatore David Thorne: «Continuano i battibecchi politici, ma la direzione generale è fissata». Segue un misterioso omissis. Quindi Thorne riprende: «Sono anche intervenuti la Merkel e Sarkozy. Lo spread è sotto il picco, ma ancora molto alto. L'Italia sa quello che deve fare. David». «Spero - riprende un per niente galvanizzato Hormats - che Thorne abbia ragione, che l'Italia sappia quello che deve fare. Dovremmo vedere se Monti può farcela con gli insofferenti e se può portare dalla sua parte l'opinione pubblica. Egli è molto brillante, ma le sue capacità politiche e motivazionali andranno verificate». E infatti Monti si rivelerà un disastro. Intanto, Giorgio Napolitano, presunto regista del complotto anti Cav del 2011, annuncia che non risponderà alle domande su quel che successe in quelle settimane. Quel che è accaduto nel 2011 - confida all'Huffington Post - possono ricavarsi da molteplici miei interventi pubblici. Non ritengo ritornarci attraverso mie memorie che al pari dei miei predecessori non scriverò».
Berlusconi tace sulla morte di Scalfaro. Dopo anni di insulti, da “serpente” a “golpista”. L'ex premier è l'unico politico di primo piano a non spendere una parola, neppure di circostanza, sul presidente scomparso. Due personaggi incompatibili, protagonisti di scontri feroci. Soprattutto dopo la caduta del primo governo del Cavaliere e all'epoca dello zoppicante secondo governo Prodi, scrive Mario Portanova il 29 gennaio 2012 su "Il Fatto Quotidiano". Un “serpente”, un “orditore di imbrogli”, un “golpista”, un uomo che attraversato “tutti i miasmi della politica” e che “ha maneggiato fondi neri”. Questo era Oscar Luigi Scalfaro secondo Silvio Berlusconi. Scalfaro e Berlusconi, due mondi opposti, due visioni incompatibili della politica e delle istituzioni che si sono scontrate in momenti delicati della seconda Repubblica. E nel giorno della morte dell’ex presidente, il leader del Pdl è l’unico politico di primo piano che non abbia speso una parola, neppure di circostanza, in suo ricordo. Sono stati due i momenti di massimo scontro tra l’imprenditore della tv “sceso” in politica e il democristiano degli anni Cinquanta vissuto nel culto delle istituzioni. Il post 1994, quando la Lega fece cadere il primo governo Berlusconi e Scalfaro, presidente della Repubblica, trovò una nuova maggioranza in Parlamento invece di indire nuove elezioni, come richiesto dal centrodestra. E i due anni tormentati del secondo governo di Romano Prodi, nel 2006-2007, quando alcuni senatori a vita – Scalfaro tra loro – sostennero un esecutivo privo di una maggioranza solida a Palazzo Madama. Dopo il “tradimento di Bossi”, Berlusconi e il centrodestra volevano tornare alle urne, nella speranza di ripetere il successo del 1994 anche senza l’alleanza con la Lega. Come prevede la Costituzione, Scalfaro scelse invece di esplorare la possibilità di una nuova maggioranza e, nel gennaio del 1995, diede l’incarico di formare un governo tecnico a Lamberto Dini, che durò fino al 1996 con i voti del centrosinistra e del Carroccio. Così si innescò lo scontro tra la Costituzione in vigore e la “Costituzione materiale” che albergava nella mente del Cavaliere. Secondo la quale il popolo elegge direttamente il capo del governo e al popolo bisogna tornare se quel governo cade. Di conseguenza, sosteneva il leader di Forza Italia, Scalfaro era colpevole di “eversione” (della costituzione berlusconiana). “Scalfaro è un serpente, un traditore, un golpista”, affermava Berlusconi (La Stampa, 16 gennaio 1995). Il presidente della Repubblica “andrebbe processato davanti all’Alta Corte per attentato alla Costituzione”. Per quale colpa? “Ha maneggiato fondi neri (riferimento alla vicenda Sisde, che per Scalfaro si concluse con un’archiviazione, ndr) e, da magistrato, ha fatto fucilare una persona invocandone contemporaneamente il perdono cristiano”, spiegava. “Be’, l’uomo è questo. Ha instaurato un regime misto di monarchia e aristocrazia” (18 gennaio 1995). Il refrain del Parlamento “illiberale e liberticida” (10 marzo 1995), “caricatura della democrazia” (28 marzo 1995) divenne un cavallo di battaglia del centrodestra, fatto proprio anche dall’allora segretario di Alleanza nazionale Gianfranco Fini, sia pure con toni più moderati. Filippo Mancuso, ministro della Giustizia del governo Dini passato a Forza Italia dopo aver innescato feroci polemiche con il pool Mani pulite, davanti alle telecamere definì Scalfaro “un infame”. Un’antipatia reciproca. Scalfaro è sempre stato un fiero antiberlusconiano. In un incontro pubblico, anni dopo la fine del mandato presidenziale, il senatore a vita ha ricordato quando bocciò il nome di Cesare Previti, comparso come ministro della Giustizia nella lista che Berlusconi gli presentò dopo la vittoria elettorale del 1994. Perché chiese di depennare l’allora avvocato di Berlusconi, condannato molti anni dopo per corruzione in atti giudiziari? “Per istinto”, ha spiegato Scalfaro con un sorriso eloquente. Berlusconi, di rimando, gli riservò un rotondo “vaffa”, rimasto impresso agli atti del Senato il 27 settembre 2002, dopo che Scalfaro aveva accusato il governo presieduto dal cavaliere “di servilismo” verso gli americani a proposito dell’annunciata guerra in Iraq. La polemica si infiammò di nuovo all’epoca del secondo governo Prodi, quando Scalfaro era uno dei senatori a vita che sostenevano il professore a corto di voti. Anche in questo caso, per la Costituzione vera i senatori a vita possono votare come meglio credono, ma secondo la Costituzione materiale berlusconiana – fatta propria dal centrodestra in blocco – in quanto non eletti dal popolo non avrebbero dovuto fare da “stampella” a un esecutivo claudicante. E pazienza se lo stesso Berlusconi aveva beneficiato del loro sostegno nel 1994, quando al Senato poteva contare soltanto su 155 voti su 315, senza che nessuno sollevasse scandali. Quando il governo Prodi si presenta a Palazzo Madama per chiedere la fiducia, il 19 maggio 2006, la discesa degli anziani senatori a vita verso l’urna al centro dell’emiciclo è accompagnata da urla, fischi e insulti dalla «curva» del centrodestra. Prodi ottiene la fiducia con il voto favorevole di sette senatori a vita, che peraltro non risultano determinanti. Il Cavaliere commenta: “I senatori a vita hanno fatto qualcosa che era profondamente immorale secondo la coscienza della nostra parte politica”. Il loro voto è caratterizzato da “mancanza di dignità” (25 luglio 2006). Nulla tra lui e il popolo. E’ la convinzione profonda di Berlusconi, più volte ribadita. Quando la corte costituzionale, il 6 dicembre 2009, bocciò il Lodo Alfano sull’immunità delle più alte cariche dello Stato – presidente del consiglio compreso – il leader del centrodestra lamentò l’inopportuna esistenza di un organismo capace di bocciare leggi scaturite dalla “sovranità popolare”. E aggiunse che “purtroppo” l’Italia ha avuto “tre presidenti della Repubblica consecutivi tutti di sinistra”.
Scalfaro: per la stampa estera è stato un conservatore anti-Berlusconi, scrive Elysa Fazzino il 30 gennaio 2012 su "Il Sole 24 ore". "Grande sopravvissuto della politica italiana", "tradizionalista" fino a essere "bacchettone", uomo "integro" e presenza "rassicurante" nel tumultuoso periodo di Tangentopoli, conservatore che ebbe sempre una "relazione difficile" con Silvio Berlusconi. Così sulla stampa estera viene ricordato Oscar Luigi Scalfaro, presidente della Repubblica dal 1992 al 1999, morto domenica a Roma all'età di 93 anni. E' il Guardian a definirlo "grande sopravvissuto della politica italiana": sopravvisse alle turbolenze degli anni di Tangentopoli e "fluttuando sulle macerie della Prima Repubblica, emerse come il supremo garante della Seconda Repubblica e l'incarnazione della continuità politica". Nella didascalia sotto la foto di Scalfaro, il Guardian ricorda che lo soprannominavano "bacchettone" e che era bersaglio dei vignettisti. Donald Sassoon cita l'episodio che gli diede notorietà negli anni '50, quando in un ristorante di Roma rimproverò pubblicamente una giovane donna a spalle scoperte. E ricorda che nel governo Scelba, Scalfaro fu "responsabile per la censura teatrale e cinematografica". Negli anni '60 – continua il Guardian - fu tra i democristiani dissidenti che si opponevano all'alleanza con i socialisti, nel 1974 "aderì entusiasticamente alla campagna per abolire il divorzio", negli anni '80 la sua immagine era quella di "un onesto dinosauro" e, mentre la Prima Repubblica volgeva al termine, si trovò nella posizione ideale per "l'apoteosi che coronò la sua carriera". Durante il suo mandato "fu più interventista dei suoi predecessori" e "contenne le ambizioni di Berlusconi di presentarsi come il salvatore d'Italia e bloccò le sue ambizioni" favorendo prima il governo Dini e poi, nel 1996, il governo Prodi. Per il Times, Scalfaro è stato un "pezzo grosso" della politica italiana della storia repubblicana. Il quotidiano britannico ne sottolinea l'integrità e ricorda che era uno dei padri fondatori della Costituzione italiana del dopoguerra. Il Times insiste in particolare sulla difficile relazione con Berlusconi, che Scalfaro considerava un "borioso parvenu". Il reciproco sospetto sfociò in "aperta ostilità" quando il governo Berlusconi cadde nel 1994. Scalfaro considerava suo dovere prolungare la vita del Parlamento, mentre Berlusconi, dopo la defezione della Lega Nord, premeva per elezioni anticipate. "Scalfaro rimase in pessimi rapporti con Berlusconi per il resto della sua vita" e come senatore si oppose ai tentativi del Cavaliere di rafforzare i poteri del Primo Ministro. Vari siti della stampa francese riprendono i lanci d'agenzia dando rilievo alle parole del presidente Giorgio Napolitano (Les Echos: "Esempio d'integrità morale"; Nouvel Observateur: "Era uno dei rari uomini politici ad avere occupato le tre principali cariche del Paese"). El Pais sottolinea che Scalfaro fu "garante della Costituzione italiana". "Combatté contro il separatismo e lottò contro la mafia". Juan Arias lo descrive come "acerrimo difensore della Costituzione repubblicana". La sua presidenza "visse i momenti più critici dei continui scandali di corruzione che ricevettero il nome di Tangentopoli e che spazzolarono via dalla scena buona parte della classe politica italiana". "Oppositore a oltranza" di Berlusconi, continua El Pais, Scalfaro "criticò le sue frivolezze, i suoi eccessi e in particolare, il suo scarso rispetto delle leggi italiane". Il New York Times presenta Scalfaro come "una presenza rassicurante in un periodo turbolento". Fu presidente nel "tumultuoso periodo" degli anni '90 segnato dallo scandalo per corruzione che fece cadere un'intera classe politica. La sua carriera fu "inestricabilmente legata" alla Democrazia Cristiana, ma – osserva Elisabetta Povoledo - Scalfaro assistette anche al declino del suo partito, uno dei tanti a essere sopraffatti dall'indagine "Mani Pulite". La sua biografia ufficiale sul sito del Quirinale, nota il Nyt, ricorda che fece un enorme sforzo "per rincuorare il Paese e rassicurare gli osservatori internazionali sulla saldezza delle istituzioni italiane".
Facci e gli altarini di Scalfaro: quel patto segreto con Bossi. La vera storia del ribaltone del 1994: il presidente si accordò col Senatùr per far fuori Berlusconi, considerato "un incidente", scrive il 31 Gennaio 2012 Filippo Facci su "Libero Quotidiano". Il progetto del celeberrimo ribaltone fu messo nero su bianco da un certo Umberto Bossi nel libro «Il mio progetto» (Sperling & Kupfer, 1996) in cui si raccontava di un «Patto segreto» che lui e Scalfaro avevano siglato nel dicembre 1994: l’obbiettivo era evitare le urne dopo la caduta del governo Berlusconi. In sintesi: la Lega avrebbe difeso Scalfaro e Scalfaro avrebbe difeso il Parlamento, senza scioglierlo. Questo in teoria, perché quando il libro di Bossi venne editato - settembre 1996 - piovvero le smentite del Quirinale perché c’era poco da scherzare: Il Polo delle Libertà meditava di spingersi sino a una richiesta di impeachment e anche Marco Pannella - grande sponsor dell’elezione di Scalfaro al Quirinale, forse il più grande errore politico della sua vita - meditò di riprendere una raccolta di firme per la messa in stato di accusa. Ma la cosa fu lentamente riassorbita. Se il libro di Bossi fu la prova regina, di altri indizi ne erano già piovuti a centinaia. È noto che Scalfaro aveva incaricato Berlusconi come scelta ineludibile, e che anche per questo cercò di mettere subito i piedi nel piatto. Si oppose a Previti ministro della Giustizia, ma non solo: netto diniego anche a Gianfranco Miglio come ministro delle Riforme. Secondo una testimonianza dello stesso Miglio - contenuta nel libro «Scalfaro» di Riccardo Scarpa (Ideazione, 1999) - già allora, mentre Berlusconi preparava la lista dei ministri, Scalfaro disse a Bossi: «Se escluderai Miglio, quando rovescerai il governo io non scioglierò le Camere». Il ribaltone, complice una legge maggioritaria inquinata, in sostanza era già in pectore al governo. Il quale governo aveva già abbastanza difficoltà di suo: il Cavaliere era un novizio, c’era da spiegare al mondo che non era tornato il fascismo, Bossi già faceva i capricci, l’informazione sparava a palle incatenate. Per non parlare della magistratura, da cui Berlusconi cercò di difendersi con un Decreto - quello firmato da Alfredo Biondi - che appariva ineccepibile e malfatto al tempo stesso, e che spinse l’esecutivo a un dietro-front di miserevole dignità politica. Sta di fatto che Scalfaro stette sulla porta per un bel po’, gelido, senza appoggiare o suggerire alcunché come aveva fatto altre volte. Quando il Cavaliere annunciò una manovra economica che anche la sinistra considerava segretamente buona (come ha raccontato l’economista Luigi Spaventa, ex candidato sindaco del Pds a Roma) i sindacati preannunciarono manifestazioni da paura: ma Scalfaro, anche qui diversamente dal solito, non si preoccupò, non convocò vertici sull’ordine pubblico né le solite parti sociali. Fu un capolavoro di ipocrisia politica da parte di tutti: la riforma delle pensioni proposta da Berlusconi (un tre per cento annuo in meno per chi fosse andato in pensione d’anzianità senza aver raggiunto l’età pensionabile) fu considerato uno scandalo anche se l’impianto sarà ripreso appieno dal successivo governo di Lamberto Dini. Anche Giuliano Amato, nel 1992, aveva fatto votare con legge delega (e con la fiducia) il divieto di cumulare la pensione e altri redditi da lavoro, rompendo peraltro il muro dei 60 anni utili per l’età pensionabile; e anche Carlo Azeglio Ciampi, nel 1993, aveva abolito le baby pensioni senza che i sindacati e il Pds e Scalfaro avessero avuto da ridire. Ora, invece, per la manifestazione del 12 novembre 1994, si preparava l’inferno: roba da un milione di persone. Bossi, intanto, intensificava i suoi andirivieni col Quirinale e incontrava riservatamente Massimo D’Alema e Rocco Buttiglione. Il leader del Pds intanto annunciava che lui, se Berlusconi fosse caduto, avrebbe avallato un governo istituzionale senza problemi. Fa niente se anche gli osservatori più moderati erano nettamente contrari. Angelo Panebianco: «Non si comprende perché l’opposizione debba preferire la strada furbesca e trasformistica del ribaltone». Ernesto Galli della Loggia: «Non si spiega la paura delle elezioni che ispira ogni mossa dell’opposizione». Sergio Romano: «È assurdo puntare su un governo delle regole. Le regole le deve fare il Parlamento». Stava per nascere il governo del Presidente. «Nel nostro ordinamento è il Capo dello Stato a decidere», nicchiava D’Alema. Intanto l’invito a comparire per Berlusconi mandato dal Pool di Milano - 21 novembre 1994 - fu come l’attentato di Sarajevo per la Prima guerra mondiale: un acceleratore decisivo prima che la mancata riforma delle pensioni finisse ufficialmente il governo. Racconterà Roberto Maroni: «Fece tutto Bossi. I motivi che lo spinsero a staccarsi da Berlusconi furono tanti, gravi e anche difficili da spiegare all’interno del movimento. Il mio rapporto con Scalfaro restò istituzionale, cioè da ministro a presidente, nulla più. Io ero personalmente contrario alla crisi, posizione che resi pubblica... Quanto a Scalfaro, tre mi sembrano i suoi interventi significativi: il ribaltone del 1994, contro la Lega Nord nel 1996-97 e in occasione della crisi del governo Prodi nel 1998. In tutti e tre i momenti mi è sembrato che la sua maggiore preoccupazione fosse di garantire la sopravvivenza del Parlamento». Cioè evitare le elezioni. Il 21 dicembre 1994 Scalfaro accolse le dimissioni con impassibilità: l’incidente di percorso - Berlusconi - era rimosso, ora poteva avanzare un nuovo governo del Presidente. Scalfaro ricomincerà a tessere trame da subito: metterà becco dappertutto e suggerirà o imporrà ministri vari, come Filippo Mancuso alla Giustizia. Per avere come ministro Susanna Agnelli, Scalfaro telefonerà personalmente a suo fratello Gianni. Il neo-governo per «imprimatur», tra altre, suscitò le ironie del politologo statunitense Edward Luttwak (allora consigliere di Clinton) il quale disse e scrisse, allora come oggi, che la democrazia era sospesa. Forse lo era anche più di oggi: anche perché, al tempo, a sostenere il governo non c’era una maggioranza parlamentare. Scalfaro comunque non si fermò. Allora come oggi, anche il governo «tecnico» di Lamberto Dini doveva avere una durata limitata e dedicarsi soltanto ai più pressanti problemi del Paese: ma il 6 marzo 1995, dopo una colazione al Quirinale, tutto sembrò cambiare. Elezioni? «Questo lo lasci decidere a me, e dopo di me al Parlamento», avrebbe detto Scalfaro secondo diverse ricostruzioni dell’epoca. E così Lamberto Dini, il mattino successivo, non annunciò il calendario finale del suo breve mandato, come tutti ufficialmente attendevano. E non fece più alcun riferimento alle elezioni, come tutti ufficialmente attendevano. Rimase lì, come tutti concretamente prevedevano. Filippo Facci
Silvio Berlusconi: "Libia, così Giorgio Napolitano mi aveva quasi convinto a dimettermi", scrive il 25 Luglio 2017 Salvatore Dama su "Libero Quotidiano". Il settimo "colpo di Stato". Forse l’ottavo, anzi il nono. Sicuramente il primo compiuto in trasferta. Da anni Silvio Berlusconi accusa Giorgio Napolitano di aver tramato per arrivare alla caduta del suo ultimo governo. Era l'autunno 2011. E, in effetti, già dall'estate precedente il Colle era in movimento per sondare partiti e attori istituzionali circa la fattibilità di un esecutivo tecnico che sostituisse quello del leader di centrodestra. Berlusconi era assediato da procure e alleati infedeli. Guardato con diffidenza dalle istituzioni europee. Irriso ai vertici esteri. Ma, in quei mesi difficili, si stava compiendo anche il destino di Muammar Gheddafi. Il Colonnello era impegnato a sedare i tumulti interni, appoggiati dalla comunità internazionale, persuasa che la "primavera araba" avrebbe portato democrazia e laicismo nel Maghreb. Si sa come è andata a finire. «Fu davvero una sofferenza, veder demolire in poche settimane il risultato di anni di paziente lavoro con la Libia e con Gheddafi per costruire un sistema di sicurezza e di stabilità nel Mediterraneo», si lamenta il Cavaliere a distanza di sei anni. Anche nella deposizione del Rais ci fu la mano di Napolitano. È l'inedita accusa che arriva da Arcore. Berlusconi non ha mai perdonato al Presidente Emerito della Repubblica di aver eterodiretto dal Colle più alto i tre anni più orrendi della sua vita politica. Il tradimento di Gianfranco Fini, al quale Napolitano «aveva promesso che, caduto io, sarebbe diventato il nuovo presidente del Consiglio». Poi il percorso che condusse alla fine «dell'ultimo esecutivo» indicato dai cittadini e all'incarico per Mario Monti. Infine la condanna definitiva per frode fiscale, che è costata, a Silvio, l'estromissione dal Parlamento e dalla vita politica attiva. Una sentenza, presa in Cassazione, «ispirata» in qualche modo (il Cav non ha mai spiegato come) da Re Giorgio. Nel frattempo, il Capo dello Stato operava anche in trasferta, attacca Silvio. Approfittando della debolezza dell'esecutivo, fu lui a schierare l'Italia accanto a Francia e Gran Bretagna nell'intervento lampo che porto alla deposizione di Gheddafi, malgrado la contrarietà di Palazzo Chigi. Rivela Berlusconi: «Il Presidente della Repubblica Napolitano fece valere la sua autorità costituzionale di comandante supremo delle Forze Armate. Pensai seriamente alle dimissioni, di fronte a una scelta che consegnava la Libia e il Mediterraneo a una sanguinosa anarchia. Decisi con vera sofferenza di non farlo per non scatenare una crisi istituzionale senza precedenti in un momento così drammatico». Colpa di Napolitano anche le bombe sulla Libia. Così dice il presidente di Forza Italia in un'intervista a Tiscali.it. Un astio, il suo verso il primo presidente post-comunista, esploso con effetto ritardato. Nel 2013 Berlusconi fu uno dei promotori della sua rielezione. Salvatore Dama
Berlusconi: "Non ho salutato Napolitano, è regista di troppe cose". Silvio Berlusconi è l'ultimo a lasciare il Colle al termine del ricevimento dello scambio di auguri natalizio e spiega ai cronisti il motivo del mancato saluto, scrive Luca Romano, Martedì 20/12/2016, su "Il Giornale". "Non ho visto Napolitano, non l'ho salutato. È regista di troppe cose che non mi sono piaciute...". Silvio Berlusconi è l'ultimo a lasciare il Colle al termine del ricevimento dello scambio di auguri natalizio. Nella Sala dei Corazzieri è circondato da alcuni ospiti e dai cronisti. Dall'altro lato del salone è rimasto anche Giorgio Napolitano ma i due non si sono salutati. E il Cavaliere ha spiega il perché del mancato saluto. Durante l'incontro con i cronisti il Cavaliere ha parlato anche della legge elettorale: "La riforma elettorale e' una cosa seria, dobbiamo prima sederci intorno a un tavolo". Serve una ''proposta condivisa". "Bisogna assolutamente aspettare la sentenza della Consulta". Poi il Cavaliera ha parlato dell'operato del governo e dei nodi da sciogliere nei prossimi giorni: "Noi ci siamo su tutto, a partire dal voto su Mps. È importante, una delle prime banche italiane, a cui sono legato per affetto quando iniziai la mia carriera di imprenditore". Infine torna sulla legge elettorale: "È giusto che si allontani la data del voto non siamo preparati assolutamente per arrivare a una legge elettorale condivisa. Il Mattarellum ha funzionato in un sistema che era con due poli. Adesso il sistema è tripolare e non funziona più".
Napolitano su Berlusconi: "Patologiche ossessioni", scrive Goffredo De Marchis il 14 ottobre 2015 su "La Repubblica". "Ce l'avevano con Calderoli". Giorgio Napolitano risponde ironicamente alla plastica contestazione delle opposizioni: l'uscita dall'aula di Forza Italia e 5stelle, il cartello di Domenico Scilipoti con scritto "2011" (l'anno delle dimissioni di Berlusconi). Durante il suo intervento, la minoranza manifesta la propria distanza dall'ex capo dello Stato, padre della riforma come lo ha definito Maria Elena Boschi. "Sono usciti subito dopo il discorso di Calderoli. Poi ce n'è stato un altro. Non potevo essere io la causa di quell'esodo", scherza Napolitano. È un modo per non rovinare un giorno di festa per il senatore a vita. Che nell'intervento rivendica il suo ruolo, difende la risposta riformatrice finora mai data "per la ricerca del perfetto o del meno imperfetto". Ma che adesso è arrivata. Sempre sul filo dell'ironia reagisce ai ripensamenti di alcuni protagonisti della legge. Berlusconi innanzitutto. "Deluso da qualche atteggiamento? Ma qui entriamo nel campo della psicologia. E io non voglio fare commenti politici, figuriamoci quelli psicologici". Al capogruppo forzista Romani invia tuttavia una durissima lettera che affida ai commessi (e viene immortalata dai fotografi). "Ho letto attribuite a Berlusconi - scrive l'ex capo dello Stato - parole ignobili, che dovrebbero indurmi a querelarlo, se non volessi evitare di affidare alla magistratura giudizi storico-politici; se non mi trattenesse dal farlo un sentimento di pietà verso una persona vittima ormai della proprie, patologiche ossessioni". A Pier Ferdinando Casini, con cui parla per 10 minuti in aula subito dopo il voto, confida il suo stupore per le parole dell'ex Cavaliere: "Lui si ricorda solo il 2011 ma dimentica il 2010 quando diedi 45 giorni al suo governo per affrontare un voto di fiducia". Comunque le contestazioni le aveva messe nel conto. "Per svelenire il clima ho evitato di partecipare alle votazioni sugli emendamenti". Non è bastato. Ma non voleva rinunciare alla seduta finale in virtù del ruolo attivo che la Costituzione affida anche ai senatori a vita. A proposito, dispiaciuto per le parole di Elena Cattaneo che descrivendo la riforma ha parlato di "ircocervo istituzionale"? "La senatrice è libera. Quando l'ho nominata sapevo bene che aveva un'estrazione politica e culturale diversa dalla mia". Resta, racconta Casini, un pizzico di amarezza ma senza drammi anche perché Napolitano ha una certa esperienza. E alla fine, l'ex presidente non rinuncia a fare un salto alla buvette. In fondo, ieri ha vinto anche lui.
Golpe, Fini complottava al telefono con Napolitano. Ecco come Fini, già dal 2010, tramava per la caduta del governo Berlusconi, scrive Francesco Curridori, Mercoledì 24/02/2016, su "Il Giornale". "Berlusconi va politicamente eliminato. E Napolitano è della partita. Il presidente della Repubblica condivide, sostiene e avalla tutta l'operazione". Siamo nell'aprile 2010 quando Gianfranco Fini, dopo il famoso "che fai? Mi cacci?" rivolto a Berlusconi nel corso della nazionale del Pdl, pronuncia questa frase e si avvia a far fuori l'allora premier col beneplacito del Capo dello Stato col quale aveva avuto una telefonata interlocutoria su come agire. "Caro presidente - dice Fini al telefono con Napolitano - come avrai visto abbiamo vissuto una giornata campale". "Più che campale - risponde Napolitano -, direi una giornata storica. Ovviamente, caro Giorgio, continuo ad andare avanti senza tentennamenti. Certamente, fai bene. Ma fallo sempre con la tua ben nota scaltrezza". Lo rivela Amedeo Labocetta, ex deputato del Pdl e poi per un breve periodo anche di Fli, autore drl libro "Almirante, Berlusconi, Fini, Tremonti, Napolitano. La vita è un incontro". "Avevo assistito in diretta all' organizzazione di un golpe bianco orchestrato dalla prima e dalla terza carica dello Stato...", ha scritto Labocetta nel suo libro dove ripercorre la sua storia politica.
Anche il Financial Times pubblica oggi le rivelazioni del giornalista americano Alan Friedman sul ruolo giocato dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nella crisi del governo Berlusconi, in una analisi dello stesso autore dal titolo "Monti's secret summer" (L'estate segreta di Monti), scrive "Il Messaggero" il 10 febbraio 2017. Il giornale della City dedica un'intera pagina alle anticipazioni sui contenuti del libro di Friedman "Ammazziamo il gattopardo", apparse oggi anche sulla stampa italiana, nel quale si parla dei colloqui di Napolitano nell'estate 2011 con Mario Monti, che precedono di mesi la nomina dell'allora presidente della Bocconi a premier dopo l'uscita di scena di Silvio Berlusconi nel novembre 2011. Friedman ricorda anche che il ruolo avuto da Napolitano è stato apertamente criticato dal «comico diventato politico» Beppe Grillo, che ne ha chiesto l'impeachment. «L'Italia resta profondamente divisa sugli eventi del 2011 e sul ruolo di Napolitano - dice Friedman al termine della sua analisi - La discussione sul fatto che Napolitano sia andato oltre i suoi poteri costituzionali durante l'estate e l'autunno del 2011 può essere lasciata agli storici».
Monti: confermo i contatti, assurdo considerarli un'anomalia. «Nell'estate del 2011- ha detto oggi Mario Monti al Tg1 - ho avuto dal presidente della Repubblica dei segnali: mi aveva fatto capire che, in caso di necessità, dovevo essere disponibile. Ma è assurdo che venga considerato anomalo che un presidente della Repubblica si assicuri di capire se ci sia un'alternativa se si dovesse porre un problema». Le reazione del capo dello stato. «Fumo, solo fumo». Così il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano risponde, in una lettera al Corriere - si legge sul Corriere.it - sulle rivelazioni riguardo all'estate 2011, negando che sia stato un «complotto» come accusa Forza Italia. «Mi scuso per aver assorbito spazio prezioso per richiamare quel che tutti dovrebbero ricordare circa i fatti reali che costituiscono la sostanza della storia di un anno tormentato, mentre le confidenze personali e l'interpretazione che si pretende di darne in termini di 'complotto' sono fumo, soltanto fumo». Così Giorgio Napolitano. I capigruppo di Forza Italia: forti dubbi sul ruolo del Colle. «Le rivelazioni di Friedman destano forti dubbi sul modo di intendere l'altissima funzione di Presidente della Repubblica da parte di Napolitano» dicono i capigruppo di Forza Italia di Camera e Senato, Renato Brunetta e Paolo Romani, che chiedono urgenti chiarimenti. «Apprendiamo con sgomento - si legge nella nota congiunta - che il Capo dello Stato, già nel giugno del 2011, si attivò per far cadere il governo Berlusconi e sostituirlo con Mario Monti. Lo conferma lo stesso Monti. Le testimonianze fornite da Alan Friedman non lasciano margine a interpretazioni diverse o minimaliste. Tutto questo non può non destare in noi e in ogni sincero democratico forti dubbi sul modo di intendere l'altissima funzione di Presidente della Repubblica da parte di Giorgio Napolitano. Ci domandiamo se sia rispettoso della Costituzione e del voto degli italiani preordinare un governo che stravolgeva il responso delle urne, quando la bufera dello spread doveva ancora abbattersi sul nostro Paese. Chiediamo al Capo dello Stato di condurre innanzitutto verso i propri comportamenti un'operazione verità. Non nascondiamo amarezza e sconcerto, mentre attendiamo urgenti chiarimenti e convincenti spiegazioni».
Il segretario Pd. «È inaccettabile l'attacco di queste ore contro il presidente Napolitano. Al Capo dello Stato, che come sempre anche in quella circostanza agì nell'interesse esclusivo degli italiani, va la più affettuosa solidarietà delle democratiche e dei democratici». Così Matteo Renzi difende il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Zanda: strumentali gli attacchi di Forza Italia a Napolitano. «Trovo sinceramente incomprensibili e ingiustificate le dichiarazioni di importanti esponenti di Forza sul Capo dello Stato - dice il presidente dei senatori del Pd, Luigi Zanda - Di cosa parlano? Di che complotto si tratta? C'è da rimanere onestamente interdetti. Di fronte all'evidente difficoltà dell'Italia nel 2011 che avrebbe dovuto fare il Presidente della Repubblica? Nella situazione in cui eravamo sarebbe stato molto singolare che il capo dello Stato non si preoccupasse dell'evidente crisi economica e, a tutta evidenza, anche politica. Gli attacchi che Fi rivolge questa mattina all'operato di Giorgio Napolitano sono assolutamente strumentali e gratuiti». La replica di Letta. «Stupisce la contemporaneità di queste insinuazioni con il tentativo in corso da tempo da parte del M5S di delegittimare il ruolo di garanzia della Presidenza della Repubblica. A questi attacchi si deve reagire con fermezza». Così il premier Enrico Letta, in una nota, difende, il presidente della Repubblica. Boldrini condanna «Preoccupa il nuovo attacco di queste ore contro il Capo dello Stato e il fondamentale ruolo di garanzia che da anni continua a svolgere. A Napolitano voglio rinnovare pubblicamente la più sentita solidarietà, che ho già avuto modo di esprimere nell'incontro di oggi pomeriggio al Quirinale». Lo dice la Presidente della Camera, Boldrini.
Minzolini: da rivalutare la procedura di impeachment. «Di fronte a queste nuove rivelazioni - dice il senatore Augusto Minzolini - andrà valutata sempre con maggiore attenzione - non fosse altro come occasione per ricostruire quei mesi e gettare una luce di verità sulla Storia del nostro Paese - la procedura di impeachment nei confronti del presidente Napolitano promossa da altri gruppi politici in Parlamento. Da anni ripeto che quanto avvenne nell'estate del 2011 somiglia molto ad un complotto internazionale per far fuori il governo Berlusconi che ha avuto grosse complicità anche nel nostro paese. Le rivelazioni del libro di Friedman sono un ulteriore conferma che in quell'occasione fu spazzato via dallo scenario europeo il Premier e un governo, che si opponevano alle mire egemoniche della Germania sulla Ue e ad una politica che ha provocato, com'è oggi sotto gli occhi di tutti, miseria nella maggior parte dei paesi dell'Unione e benessere solo a Berlino».
M5S, al via comitato impeachment. E' partito stamattina alle 11 il Comitato parlamentare per i procedimenti di accusa che deve esaminare la richiesta di impeachment del Capo dello Stato presentata dal M5s. Oggi si svolge la discussione generale, gli iscritti a parlare sono 22 su 44 componenti. «Abbiamo depositato memorie esplicative e integrative rispetto alla denuncia iniziale» annuncia su Facebook il senatore M5s Maurizio Buccarella, membro del Comitato. Stasera al termine della discussione generale si terrà in ufficio di presidenza per fissare la data della prossima seduta che potrebbe essere quella conclusiva. Il presidente Ignazio La Russa intende infatti illustrare la sua posizione e poi andare al voto: il presidente, anche se il regolamento non lo prevede, ha anche autorizzato che si svolgano le dichiarazioni di voto.
Scelta civica. «Siamo di fronte alla consueta e pretestuosa sequela di attacchi e illazioni a due figure, il Presidente Napolitano e il Senatore Monti, che hanno sempre operato, con fatti e non con semplici parole e proclami, nell'interesse del Paese e dei cittadini». Lo afferma Ilaria Borletti, vicePresidente di Scelta Civica e Sottosegretario al Ministero dei Beni Culturali) in merito alle polemiche relative al Presidente Napolitano e al Senatore Mario Monti. «A chi sostiene per pura propaganda già da clima pre-elettorale che il Presidente Napolitano nel 2011 sia andato oltre i suoi poteri costituzionali per aver sondato le disponibilità di Mario Monti ad assumere un incarico di governo, vorrei ricordare le condizioni i cui il Paese si trovava: sull'orlo del fallimento, con uno spread che sfiorava i 600 punti determinato dai mercati e con una situazione economica , politica e sociale disastrosa, che richiedeva un cambiamento repentino e soprattutto il recupero di credibilità internazionale» afferma Borletti.
Da Napolitano a Saviano tutti i "complici" di Fini. Travaglio, Saviano, politici e industriali. Quelli che nel 2010 difesero Fini accusandoci di essere una "macchina del fango", ora chiedano scusa, scrive Alessandro Sallusti, Mercoledì 31/05/2017, su "Il Giornale". Concorso esterno in riciclaggio, depistaggio, falso in scrittura pubblica e privata e calunnia, dovrebbero essere i reati morali e professionali da contestare ai non pochi colleghi e ai tanti politici ed esponenti delle istituzioni che in quella estate del 2010 e nei mesi successivi garantirono a priori sulla moralità di Gianfranco Fini e si scagliarono con violenza contro noi de il Giornale, inventori a loro dire di una macchinazione, la famigerata «macchina del fango», che attentava all'onorabilità dell'allora presidente della Camera su ordine di Silvio Berlusconi. La «casa di Montecarlo» non è solo una truffa di Fini e dei suoi amici mafiosi, come oggi appare in modo incontestabile dalle carte giudiziarie, ma è stata, cosa assai più grave, una gigantesca operazione di occultamento e mistificazione della verità a cui si sono prestati in tanti che oggi fanno finta di nulla. In primis i giornali. La Repubblica schierò il suo primo trombone (parlandone da vivo) Giuseppe D'Avanzo, che garantì su Fini e bollò noi come «assassini politici», che se oggi fosse vivo dovrebbe nascondersi; sul Fatto Quotidiano Travaglio scrisse tra le tante - un'articolessa dissacratoria del nostro lavoro intitolata «Il pistolino fumante» che a noi parve idiota allora ma che riletta oggi risulta invece tragica e dovrebbe portarlo a dimettersi dalla professione per manifesta incapacità. Non mancarono intellettuali e scrittori, che quando si tratta di sparare a vanvera abbondano. Saviano, sulla «macchina del fango» fece uno dei suoi monologhi moralisti al Festival internazionale di giornalismo di Perugia (sic), bissato in diretta tv dal suo amico Fabio Fazio a «Vieni via con me», che se ha usato la stessa arguzia e faciloneria nel giudicare noi e nello scrivere Gomorra è anche possibile che un giorno si scopra che la camorra non esiste. E poi i politici di ogni genere (ci furono molte incertezze anche nelle file del centrodestra), magistrati compiacenti che in poche settimane scagionarono Fini e istituzioni omertose, a partire dal presidente Napolitano che difese Fini e dopo pochi mesi scoprimmo il perché, con il primo tentativo di disarcionare Berlusconi per mano proprio dell'allora presidente della Camera. Non furono mesi facili. Fini era diventato una star. Non solo Santoro e compagnia lo elevarono da fascista a statista, ma persino un uomo libero come Enrico Mentana gli concesse la vetrina di un suo TgLa7 senza contraddittorio. Lui era lui, noi eravamo servi, killer, «macchina del fango» appunto. In tv era un inferno. Più che in uno studio televisivo era come salire su un ring, dove conduttori compiacenti davano libertà di menarti a gente come Italo Bocchino e Fabio Granata, gli onorevoli picchiatori di Fini finiti chi in storie di corruzione chi non si sa dove. Tra di loro ce n'era uno particolarmente attivo e viscido: Benedetto Della Vedova, uomo per tutte le stagioni (è passato con disinvoltura dai radicali ai fascisti, da Monti a Renzi) che da buon trasformista è tra i pochi di quella stagione ancora oggi in attività, addirittura sottosegretario del governo Gentiloni. Nessuno aveva stima di Fini, ma tutti sapevano che si era reso disponibile a tradire Berlusconi e a far cadere il governo di centrodestra. E allora addosso a noi, che svelando il caso di quella maledetta casa (innescato da una intuizione di Livio Caputo, collega di lungo corso al di sopra di ogni sospetto) avevamo senza ancora saperlo messo una zeppa nel diabolico piano. Per fermarci arruolarono, penso a sua insaputa, persino la presidentessa di Confindustria, Emma Marcegaglia, donna capace ma, almeno in quella occasione, un po' isterica. Le fecero credere riferendole una battuta scherzosa - che la «macchina del fango» del Giornale stesse puntando su di lei. Così una mattina all'alba io e il vicedirettore Nicola Porro ci ritrovammo in casa i carabinieri mandati dall'immancabile pm Woodcock: se non ci hanno arrestati c'è mancato un pelo. Gianfranco Fini chiamò subito donna Emma e per esprimerle tutta la sua solidarietà in quanto anche lei vittima de il Giornale e si premurò di farlo sapere. Il sapientone Travaglio subito spiegò in un lungo articolo che la Marcegaglia era stata critica con Berlusconi e per questo il Giornale si apprestava a punirla. Sentenza, la sua, disattesa da quella della magistratura ordinaria, che ci ha poi scagionato senza ombra di dubbio da qualsiasi sospetto. Sarà un caso, ma in quei giorni subii due intrusioni in casa da parte di ladri che non rubarono nulla. «Servizi segreti», mi suggerì un amico esperto del settore. Fermare il Giornale attraverso la calunnia era diventata una vera ossessione dell'articolato sistema politico-mediatico che aveva trovato il pollo antiberlusconiano e non voleva che nessuno lo spennasse prima del tempo. Cercarono, Fini e soci, di intimidirci con querele a raffica (una, storica, di Bocchino denunciava per stalking tutti i miei colleghi che lo avevano anche solo citato) e richieste di risarcimenti milionari. Ricordo che in quelle settimane Silvio Berlusconi mi disse, scherzando ma non troppo: state facendo un gran casino, il mio governo rischia di cadere più per colpa vostra che per mano di Fini. Perché ricordiamo tutto questo? Perché di Fini oggi a noi interessa poco. Ha pagato politicamente e pagherà il suo conto con la giustizia. Ha detto, per sviare e minimizzare: «Scusate, sono stato un coglione». Non ci basta per chiudere questa storia di cui siamo stati vittime. «Sono stato un coglione» lo dovrebbero dire a La Repubblica per conto di D'Avanzo, Travaglio, Saviano, Della Vedova e soci, Napolitano, la Marcegaglia e Woodcock, Santoro e Mentana, e tutti quelli che all'epoca indicarono noi come criminali. Perché i casi sono solo due: o coglione o complice. Terzo non dato.
La memoria sporca di Calabresi. Il direttore di "Repubblica" non ha preso bene che gli abbiamo ricordato la cantonata presa dal suo giornale su Fini, scrive Alessandro Sallusti, Venerdì 2/06/2017, su "Il Giornale". Mario Calabresi, direttore di La Repubblica, non ha preso bene che gli abbiamo ricordato la cantonata, per la penna di Giuseppe D'Avanzo, presa dal suo giornale ai tempi dello scandalo della casa di Montecarlo. Tra la nostra documentata inchiesta e le bugie di Fini, La Repubblica e D'Avanzo infangarono la prima e spacciarono per buone le seconde. Incapaci, complici, in malafede, ossessionati? Chi può dirlo. Ma la verità spesso irrita Calabresi, che ieri ha scritto un isterico corsivetto a difesa del suo eroe D'Avanzo (pace all'anima sua) rinnovando a me l'accusa di essere il capo della «macchina del fango». Si legga le carte dell'inchiesta su Fini - altro che fango - e si rassegni: D'Avanzo, e altri con lui, scrissero un mare di castronerie, cosa che peraltro non ci sorprese conoscendo i soggetti. E dire che Calabresi di fango dovrebbe intendersi, dirigendo un giornale di un gruppo che sul fango ha costruito la sua fortuna. Fin dall'inizio, con la famosa inchiesta-campagna stampa de L'Espresso che costrinse l'allora presidente della Repubblica Giovanni Leone a dimettersi e che si rivelò poi la più grande bufala nella storia del giornalismo italiano. E che dire del fondatore di La Repubblica, Eugenio Scalfari, firmatario insieme a diversi colleghi del quotidiano stesso di un manifesto che infangò l'onorabilità di un commissario di polizia, tale Luigi Calabresi (storia che il direttore dovrebbe ben conoscere essendo il di lui figlio) al punto da provocarne l'assassinio? E che dire, in tempi più recenti, del fango con cui La Repubblica ha sommerso Silvio Berlusconi per un reato - il caso Ruby - che i tribunali hanno poi dichiarato «non sussistere» in maniera inequivocabile? Siccome Calabresi è circondato dal fango, immagina che ogni giornale sia così. E invece non è così: qui al Giornale non abbiamo mandanti morali o politici di assassinii, noi su Fini avevamo scritto il giusto (per difetto) così come sul caso Boffo non abbiamo ricevuto neppure una querela. Perché noi quando commettiamo anche un solo piccolo errore anche se non inficia la sostanza lo ammettiamo e chiediamo scusa. Siamo fatti così, e al mattino non abbiamo problemi a guardarci allo specchio. Noi.
COMUNISTI: PERIODICHE INCHIESTE PRE ELETTORALI PER VINCERE FACILE. DAL CINEMA AI GIORNALI CON LA MACCHINA DEL FANGO.
«1993», la svolta: quando Berlusconi decise di fare politica dopo le monetine della folla contro Craxi. «1993» è il secondo capitolo della serie tv con Stefano Accorsi, che racconta gli anni di Mani Pulite. Il debutto su Sky Atlantic il 16 maggio. Nel cast Miriam Leone e Tea Falco, scrive Chiara Maffioletti, inviata a Cannes, il 5 aprile 2017 su "Il Corriere della Sera". Le monetine rimbalzano sulla macchina, la gente urla «vergogna». Bettino Craxi è appena uscito dall’Hotel Raphaël di Roma e lo ha fatto dalla porta principale. Il 1993, per la serie di Sky che così si intitola, è iniziato il 30 aprile. Parte da quel giorno il seguito di «1992» (in onda dal 16 maggio su Sky Atlantic Hd), dalla scelta dell’ex leader socialista di affrontare la rabbia della gente, perché «un vero uomo esce a testa alta, chi trema è colpevole». Solo che a dirlo, nella serie, non è Craxi, ma Silvio Berlusconi. In questo intreccio tra finzione e realtà, quello del Cavaliere era un ruolo destinato a non restare sottotono. Il 1993 è l’anno in cui muove i primi passi verso la sua «discesa in campo», circondato da figure che lo incitano a farlo, da Marcello Dell’Utri a Leonardo Notte. E se quest’ultimo nome non dicesse molto, non è perché ci si sia persi dei passaggi politici, ma piuttosto la prima stagione della serie. Notte è il personaggio immaginario interpretato da Stefano Accorsi, disposto a tutto pur di guadagnarsi un futuro al fianco di Berlusconi. «Sono tutti contro di me», gli confida l’imprenditore all’interno del suo mausoleo, dove ha previsto degli spazi anche per gli amici: Confalonieri, Dell’Utri e Previti. «Fanno così perché lei è il futuro», gli risponde Notte. «I nostri sono personaggi di fantasia che si muovono dentro arene realmente esistite, di cui la principale è l’anno», raccontano gli autori Alessandro Fabbri, Ludovica Rampoldi e Stefano Sardo. La serie si prende la libertà di usare la storia come un filo con cui intrecciare le vicende dei protagonisti: oltre a Notte, tornano il poliziotto di «Mani Pulite» Luca Pastore (Domenico Diele), che si concentrerà sullo scandalo del sangue infetto (si vede anche Poggiolini) e la soubrette sempre più spaventata dal tempo che passa («compi ancora una volta 27 anni?», le chiede un’amica alla festa del suo compleanno) interpretata da Miriam Leone, ossessionata dalla cocaina e da Maurizio Costanzo: un passaggio fortunato da Gigi Marzullo, quello vero, riuscirà a farla invitare nel suo show ma dopo essere uscita felice dal Parioli e aver visto allontanarsi in macchina il giornalista con Maria De Filippi (loro invece «finti»), esploderà la bomba di via Fauro. E poi si ritrova Tea Falco, che sembra essersi concentrata nello scandire meglio ogni parola dopo le critiche «molte esagerate» della prima serie e Guido Caprino nei panni non elegantissimi del leghista Pietro Bosco, il cui linguaggio, come quello del suo partito, rappresentano la novità politica di quell’epoca. E qui Lorenzo Mieli, che con Wildside produce la serie (1992 è stata venduta in 83 paesi) rivela: «Si dice che l’idea del progetto è di Stefano Accorsi: in realtà la sua idea era una serie sulla Lega. Per vent’anni sono stati gli uomini nuovi e finora non erano stati raccontati». E un uomo nuovo è stato senza dubbio anche Berlusconi, interpretato da Paolo Pierobon, la cui entrata in politica ha fatto ridere di gusto D’Alema (Vinicio Marchioni) come molti altri. Si sa come è andata a finire. Ma non c’è il rischio che, così come con la politica, una figura simile fagociti anche la serie? «Ci siamo approcciati al suo personaggio come a ogni altro — spiegano gli autori —. Abbiamo sposato il suo punto di vista, il suo dilemma di fronte alla decisione di entrare in politica». Per farlo, si sono documentati, hanno parlato con molte persone ma non con lui, che, ironia vuole, si ritroverà in onda su Sky. «La nostra unica cautela è quella legale, quando si tratta di persone vere. Con lui il rischio Bagaglino era alto ma Pierobon è stato bravissimo. Comunque la sua figura resta sullo sfondo: i protagonisti sono i nostri personaggi». E, se tutto andrà per il verso giusto, lo saranno almeno per un altro anno: «Stiamo scrivendo “1994”. Nella nostra speranza la serie era una trilogia che con “1994” arriverebbe a compimento». Anche perché poi, per i vent’anni successivi, la trama rischia di diventare ripetitiva.
Stefano Accorsi: «Berlusconi mi ha fatto soffrire». È successo oltre vent’anni fa, quando vinse le sue prime elezioni, ma l'attore, famiglia «di sinistra da generazioni», lo ricorda ancora. Per questo ha ideato (e interpreta) una serie che racconta il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica. Ora, mentre festeggia la nuova paternità, arriva «1993», l’anno del «terrore». Che per lui, all’epoca, si chiamava matematica.
In 1992 si diceva ci fosse troppo sesso. In 1993 ce ne sarà meno?
«Ce n’è, ce n’è».
La vedremo di nuovo nudo?
«Nudo… In quella scena a cui sta pensando lei, ero veramente tanto nudo».
Stefano Accorsi è un timido. Dopo questa frase è diventato rosso e anche quando parlerà di donne, perderà un po’ della sua baldanza, e la risposta non arriverà immediata. Un pudore che non deve essere stato facile gestire, visti i ruoli da sex symbol che il cinema gli ha offerto e gli continua a offrire, i legami del passato con donne belle e famose (prima Giovanna Mezzogiorno, poi Laetitia Casta) e quello del presente con l’incantevole Bianca Vitali, 25 anni e una ventina meno di lui, sposata un anno e mezzo fa. L’ultimo personaggio di Accorsi è anche quello che meglio incarna il suo lato nascosto: Leonardo Notte, il pubblicitario senza scrupoli protagonista di 1992, l’anno di Tangentopoli, primo capitolo della serie-trilogia sul passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica che dopo il grande successo (è stata venduta in oltre cento Paesi) sta per tornare su Sky con il secondo anno, 1993. Anche il 2017 di Accorsi sarà da ricordare. Due settimane fa è diventato papà per la terza volta (di Lorenzo, nato dal matrimonio con la Vitali, mentre dalla Casta ha avuto Orlando, 10 anni, e Athena, 7), e della serie di Sky parla come di un altro «figlio»: si accalora, scende nei dettagli come fossero il primo sorriso, la prima parola della prole. Sua, infatti, è stata l’idea originaria di raccontare questo momento storico che ha cambiato la vita e la politica del nostro Paese. Da lì è partita una nuova fase professionale che l’ha portato a vincere, a fine marzo, il David di Donatello come migliore attore per Veloce come il vento dove ha interpretato un ex pilota d’auto (si è talmente appassionato che è appena arrivato terzo nella sua prima gara in pista nel Campionato italiano turismo), e a recitare in Fortunata di Sergio Castellitto, che sarà al Festival di Cannes nella sezione Un Certain Regard. Lo incontro a Milano dove vive con Bianca. Nonostante il neonato in casa, ha l’aria riposata: a 46 anni, o ha ancora il fisico per reggere i pianti notturni o proprio non li sente.
Che effetto le fa diventare di nuovo padre?
«Una grande emozione. Non ci si abitua mai. Qualcuno mi diceva: “Coraggioso, che ti rimetti in ballo”, ma io non avevo questa percezione, forse perché non ho ricordi traumatici dei miei figli da piccoli».
Merito della mamma francese, forse meno ansiosa di quella chioccia italiana?
«Non vedo queste differenze. Sarà che nemmeno mia madre era la classica mamma italiana che preparava i tortellini: lavorava e per lei era più importante passare un momento insieme a tavola di quello che c’era nel piatto».
È sempre stato aperto alla possibilità di diventare di nuovo padre?
«Quando torni ad avere una storia importante, è naturale proiettarsi nel futuro. Non l’avrei mai fatto solo per mia moglie, i figli si fanno in due».
Che padre è?
«Ho imparato a diventarlo per fasi. Un lavoro come il mio, senza routine, ti costringe prima ad abituarti a non averla e poi, quando hai una famiglia, a ricostruirtela. C’è voluto del tempo. Ho cercato di essere presente il più possibile con i figli. Gioco con loro, ho riscoperto di recente il frisbee, non amo il calcio perché sono sempre stato negato, non ho neanche una squadra del cuore. Mi rendo conto che in Italia è un handicap…».
A proposito di Italia, come nasce l’idea della serie?
«All’inizio avrei voluto fare un biopic su Berlusconi: la sua è una parabola vertiginosa, da illustre sconosciuto a uomo più ricco d’Italia fino a diventare premier, si prestava a raccontare un pezzo importante del nostro Paese. Era il 2009, stavo girando Baciami ancora (sequel dell’Ultimo bacio di Gabriele Muccino, che nel 2001 gli diede grande popolarità, ndr), iniziai a lavorarci ma mi scontrai presto con le difficoltà di fare un film su una persona vivente. Pensai allora di usare come protagonisti personaggi di fantasia, a stretto contatto con quelli storici, per avere più libertà nella narrazione».
Il Caimano di Nanni Moretti è del 2006. Lei che Berlusconi voleva raccontare?
«L’uomo, il suo lato privato, ovvero quello che non era pubblico».
Non pensava quindi a una caricatura.
«No, penso che i preconcetti ti lascino sulla porta della narrazione, senza permetterti davvero di esplorare».
Conosce Berlusconi personalmente?
«No. Politicamente la penso all’opposto: quando ha vinto le elezioni nel 1994, da cittadino ho sofferto parecchio. Seguo la politica da quando ho vent’anni, era il periodo delle inchieste di Mani pulite, e da allora non ho mai smesso. A questo progetto tenevo molto, il produttore Lorenzo Mieli e Sky ci hanno creduto. Alla fine gli sceneggiatori hanno deciso di ridurre l’arco temporale della serie a tre anni, ma non è stato semplice: ne sono passati cinque prima della messa in onda».
Che difficoltà avete trovato?
«Il format andava costruito ex novo, e poi, per ovviare ai problemi legali con i personaggi viventi, gli sceneggiatori hanno dovuto lavorare su una sottile linea d’ombra. Avere dei paletti, però, ci ha aiutati ad aguzzare la fantasia. E il lavoro di documentazione storica è stato immane».
Del 1993, quali eventi raccontate?
«La trilogia si ispira alla Rivoluzione francese: speranza, terrore, restaurazione. Se il 1992 con Mani pulite faceva pensare a un cambiamento, il 1993 è stato l’anno delle bombe di mafia con gli attentati a Maurizio Costanzo a Roma, a Firenze vicino agli Uffizi e a Milano in via Palestro, che puntavano a destabilizzare lo Stato e indurlo a una trattativa. La scena di apertura è il lancio delle monetine a Craxi davanti all’Hotel Raphaël di Roma: la politica non sarebbe stata più la stessa. C’è poi il suicidio di Raul Gardini, e anche il deputato leghista che sventola il cappio in Parlamento».
Cosa accadrà invece al suo personaggio?
«L’avevamo lasciato con il sogno del nuovo partito, e lo ritroveremo già al fianco di Berlusconi. Verrà fuori il suo passato a Bologna nei movimenti di estrema sinistra degli anni Settanta. Ci sono tante persone reali, anche giornalisti, che hanno quel vissuto lì e poi sono entrate in Forza Italia: è forte il contrasto tra un’epoca di ideali e il suo opposto. Lo vedremo subito fidanzato, con il personaggio interpretato da Laura Chiatti, dietro il loro incontro c’è un mistero che verrà svelato piano piano».
Lo vedremo anche innamorato?
«Come può esserlo Leonardo Notte: non sarà mai il principe azzurro, caso mai un principe nero».
Chi interpreta Berlusconi?
«Paolo Pierobon, bravissimo. È stato costruito come il Di Pietro di 1992: somigliante – ci sono molte ore di trucco – ma in parte inventato. È comunque il Berlusconi di 25 anni fa, al massimo della sua forza e determinazione: erano gli anni dove il Milan stravinceva, l’anno dopo avrebbe inventato un partito chiamandolo Forza Italia, la frase che tutti gli italiani avrebbero gridato di lì a poco perché, non dimentichiamolo, nel 1994 ci sono stati i Mondiali di calcio».
Il vero Berlusconi è stato coinvolto nel progetto?
«Gli sceneggiatori l’hanno incontrato una volta. Sono andati a pranzo a Palazzo Grazioli e so che lui è stato molto ospitale. Ho chiesto se avesse fatto dei commenti su 1992, ma mi hanno risposto che non hanno ben capito se lo avesse visto».
Per lei, invece, che anno è stato il 1993?
«Frequentavo la scuola di teatro a Bologna, vivevo in simbiosi con i miei compagni, immerso nelle prove. Ma quello che succedeva fuori, in politica, mi toccava molto. La mia famiglia – papà tipografo e mamma impiegata – è di sinistra da generazioni».
Per chi votò nel 1994?
«Occhetto».
Partecipava all’attività politica studentesca?
«No. Del mio liceo, scientifico, ho solo ricordi di fatica e shock: fino alle medie ero stato un buon studente, ma di colpo la matematica diventò qualcosa che non capivo più. Ero sempre rimandato, e poi fui anche bocciato a settembre».
Spiccava per altre doti?
«I miei compagni mi raccontano che leggevo poesie in modo ironico e non rinunciavo mai alla battuta, a costo di beccarmi una nota. Fin da piccolo volevo fare l’attore, ma è come se alle superiori me ne fossi scordato. Una mattina però saltai la scuola e andai a informarmi su una scuola di teatro a Bologna e lì ritrovai la mia strada. Avrei dovuto iniziarla a settembre del 1991, dopo la maturità, ma quell’estate – lavoravo ai Lidi ferraresi come bagnino – mia madre mi chiamò dicendo che Pupi Avati faceva dei casting per il film Fratelli e sorelle. Mi prese e passai due mesi negli Stati Uniti: esperienza incredibile, avevo vent’anni».
Con le ragazze ha sempre avuto successo?
«Direi di sì, ma la verità è che non me ne accorgevo: ero sempre fidanzato».
E quando faceva il bagnino?
«Non ho mai guardato così tanto il mare come quell’estate. Una volta ho dovuto fare un salvataggio, un ragazzo si era spinto su un moscone per salvarne un altro ma non sapeva nuotare. E poi, fuori dal turno, ho visto un uomo morirmi davanti per una congestione: un trauma».
Non ha approfittato nemmeno della popolarità dello spot Maxibon?
«Era il 1994, il prossimo anno che racconteremo: una citazione nella serie potremmo farla (lo spot diventò celebre per il tormentone in inglese maccheronico “Du gust is megl che uan”, ndr). Ricordo che stavo guardando le vetrine per strada quando vidi un ragazzo venire verso di me. Pensavo di conoscerlo ma non mi veniva in mente chi fosse, quando mi disse: “Ma tu sei Maxibon!”. Come il nome di un supereroe… Lì mi sono reso conto che c’erano persone che mi conoscevano ma che io non conoscevo».
Ha avuto tre amori importanti: Giovanna Mezzogiorno, Laetitia Casta e ora Bianca Vitali. Dimentichiamo qualcuno?
«Ho avuto poche storie e tutte importanti».
Con la Casta è stato dieci anni. Come ha gestito la vostra separazione con due figli?
«La separazione, anche se io e Laetitia non eravamo sposati, è sempre dolorosa, la cosa più dolorosa per una famiglia dopo le malattie. Ho lottato per evitarla, a un certo punto però se non c’è più niente da fare devi prenderne atto. Io però penso sempre che le cose andranno bene, non mi perdo d’animo, nel privato come nel lavoro. E i miei figli oggi sono vivaci e positivi».
Sul set di 1992 ha incontrato Bianca.
«Aveva pochissime scene, ma tra noi c’è stato subito feeling. Da un punto di vista anagrafico ero stupito, abbiamo vent’anni di differenza, ma quando ti accorgi che per te non è un problema, capisci che il problema è solo la convenzione sociale».
La sente però la differenza d’età?
«Certo, anche se Bianca è molto matura per la sua età. Mi diverte che abbiamo punti di vista che tengono conto di vissuti diversi. Lei ogni tanto ci prova a farmi sentire vecchio, fa battute del tipo “quando eri giovane”, ma non ci riesce».
Bianca la conosceva come attore?
«Pochissimo».
Troppo giovane?
«E anche ignorante, come le dico sempre per prenderla in giro».
Non sarà stato facile per lei gestire, a vent’anni, una famiglia allargata.
«È stata molto brava da subito nell’incontro con i miei figli. Erano comunque passati già due anni dalla mia separazione, i bambini erano molto sereni, anche curiosi di conoscerla».
I suoi figli parlano italiano?
«Con me da sempre. Vivono a Parigi, ma di tradizioni familiari sono mediterranei perché i còrsi (il padre della Casta è nato in Corsica, ndr) sono simili a noi».
Tra poco lei andrà a Cannes, con Fortunata.
«È stata una sorpresa. L’abbiamo saputo all’una di notte, solo dieci ore prima della conferenza stampa di presentazione del festival, non ce lo aspettavamo più. Castellitto è un regista che dà tutto ai suoi attori, la voce, le sfumature: i personaggi che scrive con la moglie (la scrittrice Margaret Mazzantini, autrice della sceneggiatura, ndr) hanno energie spesso opposte. Cannes è un grande festival, chi lo organizza ha creato una straordinaria continuità. Dispiace che da noi, penso a Venezia, non funzioni così».
Come è stato tornare a vivere in Italia dopo quasi dieci anni a Parigi?
«Negli ultimi anni ero già spesso in Italia, le migliori proposte professionali sono arrivate da qui. Ho avuto un po’ di innamoramento per la Francia all’inizio, ma in realtà non mi sono mai sentito così italiano come quando abitavo a Parigi: dalla vita di quartiere al modo di relazionarsi, non è molto accogliente. La Francia, poi, non è Parigi: se esci dalla città, capisci in fretta perché tanti hanno votato Le Pen». Da Vanity Fair n. 19/2017.
Stragi del 1993, Berlusconi e Dell’Utri di nuovo indagati a Firenze. Riaperta l’inchiesta dopo le intercettazioni del boss Graviano. In carcere raccontava: lui mi ha detto ci vorrebbe una bella cosa, scrive Giovanni Bianconi il 30 ottobre 2017 su "Il Corriere della Sera". Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri sono di nuovo indagati come possibili mandanti delle stragi di mafia del 1993. La Procura di Firenze ha chiesto e ottenuto dal giudice delle indagini preliminari la riapertura del fascicolo a loro carico dopo aver ricevuto da Palermo le intercettazioni del colloqui in carcere del boss di Cosa nostra Giuseppe Graviano, effettuate nell’ambito dell’inchiesta sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. Sono i colloqui in cui il capomafia di Brancaccio diceva al suo compagno di detenzione, nell’aprile 2016, spezzoni di frasi come queste: «Novantadue già voleva scendere… e voleva tutto»; e ancora: «Berlusca... mi ha chiesto questa cortesia... (...) Ero convinto che Berlusconi vinceva le elezioni ... in Sicilia ... In mezzo la strada era Berlusca... lui voleva scendere... però in quel periodo c’erano i vecchi... lui mi ha detto ci vorrebbe una bella cosa...».
«Ti ho portato benessere». Frammenti di conversazione, nei quali i riferimenti al fondatore di Forza Italia seppure in un contesto di non facile interpretazione, sono abbastanza chiari. «Nel ‘94 lui si è ubriacato perché lui dice ma io non posso dividere quello che ho con chi mi ha aiutato... Pigliò le distanze e fatto il traditore», dice ancora il boss condannato all’ergastolo per le stragi del ‘92 e del ‘93, arrestato a Milano nel gennaio 1994 , che in un altro passaggio afferma: «Venticinque anni fa mi sono seduto con te…Ti ho portato benessere, 24 anni fa mi è successa una disgrazia, tu cominci a pugnalarmi… Ma vagli a dire com’è che sei al governo, che hai fatto cose vergognose, ingiuste…».
Identità coperte. Su questi e altri brani di intercettazioni ricevute dai colleghi palermitani, il procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo ha delegato alla polizia giudiziaria lo svolgimento di alcune verifiche, e per farlo ha dovuto chiedere al gip di riaprire il fascicolo su Berlusconi e le stragi nella città dove sono concentrate le indagini sulle bombe del 1993 scoppiate a Firenze, Roma e Milano. I nomi dell’ex premier e dell’ex senatore Marcello Dell’Utri (che pure compare nei colloqui intercettati di Graviano, ed è attualmente in carcere per scontare una condanna a sette anni per concorso esterna in associazione mafiosa) sono stati iscritti con intestazioni che dovrebbero coprirne l’identità, come nelle altre occasioni.
Le confidenze di Graviano. È la terza volta, infatti, che si apre questo filone di accertamenti. Nella prima occasione «autore 1» e «autore 2», gli alias dei due esponenti politici, furono inseriti dopo le dichiarazioni di alcuni pentiti come Salvatore Cancemi e altri, che parlarono del loro coinvolgimento nella metà degli anni Novanta, ma tutto finì con un’archiviazione. La seconda fu nel 2008, dopo le confessioni del nuovo collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, giudicato attendibile in molte corti d’assise e da ultimo dalla Corte di cassazione che ha confermato alcune ulteriori condanne per la strage di Capaci; Spatuzza raccontò le confidenze fattegli proprio da Giuseppe Graviano, il quale gli disse che grazie all’accordo con Berlusconi e Dell’Utri «ci siamo messi il Paese nelle mani». Anche questa seconda indagine è stata archiviata.
Facoltà di non rispondere. Ora non c’è un pentito che parla, ma sono state le parole dello stesso Graviano a far riaprire l’inchiesta, sebbene sia molto difficile che a distanza di tanto tempo possa portare a qualcosa di concreto. Al processo di Palermo, chiamato a spiegare le sue parole registrate in carcere, Graviano ha preferito tacere e s’è avvalso della facoltà di non rispondere. E ieri, a Reggio Calabria, è cominciato il processo a suo carico per l’uccisione di due carabinieri nel gennaio ’94: un altro pezzo della presunta trattativa che avrebbe coinvolto anche la ‘ndrangheta.
Mafia e stragi del '93, Berlusconi indagato. Le intercettazioni del boss Graviano che evocano il leader forzista come mandante alla base di un fascicolo aperto da Firenze. Coinvolto Dell'Utri, ma il suo avvocato sostiene che una frase chiave è stata male interpretata, scrivono Salvo Palazzolo e Franca Selvatici il 31 ottobre 2017 su "La Repubblica". Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri sono nuovamente indagati nell'inchiesta sui mandanti occulti delle stragi mafiose del 1993, che colpirono Firenze, Roma e Milano. La procura di Firenze ha già ottenuto dal giudice delle indagini preliminari la riapertura del fascicolo, archiviato nel 2011, e ha delegato nuovi accertamenti alla Direzione investigativa antimafia. Obiettivo, passare al setaccio le parole pronunciate in carcere dal boss Giuseppe Graviano, intercettato dai pubblici ministeri palermitani del processo Trattativa Stato-mafia mentre parlava dell'ex presidente del Consiglio e dall'ex senatore di Forza Italia in carcere per scontare una condanna a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa. "Berlusconi mi ha chiesto questa cortesia, per questo c'è stata l'urgenza", diceva Graviano, il padrino condannato per le stragi, al suo compagno dell'ora d'aria, il camorrista Umberto Adinolfi. Era il 10 aprile dell'anno scorso, le telecamere della Dia spiavano il braccio del 41 bis del penitenziario di Ascoli Piceno. "Lui voleva scendere, però in quel periodo c'erano i vecchi - insisteva Graviano, che è in carcere dal 1994 - lui mi ha detto: ci vorrebbe una bella cosa". E ancora: "Trent'anni fa, venticinque anni fa, mi sono seduto con te, giusto? Ti ho portato benessere. Poi mi è successa una disgrazia, mi arrestano, tu cominci a pugnalarmi. Per cosa? Per i soldi, perché ti rimangono i soldi...". Parole che il legale di Berlusconi, l'avvocato Nicolò Ghedini, ha bollato come "illazioni e notizie infamanti prima del voto, non avendo mai avuto alcun contatto il presidente Berlusconi né diretto né indiretto con il signor Graviano". Quattordici mesi di intercettazioni sono state depositate al processo di Palermo, nel giugno scorso (dove è indagato Dell'Utri), ma ci sono centinaia di omissis in quelle carte. Tutto il dossier è stato invece inviato dai pm Di Matteo, Del Bene, Tartaglia e Teresi alle procure di Firenze e Caltanissetta, che indagano rispettivamente sulle stragi del 1993 e quelle del 1992. Ed ecco le nuove indagini. Firenze ha riaperto, Caltanissetta sta valutando. Mentre infuoca la polemica al processo 'Trattativa Stato-Mafia'. "Graviano non dice Berlusconi, ma bravissimo", sostiene il legale di Dell'Utri, Giuseppe Di Peri, e i suoi esperti sostengono questa versione. Ma i superesperti nominati dalla Corte d'assise danno ragione alla procura. "Graviano parla di Berlusconi". I giudici avevano convocato il boss delle stragi al processo di Palermo, per chiedere a lui direttamente. Ma Graviano ha preferito avvalersi della facoltà di non rispondere.
Stragi del '93, ecco come da un ex senatore Dc si arriva a Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri. L'ex premier e il fondatore di Forza Italia sono indagati per gli attentati di Roma, Milano e Firenze in seguito alle rivelazioni di Giuseppe Graviano. Ecco tutto quello che c'è da sapere sul caso, scrive Lirio Abbate il 31 ottobre 2017 su "L'Espresso". «Ci sarà mai una verità?» si chiedeva cinque anni fa l'allora procuratore di Firenze, Giuseppe Quattrocchi davanti alla Commissione parlamentare antimafia, parlando delle stragi del 1993 a Roma, Milano e Firenze. Attentati avvolti ancora oggi dal mistero, su cui tanto hanno indagato i magistrati toscani, per la parte esecutiva, ma a poco di processuale si è arrivati per i mandanti. Il fascicolo è stato adesso riaperto con due indagati, si può dire due ex indagati, le cui posizioni vengono riattivate dopo le dichiarazioni fatte in carcere da Giuseppe Graviano e registrate dalle microspie della Direzione investigativa antimafia. E così con l'accusa di essere i mandanti delle stragi in continente sono accusati Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri. È necessario riprendere ciò che nel marzo 2012 il procuratore Quattrocchi diceva ai commissari dell'antimafia per chiare meglio gli sviluppi giudiziari di questi giorni, con il coinvolgimento di Berlusconi e Dell'Utri di cui si sta occupando il nuovo procuratore di Firenze, Giuseppe Creazzo. Quattrocchi ci teneva a sottolineare come: «Dovendo ovviamente cercare di capire se, e quanto, la verità processuale sia coincidente con al verità storica». Le stragi non si prescrivono mai e «avremo sempre il massimo dell'attenzione e la sicura capacità di intervenire in qualsiasi momento, quando e se un qualsiasi nuovo elemento ci consentirà in qualche maniera di cercare di capire se c'è una strada che ci porterà a quella verità», spiegava l'allora capo della procura fiorentina. Un anno e mezzo fa Graviano in carcere ha parlato di una fonte da avvertire, un intermediario da attivare per portare un messaggio fuori dal carcere. L'intermediario avrebbe dovuto far sapere che Graviano era pronto a tutto pur di ottenere un aiuto. E questa fonte doveva essere contattata da Adinolfi, il detenuto con il quale Graviano conversa durante l'ora d'aria. Per lui era prevista una scarcerazione, che però non è arrivata e il tramite che Adinolfi avrebbe dovuto cercare nel quartiere di Brancaccio a Palermo, regno della famiglia Graviano, non sarebbe - a quanto pare - stato ancora contattato. Qui occorre far emergere i punti in comune sollevati dall'inchiesta di Firenze. I Graviano nel 1992 avevano un ruolo fondamentale nell'azione di Cosa nostra, in particolare nel tentativo di dialogare con qualche pezzo della politica. È a questo proposito che l'allora procuratore Quattrocchi alla commissione antimafia racconta: «L'attenzione del senatore siciliano Vincenzo Inzerillo, il quale, secondo le indagini che la procura di Firenze ha condotto, rivestiva un proprio ruolo anche nella capacità di interloquire con quel mondo. In quello stesso periodo, nell'ottobre 1993, prese vita un progetto, sia pure fugace, che si chiamava “Sicilia libera” che però dopo qualche tempo non ebbe molta fortuna». Sicilia libera era il partito politico costituito dagli stragisti corleonesi, a cominciare da Bagarella, ma la sua storia venne chiusa nel 1994. Secondo Quattrocchi «le stragi siciliane avrebbero complicato i progetti di Cosa nostra e ciò che emerge dal rapporto con il senatore Inzerillo è significativo del fatto che la politica, per mezzo di lui o di quel mondo, a quel punto non sembrava poter rispondere alle aspettative. Tutto cambiò, dimodoché le rivendicazioni che avevano in particolare la prospettiva di muovere verso l'attenuazione dei regimi di carcerazione ed altri progetti, ma non solo, non fecero più parte di tale tipo di attività». L'ex senatore della Dc, Vincenzo Inzerillo, è stato scarcerato a luglio del 2012 dopo aver scontato una condanna per concorso in associazione mafiosa, è stato accusato di essere il politico di riferimento della famiglia Graviano. C'è una frase che il boss di Brancaccio dice all'allora mafioso Gaspare Spatuzza e che questi racconterà quando inizia a collaborare, e cioè: «Voi ne capite di politica?». A questa domanda non c'è stata risposta di Spatuzza, il quale aveva rinfacciato al suo capo mandamento Graviano a proposito delle stragi «che queste morti non erano tutto sommato gradite alla manovalanza degli stragisti» e il boss gli fece osservare che potevano servire. Per il pm Nicolosi, anche lui sentito in commissione antimafia, l'ex senatore Inzerillo «per quanto ci era stato indicato da alcuni collaboratori come persona vicina in particolare ai Graviano, è stato indicato come la persona che, a valle degli attentati dell'estate del 1993, aveva partecipato ad un certo incontro con i vertici della fase esecutiva (Graviano e Matteo Messina Denaro). In quell'occasione, secondo la bocca di quel collaboratore che si chiama Sinacori, l'ex senatore Inzerillo avrebbe detto che era inutile continuare, perché con le stragi non si otteneva nulla». Nicolosi ricorda che è stato fatto «un necessario approfondimento, che poi è l'indagine che più specificamente Grabriele Chelazzi aveva portato a compimento, per cercare di capire meglio e nel dettaglio se potesse esservi una persona, ed eventualmente chi fosse, a fare da interlocutore con gli ambienti istituzionali. Tale indagine, sotto questo profilo, ha dato esito negativo». In conclusione all'audizione, Nicolosi rispondendo ad alcune domande dei commissari, dice: «La sponda politica è sempre stata, per così dire, un pallino. In mancanza del referente storico, dopo lo sgretolamento della Prima Repubblica, si è verificato uno sbandamento e, questa è l'indicazione che viene dai collaboratori, l'attenzione è stata rivolta verso la nuova forza emergente, prima con la costituzione di Sicilia Libera e poi con il suo abbandono e il suo coinvolgimento in Forza Italia».
Graviano, stragista che non si è mai pentito. Il boss che tira in ballo l'ex premier è il mandante dell'omicidio Puglisi, scrive Luca Fazzo, Mercoledì 01/11/2017, su "Il Giornale". «Sono nell'area riservata, isolato da tutti», racconta: «ho le telecamere ventiquattr'ore al giorno, e nel bagno di un metro quadro ne ho due». Giuseppe Graviano ha compiuto i 54 anni alla fine di settembre: ed è in galera dal gennaio del '94, dal giorno in cui i carabinieri lo catturarono in un ristorante milanese. Da quel giorno, intorno a Graviano, sepolto al «41bis», hanno ronzato in tanti, con lo scopo di farlo pentire, fargli saltare il fosso, nella speranza di farlo diventare il «tassello mancante» alle indagini sulle stragi. Niente da fare. A volte durante l'ora d'aria si lascia andare a qualche chiacchiera, a volte manda messaggi. Ma tutte le volte che gli chiedono di aprirsi davanti a un verbale la risposta è sempre la stessa: «Mi avvalgo della facoltà di non rispondere». Eppure prima che Salvatore Cancemi, nel maggio 1994, lo indicasse come l'organizzatore per conto di Totò Riina della strage di via D'Amelio, di Giuseppe Graviano e di suo fratello maggiore, Filippo, le cronache antimafia si erano occupate di rado. L'unica impresa di rilievo attribuita ai due fratelli, in quanto padrini del quartiere di Brancaccio, era stato l'assassinio di don Pino Puglisi, eseguito materialmente da quel Gaspare Spatuzza che poi si sarebbe (lui sì) pentito e lo avrebbe accusato. È per l'assassinio del parroco antimafia che Giuseppe e Filippo vengono arrestati a Milano. Ma nel Gotha di Cosa Nostra, mediaticamente parlando, i Graviano brothers ci entrano quattro mesi dopo, grazie alle accuse di Totò Cancemi. Poco dopo gli piomberà addosso l'accusa di esser estati i registi del passaggio più imperscrutabile della strategia mafiosa, gli attentati ai musei del 1993. Da allora, si è cercata invano una risposta alla domanda: chi sono davvero i fratelli Graviano? L'unica risposta certa è che si tratta di mafiosi anomali, il cui unico pensiero - prima e dopo l'arresto - non sembra essere la prosecuzione del potere della loro famiglia, ma all'opposto farla sparire, strappare i figli e i nipoti al destino di continuatori del clan. Per questo prima di essere arrestati investono un miliardo di lire per portare le famiglie lontane dalla Sicilia, comprando una villa in Costa Azzurra. «Questi bambini non devono crescere a Palermo, perché a Palermo fanno la fine che ho fatto io», scriverà Giuseppe alla sorella. E nella villa in Costa Azzurra avverrà - ed è il dettaglio più incredibile - il battesimo dei figli di Giuseppe e di Filippo, concepiti dalle madri quando i padri erano già in carcere, grazie al liquido prelevato e conservato tempo prima. Vengono battezzati entrambi Michele. In carcere, Giuseppe Graviano conferma la sua diversità. Mentre gli altri boss sepolti in massima sicurezza si consumano nei riti del carcere, o al massimo studiano giurisprudenza, lui si iscrive alla facoltà di biologia molecolare. E nella sua cella, come unico decoro alle pareti, ha le cartoline che riproducono Kandinski e Klimt, deturpate dai visti della censura. Intanto gli piombano addosso gli ergastoli, uno dopo l'altro. Lui un po' tace, un po' brontola, un po' manda segnali. Ma, chiunque sia davvero, Giuseppe Graviano è il primo a sapere che il suo destino è quello riassunto nel foglio matricolare: «fine pena mai».
Stragi del '93, Berlusconi indagato di nuovo: riparte la macchina del fango. Il boss Graviano intercettato in carcere tira in ballo Berlusconi. E riparte il tritacarne giudiziario. Con le toghe che riaprono un fascicolo già archiviato nel 2011, scrive Giovanni Neve, Martedì 31/10/2017, su "Il Giornale". L'assalto giudiziario è ripartito. Preciso come un orologio. A pochi giorni dalle elezioni elettorali in Sicilia e a meno di un semestre dalle politiche, ecco che i magistrati vanno a indagare nuovamente Silvio Berlusconi. Lo accusano, insieme a Marcello Dell'Utri, di essere il mandante occulte delle stragi mafiose del 1993 che insanguinarono Firenze, Roma e Milano. La notizia, ovviamente, viene data da Corriere della Sera e Repubblica. A ogni appuntamento elettorale, sempre la stessa storia. A questo giro, con il centrodestra nettamente in testa nei sondaggi, il tritacarne elettorale viene oliato dalla procura di Firenze che ha fatto riaprire dal giudice per le indagini preliminari un fascicolo già archiviato nel 2011. Al centro del nuovo processo ci sarebbero le parole pronunciate in carcere dal boss Giuseppe Graviano. I pm di Palermo lo avevano intercettato durante il processo sulla presunta trattativa tra lo Stato e la mafia. "Berlusconi mi ha chiesto questa cortesia, per questo c'è stata l'urgenza", diceva il padrino al camorrista Umberto Adinolfi mentre facevano l'ora d'aria nel braccio del 41 bis del carcere di Ascoli Piceno. Era il 10 aprile dell'anno scorso. "Lui voleva scendere, però in quel periodo c'erano i vecchi - raccontava Graviano - lui mi ha detto: ci vorrebbe una bella cosa". E ancora: "Trent'anni fa, venticinque anni fa, mi sono seduto con te, giusto? Ti ho portato benessere. Poi mi è successa una disgrazia, mi arrestano, tu cominci a pugnalarmi. Per cosa? Per i soldi, perché ti rimangono i soldi...". Gli omissis, però, sono molti. E la maggior parte delle frasi sono di dubbia interpretazione. Per riaprire un fascicolo già chiuso da almeno cinque anni, i pm di Firenze vanno a fidarsi di un boss in carcere dal 1994. Parole che l'avvocato Nicolò Ghedini non fatica a bollare come "illazioni infamanti" pubblicate ad hoc "prima del voto". D'altra parte Berlusconi non ha mai avuto "alcun contatto né diretto né indiretto con Graviano". Ma quello, che ancora oggi vediamo in atto, è il solito schema del tritacarne giudiziario messo in piedi per colpire e screditare l'avversario politico.
Fuga di notizie a orologeria Berlusconi ancora indagato. Il presunto coinvolgimento del Cav nelle stragi del '93 a pochi giorni dal voto in Sicilia. Ira del centrodestra, scrive Patricia Tagliaferri, Mercoledì 01/11/2017 su "Il Giornale". Per la quarta volta si torna ad indagare sul presunto coinvolgimento di Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri nelle stragi mafiose che colpirono Roma, Firenze e Milano nel 1993. E come in passato la notizia dell'iscrizione nel registro degli indagati del leader di Forza Italia e dell'ex senatore attualmente in carcere per concorso esterno in associazione mafiosa, arriva a ridosso di una scadenza elettorale importante e nonostante nelle carte i nomi di Berlusconi e Dell'Utri siano segretati. L'inchiesta è stata riaperta dai pm fiorentini - che già due volte tra il 1996 e il 2011 avevano indagato sugli stessi fatti e poi archiviato, come anche la Procura di Caltanissetta - dopo aver ricevuto dai colleghi di Palermo cinquemila pagine di intercettazioni delle chiacchierate in carcere tra il boss di Cosa Nostra Giuseppe Graviano e un altro detenuto, disposte nell'ambito dell'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia in cui Graviano in più occasioni avrebbe chiamato in causa il Cavaliere. Sulla base di questi spezzoni di frasi - il cui contesto non è facilmente individuabile, pronunciato per di più da un boss che secondo il legale di Dell'Utri, Giuseppe Di Peri, sapeva di essere intercettato - il gip ha riaperto il fascicolo che era stato archiviato nel 2011, chiedendo alla direzione investigativa antimafia di cercare riscontri. Toccherà ad una nuova perizia stabilire se Graviano nei colloqui si riferisse davvero a Berlusconi e a Forza Italia ed eventualmente quanto quelle confidenze fossero genuine. La difesa degli indagati annuncia battaglia, soprattutto su una delle intercettazioni agli atti, dello scorso 10 aprile, in cui Graviano parla con un compagno di detenzione, il camorrista Umberto Adinolfi: «Novantadue già voleva scendere... e voleva tutto». La Procura ritiene che il boss si riferisse all'ex premier. «Berlusca mi ha chiesto questa cortesia... (...). Ero convinto che Berlusconi vinceva le elezioni.... in Sicilia... Lui voleva scendere... però in quel periodo c'erano i vecchi e lui mi ha detto ci vorrebbe una bella cosa». Per la difesa di Dell'Utri la parola «Berlusca» non sarebbe mai stata pronunciata e sarebbe «frutto di suggestioni da parte del perito e dei consulenti dei pm», come dimostra una consulenza depositata nei giorni scorsi dall'avvocato Di Peri nell'ambito del processo palermitano. Il legale ritiene inoltre che le prove inviate a Firenze non sarebbero genuine perché da alcuni dei colloqui registrati in carcere si capisce che i due sanno bene di essere ascoltati. Ma c'è soprattutto da approfondire la questione della fuga di notizie ad orologeria sulla quale l'avvocato di Berlusconi, Nicolò Ghedini, chiede al ministro della Giustizia Andrea Orlando di fare chiarezza, ricordando che in questa come nelle altre inchieste i nomi dei due politici indagati, per evidenti ragioni, non erano riportati neanche nella richiesta di archiviazione. E se nelle prime indagini erano indicati come «autore 1» e «autore 2», anche negli atti segretissimi con cui il gip di Firenze ha autorizzato la riapertura del fascicolo per riferirsi all'ex premier e all'ex senatore sono stati utilizzati nomi «convenzionali». La tempistica dell'inchiesta non convince Renato Brunetta, presidente dei deputati Fi, che chiede ad Guardasigilli di chiarire. Mara Carfagna, portavoce del partito, parla del tentativo di «depotenziare l'avversario politico non con un programma di governo serio e credibile ma gettando fango mediatico-giudiziario sul leader di Forza Italia».
Si riapre la caccia giudiziaria al Cav. Silvio Berlusconi si candiderà alle elezioni del 2018. E si ripeterà la stessa caccia giudiziaria che accompagnò la sua "discesa in campo" del 1994, scrive il 31 ottobre 2017 su Panorama Giorgio Mulè. UPDATE: in questo editoriale del 20 settembre 2017 il direttore di Panorama Giorgio Mulè anticipava quanto sta accadendo in questi giorni, ovvero l'apertura delle indagini da parte della procura di Firenze a carico di Silvio Berlusconi (e Marcello Dell'Utri) in quanto "mandanti occulti" delle stragi di mafia del 1993 a Firenze, Bologna e Milano, fascicolo che era stato archiviato nel 2011. Ecco cosa scriveva (premonitore) nel suo editoriale. "Preparatevi a vedere la recita di una commedia già vista. Stesso copione. Silvio Berlusconi ha ribadito che, anche in assenza di un verdetto della Corte di Strasburgo prima delle elezioni del 2018, si candiderà. L'annuncio non porta bene al Cavaliere e lui lo sa. Da quando decise la sua "discesa in campo" nel 1994 è vittima di una caccia giudiziaria senza esclusioni di colpi. Accuse di ogni tipo, processi infiniti. Oltre vent'anni dopo preparatevi a riportare le lancette esattamente a vent'anni fa. Il teatrino sta per ricominciare. Con ragionevole certezza si può affermare che Silvio Berlusconi o è già sotto inchiesta o ci finirà tra poco come mandante esterno delle stragi mafiose del 1992. Non si tratta di un'ipotesi nuova. Tutt'altro. Berlusconi venne indagato per anni a Firenze come mandante delle stragi di Roma e Milano del 1993 e a Caltanissetta per quelle del 1992. Le due inchieste finirono con due archiviazioni richieste dalle stesse Procure: in Toscana il gip archiviò nel 1998, in Sicilia nel 2002. Pochi giorni fa il pubblico ministero palermitano Antonino Di Matteo, tra i titolari del processo sulla molto presunta trattativa Stato-mafia del '92 che ha già prodotto un'assoluzione, è stato ascoltato dalla commissione parlamentare antimafia e ha sollecitato la riapertura "immediata" delle indagini sui mandanti esterni della strage di via D'Amelio in cui morì Paolo Borsellino con cinque agenti di scorta. La gentile richiesta è legata al fatto che, parla sempre Di Matteo, "le indagini da me condotte con altri pm di Palermo hanno fatto emergere elementi di prova che rafforzano il convincimento che la strage non fu solo di mafia". E ancora: "Oggi, con le nostre intercettazioni ambientali, abbiamo ascoltato la viva voce di Graviano (un boss in carcere, ndr) riferire di stragi fatte come "cortesia" e di contatti con Berlusconi nel periodo delle stragi". Fermiamoci qui. Non c'è una prova, non c'è un riscontro: c'è un magistrato "adottato" a sua risaputa dai 5 Stelle (il candidato grillino a governatore in Sicilia fondò in suo onore "Scorta Civica"), addirittura indicato come prossimo ministro dell'Interno dal Movimento, insignito a luglio dal sindaco grillino della cittadinanza onoraria di Roma che va in Parlamento e chiede pubblicamente, come fosse un tribuno qualsiasi, di riaprire "immediatamente" un'inchiesta indicando in Berlusconi - casualmente nemico politico dei 5 Stelle - il principale soggetto su cui indagare. E tutto questo perché il boss Graviano, argomenta Di Matteo, riprende uno "spunto" di un pentito anguilloso come Salvatore Cancemi che oltre vent'anni fa disse di aver sentito Riina affermare che Berlusconi e Marcello Dell'Utri erano "soggetti da appoggiare ora e in futuro". Perché pentito "anguilloso"? Su questo punto vale la pena leggere che cosa scrive a pagina 71 della sua archiviazione il gip di Caltanissetta dopo aver compulsato 21 faldoni di carte: "Le progressive e anguillose propalazioni di Cancemi sono viziate dalla sua costante propensione a ridimensionare il proprio ruolo nei reati contestatigli". Un mezzo pataccaro, giusto per non ferire il principe dei pataccari Massimo Ciancimino non a caso teste di accusa al processo "trattativa" in cui Di Matteo è pubblico ministero. Un dibattimento, ha scritto il giudice che ha già assolto un imputato, che "viola le regole della logica e del diritto nell'interpretazione dei risultati probatori". Cavaliere, si rassegni: la caccia, ammesso che sia mai finita, è ricominciata. La logica e il diritto sono già nella sacca dei cacciatori.
Solito fango sul Cav. La giustizia a orologeria colpisce Berlusconi prima del voto in Sicilia con vecchie accuse già archiviate, scrive l'1 Novembre 2017 "Il Foglio". Ma che strana coincidenza! Domenica prossima si vota in Sicilia e la coalizione di centrodestra viene data dai sondaggi al primo posto. Proprio ora la si premura di aprire un fascicolo contro Silvio Berlusconi, rievocando vecchie accuse che lo vedevano, addirittura, come mandante delle stragi mafiose di Firenze, Roma e Milano del 1993. Si tratta di un fascicolo archiviato nel 2011, che viene tirato fuori dai cassetti a causa di una conversazione in carcere del boss mafioso Giuseppe Graviano, considerata dalla maggior parte degli osservatori una sceneggiata volta a creare confusione. Il filone è lo stesso dell’inchiesta sulla cosiddetta trattativa tra stato e mafia, che ha perso per strada tutta la già scarsa attendibilità iniziale. La procura di Palermo ha inviato a quelle di Firenze e Caltanissetta, titolari delle inchieste già archiviate, le intercettazioni di Graviano, nell’intento di riesumare una vecchia storia priva di riscontri. Probabilmente dopo le elezioni siciliane o forse quelle nazionali le procure rinunceranno ad aprire un’azione penale priva di qualsiasi fondamento, ma intanto si dà spazio a illazioni fantasiose quanto infamanti. Lo aveva previsto, su questo foglio, Giuseppe Sottile il mese scorso, leggendo tra le righe dell’audizione del procuratore palermitano Nino Di Matteo nella compiacente sede della commissione Antimafia presieduta dall’ineffabile Rosy Bindi. Ricominciava in grande stile la caccia al “Caimano”, già fallita a Firenze, a Caltanissetta, alla procura nazionale Antimafia, dove il sostituto di Grasso incaricato dell’inchiesta, Gianfranco Donadio aveva combinato tali pasticci da finire sotto inchiesta del Csm lui stesso.
Di Matteo riapre la caccia a Berlusconi. Vigilia d’elezioni, si replica. L’antimafia chiodata comincia a far festa, scrive Giuseppe Sottile il 23 Settembre 2017 su "Il Foglio". Provate ad accostare l’orecchio per terra e a sintonizzarvi con le caverne di Palermo. Scoprirete che un delirio fescennino attraversa in queste ore le ultime falangi dell’antimafia chiodata. Le frange più estreme e belluine annusano già l’odore del sangue e sono tutte lì a far festa: credono che il giorno della Grande Vendetta sia ormai vicino e non vedono l’ora di accendere i roghi, di rimontare i patiboli, di ridare fiato alle trombe della gogna e dello sputtanamento. La festa malsana è cominciata la settimana scorsa quando il pubblico ministero Nino Di Matteo è stato amorevolmente ascoltato dalla commissione parlamentare Antimafia, quella presieduta dall’onorevole Rosy Bindi. In quella sede, così autorevole e anche così roboante, il pm palermitano ha annunciato che per disvelare le trame occulte dell’ultimo mezzo secolo di storia repubblicana, il mastodontico processo sulla Trattativa non basta più. Bisogna andare oltre quel patto maledetto tra i boss di Cosa nostra e alcuni pezzi delle istituzioni. E per andare oltre bisognerà partire dalle confidenze che il boss mafioso Giuseppe Graviano, detenuto nel carcere duro di Ascoli Piceno, ha fatto durante la consueta ora d’aria al camorrista Umberto Adinolfi, suo compagno di socialità. Confidenze clamorose, ovviamente, che gli agenti di polizia hanno puntualmente registrato e consegnato nelle mani dell’indomabile Di Matteo. “Berlusca mi ha chiesto questa cortesia, per questo è stata l’urgenza”, diceva Graviano al suo compagno di sventura, passeggiando nel cortile del carcere. E aggiungeva: “Lui voleva scendere in politica però in quel periodo c’erano i vecchi e lui mi ha detto: ci vorrebbe una bella cosa”. La due frasi significano tutto e niente. Volendo, potrebbero anche essere relegate nel vasto immondezzaio delle nefandezze gratuite, delle rivelazioni prive di qualsiasi riscontro. Ma per Di Matteo – il pm più scortato d’Italia – le parole di Graviano non possono cadere nel vuoto. Bisogna riavvolgere il nastro e tornare all’ipotesi più scellerata e all’un tempo più suggestiva: sarebbe stato Silvio Berlusconi a invocare le stragi con le quali la mafia, a partire dal maggio del 1992, ha sparso morte e terrore a Palermo, a Roma, a Firenze fino a Milano. Sarebbe stato lui uno degli inafferrabili “mandanti esterni”. Lo avrebbe fatto per scendere in campo e vincere facile dentro un deserto di sangue e di paure. Sarebbe stato lui a chiedere alle belve mafiose di scatenare la fine del mondo. Sì, proprio lui, il Cavaliere di Arcore, il Caimano più odiato dalle anime belle della sinistra, il leader politico che dopo vent’anni di permanenza sulla scena del potere sembrava già morto e sepolto e invece è improvvisamente risorto, al punto che medita di riprendersi tutto quello che ha lasciato nel 2011, quando fu costretto a mollare Palazzo Chigi e a cedere le leve del governo a Mario Monti. Ce la farà? Il voto è previsto per la prossima primavera e il pronostico, pur segnalando un ottimo piazzamento, lascia comunque ampio spazio alla mutevole bizzarria della politica. Ma una certezza c’è già. Ed è che la caccia grossa all’uomo politico più perseguitato d’Italia è già ricominciata. Ciak, si rigira. Di Matteo e gli altri tre magistrati che, nell’aula bunker dell’Ucciardone, rappresentano la pubblica accusa nel processo Trattativa, hanno già trasmesso le registrazioni, con le parole di Graviano, alle procure di Firenze e Caltanissetta. L’obbligatorietà dell’azione penale – quel grande vessillo costituzionale che tutto copre e tutto assorbe – costringerà i capi dei due uffici giudiziari a riaprire le indagini che vent’anni fa erano già state abbondantemente fatte ma senza risultati concreti: Firenze, competente per la strage di via dei Georgofili, aveva archiviato la sua inchiesta nel 1998; mentre la procura di Caltanissetta, che si era spinta a ipotizzare – su input dello stesso Di Matteo, allora applicato a quell’ufficio – un ruolo di Berlusconi e di Marcello Dell’Utri nel massacro del giudice Paolo Borsellino, aveva rinunciato a ogni velleità investigativa già nel 2002, con una richiesta di archiviazione sottoscritta dal procuratore Giovanni Tinebra e dai sostituti Francesco Paolo Giordano e Salvatore Leopardi. Non solo. Dopo la resa di Caltanissetta il gioco era stato preso in mano dalla Direzione nazionale antimafia, allora diretta da Pietro Grasso, oggi presidente del Senato, con una indagine a dir poco monumentale affidata al sostituto Gianfranco Donadio. Il quale, manco a dirlo, a forza di indagare a destra e a manca e di seguire tutte le piste possibili, ha scavalcato ogni confine, anche quello della decenza, ed è finito sotto inchiesta del Consiglio superiore della magistratura. I numeri sono enormi. Pur di incastrare i fantomatici registi occulti delle stragi, l’irriducibile Donadio ha inviato 600 richieste alla polizia giudiziaria e si è avventurato in 119 colloqui investigativi dentro e fuori le carceri con pentiti, collaboratori di giustizia e malacarne di ogni risma. Ma non ha portato a Grasso il benché minimo risultato. Gli ha consegnato solo un guazzabuglio di carte inutili e di sovrapposizioni dannose per le indagini che nel frattempo erano state disposte da quelle stesse procure distrettuali che Donadio aveva accuratamente trascurato di informare. Da qui il procedimento disciplinare avviato dal Csm. Miseramente crollati i castelli di sabbia costruiti da Donadio, la caccia grossa ai mandanti occulti e in particolare a Berlusconi poteva anche ritenersi chiusa. Invece no. Le parole di Graviano, pronunciate con la tecnica mafiosissima del dire e del non dire, consentiranno a Di Matteo di riaprire la partita giudiziaria attorno al Cav. Il boss quasi certamente sarà convocato come testimone nel traballante processo sulla Trattativa, le cui udienze, sospese per le ferie, sono riprese ieri; la deposizione avrà inevitabilmente una chiassosa risonanza mediatica e il frastuono creato da giornali e talk-show finirà quasi certamente per avere un pesante riflesso sull’imminente campagna elettorale. Il tentativo dei pm dentro l’aula bunker sarà, ufficialmente, quello di trovare le prove di una complicità che in vent’anni di indagini, di processi, di insinuazioni e di ammiccamenti non sono state trovate. Ma se l’effetto mediatico si può già dare per scontato, sarà molto più difficile prevedere il risultato che la testimonianza di Graviano potrà avere sul piano strettamente giudiziario. La Corte, dal presidente Alfredo Montalto fino ai giudici popolari, vuole prove e riscontri; la santabarbara della retorica e delle mezze frasi non scuote più nessuna coscienza. Le parole di Graviano – ammesso che il boss di Brancaccio le abbia pronunciate senza sapere di essere intercettato – sono estremamente vaghe: che l’invito a “una bella cosa” sia una istigazione alle stragi è tutto da dimostrare. Ma all’interno di quelle chiacchiere Di Matteo ha colto – almeno così ha detto alla Bindi – un’assonanza con le dichiarazioni rilasciate una ventina di anni fa dal pentito Salvatore Cancemi, quel mafioso di mezza tacca che, durante la sua lunga carriera di collaboratore di giustizia, non solo ha mostrato una straordinaria abilità nelle dichiarazioni a rate ma ha avuto pure la tracotanza di paragonare se stesso a “una vite arrugginita, per svitare la quale ci vuole tempo, molto tempo”. Infatti impiegò tre anni, dal ’93 al ’96, prima di ammettere le sue colpe. Poi, quando capì che i pm di Caltanissetta avevano fretta di stringere il cerchio attorno a Berlusconi, impapocchiò di avere sentito dire, nel suo perenne vagare tra una cosca e l’altra, che Totò Riina, il capo dei sanguinari corleonesi, andava spavaldamente affermando che Berlusconi e Marcello Dell’Utri “erano soggetti da appoggiare ora e in futuro”. Chiacchiere, soltanto chiacchiere. Ma era semplicemente un’altra chiacchiera, un’altra scempiaggine lanciata tra i piedi dei magistrati da un pentito “anguilloso” che, come tutti i boss murati nelle patrie galere, tentava solo di cavarsela senza pagare eccessivamente dazio. Lo scrive a pagina 71 della sua archiviazione il gip di Caltanissetta, Giovanbattista Tona, dopo avere letto e valutato 21 faldoni di carte trasmessi al suo ufficio dalla procura: “Le progressive e anguillose propalazioni di Cancemi sono viziate dalla sua costante propensione a ridimensionare il proprio ruolo nei reati contestatigli”. Un pataccaro e nulla più verrebbe da dire, se non ci fosse il timore di ingelosire il principe dei pataccari, cioè quel Massimo Ciancimino che non a caso è stato trasformato in una “icona dell’antimafia” e che, nonostante i suoi processi per calunnia e i suoi giochi proibiti con il tritolo, resta tuttora il testimone chiave della fantomatica Trattativa. A questo punto si pone però una domanda. Se questo è il labirinto di frastuono e ambiguità dentro il quale si muovono i personaggi e gli interpreti del drammone giudiziario, riuscirà Di Matteo a infilzare in un’aula di tribunale l’imputato Silvio Berlusconi? L’obiettivo del magistrato antimafia più famoso d’Italia – ha ricevuto oltre cento cittadinanze onorarie e tra queste, anche quella di Roma consegnatagli dalle mani della grillina Virginia Raggi – non è certo quello di trascinare in galera il capo di Forza Italia: non c’è un fatto personale, non ci sono scommesse da vincere o da perdere. C’è semmai la voglia, tenace e testarda, di scoprire la verità, tutte le verità. Ma la missione, per quanto nobile, nasconde un dettaglio non secondario. Di Matteo – ha scritto ieri nel suo editoriale Giorgio Mulè, direttore di Panorama – non è una toga qualunque confusa nel mare grande di altre ottomila toghe, “ma un magistrato ‘adottato’ a sua risaputa dai 5 stelle e addirittura indicato come prossimo ministro dell’Interno” da Beppe Grillo, padre padrone del Movimento. Una sottolineatura alla quale Mulè lega inesorabilmente un dubbio: può un magistrato così esposto andare in Parlamento e chiedere pubblicamente, come fosse un tribuno qualsiasi, di riaprire “immediatamente” una inchiesta, indicando in Berlusconi, casualmente nemico politico dei Cinque stelle, il principale soggetto su cui indagare? Il dubbio di Mulè resterà probabilmente senza risposta: l’immagine che una larga opinione pubblica si è fatta di Nino Di Matteo è quella dell’eroe in lotta contro la corona unita del male. Una corona larga dentro la quale i supporter del pubblico ministero più minacciato d’Italia – riuniti nella Confraternita delle Stimmate, che è un sito specializzato nel mascariamento e nel linciaggio di chi non è d’accordo con le tesi della Trattativa – hanno inserito non solo i boss e i picciotti della mafia siciliana ma anche i cosiddetti “poteri occulti”. Finora il nome più altisonante dato in pasto, con furia talebana, agli insulti e agli sputacchiamenti del web è stato quello dell’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, colpevole di avere chiesto alla Corte costituzionale – e non a una cupola mafiosa, si badi bene – di impedire che i pm della Trattativa rendessero pubbliche le registrazioni di quattro sue conversazioni private con Nicola Mancino, imputato di falsa testimonianza. Ma da oggi tra i bersagli immobili della buffonesca Confraternita ci sarà anche Silvio Berlusconi e, con lui, chiunque si azzarderà a criticare il potere di Nino Di Matteo: magistrato coraggioso, ma con un posto assicurato di ministro nel futuro governo dei grillini. Viva l’Italia.
Accuse firmate Di Matteo Il pm che aspira a fare il ministro grillino. Il nuovo filone aperto su input del magistrato palermitano. Con un triplo obiettivo sul Cav, scrive Mercoledì 01/11/2017 "Il Giornale". Quando un magistrato - e Nino Di Matteo è il magistrato antimafia più famoso d'Italia - si schiera a favore di un partito, che è il M5S, si espone al sospetto che i suoi atti giudiziari non siano imparziali. Ecco perchè oggi che Silvio Berlusconi si ritrova indagato per le stragi mafiose dalla Procura di Firenze, su input del pm di Palermo, quel sospetto è legittimo. Anche per la tempistica. Che il leader di Forza Italia sia un avversario temibile per Grillo & company è evidente e la notizia arriva alla vigilia del suo arrivo in Sicilia, per le elezioni regionali di domenica in cui si fronteggiano il candidato governatore del centrodestra Nello Musumeci e quello del M5S Giancarlo Cancelleri. Elezioni che avranno una forte ricaduta sul voto nazionale di primavera e prima di allora potrebbe arrivare la sentenza di Strasburgo sulla candidabilità di Berlusconi. Su tutto questo peserà la nuova inchiesta. E Di Matteo, pm del processo sulla Trattativa Stato-mafia che ha colpito anche il Quirinale, ha espresso le sue simpatie per i 5Stelle, lodandone il codice etico e partecipando con il collega Piercamillo Davigo ad incontri pubblici, è stato indicato come futuro ministro dell'Interno di un governo grillino e gli sarebbe stata offerta anche la candidatura a governatore in Sicilia. Al convegno del M5S sulla giustizia a Montecitorio di fine maggio, disse che non lo «scandalizzava» l'impegno politico di un pm, solo che doveva essere una scelta «definitiva». Senza smentire la sua disponibilità per il Viminale. Ecco allora che il fatto che Di Matteo abbia sollecitato i colleghi fiorentini per l'apertura di una nuova inchiesta, per riproporre le accuse contro il Cavaliere archiviate nel 2011, ha il suo peso. A settembre, alla commissione parlamentare Antimafia, aveva detto proprio questo: che il processo sulla Trattativa non bastava più e bisognava andare oltre, partendo appunto dalle frasi intercettate del boss mafioso Giuseppe Graviano. Frasi che per i pm indicherebbero in Berlusconi il «mandante» delle stragi del 1992-1993. Ora il suo desiderio di riaprire la partita giudiziaria contro il Cav è stato esaudito, ma il sospetto che tutto rientri una strategia politica, come evitarlo? Di Matteo, sotto scorta dal 1993, è ora sostituto alla Direzione nazionale antimafia, ma concluderà il processo di Palermo, ereditato dall'altra toga passata (senza successo) alla politica, Antonino Ingroia e il 14 dicembre pronuncerà la sua requisitoria. Ha più di 100 cittadinanze onorarie, anche quella consegnatagli dalla sindaca grillina di Roma Virginia Raggi. E il suo futuro, giurano in tanti, sarà in politica. Avrà messo in conto le accuse, pronto ad appuntarsele sul petto come medaglie. «Come sempre da oltre 20 anni, a ridosso di una competizione elettorale, a pochi mesi dalle elezioni nazionali e nel giorno in cui Berlusconi sarà in Sicilia, è stata pubblicata la notizia di una nuova indagine nei suoi confronti», protesta il senatore-avvocato di Fi Niccolò Ghedini, chiedendo al Guardasigilli Orlando di indagare sulla fuga di notizie. «Ridicolo indagare Berlusconi per le stragi di mafia», dice il leader della Lega Matteo Salvini. «Altra campagna elettorale, altra indagine su Berlusconi», fa eco la presidente di Fdi Giorgia Meloni.
Una caccia alle streghe lunga 19 anni sempre finita in una bolla di sapone. Le indagini aperte su mafia e attentati non hanno partorito nemmeno un processo. Solo frasi mai accertate e archiviazioni, scrive Stefano Zurlo, Mercoledì 01/11/2017 su "Il Giornale". Diciannove anni e siamo sempre allo stesso punto: Berlusconi stragista e bombarolo. Sembra impossibile, ma questa sorta di fiction lunare rinasce sempre dalle ceneri della propria paranoica inconsistenza e incrocia puntualmente procure e magistrati disposti a scriverne un'altra polverosissima puntata, in vista della successiva, inevitabile archiviazione. È così dal 21 gennaio 1998, quando un boss della Cupola, Salvatore Cancemi, mette a verbale le prime farneticazioni sui presunti sotterranei rapporti fra il Cavaliere e, nientemeno, il capo dei capi Totò Riina. Un romanzo sgangherato e sconvolgente, riproposto nel decennio successivo da un collaboratore, Gaspare Spatuzza, che tutti considerano affidabile ma che naturalmente parla de relato, ripropinato ora da Giuseppe Graviano, intercettato nella sua cella e vai a sapere se suo malgrado oppure no. Tre mafiosi, tre indagini che finora non sono arrivate a nulla e non hanno partorito un processo che non avrebbero potuto sostenere con la loro feroce e spropositata vaghezza, ma proprio per questo i pm di mezza Italia ad ogni stormir di fronda sono titolati a riaprire il librone e a rianimarlo per un po', fra veleni e appuntamenti elettorali. Come in questa tornata: il Cavaliere scende in Sicilia per le regionali e subito gli appiccicano addosso le frasi ad effetto di Graviano che tutto è fuorché un pentito. E però la procura di Palermo e Nino Di Matteo, il pm di punta che non disdegna gli applausi grillini, hanno provato a irrobustirle e trasformarle in accuse, poi visto che tanto per cambiare non si andava da nessuna parte, hanno recapitato il pacco a Firenze. Il gioco dell'oca riprende da una delle tante caselle attraversate - ci sia permessa la semplificazione un po' brutale - da un'unica grande inchiesta che si è poi divisa in tanti fascicoli diversi: quella su Berlusconi e Cosa nostra. Un'indagine in cui, in una successione incredibile, al Cavaliere sono state attribuite tutte le parti in commedia: vittima di Cosa nostra e dunque, tramite il vicinissimo ma infido Dell'Utri, alla ricerca di coperture e garanzie; poi autore di un patto scellerato con l'ala stragista e sanguinaria dei Corleonesi per fermare la mattanza senza fine dell'orrendo biennio 92-93. Infine, non partner di un gioco sporco ma addirittura complice con le mani macchiate dal sangue innocente.
Si comincia a Palermo con lo storico fascicolo 60/31 del 1994, si prosegue con capi d'imputazione che si sdoppiano, emigrano, evaporano e ricompaiono come i fiumi del Carso. Nel tempo Berlusconi è stato indagato per concorso esterno, e ancora riciclaggio per l'odore dei soldi, ma la contestazione più tremenda fa capolino nel '98 a Caltanissetta, con le dichiarazioni di Cancemi. Frasi sconvolgenti, persino ridicole nella loro tragicità. E che non hanno mai trovato la minima pezza d'appoggio: «Berlusconi era nelle mani di Riina» e ancora «Riina diceva che Berlusconi e Dell'Utri erano il nostro futuro». Ma non il futuro dell'inchiesta che dopo tanto clamore finì sul solito binario morto. Nel 2008 Firenze riapre le pagine ormai ingiallite e le riattualizza sfruttando il racconto di Gaspare Spatuzza che riporta a sua volta le confidenze di Giuseppe Graviano sul duo Dell'Utri-Berlusconi. Le suggestioni però non portano lontano. E oggi Firenze si appiglia alle cimici e direttamente ai messaggi in codice, inconsapevoli, di Graviano.
Il vero movente delle stragi del 1993, scrive Giovanna Maggiani Chelli, Presidente Associazione familiari vittime della strage di via dei Georgofili, l'8 dicembre 2012 su "Il Fatto Quotidiano". Quando nel 1993 il Paese è saltato in aria con l’utilizzo di quasi 1000 chili di tritolo da parte della mafia “cosa nostra”, con sette eventi di strage in meno di un anno il Capo del Governo Tecnico era Ciampi, il ministro dell’Interno Nicola Mancino, il Guardasigilli Giovanni Conso, il presidente della Camera Giorgio Napolitano, il presidente del Senato Giovanni Spadolini, il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. A parte Giovanni Spadolini e Luigi Scalfaro, Iddio li abbia in gloria, sono tutti vivi e vegeti, solo un po’ anziani, ma tutti in grado di intendere e di volere. Quindi per 20 lunghissimi anni abbiamo chiesto a questi uomini di Stato in tutti i modi possibili di darci quella verità completa alla quale abbiamo diritto, avendo visto i nostri figli morti carbonizzati e infilzati dalle schegge di legno dell’Accademia di via dei Georgofili e tanti dei nostri ragazzi li abbiamo invalidi anche all’80% della loro capacità lavorativa. I suddetti uomini di Stato di cui sopra, ci hanno sempre risposto gentilmente che la verità sulla strage di via dei Georgofili era la loro priorità di vita. Non è vero, la priorità di vita di chi nel 1993 governava questo Paese, secondo noi, è stata quella di legare l’asino dove vuole il padrone, ovvero quei padroni (industriali, militari, prelati, banchieri, politici) che nel 1993 erano legati ai grandi traffici e nel mirino della Tangentopoli che infuriava.
Quindi i governanti del 1993, ne hanno inventata una al giorno, per nascondere che in Italia negli anni delle stragi 1993-1994 più che mai si è trattato con la mafia a suon di 41 bis per gli ovvii motivi. Questa è stata la ragione di vita dei governanti del 1993, ma non solo di quelli del 1993, è una ragione che ha animato tutti i governanti fino ai giorni nostri. Infatti se è pur vero che con la mafia ogni Governo ha avuto a che fare, come più illuminati di noi dicono, è altrettanto vero che nel 1993 la posta in gioco era molto, molto più alta. La mafia nel 1993 minacciava di ucciderne ancora di politici dopo Salvo Lima, bisognava quindi correre ai ripari con urgenza. La trattativa Stato mafia è servita quindi a salvare la vita ai politici vari minacciati dopo la morte di Salvo Lima, così come è servita salvando codesti signori, a nascondere, secondo la nostra opinione, il vero movente delle stragi del 1993, movente sia per parte mafiosa, sia per parte statale. Infatti è nostra opinione che con l’uccisione dei politici vari messi in elenco dalla mafia il coperchio sarebbe saltato e si sarebbero scoperte le conseguenze prodotte dal decreto del 1991 che aggirava la legge Goria del 1988. Infatti l’Italispaca – Società nazionale del gruppo I.R.I, a partecipazione statale, che avrebbe dovuto gestire un intero pacchetto di opere pubbliche da realizzare a Palermo e Catania lontano da possibili condizionamenti illegali degli enti locali siciliani, istituita nel 1988 dall’allora Governo Goria, spostava a Roma il centro decisionale degli appalti siciliani, ma nel 1991 viene stabilito con un decreto che si trasferisse alla Regione la competenza su quelle opere, vendita delle armi compresa, che avrebbe dovuto gestire Palazzo Chigi. Ovvero, l’appello del 1988 a decidere lontano dalla Sicilia, nel 1991 viene aggirato. E questo per un triennio. Siamo alla vigilia delle stragi a Roma, Firenze, Milano. Forse è per questo che continuano a dire “non lo dirò mai”, perché se “Così lo Stato finanziò le imprese mafiose” sarebbe davvero troppo grave. Ma ormai ci sono stati i morti innocenti e invalidi gravissimi che sono stati risarciti una tantum anche se peggiorano le loro condizioni di vita, quindi se ne facciano una ragione, la verità va scritta sulla carta bollata in un processo per strage a Firenze e non ancora con nomi di mafiosi concorrenti nel reato rispetto ai processi chiusi in Cassazione del 2002.
SILVIO BERLUSCONI E LE ACCUSE DI MAFIOSITA'.
«Darei un premio speciale a Silvio Berlusconi e al suo governo per la lotta alla mafia. Ha introdotto delle leggi che ci hanno consentito di sequestrare in tre anni moltissimi beni ai mafiosi. Siamo arrivati a quaranta miliardi di euro». Lo dice il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso alla Zanzara su Radio 24 del 12 maggio 2012. «Poi su altre cose che avevamo chiesto, norme anticorruzione, antiriciclaggio, stiamo ancora aspettando». Ma chi voterà come sindaco di Palermo? «Un magistrato - dice Grasso A Radio 24 - non deve far conoscere le sue preferenze politiche. Al primo turno delle comunali mia moglie mi ha chiesto per chi avessi votato e io le ho risposto: non te lo dico. Si è pure arrabbiata». Poi Grasso critica il pm Antonio Ingroia: «Fa politica utilizzando la sua funzione, è sbagliato. Come ha sbagliato ad andare a parlare dal palco di un congresso di partito (comunisti italiani). Deve scegliere. E per me è tagliatissimo per fare politica». Un'intervista, quella al procuratore nazionale antimafia, che alcuni hanno letto come il preludio di un suo impegno diretto in politica. Ma la reazione dei magistrati di sinistra, (come quella di Marco Travaglio che li osanna) che sono poi quelli che detengono le redini della magistratura, o comunque che fanno più rumore, non si fanno attendere. Per Magistratura Democratica sono 'sconcertanti' le parole del Procuratore Nazionale Antimafia Pietro Grasso sulla politica del governo Berlusconi in tema di lotta alla mafia. «Sui sequestri -dice Piergiorgio Morosini, segretario generale di Magistratura Democratica- ci sono leggi collaudate già da qualche decennio e gli esiti positivi degli ultimi anni, in materia di aggressione ai patrimoni mafiosi, sono dipesi dallo spirito di abnegazione e dalla capacità professionale delle forze dell'ordine e della magistratura. Dobbiamo ricordarci, in proposito, che la denigrazione sistematica del lavoro dei magistrati non può essere certo annoverata tra le azioni favorevoli alla lotta alla mafia. Il Codice Antimafia, poi, varato nel biennio 2010-2011, a detta di esperti, a livello accademico e giudiziario, brilla per inadeguatezze e lacune. Inoltre -continua- il governo Berlusconi non ha fatto nulla in tema di evasione fiscale e lotta alla corruzione che sono i terreni su cui attualmente si stanno rafforzando ed espandendo i clan. Per non parlare delle leggi che hanno agevolato il rientro in Italia di capitali mafiosi nascosti all'estero e della mancata introduzione di norme in grado di colpire le alleanze nell'ombra tra politici e boss. Si aggiunga che non c'è stata nessuna novità in tema di lotta al riciclaggio e ci sono stati reiterati tentativi per indebolire il decisivo strumento investigativo delle intercettazioni. In altri termini -conclude Morosini- la politica antimafia del centrodestra ricorda piuttosto il titolo di un noto brano del cantautore emiliano Ligabue “Tra palco e realtà”: tanti proclami e poca sostanza». «Grasso non fa che affermare una evidente verità. È stato tutto il centrodestra a condurre una rigorosa e seria azione legislativa e politica antimafia che la sinistra non si è mai sognata di realizzare - ha commentato il presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri - Voglio ricordare che abbiamo rafforzato il 41bis garantendo l’applicazione del carcere duro in maniera ampia, a differenza di quanto fecero Mancino, Scalfaro, Ciampi e Amato che arresero lo Stato alla mafia - ha proseguito Gasparri -. E vedere poi Giuliano Amato, sotto il cui regno il 41bis veniva cancellato.
Riina in carcere ordina l'attentato a Di Matteo. "Deve succedere un manicomio...", scrive “La Repubblica”. I colloqui del "Capo dei capi" con il boss della Sacra corona unita Alberto Lorusso: "Perché questo Di Matteo non se ne va, gli hanno rinforzato la scorta, e allora se fosse possibile ucciderlo, un'esecuzione come a quel tempo a Palermo, con i militari". "Berlusconi perché si è andato a prendere lo stalliere?" Ecco le intercettazioni.
Parla il boss: "Io, il mio dovere l'ho fatto. Ma continuate, continuate... qualcuno, non dico magari tutti, ma qualcuno, divertitevi...". Divertirsi per Totò Riina significa fare stragi. E uccidere i magistrati che indagano su di lui nell'inchiesta sulla trattativa fra Stato e mafia. Divertirsi per lui significa anche far fuori "tutte le paperelle " che stanno intorno ai giudici, gli agenti delle scorte. "Qua qua qua", ripete il capo dei capi di Cosa nostra mentre passeggia all'ora d'aria in un camminatoio del carcere milanese di Opera con un compagno detenuto, Alberto Lorusso, ufficialmente solo un affiliato alla Sacra Corona Unita, in realtà un personaggio forse legato agli apparati polizieschi. Gli dice Riina: "Deve succedere un manicomio, deve succedere per forza, se io restavo sempre fuori, io continuavo a fare un macello, continuavo al massimo livello". Gli ribatte Lorusso: "Noi abbiamo un arsenale". Noi chi? È quello che stanno cercando di scoprire in Sicilia. Queste sono le prime intercettazioni del boss sulle minacce ai pm di Palermo, depositate agli atti del processo sulla trattativa.
SERVE UN'ESECUZIONE. Il 16 novembre 2013, alle ore 9.30, Totò Riina ordina l'eliminazione del pubblico ministero Nino Di Matteo "che deve fare la fine dei tonni". Intima: "E allora organizziamola questa cosa... Facciamola grossa e non ne parliamo più". Una telecamera nascosta riprende il boss mentre esce la mano sinistra dal cappotto e mima il gesto di fare in fretta. Aggiunge: "Perché questo Di Matteo non se ne va, gli hanno rinforzato la scorta, e allora se fosse possibile ucciderlo, un'esecuzione come a quel tempo a Palermo, con i militari". Riina ha un odio viscerale contro questo pubblico ministero, che con i suoi colleghi (Del Bene, Tartaglia e Teresi), sta scavando dentro i misteri della trattativa: "Vedi, vedi... si mette là davanti, mi guarda con gli occhi puntati ma a me non mi intimorisce, mi sta facendo uscire pazzo... come ti verrei ad ammazzare a te, come a prendere tonni. Ti farei diventare il primo tonno, il tonno buono. Ancora ci insisti? Minchia...perché me lo sono tolto il vizio? Me lo toglierei il vizio? Inizierei domani mattina".
LA TRATTATIVA E LO STATO. Il capomafia di Corleone - che non ha mai perso un'udienza del processo per la trattativa - sembra furioso per come l'hanno trascinato nell'inchiesta sui patti fra lo Stato e Cosa nostra a cavallo delle stragi del 1992. E ancora una volta la sua ira si scatena contro il pm palermitano: "Questo Di Matteo, questo disonorato, questo prende pure il presidente della Repubblica... Questo prende un gioco sporco che gli costerà caro, perché sta facendo carriera su questo processo di trattativa... Se gli va male questo processo lui viene emarginato ". E prevede: "Io penso che lui la pagherà pure... lo sapete come gli finisce a questo la carriera? Come gliel'hanno fatta finire a quello palermitano, a quello... Scaglione (il procuratore ucciso a Palermo nel 1970 ndr), a questo gli finisce lo stesso". Poi Lorusso lo informa di quanto ha sentito in televisione: "Dicevano che il presidente della Repubblica non deve andare a testimoniare, ci sono un sacco di politici, partiti, che dicono che non deve andare a testimoniare". Gli risponde Riina: "Fanno bene, fanno bene…ci danno una mazzata... ci vuole una mazzata nella corna a quelli di Palermo". Lorusso incalza: "Sono tutti con Napolitano, lui è il Presidente della Repubblica e non ci deve andare". Riina azzarda: "Io penso che qualcosa si è rotto...".
SILVIO E I GRAVIANO. Il 6 agosto, Riina chiede a Lorusso cosa dicono i telegiornali di quel "buffone" di Berlusconi. Il boss pugliese risponde che a Roma "stanno vedendo come fare per salvarlo ". E a questo punto Riina si lancia in un'altra delle sue invettive: "Noi su Berlusconi abbiamo un diritto: sapete quando? Quando siamo fuori lo ammazziamo". E subito dopo: "Non lo ammazziamo però perché noi stessi non abbiamo il coraggio di prenderci il diritto". Il 25 ottobre il boss di Corleone ritorna a parlare del Cavaliere. E anche dei fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, i boss di Brancaccio sospettati di avere avuto molti contatti economici con l'imprenditoria di Milano. Di loro dice: "Avevano Berlusconi... certe volte...". Segue un'altra parola, incomprensibile. Ma, adesso, Riina lascia intendere che ha qualche riserva anche sui suoi fedelissimi di un tempo, i Graviano.
LE RISERVE SULL'EREDE. C'è grande fibrillazione al vertice di Cosa nostra. Non sono soltanto i Graviano a preoccupare Riina. A lui non piace neanche la strategia del superlatitante Matteo Messina Denaro: "A me dispiace dirlo, questo signor Messina Denaro, questo che fa il latitante, questo si sente di comandare, ma non si interessa di noi". È davvero un giudizio duro. "Questo fa i pali della luce - aggiunge, riferendosi al business dell'energia eolica in cui Messina Denaro è coinvolto - ci farebbe più figura se se la mettesse in culo la luce". E lo accusa di interessarsi solo ai suoi affari. "Fa pali per prendere soldi", dice.
CAPACI E VIA D'AMELIO. "Loro pensavano che io ero un analfabeticchio, così la cosa è stata dolorante, veramente fu tremenda, quanto non se lo immaginavano". Sono le parole con le quali Totò Riina rievoca i giorni della strage di Capaci. "Abbiamo cominciato a sorvegliare, andare e venire da lì, dall'aeroporto... siamo andati a Roma, non ci andava nessuno, non è a Palermo...fammi sapere quando può arrivare in questi giorni qua. Andammo a tentoni, fammi sapere quando prende l'aereo ". Ma resta un discorso a metà. Da chi i mafiosi dovevano sapere dell'arrivo di Falcone a Palermo? Lo stesso mistero resta nei discorsi che Riina fa sulla strage Borsellino: "Cinquantasette giorni dopo, minchia, la notizia l'hanno trovata là dentro... l'hanno sentita dire... domenica deve andare da sua madre, deve venire da sua madre... gli ho detto... ah sì, allora preparati, aspettiamolo lì". Chi aveva comunicato ai mafiosi che Borsellino sarebbe andato da sua madre domenica pomeriggio? Riina fa riferimento a "quello della luce... anche perché ... sistemati, devono essere tutte le cose pronte, tutte, tutte, logicamente si sono fatti trovare pronti. Gli ho detto: "Se serve mettigli qualche cento chili in più...". E dopo la strage del 19 luglio, il mistero della scomparsa dell'agenda rossa di Paolo Borsellino. "Si fottono l'agenda, si fottono l'agenda". Ma chi? Anche questo resta un mistero.
IL PAPA E LA GRAZIA. "Non gliene capiteranno più di nemici, così, come me. Gliene è capitato uno e gli è bastato, se ne devono ricordare per sempre... gli ho fatto ballare la samba", dice Riina parlando di se stesso. Poi, scherza: "Io cerco la grazia, ma chi me la deve dare la grazia? Come me la devono dare? Minchia loro non sanno, non sanno, ma il Signore gliela paga, gliela ripaga pure a loro". E alla fine cita il Pontefice "Questo è buono, questo papa è troppo bravo ".
LA MAIL SEGRETA. Totò Riina e Alberto Lorusso sono a conoscenza di una mail girata riservatamente sui pc di tutti i procuratori di Palermo. Ne fanno cenno, ricordando che i magistrati - qualche mese fa - volevano arrivare tutti in aula al processo sulla trattativa per solidarietà con Nino Di Matteo. Notizia segretissima. Eppure Totò Riina e il suo amico Lorusso, tutti e due al 41 bis, la conoscevano.
I GUAI DI BERLUSCONI. In una conversazione avvenuta il 20 settembre 2013, i due parlano dei "guai" dell'ex premier. Non si sa se guai giudiziari o di carattere politico. Rispondendo alle parole di Alberto Lorusso, che lo aggiorna sulle ultime notizie su Berlusconi, il capomafia di Corleone scuote la testa e dice: "Se lo merita, se lo merita. Gli direi io “ma perchè ti sei andato a prendere lo stalliere? Perchè te lo sei messo dentro?”. Secondo gli investigatori, Riina fa riferimento a Vittorio Mangano, lo stalliere di Arcore, condannato per mafia, morto qualche anno fa. Sempre parlando di Mangano, Riina in quella stessa conversazione, parte della quale omissata dai magistrati della Dda, aggiunge poi: "Era un bravo picciotto (uomo ndr.) mischino (poverino ndr), poi si è ammalato ed è morto".
IL FATTO DEL GIORNO di Giorgio Dell'Arti 19 luglio 2017. Borsellino e la strage di via D’Amelio 25 anni fa. Stasera, alle nove e mezza, Raiuno manda in onda Adesso tocca a me, fiction sul giudice Borsellino, ammazzato dalla mafia il 19 luglio 1992, venticinque anni fa oggi. Raimovie a sua volta mostra il film Era d’estate di Fiorella Infascelli. Si raccontano i 58 giorni che Falcone e Borsellino passarono, per ordine superiore, nel carcere dell’Asinara, con le mogli e Borsellino anche con i tre figli. Era la vigilia del maxi-processo e i due dovevano concludere le memorie e predisporre gli atti relativi: 474 mafiosi si sarebbero trovati, tutti insieme, sul banco degli imputati, 360 saranno condannati. Ai due giudici, dopo, lo Stato presentò il conto: mezzo milione da rimborsare, per l’alloggio nel carcere e i pasti. Nel film della Infascelli Borsellino è Beppe Fiorello. Nella fiction di Raiuno è Cesare Bocci, il poliziotto-seduttore delle avventure del commissario Montalbano.
Lei parla, come al solito, immaginando che tutti sappiano chi sia Paolo Borsellino.
Si tratta di un giudice. Stando a Palermo, indagava sulla mafia, insieme con Giovanni Falcone. Risultati notevolissimi, di cui beneficiamo ancora oggi. Falcone, 53 anni, l’avevano ammazzato col tritolo due mesi prima. Borsellino, nel luglio 1992, di anni ne aveva 52. Un uomo distratto, imprudente, in qualche modo, specie dopo il fatto di Falcone, rassegnato. Fumatore accanito (una sigaretta dietro l’altra). Durante la settimana aveva tre appuntamenti fissi: il Palazzo di giustizia, la chiesa di Santa Luisa di Marillac, la visita all’anziana madre. Gli avevano assegnato sei agenti di scorta. Il 19 luglio era una domenica. Borsellino passò la mattinata in casa di Giuseppe Tricoli, con la moglie Agnese e i due figli Manfredi e Lucia (la terza figlia, Fiammetta, era in vacanza all’estero). A un certo punto prese da parte questo amico suo Tricoli e gli disse: «Il tritolo per me è arrivato». Nel pomeriggio, portandosi dietro i sei agenti di scorta, andò a trovare la madre. La madre si chiamava Maria Lepanto e abitava in via D’Amelio. Ed ecco la sequenza. Il giudice e i sei della scorta arrivano sul posto alle 16.55. Borsellino scende dalla Croma, s’avvicina al portone, punta il dito sul campanello e in quel momento esplode una Fiat 126 parcheggiata davanti al civico 21 e imbottita di 90 chili di tritolo. Il giudice è fatto a pezzi, il suo collega Giuseppe Ayala, accorso sul posto, quasi inciamperà nel suo naso. Altri raccontano d’averne riconosciuta la testa, di aver creduto di scorgere, sotto i baffi, un leggero sorriso. L’esplosione gli aveva tranciato di netto braccia e gambe.
La scorta?
Agostino Catalano, Vincenzo Limuli, Walter Cosina, Claudio Traina, Emanuela Loi. Era la prima volta che mettevano una donna a far la scorta. Tutti morti. I vigili del fuoco si affrettarono a raccoglierne i resti e a ficcarli nei secchi prima che arrivassero i cani randagi. Un sesto agente, Antonino Vullo, stava manovrando una delle macchine che seguivano il magistrato e la scampò. Stasera, nella fiction su Raiuno, lo sentiremo dire: «Si capisce che non ci fu solo la mafia all’interno della strage di via D’Amelio. Sicuramente ci vorrebbe un pentito di stato per andare avanti con le indagini e arrivare alla verità».
Non ci sono state le indagini? Non c’è stato un processo?
Quattro processi, se è per questo. I primi tre determinati da un pentito fasullo, di nome Vincenzo Scarantino. Accusati da Scarantino, undici morti di fame si sono fatti un sacco d’anni di galera. Poi saltò fuori un altro pentito, di nome Gaspare Spatuzza, che accusò se stesso della strage, mentre il vecchio falso pentito confermava che era proprio così, l’assassino vero era Spatuzza. I mandanti sarebbero stati i fratelli Graviano, su mandato di Berlusconi e Dell’Utri. Di questa tesi gli inquirenti di Palermo si sono innamorati, facendone il perno della teoria relativa alla trattativa-stato mafia.
Come sempre, nelle storie italiane, superato il racconto della pura cronaca, si entra nella città dei misteri.
Lo so. La tesi, mai dimostrata, è la seguente: la mafia stava trattando con lo Stato perché il vecchio regime democristiano era crollato e bisognava intendersi con i nuovi padroni, cioè con il ceto politico di Berlusconi (che però, nel 1992, non era ancora sceso in campo). Falcone, Borsellino e le stragi del 1993 servivano a convincere la controparte. I politici, a trattare, ci stavano. Senonché Borsellino si mise di traverso: con i criminali, diceva, non si deve trattare. Per questo Totò Riina incaricò i due Graviano di sistemare la cosa e mettere il tritolo in via D’Amelio.
Graviano intercettato: adesso Firenze e Caltanissetta valutano se riaprire le indagini su Berlusconi per le stragi. Nei mesi scorsi i due uffici inquirenti, titolari delle inchieste sugli eccidi del 1992 e 1993, hanno partecipato a una serie di riunioni di coordinamento convocate dalla Direzione nazionale Antimafia. I pm della procura di Palermo, infatti, gli hanno girato le intercettazioni del boss di Brancaccio in carcere. Cinquemila pagine di registrazioni in cui il padrino - secondo gli investigatori - assegna all'ex premier il ruolo di ispiratore delle bombe del primi anni '90: accusa per la quale è già stato indagato e archiviato, scrive Giuseppe Pipitone il 9 giugno 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Adesso bisognerà vedere se la procura di Firenze o quella di Caltanissetta decideranno di riaprire le indagini su Silvio Berlusconi. Nei mesi scorsi i due uffici inquirenti, titolari delle inchieste sulle stragi del 1992 e 1993, hanno partecipato a una serie di riunioni di coordinamento convocate dalla Direzione nazionale Antimafia.
Alfa e Beta, Autore 1 e Autore 2 – Attraverso la coordinazione della Dna, infatti, il procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Teresi e i sostituti Nino Di Matteo, Roberto Del Bene e Roberto Tartaglia, hanno girato ai pm fiorentini e nisseni le intercettazioni dei colloqui tenuti in carcere dal boss Giuseppe Graviano, iscritto nel registro degli indagati per violenza o minaccia ad un corpo politico dello Stato nel fascicolo stralcio dell’inchiesta sulla Trattativa. Più di cinquemila pagine di conversazione, tutte registrate tra il 19 gennaio 2016 e il 29 marzo del 2017 in cui il mafioso di Brancaccio si confida con il camorrista Umberto Adinolfi. Quindici mesi in cui i due malavitosi parlano di tutto, dal calcio alla politica, ma è quando Graviano apre bocca che gli investigatori della Dia sottolineano in grassetto i brogliacci riepilogativi. Sì, perché il boss condannato per le stragi del 1992 e 1993 tira in ballo spesso proprio il nome di Berlusconi. Tra il 1996 e il 1998 l’ex premier e il suo braccio destro, Marcello Dell’Utri – sotto gli acronimi di Autore 1 e Autore 2 – sono stati indagati dalla procura di Firenze per concorso nelle stragi del 1993 in via dei Georgofili, in via Fauro a Roma e in via Palestro a Milano. Tra il 1998 e il 2002, invece, Berlusconi e Dell’Utri vennero iscritti nel registro degli indagati della procura nissena – indicati come Alfa e Beta – per concorso nella strage di via d’Amelio, dove il 19 luglio del 1992 vennero uccisi il giudice Paolo Borsellino e i cinque uomini della sua scorta.
La cortesia con urgenza – Sulla base delle intercettazioni di Graviano, dunque, i pm toscani e siciliani dovranno valutare se chiedere al gip di riaprire o meno le indagini su Berlusconi. Secondo gli investigatori palermitani nelle intercettazioni in carcere il boss di Brancaccio assegna all’ex premier il ruolo di ispiratore delle stragi del 1992 e 1993. Gli investigatori hanno puntato gli occhi soprattutto su una frase pronunciata dal mafioso in carcere: “Berlusca mi ha chiesto questa cortesia. Per questo è stata l’urgenza”, dice Graviano il 10 aprile del 2016. Poi aggiunge: “Nel ’92 già voleva scendere. Lui voleva scendere, però in quel periodo c’erano i vecchi e lui mi ha detto ci vorrebbe una bella cosa”. Un linguaggio che gli inquirenti interpretano come un’allusione alle stragi del 1992, in particolare a quella di via d’Amelio, con l’allora imprenditore Berlusconi che sarebbe già stato intenzionato a scendere in campo. Una ricostruzione avanzata più volte in tutti questi anni ma mai dimostrata, come testimoniano le archiviazioni di Firenze e Caltanissetta, ma anche la sentenza Dell’Utri che assolve definitivamente l’inventore di Forza Italia per i fatti successivi proprio all’anno zero della Repubblica: il 1992. Eppure è proprio dal marzo del 1992, poco dopo l’assassinio di Salvo Lima, che Dell’Utri incarica il politologo Ezio Cartotto: dovrà cominciare a studiare l’operazione Botticelli, dalla quale sarebbe poi nata Forza Italia. Il 21 maggio 1992, invece, Paolo Borsellino rilascia la famosa intervista al giornalista francese Fabrizio Calvi, quella in cui parla per la prima volta di Vittorio Mangano, lo stalliere di Arcore. Meno di due mesi dopo, il 19 luglio del 1992 ecco il botto di via d’Amelio: a schiacciare il telecomando che fece esplodere la Fiat 126 ci sarebbe stato – secondo il pentito Gaspare Spatuzza – proprio Giuseppe Graviano. È questa la “cortesia” di cui parla il capomafia di Brancaccio? E quale sarebbe stata l’urgenza? Forse le indagini di Borsellino su Mangano?
“Non volevano più le stragi” – O forse Graviano parla di altro? “Nel ’93 ci sono state altre stragi ma no che era la mafia. Loro dicono che era la mafia”, dice in un altro passaggio delle intercettazioni il boss. Ma se non erano stragi di mafia, di chi erano allora quelle bombe che vedono la piovra colpire per la prima volta fuori dalla Sicilia? Riferendosi all’epoca successiva, cioè al 1994, Graviano racconta al suo codetenuto: “Dovevamo accordare, alla fine c’erano tanti punti da risolvere invece si proseguì con questo. E intanto poi: è successo quello che è successo. Non volevano più le stragi allora io ho imboccato un altro “. Un altro chi? E chi sono quelli che non volevano più le stragi? Un passaggio che per gli inquirenti è da ricollegare ad un’altra conversazione: quando il 22 gennaio del 2016 Graviano si vanta con Adinolfi. “Lo sai cosa scrivono nelle stragi? Nelle sentenze delle stragi, che poi sono state assoluzione la Cassazione e compagnia bella: le stragi si sono fermate grazie all’arresto del sottoscritto”, dice portando la mano sinistra sulla pancia e indicando se stesso. E in effetti Graviano viene arrestato il 27 gennaio del 1994: da allora non un solo colpo sarà sparato nella Penisola, nuovo regno della pax mafiosa.
Il colpetto e lo stadio Olimpico – È per questo motivo che gli investigatori collegano queste conversazioni al fallito attentato dello stadio Olimpico, che doveva essere compiuto nelle prime settimane del 1994. È il “colpetto” che secondo il pentito Spatuzza si doveva dare per ordine dello stesso Graviano. Il collaboratore ha raccontato di aver incontrato il suo capomafia a Roma il 21 gennaio 1994. “Incontrai Giuseppe Graviano all’interno del bar Doney in via Veneto, a Roma. Graviano era molto felice, come se avesse vinto al Superenalotto, una Lotteria. Poi mi fece il nome di Berlusconi. Io gli chiesi se fosse quello di Canale 5 e lui rispose in maniera affermativa. Aggiunse che in mezzo c’era anche il nostro compaesano Dell’Utri e che grazie a loro c’eravamo messi il Paese nelle mani. E per Paese intendo l’Italia. Quindi mi spiega che grazie a queste persone di fiducia che avevano portato a buon fine questa situazione, che non erano come quei quattro crasti (cornuti ndr) dei socialisti”. A quel punto arriva la richiesta: “Graviano mi dice che l’attentato ai carabinieri si deve fare lo stesso perché gli dobbiamo dare il colpo di grazia”. Il riferimento è proprio all’attentato allo stadio Olimpico contro il pullman dei carabinieri che mantengono l’ordine pubblico durante le partite di calcio. Sarebbe stata l’ennesima strage di quel biennio: per fortuna salta, perché a detta di Spatuzza ci fu un problema al telecomando collegato all’autobomba.
“Si preoccupava: se questo parla a me mi arrestano subito” – Nello stesso periodo in cui Graviano incontra Spatuzza a Roma, proprio Dell’Utri si trova nella capitale a pochi metri dal bar Doney: il 22 gennaio 1994, infatti, era in programma una convention di Forza Italia all’hotel Majestic, sempre in via Veneto. Secondo gli accertamenti della Dia l’arrivo dell’ex senatore in albergo – a circa 50 metri dal bar Doney – è registrato il 18 gennaio. È possibile che Graviano abbia incontrato Dell’Utrinegli stessi giorni in cui dava quegli ordini a Spatuzza? Su Dell’Utri, Graviano ricorda soprattutto un episodio recente. “Noi – racconta al compagno d’ora d’aria – eravamo a testimoniare nel processo di Dell’Utri nel 2009. Perché si preoccupava. Dice: se questo parla a me mi arrestano subito. Umbè, ha fatto tutte cose così. Ora a me non mi interessa più niente”. Parole che fanno il paio con quello che Graviano rivolge sempre a Berlusconi. “Mi è successa una disgrazia, mi arrestano, tu cominci a pugnalarmi, per che cosa? Per i soldi, perché tu ti rimangono i soldi. Dice: non lo faccio uscire più, perché sa che io non parlo, perché sa il mio carattere”. Come dire: l’ex premier può stare tranquillo perché Giuseppe Graviano non è tipo da pentirsi.
“Ho messo mia moglie incinta al 41 bis” – Ovviamente c’è da capire se il boss di Brancaccio sapesse o meno di essere intercettato: se abbia cioè utilizzato le cimici della Dia a suo piacimento per inquinare le indagini. Per i pm della procura di Palermo non è così ed il motivo è da ricercare in un particolare abbastanza angosciante: passeggiando con Adinolfi, infatti, Graviano torna più volte sull’argomento della sua paternità. Ufficialmente nel 1996 Giuseppe Graviano e il fratello Filippo – detenuti al 41 bis già dal 1994 – sarebbero riusciti a fare uscire dal carcere le provette con il proprio liquido seminale, senza alcuna autorizzazione. È in quel modo misterioso che le loro mogli, Rosalia e Francesca, partorirono due bambini nati a distanza di poco più di un mese l’uno dall’altro.
“Nascosta tra la biancheria” – Una versione – quello del figlio in provetta – che viene adesso messa in dubbio da Graviano: secondo le confidenze fatte dal boss al suo compagno d’ora d’aria, sarebbe riuscito a mettere incinta la moglie all’interno del carcere. Alla donna sarebbe stato permesso di entrare nel penitenziario per giacere col marito. La stessa cosa sarebbe riuscita anche al fratello di Filippo. “Dormivamo nella cella assieme”, dice Graviano. “Mio figlio è nato nel ’97 – racconta – ed io nel ’96 ero in mano loro. Ti debbo fare una confidenza: prima di nascere il bambino, prima di incontrarmi con mia moglie, siccome una cosa del genere mi era successa in altre occasioni pure, io ho detto: no ci devo provare. Io sapevo che doveva venire la situazione, io tremavo…poi ad un certo punto … lei venne nascosta ni robbi (nascosta nella biancheria ndr) e dormivamo nella cella assieme. Cose da pazzi, tremavo. Quando è uscita incinta mi è finito quel tremolizzo, l’ansia che avevo”.
Ragionamenti genuini – I pm della procura di Palermo hanno scoperto che effettivamente per un periodo del 1996 i due fratelli Graviano furono detenuti nello stesso carcere, l’Ucciardone di Palermo. Il 28 marzo del 2017, quando vanno a interrogare Graviano gli contestano quindi anche quelle parole sulla paternità. Il boss non ha risposto alle domande dei pm e il giorno dopo l’interrogatorio torna a passeggiare con Adinolfi. Una volta nel cortile gli racconta che gli investigatori li intercettano da 15 mesi. “È sempre un fastidio – dice Adinolfi – ma noi non lo sapevamo, Però proprio perché non lo sapevamo, alla fine si ritrovano la genuinità dei ragionamenti che abbiamo fatto”. Poi a favore di cimice Graviano torna a parlare delle sua paternità, spiega al codetenuto che i pm “gli hanno contestato anche il fatto del figlio”. Quindi rilancia la storia delle provette e dice: “Capirono male”.
Paolo Borsellino, l'ultima intervista due mesi prima di morire. A 25 anni dall'attentato di Via D'Amelio, la trascrizione del colloquio tra il magistrato antimafia e due giornalisti francesi di Canal+. Il 21 maggio del 1992 raccontava i rapporti tra l'entourage di Silvio Berlusconi e Cosa Nostra. Due anni dopo l'Espresso ne pubblicava la trascrizione. Che oggi vi riproponiamo, scrive Fabrizio Calvi e Jean Pierre Moscardo il 18 luglio 2017 su "L'Espresso". «Gli imputati del maxiprocesso erano circa 800: furono rinviati a giudizio 475». Scelta l'inquadratura – Paolo Borsellino è seduto dietro la sua scrivania - Jeanne Pierre Moscardo e Fabrizio Calvi cominciano l'intervista domandando al giudice i dati sul maxiprocesso di Palermo del febbraio '86. Il giudice ricorda con orgoglio di aver redatto, nell'estate dell'85, la monumentale sentenza del rinvio a giudizio. Subito dopo, i due giornalisti chiedono notizie su uno di quei 475, Vittorio Mangano. E' solo la prima delle tante domande sul mafioso che lavorava ad Arcore: passo dopo passo, Borsellino - che con Giovanni Falcone rappresentava un monumentale archivio di dati sulle cosche mafiose- ricostruisce il profilo del mafioso. Racconta dei suoi legami, delle commissioni e delle sue telefonate intercettate dagli inquirenti in cui si parla di "cavalli". Come la telefonata di Mangano all’attuale presidente di Publitalia, Marcello Dell’Utri [dal rapporto Criminalpol n. 0500/C.A.S del 13 aprile 1981 che portò al blitz di San Valentino contro Cosa Nostra, ndr]. E ancora: domande sui finanzieri Filippo Alberto Rapisarda e Francesco Paolo Alamia, uomini a Milano di Vito Ciancimino. Infine sullo strano triangolo Mangano, Berlusconi, Dell’Utri. Mentre di Mangano il giudice parla per conoscenza diretta, in questi casi prima di rispondere avverte sempre: «Come magistrato ho una certa ritrosia a dire le cose cli cui non sono certo... qualsiasi cosa che dicessi sarebbe azzardata o non corrispondente a verità». Ma poi aggiunge particolari sconosciuti: «...Ci sono addirittura delle indagini ancora in corso... Non sono io il magistrato che se ne occupa...». A quali indagini si riferisce Borsellino? E se dopo quasi due anni non se n'è saputo nulla è perché i magistrati non hanno trovato prove sufficienti? Quel pomeriggio di maggio di due anni fa, Paolo Borsellino non nasconde la sua amarezza per come certi giudici e certe sentenze della Corte di Cassazione hanno trottato le dichiarazioni di pentiti come Antonino Calderone ( «...a Catania poi li hanno prosciolti tutti... quella della Cassazione è una sentenza dirompente che ha disconosciuto l’unitarietà dell’organizzazione criminale di Cosa Nostra...» ), ma soprattutto, grazie alle sue esperienze di magistrato e come profondo conoscitore delle strategie di Cosa Nostra, l'unico al quale Falcone confidava tutto, Borsellino offre una chiave di lettura preziosa della Mangano connection che sembra coincidere con le più le più recenti dichiarazioni dei pentiti. Quella che segue è la trascrizione letterale (comprese tutte le ripetizioni e le eventuali incertezze lessicali tipiche del discorso diretto) di alcuni capitoli della lunga intervista filmata, quasi cinquanta minuti di registrazione.
Tra queste centinaia di imputati ce n'è uno che ci interessa: tale Vittorio Mangano, lei l'ha conosciuto?
«Sì, Vittorio Mangano l'ho conosciuto anche in periodo antecedente al maxiprocesso, e precisamente negli anni fra il '75 e 1'80. Ricordo di avere istruito un procedimento che riguardava delle estorsioni fatte a carico di talune cliniche private palermitane e che presentavano una caratteristica particolare. Ai titolari di queste cliniche venivano inviati dei cartoni con una testa di cane mozzata. L'indagine fu particolarmente fortunata perché – attraverso dei numeri che sui cartoni usava mettere la casa produttrice - si riuscì rapidamente a individuare chi li aveva acquistati. Attraverso un'ispezione fatta in un giardino di una salumeria che risultava aver acquistato questi cartoni, in giardino ci scoprimmo sepolti i cani con la testa mozzata. Vittorio Mangano restò coinvolto in questa inchiesta perché venne accertata la sua presenza in quel periodo come ospite o qualcosa del genere - ora i miei ricordi si sono un po' affievoliti - di questa famiglia, che era stata l'autrice dell'estorsione. Fu processato, non mi ricordo quale sia stato l'esito del procedimento, però fu questo il primo incontro processuale che io ebbi con Vittorio Mangano. Poi l'ho ritrovato nel maxiprocesso perché Vittorio Mangano fu indicato sia da Buscetta che da Contorno come uomo d'onore appartenente a Cosa Nostra».
Uomo d'onore di che famiglia?
«L'uomo d'onore della famiglia di Pippo Calò, cioè di quel personaggio capo della famiglia di Porta Nuova, famiglia alla quale originariamente faceva parte lo stesso Buscetta. Si accerta che Vittorio Mangano - ma questo già risultava dal procedimento precedente che avevo istruito io, e risultava altresì dal cosiddetto "procedimento Spatola" [il boss Rosario Spatola, potente imprenditore edile, ndr] che Falcone aveva istruito negli anni immediatamente precedenti al maxiprocesso - che Mangano risiedeva abitualmente a Milano città da dove, come risultò da numerose intercettazioni telefoniche, costituiva un terminale dei traffici di droga che conducevano alle famiglie palermitane».
E questo Vittorio Mangano faceva traffico di droga a Milano?
«Il Mangano, di droga ... [Borsellino comincia a rispondere, poi si corregge, ndr], Vittorio Mangano, se ci vogliamo limitare a quelle che furono le emergenze probatorie più importanti, risulta l'interlocutore di una telefonata intercorsa fra Milano e Palermo nel corso della quale lui, conversando con un altro personaggio delle famiglie mafiose palermitane, preannuncia o tratta 1'arrivo di una partita d'eroina chiamata alternativamente, secondo il linguaggio che si usa nelle intercettazioni telefoniche, come "magliette" o "cavalli". Il Mangano è stato poi sottomesso al processo dibattimentale ed è stato condannato per questo traffico cli droga. Credo che non venne condannato per associazione mafiosa - beh, sì per associazione semplice – riporta in primo grado una pena di 13 anni e 4 mesi di reclusione più 700 milioni di multa… La sentenza di Corte d'Appello confermò questa decisione di primo grado...».
Quando ha visto per la prima volta Mangano?
«La prima volta che l'ho visto anche fisicamente? Fra il '70 e il '75».
Per interrogarlo?
«Sì, per interrogarlo».
E dopo è stato arrestato?
«Fu arrestato fra il '70 e il '75. Fisicamente non ricordo il momento in cui l'ho visto nel corso del maxiprocesso, non ricordo neanche di averlo interrogato personalmente. Si tratta di ricordi che cominciano a essere un po' sbiaditi in considerazione del fatto che sono passati quasi 10 anni».
Dove è stato arrestato, a Milano o a Palermo?
«A Palermo la prima volta [è la risposta di Borsellino; ai giornalisti interessa capire in quale periodo il mafioso vivesse ad Arcore, ndr]».
Quando, in che epoca?
«Fra il '75 e 1'80, probabilmente fra il'75 e l'80».
Ma lui viveva già a Milano?
«Sicuramente era dimorante a Milano anche se risulta che lui stesso afferma di spostarsi frequentemente tra Milano e Palermo».
E si sa cosa faceva a Milano?
«A Milano credo che lui dichiarò di gestire un'agenzia ippica o qualcosa del genere. Comunque che avesse questa passione dei cavalli risulta effettivamente la verità perché anche nel processo, quello delle estorsioni cli cui ho parlato, non ricordo a che proposito venivano fuori i cavalli. Effettivamente dei cavalli, non "cavalli" per mascherare il traffico cli stupefacenti».
Ho capito. E a Milano non ha altre indicazioni sulla sua vita, su cosa faceva?
«Guardi: se avessi la possibilità di consultare gli atti del procedimento molti ricordi mi riaffiorerebbero...».
Ma lui comunque era già uomo d'onore negli anni Settanta?
«...Buscetta lo conobbe già come uomo d'onore in un periodo in cui furono detenuti assieme a Palermo antecedente gli anni Ottanta, ritengo che Buscetta si riferisca proprio al periodo in cui Mangano fu detenuto a Palermo a causa cli quell'estorsione nel processo dei cani con la testa mozzata… Mangano negò in un primo momento che ci fosse stata questa possibilità d'incontro... ma tutti e due erano detenuti all'Ucciardone qualche anno prima o dopo il '77».
Volete dire che era prima o dopo che Mangano aveva cominciato a lavorare da Berlusconi? Non abbiamo la prova...
«Posso dire che sia Buscetta che Contorno non forniscono altri particolari circa il momento in cui Mangano sarebbe stato fatto uomo d'onore. Contorno tuttavia - dopo aver affermato in un primo tempo, di non conoscerlo - precisò successivamente di essersi ricordato, avendo visto una fotografia di questa persona, una presentazione avvenuta in un fondo di proprietà di Stefano Bontade [uno dei capi dei corleonesi, ndr]».
Mangano conosceva Bontade?
«Questo ritengo che risulti anche nella dichiarnzione di Antonino Calderone [Borsellino poi indica un altro pentito ora morto, Stefano Calzetta, che avrebbe paranto a lungo dei rapporti tra Mangano e una delle famiglie di corso dei Mille, gli Zanca, ndr]... ».
Un inquirente ci ha detto che al momento in cui Mangano lavorava a casa di Berlusconi c'è stato un sequestro, non a casa di Berlusconi però di un invitato [Luigi D'Angerlo, ndr] che usciva dalla casa di Berlusconi.
«Non sono a conoscenza di questo episodio».
Mangano è più o meno un pesce pilota, non so come si dice, un'avanguardia?
«Sì, le posso dire che era uno di quei personaggi che, ecco, erano i ponti, le "teste di ponte" dell'organizzazione mafiosa nel Nord Italia. Ce n'erano parecchi ma non moltissimi, almeno tra quelli individuati. Un altro personaggio che risiedeva a Milano, era uno dei Bono, [altri mafiosi coinvolti nell'inchiesta cli San Valentino, ndr] credo Alfredo Bono che nonostante fosse capo della famiglia della Bolognetta, un paese vicino a Palermo, risiedeva abitualmente a Milano. Nel maxiprocesso in realtà Mangano non appare come uno degli imputati principali, non c'è dubbio comunque che... è un personaggio che suscitò parecchio interesse anche per questo suo ruolo un po' diverso da quello attinente alla mafia militare, anche se le dichiarazioni di Calderone [nel '76 Calderone è ospite di Michele Greco quando arrivano Mangano e Rosario Riccobono per informare Greco di aver eliminato i responsabili di un sequestro di persona avvenuto, contro le regole della mafia, in Sicilia, ndr] lo indicano anche come uno che non disdegnava neanche questo ruolo militare all'interno dell’organizzazione mafiosa».
Dunque Mangano era uno che poi torturava anche?
«Sì, secondo le dichiarazioni di Calderone».
Dunque quando Mangano parla di "cavalli" intendeva droga?
«Diceva "cavalli" e diceva "magliette", talvolta».
Perché se ricordo bene c'è nella San Valentino un'intercettazione tra lui e Marcello Dell'Utri, in cui si parla di cavalli (dal rapporto Criminalpol: "Mangano parla con tale dott. Dell'Utri e dopo averlo salutato cordialmente gli chiede di Tony Tarantino. L'interlocutore risponde affermativamente... il Mangano riferisce allora a Dell'Utri che ha un affare da proporgli e che ha anche "Il cavallo" che fa per lui. Dell'Utri risponde che per il cavallo occorrono "piccioli" e lui non ne ha. Mangano gli dice di farseli dare dal suo amico "Silvio". Dell'Utri risponde che quello li non "surra"[non c'entra, ndr]”).
«Sì, comunque non è la prima volta che viene utilizzata, probabilmente non si tratta della stessa intercettazione. Se mi consente di consultare [Borsellino guarda le sue carte, ndr]. No, questa intercettazione è tra Mangano e uno della famiglia degli Inzerillo... Tra l'altro questa tesi dei cavalli che vogliono dire droga è una tesi che fu asseverata nella nostra ordinanza istruttoria e che poi fu accolta in dibattimento, tant'è che Mangano fu condannato».
E Dell'Utri non c'entra in questa storia?
«Dell'Utri non è stato imputato nel maxiprocesso, per quanto io ricordi. So che esistono indagini che lo riguardano e che riguardano insieme Mangano».
A Palermo?
«Sì. Credo che ci sia un'indagine che attualmente è a Palermo con il vecchio rito processuale nelle mani del giudice istruttore, ma non ne conosco i particolari».
Dell'Utri. Marcello Dell'Utri o Alberto Dell'Utri? [Marcello e Alberto sono fratelli gemelli, Alberto è stato in carcere per il fallimento della Venchi Unica, oggi tutti e due sono dirigenti Fininvest, ndr].
«Non ne conosco i particolari. Potrei consultare avendo preso qualche appunto [Borsellino guarda le carte, ndr.], cioè si parla di Dell'Utri Marcello e Alberto, entrambi».
I fratelli?
«Sì».
Quelli della Publitalia, insomma?
«Sì».
E tornando a Mangano, le connessioni tra Mangano e Dell'Utri?
«Si tratta di atti processuali dei quali non mi sono personalmente occupato, quindi sui quali non potrei rivelare nulla».
Sì, ma quella conversazione con Dell'Utri poteva trattarsi di cavalli?
«La conversazione inserita nel maxiprocesso, se non piglio errori, si parla di cavalli che dovevano essere mandati in un albergo [Borsellino sorride, ndr.]. Quindi non credo che potesse trattarsi effettivamente di cavalli. Se qualcuno mi deve recapitare due cavalli, me li recapita all'ippodromo, o comunque al maneggio. Non certamente dentro l'albergo».
In un albergo. Dove?
«Oddio i ricordi! Probabilmente si tratta del Pinza [l'albergo di Antonio Virgilio, ndr] di Milano».
Ah, oltretutto.
«Sì».
C'è una cosa che vorrei sapere. Secondo lei come si sono conosciuti Mangano e Dell'Utri?
«Non mi dovete fare queste domande su Dell'Utri perché siccome non mi sono interessato io personalmente, so appena... dal punto di vista, diciamo, della mia professione, ne so pochissimo, conseguentemente quello che so io è quello che può risultare dai giornali, non è comunque una conoscenza professionale e sul punto non ho altri ricordi».
Sono di Palermo tutti e due...
«Non è una considerazione che induce alcuna conclusione... a Palermo gli uomini d'onore sfioravano le 2000 persone, secondo quanto ci racconta Calderone, quindi il fatto che fossero di Palermo tutti e due, non è detto che si conoscessero».
C'è un socio di Dell'Utri tale Filippo Rapisarda [i due hanno lavorato insieme; la telefonata intercettata di Dell'Utri e Mangano partiva da un'utenza di via Chlaravalle 7, a Milano, palazzo di Rapisarda, ndr] che dice che questo Dell'Utri gli è stato presentato da uno della famiglia di Stefano Bontade [i giornalisti si riferiscono a Gaetano Cinà che lo stesso Rapisarda ha ammesso di aver conosciuto con Il boss del corleonesi, Bontade, ndr].
«Beh, considerando che Mangano apparteneva alla famiglia cli Pippo Calò... Palermo è la città della Sicilia dove le famiglie mafiose erano le più numerose – almeno 2000 uomini d’onore con famiglie numerosissime - la famiglia cli Stefano Bontade sembra che in certi periodi ne contasse almeno 200. E si trattava comunque di famiglie appartenenti a un'unica organizzazione, cioè Cosa Nostra, i cui membri in gran parte si conoscevano tutti e quindi è presumibile che questo Rapisarda riferisca una circostanza vera... So dell'esistenza di Rapisarda ma non me ne sono mai occupato personalmente...».
A Palermo c'è un giudice che se n'è occupato?
«Credo che attualmente se ne occupi..., ci sarebbe un'inchiesta aperta anche nei suoi confronti...».
A quanto pare Rapisarda e Dell'Utri erano in affari con Ciancimino, tramite un tale Alamia [Francesco Paolo Alamia, presidente dell'immobiliare Inim e della Sofim, sede di Milano, ancora in via Chiaravalle 7, ndr].
«Che Alamia fosse in affari con Ciancimino è una circostanza da me conosciuta e che credo risulti anche da qualche processo che si è già celebrato. Per quanto riguarda Dell'Utri e Rapisarda non so fornirle particolari indicazioni trattandosi, ripeto sempre, di indagini di cui non mi sono occupato personalmente».
Si è detto che Mangano ha lavorato per Berlusconi.
«Non le saprei dire in proposito. Anche se, dico, debbo far presente che come magistrato ho una certa ritrosia a dire le cose di cui non sono certo poiché ci sono addirittura... so che ci sono addirittura ancora delle indagini in corso in proposito, per le quali non conosco addirittura quali degli atti siano ormai conosciuti e ostensibili e quali debbano rimanere segreti. Questa vicenda che riguarderebbe i suoi rapporti con Berlusconi è una vicenda - che la ricordi o non la ricordi -, comunque è una vicenda che non mi appartiene. Non sono io il magistrato che se ne occupa, quindi non mi sento autorizzato a dirle nulla».
Ma c'è un'inchiesta ancora aperta?
«So che c'è un'inchiesta ancora aperta».
Su Mangano e Berlusconi? A Palermo?
«Su Mangano credo proprio di sì, o comunque ci sono delle indagini istruttorie che riguardano rapporti di polizia, concernenti anche Mangano».
Concernenti cosa?
«Questa parte dovrebbe essere richiesta... quindi non so se sono cose che si possono dire in questo momento».
Come uomo, non più come giudice, come giudica la fusione che abbiamo visto operarsi tra industriali al di sopra di ogni sospetto come Berlusconi e Dell'Utri e uomini d'onore di Cosa Nostra? Cioè Cosa Nostra s'interessa all'industria, o com'è?
«A prescindere da ogni riferimento personale, perché ripeto dei riferimenti a questi nominativi che lei fa io non ho personalmente elementi da poter esprimere, ma considerando la faccenda nelle sue posizioni generali: allorché l'organizzazione mafiosa, la quale sino agli inizi degli anni Settanta aveva avuto una caratterizzazione di interessi prevalentemente agricoli o al più di sfruttamento di aree edificabili. All'inizio degli anni Settanta Cosa Nostra cominciò a diventare un'impresa anch'essa. Un'impresa nel senso che attraverso l'inserimento sempre più notevole, che a un certo punto diventò addirittura monopolistico, nel traffico di sostanze stupefacenti, Cosa Nostra cominciò a gestire una massa enorme di capitali. Una massa enorme di capitali dei quali, naturalmente, cercò lo sbocco. Cercò lo sbocco perché questi capitali in parte venivano esportati o depositati all'estero e allora così si spiega la vicinanza fra elementi di Cosa Nostra e certi finanzieri che si occupavano di questi movimenti di capitali, contestualmente Cosa Nostra cominciò a porsi il problema e ad effettuare investimenti. Naturalmente, per questa ragione, cominciò a seguire una via parallela e talvolta tangenziale all'industria operante anche nel Nord o a inserirsi in modo di poter utilizzare le capacità, quelle capacità imprenditoriali, al fine di far fruttificare questi capitali dei quali si erano trovati in possesso».
Dunque lei dice che è normale che Cosa Nostra s'interessi a Berlusconi?
«E' normale il fatto che chi è titolare di grosse quantità di denaro cerca gli strumenti per potere questo denaro impiegare. Sia dal punto di vista del riciclaggio, sia dal punto di vista di far fruttare questo denaro. Naturalmente questa esigenza, questa necessità per la quale l'organizzazione criminale a un certo punto della sua storia si è trovata di fronte, è stata portata a una naturale ricerca degli strumenti industriali e degli strumenti commerciali per trovare uno sbocco a questi capitali e quindi non meraviglia affatto che, a un certo punto della sua storia, Cosa Nostra si è trovata in contatto con questi ambienti industriali».
E uno come Mangano può essere l'elemento di connessione tra questi mondi?
«Ma guardi, Mangano era una persona che già in epoca ormai diciamo databile abbondantemente da due decadi, era una persona che già operava a Milano, era inserita in qualche modo in un'attività commerciale. E' chiaro che era una delle persone, vorrei dire anche una delle poche persone di Cosa Nostra, in grado di gestire questi rapporti».
Però lui si occupava anche di traffico di droga, l'abbiamo visto anche In sequestri di persona...
«Ma tutti questi mafiosi che in quegli anni - siamo probabilmente alla fine degli anni ‘60 e agli inizi degli anni ‘70 - appaiono a Milano, e fra questi non dimentichiamo c'è pure Luciano Liggio, cercarono di procurarsi quei capitali, che poi investirono negli stupefacenti, anche con il sequestro di persona».
A questo punto Paolo Borsellino consegna dopo qualche esitazione ai giornalisti 12 fogli, le carte che ha consultato durante l’intervista: «Alcuni sono sicuramente ostensibili perché fanno parte del maxiprocesso, ormai è conosciuto, è pubblico, altri non lo so ...». Non sono documenti processuali segreti ma la stampa dei rapporti contenuti nella memoria del computer del pool antimafia di Palermo, in cui compaiono i nomi delle persone citate nell’intervista: Mangano, Dell'Utri, Rapisarda Berlusconi, Alamia.
E questa inchiesto quando finirà?
«Entro ottobre di quest'anno...».
Quando è chiusa, questi atti diventano pubblici?
«Certamente ...».
Perché cl servono per un'inchiesta che stiamo cominciando sui rapporti tra la grossa industria...
«Passerà del tempo prima che ...», sono le ultime parole di Paolo Borsellino. Palermo, 21 maggio, 1992.
Paolo Borsellino, i segreti dell’intervista su Berlusconi e gli interessi di Canal Plus. Parla l’autore: “È la mia maledizione”. Parla Fabrizio Calvi, il giornalista italo francese che il 21 maggio del 1992 intervistò il giudice palermitano nella sua casa nel capoluogo siciliano. E racconta i retroscena su quel colloquio in cui si parla per la prima volta delle indagini su Vittorio Mangano e Marcello Dell'Utri. "Come nacque quell'intervista? Canal Plus era interessato ai rapporti tra il padrone della Fininvest e la mafia. Questo perché Berlusconi era azionista di La Cinq ed era entrato in concorrenza con loro. Perché non venne pubblicata? Dopo l'omicidio non vollero sentirne più parlare", scrive Giuseppe Pipitone il 19 luglio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". “Ci sono storie maledette, quella dell’intervista a Paolo Borsellino è la mia”. Parola di Fabrizio Calvi, il giornalista italo francese che il 21 maggio del 1992 insieme al collega Jean Pierre Moscardo intervista il giudice palermitano nella sua casa nel capoluogo siciliano. Il contenuto di quell’incontro è clamoroso e ampiamente conosciuto: a 48 ore dall’omicidio di Giovanni Falcone e a meno di due mesi dal suo, Borsellino parla per la prima volta dei rapporti tra Vittorio Mangano, Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi. Altrettanto noto è il difficile percorso che porterà quell’intervista prima ad essere pubblicata in forma scritta dall’Espresso nella primavera del 1994 (al settimanale era stata fornita una sintesi video a garanzia dell’autenticità) e poi alla messa in onda – sempre in forma breve – su Rainews 24 nel 2000 tra le polemiche e le tensioni della televisione di Stato. Per la pubblicazione integrale, invece, bisognerà attendere il 2009, quando Il Fatto Quotidiano la diffonde in dvd. Quello che invece fino a oggi era meno conosciuto – se non totalmente ignoto – è il prequel di quell’intervista: come nasce, i motivi per cui venne commissionata e quindi mai mandata in onda. A venticinque anni dalla strage di via d’Amelio, Calvi ha accettato di parlare con ilfattoquotidiano.it, ripercorrendo i giorni precedenti e successivi a quell’incontro con Borsellino, che doveva fare parte di un film inchiesta da lui oggi ha definito come “la mia maledizione”.
Calvi, perché quel film è la sua maledizione?
«Perché me lo porto dietro praticamente da sempre e per un motivo o per un altro non è mai uscito integralmente. Ci sono storie maledette, quella dell’intervista a Paolo Borsellino è la mia».
Come nasce l’idea d’intervistare Borsellino?
«Conoscevo da anni Paolo Borsellino, lo seguivo dagli anni ’80. Me lo aveva presentato Rocco Chinnici anche prima che Borsellino facesse parte del pool antimafia. Tutti correvano dietro a Giovanni Falcone, a me è sembrata una buona idea correre dietro a Borsellino. Avevamo un ottimo rapporto. Non so se di amicizia, ma sicuramente un ottimo rapporto. Così visto che dovevamo fare un film su Silvio Berlusconi e la mafia ho pensato di andarlo a intervistare».
Quel film nasce già come un’inchiesta su Berlusconi e la mafia?
«Assolutamente sì. Io avevo avuto notizia delle indagini su Vittorio Mangano e Marcello Dell’Utri. Avevamo sentito tutti i protagonisti del blitz di San Valentino a Milano, poi siamo andati in Sicilia per ricostruire i percorsi di Marcello e Alberto Mangano».
E perché si rivolge a Borsellino?
«Io non avevo idea che lui si fosse occupato di Mangano per una storia di estorsioni. Sono andato a trovarlo in procura qualche giorno prima dell’intervista e mi dice: Sì, su Mangano ho delle cose da dire. Io ero andato spesso in procura in passato ma ricordo che all’epoca ho trovato l’ambiente un po’ cupo, pesante. Non si sapeva ancora ma col senno di poi era il momento in cui stavano cambiando le cose».
A quel punto lei propone un’intervista a Borsellino su Mangano.
««E lui accetta di farla davanti alle telecamere. Però mi dà appuntamento a casa sua. Un dettaglio che già al momento mi colpì perché di interviste a casa sua non ne avevo mai fatte».
Perché non si fece intervistare in procura?
«Onestamente, non lo so. Perché non voleva essere sentito, ascoltato o visto in procura? Questo non lo so. D’altra parte era un’intervista video».
La novità di quell’intervista è il collegamento Mangano-Dell’Utri-Berlusconi.
«Due cose mi hanno colpito di quel colloquio. La prima è che Borsellino parla di inchieste in corso a Palermo su Dell’Utri, è quella era per me era una novità. C’erano procedimenti su Mangano ma a Milano e si trattava sempre del blitz di San Valentino, che credo fosse già finito in Cassazione quindi non lo definirei in corso. Ma non si sapeva niente di indagini aperte a Palermo. Non ho mai capito cosa fossero quelle inchieste in corso».
Non si è veramente mai capito neanche dopo: la prima indagine ufficiale su Dell’Utri da parte della procura di Palermo è del 1994.
«Quando già Berlusconi era sceso in politica. Ma lì eravamo prima della stagione di Forza Italia, anche se era il momento in cui la mafia aveva già mollato la Dc».
Quale è la seconda cosa che l’ha colpita dell’intervista?
«Il tono usato da Borsellino, lui parla in un modo molto forte e diretto: ha quelle carte davanti che sta guardando e le cita in continuazione. Poi avremmo capito che quello era il fascicolo processuale delle inchieste su Mangano, Dell’Utri e Berlusconi, cioè tutte le volte che erano stati citati in rapporti di polizia. Lui riguarda questo elenco e alla fine me lo dà davanti alla telecamera, dicendo: basta che non dice che gliel’ho dato io. Francamente mi ha stupito: queste cose non le faceva mai».
Era come se volesse parlare di quell’argomento a tutti i costi, cioè di Berlusconi, Mangano e Dell’Utri? Ha avuto questa sensazione?
«Lui voleva parlare, questo è chiaro. Voleva parlare e voleva parlare di questi soggetti. Perché in quella fase non sarei capace di dirlo. A Palermo era uno strano momento: di quieta inquietudine direi. Era già morto Salvo Lima, che aveva dato la disponibilità ad essere intervistato da noi e si sapeva che qualcosa si stava muovendo. Ma la città in quel momento era tranquilla anche se lui era inquieto».
Ma dopo l’omicidio Borsellino, come mai l’intervista non è stata mandata in onda? Era un documento straordinario da diffondere dopo la strage di via d’Amelio.
«Perché bisogna capire come nasce l’intervista a Borsellino».
Come nasce?
«Io lavoravo per una casa di produzione indipendente e c’era un interesse di Canal Plus per Berlusconi e la mafia. Questo perché Berlusconi era azionista di La Cinq e la voleva trasformare in una tv criptata, entrando in concorrenza diretta con Canal Plus».
Quindi c’era un interesse affaristico di Canal Plus. Sono loro a commissionarvi l’inchiesta o l’avete proposta voi?
«No, noi abbiamo proposto a Canal Plus delle storie sulla mafia. Le nostre fonti ci avevano segnalato che c’erano storie su Berlusconi e la mafia e Canal Plus ci ha detto: questa ci interessa. Il problema è che quando il film era finito, per Canal Plus non era più una storia utile: La Cinq era fallita, Berlusconi non investiva in Francia e loro non volevano più sentirne parlare».
Addirittura non volevano sentirne parlare? Ma quello, però, era comunque uno scoop. Non solo per i contenuti ma perché è probabilmente una delle ultime interviste a Borsellino prima di morire: che senso ha non volerne sentire più parlare?
«Non lo so, ma Canal Plus era ed è una televisione che si occupa soprattutto di cinema, di sport e soltanto in parte di documentari. E documentari non vuol dire attualità. E poi Canal Plus non sapeva neanche che dentro il nostro girato c’era tutta quella storia di Borsellino. Magari avevano saputo dell’omicidio, però per loro era un’operazione che non interessava più».
Come mai non ha proposto a qualche altra emittente di mandare in onda quell’intervista?
«Perché sono subito partito per girare una lunga serie sui servizi segreti nella seconda Guerra Mondiale. E quindi ho messo da parte tutto il capitolo sulla mafia. E poi onestamente non mi andava di pubblicare quest’intervista con la chiave: ecco perché Borsellino è stato ucciso. Non mi piaceva».
Ha mai pensato che uno dei motivi per cui Borsellino muore è proprio perché sapeva quelle cose su Mangano e Dell’Utri?
«Cioè per l’intervista?»
Non per l’intervista, ma per quello che dice nell’intervista.
«Ma quello che dice nell’intervista non è stato pubblicato e quindi non era pubblico. Magari qualcuno l’ha saputo ma io penso proprio di no. Io penso che l’omicidio fosse stato già deciso quando uccisero Falcone. Poi da quello che ho sentito, ma non ho seguito direttamente, so che Borsellino era stato ucciso perché si era messo in mezzo alla Trattativa».
Recentemente, però, Giuseppe Graviano – intercettato in carcere – parla di una “cortesia” fatta “al Berlusca” che voleva scendere già in politica nel 1992. Registrazioni che alcuni inquirenti collegano alla strage Borsellino.
«L’ipotesi che lega l’intervista all’omicidio direi che non è credibile. Anche perché ho letto che Graviano sapeva di essere intercettato. Le connessioni tra Berlusconi, Dell’Utri, Mangano erano già saltate fuori. La novità che portava Borsellino era una novità importante ma come documentaristica perché dà un’altra luce alla faccia di Dell’Utri e Mangano ma non è secondo me una luce fondamentale»».
In ogni caso, però, quell’intervista, non venne comunque diffusa per due anni e l’intero film non è mai uscito: non è strano?
«Sì e per questo che io considero questa storia la mia storia maledetta. L’intervista, come è noto è stata pubblicata dall’Espresso nel 1994 e poi da voi in forma integrale, mentre il film ho praticamente finito di montarlo. Negli anni successivi l’ho proposto a vari network ai quali invece non interessava. Ma se non è mai uscito è stato per una serie di circostanze che non reputo strane o inquietanti o meglio non spinte dall’alto. Varie volte ho sentito il fiato sul collo in certe storie che seguivo, ma devo dire che non è questo il caso».
Cosa c’entra Spatuzza con Berlusconi. Il mafioso che ha rivelato l'organizzazione della strage di via D'Amelio ha raccontato anche un pezzo della lunga storia di accuse sui rapporti tra Berlusconi e la mafia, scrive giovedì 13 luglio 2017 "Il Post". In un interrogatorio con i magistrati del 16 giugno 2009, Gaspare Spatuzza descrisse quello che a oggi è uno degli episodi più concreti della lunga storia di rapporti reali, raccontati e presunti di Silvio Berlusconi con la mafia: stando al racconto di Spatuzza, un mafioso che si era da un anno dichiarato “collaboratore di giustizia” dopo undici anni in carcere, il suo boss Giuseppe Graviano gli diede un appuntamento all’inizio di gennaio del ’94 al bar Doney di via Veneto a Roma, alla vigilia dell’attentato poi fallito allo stadio Olimpico di Roma (e anche dell’arresto dello stesso Graviano a Milano). Questo è il racconto di Spatuzza, ripetuto in successivi processi. Aveva un’aria gioiosa e mi disse che avevamo ottenuto tutto quel che cercavamo grazie a delle persone serie che avevano portato avanti la cosa. Io capii che alludeva al progetto di cui mi aveva parlato già in precedenza, in un altro incontro a Campofelice di Roccella (…) Poi aggiunse che quelle persone non erano come quei quattro crasti dei socialisti che prima ci avevano chiesto i voti e poi ci avevano fatto la guerra (…) Ve l’avevo detto che le cose sarebbero andate a finire bene (…) Poi mi fece il nome di Berlusconi. Io gli chiesi se fosse quello di Canale 5 e lui rispose in maniera affermativa. Aggiunse che in mezzo c’era anche il nostro compaesano Dell’Utri e che grazie a loro c’eravamo messi il Paese nelle mani. Quando a Spatuzza fu contestato a processo di avere aggiunto questo racconto alle sue altre confessioni e testimonianze solo un anno dopo la formalizzazione del suo “pentimento” – la legge gli toglierebbe quindi ogni validità, perché per evitare mercanteggiamenti impone che un collaboratore dica le cose che ha da dire entro sei mesi – la sua spiegazione fu che si era allora appena insediato il quarto governo Berlusconi e questo lo aveva preoccupato sull’ottenimento del regime di protezione richiesto dal suo status di “collaboratore”, e che si era deciso a parlare di Berlusconi solo una volta ottenutolo, mesi più tardi. Le indagini sui rapporti con la mafia di Silvio Berlusconi hanno una storia lunga e controversa. A oggi, il loro risultato più rilevante e definitivo è la sentenza (definitiva nel 2014) che ha condannato il principale collaboratore di Berlusconi, Marcello Dell’Utri, a sette anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa e che ha stabilito che negli anni Settanta lo stesso Dell’Utri fece da tramite in una trattativa tra alcuni boss mafiosi e Berlusconi culminata in una riunione a Milano, con la quale Berlusconi acconsentì di pagare per la protezione sua e della famiglia dai sequestri che allora temeva, o da altro. Dice tra l’altro la sentenza di Cassazione: In tale occasione veniva concluso l’accordo di reciproco interesse, in precedenza ricordato, tra “cosa nostra”, rappresentata dai boss mafiosi Bontade e Teresi, e l’imprenditore Berlusconi, accordo realizzato grazie alla mediazione di Dell’Utri che aveva coinvolto l’amico Gaetano Cinà, il quale, in virtù dei saldi collegamenti con i vertici della consorteria mafiosa, aveva garantito la realizzazione di tale incontro.
L’assunzione di Vittorio Mangano (all’epoca dei fatti affiliato alla “famiglia” mafiosa di Porta Nuova, formalmente aggregata al mandamento di S. Maria del Gesù, comandato da Stefano Bontade) ad Arcore, nel maggio-giugno del 1974, costituiva l’espressione dell’accordo concluso, grazie alla mediazione di Dell’Utri, tra gli esponenti palermitani di “cosa nostra” e Silvio Berlusconi ed era funzionale a garantire un presidio mafioso all’interno della villa di quest’ultimo. In cambio della protezione assicurata Silvio Berlusconi aveva iniziato a corrispondere, a partire dal 1974, agli esponenti di “cosa nostra” palermitana, per il tramite di Dell’Utri, cospicue somme di denaro che venivano materialmente riscosse da Gaetano Cinà. (…) In proposito la Corte d’appello di Palermo ha, con motivazione esente da vizi logici e giuridici, dimostrato, con i ragionamenti probatori in precedenza illustrati, che, anche nel periodo compreso tra il 1983 e il 1992, l’imputato, assicurando un costante canale di collegamento tra i partecipi del patto di protezione stipulato nel 1974, protrattosi da allora senza interruzioni, e garantendo la continuità dei pagamenti di Silvio Berlusconi in favore degli esponenti dell’associazione mafiosa in cambio della complessiva protezione da questa accordata all’imprenditore, ha consapevolmente e volontariamente fornito un contributo causale determinante, che senza il suo apporto non si sarebbe verificato, alla conservazione del sodalizio mafioso e alla realizzazione, almeno parziale, del suo programma criminoso, volto alla sistematica acquisizione di proventi economici ai fini della sua stessa operatività, del suo rafforzamento e della sua espansione. Il tema dell' “estorsione” praticata dalla mafia nei confronti di Berlusconi è molto delicato e controverso. È quello che permette che non ci siano state fino a oggi condanne nei confronti di Berlusconi per i suoi rapporti con la mafia, malgrado la sentenza su Dell’Utri e le molte accuse che questo rapporto sia stato spesso di collaborazione complice. La storia più nota e rilevante in questo senso è quella del rapporto con Vittorio Mangano, il mafioso che in virtù dell’accordo citato sopra prese residenza nella villa di Arcore di Berlusconi negli anni Settanta (come “stalliere” dei cavalli secondo Berlusconi) e costruì con Berlusconi e Dell’Utri un rapporto molto intenso e continuato (che poi si interruppe e ha come episodio più famoso la strana telefonata tra Berlusconi e Dell’Utri dopo un attentato di cui lo credono responsabile).
Le prime indagini su Berlusconi e la mafia risalgono ufficialmente al 1996, anche se c’è una mai chiarita questione delle indagini a Palermo citate in un’intervista da Paolo Borsellino nel 1992 e di cui non c’è traccia ufficiale (l’unica spiegazione, non del tutto convincente, è che si trattasse di indagini su fatti che lo coinvolgevano senza che fosse indagato). Nel 1996 Berlusconi fu indagato a Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa, e negli anni successivi fu indagato a Firenze e a Caltanissetta rispettivamente per la campagna di stragi del 1992-1994 e per quelle in cui vennero uccisi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Tutte le inchieste furono archiviate. Le grandi ipotesi accusatorie – mai dimostrate, mai giunte a condanne, sostenute solo da dichiarazioni non riscontrate di diversi collaboratori di giustizia – sono state fino a oggi: che Berlusconi abbia – nell’ambito degli accordi di cui sopra – usato grandi investimenti della mafia per avviare e sostenere le sue imprese, soprattutto nel settore delle costruzioni; che abbia usato il sostegno della mafia al momento della sua candidatura in politica nel gennaio 1994 e per la sua vittoria successiva; e che abbia avuto delle complicità di qualche tipo con i boss Graviano nel periodo in cui questi organizzavano la serie di attentati mafiosi in tutta Italia tra il 1992 e il 1994 (periodo in cui stando a quell’intervista di Borsellino qualcuno in Sicilia stava indagando già su Berlusconi e Dell’Utri). È realisticamente a quest’ultima ipotesi (“abbiamo un quadro in mente, ma che abbiamo bisogno di verificare”, dicono) che lavorano Pier Luigi Vigna e Pietro Grasso – a capo della Direzione Nazionale Antimafia – quando nel 1998 interrogano in carcere Gaspare Spatuzza e gli chiedono di un soggiorno dei Graviano in Sardegna, di una vacanza “in una barca con belle donne e la personalità”, se l’attentato contro Maurizio Costanzo avesse a che fare con Fininvest, se a Milano fosse stato ospitato da “uno che era al maneggio dei cavalli”, se “la discesa in campo di nuove forze politiche” fosse stata considerata al tempo degli attentati.
Spatuzza risponde di no o di non saperne niente: nel 2009 giustificherà con i timori per la sua famiglia il non aver parlato allora, ma per avvalorare il suo racconto su Graviano e Berlusconi sosterrà di avervi già alluso quanto secondo lui bastava in un colloquio investigativo con Pier Luigi Vigna nel 1997 (cita anche la presenza di Grasso, su cui però ha dato versioni diverse). Nel 1997, anni prima di cominciare a collaborare, durante un colloquio investigativo con l’allora procuratore nazionale antimafia Pierluigi Vigna e con Piero Grasso, dissi “fate attenzione a Milano 2”. Stavamo per salutarci e io mi sentivo di dire qualcosa anche se ancora non ero pentito. Intendevo dare in modo soft, come avevo fatto per il furto della 126 usata per la strage di via D’Amelio, un’indicazione. Parole di cui però allora non fu comprovata la presenza in nessun verbale di colloquio investigativo (oggi non possono essere confermate da nessuno di persona: Grasso escluse di averle mai ascoltate ma non sappiamo se abbia partecipato a tutti i colloqui, Pier Luigi Vigna è morto nel 2012).
La storia del depistaggio su Via D’Amelio, scrive Enrico Deaglio il 13 luglio 2017 su “Il Post". Come la procura di Caltanissetta si ostinò per anni a proteggere un'accusa falsificata, facendo condannare persone estranee all'attentato a Paolo Borsellino. Questo articolo è parte di uno speciale sul depistaggio con cui agenti di polizia e magistrati costruirono e portarono a sentenza una versione falsa sui responsabili della morte del giudice Paolo Borsellino e degli agenti della sua scorta, e sul documento investigativo del 1998 – reso pubblico per un “disguido” nel 2013 – che suggeriva questa tesi. Il 23 maggio scorso, in occasione del 25esimo anniversario della strage di Capaci, la RAI ha organizzato un “evento” per ricordare i tre eroi nazionali, Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e Paolo Borsellino, uccisi dalla mafia insieme alle loro scorte in due successivi attentati nel 1992: il primo sull’autostrada all’altezza di Capaci, vicino a Palermo, dove fu fatta esplodere l’auto del magistrato Giovanni Falcone uccidendo lui e sua moglie, anche lei magistrato, e tre uomini della scorta; il secondo a Palermo in via D’Amelio, dove un’altra esplosione uccise il magistrato Paolo Borsellino e cinque uomini della sua scorta. La serata televisiva è stata guidata da Fabio Fazio che si è avvalso di molti contributi di personaggi famosi. I contatti televisivi sono stati 13 milioni, a dimostrazione dell’affetto che gli italiani continuano ad avere per i loro eroi uccisi, e ha scontato, come spesso accade in queste rievocazioni, la retorica e l’autoglorificazione delle cariche presenti che hanno assicurato: “non sono morti invano, non accadrà mai più”. A un certo punto, però, qualcosa ha guastato la celebrazione unanime. Sul palco è comparsa la signora Fiammetta Borsellino, la figlia minore del magistrato, che nel 1992 aveva 19 anni. Negli anni, gli italiani hanno imparato a conoscere e ad apprezzare la famiglia: Rita, la sorella, che si è sobbarcata l’onere della testimonianza politica, come europarlamentare e candidata a governatore della Sicilia; Lucia, la figlia maggiore, già assessora regionale alla sanità, costretta alle dimissioni dopo minacce disgustose e completamente false; Manfredi, il figlio, valente e schivo commissario di polizia di Termini Imerese e Salvatore, il fratello, che guida un movimento che chiede la verità sulle stragi. La moglie del giudice, la signora Agnese, morta nel 2013, ha testimoniato negli ultimi anni della sua vita i sospetti che il marito aveva sulle istituzioni (dicendo tra l’altro: «Paolo mi confidò, sconvolto, che il generale dei Ros Antonio Subranni era “punciutu”», affiliato alla mafia). E dunque, Fiammetta, ora diventata una signora di 44 anni, con i capelli corti, vestita casualmente, è apparsa per la prima volta su un palco; e con molta emozione, ha detto: Credo che ricordare la morte di mio padre, di Giovanni Falcone, di Francesca e degli uomini della scorta, possa contribuire a coltivare il valore della memoria. Quel valore necessario per proiettarsi nel futuro con la ricchezza del passato significa anche dire in maniera ferma da che parte stiamo, perché noi stiamo dalla loro parte, dalla parte della legalità e della giustizia per le quali sono morti. Credo che con questa stessa forza dobbiamo pretendere la restituzione di una verità che dia un nome e un cognome a quelle menti raffinatissime che con le loro azioni e omissioni hanno voluto eliminare questi servitori dello stato, quelle menti raffinatissime che hanno permesso il passare infruttuoso delle ore successive all’esplosione, ore fondamentali per l’acquisizione di prove che avrebbero determinato lo sviluppo positivo delle indagini. Quelle prove a cui mio padre e Giovanni tenevano così tanto. Tutto questo non può passare in secondo piano, e non può passare in secondo piano che per via di false piste investigative ci sono uomini che hanno scontato pene senza vedere in faccia i loro figli, come quei giovani che sono morti nella strage di Capaci. Questa restituzione della verità deve essere anche per loro. La verità è l’opposto della menzogna, dobbiamo ogni giorno cercarla, pretenderla e ricordarcene non solo nei momenti commemorativi. Solo così, guardando in faccia i nostri figli, potremmo dire loro che siano in un paese libero, libero dal puzzo del potere e del ricatto mafioso.
Anche Fabio Fazio si era commosso, e ha dato a Fiammetta Borsellino un’empatica carezza sulla schiena. Ma evidentemente nemmeno Fazio ha il potere di far parlare i muti e l’appello non è stato ripreso. La signora Fiammetta Borsellino si riferiva al fatto che, a distanza di un quarto di secolo, non solo non si conosce quasi nulla del delitto Borsellino, ma è tuttora in pieno svolgimento il più lungo depistaggio – qualsiasi siano le ragioni che lo hanno determinato, probabilmente più d’una – che la storia della nostra Repubblica ricordi; un depistaggio che ha ostinatamente impedito la ricerca della verità, che ha mandato all’ergastolo (e al 41 bis, il carcere severissimo) nove persone estranee a quell’accusa per 11 anni e ha coinvolto – restituendoli al mondo corrotti e umiliati di fatto, ma fieri e soddisfatti pubblicamente – decine di investigatori, di magistrati e di uomini delle istituzioni. Seguo questa storia dal giorno dello scoppio di via D’Amelio, sono testimone del depistaggio fin dalle sue origini e cinque anni fa ho pubblicato un libro che si chiama “Il vile agguato”, che parlava di tutto ciò. Credo che questa vicenda sia la più grave – e tuttora molto oscura – della recente storia d’Italia. Ora poi c’è molto di più. Esistono delle cose provate e delle notizie che rispondono all’appello per la verità di Fiammetta Borsellino, ma non ne parla nessuno.
La prima versione sulla strage di via D’Amelio. Le indagini sulla strage di via D’Amelio, avvenuta il 19 luglio 1992, vennero assegnate al “gruppo Falcone-Borsellino” guidato dal capo della Squadra Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera. L’iniziativa (confermata da un decreto urgente della presidenza del consiglio) fu del prefetto Luigi De Sena, all’epoca capo del Sisde, in seguito diventato senatore del PD, che è morto nel 2015: Arnaldo La Barbera, che aveva trascorsi di carriera in Veneto come lui, era un suo vecchio amico ed era stato anche suo confidente al Sisde, il servizio segreto del ministero degli Interni. Ovvero: il Sisde affidò le indagini a un uomo del Sisde (il servizio segreto aveva avuto anche un controverso accidente del caso: il dirigente del Sisde Bruno Contrada, con il suo fedele assistente Lorenzo Narracci, era casualmente in vacanza su una barca a vela di fronte al porto al momento dello scoppio; furono tra i primi a esserne informati – con una tempistica così rapida da essere oggetto di sospetti e accuse mai provate – e poi ad arrivare sul posto). I giorni seguenti la strage di via D’Amelio – causata da un’autobomba fatta esplodere davanti alla casa della madre di Paolo Borsellino al momento dell’arrivo di quest’ultimo – furono di grande angoscia. Magistrati e poliziotti di Palermo erano in rivolta, la famiglia Borsellino aveva rifiutato i funerali di Stato, l’esercito italiano stava per scendere in forze in Sicilia, la lira stava crollando sui mercati, il “nemico” (ma chi era?) sembrava in grado di condurre a termine inaudite operazioni militari. C’era bisogno di rincuorare l’opinione pubblica e di trovare un colpevole rapidamente. La polizia comunicò immediatamente che la bomba era stata messa in un’utilitaria. Già il 13 agosto il Sisde di Palermo annunciò di aver individuato l’automobile usata e la carrozzeria dove era stata preparata; alla fine di settembre venne nominato il “colpevole”, nella persona di Vincenzo Scarantino, 27 anni: era stato lui a organizzare il furto della Fiat 126. Lo accusavano altri tre delinquenti arrestati un mese prima per violenza carnale. (Un mese dopo, intanto, in seguito ad un’indagine collegata agli ultimi impegni investigativi di Borsellino e sulla base delle dichiarazioni di alcuni pentiti, venne arrestato per il reato di “concorso esterno in associazione mafiosa” il numero tre del Sisde, Bruno Contrada, l’uomo che veleggiava e i cui uomini avevano per primi intuito la pista Scarantino: sarebbe stato condannato con sentenza definitiva nel 2006, ma dichiarata “ineseguibile” nei giorni scorsi in seguito ai dubbi espressi dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sulla validità del reato di “concorso esterno in associazione mafiosa”). Le prime indagini furono, effettivamente, scandalose per una quantità enorme di omissioni e di iniziative grottesche, quali quella di riempire 56 sacchi neri di detriti dell’esplosione e di spedirli a Roma per farli valutare dall’FBI. Vennero interrogati pochissimi testimoni, in particolare non vennero interrogati alcuni inquilini del palazzo che dopo vent’anni si scoprì essere stati molto importanti; il consulente informatico della polizia, Gioacchino Genchi, venne estromesso dalle indagini da La Barbera; non si seppe nulla per tre mesi e mezzo della borsa di Paolo Borsellino, che era rimasta sul sedile posteriore dell’auto che lo trasportava e poi depositata in una questura. I familiari denunciarono subito la scomparsa di un’agenda di colore rosso che il giudice portava sempre con sé. Ma c’era Scarantino, e questo contava. Il suo arresto era stato annunciato così dal procuratore Tinebra: «Siamo riusciti con un lavoro meticoloso e di gruppo, con la partecipazione di magistrati, tecnici e investigatori, che hanno lavorato in sintonia, a conseguire un risultato importante quale l’arresto di uno degli esecutori della strage di via D’Amelio». Appena di Scarantino si seppe qualcosa di più, fu però una vera delusione, tanto apparve fasullo. Era un ragazzo, di bassissimo livello intellettuale, piccolo spacciatore, non affiliato a Cosa Nostra benché nipote di un boss della Guadagna, il quartiere meridionale di Palermo dove era conosciuto come lo scemo della borgata. Però aveva confessato, e nei mesi seguenti questo personaggio così improbabile, da semplice ladro d’auto che scambiava con qualche dose di eroina, si trasfigurò in astuto organizzatore, reclutatore di un piccolo esercito, stratega militare, partecipante di prestigio alle riunioni della Cupola. Ma già di fronte alle obiezioni dei giornalisti nella prima conferenza stampa il procuratore Tinebra aveva risposto: «Scarantino non è uomo di manovalanza». Come denunciò subito l’avvocato Rosalba De Gregorio, difensore di alcuni imputati coinvolti da Scarantino: «Scarantino era un insulto alla nostra intelligenza». Messo a confronto con due grossi boss collaboranti, questi stessi si indignarono che la polizia potesse pensare che Cosa Nostra si avvalesse di un personaggio simile («Ma veramente date ascolto a questo individuo?»). I verbali con gli esiti di quei confronti, sparirono: non li fecero sparire però i servizi, ma i pm. L’inchiesta marciava spedita con molta hybris da parte di La Barbera, sicuro che sarebbe riuscito a piazzare un prodotto che lui per primo non avrebbe comprato. Il ragazzo stesso, peraltro, si smentiva, ritrattava, denunciava, piangeva, ma nessuno gli dava retta malgrado emergessero via via testimonianze di violenze e pressioni sulla sua famiglia, dei verbali ritoccati e concordati, degli interrogatori condotti in modi anomali: le sue ritrattazioni erano «tecniche di Cosa Nostra che conosciamo bene», scrisse il pm Nino Di Matteo, che in una requisitoria sostenne che «la ritrattazione dello Scarantino ha finito per avvalorare ancor di più le sue precedenti dichiarazioni»; «dietro questa ritrattazione c’è la mafia» disse il pm Palma. Intanto, il procuratore di Palermo Sabella che aveva interrogato Scarantino su altro lo aveva invece ritenuto «fasullo dalla testa ai piedi»: «decidemmo di non dare alcun credito alle sue rivelazioni». In tre successivi processi – il Borsellino 1, il Borsellino 2, il Borsellino Ter – l’attendibilità di Scarantino venne certificata da un’ottantina di giudici, tra Assise, Appello e Cassazione. Il ragazzo aveva intanto denunciato torture a Pianosa, promesse, inganni, – arrivò persino a fuggire dal suo rifugio e a telefonare al tg di Italia1 per denunciare la sua situazione – ma i magistrati non vollero credergli e Scarantino riuscì a ottenere solo pesanti condanne per calunnia. Arnaldo La Barbera, intanto, per meriti scarantiniani, diventò prima Questore di Palermo e di Napoli, poi Prefetto, poi capo dell’Ucigos, l’Ufficio centrale per le investigazioni generali e per le operazioni speciali, un ufficio centrale della polizia di stato. L’ultima immagine ce lo mostra con casco e scarpe da tennis all’assalto della scuola Diaz durante il G8 del 2001 nella “giornata nera” della polizia italiana. Allontanato dall’incarico dopo quello scandalo, La Barbera morì per un tumore al cervello nel 2002 a soli 60 anni. Tutta la “baracca Scarantino”, intanto, continuò placidamente fino al 2008, senza che nessuno – giornalisti, politici, mafiologi, commissione antimafia, CSM – trovasse strano che, in mezzo a tanti discorsi su strategie, trattative, struttura di Cosa Nostra, eccetera, la realizzazione della strage di via D’Amelio fosse stata affidata a un ragazzo bocciato tre volte in terza elementare; un ragazzo che non era stato neppure ricompensato per la sua impresa, ma che dopo il “colpo del secolo” aveva continuato a tramestare nel suo quartiere rubando gomme.
La seconda versione sulla strage di via D’Amelio (quella vera). Nel 2008 compare sulla scena lo spietato assassino di don Puglisi – un parroco ucciso dalla mafia nel 1993 a Palermo – toccato improvvisamente dalle fede. Si chiama Gaspare Spatuzza e, oltre a raccontare tutta la stagione delle stragi di mafia degli anni Novanta di cui è stato protagonista, candidamente afferma: «Scarantino non c’entra, la strage l’ho organizzata io». E fornisce prove, indirizzi, particolari completamente diversi da quelli che fino ad allora una schiera di magistrati aveva valutato “perfettamente riscontrati” con il pentito “attendibilissimo” Scarantino (in sostanza, non avevano riscontrato un bel niente: alla prima verifica sul campo di quello che disse Spatuzza sul furto dell’auto si capì che quella verifica non era mai stata fatta sulla versione di Scarantino). Così facendo, Spatuzza sta quindi dando dei fessi – nel migliore dei casi – ad alcune decine di magistrati. Comunque, pur nell’imbarazzo, gli ergastolani vengono scarcerati (alcuni hanno invece addirittura già scontato tutta la pena per la collaborazione alla preparazione dell’attentato): ma non assolti, si badi. Nove anni dopo, la revisione del loro processo si è conclusa oggi, 13 luglio 2017 con l’assoluzione di tutti gli imputati. A Caltanissetta, nel 2012, inizia invece il “Borsellino quater”, nato dalle confessioni di Spatuzza e terminato il 18 aprile scorso con alcuni altri ergastoli e la conferma della condanna per calunnia (nei confronti dei suoi coimputati) a Scarantino, prescritta grazie all’attenuante di «essere stato indotto a commettere il reato» da non meglio identificati «apparati di polizia». Si aspettano, dopo 25 anni, le motivazioni, ma probabilmente le aspettative saranno deluse: la colpa delle ingiuste condanne precedenti sarà addossata al defunto La Barbera, nessun magistrato complice del depistaggio – in buona o cattiva fede – sarà coinvolto. Dei poliziotti si dirà che sì, forse, avranno torturato un po’, ma che le accuse contro di loro non avrebbero retto in aula. La gran parte dell’informazione giornalistica continua a raccontare il depistaggio come “una serie di bugie” del “falso pentito” Scarantino, che avrebbe ingannato decine di esperti poliziotti e magistrati. Questo è lo scenario al momento del “venticinquennale” e della serata RAI.
Intanto si aggiungono ancora cose. Ma intanto la procura di Palermo, dopo aver scovato un super pentito in Massimo Ciancimino (infine completamente screditato, lui e il fantomatico “signor Franco”, malgrado l’estesa promozione ricevuta da una affezionata parte dell’informazione), dopo aver raccolto propositi implausibili dal vecchio Riina, accusato il presidente della Repubblica di losche manovre (fino ad andare a interrogare in modo inaudito il presidente al Quirinale), all’inizio di giugno 2017 diffonde un altro scoop. Breaking news su tutti i telefonini: Giuseppe Graviano, il dimenticato boss di Brancaccio, è stato intercettato per ben un anno nel solito cortiletto della cella del 41 bis, mentre colloquia con il solito “detenuto civetta” incaricato di farlo parlare. E cosa dice? Prima di tutto che ha messo incinta sua moglie in cella – mentre era in teoria severamente ristretto al 41 bis – e poi che Silvio Berlusconi è un ingrato traditore. Che lui lo ha fatto ricco, e poi gli ha fatto un “gran favore”. Ma poi venne arrestato, proprio a Milano, pochi giorni prima delle elezioni del 1994 e quell’ingrato non è stato in grado di farlo uscire di galera, mentre invece spendeva i suoi soldi (forse i soldi di Graviano stesso) con le puttane. Pronta la smentita dell’avvocato di Berlusconi, Ghedini, e le ricostruzioni che in gran parte concordano sul fatto che Graviano sapesse di essere intercettato e quindi va’ a sapere cosa fosse vero e cosa no: ma intanto nei giorni scorsi quelle conversazioni registrate sono state ammesse agli atti del processo in corso sulla cosiddetta “trattativa tra Stato e Mafia”, e Graviano sarà ascoltato. Il processo sulla “trattativa Stato-mafia” si trascina da anni, ne durerà ancora molti e ha diviso l’opinione pubblica, in queste proporzioni: il 90 per cento se ne frega; il 5 per cento pensa che il pm Nino De Matteo che la conduce sia il nuovo Falcone e un perfetto ministro nel prossimo governo Cinque Stelle; il restante 5 per cento pensa sia una cialtronata (chi scrive appartiene all’ultima categoria). E comunque, dopo decenni si riparla delle stragi, dei Graviano e di Berlusconi: di cui parlava Borsellino nella sua ultima intervista nel 1992, di cui parlarono nel 1998 due importantissimi magistrati con Gaspare Spatuzza.
La cosa che era successa in mezzo, e non si sapeva. E arriviamo a un elemento centrale della storia, nuovo o seminuovo, che infatti in parte raccontai così sul Venerdi di Repubblica nel luglio del 2013, durante il processo “Borsellino quater”, che la stampa aveva seguito molto svogliatamente. Il 12 giugno la corte di Caltanissetta si è trasferita a Roma per ascoltare il famoso pentito. Quel giorno, nella routine delle videoconferenze e dei paraventi, è però successo un “incidente”. L’avvocato Flavio Sinatra, difensore degli imputati Salvino Madonia e Vittorio Tutino, sta controinterrogando il teste Spatuzza. Gli domanda se avesse già detto in passato a qualcuno, quello che lo rese famoso nel 2008. Spatuzza nega. L’avvocato gli domanda se avesse parlato della strage di via D’Amelio con altri magistrati e il pentito si innervosisce. “Non ricordo”. Ed ecco il colpo di scena: si materializza un verbale di interrogatorio di Gaspare Spatuzza reso nel 1998 nientemeno che all’allora capo della Procura nazionale antimafia Pier Luigi Vigna (morto nel 2012) e al suo vice, Piero Grasso, l’attuale presidente del Senato. Contenuto? Beh, diciamo: esplosivo. Sconcerto in aula. Da dove salta fuori il verbale? Nientemeno che dal fascicolo del pubblico ministero, dove risulta protocollato nel 2009, ma nessuno, prima dell’avvocato Sinatra, si era mai accorto della sua esistenza. L’avvocato Sinatra chiede che il verbale sia messo agli atti; la parte civile della famiglia Borsellino si associa; lo stesso fa quella del Comune di Palermo. La Procura invece si oppone perché il verbale non porta la firma del pentito, e quindi è un documento senza valore giudiziario. La Corte le dà ragione e non lo ammette. Il presidente del Senato chiese allora al Venerdì che si facesse chiarezza sul documento (era, più esattamente, un verbale di “colloquio investigativo”) e una corretta interpretazione dei fatti venne affidata all’allora procuratore di Caltanissetta Sergio Lari, raccolta dal giornalista Piero Melati per il Venerdì: «Copia del verbale e il file della registrazione sono stati trasmessi a Caltanissetta nel dicembre 2008 dal procuratore antimafia Grasso per verificare l’attendibilità dello Spatuzza che, come noto, nel giugno del 2008 aveva cominciato a collaborare. Per un mero disguido il verbale e il file con la registrazione sono stati inseriti nel fascicolo del pm del processo Borsellino Quater, piuttosto che nel fascicolo della DNA (Direzione Nazionale Antimafia) dove andavano custoditi gli atti non processualmente utilizzabili sulle stragi del 1992». E della cosa non si parlò più. Alcuni mesi fa, però, dopo 4 anni (i processi durano molto, in Italia), l’avvocato Sinatra è tornato alla carica e questa volta – eravamo nelle fasi finali del dibattimento – la Corte gli ha dato ragione: il verbale non è stato più considerato impresentabile, ma è ufficialmente entrato a far parte degli atti pubblici (il file pare di no, piuttosto illogicamente). Troppo tardi per discutere del loro contenuto (almeno in quel processo), però almeno questo permette ora a chi scrive di pubblicare quei testi senza essere accusato di violazione di alcunché; a chiunque di poter leggere e farsi un’idea; e a chi riesca a ottenere la registrazione audio di far ascoltare al vasto pubblico quanto possa essere drammatico un colloquio investigativo, del quale qui pubblichiamo la trascrizione.
Cosa sappiamo e cosa manca, nel 2017. Stiamo parlando di una cosa piuttosto importante. Siamo nel 1997. Arnaldo La Barbera lascia la Questura di Palermo e si trasferisce a quella di Napoli. Il suo posto viene preso da Antonio Manganelli. Sotto la sua direzione avviene l’arresto di Gaspare Spatuzza, il terribile killer di don Puglisi, il 2 luglio 1997. Un arresto anomalo per la città di Palermo: scontro a fuoco, cento bossoli sul terreno, lo stesso arrestato ferito. Secondo alcune ricostruzioni, Spatuzza parla subito e racconta dei legami tra il suo capo, Giuseppe Graviano e Silvio Berlusconi, oltreché della strage di via D’Amelio. Secondo altre, lo fa solo qualche mese dopo. Chi l’abbia ascoltato, non si sa. L’unico reperto storico che abbiamo è proprio il famoso verbale, “colloquio investigativo” a cui Spatuzza partecipa (ma non firmerà) nel carcere dell’Aquila il 26 giugno 1998. Lo interrogano Pier Luigi Vigna, procuratore generale antimafia e Piero Grasso, suo vice. In realtà, il colloquio sembra svolgersi secondo certi riti siciliani, ed è quindi condotto quasi esclusivamente da Grasso. Si capisce che non è la prima volta che i tre si parlano. E anche che non sarà l’ultima. Nel colloquio Vigna e Grasso cercano conferme su una serie di cose che hanno in testa («abbiamo un quadro in mente, ma che abbiamo bisogno di verificare») legate alla campagna di attentati mafiosi tra il 1992 e il 1993: La logistica dei vari attentati a Roma, Milano, Firenze.
I legami dei boss Graviano con Fininvest, Dell’Utri, Berlusconi (sui rapporti tra la mafia e Berlusconi e Dell’Utri si indagava già da alcuni anni). Le modalità dell’arresto dei fratelli Graviano a Milano, ritenuti mandanti delle stragi, per capire se l’arresto sia stato deciso e accelerato da qualcuno in quel determinato momento. Spatuzza non risponde a tutte le domande. Sta trattando. Nel 2014 spiegherà in aula che «allora la mia non era una collaborazione. Avevo solo mostrato disponibilità perché dentro di me mi ero ravveduto». Ma sulla strage di via D’Amelio offre notizie assolutamente inedite e che anni dopo verranno confermate: – l’esplosivo usato non è Semtex, ma un residuato bellico fornito da un pescatore palermitano, recuperato in mare dove ce n’è molto. Lo stesso esplosivo è stato usato anche per la strage di Capaci e per altri attentati. – Scarantino è un falso pentito inventato dalla polizia. Le persone che Scarantino ha accusato e che sono state condannate non c’entrano con la strage di via D’Amelio. Il colloquio si chiude con il rifiuto di Spatuzza a controfirmarlo – a ulteriore garanzia della sua informalità – e con il rinvio della discussione a un prossimo appuntamento, che non sappiamo se ci sia stato. Cosa è successo, dopo? Tutto e niente: tutto, intorno alle indagini e ai processi che hanno ribaltato in quasi vent’anni le tesi e le condanne iniziali; niente intorno a quelle rivelazioni di Spatuzza del 1998, sparite fino al ritrovamento del verbale, quasi un fossile riemerso da un’altra era, per un «mero disguido», sedici anni dopo nelle carte di un pm di Caltanissetta.
In concreto – nei dieci anni trascorsi tra il 1998 e il 2008 – nulla è successo per impedire che il depistaggio proseguisse. La magistratura di Caltanissetta non ha preso la minima iniziativa, anzi ha semplicemente passato gli anni a cercare di impedire che il depistaggio (e il suo ruolo in esso) venissero rivelati. Anche nei successivi altri nove anni (dal 2008, data del pentimento ufficiale di Spatuzza ad oggi, 2017), è successo molto poco. I magistrati che avevano sposato la falsa pista si sono tutti autoassolti. I poliziotti accusati di torture sono stati “archiviati”. E nessun particolare passo avanti – indagini patrimoniali, ricerche di conferme, uso di intercettazioni, collocamento di microspie o quant’altro e neppure altri “colloqui investigativi” – risulta sul contesto del delitto Borsellino e della campagna delle stragi indicati da Spatuzza. Le indagini hanno piuttosto preso – incredibilmente – altre strade. La mancanza di indagini e di risultati – in ben 19 anni – mi fa concludere che il depistaggio sia riuscito perfettamente e sia ancora in corso.
Una verità alternativa raccontata da Paolo Guzzanti: fu il Kgb ad uccidere Falcone e Borsellino. Una gigantesca operazione di riciclaggio dei soldi dei servizi segreti e del PCUS. I conti della mafia in Italia come “lavatrice” del tesoro sovietico. Un misterioso finanziere italiano. Il gran rifiuto di D’Alema, ma anche, subito dopo la morte dei due magistrati, l’impegno del Pci-Pds-Ds per alzare un polverone e celare la terribile e scomoda verità. L’ex vicedirettore de “il Giornale” e deputato del Partito Liberale Italiano svela al giornale della politica italiana questo misconosciuto “mistero italiano” (e non solo): una vera e propria operazione di guerra, che non sarebbe stata nelle possibilità e nemmeno nella volontà della mafia siciliana, alla base del martirio, possiamo chiamarlo così, di Falcone e Borsellino, che stavano indagando sulla vicenda. Una storia che sfugge al controllo persino di un protagonista della nostra politica della potenza di Giulio Andreotti, che ad un certo punto ammette di trovarsi di fronte a qualcosa di «più grande di me» e invita Giancarlo Lehner a lasciare perdere il progetto di scrivere un libro-denuncia su tutto questo. A distanza di anni, Guzzanti riapre il caso. Un pezzo da non perdere, solo sul giornale della politica italiana, “Il Politico.it”. «Vi spiego perché hanno ammazzato Falcone e Borsellino, e perché nessuno fiata di fronte alla messa funebre solenne approntata alla svelta dal vecchio PCI per imbalsamarli e santificarli a furor di popolo inquadrato per processioni, prima che qualcuno avesse la malsana idea di indagare sulle vere ragioni della loro inspiegabile morte: “Chi ha ammazzato il povero Ivan?». Ecco la vera storia che nessuno ha il coraggio di raccontare perché ancora oggi si rischia la pelle. L’ambasciatore sovietico, e poi russo Adamishin andò da Cossiga e disse: Fermate questa rapina, i soldi russi del KGB e del PCUS stanno transitando in Italia per essere riciclati. Fate qualcosa. Cossiga chiamò D’Alema e gli chiese: State per caso riciclando per conto del KGB su conti gestiti da Cosa nostra? Ohibò, disse D’Alema, assolutamente non io, ma posso dire che un grandissimo finanziere – che se ti dicessi il nome cadresti dalla sedia – mi ha offerto l’affare del riciclaggio e io ho detto di no. Dunque il fatto esiste, ma non sono io. Allora Cossiga disse ad Andreotti, primo ministro: Volete fermare questa porcheria che sta dissanguando la Russia? E Andreotti rispose: NO, perché un gesto del genere sarebbe vissuto dal PCI come aggressivo nei loro confronti e io devo preservare l’equilibrio nel governo. Ma ho un’idea: chiama Falcone e digli di fare qualche passo informale che soddisfi i russi. Cossiga chiamò Falcone e gli spiegò la situazione. Falcone disse: ma io sono ormai soltanto un direttore generale del ministero della giustizia, che cosa posso fare? E Cossiga: incontra questi russi, tranquillizzali, fai vedere che stiamo facendo qualcosa.
Falcone incontrò i giudici russi e organizzò meeting riservati, coperto dalla Farnesina che gestì l’affare. Poi chiamò Paolo Borsellino e gli spiegò il problema che si era creato. Borsellino, vecchio militante del MSI e anticomunista intransigente disse: tu sei un impiegato al ministero, ma io no. Io posso indagare. Aprirò una mia Agenda Rossa su questa faccenda e discretamente cercherò di capire di più. Bum!! Capaci. Borsellino qualche settimana dopo si dette una manata sulla fronte e disse: cazzo, ho capito chi e perché ha ammazzato Giovanni: BUM! Via D’Amelio. Il PCI che sapeva perfettamente la storia, si avventò come un branco di jene sui due morti santificandoli alla svelta con un rito abbreviato e intenso di processioni popolari mummificandoli nella sua glassa mediatica affinché NESSUNO MAI potesse rivangare la verità. E’ come il “missile” inesistente di Ustica. E’ come la strage “fascista” di Bologna. Quando il partito copre la merda, tutti devono dire: che profumo di violette. Giancarlo Lehner voleva scrivere questa storia avendo una moglie russa che aveva parlato con Stepankov, il procuratore di tutte le Russie che aveva trattato con Falcone e che si era subito dimesso per paura: “Io ho famiglia, ho visto quel che hanno fatto a Giovanni”. Giovanni in russo si dice Ivan, e i giornali russi alla morte di Falcone avevano scherzato su “Chi ha fatto fuori il povero Ivan”, sulla falsariga di una filastrocca popolare. Tutti a Mosca sapevano chi e perché aveva fatto fuori il povero Ivan. In Italia nessuno sapeva spiegare perché fosse stato ucciso il povero Ivan. Non era un pericolo attuale per la mafia. E la mafia non uccide “alla memoria” o per vendetta a posteriori. E allora: perché e chi ha ucciso il povero Ivan. Lehner disse a un settimanale del suo progetto di libro sulla morte di Falcone. Andreotti lo mandò a chiamare nel suo studio di piazza in Lucina e gli disse: Voglio aiutarla, spero di recuperare i fonogrammi riservati con cui la Farnesina ha preparato gli incontri segreti con i giudici russi. Quella è la prova del fatto che Falcone indagava, senza averne un mandato, ma era andato molto più avanti del semplice contatto diplomatico con i russi, tanto per far vedere che in Italia il riciclaggio del tesoro sovietico era tenuto sotto osservazione. Poi Andreotti chiamò il giornalista e gli disse: Caro Lehner, butti nel cestino il suo progetto di libro, se non vuole lasciarci la pelle. Come sarebbe a dire?, fece quello. Sarebbe a dire, disse Andreotti, che dalla Farnesina mi hanno risposto che i dispacci si sono persi e che non si trovano più. Questo vuol dire che l’operazione è stata cancellata e le sue tracce distrutte. Dunque ci troviamo di fronte a un nemico più grande di noi due. Lasci perdere la morte di Falcone, dia retta. Alla Camera, in un giorno di votazioni a Camere congiunte, io Lehner e Andreotti abbiamo rivangato il fatto. Giancarlo parlava, Giulio annuiva con un sorriso tirato. Nessuno avrebbe potuto attivare il pulsante di Capaci con la certezza di fare il botto al momento giusto, se non ci fosse stato un emettitore di impulsi sulla macchina. Le due operazioni Capaci e D’Amelio sono operazioni di guerra condotte con tecniche di guerra, del tutto ignote alla mafia siciliana. Il resto sono chiacchiere da bar dello sport. Parola di Paolo Guzzanti.
Tante piste che andrebbero seguite. Come quel "Grande Gioco" che costò la vita al giudice Falcone. Verità analizzato da Daniela Coli su “L’Occidentale”. Ci si lamenta che non c’è più libertà di stampa, si protesta contro la "legge bavaglio", ma in Italia non esiste più nemmeno l’ombra del giornalismo investigativo. Per i delitti comuni, gli articoli dei quotidiani sono quasi sempre simili: il bravo giornalista di cronaca, un po’ detective, è scomparso e ora tutti si adeguano alle tesi del pm di turno, senza farsi, né fare domande, sbattendo in prima pagina il mostro di turno e soprattutto le intercettazioni, quando c’è di mezzo un politico. I magistrati politicizzati poi procedono a colpi di teoremi. Per l’uccisione di Falcone, prima hanno battuto sul teorema di Giulio Andreotti capo della Cupola (come nel Padrino III di Francis Ford Coppola, uscito nel 1990), per abbattere la prima Repubblica. Fallito il tentativo di trovare il capo della mafia in uno statista sette volte Presidente del Consiglio e cinque volte ministro degli Esteri, hanno ripiegato su Berlusconi, che avrebbe usato la mafia, compiuto le stragi del ’92-’93, per creare un nuovo sistema politico e prendersi l’Italia. L’ostinazione con cui la sinistra ripete la trama del Padrino III di Coppola, dove la mafia sicula diretta dal potente Lucchesi-Andreotti, come una piovra è dappertutto, in politica, nella finanza, in Vaticano, col solito Calvi in fuga per Londra, è una fiction scadente. Veltroni rilancia la tesi del Cav. mente delle stragi del ‘92-‘93 e sostiene che furono fatte per sconfiggere gli ex-comunisti. Veltroni non si rende conto che nel ‘94 votammo tutti Berlusconi perché quella fiction non era credibile e per questo i "progressisti" persero. Per chi è abituato a seguire CSI Miami, dove è presente il tema della mafia e del narcotraffico, oppure NCIS, dove Gibbs e i suoi sono come cane e gatto con Fbi e Cia, sa benissimo che i protagonisti indagano a 360 gradi su ogni omicidio, scoprendo per altro traffici d'armi coperti dai servizi segreti. Mentre lavora sulla morte di un grande trafficante d' armi francese, coperto da Cia e Fbi, la battuta più frequente di Gibbs è: "E poi dicono che non riescono a trovare bin Laden…". Gli americani sono più scafati di noi e conoscono quanti strani affari una grande potenza può essere costretta a fare. L’Irangate o l’Iran-Contras affair nel 1985-86 rivelò che alti funzionari dell’amministrazione Reagan erano coinvolti in un traffico illegale d'armi verso l’Iran, paese formalmente nemico degli Stati Uniti dopo i 52 americani tenuti in ostaggio dal 1979 al 1981, ma, benché l’Iran fosse all’epoca in guerra con l’Iraq e violentemente antiamericana, la vendita delle armi all’Iran fu considerata necessaria per liberare gli ostaggi americani in mano agli Hezbollah libanesi, legati all’Iran. L’affare si complicò ulteriormente, perché i ricavati delle armi vendute all’Iran furono usati per finanziare i Contras che stavano combattendo il governo sandinista del Nicaragua. Nell’85-86 a Washington non si parlava d’altro che del colonnello Oliver North e delle tonnellate di crack (droga dei poveri) che i Contras vendevano negli Stati Uniti. L’affare dell’Iran-Contras era un’operazione clandestina, non approvata dal Congresso e coinvolse North, l’ex capo della Cia Casey e molti alti funzionari governativi. Si chiuse quando il presidente Bush senior garantì il perdono a tutti gli indagati per avere agito nell’interesse nazionale degli Stati Uniti. Una insufficiente cultura investigativa induce alcuni magistrati a costruire teoremi sulle stragi del ‘92-‘93 sullo schema del Padino III e a derubricare la morte di Falcone a "strage di Stato", un concetto che in Italia sembra far luce su qualsiasi mistero e che dimostra solo il disprezzo per lo Stato del quale i giudici si proclamano enfaticamente servitori. I media italiani, diversamente da quelli americani, si limitano a ripetere questi teoremi politici, mettendo in evidenza il degrado del giornalismo. Non c’è più uno Sciascia, né un direttore del Corriere come Piero Ostellino pronto a pubblicarlo. Chissà cosa avrebbe detto Sciascia dei teoremi sulla morte di Falcone. Dal Padrino I (1972), ispirato dal romanzo di Mario Puzo, a La Piovra (1984-2001), si sono riproposti rozzamente i temi della saga del Padrino e non si distingue più tra fiction, letteratura e realtà. È strano come nelle indagini sulla morte di Falcone i magistrati si affidino ai pentiti, alle intercettazioni e non si siano mai soffermati sulle indagini internazionali di Falcone. Sollecitato dal giudice Chinnici, il cui maggiore onore era essere stimato dagli americani, Falcone aveva cominciato ad indagare su Rocco Spatola e, recandosi negli Stati Uniti nel 1980, iniziò a lavorare con Victor Rocco, investigatore del distretto di New York est. Falcone era convinto dell’esistenza di uno stretto rapporto tra mafia americana e siciliana. Lavorava su un traffico di morfina che dalla Siria e l’Afghanistan era approdato tramite un trafficante turco a Palermo nel 1975 e la città era diventata una raffineria che riforniva di eroina gli Stati Uniti. Le indagini si svolsero negli anni dell’occupazione russa dell’Afghanistan, mentre gli Stati Uniti appoggiavano i mujaheddin contro i sovietici, la Cia li riforniva di armi e ai funzionari della Dea (Drug Enforcement Administration) fu chiesto di chiudere un occhio sul traffico di oppio afghano. Prima di morire Falcone si occupava di riciclaggio di denaro in Svizzera. Denaro proveniente dal traffico d'armi e di droga. E proprio i dollari finiti nelle banche svizzere avevano impressionato gli americani, che all’inizio non avevano dato importanza alle sue indagini. Falcone collaborò all’operazione "Pizza Connection" con Louis Freeh, capo del FBI nominato da Clinton. Louis Freeh è finito poi indagato dalla commissione d’indagine sull’11 settembre per non avere tenuto conto delle segnalazioni del controterrorismo e di un agente del Fbi di Phoenix, che nel luglio 2001 fece rapporto su membri di Al Qaeda che frequentavano una scuola di volo: tra loro c’erano alcuni terroristi dell’attacco alle Twin Towers. Il rapporto di Freeh con Clinton, tanto sbandierato dalla sinistra, era tale che, scaduto il mandato al Fbi, Freeh rimase per non dare a Clinton la possibilità di nominare il nuovo capo del Bureau. Il processo di "Pizza Connection" del 1984, dove fu condannato Rosario Gambino, implicato anche nel presunto rapimento Sindona, consolidò il rapporto tra Freeh e Falcone. Gli Stati Uniti hanno sempre avuto attenzione per la Sicilia. Lo stesso Sindona, come altri mafiosi italo-americani e siciliani, aiutò gli americani a sbarcare in Sicilia, fu arruolato nella Cia, andò negli States e fu per anni un rispettato banchiere. Anche la Sicilia indipendentista di Salvatore Giuliano aveva guardato all’America. Per la posizione geopolitica dell’isola, il rapporto degli Stati Uniti con la Sicilia attraverso gli immigrati siculi e le loro relazioni con amici e parenti siciliani è sempre stato importante. Anche Falcone riteneva fondamentale il rapporto con gli Stati Uniti. Fu grazie ai rapporti stabiliti con l’Fbi con "Pizza connection" che Falcone ottenne il trasferimento di Buscetta in Italia. Boss del narcotraffico, Buscetta fu arrestato in Brasile nel 1983, Falcone andò a trovarlo nelle carceri di San Paolo per chiedergli se era disposto a collaborare con la giustizia italiana. Buscetta fu estradato negli Stati Uniti nel 1984, collaborò con l’Fbi, che gli fornì una nuova identità e nel luglio dello stesso anno fu estradato in Italia. Buscetta, primo mafioso pentito, ebbe un feeling particolare con Falcone e fece rivelazioni esplosive, fino a indicare in Giulio Andreotti il referente principale di Cosa nostra, proprio come nel Padrino III e ne La Piovra. Dopo le dichiarazioni di Buscetta e il maxiprocesso di Palermo, Falcone divenne famoso e fu chiamato a partecipare al talk show di Maurizio Costanzo. Il magistrato aveva rapporti con Carla Dal Ponte, il giudice svizzero amica di Madeleine Albright, e nel 1991 scrisse un libro sulla mafia con Marcelle Padovani, del Nouvel Observateur, la poliedrica giornalista mitterandiana all’occorrenza rivoluzionaria e guerrigliera, amica di Régis Debray. Falcone, che nel suo studio aveva una fotografia insieme a Bush senior e Peter Secchia, era diventato ormai un magistrato di fama internazionale. Fiero di essere stimato da Bush senior, il presidente della prima Guerra del Golfo del ’90-91. Bush dichiarò lutto nazionale il giorno della morte di Falcone l’accademia dell'Fbi a Quantico gli dedicò persino un monumento. Il presidente degli Stati Uniti in visita a Roma nel 1989 volle incontrarlo e gli riservò un’ora di colloquio. L’ambasciatore Secchia non faceva mistero della stima per Falcone a Roma per collaborare con Martelli, lo immaginava come un futuro possibile ministro. Bush, Louis Freeh e Rudy Giuliani lo stimavano e, secondo alcuni, pensavano a lui anche come primo ministro. Si è anche fantasticato di un patto tra Falcone e gli Stati Uniti per sbarazzarsi di Craxi dopo Sigonella e della politica filoaraba di Andreotti e si è sbandierata l’ipotesi che sia stato ucciso a Capaci prima dai soliti Andreotti e Craxi e ora da Berlusconi per impedirgli di essere un protagonista della seconda Repubblica. È nota l’amicizia dei Bush per Silvio Berlusconi, gli inviti alla Casa Bianca, al Congresso americano: se vi fosse stata anche soltanto l’ombra di una qualche implicazione nella strage di Capaci questo speciale rapporto col Cavaliere non vi sarebbe stato. Paradossalmente, coloro che oggi ricordano la stima dei Bush per Falcone, fanno parte della sinistra che manifestava contro la Guerra del Golfo di Bush e dava del fascista a Bush jr per la guerra in Afghanistan e in Iraq. Purtroppo non c’è stato un Gil Grissom, né un Gibbs a indagare a 360 gradi sulla morte di Falcone. Alla sinistra faceva comodo dare la colpa ad Andreotti nel ’92-93 e ora fa comodo creare polveroni su Berlusconi. Forse, invece, proprio Falcone ha dato la chiave del suo assassino. "Si muore generalmente perché si è rimasti soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande". Falcone con le sue indagini era entrato davvero senza volerlo nel Grande Gioco e pare avesse anche temuto l’alleanza di servizi segreti stranieri con la mafia. Invece di fissarsi su teoremi italiani, forse sarebbe il caso di vagliare ipotesi alternative. A uccidere Falcone potrebbe essere stato qualche servizio segreto orientale, qualche gruppo del narcotraffico, ma pure anche chi temeva le indagini sul flusso di rublo-dollari che giungevano in Italia attraverso i canali di vecchi compagni del Pci, soldi che venivano riciclati in tutta Europa. Falcone aveva già incontrato il magistrato russo Valentin Stepankov e doveva incontrarlo nel maggio del ’92, se non fosse stato ucciso. Ad assassinare Falcone potrebbe anche essere stato qualche servizio segreto occidentale che operava in Medio Oriente e non gradiva un giudice troppo attento ai traffici di armi e droga. Falcone potrebbe anche essere stato cinicamente ucciso da chi voleva destabilizzare la politica italiana, aiutato da qualche sinistro cervello italiano. Fu ucciso in maniera spettacolare in Sicilia, non a Roma, dove sarebbe stato più facile colpirlo, per inviare un messaggio chiaro alla Dc, mentre in Parlamento si votava per il Presidente della Repubblica. Il nuovo presidente doveva essere Andreotti e si elesse Scalfaro, un magistrato, due giorni dopo la morte di Falcone. Nel giugno del ’92, in certi ambienti di Londra, si parlava di regime change per l’Italia e di un'imminente rivoluzione dei giudici. Però, la corte d'Assise di Roma, pochi giorni, fa ha preso in considerazione anche l’ipotesi che Roberto Calvi sia stato ucciso dai servizi segreti inglesi, perché aveva venduto armi all’Argentina durante la guerra delle Falkland. Falcone e Calvi erano diversissimi, ma avevano in comune il problema che tanti li volevano morti. Dopo la morte di Falcone si sono scoperti tutti falconiani, pochi però hanno indagato davvero sulla sua morte, limitandosi soltanto a riproporre il vecchio film di Francis Ford Coppola. E’ noto che dopo l’uccisione di Falcone gli agenti del Fbi si precipitarono subito sulla scena del crimine di Capaci, raccolsero mozziconi di sigaretta nel luogo dove fu azionato il pulsante del detonatore che provocò l’esplosione di tritolo, che investì le auto della scorta e di Falcone. Il Dna delle prove raccolte dal Fbi non corrispondeva però a quello di Giovanni Brusca, il pluriomicida pentito, che ha goduto di un trattamento carcerario estremamente leggero. In qualsiasi giallo, questo dato provocherebbe qualche dubbio. Forse, chissà, tra una ventina d’anni sapremo qualcosa di più sulla morte di Giovanni Falcone, un uomo coraggioso che non meritava di essere sepolto sotto la retorica del santino buono per tutte le stagioni.
Un’altra verità la racconta Gennaro Ruggiero. Geronimo, alias Paolo Cirino Pomicino, nel suo libro bomba “Strettamente Riservato”, fa alcune considerazioni. In pratica si sofferma su alcune coincidenze molto preoccupanti. Infatti, pare che Giovanni Falcone, avrebbe dovuto incontrare, qualche giorno dopo la sua morte, il procuratore di Mosca Valentin Stepankov, che indagava sull’uscita dalla Russia di grosse somme di denaro esistenti nelle casse del PCUS. Tutto confermato da Valentin Stepankov, il quale ha detto anche che, dopo la morte di Falcone, nessuno gli ha mai più chiesto nulla. Eppure Falcone aveva informato allora Andreotti che il suo interessamento era stato sollecitato dal presidente Cossiga qualche mese prima. Falcone, venne ucciso a Capaci, in una strage in cui furono utilizzati materiali abbastanza insoliti per la mafia e più consueti, invece, per le centrali del terrorismo internazionale. Tutte le conoscenze che Falcone aveva sui flussi di denaro sporco passarono allora a Paolo Borsellino che, a sua volta, secondo l’annuncio dato da Scotti e Martelli in Tv, avrebbe dovuto assumere la guida della Procura nazionale antimafia. Fu la sua condanna a morte. Due mesi dopo Borsellino saltò in aria alla stessa maniera di Falcone. Il Giornale il 3 novembre 2003, raccontava che Giovanni Falcone, il simbolo della lotta alla mafia, prima di morire si stava occupando dei finanziamenti del Pcus al Partito comunista italiano: o meglio del riciclaggio di soldi, tanti soldi, che nella fase di dissolvimento dell’Urss lasciavano Mosca attraverso canali riconducibili al Pci. Per questo motivo Falcone si era già incontrato con l’allora procuratore generale russo Valentin Stepankov che su questo stava concentrando tutta la sua attività. Falcone è stato ucciso alla vigilia di un nuovo e decisivo incontro sollecitato dallo stesso Stepankov. Ci sono telegrammi con oggetto: «Finanziamenti del Pcus al Partito comunista italiano».
L’ambasciatore Salleo comunica al Ministero a Roma: “Il Procuratore generale della Federazione russa, Stepankov, mi ha fatto pervenire lettera con cui, facendo riferimento a colloqui da lui a suo tempo avuti con i magistrati Falcone e Giudiceandrea (il procuratore capo di Roma) mi informa della sua intenzione di effettuare nel periodo 8-20 giugno una missione di cinque giorni a Roma nel quadro della inchiesta sui finanziamenti del Pcus al Partito comunista italiano”. C’era solo un motivo per cui il magistrato russo sollecitava la collaborazione di Giovanni Falcone; dopo averne apprezzato la competenza negli incontri precedenti: Falcone era l’unico in grado di accertare l’eventuale coinvolgimento della «criminalità organizzata internazionale», cioè della mafia (o delle mafie), nel riciclaggio del tesoro sovietico. Falcone, vale la pena ricordarlo, da poco più di un anno ricopriva il ruolo di direttore generale degli Affari penali al ministero di Grazia e Giustizia. Era stato chiamato da Claudio Martelli, allora Guardasigilli. Da quel momento attorno gli era stato fatto il deserto. Quei mesi prima della strage di Capaci, Falcone aveva visto bruciare la sua candidatura a procuratore nazionale anti mafia dai suoi nemici al Palazzo di giustizia di Palermo e dentro la magistratura: al Csm al momento di scegliere il «superprocuratore» tre membri laici del Pds gli preferirono Agostino Cordova. I due governi, vale sempre la pena di ricordare, presieduti da Giulio Andreotti dal ‘90 al ‘92, con il ministro dell’Interno Enzo Scotti e i due ministri socialisti alla Giustizia, prima Giuliano Vassalli e poi Martelli che aveva voluto Falcone al suo fianco, avevano emanato un numero impressionante di provvedimenti contro la mafia. Per ricordarne alcuni: dal mandato di cattura per decreto legge che riportò dietro le sbarre i grandi mafiosi del primo maxi processo istruito a Palermo dallo stesso Falcone, alle norme anti-riciclaggio, al varo della Dna, la Direzione nazionale anti mafia. Curiosamente gli uomini di questi due governi che più si erano esposti nella guerra dichiarata dallo Stato alla mafia, con la sola eccezione di Vassalli, saranno tutti travolti da Tangentopoli, e il premier, Andreotti, addirittura accusato di essere il baciatore di Totò Riina, il puparo della mafia e il mandante di un omicidio (quello di Mino Pecorelli). Da quando Falcone aveva accettato l’incarico al ministero, Martelli si era trovato a sostenere uno scontro pressoché quotidiano con il Consiglio superiore della magistratura. Questo era il clima che ha avvelenato la vita di Falcone, prima di Capaci.
Racconta Enzo Scotti: «Lo aveva visto pochi giorni prima che partisse per Palermo, era giù di tono. Era stanco e avvilito. Finora degli incontri tra Falcone e il giudice Stepankov si era saputo per sentito dire. Il primo a parlarne è stato l’ex ministro dc Cirino Pomicino nel suo libro “Strettamente riservato”. «L’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga» spiega Cirino Pomicino «mi ha raccontato che fu lui a chiedere a Falcone di indagare, su quel flusso di denaro del Pcus che usciva dall’ex Unione sovietica».
Andreotti ha confermato di aver visto i «telegrammi riservatissimi» giunti alla Farnesina nel maggio del ‘92. Adesso c’è la prova documentale. Nel primo, quello dell’11 maggio, è indicato con precisione il periodo in cui Stepankov intendeva venire in Italia, tra «l’8 il 20 giugno», per indagare su finanziamenti de Pcus, mafia e Pci. Il procuratore generale russo rispondeva positivamente anche alla richiesta di assistenza giudiziaria avanzata dal magistrati romani che indagavano su Gladio Rossa (inchiesta poi frettolosamente archiviata). Per l’incontro con Falcone non ci sarà tempo, poco prima delle 18,30 del 23 maggio una gigantesca carica di esplosivo lo ha fermato per sempre. Del 27 maggio 1992, quattro giorni dopo la carneficina, è il secondo telegramma «urgentissimo» e «riservatissimo» dall’ambasciata di Mosca alla Farnesina, questa volta firmato da Girardo. Valentin Stepankov non può far altro che esprimere l’«amarezza» e il «profondo dolore », e prega di portare le condoglianze ai parenti delle vittime. Ma tramite la nostra ambasciata, dopo aver sottolineato come fosse stato in programma di lì a poco il loro incontro, Stepankov non rinuncia a ricordare Falcone «quale degno cittadino dell’Italia, uomo di alto impegno professionale e morale». Peccato che i due telegrammi «urgentissimi» non abbiano mai attirato l’attenzione della commissione parlamentare Antimafia, presieduta da Luciano Violante e Vice presieduta dal democristiano Paolo Cabras: nel ‘93 preferirono mettere sotto processo la Dc e Giulio Andreotti. E oggi si vuole accusare Silvio Berlusconi e i suoi fedelissimi. Ma allora tutta la storia, perché è di storia che stiamo parlando non di leggenda, che fine ha fatto? Allora è vero che c’è una regia politica dietro tutta la vicenda Spatuzza & Co. Purtroppo stavolta non ci sono Falcone e Borsellino, magistrati veri ed imparziali, ci sono solo quelli che come allora accusarono a vuoto Andreotti; ma adesso chi salterà in aria? E chi lo farà, visto che l’unione sovietica è morta? Ma non è morto anche il comunismo? O ci sono i residui bellici ancora vivi? Lascio al lettore analizzare le notizie storiche che mi sono permesso di riportare in questo resoconto.
Graviano: un messaggio che nasconde i destinatari, scrive il 10/06/2017 Francesco La Licata su "la Stampa". Il nastro si riavvolge e il film comincia daccapo. Le stragi mafiose del ‘92 e del ‘93 hanno rappresentato per 25 anni e rappresentano ancora l’autentico tormentone che ha accompagnato il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica. Un tormentone che ruota attorno alla discesa in campo di Silvio Berlusconi e alla nascita di Forza Italia. Quest’ultima rivelazione di Giuseppe Graviano, curiosamente tanto istupidito da non sospettare di essere intercettato in carcere, arriva proprio nel momento in cui la storia italiana del ‘92 e del ‘93 sembra essere già archiviata e relegata persino al ruolo di fiction, come abbiamo avuto modo di vedere seguendo l’ultima serie tv su Sky. Di Berlusconi e di Dell’Utri (quest’ultimo in carcere per concorso esterno) hanno parlato schiere di pentiti. Lo stesso Graviano, alla udienza in cui testimoniò a Torino il collaboratore Gaspare Spatuzza, si diede molto da fare nel lanciare messaggi e minacciare ricatti. Facendo intendere anche di essere pronto a qualche “sacrificio” (lui e forse il fratello, Filippo) pur di ricevere un allentamento del carcere duro. Sono passati otto anni e non sembra esser accaduto nulla, se non il “beneficio” di aver potuto ingravidare le rispettive mogli. Si era pensato che questo “evento” potesse essere stata conseguenza di una complicità del suo avvocato, immaginato come “trasportatore” del loro seme dal carcere ad un laboratorio per l’inseminazione. Apprendiamo oggi, per bocca di Giuseppe Graviano, che l’inseminazione avvenne per contatto diretto. Un “premio” per il suo silenzio, mentre gli si chiedeva di confermare le dichiarazioni di Spatuzza a proposito dei rapporti tra la mafia di Brancaccio e Berlusconi e Dell’Utri? Questo, Graviano non lo dice ma lo fa intendere. Ecco forse è questa la chiave dei colloqui intrattenuti in carcere, con un detenuto che non è neppure mafioso. Una sorta di replay dell’ “incidente” occorso a Totò Riina che si è fatto sorprendere dalle “cimici” carcerarie mentre parlava con un altro “signor nessuno”, appartenente ad una improbabile mafia pugliese. Insomma, questi boss quando hanno qualcosa da dire, da suggerire, da sussurrare e finanche da ammettere, sembrano voler scegliere la strada del “parlare” ma senza pentirsi. Una bella intercettazione e via. Resta da capire chi sono i destinatari dei messaggi. Berlusconi non sembra in grado di poter dare grandi aiuti a chicchessia, soprattutto se non si tratta di soldi. Dell’Utri sta anche peggio, immobilizzato in un reparto di cardiologia del carcere di Parma. Forse ci sono verità che ancora faticano a guadagnare la luce. Nel ‘92 certamente è accaduto qualcosa di poco commendevole nella terra di mezzo fra politica e alta finanza. Il proliferare delle Leghe, a Nord e a Sud, la svolta stragista di Cosa nostra, la fine dei partiti storici italiani. Le paure di Ciampi che, la notte delle bombe, convoca lo Stato Maggiore e si chiude a Palazzo Chigi. Se Graviano ha qualcosa da chiedere, potrebbe cominciare a parlare sul serio.
La verità per disguido, scrive giovedì 13 luglio 2017 "Il Post". Non è possibile che la storia delle stragi mafiose sia scritta a forza di documenti nascosti, sentenze sbagliate e sensazionalismi giornalistici (ovvero: Cos'è questo speciale). Alcune settimane fa Enrico Deaglio ha proposto al Post di raccontare di nuovo, per i 25 anni della strage di via D’Amelio, la storia più recente delle tante legate a quell’attentato e ai suoi misteri: quella di un documento investigativo rivelato per un “disguido” nel 2013 che mostrava delle cose nuove e gravi sul depistaggio con cui agenti di polizia e magistrati costruirono e portarono a sentenza una versione falsa sui responsabili della strage. La storia di quel documento era già stata raccontata, ma senza grandi attenzioni o rilievi, anche dallo stesso Deaglio, anche sul Post. Ci siamo convinti che la scarsa attenzione fosse dovuta a una generale indifferenza e stanchezza nazionale nei confronti dei grandi “misteri d’Italia”; a una retorica commemorativa benintenzionata ma in cui restano imballati e sepolti fatti, spiegazioni, ricostruzioni; a un’incapacità dei media di rinnovarli e trasmetterli, nel groviglio di versioni e processi e cose false e vere che sono stati questi 25 anni. Come se non ce ne importasse più, per umane fatica e rimozione, anche se non lo ammetteremmo mai. Così abbiamo pensato di fare su quella storia il lavoro che al Post viene più spesso riconosciuto e richiesto, quello della spiegazione, della ricostruzione, del mettere in ordine storie e informazioni daccapo. E quello che pubblichiamo in questo speciale – una serie di diversi articoli legati tra loro – è il risultato di questo lavoro che abbiamo provato a fare per mettere quella storia in un contesto che aiuti a capirla, senza sconfinare negli ambiti più estesi e approfonditi su cui hanno scritto in tanti ed esperti. Ma mentre leggevamo ricostruzioni, articoli, verbali, e ascoltavamo registrazioni di udienze, e guardavamo video di interviste o di rovine di bombe, abbiamo anche iniziato a riflettere sulla contraddizione tra la tanto ripetuta “ricerca della verità” da parte delle istituzioni e da parte delle persone, e la continua sottrazione di pezzi di verità da parte delle istituzioni e da parte delle persone. Sono passati 25 anni da quando vennero uccisi il magistrato Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta. 25 anni in cui si è chiesta mille volte “la verità” e quello che si è ottenuto è:
1. Una storia falsa spacciata per vera dal 1992 fino al 2008, col concorso di magistrati e ufficiali di polizia, su chi avesse compiuto quell’attentato: che ha prodotto, oltre a una falsificazione storica, la condanna e la detenzione per molti anni di nove persone estranee all’attentato (per le quali si è conclusa oggi la revisione del processo, con tutti gli imputati infine assolti, dopo 25 anni). Per quella falsificazione – una volta rivelata, nel 2008 – sono stati condannati solo gli imputati che avevano dichiarato il falso, malgrado siano certe le pressioni e le violenze da parte degli investigatori per ottenere quelle confessioni, confermate persino da una sentenza e da queste parole recenti del procuratore aggiunto di Caltanissetta Paci: “C’è traccia di abusi, di contatti irrituali e connivenze tra investigatori e indagati per la ricerca di elementi che sostenessero una pista investigativa che all’epoca era plausibile, ma si ignorarono i campanelli di allarme che arrivavano dalle dichiarazioni contraddittorie di Scarantino sulla strage di via D’Amelio”.
2. La ripetuta dimostrazione dell’ostilità da parte dei magistrati che avallarono e difesero quella falsificazione a prendere in considerazione le molte prove che la dimostravano tale, e i pareri in questo senso di altri magistrati.
3. Una nuova versione divenuta pubblica solo nel 2008 e che ha portato alle condanne degli organizzatori ed esecutori della strage, senza chiarire le ragioni di quello e degli altri attentati di cui la mafia fu responsabile tra il 1992 e il 1994, in una campagna di violenze unica e anomala nella storia della mafia.
4. Una serie di indizi e dichiarazioni mai riscontrati sui rapporti dei boss organizzatori delle stragi con Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, a tutt’oggi in bilico tra il credibile, l’incredibile, il molto raccontato e il poco provato.
Come si vede, su tutti questi quattro fronti nessuna “verità” è arrivata senza lasciarne altrettante da spiegare.
Chi e come ha indotto i “falsi pentiti” ad accusarsi e accusare altri falsamente, in un gravissimo e criminale depistaggio? Quali responsabilità, omissioni, intenzioni, hanno avuto i magistrati che hanno difeso con insistenza una storia falsa e fuorviante? Quali obiettivi ebbe, e quali sviluppi, la campagna di attentati tra il 1992 e il 1994? Hanno qualche fondamento le accuse contro Silvio Berlusconi? Quattro anni fa c’è stato un piccolo fatto nuovo che ha rivelato delle cose e ha fatto sospettare ce ne siano altre ancora rivelabili: un documento altrimenti “segreto” perché destinato solo alle indagini e non utilizzabile a processo, è diventato pubblico per un “disguido”, e ha svelato che Gaspare Spatuzza, il “collaboratore di giustizia” che svelò e fece smontare la falsificazione nel 2008, l’aveva già dichiarata falsa nel 1998, seppure con meno riscontri alla sua versione: ma nessuna indagine fu fatta sulle sue dichiarazioni. Quel documento è pubblico da tre anni ma è stato molto trascurato nelle ricostruzioni e nelle narrazioni, forse perché sembra certificare ulteriormente l’ostinazione dei magistrati di Caltanissetta nel proteggere la versione falsa. Ma quel documento è anche una traccia solo parziale di tutto quello che può essere stato già evocato e raccontato vent’anni fa ed è stato taciuto e mai verificato: ci sono altre cose dette in quello e in altri “colloqui investigativi” con i magistrati che continuano a essere riservate. Il Presidente del Senato Pietro Grasso, che da magistrato è stato uno dei personaggi di queste storie, ed è stato protagonista di grandi impegni giudiziari contro la mafia, ha appena pubblicato un libro sulle sue esperienze e sulla sua amicizia con i magistrati Falcone e Borsellino. Tra le altre cose, Grasso ricorda del suo auspicio, appena eletto senatore, di “una commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi”: Ci sono troppi profili di quel tragico disegno stragista che restano ancora oscuri. Bisogna insistere perché gli eventi vengano ricostruiti in tutte le loro implicazioni e sfaccettature. Le dichiarazioni rilasciate dal pentito e gli elementi da lui forniti alle Procure di Firenze, Caltanissetta e Palermo hanno consentito di ristabilire finalmente alcune verità sulle stragi. Occorre seguire un metodo preciso nella ricostruzione delle vicende, lo stesso metodo che ha ispirato la mia carriera di magistrato: credere solo a quello che è riscontrabile, provato, offrire elementi di conoscenza, anche piccoli, che aggiungano tasselli al quadro, senza cadere nella tentazione di dipingere scenari opinabili, anche se suggestivi, ipotetici e non dimostrabili. Se si vuole chiarezza, si deve partire da ciò che è accertato, senza smettere di sollevare interrogativi e sottolineare i punti oscuri che richiedono un’ulteriore riflessione. Grasso ha ragione su entrambe le cose: la legislazione sui collaboratori di giustizia ha prodotto risultati riconosciuti e fondamentali ma anche disastri e inganni, come ogni regola emergenziale. Il depistaggio sulla strage di via D’Amelio è frutto per prima cosa di un abuso di quelle regole, mentre il loro uso più coerente ha prodotto lo svelamento di quel depistaggio. E la confusione tra presunte verità giornalistiche e verità giudiziarie è alla base di storture quotidiane nell’amministrazione della giustizia, della politica e della società italiane. Sono tutte ragioni per essere cauti. Però Grasso ha ragione anche quando parla di “offrire elementi di conoscenza, anche piccoli, che aggiungano tasselli al quadro” (la storia del documento di cui parliamo è uno di questi) e quando chiede di continuare a “sollevare interrogativi”. La prudenza non può diventare silenzio. È già successo una volta, con un pezzo di questa storia, che informazioni utili a capire come fossero andate le cose siano state trascurate e che si sia lavorato con insistenza a una falsificazione: e se Spatuzza non avesse deciso di collaborare, visto che per 11 anni in carcere non aveva mai voluto farlo? E se non avesse potuto esibire il riscontro sulla riparazione dei freni dell’autobomba che lo ha reso credibile a processo? Sarebbero rimaste solo le sue parole del 1998, nascoste in un archivio, non indagate, ignote, rimpiazzate da una sentenza sbagliata su una delle stragi più gravi e importanti della storia italiana. Quelle parole le abbiamo conosciute poi per un “disguido”: forse è meglio che per tutte le altre che sono state dette si creino allora le condizioni per conoscerle legalmente, deliberatamente, completamente. I “segreti di Stato” sono connaturati agli stati, però non bisogna farli diventare una condizione ordinaria e permanente: ma nemmeno investire i magistrati del ruolo degli storici – idea che ha fatto già, e fa tuttora, abbastanza danni – o per contro aspettare gli storici del XXII secolo col loro utile distacco. Può darsi che debba essere la commissione Antimafia, o la commissione chiesta da Pietro Grasso, ad avere accesso a tutti i documenti e a trovare il modo di rispondere pubblicamente a quelle domande: o può darsi che chiunque sia stato protagonista del bene o del male di questi 25 anni debba decidersi a raccontare delle altre cose, con prudenza ma senza omertà. Noialtri intanto facciamole, le domande, poi facciamo il punto di quello che sappiamo, e stiamo in guardia su falsificazioni e depistaggi di ogni genere.
Da Lima al bacio di Andreotti tutte le invenzioni dei pentiti, scrive Stefano Zurlo, Sabato 28/11/2009, su "Il Giornale". L'alfa e l'omega dei pentiti. E delle bugie a distanza di tanti anni. Le storie si ripetono e si inseguono. Inquietanti, come i doppifondi che nascondono. Vincenzo Scarantino e Salvatore Candura entrano nel libro mastro dei collaboratori che hanno spacciato menzogne come, a suo tempo, Giovanni Pellegriti, uno dei primi, se non il primo in assoluto, a passare dalla parte dello Stato. Pellegriti accusa, nientemeno, Salvo Lima, a quel tempo proconsole di Giulio Andreotti a Palermo, di essere il mandante di uno dei tanti omicidi eccellenti, quello del presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella. Giovanni Falcone, sempre evocato e qualche volta pure a sproposito, corre nel carcere di Alessandria a interrogarlo e capisce subito che il pentito mente. Non sa nulla di Mattarella né dei suoi assassini. Dovrebbe far arrestare Lima e mandare un avviso di garanzia ad Andreotti, invece incrimina per calunnia Pellegriti e lo fa condannare a quattro anni. Quattro anni per aver venduto menzogne allo Stato. Un caso unico che ora potrebbe ripetersi. Tanti anni e tanti pentiti dopo. Falcone, purtroppo, non c’è più, ma c’è un nuovo dichiarante - strana crisalide sul punto di trasformarsi a tutti gli effetti in pentito doc - che porta acqua al mulino delle accuse a Silvio Berlusconi. È Gaspare Spatuzza, il killer di don Puglisi, pentito, convertito e addirittura aspirante teologo. Spatuzza riporta le confidenze dei boss di Brancaccio, Giuseppe e Filippo Graviano, sui rapporti di Cosa nostra col premier: dunque diventa importante, credibile, persino autorevole. Ma, incidentalmente, sconfessa anche Candura e Scarantino che si erano accusati di aver rubato la 126 usata per la strage di via DAmelio e la morte di Paolo Borsellino. Che fare? Tagliare a fette, come un prosciutto, il racconto di Spatuzza? No, non si può avallare lo Spatuzza che parla del premier e cancellare lo Spatuzza che riscrive via D’Amelio. E allora si buttano nel cestino Scarantino e Candura, anche se i racconti dei due sono serviti per costruire una verità processuale che ha retto a tutti i gradi di giudizio. Per via DAmelio sono fioccate condanne, condanne pesantissime. Non importa. Ora la coppia Scarantino-Candura è indagata per calunnia e autocalunnia. Ma le prove dov’erano? E i riscontri? E gli elementi oggettivi a cui ancorare quelle pagine? Non c’erano, ammettono oggi i giudici. Ma ieri, con l’illustre eccezione del pm Ilda Boccassini, nessuno aveva seguito per via D’Amelio il metodo Falcone. Quei verbali erano tappeti volanti che portavano i magistrati lontano, dove non sarebbero mai arrivati. E si faceva la gara per salirci sopra. Certo, era più semplice dare la parola come fosse un conferenziere, a chi raccontava e riaggiustava a ruota libera la storia d’Italia. Un innamoramento sconsiderato, come è stato spesso eccessivo, senza filtri critici, l’amore dei nostri investigatori per le nuove tecnologie scientifiche, per i test del Dna, per le elaborazioni alla Csi. Col risultato di avere un alto numero di delitti irrisolti. Il pm di Bologna Libero Mancuso ha composto una sorta di fenomenologia del pentito, o almeno di un certo pentitismo, incarnato da Angelo Izzo, lo stupratore del Circeo, uno dei più fecondi inventori di storie a cavallo di criminalità comune e criminalità organizzata: «Si intuiva la volontà di soddisfare chi lo interrogava, al di là di quello che lui sapeva. Era come se prevedesse quello che l’inquirente voleva sentirsi dire e si adeguasse a questa previsione, per far contento il magistrato». Come un cinico seduttore che ha fatto i suoi calcoli. Così è proprio Izzo a ispirare Pellegriti che però trova sulla sua strada Falcone. Altri hanno fabbricato di tutto pur di continuare a coltivare, come tanti dottor Stranamore, i propri affari criminali sotto il velo del pentimento. Per cinque anni nessuno si accorge della doppia vita del siciliano Pierluigi Sparacio che non ha mai smesso di gestire gli interessi della sua cosca. Giacomo Lauro, padrino della ndrangheta, da pentito si dedica al narcotraffico e, colto con le mani nel sacco, si giustifica candidamente: «Mio fratello Bruno non è in grado di mantenersi se non spacciando droga. Cosa dovrei fare, non dovrei aiutarlo?». Come si fa a prendere a scatola chiusa, come pure talvolta è accaduto, personaggi di questo spessore? Giuseppe Ferone fa di più: nel 96 ordina addirittura una strage vicino al cimitero di Catania. E Balduccio Di Maggio, il principe dei collaboratori, quello del bacio da fiction tra Andreotti e Riina, andrà avanti per anni a organizzare indisturbato, se non sotto protezione, attentati, estorsioni, persino consulenze per un traffico di droga. L’unica chance con i pentiti è quella di pesarli, con le loro verità e le loro menzogne, sulla bilancia dei riscontri. Come insegna una memorabile udienza del processo Andreotti, dove un grappolo di collaboratori - perché uno non basta mai - ipotizzava un abboccamento fra il sette volte presidente del Consiglio e il capo della mafia catanese Nitto Santapaola. Alla fine, messi alle strette dopo un estenuante batti e ribatti, i collaboratori indicarono la data del presunto summit. Peccato che quel giorno Andreotti avesse stretto la mano a Mikhail Gorbaciov.
Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili. Citazioni di Bertolt Brecht.
Il Prefetto (poco perfetto) del Bunga Bunga. Guarda un po’: il prefetto Carlo Ferrigno, uno dei testi chiave dell’atto di accusa di "papponaggio" a Berlusconi (“A casa di Berlusconi c’era pure la Minetti, col seno da fuori, che baciava Berlusconi in continuazione. Che puttanaio…”), è un esperto della materia: risulta iscritto nel registro degli indagati per violenza sessuale da sette donne: ricattate in cambio di pompini…, scrive “Dagospia”.
1 - IL PREFETTO SOTTO INCHIESTA PER VIOLENZA SESSUALE...Franco Bechis per "Libero". Uno dei testi chiave dell'atto di accusa a Silvio Berlusconi, il prefetto Carlo Ferrigno, è stato intercettato non su ordine di Ilda Boccassini e dei pm di Milano che stavano indagando sui festini di Arcore, ma del pm Stefano Civardi, che lo ha iscritto nel registro degli indagati per ipotesi di reato gravissime, fra cui la violenza sessuale. Il clamoroso particolare filtra con discrezione dal palazzo di Giustizia di Milano, e fa leggere sotto altra luce l'inchiesta principale. Ferrigno infatti è protagonista delle 389 pagine di intercettazioni telefoniche che Milano ha inviato in parlamento per inchiodare Berlusconi. Lo è perché Ferrigno è prefetto della Repubblica, e fra il 2003 e il 2006 è stato anche commissario anti-racket nominato dal governo Berlusconi. È attraverso le sue parole intercettate in tre telefonate che gli inquirenti e la stampa hanno disegnato il quadro delle feste di Arcore. Ferrigno non ha avuto mezze parole. È stato lui a definirle «un puttanaio» e a dare questo quadro alla stampa nelle prime ore. Lui a giudicare - alla luce dei festini - «un uomo di merda» il presidente del Consiglio, raccontando: «[...] tutte ragazze che poi alla fine erano senza reggipetto, solo le mutandine, quelle strette [...], capito? Bella roba, tutta la sera [...], pensa un po', che fa questo signore [...], ma che schifo quell'uomo». Trattandosi di un prefetto, di «un servitore dello Stato», quel giudizio è stato la chiave di lettura di quelle carte. Nessuno degli inquirenti però, inviandole a Montecitorio, si è premurato di fare sapere i guai giudiziari in cui il prefetto che si scandalizzava è incappato, e per cui il suo telefonino era sotto controllo del pm. Ferrigno è stato denunciato nel febbraio scorso dal presidente di Sos usura, Frediano Manzi, e dal presidente della Associazione Sos Italia Libera, Paolo Bocedi. Alla denuncia erano allegate sette testimonianze di donne che raccontavano ricatti e violenze sessuali subìte dal prefetto per sbloccare i loro mutui dal fondo anti-usura. Fatti avvenuti anche dopo l'abbandono dell'incarico di commissario, perché a loro dire il prefetto Ferrigno sosteneva di avere ancora in mano il commissariato. Le sette donne sono state convocate in procura e hanno confermato parola per parola i fatti. Una vittima dell'usura aveva consentito di filmare la sua denuncia, chiedendo di oscurare il volto. Il filmato è visionabile sul nostro sito. In procura sono arrivate altre due testi di accusa nei confronti di Ferrigno che hanno raccontato episodi di violenza sessuale svoltisi negli uffici o nelle abitazioni di Torino, di Milano e di Roma in cui si trovava il prefetto. Tutti e nove i verbali sono stati segretati dalla procura che ancora ha indagini in corso. Le accuse delle testi - lo capisce bene chi può visionare il video - sono gravissime. I presunti ricatti subiti sono di incredibile e odiosa violenza, le parole crude. Ferrigno - secondo il racconto - imponeva rapporti sessuali completi e talvolta orali in cambio dello sblocco dei mutui. E minacciava le malcapitate di non fare denuncia, perché tanto lui aveva relazioni con molti pm e molte procure e non le avrebbero mai prese sul serio. Il pubblico ministero Civardi invece le ha prese molto sul serio e così è nata l'inchiesta. Quando sono emerse le prime notizie, Ferrigno ha negato ogni responsabilità, sostenendo che le signore si erano inventate tutto. Sfortuna vuole che pochi giorni dopo, in tutt'altra procura - quella di Fermo - ma per episodi non dissimili si sia presentato un imprenditore, G.G., denunciando di avere subito analoghi ricatti dal prefetto per sbloccare la somma da lui attesa dal fondo anti-usura. Ha raccontato di avere dovuto pagare 5 mila euro per una serata che Ferrigno voleva trascorrere con alcune ragazze di un night club della riviera marchigiana. Il prefetto anche in questo caso è stato iscritto nel registro degli indagati, non per reati sessuali ma per corruzione. Entrambe le indagini sono ancora in corso, e per Ferrigno vale naturalmente la presunzione di innocenza. Anche se sembra singolare la sua inclinazione allo scandalo per le feste di Berlusconi. È curioso però come i verbali di intercettazione di Ferrigno siano finiti dentro un altro faldone che poco aveva a che vedere con il prefetto. Ferrigno infatti ha solo sfiorato le feste di Arcore, grazie a un suo rapporto assai stretto con una ballerina marocchina, Maria Makdoum, che la sera del 13 luglio ballò ad Arcore e nel cuore della notte telefonò a Ferrigno per un resoconto. Di quella telefonata ci sono solo i tabulati. Ma è citata come fosse avvenuta il giorno precedente in altre due telefonate, contenute in un brogliaccio di intercettazioni relative a telefonate che il prefetto ha fatto a un amico e al figlio il 22 e il 29 settembre 2010, a due mesi e mezzo dai fatti. Un giallo ulteriore che dovrà essere chiarito.
2 - LE INTERCETTAZIONI...Da "Libero". Che uomo di merda (...) Praticamente questo sai che faceva? Facevano le orge lì dentro, non con droga, non mi risulta, capito? E facevano quel lavoro lì. Bevevano tutte mezze discinte, e poi lui è rimasto con due o tre di queste (...) tutte ragazze che poi alla fine erano senza reggipetto, solo le mutandine quelle strette (...) capito? Bella roba, tutta la sera (...) pensa un po\', che fa questo signore (...) ma che schifo quell'uomo.
La testimone X.Y su Ferrigno...Sua Eccellenza il prefetto Carlo Ferrigno mi chiamò a Roma per vedere la mia pratica perché diceva che c'erano novità. Mi mandò a prendere da Tonino, il suo autista. Suonai. Mi venne ad aprire Sua Eccellenza e io ero un po' imbarazzata perché lo vidi in accappatoio. (...) La situazione era imbarazzante perché era nudo. Lui lasciava aperto l'accappatoio e quindi si vedevano i genitali. Cominciò con dei convenevoli (...) mi chiese di toccarlo. Mi disse proprio "Mi fai il favore di toccarmi?". Dissi che non ci pensavo proprio. Lui reagì sostenendo che non avevo capito, non dovevo pensare male... Mi prese per mano e mi portò in camera da letto... (...) Mi prese le mani e le mise sui suoi genitali... Io mi ritrassi. Lui disse che non avevo capito niente, (...) ma che ero abbastanza intelligente per capire che questa situazione mi avrebbe portato dei benefici. Lui (il prefetto Carlo Ferrigno) chiuse la porta dietro di me a chiave. Mi sono sentita sicuramente in trappola (...). Mi disse che non pretendeva tanto, che gli bastava anche un rapporto orale. Gli dissi che non se ne parlava proprio. Lui mi spinse sul letto e mi infilò la mano nei calzoni. Nel frattempo si era slacciato i suoi e aveva fuori il pene e i testicoli (...) Mi disse che le pratiche potevano restare ferme fino alla prescrizione, che lui aveva tanti amici nelle procure e anche fra i giudici e che la mia denuncia sarebbe finita in niente... Mi portò nei sotterranei... Mi prese la mano, la portò sui calzoni. Si slacciò la cerniera e in quella occasione mi disse che era la soluzione a tutti i miei problemi... se non vuoi avere un rapporto con me possiamo avere almeno un rapporto orale. Chiaramente mi rifiutai e lui mi disse che avevo deciso comunque la mia fine...
Ferrigno su Berlusconi. A casa di Berlusconi c'era pure la Minetti, col seno da fuori, che baciava Berlusconi in continuazione, insomma, senti, proprio un puttanaio eh? Quella Minetti lì, dice che poi non è nemmeno tanto bella, quella sera che c'erano tutte donne, Emilio Fede, Lele e lei, c'era anche la Minetti (...) quella mi chiamava, pur essendo lei una puttanella è rimasta esterrefatta quando stavano tutte discinte con le mutande, mezze ubriache, in braccio a Berlusconi e se le baciava tutte, le toccava tutte....
Si chiama «Lady Mafia», è una serie a fumetti noir che vede protagonista una donna del Sud a metà tra mala, sete di vendetta e voglia di giustizia. Il fumetto è in edicola da neanche 48 ore ed è già diventato un caso, scrive Alessandro Fulloni su “Il Corriere della Sera”. Tanto da essere bocciato dalla commissione parlamentare Antimafia che, per bocca del deputato Pd Davide Mattiello, parla di «operazione editoriale offensiva che deve essere sospesa», siamo davanti a un albo «che non trova di meglio che esaltare la violenza mafiosa come una risposta alla violenza mafiosa». Dello stesso tenore il comunicato di Libera, l’associazione antimafia fondata da don Ciotti. «Ancora una volta si gioca con le parole e si sfrutta il “fascino” della mafia per un’attività commerciale che di educativo e formativo non ha nulla». Ma cos’è Lady Mafia? L’albo ammicca alle suggestioni del fumetto noir anni Sessanta/Settanta, Diabolik in testa. Formato bonelliano, 132 pagine bimestrali. Una programmazione di 10 uscite. Pubblicato dalla «Cuore Noir Edizioni», casa editrice pugliese che ora prova l’esperimento dell’edicola. Per ora Lady Mafia ha ricevuto recensioni e anticipazioni lusinghiere dalle riviste specializzate. La storia è quella di una ragazza del Sud, che nella fantasia dell’autore, Pietro Favorito, prende il nome di Veronica De Donato. Una storia dura, una saga familiare che mescola sangue e violenza. Alle spalle una famiglia distrutta dalla mafia in modo truce. E un presente volto a cercare una giustizia che sa molto di vendetta. Feroce. Libera però ritiene l’uscita di questo albo «un’operazione che ferisce la memoria di tante donne vittime delle mafie e dei loro familiari, impegnati a promuovere con le loro testimonianze il valore della giustizia contro la barbarie anche culturale della vendetta». Non solo. «Nel paese di Lea Garofalo e di tante donne come lei che hanno scelto, anche a prezzo della vita - si legge in un comunicato - il coraggio della denuncia, il fumetto Lady Mafia rappresenta un vero e proprio insulto alla loro memoria». Lo sceneggiatore dell’albo Favorito replica così alle accuse: «Innanzitutto teniamo a precisare che non è nelle nostre intenzioni ferire nessuna delle tante donne vittime della mafia - dice a Corriere.it - né tantomeno oltraggiare la loro memoria. Ma certe accuse arrivano da chi il fumetto non lo ha nemmeno letto. La violenza? Il nostro obiettivo è quello di demistificarla raccontandola». L’autore spiega che «Lady Mafia è un fumetto noir, che si tinge di tinte forti come previsto dal filone narrativo cui fa capo, e le parole Lady Mafia altro non vogliono essere che un sostantivo femminile della parola boss. Se invece di chiamarlo Lady Mafia, il nostro fumetto l’avessimo chiamato mister mafia, avremmo fatto lo stesso scalpore?».
Berlusconi come Riina: «Pedinate chiunque passi per Arcore», scrive Giovanni M. Jacobazzi il 7 Aprile 2017 su "Il Dubbio". Così la Guardia di Finanza controllava gli amici del Cavaliere: si appostavano davanti villa San Martino con microcamere a infrarossi nascoste in un auto civetta. «Interesse investigativo». In questi termini, senza aggiungere altro, il maresciallo della guardia di finanza di Milano Emiliano Talanga, rispondendo ad una domanda della difesa, ha spiegato il perché del pedinamento del generale dei carabinieri Vincenzo Giuliani che andava ad incontrare Silvio Berlusconi ad Arcore. La circostanza è emersa la scorsa settimana durante l’udienza nel processo in corso davanti alla quarta sezione penale del tribunale di Milano, presidente Giulia Turri, a carico del consigliere regionale lombardo Mario Mantovani (FI), imputato per reati contro la Pubblica amministrazione. Nel mese di ottobre del 2013, all’epoca dei fatti contestati, Mantovani ricopre la carica di vice presidente ed assessore alla Salute della Regione Lombardia, nonché quella di coordinatore regionale del Popolo delle Libertà. Il suo telefono è intercettato. Come anche quello del suo segretario particolare Giacomo Di Capua. I finanzieri del gruppo Tutela Spesa Pubblica di Milano, coordinati dal sostituto procuratore Giovanni Polizzi, sospettano che i due, fra le tante cose, condizionino alcuni appalti nella sanità lombarda. Agli inizi di ottobre di quell’anno, Di Capua viene contattato dal colonnello dei carabinieri Giovanni Balboni, aiutante di campo del generale Vincenzo Giuliani. I due si conoscono da diverso tempo. Giuliani è al massimo della carriera. Nominato generale di corpo d’armata, è stato appena mandato a comandare l’interregionale carabinieri “Pastrengo”, uno degli incarichi più prestigiosi d’Italia, con competenza sul Piemonte, la Lombardia e la Liguria. Di Capua e Balboni decidono di organizzare un incontro fra Giuliani e Berlusconi ad Arcore. Mantovani, in qualità di coordinatore regionale del Pdl, si occuperà di prendere un appuntamento con lo staff di Berlusconi. I carabinieri sono di casa ad Arcore, svolgendo ininterrottamente dal 2000 un servizio di vigilanza fissa intorno a villa San Martino. Servizio che non è stato interrotto neppure quando Berlusconi non era più Presidente del Consiglio. Sono telefonate frenetiche quelle fra Di Capua e Balboni. L’agenda di Berlusconi è fitta di impegni. I due si vedono anche presso la sede del comando interregionale “Pastrengo” in via Marcora nel centro di Milano. Tramite il cellulare intercettato di Di Capua, Giuliani parla in diverse occasioni direttamente con Mantovani. Ad uno di questi incontri fra Di Capua e Balboni si presentano anche i finanzieri. Nascosti nel parcheggio antistante la sede di via Marcora, registrano e fotografano tutto. Uno spazio nell’agenda di Berlusconi si libera per il 14 ottobre. Nel pomeriggio. Recarsi ad Arcore è un sorta di “porta fortuna” per i comandanti dell’interregionale “Pastrengo”: i predecessori di Giuliani, il generale Luciano Gottardo e il Generale Gianfrancesco Siazzu, dopo quell’incarico furono nominati comandanti generali dell’Arma. Per il 14 ottobre è tutto pronto. La finanza organizza nei confronti di Giuliani un servizio che nel gergo tecnico si chiama Ocp (osservazione, controllo e pedinamento). Con delle micro telecamere ad infrarosso nascoste in un’auto “civetta”, i finanzieri si appostano davanti villa San Martino e riprendono il generale che arriva nei pressi della residenza dell’ex premier con l’autovettura di servizio. Fino a quando, come si legge nel verbale, parcheggiato il veicolo nei pressi della villa, «scendeva dalla propria auto in dotazione all’Arma ed entrava nella auto Bmw grigia con a bordo l’assessore Mantovani, la quale ripartiva per entrare» nella residenza. Il filmato integrale, con tanto di audio, è agli atti d’indagine. Cosa si siano detti Giuliani e Berlusconi non è dato sapere visto che le riprese si interrompono davanti al cancello di villa San Martino. Difficilmente si saprà qualcosa dai diretti interessati in quanto sia Giuliani che Berlusconi non sono nella lista testi. Giuliani, però, quando alcuni atti di questo incontro finirono sui giornali, diede la sua versione dell’accaduto. «Quando arrivai in Regione, Mantovani (che conoscevo in Piemonte quando era sottosegretario alle Infrastrutture) mi chiese se avessi piacere di salutare Berlusconi. Io accettai anche perché avrei voluto dire al presidente che era appena cambiata tutta la catena gerarchica, e indicare gli interlocutori per qualunque inconveniente relativo ai servizi dell’Arma attorno alla villa». Ma perché il trasbordo sull’auto di Mantovani? «Si offrì lui di portarmi sulla sua auto, che presumo fosse più conosciuta dai guardiani di Arcore. Io valutai di entrarvi non in divisa e non sulla mia auto per non allarmare nessuno: questione di riservatezza, non di carboneria. Non chiesi alcunché a Berlusconi, né l’ho più incontrato». Tranne, appunto, il 14 ottobre del 2013 in un incontro definito dai finanzieri di Milano di “interesse investigativo”.
2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.
«Perché ho scelto di porre un termine al governo Letta». Silvio Berlusconi, lettera a Tempi del 1 ottobre 2013. «Gentile direttore, non mi sfuggono, e non mi sono mai sfuggiti, i problemi che affrontano l’Italia che amo ed i miei concittadini. La situazione internazionale continua a essere incerta. I dati economici nazionali non sono indirizzati alla ripresa. E, nonostante le puntuali resistenze del centrodestra, un esorbitante carico fiscale continua a deprimere la nostra industria, i commerci, i bilanci delle famiglie». Inizia così la lunga lettera che Silvio Berlusconi ha scritto a Tempi. Berlusconi si chiede quanti danni abbia provocato all’Italia «un ventennio di assalto alla politica, alla società, all’economia, da parte dei cosiddetti “magistrati democratici” e dei loro alleati nel mondo dell’editoria, dei salotti, delle lobby? Quanto male ha fatto agli italiani, tra i quali mi onoro di essere uno dei tanti, una giustizia al servizio di certi obiettivi politici?». Berlusconi cita il caso dell’Ilva di Taranto, la cui chiusura è avvenuta «grazie anche a quella che, grottescamente, hanno ancora oggi il coraggio di chiamare “supplenza dei giudici alla politica”», e torna a chiedere: «Di quanti casi Ilva è lastricata la strada che ci ha condotto nell’inferno di una Costituzione manomessa e sostituita con le carte di un potere giudiziario che ha preso il posto di parlamento e governo? (…) Hanno “rovesciato come un calzino l’Italia”, come da programma esplicitamente rivendicato da uno dei pm del pool di Mani Pulite dei primi anni Novanta, ed ecco il bel risultato: né pulizia né giustizia. Ma il deserto». «Non è il caso Berlusconi che conta – prosegue -. Conta tutto ciò che, attraverso il caso Silvio Berlusconi, è rivelatore dell’intera vicenda italiana dal 1993 ad oggi. Il caso cioè di una persecuzione giudiziaria violenta e sistematica di chiunque non si piegasse agli interessi e al potere di quella parte che noi genericamente enunciamo come “sinistra”. Ma che in realtà è rappresentata da quei poteri e forze radicate nello Stato, nelle amministrazioni pubbliche, nei giornali, che sono responsabili della rapina sistemica e del debito pubblico imposti agli italiani. Berlusconi non è uno di quegli imprenditori fasulli che ha chiuso fabbriche o ha fatto a spezzatini di aziende per darsi alla speculazione finanziaria. Berlusconi non è uno di quelli che hanno spolpato Telecom o hanno fatto impresa con gli aiuti di Stato. (…) Berlusconi è uno dei tanti grandi e piccoli imprenditori che al loro paese hanno dato lavoro e ricchezza. Per questo, l’esempio e l’eccellenza di questa Italia che lavora dovevano essere invidiati, perseguitati e annientati (questo era l’obbiettivo di sentenze come quella che ci ha estorto 500 milioni di euro e, pensavano loro, ci avrebbe ridotto sul lastrico) dalle forze della conservazione». Il leader del centrodestra ripercorre poi le vicende politiche degli ultimi anni, ricordando il suo sostegno al governo Monti e, oggi, al governo Letta. Scrive Berlusconi: «Abbiamo contribuito, contro gli interessi elettorali del centrodestra, a sostenere governi guidati da personalità estranee – talvolta ostili – al nostro schieramento. Abbiamo dato così il nostro contributo perché la nazione tornasse a respirare, si riuscisse a riformare lo Stato, a costruire le basi per una nostra più salda sovranità, a rilanciare l’economia. Con il governo Monti le condizioni stringenti della politica ci hanno fatto accettare provvedimenti fiscali e sul lavoro sbagliati. Con il governo Letta abbiamo ottenuto più chiarezza sulle politiche fiscali, conquistando provvedimenti di allentamento delle tasse e l’impostazione di una riforma dello Stato nel senso della modernizzazione e della libertà». «Alla fine, però, i settori politicizzati della magistratura sono pervenuti a un’incredibile, ingiusta perché infondata, condanna di ultima istanza nei miei confronti. Ed altre manovre persecutrici procedono in ogni parte d’Italia». «Enrico Letta e Giorgio Napolitano – scrive l’ex presidente del Consiglio - avrebbero dovuto rendersi conto che, non ponendo la questione della tutela dei diritti politici del leader del centrodestra nazionale, distruggevano un elemento essenziale della loro credibilità e minavano le basi della democrazia parlamentare. Come può essere affidabile chi non riesce a garantire l’agibilità politica neanche al proprio fondamentale partner di governo e lascia che si proceda al suo assassinio politico per via giudiziaria?». «Il Pd (compreso Matteo Renzi) ha tenuto un atteggiamento irresponsabile soffiando sul fuoco senza dare alcuna prospettiva politica. Resistere per me è stato un imperativo morale che nasce dalla consapevolezza che senza il mio argine – che come è evidente mi ha portato ben più sofferenze che ricompense – si imporrebbe un regime di oppressione insieme giustizialista e fiscale. Per tutto questo, pur comprendendo tutti i rischi che mi assumo, ho scelto di porre un termine al governo Letta». Infine la conclusione: «Ho scelto la via del ritorno al giudizio del popolo non per i “miei guai giudiziari” ma perché si è nettamente evidenziata la realtà di un governo radicalmente ostile al suo stesso compagno di cosiddette “larghe intese”. Un governo che non vuole una forza organizzata di centrodestra in grado di riequilibrarne la sua linea ondivaga e subalterna ai soliti poteri interni e internazionali». Berlusconi dice di voler recuperare «quanto di positivo è stato fatto ed elaborato (per esempio in tema di riforme istituzionali) da questo governo che, ripeto, io per primo ho voluto per il bene dell’Italia e che io per primo non avrei abbandonato se soltanto ci fosse stato modo di proseguire su una linea di fattiva, di giusta, di leale collaborazione». Ma spiega anche di non averlo più voluto sostenere «quando Letta ha usato l’aumento dell’Iva come arma di ricatto nei confronti del mio schieramento ho capito che non c’era più margine di trattativa». «Non solo – aggiunge -. Quando capisci che l’Italia è un Paese dove la libera iniziativa e la libera impresa del cittadino diventano oggetto di aggressione da ogni parte, dal fisco ai magistrati; quando addirittura grandi imprenditori vengono ideologicamente e pubblicamente linciati per l’espressione di un libero pensiero, quando persone che dovrebbero incarnare con neutralità e prudenza il ruolo di rappresentanti delle istituzioni pretendono di insegnarci come si debba essere uomini e come si debba essere donne, come si debbano educare i figli e quale tipo di famiglia devono avere gli italiani, insomma, quando lo Stato si fa padrone illiberale e arrogante mentre il governo tace e non ha né la forza né la volontà di difendere la libertà e le tasche dei suoi cittadini, allora è bene che la parola ritorni al nostro unico padrone: il popolo italiano».
Sceneggiata in fondo a destra, scrive Stefania Carini su “Europa Quotidiano”. Nessuna sceneggiatura al mondo può batterci, perché noi teniamo la sceneggiata. Non ci scalfisce manco Sorkin con West Wing e The Newsroom (uno degli attori di quest’ultima serie era pure presente al Roma Fiction Fest per annunciarne la messa in onda su Raitre). Tze, nessun giornalista o politico sul piccolo schermo può batterci in queste ore. Bastava vedere oggi le prime pagine di due giornali dall’opposto populismo: per Il Giornale è tradimento, per Il Fatto è inciucio. Ah, la crisi secondo il proprio target di spettatori! E ‘O Malamente che dice? Ma come in tutti i melodrammi, i gesti sono più importanti. Vedere per capire. In senato prima arriva Alfano e si siede accanto a Letta, vorrà dire qualcosa? Poi arriva Berlusconi, e allora colpa di scena! Marcia indietro? Sardoni (sempre la più brava) racconta di un Bondi che si scrolla dalla pacca sulla spalla di Lupi. Non toccarmi, impuro! Biancofiore e Giovanardi litigano a Agorà, ma ieri sera già aleggiava una forza di schizofrenia sui nostri schermi. Sallusti e Cicchitto erano seduti a Ballarò dalla stessa parte, secondo solita partitura visiva del talk. Solo che invece di scannarsi con i dirimpettai, con quelli della sinistra, si scannavano fra di loro. Una grande sequenza comico-drammatica, riproposta pure da Mentana durante la sua consueta lunga maratona in mattinata.
A Matrix pure Feltri faceva il grande pezzo d’attore, andandosene perché: «Non ne posso più di Berlusconi, di Letta e di queste discussioni interminabili, come non ne possono più gli italiani». Oh, sì, gli italiani non ne possono più, ma davanti a un tale spettacolo come resistere? Siamo lì, al Colosseo pieno di leoni, e noi con i popcorn. Alla fine ‘O Malamente vota il contrario di quanto detto in mattinata, e il gesto plateale si scioglie in un risata farsesca per non piangere. Tze, Sorkin, beccati questo. Noi teniamo Losito. Solo che nella realtà non abbiamo nessuno bello come Garko.
COSA HA RIPORTATO LA STAMPA.
IL CORRIERE DELLA SERA - In apertura: “Resa di Berlusconi, ora il governo è più forte”.
LA REPUBBLICA - In apertura: “La sconfitta di Berlusconi”.
LA STAMPA - In apertura: “Fiducia a Letta e il Pdl si spacca”.
IL GIORNALE - In apertura: “Caccia ai berlusconiani”.
IL SOLE 24 ORE - In apertura: “Resa di Berlusconi, fiducia larga a Letta”.
IL TEMPO - In apertura: “Berlusconi cede ad Alfano e vota la fiducia al governo. Pdl sempre più nel caos”.
IL FATTO QUOTIDIANO – In apertura: “La buffonata”.
Il Financial Times titola a caratteri cubitali sulla "vittoria" del premier Letta al senato e sottolinea che l'Italia si è allontanata dal baratro dopo "l'inversione a U" di Berlusconi.
Sulla homepage di BBC News campeggia la foto di Berlusconi in lacrime con sotto il titolo "Vittoria di Letta dopo l'inversione a U di Berlusconi".
Apertura italiana anche per il quotidiano The Guardian, che evidenzia un piccolo giallo e chiede la partecipazione dei lettori. "Cosa ha detto Enrico Letta subito dopo l'annuncio di Berlusconi di votare per la fiducia al Governo"?. Passando alle testate spagnole, il progressista El Paìs pubblica in homepage una photogallery dal titolo "Le facce di Berlusconi" (tutte particolarmente adombrate) e titola il pezzo portante sulla crisi italiana dicendo che l'ex premier, "avendo avuto certezza di non poter vincere, ha deciso di non perdere".
Il conservatore El Mundo, invece, dedica l'apertura oltre che alla cronaca della giornata al Senato alla figura di Angelino Alfano, con un editoriale intitolato: "Il delfino che ha detto basta", nel quale si evidenzia la spaccatura profonda che ha minato l'integrità finora incrollabile del partito di Silvio Berlusconi.
E poi ci sono i quotidiani tedeschi. Lo Spiegel International titola a tutta pagina "Fallito il colpo di Stato in Parlamento. L'imbarazzo di Berlusconi". Lo Spiegel in lingua madre, invece, pone l'accento sulla "ribellione contro il Cavaliere, che sancisce la fine di un'epoca".
Foto con cravatta in bocca per Enrico Letta sul Frankfurter Allgemeine. Il quotidiano, da sempre molto critico nei confronti di Berlusconi, titola in apertura: "Enrico Letta vince il voto di fiducia" e poi si compiace che sia "stata scongiurata in Italia una nuova elezione" dopo una svolta a 180 gradi di Berlusconi.
Il New York Times dedica uno spazio in prima pagina a "Berlusconi che fa marcia indietro sulla minaccia di far cadere il governo".
Tra i giornali russi, il primo ad aprire sull'Italia è il moderato Kommersant, che dedica al voto di fiducia un articolo di cronaca con foto triste di Berlusconi, sottolineando che "L'Italia ha evitato nuove elezioni". Stessa cosa vale anche per il sito in lingua inglese di Al Jazeera, l'emittente del Qatar, che apre la sua edizione online con una foto di Enrico Letta che sorride sollevato "dopo la vittoria".
Telegrafico Le Monde, che titola: "Il governo Letta ottiene la fiducia. Dopo la defezione di 25 senatori del PdL, Silvio Berlusconi ha deciso di votare la fiducia all'esecutivo".
"Berlusconi cambia casacca" è invece il titolo scelto dal quotidiano di sinistra Liberation.
Infine Le Figaro, quotidiano sarkozysta, titola: "Il voltafaccia di Silvio Berlusconi risparmia all'Italia una crisi".
FARSA ITALIA. UNA GIORNATA DI ORDINARIA FOLLIA.
Tra le 12, quando Sandro Bondi scandisce in Aula “fallirete”, e le 13,30, quando Silvio Berlusconi si arrende e, con un sorriso tirato, annuncia il sì al governo, è racchiuso tutto il senso di una giornata che, senza enfasi, il premier Enrico Letta definirà storica. Per la prima volta, infatti, il Cavaliere è costretto a ripiegare e a cedere sovranità alla decisione imposta da Angelino Alfano, il delfino considerato come un figlio che ha ucciso il padre. Che per il Pdl sia stata una giornata convulsa è ormai chiaro a tutti. E lo dimostra anche questa dichiarazione di Renato Brunetta, il quale, uscendo dalla riunione dei parlamentari del partito a Palazzo Madama, annuncia convinto che il Pdl toglierà la fiducia al Governo Letta. Poco dopo, in aula, la retromarcia di Berlusconi. Mercoledì 2 ottobre intorno alle 13.32 Silvio Berlusconi ha preso la parola al Senato e ha detto a sorpresa che il PdL avrebbe confermato la fiducia al governo Letta. Poco prima, il capogruppo del PdL alla Camera Renato Brunetta aveva detto perentoriamente ad alcuni giornalisti che «dopo lunga e approfondita discussione» nel gruppo dei parlamentari PdL, «l’opzione di votare la sfiducia al governo è stata assunta all’u-na-ni-mi-tà dei presenti».
La cronaca della giornata comincia, infatti, molto presto.
2,30 del mattino, Angelino Alfano ha lasciato palazzo Grazioli dopo un lunghissimo faccia a faccia con il Cavaliere, concluso con una rottura dolorosa, ed una sfida, quella lanciata dal leader del centrodestra: "Provate a votare la fiducia a Letta e vedremo in quanti vi seguiranno".
9.30, “L’Italia corre un rischio fatale, cogliere o non cogliere l’attimo, con un sì o un no, dipende da noi”, ha esordito Letta, aggiungendo che "gli italiani ci urlano che non ne possono più di ‘sangue e arena’, di politici che si scannano e poi non cambia niente”, ma al tempo stesso ribadendo che “i piani della vicenda giudiziaria che investe Silvio Berlusconi e del governo, non potevano, né possono essere sovrapposti” e che ”il governo, questo governo in particolare, può continuare a vivere solo se è convincente. Per questo serve un nuovo patto focalizzato sui problemi delle famiglie e dei cittadini”.
Quando il presidente del Consiglio Letta ha cominciato a parlare in Senato, Giovanardi, Roberto Formigoni e Paolo Naccarato, i più decisi fra gli scissionisti, facevano circolare una lista di 23 nomi, aggiungendo però che al momento della conta il risultato finale sarebbe stato ancoro più corposo. "Siamo già in 25 - dice Roberto Formigoni parlando con i cronisti in Transatlantico della scissione dal gruppo Pdl - E' possibile che altri si aggiungano. Nel pomeriggio daremo vita a un gruppo autonomo chiamato 'I Popolari'. Restiamo alternativi al centrosinistra, collocati nel centrodestra". Questi i cognomi dei primi firmatari: Naccarato, Bianconi, Compagna, Bilardi, D'Ascola, Aielo, Augello, Caridi, Chiavaroli, Colucci, Formigoni, Gentile, Giovanardi, Gualdani, Mancuso, Marinello, Pagano, Sacconi, Scoma, Torrisi, Viceconte, L.Rossi, Quagliariello. Con questi numeri, come già aveva pensato anche il ministro Gaetano Quagliariello, il premier Letta aveva già raggiunto il quorum teorico al Senato. Infatti il presidente del Consiglio parte da una base di 137 voti (escluso quello del presidente del Senato che per tradizione non vota), ai quali si aggiungono i 5 dei senatori a vita ed i 4 annunciati dai fuoriusciti M5s. In questo modo il governo supera abbondantemente la fatidica ‘quota 161′ necessaria a Palazzo Madama assestandosi intorno a quota 170.
Berlusconi, che a seduta ancora in corso ha riunito i suoi per decidere il da farsi, ha detto che ''sarà il gruppo in maniera compatta a decidere cosa fare. Prendiamo una decisione comune per non deludere il nostro popolo''. Alla riunione non hanno partecipato i senatori considerati i ormai con le valigie in mano e una prima votazione si è chiusa con una pattuglia di 27 falchi schieratissimi sulla sfiducia al governo, mentre 23 erano per lasciare l'aula al momento del voto (al Senato l'astensione è equiparata al voto contrario) mentre solo due si sono comunque espressi per il voto di fiducia. Nonostante i no assoluti a Letta fossero quindi una netta minoranza rispetto al plenum del gruppo Pdl, Berlusconi ha tagliato corto "voteremo contro la fiducia", come il capo ufficio stampa del partito si è premurato di far sapere a tutti i giornalisti presenti nella sala antistante l'aula. Il Cavaliere dichiara: “voteremo no e resteremo in aula Se uscissimo fuori sarebbe un gesto ambiguo e gli elettori non lo capirebbero''. In aula al Senato è Sandro Bondi a schierarsi contro Enrico Letta con queste parole: “avete spaccato il Pdl ma fallirete.
11.30. Contrariamente a quanto si vociferava, non è Silvio Berlusconi ad intervenire in aula al Senato ma Sandro Bondi. Bondi ricorda a Letta di essere a Palazzo Chigi grazie anche al PdL; rimarca il passaggio di Letta circa il concetto di pacificazione e sostiene che per Letta, la pacificazione sta nell’eliminare politicamente Silvio Berlusconi. Bondi ricorda a Letta che il problema giudiziario di Berlusconi nasce anche da Tangentopoli quando la tempesta giudiziaria travolse anche la Democrazia Cristiana, partito d’origine del Premier. Intanto, il PdL ha deciso: voterà la sfiducia all’unanimità. Questo è il quanto alle 12.00.
Poco dopo le 12.10 Enrico Letta riprende la parola nell’aula del Senato. Parla di giornata storica ma dai risvolti drammatici e ricorda che il travaglio di molti senatori va rispettato. Esprime gratitudine e solidarietà alla Senatrice Paola De Pin, per l’intervento in aula e per aver rischiato un attacco fisico da parte dei suoi ormai ex colleghi del M5S e sottolinea, rivolgendosi ai Senatori grillini che il rispetto della persona è alla base della democrazia. Durante l’intervento di Letta, vibranti proteste contro Letta da parte del Senatore Scilipoti che viene zittito dal Presidente Grasso. Letta aggiunge che i numeri che sostengono il governo sono cambiati ma comunque è fiducioso circa il raggiungimento degli obiettivi di governo verso i quali si pone con le parole “chiari” e “netti”. Il presidente del Consiglio ringrazia chi ha votato prima per l’attuale maggioranza come chi, oggi ha deciso diversamente. Letta rimarca il ruolo importante dell’Italia nel contesto europeo per il quale auspica centralità ed il coinvolgimento del Parlamento per il semestre UE. Si conclude qui, la replica del presidente del Consiglio e si aprono le dichiarazioni di voto. Questo è il quanto alle 12,30.
13.32. Berlusconi, e non il capogruppo Renato Schifani, interviene per la dichiarazione di voto del Pdl. E in meno di tre minuti, con volto terreo, e senza fare nessun riferimento alle convulsioni dei giorni precedenti, ha rinnovato la fiducia a Letta "non senza travaglio". Il suo intervento al Senato è arrivato alle 13.32. Sottolinea che ad aprile ritenne di mettere insieme un governo di centrosinistra col centrodestra per il bene del Paese. Accettando tutte le volontà del presidente incaricato Enrico Letta, accettando di avere solo 5 ministri. “Lo abbiamo fatto con la speranza che potesse cambiare il clima del nostro Paese - ha sostenuto - andando verso una pacificazione. Una speranza che non abbiamo deposto. Abbiamo ascoltato le parole del premier sugli impegni del suo Governo e sulla giustizia. Abbiamo deciso di esprimere un voto di fiducia a questo governo”. Pone fine al proprio intervento, torna a sedersi e scoppia a piangere.
La fiducia al Governo Letta è passata con 235 voti a favore e 70 voti contrari.
Alle 16.00 il Presidente del Consiglio, Enrico Letta, ha aperto il suo intervento alla Camera. Sostanzialmente è un rimarcare quanto già espresso stamattina in Senato. Intanto, nelle ore precedenti, si delinea la formazione del nuovo gruppo politico costituito da transfughi del PdL e capitanati da Fabrizio Cicchitto; sono ufficialmente 12 ma si conta di arrivare complessivamente a 26 Parlamentari. A margine della conferenza dei capigruppo alla Camera, la Presidenza ha dato il disco verde per la costituzione del nuovo gruppo che interverrà sin da oggi pomeriggio nel dibattito parlamentare che seguirà l’intervento di Letta.
Poco prima delle 21,30, la Camera ha espresso il proprio voto nei confronti del governo Letta. 435 favorevoli e 162 contrari. Termina qui, questa lunga giornata politica dalla quale il Paese esce con un governo confermato ma sostenuto da una nuova maggioranza.
Vittorio Feltri fa trapelare il suo malessere su Twitter: "Chi incendia la propria casa e poi spegne le fiamme è un incendiario, un pompiere o un pirla?".
27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.
Storicamente, il populismo, ha rappresentato una delle più sofisticate manifestazioni politiche di disprezzo per il popolo. La premessa serve a fare gli elogi al discorso tenuto in Senato dalla capogruppo del M5S, Paola Taverna. Un discorso compatto, preciso, ricco di passione e ritmo, costruito impeccabilmente. “In dieci minuti quello che il Pd non ha detto per venti ann”, è stato scritto sulla rete. Lo ripropongo nello stenografico di Palazzo Madama (i puntini di sospensione segnalano le infinite, e stizzite, interruzioni da parte di Forza Italia).
«Signor Presidente, onorevoli colleghi, si chiude, oggi, impietosamente, una «storia italiana», segnata dal fallimento politico, dall’imbarbarimento morale, etico e civile della Nazione e da una pesantissima storia criminale. Storie che si intrecciano, maledettamente, ai danni di un Paese sfinito e che riconducono ad un preciso soggetto, con un preciso nome e cognome: Silvio Berlusconi. La sua lunga e folgorante carriera l’abbiamo già ricordata in passato: un percorso umano e politico costellato di contatti e rapporti mai veramente chiariti, che passano per società occulte, P2, corruzione in atti giudiziari, corruzione semplice, concussione, falsa testimonianza, finanziamento illecito, falso in bilancio, frode fiscale, corruzione di senatori, induzione alla prostituzione, sfruttamento della prostituzione e prostituzione minorile. Insomma un delinquente abituale, recidivo e dedito al crimine, anche organizzato, visti i suoi sodali. Ideatore, organizzatore e utilizzatore finale dei reati da lui commessi. Senatore Berlusconi, anzi signor Berlusconi, mi dispiace che lei non sia in Aula. Forse alcuni hanno dimenticato che la sua discesa in campo ha avuto soprattutto, per non dire esclusivamente, ragioni imprenditoriali: la situazione della Fininvest nei primi anni Novanta, con più di 5.000 miliardi di lire di debiti, parlava fin troppo chiaro; il rischio di bancarotta era dietro l’angolo. Alcuni suoi dirigenti vedevano come unica via d’uscita il deposito dei libri contabili in tribunale. La cura Forza Italia è stata fantastica per le sue finanze, perché – ricordiamolo – non è entrato in politica per il bene di questo Paese, come declamava da dietro una scrivania su tutte le sue televisioni. Le elezioni politiche del 1994 hanno segnato l’inizio di una carriera parlamentare illegittima, sulla base della violazione di una legge vigente sin dal 1957, la n. 361, secondo la quale Silvio Berlusconi era ed è palesemente ineleggibile. Quella legge non è mai stata applicata, benché fosse chiarissima, grazie alla complicità del centrosinistra di dalemiana e violantiana memoria. Per non parlare dell’eterna promessa, mai mantenuta, di risolvere il conflitto di interessi. E tutto ciò è avvenuto non per ragioni giuridiche – come ora qualcuno, mentendo, vorrebbe farci credere – ma per onorare patti scellerati, firmati sottobanco per dividersi le spoglie di un Paese. Forse qualcuno si indignerà, urlando che queste sono semplici illazioni. Lasciamo che sia la storia a rispondere! Camera dei deputati, 28 febbraio 2002, Resoconto stenografico della seduta n. 106 della XIV legislatura. Cito le parole dell’onorevole Luciano Violante, al tempo capogruppo dei Ds, oggi Pd, mentre si rivolge ad un collega dell’apparentemente opposto schieramento: «(…) l’onorevole Berlusconi (…) sa per certo che gli è stata data la garanzia piena – e non adesso, nel 1994, quando ci fu il cambio di Governo – che non sarebbero state toccate le televisioni. Lo sa lui e lo sa l’onorevole Letta», zio. «Voi ci avete accusato di regime nonostante non avessimo fatto il conflitto di interessi, avessimo dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni (…). Durante i Governi di centrosinistra il fatturato di Mediaset è aumentato di 25 volte». Questa è storia! Come storia è la discesa in campo del senatore, fatta di promesse mai mantenute: dal taglio delle tasse al milione di posti di lavoro. Ma non era l’imprenditore illuminato che avrebbe salvato l’Italia, anzi l’azienda Italia? Quello che doveva pensare alla cosa pubblica? Dal discorso del senatore Berlusconi del 1994 cito: «La vecchia classe politica è stata travolta dai fatti e superata dai tempi. (…) L’autoaffondamento dei vecchi governanti, schiacciati dal debito pubblico e dal finanziamento illegale dei partiti, lascia il Paese impreparato e incerto nel momento difficile del rinnovamento e del passaggio ad una nuova Repubblica». Incredibile, ma vero: sono proprio sue parole. Potrà però sorgerci legittimamente il dubbio che si sia preso gioco di noi per vent’anni, e ancora adesso? Due mesi fa abbiamo visto diversi Ministri, in suo nome, presentare le dimissioni dando inizio al siparietto della prima crisi di un Governo nato precario, per non parlare della legge di stabilità che giaceva ormai da settimane nella 5a Commissione. Ma lo vogliamo dire agli italiani che la legge, che dovrebbe assicurare i conti ma soprattutto garantire la ripartenza economica del nostro Paese e la sua stabilità, è stata svilita e degradata a semplice espediente dilatorio per farle guadagnare qualche altro giorno in carica? Oppure vogliamo ricordare i due bei regali che riceverà a spese di tutti noi contribuenti? Assegno di solidarietà pari a circa 180.000 euro; assegno vitalizio di 8.000 euro mensili. C’è bisogno poi di ricordare perché ancora oggi qualcuno, nonostante l’evidenza dei fatti, nonostante una sentenza passata in giudicato, voglia un voto, uno stramaledetto voto per applicare una legge? Ha senso ribadire lo sfacelo di venti anni di indottrinamento fondato sull’apparire, sul dire e il non fare, sull’avere e non sull’essere? Anche nell’ultimo atto della sua storia parlamentare comunque il senatore riuscirà a segnare un record. L’illegittimità e l’indegnità della sua carica senatoriale sono addirittura triple: incandidabilità sopravvenuta, ineleggibilità e interdizione da pubblici uffici per indegnità morale. In sostanza, un vero e proprio capolavoro! Questo Senato poi sentirà un’enorme mancanza dell’operato parlamentare del signor Berlusconi. Ho sentito oggi riprendere i senatori a vita. Dall’inizio della legislatura i dati dimostrano la sua dedizione al lavoro in questa istituzione; dimostrano la passione con cui ha interpretato il proprio mandato nell’interesse del Paese: disegni di legge presentati zero; emendamenti presentati zero; ordini del giorno zero; interrogazioni zero; interpellanze zero; mozioni zero; risoluzioni zero (Applausi dal Gruppo M5S); interventi in Aula uno, per dare la fiducia a questo Governo (eppure oggi è all’opposizione); presenze in Aula 0,01 per cento! Quindi, di cosa stiamo discutendo? Della decadenza dalla carica di senatore di un personaggio che il suo mandato non lo ha mai neppure lontanamente svolto, di un signore che però ha puntualmente portato a Palazzo Grazioli e ad Arcore ben 16.000 euro al mese per non fare assolutamente nulla, se non godere dell’immunità parlamentare. In questi venti anni il signor Berlusconi è stato quattro volte Presidente del Consiglio dei ministri, Presidente del Consiglio dell’Unione europea, due volte Ministro dell’economia e delle finanze, una volta Ministro dello sviluppo economico, Ministro degli affari esteri, Ministro della salute ma, soprattutto, è stato il Presidente del Consiglio che ha mantenuto per più tempo la carica di Governo e che ha disposto della più ampia maggioranza parlamentare della storia. Un immenso potere svilito e addomesticato esclusivamente ai propri fini, cioè architettare reati e incrementare il suo personale patrimonio economico… Quante cose avrebbe potuto fare per questo nostro Paese, se solo avesse anteposto il bene comune ai suoi interessi personali, le riforme strutturali alle leggi ad personam! E, invece, dopo tutto questo tempo ci troviamo con la disoccupazione al 40 per cento, pensionati a 400 euro mensili, nessun diritto alla salute, nessun diritto all’istruzione… un territorio devastato dalle Alpi alla Sicilia, le nostre città sommerse dalle piogge… e le nostre campagne avvelenate… Era il 1997 quando Schiavone veniva a denunciare dove erano stati sversati quintali di rifiuti tossici: lo stesso anno in cui questo Stato decise di segretare tali informazioni. Tutto ciò con l’IVA al 22 per cento e un carico fiscale che si conferma il più alto d’Europa, pari al 65,8 per cento dei profitti commerciali… e gli imprenditori… che si suicidano per disperazione, spesso nemmeno per debiti, ma per i crediti non pagati dalla pubblica amministrazione, cioè dallo Stato stesso! Di tutto questo il senatore Berlusconi non sembra preoccuparsi. La decadenza di un intero Paese sembra non interessargli minimamente, conta solo la sua. Giusto…Ha il terrore di espiare la propria pena ai servizi sociali, di svolgere mansioni che ritiene non alla sua altezza… Beh, sappia che quelli sono lavori che centinaia di migliaia di italiani perbene svolgono con dignità e onestà… Gli auguriamo che questa possa essere invece un’occasione per uscire dal suo mondo dorato, così forse potrà rendersi conto del disastro e del baratro in cui i cittadini normali si trovano a causa del sistema da lui generato e alimentato…Questo però non deve essere un discorso di rabbia. Questo vuole essere un discorso di speranza…Concludo, Presidente. La nostra presenza in quest’Aula oggi rappresenta un solo e semplice concetto: noi non vogliamo chiamarci politici, ma restituire il potere ai cittadini… Questa non è una vendetta. Qui non c’è nessuna ingiustizia o persecuzione. Qui ci sono solo cittadini italiani che vogliono riprendersi il proprio presente, altrimenti non avranno più un futuro.»
La decadenza di Berlusconi. Cronaca, frasi, retroscena di una giornata entrata nella storia della politica, scrive Paola Sacchi su “Panorama”. Aldo Cazzullo editorialista e commentatore del "Corriere della sera" inarca il sopracciglio e un po' sorride quando, in uno dei corridoi di Palazzo Madama, il verace senatore dalemiano Ugo Sposetti confessa: "La decadenza di Silvio Berlusconi è come la caduta del muro di Berlino, ma i miei ora devono stare attenti: quel muro in Italia venne addosso tutto a chi lo aveva preso a picconate, la Dc e il Psi...". Il senatore Pd, Stefano Esposito, anche lui di rito dalemiano a Panorama.it ammette chiaramente: "Sì, Berlusconi è decaduto, ma è uscito solo dalla vita parlamentare, non dalla politica. L'uomo è ancora vivo e vegeto e guai se il Pd lo dà per morto, commetterebbe lo stesso errore fatto con la sottovalutazione di Beppe Grillo". Se queste sono le grida d'allarme che vengono dalla sinistra (tendenza riformista), figuriamoci quelle che vengono da Forza Italia. "Sarà per loro un boomerang", dice secco il senatore Fi Altero Matteoli. E il vicepresidente del Senato (Fi) Maurizio Gasparri è caustico sulla conduzione dei lavori in aula da parte del presidente Pietro Grasso: "Lui è l'ultima rotella di un ingranaggio molto più vasto che voleva cacciare Berlusconi dal Parlamento a tutti i costi". Gasparri ricorre al Manzoni: "E' il piccolo untorello...non sarà lui che spianta Milano". Quasi in contemporanea, con l'annuncio della sua decadenza da senatore, Silvio Berlusconi in Via del Plebiscito arringa la folla e annuncia dopo la "giornata di lutto per la democrazia", già il "primo appuntamento elettorale: l'8 dicembre riunione dei club di Fi di tutt'Italia", lo stesso giorno delle primarie del Pd. Rompe di fatto la tregua con Angelino Alfano. La folla urla: "Traditori" E il Cav: "Parole ruvide ma efficaci". Alfano in serata dirà: "Giornata nera per la democrazia". Ma "noi andremo avanti con il governo, in un rapporto di collaborazione-conflittualità", spiega a Panorama.it l'ex governatore lombardo e ora pezzo da novanta di Ndc, Roberto Formigoni. Che annuncia una formula di craxiana memoria e cioè "la collaborazione-competizione" del Psi con la Dc, in questo caso nelle parti del Pd. Sono le 17,40 quando Grasso annuncia con tono routinario, quasi fosse una pratica burocratica, la "non convalida dell'elezione a senatore di Silvio Berlusconi in Molise". Grasso ad un certo punto nel rush sembra ricorrere anche una celebre frase di Nanni Moretti. "E continuiamo così, continuiamo così…" Moretti concludeva "a farci del male". Ma quel "continuiamo così" non riguardava la mancata conoscenza della torta sacher. Era "la violazione del regolamento del Senato". Denunciato da Forza Italia con una valanga di ordini del giorno, ben nove, presentati da Fi (Elisabetta Alberti Casellati, ne ha presentati la maggioranza e a seguire Francesco Nitto Palma, Anna Maria Bernini e lo stato maggiore dei senatori azzurri. Si è invano chiesto il rispetto del regolamento del Senato tornando al voto segreto. Così come è previsto nelle votazioni che riguardano una singola persona. Grasso ha risposto picche anche a Pier Ferdinando Casini e al socialista Enrico Buemi, che hanno tentato di far passare la proposta di buon senso di aspettare almeno la decisione della Cassazione sulla richiesta di interdizione per Berlusconi da parte della Corte d'Appello di Milano. Niente da fare. Alla fine è stato Sandro Bondi ad avvertire tutti "gli amici di Fi" e i garantisti in generale a fermarsi: "Basta, inutile andare avanti, questa è una decisione già scritta. Lasciateli fare, lasciateli di fronte alle loro responsabilità". Poi stilettata ad Alfano: "E ora il Nuovo centrodestra che governi insieme con questi signori". E' l'inizio di un'opposizione durissima. E con numeri per la maggioranza meno robusti di quanto Enrico Letta abbia vantato. Sulla stabiliità c'è stato uno scarto di 36 voti. 171 sono stati quelli della maggioranza, 135 quelli dell'opposizione. Ma questo perché in realtà una decina di forzisti non si sarebbero presentati. Roberto Calderoli, vicepresidente del Senato, che di numeri si intende, a Panorama.it conferma: "Almeno sei non c'erano e ho visto anche qualche senatore a vita, mai visto di giorno, figuriamoci a quell'ora di notte". Era presente ieri per la prima volta Renzo Piano, incorrendo negli strali di Gasparri. Il leader dei lealisti di Fi Raffaele Fitto avverte: "E' incredibile che Letta faccia finta di nulla".
Decadenza Berlusconi. Le reazioni della stampa estera. Dalla Spagna al Brasile, passando per Francia, Usa, Germania, Gran Bretagna, Turchia e Qatar. Le prime pagine dei media mondiali aprono sul Cavaliere e in molti credono che non sia finita qui, scrive Anna Mazzone su “Panorama”. La decadenza di Silvio Berlusconi e la sua uscita dai palazzi ufficiali della politica è un vero e proprio caso internazionale. Praticamente tutti i media del pianeta pubblicano la notizia o corposi dossier sul Cavaliere sulle loro pagine online. Mancano all'appello solo i russi e gli asiatici, ma solo per questione di fuso orario. In Germania la Frankfurter Allgemeine titola subito dopo la grande coalizione tedesca su "Berlusconi espulso dal Senato". Sottolineando che con la decisione di un ramo del Parlamento italiano l'ex premier perde la sua carica politica più importante. "Fino a poco tempo fa - scrive la FAZ - Berlusconi e il suo partito avevano tentato di tutto per scongiurare l'espulsione dal Senato. I sostenitori di Berlusconi hanno dimostrato a Roma denunciando un golpe e la fine della democrazia". Lo stesso Berlusconi ha nuovamente gridato la sua innocenza davanti ai suoi seguaci, definendo quello di oggi "Un giorno amaro e un giorno di lutto per la democrazia". Die Welt mette prima Berlusconi di Angela Merkel nella priorità delle notizie e sottolinea che "L'ex premier italiano non reagisce in modo morbido all'espulsione dal Senato e annuncia un'opposizione serrata", e cita un duro attacco di Berlusconi alla sinistra italiana: "Oggi sono contenti perché hanno messo i loro avversari davanti al plotone di esecuzione. Sono euforici, perché aspettavano questo momento da 20 anni". Il quotidiano tedesco conclude con la frase del Cavaliere sulla scia delle parole dell'inno di Mameli: "Le parole di Mameli le prendiamo come un dovere, siamo pronti a morire..." Per Die Welt l'espulsione di Berlusconi dal Parlamento è un momento storico, che segna la fine della Seconda Repubblica italiana. Lo Spiegel non regala a Berlusconi la sua apertura online, ma mette la sua decadenza comunque in prima pagina. Nel sottolineare che l'ex premier non ha alcuna intenzione di arrendersi, il giornale tedesco pubblica un video che mostra i sostenitori di Berlusconi assiepati fuori palazzo Grazioli a poche ore dal voto del Senato, in cui molti giovano dichiarano alle telecamere tedesche che "Loro devono decadere e non Silvio". Lo Spiegel poi affianca Berlusconi a Beppe Grillo, che guida il M5S pur stando fuori dal Parlamento, ma - comunque - scrive il quotidiano teutonico "Per il Cavaliere, in politica dal 1994, restare sulla cresta dell'onda da oggi in poi sarà molto difficile". E passiamo alla Gran Bretagna. Al momento in cui scriviamo la rivista finanziaria The Economist - che già aveva dedicato in passato copertine al vetriolo contro Berlusconi - non ha ancora pubblicato il suo commento sull'avvenuta decadenza. L'ultimo articolo dedicato alle cose della politica italiana risale al 21 novembre scorso a parla di "Una opportunità d'oro" per la politica italiana, dopo la decisione di un gruppo di ex fedelissimi di Berlusconi di passare dall'altra parte. "La divisione del partito di Berlusconi potrebbe rilanciare la coalizione di governo", scommette The Economist. Il Guardian apre la sua edizione online con la decadenza del Cavaliere e pubblica un ricco dossier sull'ex premier italiano, a cominciare da una dettagliata timeline dal titolo Ups and downs of Berlusconi's career - Alti e bassi della carriera di Berlusconi. Il quotidiano britannico, sempre molto duro nei confronti dell'ex presidente del Consiglio, sottolinea che "Con il loro leader sbattuto fuori dal Senato adesso i parlamentari di Forza Italia si cimenteranno in un'opposizione serrata e metteranno in pericolo le riforme istituzionali che il governo di Letta afferma di voler portare a termine". Immancabile la prima pagina del Financial Times che pubblica una foto scattata a Roma con un sostenitore di Berlusconi che agita un manifesto con il Cavlaiere sotto il simbolo delle Brigate Rosse e la scritta: "Prigioniero politico". Mentre il quotidiano conservatore di Londra, The Telegraph scrive nella sua apertura online: "Silvio Berlusconi, l'uomo che ha dato un nuovo significato alla parola 'faccia tosta', con aria di sfida ha promesso di rimanere al centro della politica italiana di ieri, nonostante sia stato ignominiosamente spogliato del suo seggio in parlamento a seguito di una condanna per massiccia frode fiscale". La versione in inglese di Al Jazeera , l'emittente del Qatar, mette Berlusconi nelle sue notizie di apertura, sottolineando che "L'ex primo ministro italiano è stato cacciato dal Senato in seguito alla sua condanna per frode fiscale". Ma - aggiunge Al Jazeera - "In molti credono che il 77enne possa risorgere ancora". Andiamo ora dall'altra parte dell'oceano. Berlusconi campeggia sulle homepage delle principali testate statunitensi. Sul Wall Street Journal la sua decadenza è la notizia di apertura. Il quotidiano della City americana titola sul "Voto per espellere il politico miliardario condannato per frode fiscale". La testata finanziaria sottolinea che la decadenza di Berlusconi "Ha segnato il culmine di quasi quattro mesi di furore politico che ha avuto inizio in agosto con la condanna per frode fiscale dell'uomo che ha dominato la vita politica italiana per due decenni". In più il WSJ pubblica la storia di Berlusconi e una sua gallery di foto. Il New York Times dà a Berlusconi la sua prestigiosa colonna di sinistra in homepage. L'articolo è firmato da Jim Yardley, che scrive che "L'ex primo ministro, un tempo molto potente, è stato allontanato dal Senato". Yardley prosegue dicendo che "Dopo aver speso mesi fabbricando ad arte ritardi procedurali o congiurando melodrammi politici con il fine di salvarsi, Silvio Berlusconi oggi ha dovuto accettare l'inevitabile: essere espulso dal Senato, un'espulsione tragica ed umiliante, mentre altri potenziali problemi si profilano al suo orizzonte". Il Washington Post preferisce invece aprire sulla politica interna americana e poi passare solo in seconda battuta al caso della decadenza del Cavaliere. E sulla "resistenza" di Berlusconi il giornale di Washington è possibilista: "Anche se Berlusconi non avrà più un seggio in Parlamento - scrive il giornalista - in molti si aspettano che resti comunque influente nella politica italiana". Grancassa decadenza sul quotidiano spagnolo El Pais, che dedica un'apertura a 8 colonne a Berlusconi e un corposo dossier che ricorda - passo dopo passo - tutta la storia del Cavaliere, dalla sua discesa in campo all'espulsione dal Senato. Corredano il dossier due gallery di immagini. L'incipit dell'articolo principale del quotidiano progressista spagnolo ha toni molto ironici: "Dicono che (Berlusconi) non dorma da molti giorni, che alterna momenti di depressione profonda con altri di un'euforia spropositata che lo porta a esclamare: "Giuro che tornerò a Palazzo Chigi [la sede del Governo]. Il sempre teatrale Silvio Berlusconi sta perdendo la bussola. E, a pensarci bene, questa non è una sorpresa". Meno ironico e più ottimista per le sorti del Cavaliere il quotidiano El Mundo , di area conservatrice. In un editoriale a firma di Miguel Cabanillas che commenta la notizia sulla decadenza pubblicata in apertura dell'edizione online, si definisce Berlusconi "Un'araba fenice con molti epitaffi politici sulle spalle". Un politico sempre pronto a sorprendere e a rinascere. "Come un'araba fenice che rinasce dalle sue cenerei quando tutti lo danno per politicamente morto, il magnate italiano - scrive Cabanillas - non rinuncia al pedigree della sua vita che, nelle ultime due decadi, lo ha trasformato in uno dei leader più popolari nel mondo, idolatrato da una parte e odiato dall'altra". Infine, El Pais riporta le parole dell'ex premier italiano che oggi ha dichiarato: "La battaglia non è ancora finita". Fuoco di fila contro Berlusconi sui quotidiani francesi. Le Monde titola in apertura: "L'Italia senza Berlusconi" e pubblica un corposo dossier che include "I suoi 20 anni di processi" e un articolo sui "Fedelissimi che lo hanno abbandonato passando all'opposizione". Liberation pubblica la notizia tra le prime ma non in apertura e sottolinea il j'accuse di Berlusconi che si dice "vittima di una persecuzione" politica e giudiziaria. Per Le Figaro (quotidiano conservatore) "Questo è l'ultimo atto di una discesa agli Inferi cominciata a novembre de 2011", quando Silvio Berlusconi fu "Attaccato dai mercati, umiliato al G20 di Cannes e congedato dal presidente Giorgio Napolitano che lo ha rimpiazzato al governo con l'economista Mario Monti. Apertura anche per O Globo, primo quotidiano brasiliano, che senza mezzi termini titola: "Il Senato italiano fa fuori Berlusconi" e poi pubblica un dossier che inizia con un articolo di commento che recita: "Berlusconi, la fine è arrivata", con fotografie di manifestanti anti-Cavaliere fuori dal Senato in attesa dell'esito della votazione. O Globo cita anche un twit di Beppe Grillo, che festeggia "cinguettando" la decadenza scrivendo: "Berlusconi è stato licenziato dal Senato. Uno di loro è fuori. Ora dobbiamo mandare a casa anche tutti gli altri". Infine, prima pagina per Berlusconi anche sui principali media turchi. Hurriyet scrive che "La decisione del Senato potrebbe essere uno spartiacque nella carriera del leader che ha dominato la politica italiana per due decenni". Il quotidiano di Ankara così commenta: "Il voto, che arriva dopo mesi di scontri politici, apre una fase incerta nella politica italiana, con il 77enne miliardario che si prepara a usare tutte le sue enormi risorse per attaccare la coalizione di Governo guidata dal premier Enrico Letta".
LA SINDROME DI MEDEA.
Berlusconi: "Un leader? Nel 2018 mi ricandido". L'ex premier: "Strasburgo mi darà ragione, il centrodestra non dovrà più cercare un capo", scrive Francesco Cramer, Domenica 27/11/2016, su "Il Giornale". Berlusconi rompe gli indugi e ammette: pronto a ricandidarmi. «Sono in un'attesa spasmodica della sentenza della Corte europea di Strasburgo che purtroppo ci mette troppo tempo, tre anni, per esaminare un caso che non riguarda soltanto un singolo cittadino ma che riguarda un importante Paese europeo - dice in un'intervista a Rai Parlamento -. Credo che questa sentenza dovrà arrivare e sono assolutamente sicuro che metterà in chiaro come non ci sia stata alcuna evasione da parte mia e quindi dovrei tornare nella possibilità di ricandidarmi. In quel caso il centrodestra non avrebbe la necessità di cercare altri leader». Il problema è che l'eurogiustizia è lumaca quanto quella italiana. Ma la colpa non è soltanto dei giudici europei quanto di palazzo Chigi. Il governo italiano, infatti, avrebbe dovuto spedire a Strasburgo un dossier contenente una controrelazione rispetto al ricorso presentato dal Cavaliere. Il termine naturale sarebbe stato proprio oggi ma qualche settimana fa palazzo Chigi ha chiesto un'ulteriore proroga per dire la sua. La richiesta è stata accettata da Strasburgo e così palazzo Chigi potrà spedire le proprie carte a referendum concluso. C'è chi ha sospettato che, per non provocare una controrelazione troppo ostile, Berlusconi non avrebbe fatto una campagna così dura contro il ddl Boschi. Invece il Cavaliere torna a bocciare senz'appello le riforme costituzionali di Renzi: «Il suo progetto non fa risparmiare ed è pericoloso. Con il combinato disposto della legge elettorale chi detiene una minoranza molto piccola potrebbe andare al potere ed essere padrone del proprio partito, della Camera, e di tutto il Paese». Arriva la condanna per i toni troppo accesi in questa campagna elettorale ma spiega: «La colpa non è nostra ma di tutti quelli che fanno propaganda per il Sì. Dicono che se vince il No ci sarebbe il caos ma non è vero niente: resteremmo con la nostra Costituzione e si aprirebbe lo spazio per sedersi a un tavolo e fare sia una riforma condivisa sia una nuova legge elettorale». Pare che Renzi, in una lettera agli italiani, non abbia inserito il nome di Berlusconi nell'elenco dei fautori del No. Come mai? Berlusconi ci scherza su: «Bisogna che lei lo chieda a Renzi. Può essere un atto di riguardo o può essere che consideri che il mio sostegno al No possa convincere molti elettori». In ogni caso resta duro con il premier: «Se vince il Sì si continua con questa Italia che sappiamo non essere in buone condizioni: la ripresa stenta, la disoccupazione è aumentata all'11,4%, la disoccupazione giovanile è quasi al 40%, è aumentata la povertà, un quarto degli italiani si trova in una situazione di povertà assoluta (4 milioni e 600mila), e 10 milioni e 400mila sono in condizioni di povertà relativa». Poi, torna sulla battuta del «Renzi leader»: «Nella sinistra lui appare l'unico leader. Nel centrodestra il leader ero io, e sono stato reso incandidabile. Abbiamo però delle idee molto differenti, perché Renzi viene dalla Democrazia cristiana di sinistra, perciò ha dentro uno statalismo molto spinto, e di carattere è persona che vuole imporsi. Molto lontana da me che sono molto equilibrato». In ogni caso l'annuncio di una sua possibile ricandidatura, qualora la Corte di Strasburgo dovesse riabilitare il Cavaliere, spiazza i leader degli altri partiti della coalizione. Non è un mistero, infatti, che sia Meloni sia Salvini sia Fitto facciano il tifo per le primarie; e che si vogliano presentare loro stessi come piloti di tutto il centrodestra. Ma sul tema il Cavaliere è stato chiaro: apertura ma soltanto a certe condizioni. Ossia che la contesa interna sia regolata per legge con regole chiare e certe perché «le primarie come quelle che fa il centrosinistra sono manipolabili e fasulle». Poi, in serata, circola la voce di un possibile ricovero al San Raffaele di Milano dove lo scorso luglio è stato operato al cuore. Si tratta invece soltanto di un controllo di routine; e viene confermata la sua presenza in tv dalla D'Urso.
Tajani: «Carisma e consensi, il capo rimane Silvio. E non servono gazebo». Il vice dell’Europarlamento: «Gli altri aspettino. Non vedo in campo nessuno che abbia più consensi e più carisma di Berlusconi. I sondaggi parlano chiaro», scrive Cesare Zapperi il 26 novembre 2016 su "Il Corriere della Sera”.
Silvio Berlusconi dice che il centrodestra non ha bisogno di nuovi leader. Se da Strasburgo arriva una sentenza positiva è pronto a rigettarsi nella mischia. Cosa ne pensa?
«Sono d’accordo — spiega Antonio Tajani, vicepresidente vicario del Parlamento europeo, tra i fondatori di Forza Italia — Non vedo in campo nessuno che abbia più consensi e più carisma di lui. I sondaggi parlano chiaro: nel centrodestra chi ha più voti è ancora Berlusconi».
Matteo Salvini e Giorgia Meloni però chiedono le primarie.
«In Italia non sono regolamentate da una legge. Farle come ha fatto finora la sinistra non ha senso. Cosa vogliamo, che si crei il caos della vicenda Marino? Mi pare che la stessa sinistra si stia interrogando sull’utilità dello strumento. Quasi sempre le soluzioni che sono uscite dalle primarie non si sono rivelate quelle più utili».
Quindi, per lei non se ne parla proprio?
«Ripeto, ad oggi, per quanto sforzi possa fare, non vedo sullo scenario politico italiano un leader più forte di Berlusconi in grado di guidare il centrodestra. Poi, certo, molto dipende dalla legge elettorale».
In che senso?
«Se si va verso il proporzionale, come noi auspichiamo, non servono le primarie. Ognuno si presenta con il suo partito e chi ottiene più consensi lo si vede subito. Berlusconi, ovvio».
Questa è l’ipotesi che si fonda su una vittoria del No al referendum. Ma se vince il Sì sarà difficile abbandonare un sistema elettorale maggioritario.
«Mah, in nome della democrazia io consiglierei a Renzi di riflettere sul destino di un Paese affidato a una forza politica che con meno del 30 per cento potrebbe prendere tutto il potere. Se si vuole consegnare l’Italia in mano a Grillo non si deve far altro che continuare su quella strada. A me sembra molto pericolosa».
Rimaniamo sul futuro del centrodestra. Salvini e Meloni mettono in discussione la leadership berlusconiana e chiedono di voltare pagina.
«Osservo che da un lato non è ancora il momento del partito unico (che nemmeno auspico) e dall’altro entrambi per ora sono i leader del loro partito. Con i loro consensi, naturalmente, ma non mi paiono superiori a quelli di Forza Italia. Mi sa che devono aspettare ancora un po’».
Perché?
«Berlusconi parla un linguaggio moderato anche quando esprime un No come per il referendum. È l’unico che sa guardare lontano, che non si sottrarrebbe, qualora ce ne fosse bisogno, da un apporto costruttivo per modernizzare davvero il Paese».
Ma il centrodestra ha bisogno di un leader o di un federatore?
«Dopo Berlusconi forse avrà bisogno di un federatore. In questo momento ha un leader».
E Stefano Parisi è ancora utile?
«È una persona che ha voluto impegnarsi per allargare i consensi del centrodestra. Era chiaro che non ambiva a fare il leader di Forza Italia né il candidato premier. Credo che debba continuare nel suo impegno perché sarà senz’altro utile. Ma, piaccia o non piaccia, il leader resta Berlusconi».
Silvio Berlusconi: "Tutto quello che ho offerto a Parisi, ma che lui ha rifiutato", scrive il 26 novembre 2016 “Libero Quotidiano”. Un rapporto sempre velato da un che di riservato, quello che per mesi (dalle ultime amministrative in cui era stato candidato sindaco per il centrodestra a Milano) ha legato Stefano Parisi a Silvio Berlusconi e Forza Italia. Riserbo che è in parte stato sollevato oggi dallo stesso Berlusconi, il quale parlando a SkyTg24 ha svelato che "a Parisi non abbiamo dato un ruolo, gli abbiamo chiesto se volesse diventare un dirigente e magari il coordinatore di Forza Italia e ci ha detto di no, gli abbiamo detto se volesse fare un suo partito ci ha detto di no. Allora abbiamo concordato sul fatto che lui cercasse delle persone, dei protagonisti della trincea delle imprese eccetera a interessarsi con noi del governo del Paese. E' successo, tuttavia, che lui è andato in conflitto con i nostri dirigenti, è andato in conflitto con Salvini e anche con Meloni, quindi come si fa a pensare che qualcuno si ponga come federatore e poi si mette in contrasto con coloro che deve federare. Gli auguro molto successo - ha aggiunto l’ex premier - perché adesso sembra che voglia fare un suo nuovo movimento politico e gli auguro successo anche perché lui ha dichiarato di voler essere parte integrante del centrodestra, quindi tanti auguri a Parisi". Se non è un benservito, poco ci manca...
Silvio Berlusconi uccide i suoi eredi per amore di se stesso. Quando l’egocentrismo e la mitomania produce una politica insipida e incoerente.
Caro Parisi, ti spiego chi è davvero Berlusconi, scrive Tiziana Maiolo il 23 novembre 2016 su "Il Dubbio". Lettera aperta al delfino mancato. "Caro Stefano, sei mesi fa ti avevo scritto "attento al Lupo Mannaro". Non so se hai colto l'oscillazione tra il Licantropo e il lupo casereccio, quello che ti fa paura al momento, come il buio per i bambini o, in politica, l'avversario in campagna elettorale. La "tigre di carta" del presidente Mao, insomma. Il Lupo Mannaro è altro. Ti sei mosso con la disinvoltura della "forza tranquilla" con le tue lampadine accese e scintillanti. Hai proposto il Grande Ripensamento della politica un po' visionaria e sessantottina, ma molto con i piedi per terra nella difesa dei diritti e dei valori, dal lavoro alla legalità fino allo Stato laico e liberale. Come non seguirti, piccolo adorabile pifferaio magico? Quando la tua presenza e i tuoi successi hanno suscitato qualche insofferenza nelle prime file dei parlamentari di Forza Italia, non hai dato grande importanza alla cosa, anche perché succede sempre, lo stesso Giovanni Toti ne sa qualcosa. E' la normale difesa del territorio, o anche la normale competizione per un posticino nel cuore di mamma e papà. Più spinoso il problema della Lega e di Matteo Salvini. Soprattutto per la vicenda di Milano, nella quale brucia più che la sconfitta quel silenzio assordante nelle piazze e nei mercati in quei quindici giorni tra il primo e il secondo turno. Non si costruisce (e quindi non si vince) se qualcuno dice in campagna elettorale che il tuo alleato non conta niente, se si dà più importanza a qualche ruspa agitata sopra le righe piuttosto che a un serio comune programma di governo. Ma siamo ancora alle "tigri di carta", allo strabismo cui sono affetti un po' tutti quelli che hanno a che fare con quel fenomeno di Silvio Berlusconi. Prima di tutto perché si trascura (o si dà troppo per scontato) il fatto che lui è davvero - e non lo dico certo per piaggeria - una spanna sopra la gran parte degli altri. Basti pensare a come a saputo innovare nel linguaggio e nella comunicazione, che ancor oggi tutti imitano. La seconda cosa è che lui lo sa bene, ovvio, di essere una spanna sopra, ma anche che vuole esserlo: non c'è anagrafe, non c'è malattia, non c'è Boccassini che tenga. Terzo: se sono sopra e se voglio esserci, conclude, io faccio. E solo io posso. Un aneddoto di un compagno di scuola, dai salesiani. Vicino all'istituto c'era una casa e nella casa una finestra e alla finestra una bella biondina. Scommessa tra ragazzi, chi se la piglia? Non era il più bello né il più elegante, ma Silvio vinse la scommessa. E vogliamo parlare dei cinesi? Il Milan ormai è venduto, tra meno di un mese la squadra non sarà più di Berlusconi, cui viene comunque offerto il ruolo di "presidente onorario". Benissimo, fa lui, però io decido sugli acquisti e le vendite dei giocatori, e ovviamente sugli schemi di gioco. Questo vuol dire che ha scaricato i cinesi? No, come non ha scaricato te, caro Stefano. Altrimenti non saresti mai andato al convegno di Antonio Tajani, te lo garantisco. Non perché Berlusconi lo avrebbe impedito (non è nel suo stile), ma perché le cose sarebbero andate diversamente, in apparenza senza un vero perché. Lui non ha bisogno di comandare, lui vuole semplicemente rinfrescare la memoria. Non è Crono che mangia i suoi figli, e non è neppure vero che preferisca gli yesman. Lui ama il gioco e la competizione. E la stimola. Tra gli altri. Senza farsi scrupolo di buttare il bambino nell'acqua per farlo nuotare. Vedi Stefano, tu potresti per esempio ascoltare di più Fedele Confalonieri, quando ti dice che hai «un cattivo carattere». Sappiamo tutti che non è vero, sei in genere sorridente e ironico e buchi lo schermo in modo empatico. Che cosa vuol dire, allora? Il presidente di Mediaset è intelligente e conosce come nessun altro il suo amico Silvio. Ma non ti sta dicendo che devi andare più d'accordo con Salvini o Brunetta. Ti sta aiutando a rinfrescare la memoria. Attento al Lupo Mannaro, ti dice.
Alfano, Bondi, Fitto, Verdini: due anni di addii a Berlusconi. Dal 2013 dimezzato il gruppo parlamentare azzurro al Senato che contava 99 senatori. Due le formazioni politiche nate nell'ultimo mese: Alleanza liberalpopolare dell'ex coordinatore azzurro e Conservatori e Riformisti dell'ex governatore pugliese, scrive Giovanni Cedrone su “La Repubblica” il 29 luglio 2015. In principio era il Pdl. Il Popolo della libertà, pur ridimensionato alle elezioni del febbraio 2013, entrò in Parlamento con una pattuglia di tutto rispetto frutto del 22% ottenuto alle urne: la truppa parlamentare, agli albori della legislatura, contava 98 deputati e 99 senatori. Un risultato che permise al partito di Silvio Berlusconi di entrare nella grande coalizione che sostenne il governo di Enrico Letta e di continuare ad avere un ruolo predominante nel centrodestra italiano, con la Lega molto distanziata con 17 senatori e 18 deputati e Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni entrata in Parlamento con un gruppo di 9 deputati. Oggi sembra passata un’era geologica da quel febbraio 2013. Silvio Berlusconi non è più in Parlamento, decaduto dal Senato per la legge Severino in seguito alla condanna per frode fiscale nel processo Mediaset, e anche la sua creatura politica, il Pdl, è tornato al suo antico nome, Forza Italia. Ma soprattutto continua ad assottigliarsi sempre più la sua forza parlamentare. Un lento, inesorabile declino aggravato da tre scissioni (due nell'ultimo mese), l’ultimo oggi ad opera di Denis Verdini, colui che a lungo è stato il braccio operativo dell’ex Cav, già coordinatore di Forza Italia e del Pdl, ideatore e sostenitore del patto del Nazareno. Con Verdini ci sono altri nove senatori: Lucio Barani e Vincenzo D'Anna (ex Gal), Riccardo Mazzoni, Giuseppe Compagnone, Riccardo Conti, Pietro Langella (ex Ncd), Antonio Scavone, Eva Longo e Ciro Falanga (ex Conservatori e Riformisti). Il nuovo soggetto politico creato dal senatore toscano, Alleanza liberalpopolare-Autonomie, il cui acronimo, fanno notare i verdiniani, sarà Ala, conta già un gruppo al Senato con capogruppo il craxiano Lucio Barani, mentre alla Camera i verdiniani al momento sono 7-8, un numero insufficiente per creare un gruppo autonomo (alla Camera servono 20 deputati). Obiettivo dichiarato: far arrivare alla fine questa "legislatura costituente" e arrivare all'approvazione del ddl Boschi sulle riforme costituzionali "così com'è". Oggi Forza Italia conta 46 senatori, praticamente la metà rispetto alla pattuglia originaria, e 69 deputati. Il primo a rompere con l’ex Cav fu il delfino Angelino Alfano a ottobre 2013 seguito dalla pattuglia ministeriale dell’allora Pdl e da un consistente numero di parlamentari: il ministro dell’Interno si oppose alla scelta di far cadere il governo Letta e ruppe l’unità del fronte berlusconiano. Oggi il Nuovo Centrodestra, nonostante qualche defezione, conta ancora 34 deputati e 35 senatori, numeri determinanti per la sopravvivenza del governo di Matteo Renzi, nel frattempo subentrato a Letta. Poi è stato il turno di un altro fedelissimo dell’ex Cav: l’ex ministro e governatore pugliese Raffaele Fitto, implacabile contestatore del cerchio magico berlusconiano, recordman di preferenze alle ultime elezioni europee. Un leone blu su sfondo bianco e un tricolore è il simbolo della sua creatura politica, Conservatori e Riformisti, che già conta un gruppo al Senato con 10 componenti, 8 ex Forza Italia e 2 ex Gal: Anna Cinzia Bonfrisco, Francesco Bruni, Luigi D'Ambrosio Lettieri, Salvatore Di Maggio (ex Gal), Pietro Liuzzi, Antonio Milo (ex Gal), Marco Lionello Pagnoncelli, Luigi Perrone, Lucio Tarquinio, Vittorio Zizza (Eva Longo e Ciro Falanga hanno traslocato nel gruppo di Verdini). Forte il richiamo al Partito Conservatore di David Cameron (al Parlamento europeo Fitto ha lasciato i popolari per il gruppo Conservatore) tanto che alla kermesse di presentazione era presente anche Geoffrey Van Orden, vice presidente dei Conservatori al Parlamento europeo. L’obiettivo dichiarato è quello di costruire una valida alternativa a Renzi, una opposizione dura al governo anche se il movimento nasce “non contro qualcuno ma verso qualcosa". La collocazione è saldamente nel centrodestra, una posizione che sembra apparentemente inconciliabile con il neonato gruppo di Denis Verdini che invece punta a sostenere l’esecutivo Renzi almeno nel cammino delle riforme. Non bisogna dimenticare che un altro pezzo da novanta prima di Forza Italia e poi del Pdl, il compaesano di Verdini Sandro Bondi, aveva abbandonato a marzo Forza Italia insieme alla sua compagna Manuela Repetti per traslocare armi e bagagli nel Gruppo Misto. Per l’ex coordinatore azzurro l'ex Cav non è riuscito a compiere la tanto invocata "rivoluzione liberale" e ha rivendicato la necessità di sostenere lo sforzo del premier Matteo Renzi al quale non ha risparmiato elogi: "Rappresenta senza dubbio la prima vera cesura nella sinistra italiana rispetto alla sua tradizione comunista". Da qui la scelta di lasciare il partito guidato da Berlusconi, anche in polemica con la gestione del cerchio magico. Il big bang del centrodestra, in una legislatura caratterizzata da un record di cambi di casacca tra i parlamentari, si è arricchito negli ultimi mesi anche del nuovo partito del sindaco di Verona Flavio Tosi espulso dal Carroccio per insanabili contrasti con il segretario Matteo Salvini. La settimana scorsa è nato il movimento del 'Fare', un faro illuminato e la scritta "Fare" a caratteri cubitali come simbolo. L'obiettivo dichiarato è costruire nel centrodestra "un'alternativa a Renzi”. Con il sindaco di Verona sei parlamentari: al Senato le senatrici Patrizia Bisinella, Raffaella Bellot, Emanuela Munerato, alla Camera i Deputati Matteo Bragantini, Roberto Caon, Emanuele Prataviera (Gruppo Misto). Alle ultime regionali in Veneto la candidatura di Tosi ha raccolto un lusinghiero 11,4%.
Fitto: "Berlusconi? Lo cancelleremo con le primarie". L'ex presidente della Regione Puglia accusa: "Berlusconi vede solo se stesso, così abbiamo già perso dieci milioni di voti", scrive Carmelo Lopapa il 17 novembre 2016 su "La Repubblica".
"Non vedo eredi" dice Berlusconi ed è una vecchia storia. Onorevole Raffaele Fitto, lei che è stato uno dei "delfini", poi accantonato come altri e andato via, che lettura dà del fenomeno?
"Che Berlusconi veda solo Berlusconi è legittimo, ovviamente dal suo punto di vista. Direi che è un film già visto. Il tema è capire se il centrodestra in Italia debba avere un futuro oppure no. Per questa via, ha già perso 9-10 milioni di voti. A che punto vogliamo arrivare?"
Ma perché Berlusconi non può tollerare successori nonostante gli ottant'anni? Pensa davvero di restare leader, di tornare in campo?
"Serve a poco polemizzare con Berlusconi, che è arroccato nel suo schema e pensa a se stesso. Il tema è cosa si aspetta - e parlo di noi - a convocare elezioni primarie. O si fa quello, con una aperta e limpida gara di idee nel centrodestra, oppure la fine è già nota, con un centrodestra spettatore della gara tra Pd e M5S".
Cosa non andava in Fitto, secondo il Cavaliere e perché avete rotto?
"Intanto, una cosa "intollerabile": la mia e nostra autonomia di pensiero. Ho avuto il "torto" di aver avuto ragione in anticipo, con tanti miei colleghi. Dicevamo no al Nazareno e ai patti con Renzi. Siamo stati crocifissi per questo. Ora sento dire altre cose: sento descrivere una "deriva autoritaria" da parte di chi, contro la nostra battaglia, ha votato in Parlamento quella legge elettorale e quel pasticcio costituzionale. Noi eravamo per il No già due anni fa: diamo il benvenuto a chi si è svegliato con ventiquattro mesi di ritardo".
E in Parisi cosa non andrebbe? Manca di carisma, di presa o anche lui troppo indipendente?
"Guardi, io non do giudizi personali. Ma davvero pensava di ricevere il "Telegatto" dopo un casting? Serve un metodo nuovo: la spada sulla spalla non funziona più. Anche perché Berlusconi pensa che spada e spalla debbano essere le sue. Primarie, primarie, primarie, come in America".
Lei è al lavoro per la costruzione di una forza moderata del centrodestra. Potreste lavorare insieme con lo stesso Parisi e altri?
"Primarie con tutti: Salvini, Meloni, Toti. Con chiunque voglia meritoriamente uscire dal vecchio schema. Vedo queste priorità. Primo: dire no a governicchi post referendum. Secondo: primarie. Terzo: evitare come la peste una legge elettorale proporzionale che sarebbe l'anticamera di un neo-Nazareno post elettorale e di un centrodestra fatalmente frazionato e marginalizzato. Quarto: lavorare per una seria e vera alternativa al governo Renzi".
Anche Alfano ha bocciato Parisi ("Un flop"). Come la mettete con gli altri moderati?
"Lo dico senza polemiche: Alfano è al governo con Renzi e la sinistra. E il suo Sì al referendum lo blocca in quella posizione: è una scelta del campo avverso".
Primari, d'accordo. Salvini si è già candidato. Anche lei sarà in corsa?
"Intanto, bisogna decidere di farle. E dopo il 4 dicembre promuoverò un tavolo per scriverne le regole. Oggi è prematuro parlare di nomi. Ci saranno le nostre idee come offerta alla ricostruzione del centrodestra".
Cosa accadrà dopo il 4 dicembre?
"Intanto, vinciamo con il No il 4. Poi occorre vigilare per evitare il Nazareno carsico. Può sempre riemergere".
Tutte le vittime del Cavaliere: da Dotti a Parisi, passando per Alfano, scrive Francesco Damato il 17 novembre 2016 su “Il Dubbio”. Gli incidenti di percorso dei tanti personaggi, che hanno ricoperto incarichi prestigiosi di governo e nelle istituzioni, allontanati da Silvio Berlusconi. Il povero Stefano Parisi, non so se più disinvoltamente o più coraggiosamente tornato in televisione a svolgere la propria missione, anche dopo l'erba tagliatagli sotto i piedi da Silvio Berlusconi per avere troppo polemizzato col segretario leghista Matteo Salvini, difendendo peraltro lo stesso Berlusconi dai suoi attacchi, non è il primo né sarà l'ultimo della lista, diciamo così, delle vittime politiche dell'ex presidente del Consiglio. Sulle cui scale si può salire con la stessa facilità con la quale si può rotolare. Ad aprire questa lista fu quasi all'esordio dell'avventura di Forza Italia Vittorio Dotti, l'avvocato milanese dello stesso Berlusconi e delle sue aziende, promosso seduta stante nel 1994 capogruppo della Camera. Il poveretto scivolò su una battuta dichiarandosi "l'avvocato degli affari legali" dell'ormai presidente del Consiglio. Tanto bastò ai giornalisti più maliziosi per considerare illegali, o meno legali, gli altri affari di Berlusconi di cui si occupava a Roma l'avvocato Cesare Previti. Che nel frattempo era diventato ministro della Difesa, avendo l'allora capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro rifiutato di nominarlo ministro della Giustizia, come Berlusconi invece gli aveva proposto. Già compromessa di suo per questo infortunio, la situazione di Dotti precipitò per non avere egli saputo o potuto trattenere la fidanzata Stefania Ariosto dalle visite alla Procura di Milano e altrove per raccontare di Previti - sempre lui - e dei suoi rapporti con i magistrati storie destinate a farlo condannare. E a procurare a Berlusconi non pochi guai, fra i quali quel mezzo miliardo di euro pagati a Carlo De Benedetti per l'affare Mondadori, o guerra di Segrate. Insieme con Dotti, Previti e altri avvocati arrivò a Montecitorio nel 1994 sotto le insegne di Forza Italia anche Tiziana Parenti, chiamata "Titti la rossa" per il diminutivo del suo nome e il colore dei capelli. Ma la celebrità e gli apprezzamenti di Berlusconi glieli aveva procurati la tormentata esperienza di magistrata nella Procura di Milano. Dove lei sosteneva di essere stata a dir poco emarginata per avere reclamato indagini più severe sulla partecipazione anche del partito comunista, e dei suoi dirigenti, alla diffusissima pratica del finanziamento illegale della politica. Insediatasi più o meno trionfalmente alla presidenza della Commissione parlamentare antimafia, succedendo all'ultrafamoso e temuto Luciano Violante. La Titti cominciò a dare pensieri e dispiaceri ai colleghi di partito e di gruppo raccomandando attenzione, anzi vigilanza maggiore nella organizzazione del partito nei territori a maggiore densità criminale, dove la corsa per saltare sulla diligenza del vincitore poteva farsi più convulsa e pericolosa. Ricandidata nelle elezioni successive, e anticipate, nella speranza di acquietarne finalmente il carattere, che aveva fatto sospettare a qualcuno dell'entourage del Cavaliere che non fosse poi esagerata la diffidenza mostrata verso di lei dagli ex colleghi della Procura milanese, la Titti non si calmò per niente. E decise ad un certo punto di togliere il disturbo accasandosi in quella specie di purgatorio o di sala d'attesa che è in Parlamento il gruppo misto. Altrettanto difficile fu la convivenza politica con Berlusconi di un avvocato di grido come Raffaele Della Valle, assurto alla vice presidenza della Camera ma convintosi, ad un certo punto, d'intendersi anche di economia, al punto di manifestare qualche riserva su una legge finanziaria. Lo sgomento fu irreversibile. L'avvocato, d'altronde, non sarà stato un economista di rango, ma sapeva fare abbastanza di conto per capire che ad essere deputato ci rimetteva troppo come legale. Un altro capitolo scabroso fu quello di Carlo Luigi Scognamiglio Pasini. Che con quel nome così lungo già metteva soggezione di suo, per cui Berlusconi lo candidò subito nel 1994 alla presidenza del Senato, nonostante il consiglio datogli da un amico di vecchia data di lasciare al suo posto il vecchio, pacioso e già ammalato Giovanni Spadolini. Al quale mancò poco che morisse in aula quando al riconteggio dei voti, impallidendo, dopo avere già ricevuto qualche congratulazione per la conferma, si accorse di avere perduto per una sola miserabile scheda. L'esordio del nuovo presidente sullo scanno più alto di Palazzo Madama fu davvero dandy. Egli parlò all'assemblea con una mano in tasca, fra lo stupore specie dei funzionari, abituati ad altro. Ma tutto doveva cambiare con la cosiddetta seconda Repubblica, anche se Scognamiglio fece rispolverare una vecchia carrozza ferroviaria ex reale, credo, per usarla nei suoi spostamenti. E avvalersi anche, fra qualche fastidiosa ma periferica polemica, del diritto di far fermare il convoglio su cui viaggiava in una stazione non programmata negli orari. A dispetto delle novità attese con l'avvento di un'altra era, il primo governo Berlusconi entrò rapidamente in affanni. E prima ancora che cadesse sotto i colpi di Umberto Bossi, cominciarono a circolare le solite voci su quale tipo speciale di governo potesse prenderne temporaneamente il posto, in attesa di elezioni anticipate. "Un governo istituzionale", si mormorò subito. E quale governo più istituzionale potrebbe esserci - si disse- più di quello affidato alla seconda carica dello Stato? Che era il presidente del Senato, diventato nel frattempo più alto e distaccato di quanto già non fosse, sino a insospettire il già furente presidente uscente del Consiglio, a torto o a ragione, almeno secondo le voci di palazzo, che l'amico ci avesse messo del suo per candidarsi. Fondate o no che fossero i sospetti e le voci, l'unico governo di transizione al quale Berlusconi, una volta caduto, diede via libera al capo dello Stato fu quello tecnico presieduto dal suo ex ministro del Tesoro Lamberto Dini. Scognamiglio riuscì comunque a tornare al Senato con Forza Italia anche nella legislatura successiva, ma decidendo nel 1998 di aderire ad un partitino improvvisato dall'immaginifico Francesco Cossiga, composto da fuoriusciti dal centrodestra, per assicurare una maggioranza al governo di Massimo D'Alema. Dove Scognamiglio diventò ministro della Difesa partecipando alla cosiddetta guerra dei Balcani. Cossiga, come al solito, si stancò subito, a torto o a ragione, della creatura governativa partorita dalla sua fantasia e alla fine della legislatura, nel 2001, chiese a Berlusconi di ricandidare nelle sue liste il povero ex tutto Scognamiglio. Ma Il Cavaliere, che pure per il presidente emerito della Repubblica aveva un debole, sino ad accettarne le battute più urticanti avvolte nella solita stagnola dell'amicizia, quella volta gli disse no. Tutto ma non questo, fu all'incirca la risposta riferitami una volta dallo stesso Cossiga. Facciamo a questo punto un passo indietro per tornare al governo tecnico di Dini, dove entrò come ministro della Giustizia, scelto personalmente dal presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, l'ex procuratore generale della Corte d'Appello di Roma, fresco di pensione, Filippo Mancuso. Il quale mi confidò dopo qualche anno che Berlusconi, benedett'uomo, si era presa "una cotta" di lui. E con ragione, debbo riconoscere, perché, da imprevedibile com'era, anche a costo di rompere con Scalfaro e di essere sfiduciato dal Senato con una votazione inutilmente contestata davanti alla Corte Costituzionale, il guardasigilli Mancuso aveva mandato i suoi ispettori in quel sacrario che era diventato nella cronaca giudiziaria italiana il tribunale di Milano. Naturalmente alla prima occasione utile, nelle elezioni del 2001, Berlusconi portò alla Camera come un eroe Mancuso. Che, sempre imprevedibile, ebbe il torto dopo un po' di dissentire da Berlusconi per il troppo peso che dava all'amico Previti, sotto processo, sino a sposarne politicamente un candidato alla Corte Costituzionale. Un candidato che Mancuso si rifiutò pubblicamente di votare dopo averne trovato scritto il nome su una specie di ordine di servizio distribuito ai parlamentari del gruppo poco prima della ripresa dell'apposita seduta congiunta delle Camere. Così finì anche la storia dei rapporti fra Berlusconi e Mancuso, meno rumorosamente comunque di quella con l'avvocato Carlo Taormina. Che ebbe la curiosa pretesa di continuare a difendere un imputato di malavita organizzata anche facendo il sottosegretario all'Interno. Tutt'altra storia insomma da quella di Mancuso. Le ultime notizie politiche che ho dell'amico Taormina lo danno, spero a torto, se mi permette, dalle parti di Beppe Grillo. Non è possibile naturalmente chiudere questa rievocazione delle separazioni politiche da Berlusconi, se non le vogliamo chiamare vittime, senza ricordare Angelino Alfano, promosso segretario dell'allora PdL dal Cavaliere in persona, dimessosi da ministro della Giustizia per svolgere meglio, a tempo pieno, il nuovo incarico e sentitosi declassato dopo un po' a mezzo stampa col famoso annuncio di mancare del necessario "quid". Con tutto quello che poi ne seguì naturalmente tre anni fa. Poi è stata la volta, notoriamente, di Denis Verdini: l'uomo che per il suo avvicinamento a Renzi ha fatto saltare tutti i sismografi del Pd. Mentre scrivevo a Montecitorio questo articolo mi si è avvicinato il vecchio amico Antonio Martino. Che, saputo di che cosa stessi occupandomi, è scappato via ridendo e facendomi gli "auguri". Ebbene, dovete sapere che Martino è l'unico col quale Berlusconi non è riuscito a rompere pur avendone spesso ricevuto impietose critiche, in pubblico e in privato. Come quella volta in cui l'ex ministro degli Esteri e della Difesa, per il quale nessuno era riuscito a trovare la presidenza di una commissione parlamentare per metterne a frutto esperienza e saggezza, gli scrisse: "Caro Silvio, vedo che ti circondi di giovani donne con molto seno e poco senno".
COSA PENSA LA MAGGIORANZA DEGLI ITALIANI? «È UNO DI NOI». E CHI NON LO PENSA, LO TEME.
Il Cavaliere spiegato ai posteri. Dieci motivi per 20 anni di «regno». Il segreto della longevità politica del premier e la pancia del Paese. La presentazione del libro in diretta video lunedì 15 novembre alle 21 su Corriere.it, scrive Beppe Severgnini il 27 ottobre 2010 su "Il Corriere della Sera".
«Berlusconi, perché?». Racconta Beppe Severgnini che nel suo girovagare per il mondo infinite volte si è sentito rivolgere quella domanda da colleghi giornalisti, amici, scrittori di diverso orientamento politico, animati da curiosità più che da preconcetti. E così, cercando una risposta per loro, ha cominciato a elencare i fattori del successo del Cavaliere. Umanità, astuzia, camaleontica capacità di immedesimarsi negli interlocutori. Virtù (o vizi?) di Berlusconi, ma anche del Paese che ha deciso di farsi rappresentare da lui. Disse una volta Giorgio Gaber: «Non ho paura di Berlusconi in sé. Ho paura di Berlusconi in me». Quella frase fa da epigrafe a «La pancia degli italiani. Berlusconi spiegato ai posteri», il libro di Beppe Severgnini in vendita da oggi, del quale pubblichiamo l'introduzione. Spiegare Silvio Berlusconi agli italiani è una perdita di tempo. Ciascuno di noi ha un'idea, raffinata in anni di indulgenza o idiosincrasia, e non la cambierà. Ogni italiano si ritiene depositario dell'interpretazione autentica: discuterla è inutile. Utile è invece provare a spiegare il personaggio ai posteri e, perché no?, agli stranieri. I primi non ci sono ancora, ma si chiederanno cos'è successo in Italia. I secondi non capiscono, e vorrebbero. Qualcosa del genere, infatti, potrebbe accadere anche a loro. Com'è possibile che Berlusconi - d'ora in poi, per brevità, B. - sia stato votato (1994), rivotato (2001), votato ancora (2008) e rischi di vincere anche le prossime elezioni? Qual è il segreto della sua longevità politica? Perché la maggioranza degli italiani lo ha appoggiato e/o sopportato per tanti anni? Non ne vede gli appetiti, i limiti e i metodi? Risposta: li vede eccome. Se B. ha dominato la vita pubblica italiana per quasi vent'anni, c'è un motivo. Anzi, ce ne sono dieci.
1) Fattore umano. Cosa pensa la maggioranza degli italiani? «Ci somiglia, è uno di noi». E chi non lo pensa, lo teme. B. vuole bene ai figli, parla della mamma, capisce di calcio, sa fare i soldi, ama le case nuove, detesta le regole, racconta le barzellette, dice le parolacce, adora le donne, le feste e la buona compagnia. È un uomo dalla memoria lunga capace di amnesie tattiche. È arrivato lontano alternando autostrade e scorciatoie. È un anticonformista consapevole dell'importanza del conformismo. Loda la Chiesa al mattino, i valori della famiglia al pomeriggio e la sera si porta a casa le ragazze. L'uomo è spettacolare, e riesce a farsi perdonare molto. Tanti italiani non si curano dei conflitti d'interesse (chi non ne ha?), dei guai giudiziari (meglio gli imputati dei magistrati), delle battute inopportune (è così spontaneo!). Promesse mancate, mezze verità, confusione tra ruolo pubblico e faccende private? C'è chi s'arrabbia e chi fa finta di niente. I secondi, apparentemente, sono più dei primi.
2) Fattore divino. B. ha capito che molti italiani applaudono la Chiesa per sentirsi meno colpevoli quando non vanno in chiesa, ignorano regolarmente sette comandamenti su dieci. La coerenza tra dichiarazioni e comportamenti non è una qualità che pretendiamo dai nostri leader. L'indignazione privata davanti all'incoerenza pubblica è il movente del voto in molte democrazie. Non in Italia. B. ha capito con chi ha a che fare: una nazione che, per evitare delusioni, non si fa illusioni. In Vaticano - non nelle parrocchie - si accontentano di una legislazione favorevole, e non si preoccupano dei cattivi esempi. Movimenti di ispirazione religiosa come Comunione e Liberazione preferiscono concentrarsi sui fini - futuri, quindi mutevoli e opinabili - invece che sui metodi utilizzati da amici e alleati. Per B. quest'impostazione escatologica è musica. Significa spostare il discorso dai comportamenti alle intenzioni.
3) Fattore Robinson. Ogni italiano si sente solo contro il mondo. Be', se non proprio contro il mondo, contro i vicini di casa. La sopravvivenza - personale, familiare, sociale, economica - è motivo di orgoglio e prova d'ingegno. Molto è stato scritto sull'individualismo nazionale, le sue risorse, i suoi limiti e le sue conseguenze. B. è partito da qui: prima ha costruito la sua fortuna, accreditandosi come un uomo che s'è fatto da sé; poi ha costruito sulla sfiducia verso ciò che è condiviso, sull'insofferenza verso le regole, sulla soddisfazione intima nel trovare una soluzione privata a un problema pubblico. In Italia non si chiede - insieme e con forza - un nuovo sistema fiscale, più giusto e più equo. Si aggira quello esistente. Ognuno di noi si sente un Robinson Crusoe, naufrago in una penisola affollata.
4) Fattore Truman. Quanti quotidiani si vendono ogni giorno in Italia, se escludiamo quelli sportivi? Cinque milioni. Quanti italiani entrano regolarmente in libreria? Cinque milioni. Quanti sono i visitatori dei siti d'informazione? Cinque milioni. Quanti seguono Sky Tg24 e Tg La7? Cinque milioni. Quanti guardano i programmi televisivi d'approfondimento in seconda serata? Cinque milioni, di ogni opinione politica. Il sospetto è che siano sempre gli stessi. Chiamiamolo Five Million Club. È importante? Certo, ma non decide le elezioni. La televisione - tutta, non solo i notiziari - resta fondamentale per i personaggi che crea, per i messaggi che lancia, per le suggestioni che lascia, per le cose che dice e soprattutto per quelle che tace. E chi possiede la Tv privata e controlla la Tv pubblica, in Italia? Come nel Truman Show, il capolavoro di Peter Weir, qualcuno ci ha aiutato a pensare.
5) Fattore Hoover. La Hoover, fondata nel 1908 a New Berlin, oggi Canton, Ohio (Usa), è la marca d'aspirapolveri per antonomasia, al punto da essere diventata un nome comune: in inglese, «passare l'aspirapolvere» si dice to hoover. I suoi rappresentanti (door-to-door salesmen) erano leggendari: tenaci, esperti, abili psicologi, collocatori implacabili della propria merce. B. possiede una capacità di seduzione commerciale che ha ereditato dalle precedenti professioni - edilizia, pubblicità, televisione - e ha applicato alla politica. La consapevolezza che il messaggio dev'essere semplice, gradevole e rassicurante. La convinzione che la ripetitività paga. La certezza che l'aspetto esteriore, in un Paese ossessionato dall'estetica, resta fondamentale (tra una bella figura e un buon comportamento, in Italia non c'è partita).
6) Fattore Zelig. Immedesimarsi negli interlocutori: una qualità necessaria a ogni politico. La capacità di trasformarsi in loro è più rara. Il desiderio di essere gradito ha insegnato a B. tecniche degne di Zelig, camaleontico protagonista del film di Woody Allen. Padre di famiglia coi figli (e le due mogli, finché è durata). Donnaiolo con le donne. Giovane tra i giovani. Saggio con gli anziani. Nottambulo tra i nottambuli. Lavoratore tra gli operai. Imprenditore tra gli imprenditori. Tifoso tra i tifosi. Milanista tra i milanisti. Milanese con i milanesi. Lombardo tra i lombardi. Italiano tra i meridionali. Napoletano tra i napoletani (con musica). Andasse a una partita di basket, potrebbe uscirne più alto.
7) Fattore harem. L'ossessione femminile, ben nota in azienda e poi nel mondo politico romano, è diventata di pubblico dominio nel 2009, dopo l'apparizione al compleanno della diciottenne Noemi Letizia e le testimonianze sulle feste a Villa Certosa e a Palazzo Grazioli. B. dapprima ha negato, poi ha abbozzato («Sono fedele? Frequentemente»), alla fine ha accettato la reputazione («Non sono un santo»). Le rivelazioni non l'hanno danneggiato: ha perso la moglie, ma non i voti. Molti italiani preferiscono l'autoindulgenza all'autodisciplina; e non negano che lui, in fondo, fa ciò che loro sognano. Non c'è solo l'aspetto erotico: la gioventù è contagiosa, lo sapevano anche nell'antica Grecia (dove veline e velini, però, ne approfittavano per imparare). Un collaboratore sessantenne, fedele della prima ora, descrive l'insofferenza di B. durante le lunghe riunioni: «È chiaro: teme che gli attacchiamo la vecchiaia».
8) Fattore Medici. La Signoria - insieme al Comune - è l'unica creazione politica originale degli italiani. Tutte le altre - dal feudalesimo alla monarchia, dal totalitarismo al federalismo fino alla democrazia parlamentare - sono importate (dalla Francia, dall'Inghilterra, dalla Germania, dalla Spagna o dagli Stati Uniti). In Italia mostrano sempre qualcosa di artificiale: dalla goffaggine del fascismo alla rassegnazione del Parlamento attuale. La Signoria risveglia, invece, automatismi antichi. L'atteggiamento di tanti italiani di oggi verso B. ricorda quello degli italiani di ieri verso il Signore: sappiamo che pensa alla sua gloria, alla sua famiglia e ai suoi interessi; speriamo pensi un po' anche a noi. «Dall'essere costretti a condurre vita tanto difficile», scriveva Giuseppe Prezzolini, «i Signori impararono a essere profondi osservatori degli uomini». Si dice che Cosimo de' Medici, fondatore della dinastia fiorentina, fosse circospetto e riuscisse a leggere il carattere di uno sconosciuto con uno sguardo. Anche B. è considerato un formidabile studioso degli uomini. Ai quali chiede di ammirarlo e non criticarlo; adularlo e non tradirlo; amarlo e non giudicarlo.
9) Fattore T.I.N.A. . T.I.N.A., There Is No Alternative. L'acronimo, coniato da Margaret Thatcher, spiega la condizione di molti elettori. L'alternativa di centrosinistra s'è rivelata poco appetitosa: coalizioni rissose, proposte vaghe, comportamenti ipocriti. L'ascendenza comunista del Partito democratico è indiscutibile, e B. non manca di farla presente. Il doppio, sospetto e simmetrico fallimento di Romano Prodi - eletto nel 1996 e 2006, silurato nel 1998 e 2008 - ha un suo garbo estetico, ma si è rivelato un'eredità pesante. Gli italiani sono realisti. Prima di scegliere ciò che ritengono giusto, prendono quello che sembra utile. Alcune iniziative di B. piacciono (o almeno dispiacciono meno dell'alternativa): abolizione dell'Ici sulla prima casa, contrasto all'immigrazione clandestina, lotta alla criminalità organizzata, riforma del codice della strada. Se queste iniziative si dimostrano un successo, molti media provvedono a ricordarlo. Se si rivelano un fallimento, c'è chi s'incarica di farlo dimenticare. Non solo: il centrodestra unito rassicura, almeno quanto il centrosinistra diviso irrita. Se l'unico modo per tenere insieme un'alleanza politica è possederla, B. ne ha presto calcolato il costo (economico, politico, nervoso). Senza conoscerlo, ha seguito il consiglio del presidente Lyndon B. Johnson il quale, parlando del direttore dell'Fbi J. Edgar Hoover, sbottò: «It's probably better to have him inside the tent pissing out, than outside the tent pissing in», probabilmente è meglio averlo dentro la tenda che piscia fuori, piuttosto di averlo fuori che piscia dentro. Così si spiega l'espulsione e il disprezzo verso Gianfranco Fini, cofondatore del Popolo della libertà. Nel 2010, dopo sedici anni, l'alleato ha osato uscire dalla tenda: e non è ben chiaro quali intenzioni abbia.
10) Fattore Palio. Conoscete il Palio di Siena? Vincerlo, per una contrada, è una gioia immensa. Ma esiste una gioia altrettanto grande: assistere alla sconfitta della contrada rivale. Funzionano così molte cose, in Italia: dalla geografia all'industria, dalla cultura all'amministrazione, dalle professioni allo sport (i tifosi della Lazio felici di perdere con l'Inter pur di evitare lo scudetto alla Roma). La politica non poteva fare eccezione: il tribalismo non è una tattica, è un istinto. Pur di tener fuori la sinistra, giudicata inaffidabile, molti italiani avrebbero votato il demonio. E B. sa essere diabolico. Ma il diavolo, diciamolo, ha un altro stile.
"Te lo meriti Silvio Berlusconi". Anzi "Ce lo meritiamo". Lui e tutti gli altri figli di Silvio, scrive lunedì 13 giugno 2016 Gabriele Della Rovere su "L’Indro". Ed ecco la Settimana di Berlusconi più settimana di Berlusconi di tutte. Quella in cui si attende l’operazione al cuore, quella in cui si svolge l’operazione, presumibilmente martedì 14 giugno 2016 data da segnare premurosamente per cultori ed avversatori, quella dell’esito dell’operazione, quella della ripresa, dei patèmi e dell’individuazione delle prospettive. Su tutto domina “Il corpo del capo”, come da prezioso libro di Marco Belpoliti, e la vita, la storia, l’epopea di questo specifico capo. La straordinaria, e diciamolo in questa misura inattesa, simpatia che da tante parti d’Italia si leva verso di lui è significativa. E oggetto di riflessione non banale per oggi, per domani e soprattutto per il dopodomani. Ma insomma, dopo tutto quello che ha fatto, ci ha fatto e soprattutto ci lascia in eredità, ci si chiede come sia possibile, nello sconcerto di chi osserva da altri posti, questo stranissimo, in gran misura imprevisto e forsanche imprevedibile trasporto. Forse perché Berlusconi sarà anche un ‘puzzone’, come con affettuosa antitesi veniva chiamato dai suoi nostalgici Benito Mussolini, ma è il nostro puzzone. Ancor più nostro del modo con cui i democratici’ Stati Uniti accettavano i dittatori latinoamericani, che erano ‘loro’ perché da loro dipendevano ed a loro obbedivano. No, per gli italiani lui è ben altro è di più. Ché se «Non temo Berlusconi in sé, ma Berlusconi in me», come da geniale riflessione di Michele Serra, è proprio perché ne ritroviamo ciascuno in noi stessi più di quanto vorremmo. E così in fondo, e soprattutto in inizio, similmente a come il Michele Apicella di Nanni Moretti sbottava «Te lo meriti Alberto Sordi», caro italiano «Te lo meriti Silvio Berlusconi». Ché Berlusconi è allo stesso tempo «arcitaliano», «biografia di una nazione», «sdoganatore del carattere degli italiani». Ed è «The man who screwed an entire country» secondo la storica copertina del britannico ‘The Economist’ del 2011. Quello ‘screwed’ si può intendere in molti modi. ‘L’uomo che ha fottuto un intero paese’, ma anche ‘L’uomo che si è fottuto un intero paese’, ‘L’uomo che se ne è fottuto dell’intero paese’ e ‘L’uomo che ha imbrogliato un intero paese’. Volendo però, visto che il termine inglese ha originariamente il significato di ‘avvitare’, è anche l’uomo che ha «avvitato a sé», «avvinto» un intero paese, o ancora «contorto» e «accartocciato» l’intero paese. Forse tutte le versioni sono a modo loro giuste, e prese nel complesso rappresentano un’efficace descrizione di lui, ma ancor più di un paese che ha in fondo, lunghissimamente e probabilmente ancora per tempo da qui a venire, accettato di fatto l’uomo e quello che faceva. Al paese, anzi al Paese, tutto e ad ogni singolo abitante. Modello transnazionale di un novello «Je suis Monsieur Berlusconì», magari e volendo per i più affezionati arrivando sino alla seducente affermazione «Oui, je suis Silvio Berlusconì», accenti francofoni obbligatoriamente inclusi rifacendosi nella fattispecie a Madame Bovary e Catherine Deneuve. E attenti, ché se Gustave Flaubert intendeva condannare la tendenza del Romanticismo a privilegiare l’illusione su una realtà non all’altezza, per noi la fuga nell’illusione è stata ed è amara costante. E così l’Italia e gli italiani si meritano l’eretto di Arcore come ciascuno al fondo, e dall’inizio, si merita la situazione in cui è, per quanto sia duro e drammatico riconoscerlo, ed ogni popolo si merita chi lo governa e chi l’ha governato. Ricadendo almeno in questo caso giustamente le colpe dei padri sui figli (e nipoti, e pronipoti…). «Te lo meriti Silvio Berlusconi», ve lo meritate Silvio Berlusconi. Di più: «Ce lo meritiamo Silvio Berlusconi». Tutto e tutti. Così come ci meritiamo, nel bene e nel male che sia, i tanti ‘figli di Silvio’, legittimi, illegittimi, autoproclamati, nascosti che siano. A partire da Matteo Renzi che promette come entro tre anni la Campania sarà liberata dalle “ecoballe”, ma non sono previste date di scadenza per la scomparsa delle “matteoballe” e di tutte le altre “balle” ad personam. Almeno partendo da questa consapevolezza è difficile ci possa capitare qualcosa di peggio.
IL CORPO DEL CAPO.
Il corpo del capo di Marco Belpoliti. Editore: Guanda. Anno edizione: 2009. Nell'aprile del 2001 milioni di italiani hanno ricevuto un fotoromanzo elettorale, "Una storia italiana", dove Silvio Berlusconi presentava la storia della propria vita attraverso parole e immagini. Un album ricco di fotografie del Capo. Perché il creatore della neotelevisione ama così tanto le fotografie, perché ricorre alle immagini fisse per descrivere la propria persona? Questo libro racconta la vicenda del rapporto tra il tycoon televisivo e la fotografia a partire dagli anni Settanta, quando Berlusconi era un semisconosciuto imprenditore edile, sino ad arrivare alle sue ultime immagini: dalle pose all'Alain Delon degli anni Ottanta agli scatti che lo ritraggono nelle vesti di futuro capo di Stato del decennio successivo, dalle foto familiari a quelle elettorali. Il saggio descrive il modo in cui il magnate di Arcore ha usato, sia come imprenditore sia ai fini della sua strategia politica, il proprio corpo, e questo attraverso le foto ufficiali e non; ma ragiona anche sull'uso del corpo da parte dei politici postmoderni, e sulle similitudini tra il corpo di Mussolini e quello di Berlusconi. Dai trapianti di capelli alla bandana, dal ritocco fotografico alla chirurgia estetica, il corpo del Capo è diventato la metafora vivente della nostra stessa idea di corpo, della sua durata nel tempo, del suo valore e del suo sfruttamento economico.
Marco Belpoliti - "Il corpo del capo". Recensione scritta da Gabriele Vitello. Il corpo del capo prende in esame i ritratti di Silvio Berlusconi scattati dai suoi fotografi ufficiali dalla seconda metà degli anni Settanta – quando comincia la sua carriera di imprenditore edile e televisivo – sino ad oggi. Categorie e paradigmi concettuali tratti dai più diversi campi delle scienze umane si mescolano ecletticamente e si riorganizzano secondo un percorso conoscitivo di tipo indiziario: in tal modo il libro porta a maturazione un modello di scrittura saggistica già presente nel brevissimo. Rievocando il celebre fotoromanzo elettorale inviato per posta a milioni di famiglie italiane dal Cavaliere nell’aprile del 2001, Belpoliti afferma che la fotografia, più che la televisione, costituirebbe il medium prediletto dalla strategia d’immagine dell’attuale premier. Con questa premessa, la riflessione si dirama in due direzioni distinte, una storica e l’altra estetica. Nella prima l’autore si fa guidare dagli studi di Kantorowicz sul doppio corpo del re e da quelli di Sergio Luzzatto sulle figure dei leader politici italiani. In epoca medievale il re possedeva un corpo naturale soggetto alla morte e uno mistico tramandabile al suo successore. Con il progresso della modernità avviene un singolare rovesciamento: il corpo mistico del re viene meno e rimane il corpo fisico, luogo d’esercizio della tecnologia biopolitica: il corpo è un «capitale da spendere», un oggetto manipolabile attraverso la chirurgia estetica, il trapianto o il trucco. In Italia, dopo i «corpi sacralizzati» di Mazzini e Mussolini e i «corpi invisibili» dei politici democristiani, è il corpo di Silvio Berlusconi ad essere investito integralmente da questa trasformazione. Le conclusioni di questo discorso si allacciano al secondo versante dell’indagine. Le foto di Berlusconi sono considerate un documento esemplare di un’estetica postmoderna nelle sue forme tipicamente italiane. L’eterno sorriso del Cavaliere e il suo ben noto rifiuto della normale calvizie esprimono una componente femminile e androgina il cui prototipo risale a Rodolfo Valentino, e rimanda a un modello che dal mondo dei varietà televisivi e delle veline si è esteso all’intera società: tutte le polarità e contraddizioni compresa quella maschile/femminile sono fuse in epoca postmoderna in un’ambigua indistinzione. Queste riflessioni riprendono e sviluppano alcuni concetti già apparsi in Crolli. In esse penetrano al contempo, attraverso Baudrillard, alcuni topoi del post-strutturalismo: quella cultura che non a caso ha vissuto il suo momento di egemonia negli stessi anni del trionfo berlusconiano. Il tono ironico e satirico del libro si stempera nell’ultima parte, con l’analisi dell’inquietante foto scattata nel 2008 da Alex Majoli: Silvio «è fermo davanti a una tenda bianca, le mani dietro la schiena, il volto girato verso di noi. Non sorride, e gli occhi appaiono lontani, spenti. I due pesanti tendaggi giallo oro sui lati, tenuti da due cordoni, suggeriscono una messa in scena quasi lugubre» (pag. 139). «Momento di verità» dove, per un freudiano «ritorno del rimosso», il corpo del capo svela la sua reale «intimità con la morte». Riflettendo su un impiego alternativo delle fotografie, John Berger ha scritto che esso può consistere nell’ «incorporare la fotografia nella memoria sociale e politica, invece di usarla come un sostituto che ne incoraggia l’atrofia» (Sul guardare, Mondadori, Milano 2003, pag. 64). Come volendo attuare il proposito di Berger, Belpoliti ha effettuato una rigorosa operazione ermeneutica calando le foto di Berlusconi in un tempo narrato e storico, e sottraendole così al loro destino di «momenti congelati». In questo senso, il libro ricostruisce una storia collettiva che, in tutti questi anni, l’opinione pubblica ha sottovalutato o del tutto ignorato.
Quando il corpo del capo diventa un bersaglio, scrive Filippo Ceccarelli il 15 dicembre 2009 su “La Repubblica”. Nel tempo delle visioni a distanza, oltre che di corpi, la vita del potere si popola di indizi, simboli e presagi che evocano una realtà al tempo stesso tecnologica e arcaica. Così all'inizio di dicembre è stato messo in vendita sul web, per 13,5 euro, un bambolotto di Berlusconi completo di spilloni per un rito vudù. E' arduo stabilire se qualche compratore ha operato in questo senso; né d'altra parte si saprà mai se domenica sera, a piazza del Duomo, ha funzionato o meno l'amuleto che sempre il Cavaliere aveva ricevuto in omaggio due giorni prima, a Bruxelles, dall'eurodeputato Rivellini: un classico cornetto anti-jella, però incorporato in una cravatta, "da toccare quando serve". Non ce n'è stato il tempo. Ma forse quello che è accaduto per mano dello sciaguratissimo Tartaglia valica addirittura la soglia della tecno-magia per imporsi negli annali politici come un evento non del tutto inedito, però sintomatico del presente: la violazione della sacralità del corpo sovrano. O meglio: la profanazione del corpo che un sovrano come Berlusconi ha fin dall'inizio messo al centro della sua lunga avventura politica. Un corpo che tra gesti, posture, scenette, abiti, accessori, diete, trucchi, jogging, lifting, trapianti, farmaci, elisir, svenimenti, autocelebrazioni virili, sogni di eterna giovinezza e perfino di immortalità, ecco, questo suo corpo così fermo e mutevole è finito per diventare un'icona che compendia i valori estetici e morali del comando berlusconiano. Si pensi alla cruda battuta sul sollievo arrecato al popolo dall'avere un leader "con le palle". O alla danza delle corna, quel vortice di giovani con il cappelletto della Protezione civile che su comando alzavano le mani inscenando il celebre gestaccio; e lui che al culmine denunciava addirittura un palpeggiamento ai suoi danni. O ancora si pensi alla scarlattina che sempre "scherzando", s'intende, il premier avrebbe avuto il potere e il piacere di attaccare al conduttore di Ballarò, Floris. Esempi degli ultimi 60 giorni. A pensarci bene, anche poco prima dell'aggressione Berlusconi aveva messo in scena e santificato la speciale potenza del suo corpo, vantandosi di non sentire il freddo nel gelo della serata milanese. C'era infatti al suo fianco sul palco un intabarratissimo Formigoni: "Ma io sono più giovane - aveva proclamato il Cavaliere - perché a differenza di lui non porto la canottiera", e a questo punto si era aperto la camicia mostrando la pelle nuda. Ecco. Ridotto di lì a poco una maschera di sangue, quel volto, quella carne battuta ispiravano sì ammirazione per il coraggio e anche umana pietà; ma al tempo stesso si sono offerte per la prima volta al pubblico come il più inconfessabile vincolo che la sacralità del potere mantiene tanto con la vita quanto con la violenza e la morte. Possono sembrare fumisterie. Che oltretutto non spostano di un centimetro il giudizio sulla gravità dell'aggressione e ancora di più su quello che di peggio poteva accadere. Ma per chi pensa che la parola abbia ancora un senso è bene sapere che sul corpo di Berlusconi esiste una vasta e seria letteratura, materia di studio universitario, successi editoriali. Dall'accurato saggio del professor Federico Boni, Il superleader (Meltemi), alle profonde e suggestive elaborazioni sui leader tele-populisti di Vincenzo Susca e Derrick De Kerckhove in Tecno-magia (Apogeo), fino all'opera specifica di Marco Belpoliti, Il corpo del capo (Guanda). Ebbene, nel blog Nazione indiana proprio Belpoliti ha scritto ieri, in qualche modo ancora a caldo, un prezioso articolo sul "corpo ferito del capo" in cui distingue i due momenti di quella serata. Nel primo Berlusconi, ricevuto il colpo, si china, si copre il viso, compie il gesto umano di chi cerca riparo e vacilla. Ma nel secondo momento "il Capo ritorna tale": e allora ferma l'auto, esce di nuovo, sale sul predellino, scivola, risale e si mostra alla folla. Vuol far vedere che è vivo, "ma vuole anche compiere un gesto di ostensione. Una sorta di Sacra Sindone al vivo: viva e sanguinolenta. Si mostra - osserva Belpoliti - perché è nell'ostensione che il suo potere esiste e prospera. Lo fa in modo istintivo, senza ripensamenti... Sfida il pericolo, si espone di nuovo, seppur dolorante, col sangue sul viso, atterrito ma vivo, allo sguardo dei fedeli perché questa è la natura stessa del patto che ha stretto con loro". Il punto delicato della faccenda è che in una vita pubblica ormai priva di ideologie e narrazioni collettive, la sacralità del potere - indotta, mirata, spontanea o funzionale che sia - comunque si tira appresso la sua profanazione; così come la perenne ostensione del corpo di un sovrano che fa coincidere in sé ogni statuto e istituto ne "chiama implacabilmente la violazione". A cosa porti tutto questo gioco di specchi, proiezioni e slittamenti è difficile dire. Ma certo, oltre al lancio folle di souvenir, la comparsa in simultanea della bambolina vudù e del talismano dell'eurodeputato non è che diano molta speranza, né più tanta allegria.
Berlusconi. Quel che resta del corpo del capo. Scrive Marco Belpoliti il 30 Settembre 2013 su "Doppio zero". Cosa resta del corpo del Capo nel videomessaggio, nell’ultimo appello del 18 settembre ai tifosi e agli elettori? Poco. Il viso sembra privo di intensità, sotto lo spesso strato di cerone, la mimica facciale quasi assente: non riesce a tenere dietro ai toni di voce, ai passaggi più forti ed emotivi del discorso. Opaca è tutta la fronte e la testa nella parte alta. Anche il tronco, imbustato dentro il doppiopetto blu di antica memoria democristiana, non produce nessun effetto mimico. Rimane congelato, statuario: un manichino. Così appare nel mezzobusto che emerge da dietro la bianca scrivania, vuota, salvo il testo del discorso, che però legge dal gobbo, vicino alla telecamera, la penna, e un misterioso libro, di cui si scorge alla sua destra solo la costa azzurra (un tocco intellettuale mentre la libreria dietro è inespressiva come lui). L’espressività è ora tutta demandata alle mani, che commentano i punti salienti del discorso. Le tiene appoggiate sul sottomano di cuoio, che afferra a tratti per manifestare intensità, e su cui le cala di momento in momento per dimostrare forza, concentrazione e soprattutto determinazione, in modo insistito, anche troppo. Usa le mani, e soprattutto l’indice. Come il suo ex-rivale, e cofondatore di Forza Italia, Gianfranco Fini, che nell’aprile del 2010 l’aveva affrontato in piedi tendendo l’indice contro di lui (“Che fai, mi cacci?”). Ora anche Berlusconi utilizza quel dito. Lo punta verso i telespettatori, come nel celebre manifesto di arruolamento americano, “I want you”, disegnato nel 1917 da James Montgomery Flagg. Come fa notare Claudio Franzoni in Da capo a piedi(Guanda) si tratta di un gesto sdoganato piuttosto di recente, nonostante il celebre invito della U.S. Army, almeno nell’uso corrente, per quanto i leader politici del passato, Adenauer in primis, lo usavano spesso. Si tratta dell’indice del maestro, della guida, del capo; il suo precedente illustre è nella statua di Costantino, oggi ai Musei Capitolini. C’è sempre un tono potenzialmente minaccioso nell’indice puntato, che come il medio alzato, secondo gli etologi, avrebbe il valore anche il valore di un’allusione fallica. Gesto maschile, che appare opposto e simmetrico al gesto più femminile della cancelliera tedesca, Angela Merkel, che unisce pollici e indici delle due mani: riflessione e insieme forza. Grazie all’uso pubblico e politico, l’indice teso è passato da indicare ad additare, scrive Claudio Franzoni nel suo libro. Berlusconi qui però non addita, ma piuttosto rimprovera e ammonisce. L’indice dell’istitutore: Se non farete così… Nell’appello finale ai suoi tifosi ed elettori manifesta perciò un’intrinseca debolezza: Unitevi a me, protestate, partecipate. Ci intima qualcosa che vuole ottenere, ma non è convinto di averlo. Sta per: Fate tutti il vostro dovere! Molto diverso dal gesto, quello sì minaccioso e provocatorio, di Fini, anche perché diretto a lui, a Silvio, che si trovava sul palco, in una posizione di “potere spaziale”. Il braccio destro appare nel video invece particolarmente mobile. Sostiene la mano, che si agita in aria, e si muove da destra a sinistra, e viceversa. Sono gesti in cui le qualità predicatorie del leader appaiono tuttavia smorzate. Non una vera sottolineatura delle parole, non gesti d’accompagnamento, che corrispondono all’enfasi del discorso, ma piuttosto gesti di sfogo, che emergono di colpo dalla corazza in cui il suo corpo è catafratto, e forse anche annichilito, di certo sparito. C’è disperazione, o almeno molta poca convinzione, in quei movimenti. Picchia sul tavolo, abbassando e stringendo il portadocumenti di cuoio. Si capisce che è arrabbiato, ma non abbastanza; vuole dare enfasi al detto, ma il movimento si smorza, perché tutta quella mimica gestuale resta a lato del suo dire, non segue il senso profondo delle parole: è uno sfogo. A un certo punto appoggia la mano sul cuore, in un moto che vuole indicare un sentimento di fedeltà, di fiducia, ma anche una forma di giuramento intimo (giuro sulla mia famiglia: quale?). Alza anche la mano con il palmo aperto, ma funziona poco. Di gesti soliti, che gli abbiamo visto fare nei comizi da “venditore”, l’enumerare, ad esempio, prendendo con una mano le dita dell’altra, una a una, per spiegare, illustrare, enunciare, adesso non c’è traccia. La sua gestualità ha qualcosa di vecchio, d’usuale, da direttore, preside, burocrate. Non incrocia mai le braccia, come ha fatto nel passato, movimento in cui è implicita la sfida, scrive Franzoni: alla Napoleone. E neppure unisce indice e pollice per argomentare – una volta soltanto e sbrigativamente –, una modalità tipica dei ragionatori, come accadeva a Aldo Moro, a Rumor e agli altri capi corrente democristiani, gesto che pure in passato s’era visto nei suoi incontri pubblici in sale e teatri (per quanto argomentare non appartenga al suo repertorio, o meglio da presentatore televisivo: annunciava e presentava). Nessun sorriso, nessuna gestualità distesa, nessuna captatio benevolentiae, come in passato. Nessuna battuta o barzelletta, nessuno scherzo. Il corpo congelato e la ristretta mimica delle mani rivelano una condizione interiore di crisi, trasmettono l’idea di un uomo che si sente assediato, che reagisce, ma non agisce. Risentimento in vista dell’abbandono. Quasi un: Mi rimpiangerete! Una versione più breve di questo articolo è apparsa su L’espresso del 3 ottobre 2013.
LA BIOGRAFIA PUBBLICA TRIDIMENSIONALE.
Silvio Berlusconi. Biografia da Treccani. Enciclopedie on line. Berluscóni, Silvio. - Imprenditore e uomo politico italiano (n. Milano 1936). Dopo azioni imprenditoriali di grande successo, a partire dagli anni ’60 nel settore immobiliare e negli anni ’80 nel settore dei media (televisione ed editoria), entrò in politica nel 1994, dando vita al movimento Forza Italia che, in un’alleanza di centrodestra, vinse le elezioni portandolo al governo. Perse le successive consultazioni nel 1996 ma vinse quelle del 2001 con una nuova coalizione, la Casa delle libertà, e fu presidente del consiglio del governo durato più a lungo nella storia della repubblica, perdendo poi per pochi voti le elezioni del 2006. Dal 2008 è stato nuovamente presidente del Consiglio, incarico da cui si è dimesso nel 2011, dal 2009 al 2013 è stato presidente del partito da lui fondato Popolo della libertà e nello stesso anno ha ridato vita al movimento politico Forza Italia.
VITA E ATTIVITÀ. Figlio di un funzionario di banca, laureatosi in giurisprudenza, iniziò la sua attività imprenditoriale nel settore edilizio e immobiliare, fondando nel 1961 la società Cantieri Riuniti Milanesi S.p.A., nel 1963 la Edilnord. Tra il 1969 e il 1976 delineò il progetto e giunse alla realizzazione di due quartieri residenziali di concezione moderna, Milano 2 e Milano 3, caratterizzati dall'alta qualità dei servizi offerti. Ben presto avviò la diversificazione delle sue attività, che furono nel corso degli anni raggruppate in gran parte sotto il controllo di Fininvest, costituita nel 1978, sotto la sua presidenza. All'inizio degli anni Ottanta entrò nel settore televisivo, rilevando e trasformando la tv via cavo di Milano 2 nella prima televisione commerciale nazionale alternativa al servizio pubblico: nasceva così Canale 5, a cui veniva affiancata Publitalia, la relativa concessionaria di pubblicità. Al successo di Canale 5 seguì l'acquisizione di altre due reti: Italia 1 (1982) e Rete 4 (1984). Le tre televisioni diedero vita a un network nazionale in grado di competere direttamente con la RAI. Nel 1991, con la conquista da parte della Fininvest della quota di maggioranza della Arnoldo Mondadori, B. divenne il primo editore italiano nel settore libri e periodici, oltre a essere presente nella grande distribuzione (con la proprietà del gruppo Standa, poi ceduto) e nel mondo delle assicurazioni e delle gestioni finanziarie (con le società Mediolanum e Programma Italia). Dal 1986 è proprietario della squadra di calcio A. C. Milan, della quale è stato anche presidente. Sotto la sua gestione, il club ottenne importanti successi a livello nazionale e internazionale. Alla fine del 1993, B. manifestò l'intenzione di dedicarsi alla politica con l'obiettivo di riaggregare lo schieramento di centro, ormai privo dei tradizionali partiti di riferimento per effetto delle inchieste giudiziarie sul sistema delle tangenti e dei finanziamenti illeciti. La decisione di "scendere in campo" fu annunciata nel gennaio 1994: seguì la rapida costituzione del movimento Forza Italia che, alleatosi nel settentrione con la Lega Nord (nel cosiddetto Polo delle libertà) e nel centro-sud con Alleanza nazionale (nel Polo del buon governo), vinse le elezioni politiche del marzo successivo. La vittoria elettorale, confermata alle elezioni europee di giugno, consacrò B. leader dello schieramento di centrodestra, premiando l'immagine dell'imprenditore di successo, percepito come estraneo ai condizionamenti della politica tradizionale, capace di comunicare, con linguaggio semplice ed efficace, grandi prospettive di sviluppo per il paese. Nominato presidente del consiglio (maggio 1994), B. costituì un governo formato da Forza Italia, Alleanza nazionale, Lega Nord e Centro cristiano democratico. L'esecutivo, subito segnato dai contrasti interni di una maggioranza eterogenea, venne messo in difficoltà dall'anomala posizione del presidente del consiglio, grande imprenditore e proprietario delle maggiori reti televisive private. In dicembre il ministero fu costretto a dimettersi, in seguito alla defezione della Lega Nord, e a lasciare il posto al governo Dini, espressione della coalizione di centrosinistra. Nelle elezioni anticipate dell'aprile 1996 l'alleanza che faceva capo a B. (Polo per le libertà, composto da Forza Italia, Alleanza nazionale e da altri partiti minori di centro) venne sconfitta, seppure di misura/">misura, dallo schieramento di centrosinistra (L'Ulivo). Nelle elezioni europee del giugno 1999, presentandosi in tutte le circoscrizioni con una campagna elettorale molto personalizzata, B. ottenne, con quasi tre milioni di preferenze, un vistoso successo che contribuì all'affermazione di Forza Italia come primo partito con il 25,2% dei voti. Questa tendenza favorevole fu confermata dai risultati delle elezioni regionali dell'aprile 2000. Una personalizzazione ancora più accentuata venne messa in atto in occasione delle elezioni politiche del 13 maggio 2001, quando B. riuscì a dominare la campagna della nuova alleanza di centrodestra, la Casa delle libertà, in cui era entrata di nuovo la Lega Nord, ottenendo un importante successo. Nominato presidente del consiglio (giugno 2001), nei successivi cinque anni di governo gli enunciati liberali e liberisti di B. si scontravano con una crisi economica internazionale, con la necessità di mantenere un equilibrio tra le differenti posizioni politiche delle componenti della coalizione, con l'esigenza di dover chiarire la posizione di inquisito e di imputato in numerosi procedimenti penali da parte della magistratura (organo con il quale ha mantenuto alto il livello del conflitto istituzionale). Dopo la sconfitta alle regionali dell'aprile 2005 fu costretto a varare nello stesso mese un secondo gabinetto. Alla vigilia delle politiche dell'aprile 2006, per far fronte a un'evidente perdita di consensi, si impegnò in una dura campagna elettorale in cui confermò la capacità di intuire e mobilitare i sentimenti profondi di un'ampia parte del paese. La sconfitta di stretta misura della Casa delle libertà a vantaggio della coalizione dell'Unione di centrosinistra, nonostante un certo numero di riforme varate dal suo governo e un programma elettorale che prevedeva una riduzione del peso fiscale e una serie di provvedimenti per la modernizzazione dello Stato, sottolineò la difficoltà di risolvere il problema, sollevato in sede politica e nell'opinione pubblica, del conflitto d'interessi. A questo si sono aggiunte, in una fase congiunturale non favorevole, la sostanziale diminuzione del potere d'acquisto dei salari e la stagnazione dell'economia. Alle elezioni politiche dell'aprile 2008 il partito del Popolo della libertà, formatosi come aggregazione federativa due mesi prima, ha conseguito un significativo successo elettorale, ottenendo una larga maggioranza parlamentare che ha portato B. a guidare, per la quarta volta, il governo. Nel marzo 2009, durante il congresso costitutivo del Popolo della libertà, è stato eletto, per acclamazione e all'unanimità, presidente del partito. Nel 2010 il cofondatore del Popolo della libertà G. Fini è uscito dal partito creandone poi uno nuovo, Futuro e libertà per l’Italia, passato all’opposizione. Nel novembre del 2011 dopo il voto alla Camera dei Deputati sul rendiconto dello Stato, approvato solo grazie all’astensione dell’opposizione, preso atto delle difficoltà della maggioranza e a causa del grave momento di crisi finanziaria ed economica, interna e internazionale, B. si è dimesso dalla carica di presidente del Consiglio. Alle elezioni politiche del 2013 il PDL anche se in coalizione con la Lega e con altre forze di centrodestra non ha raggiunto la maggioranza né alla Camera né al Senato. Il partito è poi entrato a far parte e a sostenere il governo Letta di larghe intese, ma durante i mesi successivi all'interno del partito si sono evidenziate delle rotture tra i filogovernativi sostenitori della linea politica di A. Alfano, diventato vicepremier e i critici verso il governo legati a Berlusconi. Il Congresso nazionale del novembre dello stesso anno ha sancito lo scioglimento del partito che è confluito nella nuova formazione rinominata Forza Italia voluta da B., a cui non hanno aderito alcuni membri filogovernativi e legati alla linea politica di A. Alfano, che hanno formato un nuovo gruppo parlamentare denominato Nuovo centrodestra. Nello stesso mese, a seguito della condanna definitiva per frode fiscale, il Senato ha approvato la decadenza di B. dalla carica di senatore.
Popolo della libertà. Popolo della libertà (PDL) Partito politico costituito nel marzo 2009 e formato dalla confluenza dei due maggiori partiti del centrodestra, Forza Italia e Alleanza nazionale, e di altri gruppi minori del medesimo schieramento.
Casa delle libertà. Casa delle libertà Coalizione di centrodestra composta da Forza Italia, AN, CCD, CDU, Lega Nord e altre formazioni in vista delle elezioni politiche del 2001. Dopo la vittoria, il suo leader, S. Berlusconi ha assunto la presidenza del Consiglio, portando a termine la legislatura.
Fininvest. Nome abbreviato di Finanziaria d’investimento, società costituita a Roma nel 1978, la cui sede è stata poi trasferita a Milano nel 1979. È divenuta S.p.A. nel 1982 e l’intero capitale è detenuto direttamente e indirettamente dalla famiglia Berlusconi. Sorta inizialmente come azienda di costruzioni edili ...Alleanza nazionale Formazione politica sorta nel gennaio 1994 per iniziativa del segretario del Movimento sociale italiano G. Fini, che ne divenne presidente nel gennaio 1995. Nata all’interno di un ampio rinnovamento della destra italiana, si è impegnata a superare l’eredità dell’ideologia fascista, riconoscendo la ragione.
Silvio Berlusconi. Da “Biografia On Line”. Protagonista d'Italia, nel bene e nel male. Silvio Berlusconi nasce il 29 settembre 1936 a Milano. Laureato in Giurisprudenza, inizia la sua professione d'imprenditore nel settore dell'edilizia. Dal 1969 al 1979 si occupa del progetto e della costruzione di "Milano 2", la città satellite alle porte del capoluogo lombardo, cui segue la realizzazione di "Milano 3" e del centro commerciale "Il Girasole". Nel 1980 si dedica alla produzione televisiva. Trasforma la tv via cavo di Milano 2 in una televisione nazionale: nascono Canale 5, prima rete televisiva nazionale alternativa alla RAI e Publitalia, la relativa concessionaria di pubblicità. Queste attività fanno capo all'holding Fininvest, fondata nel 1978. Il successo ottenuto con Canale 5 lo spinge anche ad acquistare le reti televisive Italia Uno (da Rusconi nel 1982) e Retequattro (da Mondadori nel 1984) che trasforma in un network nazionale. Nel 1985 divorzia da Carla Dall'Oglio ed ufficializza il legame con Veronica Lario (al secolo Miriam Bartolini), attrice, che sposerà poi nel 1990 e da cui avrà tre figli. Sempre nell'anno 1985 un pretore ordina l'oscuramento delle sue tv: il meccanismo ideato da Berlusconi per avere una programmazione nazionale - la cosiddetta interconnessione per cassettazione ovvero l'invio dei programmi tramite videocassette trasmesse negli stessi orari da emittenti locali - viene giudicato fuori legge. In suo aiuto interviene Bettino Craxi, allora presidente del Consiglio, che con due decreti autorizza di fatto le trasmissioni televisive private a diffusione nazionale; la nuova normativa implicitamente rafforza il duopolio RAI-Fininvest. Sempre nello stesso periodo Berlusconi diventa proprietario del settimanale Sorrisi e Canzoni TV. Dal 1986 è Presidente della squadra di calcio Milan A.C., che sotto la sua gestione conoscerà periodi d'oro (lo storico ciclo di Arrigo Sacchi, ma anche prestigiosi successi con Fabio Capello e Carlo Ancelotti) ottenendo molti titoli sia a livello nazionale che internazionale. Nel 1989 comincia la cosiddetta "guerra di Segrate" che vede Berlusconi da una parte e Carlo De Benedetti, Caracciolo e Scalfari dall'altra. Alla fine il gruppo Mondadori viene diviso: il settore della produzione dei libri e il settimanale Panorama passano a Berlusconi, mentre l'Espresso e altri giornali locali vanno a De Benedetti - Caracciolo. Intanto con la legge Mammì sull'editoria e la TV (1990) Berlusconi è costretto a cedere Il Giornale (fondato e diretto per qualche anno da Indro Montanelli) di cui era proprietario dagli anni '70. Lo affida al fratello Paolo Berlusconi. Nello stesso periodo in cui cresce sotto il profilo editoriale, il gruppo Fininvest sviluppa una forte presenza anche nel settore delle assicurazioni e della vendita dei prodotti finanziari con le società Mediolanum e Programma Italia. Tutto questo fa sì che all'inizio degli anni '90 la Fininvest diventi il secondo gruppo privato italiano con oltre 40 mila dipendenti. All'inizio degli anni '90 crolla il sistema tradizionale dei partiti. Alle elezioni per la carica di sindaco di Roma nel novembre 1993 Berlusconi dichiara - tra lo stupore generale - che voterà per il partito di Gianfranco Fini. Lo "sdoganamento" dei voti della destra missina è il primo passo per la costruzione del Polo delle libertà. Nel gennaio 1994 Silvio Berlusconi annuncia il suo ingresso in politica: si dimette da tutte le cariche ricoperte nel Gruppo Fininvest e fonda Forza Italia, partito che dal nulla in soli tre mesi arriverà a superare il 20 per cento dei consensi alle elezioni politiche; alleato con il partito Alleanza nazionale di Gianfranco Fini, la Lega Nord di Umberto Bossi e il Ccd di Pierferdinando Casini e Clemente Mastella. Il governo nasce tra mille polemiche. Anche dall'Europa non mancano critiche. Il Polo va avanti, ma a luglio arriva il primo stop: tenta di far approvare un decreto per uscire da Tangentopoli, entra in rotta con il Pool di Mani pulite (Antonio Di Pietro è ormai uno dei personaggi-simbolo nazionali del rinnovamento del mondo politico) ed è costretto alla retromarcia. Lo stesso avviene per la riforma delle pensioni disegnata dal ministro del Tesoro Lamberto Dini (che poi si allontanerà dal Polo passando allo schieramento dell'Ulivo). Manifestazioni di piazza e opposizione del sindacato inducono a non trattare la materia nella legge Finanziaria. Ma il colpo finale lo subisce a Napoli: mentre Berlusconi presiede la Conferenza mondiale contro la criminalità organizzata il Cavaliere riceve un avviso di garanzia per corruzione dal Pool di Milano. E' uno schiaffo in diretta che fa gridare al complotto dei magistrati. Tempi e modi dell'iniziativa non convincono neanche i suoi tradizionali oppositori: Berlusconi in seguito verrà prosciolto dalle accuse, ma il danno di immagine sarà enorme. Approvata la Finanziaria nel dicembre del 1994 la Lega toglie la fiducia al governo. Dopo otto mesi Berlusconi è costretto a dimettersi da presidente del Consiglio dei ministri. Alle politiche del 1996 Forza Italia si presenta senza l'appoggio leghista: il vincitore è Romano Prodi, leader dell'Ulivo. Berlusconi guida l'opposizione e partecipa ai lavori della commissione Bicamerale per le Riforme presieduta da Massimo D'Alema che tenterà - senza riuscirci - di compiere quelle riforme istituzionali e costituzionali tanto necessarie al Paese. Alle elezioni europee del 1999 Forza Italia sfiora il 30 per cento dei voti vincendo anche le Regionali: le conseguenze di questo successo vedranno Massimo D'Alema dimettersi dalla carica di premier. In campo europeo Forza Italia aderisce al Ppe: Silvio Berlusconi diventa uno degli esponenti di punta. Alle elezioni politiche del 2001 Berlusconi recupera il rapporto con la Lega di Umberto Bossi, apre ai repubblicani e consolida il rapporto con Gianfranco Fini. Il risultato è positivo: la Casa delle libertà vince con il 45,4 per cento alla Camera e il 42,5 al Senato. In termini di seggi significa 368 seggi alla Camera (la maggioranza è di 315) e di 177 al Senato (la maggioranza è di 158). Berlusconi sale alla Presidenza del Consiglio e Forza Italia diventa il primo partito italiano con il 29,4 per cento dei voti. Il secondo Governo Berlusconi è il più longevo della storia della Repubblica Italiana quando si arriva alle elezioni europee del 2004. Fatte le debite somme dei risultati delle singole forze politiche, per Forza Italia i risultati non sono confortanti ma anche lo schieramento dell'Ulivo sebbene la sola lista Uniti nell'Ulivo raccolga oltre il 31% dei voti, non raggiungerà l'obiettivo sperato. Nell'aprile del 2005, successivamente ai negativi risultati ottenuti dalla Casa delle Liberta con le elezioni regionali, Berlusconi ha sciolto l'esecutivo presentando una nuova compagine di ministri. Le successive elezioni politiche (aprile 2006) hanno diviso in due gli elettori italiani che hanno comunque decretato la vittoria del centro-sinistra. Il governo Prodi resta in carica per soli due anni. Alle elezioni politiche del 2008 Berlusconi si presenta come leader della formazione del PdL (Popolo della Libertà), che unisce Forza Italia e Alleanza Nazionale, assieme a gruppi minori di orientamento democristiano e liberale. Il risultato delle elezioni decreta il PdL come primo partito italiano: nel maggio del 2008 prende il via il IV governo Berlusconi. Con il congresso del 29 marzo 2009, a Roma, viene poi sancita la nascita ufficiale del PdL. Ha pubblicato alcuni volumi di discorsi che raccolgono il suo pensiero politico, tra cui ricordiamo "L'Italia che ho in mente" (2000), "Discorsi per la democrazia" (2001), "La forza di un sogno" (2004). Le capacità imprenditoriali di Berlusconi sono indubbie, come anche le sue doti diplomatiche grazie alle quali, come hanno avuto modo di riconoscere anche i suoi antagonisti politici, l'Italia ha spesso ottenuto meritato risalto d'immagine a livello internazionale. Di fatto, con la sua discesa in campo Berlusconi si è assunto una grande responsabilità di fronte a tutti gli italiani, e analizzando la storia contemporanea del Paese, nel bene e nel male, Berlusconi è stato uno degli autori che ne ha scritto le pagine più importanti. Dopo un ingente numero di processi a suo carico, nel 2013 viene condannato (dopo tre gradi di giudizio). Alle sue spalle conta 4 incarichi come Presidente del Consiglio del Ministri, Ministro degli esteri, della salute e delle finanze. Alle sua spalle lascia anche la trasformazione del suo partito da Forza Italia a Popolo della Libertà, e il nuovo ritorno a Forza Italia (2013). Il Parlamento alla fine del mese di novembre dello stesso anno si pronuncia a favore della sua decadenza da senatore. Berlusconi dovrà pertanto scontare la pena: la sua presenza sulla scena politica, nonostante non sia più eleggibile, continuerà ad essere importante.
Silvio Berlusconi. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Silvio Berlusconi (Milano, 29 settembre 1936) è un politico e imprenditore italiano, conosciuto anche come il Cavaliere, soprannome assegnatogli dal giornalista sportivo Gianni Brera in ragione dell'onorificenza a cavaliere del lavoro conferitagli nel 1977 dal presidente della Repubblica Giovanni Leone e cui ha rinunciato nel 2014. Ha iniziato la sua attività imprenditoriale nel campo dell'edilizia. Nel 1975 ha costituito la società finanziaria Fininvest e nel 1993 la società di produzione multimediale Mediaset, rimanendo figura simbolo dell'omonima famiglia Berlusconi. Nell'ottobre dello stesso anno scende in politica lanciando il partito politico di centro-destra Forza Italia, strutturatosi nel gennaio successivo, confluito nel 2008 ne Il Popolo della Libertà e poi rifondato nel 2013, segnando la vita politica italiana dalla metà degli anni novanta in poi con un atteggiamento tipico che è stato definito berlusconismo, ampiamente sostenuto dai suoi seguaci politici e dai suoi elettori, entrando fortemente anche nella cultura di massa e nell'immaginario collettivo italiano ed estero, ma suscitando anche un duro antiberlusconismo da parte degli oppositori che ne hanno più volte contestato il conflitto di interessi sotto forma di emanazioni di leggi ad personam. Eletto alla Camera dei deputati nel marzo 1994, è stato confermato nelle successive quattro legislature, mentre nella XVII, a seguito delle elezioni politiche del 24 e 25 febbraio 2013, è stato eletto per la prima volta senatore a Palazzo Madama. Ha ottenuto quattro incarichi da presidente del Consiglio: il primo nella XII legislatura (1994), due consecutivi nella XIV (2001-2005 e 2005-2006), ed infine nella XVI (2008-2011). Con 3340 giorni complessivi, è il politico che è rimasto in carica più a lungo nel ruolo di presidente del Consiglio dell'Italia repubblicana, superato in epoche precedenti solo da Benito Mussolini e Giovanni Giolitti; inoltre ha presieduto i due governi più duraturi dalla proclamazione della Repubblica. È stato l'unico leader politico mondiale ad aver presenziato a 3 vertici del G7/G8come Presidente del Paese ospitante (20º G7 del 1994 a Napoli, il 27º G8 del 2001 a Genova e il 35º G8 del 2009 a L'Aquila). Secondo la rivista americana Forbes, con un patrimonio personale stimato in 7,6 miliardi di dollari USA (circa 6,7 miliardi di euro) Berlusconi è nel 2015 il quinto uomo più ricco d'Italia e il 179º più ricco del mondo. Nel 2009, Forbes lo ha classificato 12º nella sua lista delle persone più potenti del mondo per via della sua dominazione della politica italiana. È stato imputato in oltre venti procedimenti giudiziari. Il 1º agosto 2013 è stato condannato a quattro anni di reclusione (con tre anni condonati dall'indulto del 2006) per frode fiscale con sentenza passata in giudicato nel cosiddetto "processo Mediaset". Il 19 ottobre dello stesso anno gli è stata irrogata la pena accessoria dell'interdizione ai pubblici uffici per due anni a seguito dello stesso processo. A causa della suddetta condanna il 27 novembre 2013 il Senato della Repubblica ha votato a favore della sua decadenza dalla carica di senatore. Berlusconi ha quindi cessato di essere un parlamentare dopo quasi vent'anni di presenza ininterrotta nelle due camere[8] (dall'aprile 1994 al novembre 2013).
È il primogenito di una famiglia della piccola borghesia milanese. Ha trascorso la sua infanzia nel Basso Varesotto, in primo luogo a Saronno, poi a Lomazzo durante l'occupazione tedesca mentre suo padre si era rifugiato in Svizzera. Il padre Luigi (Saronno, 1908 – Milano, 1989) era impiegato alla Banca Rasini della quale nel 1957divenne procuratore generale; la madre Rosa Bossi (Milano, 1911 – 2008) era casalinga e in precedenza aveva lavorato come segretaria alla Pirelli. Oltre a Silvio dal loro matrimonio nacquero Maria Antonietta (Milano, 1943 – 2009) e Paolo (Milano, 1949). Cresciuto nel quartiere Isola, in via Volturno, nel 1954 conseguì la maturità classica al liceo salesiano Sant'Ambrogio di Milano. Si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza presso l'Università Statale dove, nel 1961, si laureò con lode, discutendo una tesi in diritto commerciale con relatore il professor Remo Franceschelli. La tesi, intitolata Il contratto di pubblicità per inserzione, fu premiata con cinquecentomila lire dall'agenzia pubblicitaria Manzoni di Milano. Dopo la laurea, non svolse il servizio militare, che all'epoca era obbligatorio. Nel 1964 conobbe Carla Elvira Lucia Dall'Oglio (La Spezia, 1940), che sposò il 6 marzo 1965 e dalla quale ebbe in seguito i figli: Maria Elvira detta Marina (Milano, 10 agosto 1966) e Pier Silvio (Milano, 28 aprile 1969). Nel 1980, al Teatro Manzoni di Milano conobbe l'attrice Veronica Lario, nome d'arte di Miriam Bartolini (Bologna, 1956), intraprendendo subito con lei una relazione extraconiugale, facendola trasferire a vivere insieme alla madre di lei nella sede operativa della Fininvest, presso villa Borletti di via Rovani a Milano. Nel 1985 Berlusconi divorziò da Carla Dall'Oglio e ufficializzò la relazione con Veronica, che sposò con rito civile nel 1990, dopo la nascita dei figli: Barbara(1984), Eleonora (1986) e Luigi (1988). Il 2 maggio 2009 Veronica Lario ha annunciato di voler chiedere la separazione. Nel dicembre 2012 la sentenza di separazione non consensuale depositata al tribunale di Milano pone fine al matrimonio con la Lario e fissa a 3 milioni di euro, l'assegno di mantenimento che Berlusconi deve versarle mensilmente. Tuttavia, gli avvocati difensori di Berlusconi presentano ricorso contro la decisione dei giudici sulla sentenza di primo grado e tale richiesta, viene resa nota e formalizzata nel marzo 2013. Il 23 giugno 2015 in sede di divorzio, infine, il Tribunale di Monza decide di ridurre di oltre la metà tale assegno, portandone la cifra a 1,4 milioni di euro. Nel 2012 Berlusconi si è fidanzato con Francesca Pascale (Napoli, 1985), showgirl e tra le fondatrici del club Silvio ci manchi e candidata alle elezioni provinciali del 2009 (anche se sin dal gennaio 2011 aveva dichiarato di avere una nuova compagna, pur non rivelandone l'identità). Dal 1974 al 2013 Berlusconi ha avuto la sua residenza ufficiale ad Arcore (MB), presso la settecentesca Villa San Martino sita in Viale San Martino, acquistata dalla marchesa Annamaria Casati Stampa di Soncino, figlia ed erede dello scomparso marchese Camillo per tramite dell'avvocato Cesare Previti che sino alla emancipazione era stato il suo tutore legale. La villa, passata di mano insieme ad alcuni terreni circostanti per 750 milioni di Lire, fu nel 1983 accettata dalla Cariplo come garanzia per un prestito di circa 7 miliardi di Lire. Dal settembre 2013 risiede ufficialmente a Roma, presso Palazzo Grazioli, in Via del Plebiscito, 102.
Attività imprenditoriale.
Edilizia. Dopo le prime saltuarie esperienze lavorative giovanili come cantante e intrattenitore sulle navi da crociera insieme all'amico Fedele Confalonieri e come venditore porta a porta di scope elettriche insieme all'amico Guido Possa, iniziò l'attività di agente immobiliare e, nel 1961, fondò la Cantieri Riuniti Milanesi Srl insieme al costruttore Pietro Canali. Il primo acquisto immobiliare fu un terreno in via Alciati a Milano, per 190 milioni di lire, grazie alla fideiussione del banchiere Carlo Rasini (titolare e cofondatore della Banca Rasini, nella quale lavorava il padre di Silvio). Nel 1963 fonda la Edilnord Sas, in cui è socio d'opera accomandatario, mentre Carlo Rasini e il commercialista svizzero Carlo Rezzonico sono soci accomandanti. In quest'azienda, Carlo Rezzonico fornisce i capitali attraverso la finanziaria Finanzierungsgesellschaft für Residenzen AG di Lugano. Gli anonimi capitali della finanziaria svizzera vengono in parte depositati presso l'International Bank di Zurigo e pervengono alla Edilnord attraverso la Banca Rasini. Nel 1964, l'azienda di Berlusconi apre un cantiere a Brugherio per edificare una città modello da 4 000 abitanti. I primi condomìni sono pronti già nel 1965, ma non si vendono con facilità. Nel 1968 nasce la Edilnord Sas di Lidia Borsani e C. (la Borsani è cugina di Berlusconi), generalmente chiamata Edilnord 2, che acquista 712 000 m² di terreni nel comune di Segrate, dove sorgerà Milano Due, a seguito alla dichiarazione del 1971con cui il consiglio dei Lavori Pubblici dichiara ufficialmente residenziale il suolo ed a seguito della concessione delle licenze edilizie da parte del comune di Segrate. La vicenda con cui ottenne a Roma il cambio di talune rotte aeree dell'aeroporto di Linate — le cui intollerabili onde sonore, superiori a 100 decibel, rendevano arrischiato l'investimento e difficoltosa la vendita degli appartamenti — fu ricostruita da Camilla Cederna come frutto di un'intensa attività di lobbying presso i Ministeri competenti. Nel 1972 viene liquidata la Edilnord e creata la Edilnord Centri Residenziali Sas di Lidia Borsani, quest'ultima socia accomandante, con i finanziamenti della Aktiengesellschaft für Immobilienlagen in Residenzzentren AG di Lugano. Nel 1973 viene fondata la Italcantieri Srl, trasformata poi in SpA nel 1975, con Silvio Berlusconi quale presidente. I capitali sono di due fiduciarie svizzere e precisamente della Cofigen, legata al finanziere Tito Tettamanti e alla Banca della Svizzera Italiana e della Eti AG Holding di Chiasso il cui amministratore delegato è Ercole Doninelli. Nel 1974 viene costituita a Roma l'Immobiliare San Martino, amministrata da Marcello Dell'Utri (amico di Berlusconi fin dagli anni universitari), con il finanziamento di due fiduciarie della Banca Nazionale del Lavoro, la Servizio Italia Fiduciaria Spa e la Società Azionaria Fiduciaria. Il 2 giugno 1977, a coronamento di questa ampia e riuscita attività edilizia, Silvio Berlusconi viene nominato cavaliere del lavoro dal presidente della Repubblica Giovanni Leone. Nel gennaio 1978, viene liquidata la Edilnord per dare vita alla Milano 2 Spa, costituita a Segrate dalla fusione con l'Immobiliare San Martino Spa.
Televisioni. Dopo l'esperienza in campo edilizio Berlusconi allarga il proprio raggio d'affari anche al settore della comunicazione e dei media. Nel 1976, infatti, la sentenza n. 202 della Corte costituzionale apre la strada all'esercizio dell'editoria televisiva, fino ad allora appannaggio esclusivo dello Stato, anche ad emittenti locali. Nel 1978, Berlusconi rileva Telemilano dal fondatore Giacomo Properzj. Si tratta di una televisione via cavo, operante dall'autunno del 1974 nella zona residenziale di Milano 2. A tale società due anni dopo viene dato il nome di Canale 5 ed assume la forma di rete televisiva a livello nazionale, comprendente più emittenti. Sempre nel 1978, Berlusconi fonda Fininvest, una holding che coordina tutte le varie attività dell'imprenditore. Il canale nel 1981 trasmette il Mundialito, un torneo di calcio fra nazionali sudamericane ed europee, compresa quella italiana. Per tale evento, nonostante gli iniziali pareri sfavorevoli da parte di ministri del governo Forlani, ottiene dalla Rai l'uso del satellite e la diretta per la trasmissione in Lombardia, mentre nel resto d'Italia l'evento viene trasmesso in differita. A partire dal 1981, Berlusconi inizia ad utilizzare la propria rete di emittenti locali come se fosse un'unica emittente nazionale: si registra con un giorno d'anticipo il palinsesto e le pubblicità e li si trasmette il giorno seguente in contemporanea in tutta Italia. Nel 1982 il gruppo si allarga con l'acquisto di Italia 1 dall'editore Edilio Rusconi e di Rete 4 nel 1984 dal gruppo editoriale Arnoldo Mondadori Editore (all'epoca controllato dall'editore Mario Formenton). Nel 1984 i pretori di Torino, Pescara e Roma oscurano le reti Fininvest per violazione della legge che proibiva alle reti private di trasmettere su scala nazionale. L'azione giudiziaria viene fermata dopo pochi giorni dal governo guidato da Bettino Craxi che con un apposito decreto legge legalizza la situazione della Fininvest. Il gruppo Fininvest riesce perciò, seppur con strumenti non legali per la legislazione di quegli anni, a spezzare l'allora monopolio televisivo RAI. Nel 1990 fu la Legge Mammì a stabilizzare le situazione presente rendendo definitivamente legale la diffusione a livello nazionale di programmi radiotelevisivi privati. Negli anni seguenti il gruppo si diffonde in Europa: in Francia fonda, nel 1986, La Cinq (chiusa nel 1992), in Germania, nel 1987, Tele 5 (si legge Telefünf; chiuderà nel 1992, per poi riaprire nel 2002), in Spagna Telecinco (fondata nel 1990 e ancora oggi attiva).
Editoria e altri media. Nel campo editoriale diventa, ed è, il principale editore italiano nel settore libri e periodici; nel gennaio 1990 acquisisce la maggioranza azionaria di Mondadori (in cui è confluita negli anni novanta la Silvio Berlusconi Editore, fondata dal magnate milanese negli anni ottanta e attiva nella stampa periodica, e che comprò TV Sorrisi e Canzoni) con una manovra che causerà un contenzioso (vedi Lodo Mondadori) e la Giulio Einaudi Editore (comprata dalla prima), e di alcune rilevanti case minori (Elemond, Sperling & Kupfer, Grijalbo, Le Monnier, Pianeta scuola, Frassinelli, Electa Napoli, Riccardo Ricciardi editore, Editrice Poseidona). Nel campo della distribuzione audiovisiva, Berlusconi è stato socio dal 1994 al 2002, attraverso Fininvest, di BlockbusterItalia. Controlla inoltre il gruppo Medusa Film. Nel 2007, Berlusconi, tramite Trefinance (una controllata del gruppo Fininvest), ha finanziato OVO s.r.l., una media company il cui progetto è realizzare un'enciclopedia video formata da centinaia di brevi clip di carattere enciclopedico (storia, fisica, arte, letteratura, biografie, ecc.); uno dei canali della stessa doveva chiamarsi OVOpedia. Il progetto, sebbene non fosse ancora stato reso pubblico (il lancio era previsto nel primo trimestre del 2009), è stato accusato di revisionismo, perché sarebbe stato teso a controbattere la storiografia dominante che secondo Berlusconi sarebbe controllata dalla sinistra; la società è attualmente in liquidazione.
Grande distribuzione e assicurazioni. Berlusconi effettua anche investimenti nel settore delle grandi distribuzioni, acquisendo il gruppo Standa dalla Montedison nel 1988 e i Supermercati Brianzoli dalla famiglia Franchini nel 1991. Nel 1995 il gruppo Standa vende Euromercato al gruppo Promodès-GS. Nel 1998 scorpora e vende il gruppo Standa; la parte "non alimentare" al gruppo Coin e la parte "alimentare" a Gianfelice Franchini, ex proprietario dei Supermercati Brianzoli. A tal proposito Berlusconi dichiarerà in seguito di esser stato costretto a vendere la Standa successivamente alla sua entrata in politica, affermando che in comuni gestiti da giunte di centrosinistra non gli concedevano le necessarie autorizzazioni per aprire nuovi punti vendita. Secondo i critici di Berlusconi l'acquisizione e la successiva vendita della Standa sarebbe stata determinata dalla volontà di creare una liquidità per il gruppo Fininvest, che attraversava un difficile periodo tra il 1990 e il 1994 (egli stesso aveva asserito di essere esposto con le banche per una cifra in lire di diverse migliaia di miliardi). Il Gruppo Fininvest, con le partecipazioni nelle società Mediolanum e Programma Italia, ha una forte presenza anche nel settore delle assicurazioni e della vendita di prodotti finanziari.
Sport. Dopo un iniziale interessamento all'acquisto dell'Inter, che secondo l'opinione di Sandro Mazzola, del direttore sportivo Giancarlo Beltrami e dell'avvocato Prisco si concretizzò nel tentativo di comprare la società prima da Fraizzoli nel 1978 e poi da Pellegrini nel 1986, dal 20 febbraio 1986 Silvio Berlusconi è proprietario dell'Associazione Calcio Milan, club calcistico del quale resse la presidenza dal giorno dell'acquisto fino al 21 dicembre 2004, quando lasciò la carica a seguito dell'approvazione di una legge disciplinante i conflitti d'interesse. Ha ricoperto di nuovo la carica dal 15 giugno 2006 all'8 maggio 2008, quando tornò a ricoprire la presidenza del Consiglio dei ministri. Dal 29 marzo 2012 ricopre la carica di presidente onorario. Sotto la sua gestione il Milan si è laureato 8 volte campione d'Italia, 5 volte campione d'Europa e 3 volte campione del mondo; ha vinto inoltre 6 Supercoppe nazionali e 5 europee nonché una Coppa Italia, per un totale di 28 trofei ufficiali in 30 anni. Nei primi anni novanta, Berlusconi estese l'attività sportiva del Milan, cambiandone il nome in Athletic Club (per mantenere l'acronimo) e trasformandolo in società polisportiva, costituita comprando i titoli sportivi di società lombarde di varie discipline quali baseball, rugby, hockey su ghiaccio, pallavolo, e acquistando per importi mai visti in precedenza i migliori giocatori a disposizione. La polisportiva si sciolse nel 1994, dopo la vittoria elettorale, e le squadre in essa accorpate (Amatori Milano di rugby, Gonzaga Milano, già Mantova, di pallavolo, Devils Milano di hockey e Milano Baseball) seguirono destini diversi.
Assetto societario. All'atto di entrare in politica, Silvio Berlusconi ha lasciato tutte le cariche sociali che ricopriva nelle sue imprese, rimanendo proprietario. Nel 2011 Forbes stima tutto il patrimonio di Berlusconi in 7,8 miliardi di dollari americani, in calo rispetto ai 9 miliardi del 2010. Questa stima è fatta tenendo conto che Silvio Berlusconi risulta in possesso del 99,5% delle azioni della società Dolcedrago S.p.A (il restante 0,5% è diviso in parti uguali tra i figli Marina e Piersilvio). La Dolcedrago possiede e gestisce le principali proprietà immobiliari di Berlusconi, tra cui la Villa San Martino ad Arcore, due ville a Porto Rotondo (le confinanti Villa Certosa e Villa Stephanie), una a Macherio, Lesa, Lesmo e alle Bermuda. La Dolcedrago S.p.A controlla anche le quote di maggioranza di altre piccole e medie società immobiliari italiane e detiene il totale controllo della Videodue S.r.l, società che gestisce i diritti di 106 film. Silvio Berlusconi possiede inoltre il 61% di Fininvest. La quota restante è nelle mani dei cinque figli (7,65% a testa per Marina e Piersilvio e 7,143% a testa a Barbara, Eleonora e Luigi). Fininvest controlla a sua volta Mediaset (38%), Mondadori (50%), A.C. Milan (100%), Mediolanum (35%) e Teatro Manzoni (100%). Intestati alla persona di Silvio Berlusconi risultano inoltre cinque appartamenti a Milano (di cui uno in comproprietà), un terreno in Antigua e Barbuda e tre imbarcazioni.
Attività politica. Le primissime prese di posizione politiche di Berlusconi in pubblico risalgono al luglio 1977, allorché sostenne la necessità che il Partito Comunista Italiano (che l'anno precedente aveva superato il 34% dei voti) "rimanesse confinato all'opposizione dall'azione di una Democrazia Cristiana trasformata in modo da recuperare al governo il Partito Socialista Italiano", alla segreteria del quale era asceso nel luglio del 1976 Bettino Craxi. L'incontro tra i due era stato propiziato a metà anni settanta dall'uomo di fiducia di Craxi, l'architetto milanese Silvano Larini. Craxi e il PSI mostreranno per tutti gli anni successivi una significativa apertura verso le TV private, culminata con il varo del cosiddetto "decreto Berlusconi" del 16 ottobre 1984 e con la sua reiterazione attraverso il "Berlusconi bis" nel successivo 28 novembre. Nel corso degli anni ottanta e fino al 1992, Berlusconi sosterrà sui suoi network con molteplici spot elettorali il PSI e l'amico Bettino. Nel 1984, Craxi è padrino di battesimo di Barbara Berlusconi. Nel 1990, alla celebrazione del matrimonio tra Veronica Lario e Silvio Berlusconi, Anna Maria Moncini (moglie del leader socialista) e Gianni Letta sono i testimoni di nozze per la sposa, mentre Craxi e Fedele Confalonieri lo sono per lo sposo. Come ulteriore testimonianza della vicinanza di Berlusconi a Craxi, va ricordata la realizzazione di uno spot televisivo di ben 12 minuti, girato dalla regista Sally Hunter[64] e presentato nella primavera del 1992 per essere trasmesso sulle emittenti di Berlusconi nel corso della campagna elettorale, nel quale compare lo stesso Berlusconi vicino ad un pianoforte che, commentando l'esperienza dei governi presieduti da Bettino Craxi (1983-1987), dichiara: «Ma c'è un altro aspetto che mi sembra importante, ed è quello della grande credibilità politica di quel governo. La grande credibilità politica sul piano internazionale, che è - per chi da imprenditore opera sui mercati - qualcosa che è necessario per poter svolgere un'azione positiva in ambienti anche politici sempre molto difficili per noi italiani, e qualche volta addirittura ostili». Infine, nell'ultimo periodo politico di Craxi (1993), in occasione dell'ennesima richiesta di autorizzazione a procedere avanzata dalla magistratura contro l'ex leader socialista e respinta dalla Camera, Berlusconi espresse pubblicamente la propria solidale soddisfazione. La "discesa in campo". Nel novembre 1993, in occasione delle elezioni comunali di Roma, intervistato all'uscita dell'Euromercato di Casalecchio di Reno, auspicò la vittoria di Gianfranco Fini, all'epoca segretario del Movimento Sociale Italiano - Destra Nazionale, che correva per la carica di sindaco contro Francesco Rutelli. Nell'inverno del 1993, in seguito al vuoto politico che si era formato dopo lo scandalo di Tangentopoli, Berlusconi decide di scendere direttamente in prima persona nell'arena politica italiana. Dall'esperienza dei club dell'Associazione Nazionale Forza Italia, guidati da Giuliano Urbani e dalla diretta discesa in campo di funzionari delle sue imprese, soprattutto di Publitalia '80, nasce così il nuovo movimento politico Forza Italia, uno schieramento di centrodestra che, nelle intenzioni, deve restituire una rappresentanza agli elettori moderati e contrapporsi ai partiti di centrosinistra. E proprio il 26 gennaio 1994, giorno della sua discesa, rilascia una dichiarazione preregistrata a tutte le televisioni e in cui afferma la sua scelta con queste parole: «L'Italia è il Paese che amo. Qui ho le mie radici, le mie speranze, i miei orizzonti. Qui ho imparato da mio padre e dalla vita, il mio mestiere d'imprenditore. Qui ho anche appreso, la passione per la libertà. Ho scelto di scendere in campo, e di occuparmi della cosa pubblica, perché non voglio vivere in un Paese illiberale governato da forze immature, e da uomini legati a doppio filo, a un passato politicamente ed economicamente fallimentare.» Allo stesso tempo Berlusconi dà le dimissioni da alcuni incarichi di imprenditore presso il gruppo da lui fondato (affidando la gestione ai figli o a persone di fiducia e mantenendone la proprietà). L'eleggibilità di Berlusconi è anche oggetto di dibattito, in relazione all'articolo 10 del D.P.R. n. 361 del 1957, secondo cui «non sono eleggibili [...] coloro che [...] risultino vincolati con lo Stato [...] per concessioni o autorizzazioni amministrative di notevole entità economica». Nel luglio 1994 la Giunta per le elezioni (con la presenza di due terzi dei deputati) respinge a maggioranza tre ricorsi che lamentavano l'illegittimità dell'elezione di Berlusconi. La stessa questione verrà ridiscussa nell'ottobre 1996 dalla Giunta per le elezioni che, a maggioranza, delibererà di archiviare i reclami per "manifesta infondatezza". Sovvertendo le previsioni espresse dai principali quotidiani nazionali, le elezioni politiche del 27 marzo 1994 si concludono con la vittoria elettorale di Forza Italia in corsa con la Lega Nord di Umberto Bossi nelle regioni settentrionali e l'MSI di Gianfranco Fini nel resto d'Italia. Negli ultimi mesi di campagna elettorale, alcuni fra i volti più famosi delle reti Fininvest dichiarano in televisione il loro appoggio politico, all'interno dei programmi di intrattenimento da loro condotti, scatenando reazioni che in seguito determineranno l'emanazione delle regole per la cosiddetta par condicio elettorale. La prima esperienza di governo di Silvio Berlusconi, avviata il 10 maggio 1994, ha però vita dura e breve, e si conclude nel dicembre dello stesso anno, quando la Lega Nord ritira l'appoggio al Governo e avvia una violenta campagna ai danni dell'ex alleato Berlusconi, esplicitamente accusato di appartenere alla mafia. Il 22 dicembre Berlusconi rassegna le proprie dimissioni al presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Al suo posto viene formato un governo tecnico guidato dal Ministro del tesoro uscente, Lamberto Dini. Berlusconi, che aveva chiesto invano le elezioni anticipate, non sosterrà il nuovo governo. Negli anni successivi, Berlusconi attribuirà la responsabilità della caduta del suo governo all'inaffidabilità di Bossi. In seguito, anche per il riavvicinamento con la Lega Nord in occasione delle elezioni politiche del 2001, accuserà la magistratura e Scalfaro, il quale, secondo lo stesso Berlusconi, avrebbe indotto Bossi a ritirare l'appoggio all'esecutivo, compiendo «un golpe». Le successive elezioni sono vinte da L'Ulivo (con l'appoggio esterno di Rifondazione Comunista), la coalizione di centrosinistra capeggiata da Romano Prodi. Berlusconi guida l'opposizione di centrodestra fino al 2001. Durante la legislatura collabora con Massimo D'Alema alla Bicamerale, che si occupa principalmente di riforme costituzionali e giudiziarie. Le elezioni del 2001 portano alla vittoria la Casa delle Libertà, una coalizione capeggiata da Silvio Berlusconi e comprendente, oltre a Forza Italia, i principali partiti di centrodestra (inclusa la Lega Nord), mentre il centrosinistra si presenta diviso. Durante la campagna elettorale Berlusconi sigla, presso la trasmissione Porta a Porta di Bruno Vespa, il cosiddetto Contratto con gli italiani: un accordo fra lui ed i suoi potenziali elettori in cui si impegna, in caso di vittoria, a realizzare ingenti sgravi fiscali, il dimezzamento della disoccupazione, l'avviamento di centinaia di opere pubbliche, l'aumento delle pensioni minime e la riduzione del numero di reati; impegnandosi altresì a non ricandidarsi alle successive elezioni nel caso in cui almeno quattro dei cinque punti principali non fossero stati mantenuti. L'11 giugno Berlusconi viene per la seconda volta nominato presidente del consiglio, dando inizio al Governo Berlusconi II. Durante il secondo semestre del 2003 ricopre la carica di presidente del Consiglio dell'Unione europea in quanto capo del Governo italiano. Dopo la pesante sconfitta della Casa delle Libertà alle elezioni regionali del 2005, si apre una rapida crisi di governo: Berlusconi si dimette il 20 aprile e dopo due giorni viene varato il Governo Berlusconi III che ricalca in gran parte come composizione e azione politica il precedente Governo Berlusconi II. Il periodo pre-elettorale è infiammato dalla pubblicazione di sondaggi, commissionati prevalentemente dai quotidiani nazionali, che prevedono una vittoria de L'Unione, la coalizione di centrosinistra formatasi a sostegno della ricandidatura di Romano Prodi alla carica di capo del governo, con circa il 5% di vantaggio rispetto alla Casa delle Libertà. Solo tre sondaggi elaborati su commissione di Berlusconi da una società statunitense attribuiscono un lieve vantaggio per la Casa delle Libertà. A marzo 2006, durante la visita ufficiale negli Stati Uniti, è invitato a pronunciare un discorso ai due rami del Congresso degli Stati Uniti riuniti in seduta comune, come era precedentemente accaduto a De Gasperi, Craxi e Andreotti. Durante l'orazione, il presidente del Consiglio ringrazia gli Stati Uniti per la liberazione dell'Italia, durante la seconda guerra mondiale. Nel dicembre 2010 un documento dell'ambasciata americana in Italia, risalente a pochi giorni prima dell'incontro con Bush dell'ottobre 2005 e diffuso da WikiLeaks, ha rivelato che quell'intervento al Congresso era stato esplicitamente chiesto fin dall'autunno da Berlusconi, per fini di campagna elettorale, e che egli avrebbe puntato nella campagna elettorale su una politica estera pro-USA contrapposta a quella europeista di Prodi, soprattutto sulla questione irachena. Silvio Berlusconi e Romano Prodi si incontrano in due dibattiti televisivi molto seguiti, andati in onda su Rai 1. Berlusconi conclude il secondo dibattito il 3 aprile annunciando, a sorpresa, di voler eliminare l'Imposta Comunale sugli Immobili (ICI) sulla prima casa. Nei giorni successivi, durante la trasmissione Radio anch'io su Rai Radio 1, promette anche l'eliminazione della tassa sui rifiuti. 1º marzo 2006, Silvio Berlusconi parla innanzi al Congresso degli Stati Uniti riunito in sessione plenaria. L'esito delle elezioni del 2006 è caratterizzato da una forte incertezza perdurata fino al termine dello scrutinio delle schede e si risolve con una leggera prevalenza della coalizione di centrosinistra capeggiata da Romano Prodi, che vince le elezioni. Dopo l'esito del voto, Berlusconi inizialmente contesta il risultato delle votazioni denunciando brogli e chiedendo il riconteggio dei voti. Successivamente giudica l'esito un «sostanziale pareggio», e suggerisce di formare un governo istituzionale di coalizione ispirato alla "Große Koalition" tedesca, proposta però rifiutata dai partiti del centrosinistra e dalla Lega Nord. Prodi viene quindi nominato presidente del consiglio sostenuto dalla coalizione di centrosinistra. Le Giunte per le elezioni, attivatesi per il riconteggio delle schede bianche e nulle, nel settembre 2007 confermeranno il risultato elettorale. Tuttavia Berlusconi non riconoscerà la vittoria dell'avversario. Nel novembre del 2006, annunciando dal palco di un convegno a Montecatini Terme l'intenzione di "convincere tutte le forze politiche della Casa delle libertà a fondersi in un unico grande partito della libertà", viene colto da improvviso malore e conseguente breve perdita dei sensi. Dal 16 al 18 novembre 2007 Berlusconi ha organizzato una petizione popolare per richiedere elezioni anticipate, con l'obiettivo di raccogliere almeno 5 milioni di firme. Il risultato comunicato da Sandro Bondi è stato di 7.027.734, sebbene ci sia chi ha avanzato dubbi sulla cifra e sulla verifica della regolarità delle adesioni via Internet e via SMS. Con questa cifra alla mano, il 18 novembre durante un comizio in piazza San Babila a Milano Berlusconi ha annunciato lo scioglimento di Forza Italia e la nascita del Popolo della Libertà, un nuovo soggetto politico contro i «parrucconi della politica», che fonderà insieme a Gianfranco Fini. Il giorno successivo, in una conferenza stampa tenuta a Roma in Piazza di Pietra ha sostenuto che «il bipolarismo […] nella presente situazione italiana, con la frammentazione dei partiti che esiste, non è qualcosa che può funzionare per il governo del Paese» e ha dichiarato la sua disponibilità a trattare per la realizzazione di un sistema elettorale proporzionale puro con sbarramento alto per evitare il frazionamento dei partiti. Berlusconi ha affermato che il nuovo partito «intende rovesciare la piramide del potere» e che la scelta del nome, dei valori, dei programmi, dei rappresentanti e del leader del nuovo soggetto politico spetta ai cittadini e non alle segreterie. Una successiva petizione popolare tenutasi il 1º e 2 dicembre 2007 ha stabilito, con il 63,14% delle preferenze, che il nome di tale formazione politica fosse Il Popolo della Libertà. Tale nome era già stato utilizzato per definire i partecipanti alla manifestazione contro il Governo Prodi tenutasi il 2 dicembre 2006 che aveva visto, secondo gli organizzatori, scendere in piazza 2 200 000 persone. Durante la XV Legislatura Berlusconi come deputato è stato l'onorevole più assenteista: 4623 assenze su 4693 votazioni parlamentari. Il 14 aprile 2008 la coalizione formata da Popolo della Libertà, Lega Nord e Movimento per l'Autonomia a sostegno della candidatura di Silvio Berlusconi a presidente del consiglio ha vinto le elezioni politiche con circa il 47% dei voti e ha ottenuto un'ampia maggioranza in entrambi i rami del Parlamento. Il successivo 8 maggio, con il giuramento nelle mani del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, Berlusconi ha inaugurato il suo quarto governo. Il 30 agosto 2008 il leader libico Muammar Gheddafi e Berlusconi hanno firmato un trattato di Amicizia e Cooperazione nella città di Bengasi. Tale trattato offre una cornice di partenariato tra i due paesi e comporta il pagamento da parte dell'Italia di 5 miliardi di dollari (tramite esborso di 250 milioni di dollari all'anno per 20 anni) alla Libia come compensazione per l'occupazione militare. In cambio, la Libia prenderà misure per combattere l'immigrazione clandestina dalle sue coste, e favorirà gli investimenti nelle aziende italiane. Il trattato è stato ratificato dall'Italia il 6 febbraio 2009 e dalla Libia il 2 marzo, durante una visita di Berlusconi a Tripoli. Il 29 marzo 2009 Silvio Berlusconi viene eletto all'unanimità e per alzata di mano presidente del Popolo della Libertà. Il 3 febbraio 2010 il premier Silvio Berlusconi, durante la sua visita in Israele, ha tenuto un discorso alla Knesset, il parlamento israeliano: era la prima volta che un Presidente del Consiglio italiano parlava davanti al Parlamento israeliano. Nel suo intervento, Berlusconi ha definito «un'infamia» le leggi razziali del 1938 e ha assicurato che l'Italia guarda al popolo ebraico come a «un fratello maggiore». La sera del 12 novembre 2011, dopo l'approvazione della Legge di stabilità 2012 in entrambe le camere del Parlamento, Silvio Berlusconi, come aveva precedentemente accordato con il capo dello Stato Giorgio Napolitano, sale al Quirinale per rassegnare le dimissioni da presidente del consiglio dei ministri e quelle del suo Governo, a causa della perdita della maggioranza assoluta alla Camera dei deputati e della grave crisi finanziaria che attanaglia il paese assieme a quelli di altri stati europei (vedi Grande recessione). Dal 16 novembre gli succederà il Governo Monti. Dopo aver presentato formalmente il passaggio di consegne con quest'ultimo atto politico, Berlusconi partecipa come deputato ad alcune iniziative parlamentari diradando però le sue uscite pubbliche. Nel pomeriggio del 24 ottobre 2012 in un comunicato stampa ufficiale, Berlusconi annuncia di non volersi ricandidare alla Presidenza del Consiglio, dando il benestare alle primarie per la scelta del candidato premier del centro-destra per il 16 dicembre. Tuttavia, nelle settimane successive si rincorrono con sempre maggiore insistenza voci che danno Berlusconi pronto a candidarsi nuovamente, suscitando reazioni contrapposte all'interno del mondo politico. Il 6 dicembre 2012 il segretario del PdL Angelino Alfano annuncia la candidatura di Berlusconi alle elezioni politiche del 2013, aggiungendo contestualmente che non si terranno più le primarie del partito. Due giorni dopo, è lo stesso Berlusconi a confermare la sua decisione di scendere nuovamente in campo. Alle successive elezioni la coalizione di centro-destra viene battuta da quella guidata da Pier Luigi Bersani con uno scarto di soli 300 000 voti, mentre Berlusconi viene eletto per la prima volta come senatore. Dopo la sconfitta incassata, seppur minima come distacco nelle politiche, e il pesante tonfo uscito dalle urne nelle ultime amministrative, il 29 giugno 2013, Berlusconi annuncia l'intenzione di rifondare Forza Italia come movimento politico autonomo. Il 16 novembre il Consiglio Nazionale del partito ha poi sancito la rinascita di Forza Italia. Il 1º agosto 2013 Berlusconi viene condannato in via definitiva al terzo grado di giudizio dalla Cassazione nel cosiddetto processo Mediaset, iniziato circa 8 anni prima, con l'accusa di frode fiscale, disponendo tuttavia il rinvio alla Corte d'appello di Milano per la rideterminazione della pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici[118]. Il 4 ottobre la Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato ha votato a favore della decadenza di Berlusconi da senatore per effetto della legge n.235 del 31/12/2012, cosiddetta legge Severino. Il 19 ottobre la Corte d'Appello condanna Berlusconi a due anni di interdizione dai pubblici uffici, accogliendo le richieste dell'accusa e respingendo le tesi della difesa, che dispone il ricorso in Cassazione. Si legge nelle motivazioni della sentenza che l'evasione è aggravata dalla posizione pubblica che il leader del PdL occupa. Il 27 novembre 2013 il Senato convalida la decadenza da senatore di Berlusconi, respingendo nove odg presentati da Forza Italia in contrapposizione alla delibera della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato, che si era espressa per la mancata convalida dell'elezione dell'ex premier a senatore nella circoscrizione Molise, per effetto del decreto legislativo n. 235 del 31 dicembre 2012 ("Legge Severino"). Al suo posto andrà il primo dei non eletti, Ulisse Di Giacomo, che ha aderito al Nuovo Centrodestra. Dopo la decadenza da senatore, Berlusconi ha affermato di volersi candidare alle Europee, ma il 18 marzo 2014 la Cassazione ha confermato l'interdizione di 2 anni dai pubblici uffici e, di conseguenza, la sua incandidabilità. Il 19 marzo 2014 si autosospende dalla carica di Cavaliere del Lavoro. Il 15 aprile 2014 il Tribunale di sorveglianza di Milano, in esecuzione della condanna definitiva nel processo Mediaset, dispone per Berlusconi l'affidamento in prova al servizio sociale. L'esecuzione della pena ha termine il successivo 8 marzo 2015 e Berlusconi riacquista la piena libertà, pur permanendo la sua incandidabilità sino al 2019 per effetto della legge Severino.
Aspetti controversi dell'attività imprenditoriale. Aspetti controversi dell'attività edilizia: i finanziamenti di origine ignota. Per avviare la sua attività imprenditoriale nel 1961 nel campo dell'edilizia Berlusconi ottenne una fideiussione dalla Banca Rasini, indicata da Michele Sindona e in diversi documenti della magistratura come la principale banca usata dalla mafia nel nord Italia per il riciclaggio di denaro sporco e fra i cui clienti si potevano elencare Totò Riina, Bernardo Provenzano e Pippo Calò. Nella società fondata da lui e Pietro Canali impegnò 30 milioni di lire, provenienti, secondo quanto da lui affermato, dalla liquidazione anticipata di suo padre Luigi, procuratore della Banca Rasini. Il resto venne da una fideiussione fornita dalla stessa banca. Riguardo invece all'origine di alcuni finanziamenti, provenienti da conti svizzeri alla Fininvest negli anni 1975-1978, dalla fondazione all'articolazione in 22 holding (i quali ammontavano a 93,9 miliardi di lire dell'epoca). Berlusconi, interrogato in sede giudiziaria dal pubblico ministero Antonio Ingroia, si avvalse della facoltà di non rispondere; così, anche a causa delle leggi svizzere sul segreto bancario, non è stato possibile accedere alle identità dei possessori dei conti cifrati inerenti al flusso di capitali transitato all'epoca e in piena disponibilità della Fininvest. Nell'agosto 1998 il quotidiano La Padania pubblicò un'inchiesta nella quale si contestava a Berlusconi l'origine di diversi aumenti di capitale di alcune società da lui possedute, avvenuti tra il 1968 ed il 1977. Al tempo in cui Luigi Berlusconi era procuratore generale della Banca Rasini, questa entrò in rapporti d'affari con la Cisalpina Overseas Nassau Bank, nel cui consiglio d'amministrazione figuravano Roberto Calvi, Licio Gelli, Michele Sindona e il vescovo Paul Marcinkus, presidente dello IOR), di fatto la banca dello Stato della Città del Vaticano. Tutti questi personaggi hanno poi avuto un grosso rilievo nella cronaca giudiziaria. Secondo Sindona e alcuni collaboratori di giustizia, la Banca Rasini era coinvolta nel riciclaggio di denaro di provenienza mafiosa (il che spiegherebbe la grossa presenza di finanziatori svizzeri nei primi anni di attività di Berlusconi). Nel 1999 Francesco Giuffrida, vicedirettore della Banca d'Italia a Palermo, durante il processo Dell'Utri, sostenne (in una consulenza da lui eseguita per conto della Procura di Palermo riguardante la ricostruzione degli apporti finanziari intervenuti alle origini del gruppo Fininvest tra gli anni 1975-1984) che non era possibile identificare la provenienza di alcuni fondi Fininvest del valore di 113 miliardi di lire dell'epoca, in contanti e assegni circolari (corrispondenti a circa trecento milioni di euro odierni). La questione riguardava i sospetti di presunti contributi di capitali mafiosi all'origine della Fininvest. Querelato per diffamazione da Mediaset, nel 2007 Giuffrida giunse a un accordo transattivo con i legali di questa, per il quale il consulente della Procura ha riconosciuto i limiti delle conclusioni rassegnate nel proprio elaborato e delle dichiarazioni fornite durante il processo (definite incomplete e parziali a causa della scadenza dei termini di indagine, che non gli avevano permesso di approfondire a sufficienza l'origine di otto transazioni dubbie) e la dichiarazione conseguente che le «operazioni oggetto del suo esame consulenziale erano tutte ricostruibili e tali da escludere l'apporto di capitali di provenienza esterna al gruppo Fininvest». I legali di Giuffrida nel processo per diffamazione hanno comunque rilasciato una dichiarazione, riportata dall'ANSA,[senza fonte] in cui sostengono di essere stati avvertiti solo pochi giorni prima (il 18 luglio) del fatto che i legali Mediaset avevano proposto una transazione al loro assistito, di non condividere né quel primo documento ("una bozza di accordo che gli stessi non hanno condiviso, ritenendo che quanto affermato nel documento non corrispondesse alle reali acquisizioni processuali"), né la versione definitiva leggermente corretta ("non sottoscriveranno non condividendo la ricostruzione dei fatti e le affermazioni in esso contenute"). La perizia di Giuffrida era stata ritenuta dai giudici già al tempo basata su "una parziale documentazione", ma era stata ritenuta valida anche in virtù del fatto che non aveva "trovato smentita dal consulente della difesa Dell'Utri", in quanto lo stesso professor Paolo Iovenitti (perito della difesa), davanti alle conclusioni di Giuffrida, aveva ammesso che alcune operazioni erano "potenzialmente non trasparenti" e non aveva "fatto chiarezza sulla vicenda in esame, pur avendo il consulente della difesa la disponibilità di tutta la documentazione esistente presso gli archivi della Fininvest". Tale ritrattazione, contenuta nell'accordo transattivo raggiunto dai legali Mediaset ed il professor Giuffrida a composizione della controversia instaurata dalla Mediaset stessa per diffamazione, non consente comunque di fare chiarezza sulla provenienza dei capitali del gruppo societario facente capo a Silvio Berlusconi. Berlusconi, essendo iscritto alla loggia massonica Propaganda 2 di Licio Gelli aveva accesso a finanziamenti altrimenti inottenibili: la Commissione parlamentare d'inchiesta sulla loggia massonica P2, infatti, affermò, nella relazione di maggioranza firmata da Tina Anselmi, che alcuni operatori appartenenti alla Loggia (tra cui Genghini, Fabbri e Berlusconi), trovarono appoggi e finanziamenti presso le banche ai cui vertici risultavano essere personaggi inclusi nelle liste P2 "al di là di ogni merito creditizio". Il 1º febbraio 2010 Massimo Ciancimino ha raccontato, basandosi su informazioni ricevute direttamente dal padre e su appunti dello stesso ritenuti autentici dalla Polizia scientifica, che il generale dei carabinieri Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu, tra la fine degli anni settanta e gli inizi degli anni ottanta, tramite Marcello Dell'Utri e i costruttori Antonino Buscemi e Franco Bonura aveva investito soldi in Milano 2. Il 18 settembre Il Fatto Quotidiano ha pubblicato un appunto di Vito Ciancimino con su scritto: "In piena coscienza oggi posso affermare che sia io, che Marcello Dell'Utri ed anche indirettamente Silvio Berlusconi siamo figli dello stesso sistema ma abbiamo subito trattamenti diversi soltanto ed unicamente per motivi geografici". Giovanni Scilabra, ex-direttore generale della Banca Popolare di Palermo, in un'intervista ha affermato che Vito Ciancimino e Marcello Dell'Utri nel 1986 gli chiesero un finanziamento di circa 20 miliardi di lire per Berlusconi. La difesa. Le ipotesi di riciclaggio non hanno mai trovato conferma, anche a causa del segreto bancario vigente in Svizzera. Stando alle dichiarazioni dello stesso Silvio Berlusconi, fu la liquidazione del padre Luigi Berlusconi, divenuto poi collaboratore del figlio all'Edilnord e in molti altri momenti cruciali della sua vita imprenditoriale, che servì a finanziare gli inizi della sua attività imprenditoriale e a costituire la metà del capitale dei Cantieri Riuniti Milanesi. Silvio Berlusconi si definisce un "uomo che si è fatto da solo" perché il suo successo - stando a queste dichiarazioni - si basa sulle sue "capacità imprenditoriali", sul suo "fiuto per gli affari", sul suo "lavoro indefesso" e su una serie di "fortuite circostanze", che gli avevano garantito la fiducia dei vari finanziatori.
Aspetti controversi delle attività nel campo televisivo. La creazione di un gruppo di canali televisivi appariva di fatto in contrasto con la legge in vigore e con le sentenze della Corte costituzionale che, sin dal 1960, aveva mostrato il suo orientamento in materia. Un tema ripreso anche dalla sentenza 148/1981, dove veniva riaffermata la mancanza di costituzionalità nell'ipotesi di permettere ad un soggetto privato il controllo di una televisione nazionale, considerando questa possibilità, visti gli spazi limitati a disposizione, come una lesione al diritto di libertà di manifestazione del proprio pensiero, garantito dall'articolo 21 della Costituzione. Tre pretori da Roma, Milano e Pescara intervennero il 16 ottobre 1984, disponendo - in base al codice postale dell'epoca - il sequestro nelle regioni di loro competenza del sistema che permetteva la trasmissione simultanea nel Paese dei tre canali televisivi. In conseguenza di ciò e per protesta, le emittenti Fininvest interessate dal provvedimento apposero sul video un messaggio, rinunciando a trasmettere la programmazione canonica. Dopo quattro giorni, il 20 ottobre 1984, il governo di Bettino Craxi intervenne direttamente nella questione aperta dalla magistratura, emanando un decreto legge in grado di rimettere in attività il gruppo. Ma il 28 novembre il Parlamento, invece di convertirlo in legge, lo rifiutò, giudicandolo incostituzionale e permettendo alla magistratura di riprendere l'azione penale contro Fininvest. Craxi varò quindi il 6 dicembre 1984 un nuovo decreto, ponendo al Parlamento la questione di fiducia, che ottenne. La Corte Costituzionale esaminò la legge solo tre anni dopo, mantenendola in vigore, ma sottolineandone la dichiarata transitorietà. L'approvazione del provvedimento fu da alcuni giustificata nella stretta e mai celata amicizia tra Bettino Craxi e Silvio Berlusconi. Secondo altri, invece, il disegno di modernizzazione del Paese del segretario socialista passava per lo scardinamento del monopolio culturale che - attraverso la RAI - era esercitato dalla Democrazia Cristiana sulla programmazione radiotelevisiva nazionale; l'oligopolio a cui si giunse, però, probabilmente non corrispondeva alla ratio con cui la Corte costituzionale nel 1976 (invocando l'articolo 21 della Costituzione) aveva ammesso a latere della concessionaria pubblica un sistema plurale di molteplici reti, distribuite sul territorio a livello esclusivamente locale. Il rapporto con Craxi fu documentato nell'archivio dell'ex-presidente del Consiglio, in cui fu trovata anche una lettera a firma di Berlusconi: «Caro Bettino grazie di cuore per quello che hai fatto. So che non è stato facile e che hai dovuto mettere sul tavolo la tua credibilità e la tua autorità. Spero di avere il modo di contraccambiarti. Ho creduto giusto non inserire un riferimento esplicito al tuo nome nei titoli-tv prima della ripresa per non esporti oltre misura. Troveremo insieme al più presto il modo di fare qualcosa di meglio. Ancora grazie, dal profondo del cuore. Con amicizia, tuo Silvio.» Nel 1990 con la legge Mammì si tornò a legiferare in materia e fu stabilito che non si poteva essere proprietari di più di tre canali, non introducendo però limiti che compromettessero l'estensione assunta dalle reti di Berlusconi. L'approvazione della legge rinnovò forti polemiche e cinque ministri del VI Governo Andreotti si dimisero per protesta. Berlusconi, essendo state decise anche norme volte a impedire posizioni dominanti contemporaneamente nell'editoria di quotidiani, venne costretto a cedere le proprie quote della società editrice de Il Giornale, che vendette al fratello Paolo. Nel 1994, una nuova sentenza della Corte (la numero 420) dichiarò incostituzionale parte della legge, richiamando la necessità di porre limiti più stretti nella concentrazione di possedimenti in campo mediatico. Berlusconi continua ad operare nel settore televisivo (tramite l'azienda Mediaset) con concessioni a valenza transitoria. La proprietà di Mediaset da parte di Berlusconi ha suscitato notevoli polemiche a causa del conflitto di interessi. Tale conflitto traspare per esempio nella gestione della concessione di Retequattro. La situazione della rete televisiva è incerta dalla fine degli anni ottanta, quando in seguito all'acquisto della Mondadori da parte di Fininvest iniziò il dibattito sulla concentrazione dei mezzi di informazione. La giurisprudenza si è pronunciata in più occasioni imponendo al canale di migrare dal sistema analogico a quello satellitare. Le sue frequenze analogiche sarebbero dovute passare a Europa 7, emittente televisiva di proprietà del legittimo vincitore della gara d'appalto Francesco Di Stefano. Tale situazione ha potuto perdurare ulteriormente, dopo che, grazie alla legge Gasparri, Retequattro ha potuto continuare a trasmettere in chiaro fino al completo passaggio al digitale terrestre di tutte le emittenti televisive nazionali e locali. Tale sistema, permettendo la trasmissione di un maggior numero di canali, ha consentito il superamento della limitatezza di frequenze, ma ha lasciato irrisolta la questione legale. Anche in merito alla promozione aggressiva del digitale terrestre da parte del secondo governo Berlusconi sono state sollevate accuse analoghe, ed effettivamente Berlusconi non ha mai partecipato a causa del conflitto di interessi alle votazioni su tale materia. Tuttavia, un'inchiesta dell'Antitrust terminata nel 2006 non ha rilevato alcuna violazione della legge sul conflitto di interessi.
Aspetti controversi dell'attività politica. Appartenenza alla loggia massonica P2. L'iscrizione di Berlusconi alla loggia massonica P2 avviene il 26 gennaio 1978 nella sede di via dei Condotti a Roma, all'ultimo piano del palazzo che ospita il gioielliere Bulgari insieme a Roberto Gervaso; la tessera è la n. 1816, codice E. 19.78, gruppo 17, fascicolo 0625, come risulta dai documenti e dalle ricevute sequestrate ai capi della loggia. Berlusconi ha negato la sua partecipazione alla P2, ma ha ammesso in tribunale di essere stato iscritto. Nell'autunno del 1988 (nel corso di un processo contro due giornalisti accusati di averlo diffamato celebrato dal tribunale di Verona), Berlusconi dichiarò: «Non ricordo la data esatta della mia iscrizione alla P2, ricordo comunque che è di poco anteriore allo scandalo. [...] Non ho mai pagato una quota di iscrizione, né mai mi è stata chiesta». Per tali dichiarazioni il pretore di Verona Gabriele Nigro ha avviato nei confronti di Berlusconi un procedimento per falsa testimonianza. Al termine il magistrato veronese ha prosciolto in istruttoria l'imprenditore perché il fatto non costituisce reato. Il sostituto procuratore generale Stefano Dragone ha però successivamente impugnato il proscioglimento e la Corte d'appello di Venezia ha avviato un nuovo procedimento in esito al quale ha stabilito che «Berlusconi, deponendo davanti al Tribunale di Verona nella sua qualità di teste-parte offesa, ha dichiarato il falso» ma che «il reato attribuito all'imputato va dichiarato estinto per intervenuta amnistia». Successivamente dichiarò: "Non sono mai stato piduista, mi mandarono la tessera e io la rispedii subito al mittente: comunque i tribunali hanno stabilito che gli iscritti alla P2 non commisero alcun reato, e quindi essere stato piduista non è titolo di demerito". In altra occasione, ha affermato che la P2 "per la verità allora appariva come una normalissima associazione, come se fosse un Rotary, un Lions, e non c'erano motivi, per quello che se ne sapeva, per pensare che la cosa fosse diversa. Io resistetti molto a dare la mia adesione, e poi lo feci perché Gervaso insistette particolarmente dicendomi di rendere una cortesia personale a lui". Secondo le risultanze della Commissione parlamentare d'inchiesta Anselmi la loggia massonica era "eversiva". Essa fu sciolta con un'apposita legge, la n. 17 del 25 gennaio 1982. La P2 era "un'organizzazione che mirava a prendere il possesso delle leve del potere in Italia attraverso il «piano di rinascita democratica», un elaborato a mezza via tra un manifesto e uno «studio di fattibilità». Conteneva una sorta di ruolino di marcia per la penetrazione di esponenti della loggia nei settori chiave dello Stato, indicazioni per l'avvio di opere di selezionato proselitismo e anche un preventivo dei costi per l'acquisizione delle funzioni vitali del potere".[163] Il Piano programmava la dissoluzione dei partiti e la costruzione di due poli organizzati in club territoriali e settoriali; tendeva al monopolio dell'informazione, al controllo della banche, alla Repubblica presidenziale e al controllo della magistratura da parte del potere politico. Secondo il fondatore della P2 Licio Gelli, Berlusconi "ha preso il nostro Piano di rinascita e lo ha copiato quasi tutto". Anche il vescovo di Ivrea Luigi Bettazzi rimprovera al primo governo Berlusconi, al momento della sua caduta (1995), di essere "l'attuazione fatta e programmata da Berlusconi del Piano di rinascita democratica proposto dalla Loggia P2 già nel 1976". A partire dal 1985, gli archivi di Gelli testimoniano l'intervento della P2 nell'acquisizione da parte di Berlusconi dell'allora più diffuso settimanale popolare italiano, TV Sorrisi e Canzoni. La transazione, se vista come una delle tante compiute all'interno della stessa intricata ragnatela di imprese legate al sistema creditizio vaticano, risulta quasi solo un passaggio di consegna per la realizzazione del programma. È il giugno del 1983 quando la consociata all'estero Ambrosiano Group Banco Comercial di Managua cede a Berlusconi il 52% del pacchetto azionario della rivista. A interessarsi dell'affare sono i finanzieri Roberto Calvi e Umberto Ortolani. A seguito della presentazione delle conclusioni della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla P2, la loggia fu sciolta per legge in ragione dei «fini eversivi» che si prefiggeva. Gelli fu condannato e arrestato, benché al riguardo ancora nel 1988 Berlusconi dichiarasse al Corriere della Sera di essere «sempre in curiosa attesa di conoscere quali fatti o misfatti siano effettivamente addebitati a Licio Gelli». Al momento del suo ingresso ufficiale in politica (1993), Berlusconi presentò un partito la cui struttura e programma parvero ad alcuni simili a quelle prefigurate nel disegno eversivo della P2: «Club dove siano rappresentati [...] operatori imprenditoriali, esponenti delle professioni liberali, pubblici amministratori» e solo «pochissimi e selezionati» politici di professione. Il 25 gennaio 2006 la maggioranza parlamentare guidata da Berlusconi, nell'ambito della riforma dei reati d'opinione, approvò una modifica dell'articolo 283 del Codice Penale sulla base del quale era stata ritenuta illecita la P2, riducendo la reclusione minima da 12 a 5 anni e ritenendo necessari degli atti violenti. Il testo precedente era questo: «Chiunque commette un fatto diretto a mutare la costituzione dello Stato, o la forma del Governo, con mezzi non consentiti dall'ordinamento costituzionale dello Stato, è punito con la reclusione non inferiore a dodici anni.» (Articolo 283 c.p. prima della novella legislativa del 2006) il testo modificato è invece il seguente: «Chiunque, con atti violenti, commette un fatto diretto e idoneo a mutare la Costituzione dello Stato o la forma di governo, è punito con la reclusione non inferiore a cinque anni.» (Articolo 283 c.p. dopo la novella legislativa del 2006).
Conflitto di interessi. Un conflitto di interessi emerge in presenza di proprietari di imprese che vengono ad assumere cariche pubbliche. La contemporanea proprietà di società di assicurazione, di colossi dell'editoria, di imprese turistiche, e così via, acuisce questo problema nella figura di Silvio Berlusconi. Secondo il settimanale britannico The Economist, Berlusconi, nella sua doppia veste di proprietario di Mediaset e Presidente del Consiglio, nel 2001 deteneva il controllo di circa il 90% del panorama televisivo italiano. Questa percentuale include sia le stazioni da lui direttamente controllate, sia quelle su cui il suo controllo può essere esercitato in maniera indiretta attraverso la nomina (o l'influenza sulla nomina) degli organismi dirigenti della televisione pubblica. Questa tesi viene respinta da Berlusconi che nega di controllare la RAI (malgrado l'apparente contenuto di varie intercettazioni, rivelate dalla stampa nel luglio 2011, prefiguri un'azione di concerto, mirante a favorirlo, messa in atto da una parte dei vertici RAI e Mediaset: la cosiddetta struttura riservata "Delta"). Egli sottolinea il fatto che durante il suo governo siano stati nominati presidente della RAI persone facenti riferimento al centrosinistra, in primo luogo Lucia Annunziata. All'epoca del suo ultimo governo, il presidente della RAI è stato Paolo Garimberti, di centrosinistra, mentre il ruolo di direttore generale venne ricoperto da Lorenza Lei; attualmente tali incarichi, dal luglio 2012 sono stati invece affidati rispettivamente ad Anna Maria Tarantola e al manager Luigi Gubitosi, scelti e nominati dal Governo Monti. Il vasto controllo sui media esercitato da Berlusconi è stato collegato da molti osservatori italiani e stranieri alla possibilità che i media italiani siano soggetti ad una reale limitazione delle libertà di espressione. L'Indagine mondiale sulla libertà di stampa del 2004 (Freedom of the Press 2004 Global Survey), uno studio annuale pubblicato dall'organizzazione americana Freedom House, ha retrocesso l'Italia dal grado di "Libera" (Free) a quello di "Parzialmente libera" (Partly Free) sulla base di due principali ragioni, la concentrazione di potere mediatico nelle mani del Presidente del consiglio Berlusconi e della sua famiglia, e il crescente abuso di potere da parte del governo nel controllo della televisione pubblica RAI. L'indagine dell'anno successivo ha confermato questa situazione con l'aggravante di ulteriori perdite di posizione in classifica. Reporter Senza Frontiere dichiara inoltre che nel 2004, «Il conflitto d'interessi che coinvolge il primo ministro Silvio Berlusconi e il suo vasto impero mediatico non è ancora risolto e continua a minacciare la pluralità d'informazione». Nell'aprile 2004, la Federazione internazionale dei giornalisti si unisce alle critiche, obiettando al passaggio della Legge Gasparri. Lo stesso Berlusconi, per rispondere alle critiche su un suo conflitto di interessi, pochi giorni prima delle elezioni politiche del 2001, in un'intervista al Sunday Times annunciò di aver contattato tre esperti stranieri («un americano, un britannico e un tedesco»"), di cui però non fece i nomi, che lo consigliassero nel trovare una soluzione alla questione.[180] Pochi giorni dopo ribadì al TG5 la sua decisione, specificando che: «In cento giorni farò quel che la sinistra non ha fatto in sei anni e mezzo: approverò un disegno di legge che regolamenterà i rapporti tra il Presidente del Consiglio e il gruppo che ha fondato da imprenditore», a cui fecero eco le parole del presidente di AN Gianfranco Fini e di altri politici della CdL, i quali nei giorni seguenti confermarono più volte che, in caso di vittoria alle elezioni, l'intenzione del governo era quella di presentare entro i primi 100 giorni un disegno di legge per risolvere la questione tramite un blind trust. Non vennero mai resi noti i nomi dei tre esperti stranieri che si sarebbero dovuti occupare della questione, ma venne presentato un disegno di legge, poi approvato, che regolamentava il conflitto d'interesse. Il centrosinistra al governo dal 1996 al 2001, non era intervenuto invece sul tema del conflitto d'interessi. Il 28 febbraio 2002 Luciano Violante, allora capogruppo DS alla Camera, dichiarò in Aula che il PDS aveva dato nel 1994 la «garanzia piena» a Berlusconi e Gianni Letta «che non sarebbero state toccate le televisioni» con il cambio di governo. Ricordò inoltre di quando la sua parte politica aveva votato per dichiarare «eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni» e il fatto che durante i governi di centrosinistra il fatturato di Mediaset fosse aumentato di 25 volte. Il 13 luglio 2004 il Parlamento Italiano varava la Legge n. 215, recante "Norme in materia di risoluzione dei conflitti di interessi", cosiddetta legge Frattini. Tale legge riceveva in seguito le dure critiche della Commissione di Venezia del Consiglio d'Europa. A tutt'oggi il conflitto di interessi non è stato ancora risolto da nessun governo.
Accuse di approvazione di leggi ad personam. Con la locuzione legge ad personam si intende un provvedimento legislativo creato di fatto ad hoc a scopi prettamente personali e non erga omnes. Durante i governi presieduti da Berlusconi, succedutisi dal 1994 in poi, il Parlamento ha varato alcuni provvedimenti legislativi aspramente contestati dall'opposizione e da alcuni settori della stampa i quali ritenevano che questi fossero stati emanati appositamente per favorire la posizione dello stesso Berlusconi, per difenderlo dai processi in cui era coinvolto direttamente o indirettamente o per difendere e/o rafforzare il proprio patrimonio, in ragione del proprio conflitto di interesse. Per gli avvocati e amici di Silvio Berlusconi, almeno i provvedimenti in materia giudiziaria, «servono a dare maggiori garanzie ai cittadini. Perché a nessun altro succeda quello che è accaduto a Silvio Berlusconi» (Niccolò Ghedini), o comunque «per proteggersi. Se non fai la legge ad personam vai dentro» ovvero «sono la risposta a una guerra ad personam contro di lui» (Fedele Confalonieri). Quanto ai presunti benefici per le imprese di famiglia, Marina Berlusconi, presidente di Mondadori e figlia di Silvio, ha fatto notare come «se le leggi [...] sono sacrosante, che cosa si vorrebbe, che le nostre aziende non le utilizzassero solo perché fanno capo alla famiglia Berlusconi? Questo sì che è il vero conflitto di interesse, quello all'incontrario». Durante la campagna elettorale del 2006, lo stesso Berlusconi ha dichiarato che «una legge ad personam è quella che risulta essere giusta solo per un singolo individuo e sbagliata per il resto della popolazione», pertanto, a suo dire, «non c'è una sola legge di questo tipo approvata dal mio governo». Secondo due inchieste de la Repubblica al 24 novembre 2009 le leggi «che hanno prodotto benefici effetti per Berlusconi e le sue società» sarebbero state 19. Fra le leggi contestate, alcune avrebbero fornito a Berlusconi immediati benefici su procedimenti penali in corso contro di lui, altre gli avrebbero garantito vantaggi economici. Tra le prime rientrano le seguenti: Legge sulle rogatorie internazionali (Legge n. 367/2001): limita l'utilizzabilità delle prove acquisite. Con questa legge i movimenti illeciti sui conti svizzeri effettuati da Cesare Previti e Renato Squillante, al centro del processo Sme-Ariosto 1, sono stati coperti. Riforma del diritto societario (D. Lgs. n. 61/2002): depenalizzazione del falso in bilancio che ha consentito a Berlusconi di essere assolto nei processi "All Iberian 2" e "Sme-Ariosto 2" perché "il fatto non è più previsto dalla legge come reato". Legge Cirami sul legittimo sospetto (Legge n. 248/2002]): introduzione del "legittimo sospetto" sull'imparzialità del giudice che permette la ricusazione e il trasferimento del processo ad un altro giudice. Lodo Schifani (Legge n. 140/2003): introduzione del divieto di sottomissione a processo delle cinque più alte cariche dello Stato tra le quali il presidente del Consiglio in carica. La legge è dichiarata incostituzionale il 13 gennaio 2004. Fu riapprovato con qualche modifica nel 2008). Segreto di Stato sull'area denominata “Villa La Certosa” di Punta della Volpe (Olbia) (decreto del Ministro dell'Interno 6 maggio 2004 prot. n. 1004/100 – 1158): l'apposizione del segreto di Stato sulla villa di Berlusconi impedì le ispezioni disposte dal Tribunale di Tempio Pausania nell'ambito di un'indagine penale per violazione delle normative in materia edilizia ed ambientale. Legge Pecorella (Legge n. 46/2006), proposta dal parlamentare Gaetano Pecorella, avvocato di Silvio Berlusconi, che sanciva l'inappellabilità da parte del pubblico ministero per le sole sentenze di proscioglimento (DL n. 3600), bocciata quasi integralmente nel 2007 dalla Corte Costituzionale. Legge ex-Cirielli (Legge n. 251/2005): riduzione della prescrizione, che ha consentito l'estinzione dei processi "Lodo Mondadori", "Lentini", "Diritti tv Mediaset" per decorrere dei tempi processuali. Lodo Alfano (Legge n. 124/2008), riproposizione del Lodo Schifani, emanato poco prima della conclusione del processo per corruzione dell'avvocato David Mills in cui Berlusconi era coimputato. Dichiarato incostituzionale il 7 ottobre 2009. Legittimo impedimento: per 18 mesi il Presidente del Consiglio è legittimamente impedito a comparire in aula di tribunale se impegnato in attività di governo. Tra le leggi che avrebbero dato vantaggi economici vengono citate le seguenti: Tremonti bis (Legge n. 383/2001, art. 13): abolizione dell'imposta su successioni e donazioni per grandi patrimoni, che in precedenza l'Ulivo aveva abolita per patrimoni fino a 350 milioni di lire. Finanziaria 2003 (Legge n. 289/2002, art. 9): introduzione di un condono fiscale, di cui hanno beneficiato anche le imprese del gruppo Mediaset. Decreto salva-calcio (Legge n. 27/2003, art. 3): concessione alle società sportive della possibilità di diluire le svalutazioni dei giocatori sui bilanci in un arco di dieci anni, con importanti benefici economici in termini fiscali. La norma ha trovato applicazione anche all'A.C. Milan. Lodo Retequattro (Decreto-legge n. 352/2003): ha permesso a Rete 4 di continuare a trasmettere in analogico. Finanziaria 2004 (Legge n. 350/2003, art. 4, comma 153) e Finanziaria 2005 (Legge n. 311/2004, art. 1, comma 246): introduzione di un incentivo statale all'acquisto di un decoder. A beneficiare prevalentemente dell'incentivo è stata la società Solari.com, il principale distributore in Italia dei decoder digitali Amstrad del tipo Mhp, controllata al 51% da Paolo e Alessia Berlusconi. Legge Gasparri (Legge n. 112/2004): introduzione del sistema integrato delle comunicazioni (SIC) e riordino del sistema radiotelevisivo e delle comunicazioni. Nel 2004 il presidente di Mediaset, Fedele Confalonieri, ha stimato i vantaggi derivanti dalla legge Gasparri per il gruppo di Silvio Berlusconi fra 1 e 2 miliardi di Euro. Estensione del condono edilizio alle zone protette (Legge n. 308/2004, art. 1 commi 36-39): ammissione delle zone protette tra le aree condonabili, comprese quelle della villa "La Certosa" di proprietà di Berlusconi. Testo unico della previdenza complementare (Decreto Legislativo n. 252/2005): introduzione di una serie di norme che favoriscono fiscalmente la previdenza integrativa individuale, a beneficio anche della società assicurative di proprietà della famiglia Berlusconi. Decreto anticrisi (Decreto-legge n. 185/2008, art. 31): abolizione dell'IVA agevolata del 10% sulla pay tv via satellite (dominata da Sky Italia) che ritorna così all'aliquota standard del 20%. Tale operazione di allineamento delle imposte era stata richiesta dalla Commissione europea in seguito ad un reclamo presentato alla commissione stessa. L'iniziativa legislativa ha suscitato nell'opposizione (principalmente per voce di Antonio Di Pietro) diverse polemiche poiché viene visto in questo provvedimento un modo per penalizzare Sky Italia, principale concorrente privato di Mediaset. Acquisto delle proprie azioni (Legge n. 33/2009, art. 7, commi 3-quater e 3-sexies): viene aumentata la soglia di capitale (dal 3% al 5%) che gli azionisti con una partecipazione superiore al 30% possono acquisire senza essere soggetti all'obbligo di promuovere un'offerta pubblica di acquisto totalitaria; e viene incrementato (dal 10% al 20%) il limite massimo previsto dall'art. 2357 cc. nei confronti delle società per azioni in materia di acquisto di azioni proprie con l'intento di prevedere strumenti di difesa delle società rispetto a possibili manovre speculative (OPA). Scudo fiscale (Legge n. 102/2009, art. 13-bis): permette, pagando un'imposta una tantum del 5%, di rimpatriare o regolarizzare le attività finanziarie e patrimoniali frutto di evasione fiscale detenute all'estero. Liti pendenti col fisco (Legge n. 73/2010): la Mondadori ha utilizzato il provvedimento per chiudere un contenzioso col fisco pendente dal 1991 pagando 8 milioni e 653 000 euro al posto dei 173 milioni pretesi dall'erario. Anche se non rientra nel novero delle leggi, possiamo citare a tal proposito il ricorso del governo contro la legge della regione Sardegna al divieto di costruire a meno di due chilometri dalle coste (ricorso n. 15/2005 alla legge regionale 8/2004) (che bloccava, tra l'altro, l'edificazione di "Costa Turchese", insediamento di 250 000 m³ della Edilizia Alta Italia di Marina Berlusconi).
Aspetti controversi delle modificazioni indotte nella società civile. Il regista e drammaturgo Dario Fo, lo scrittore Umberto Eco, il regista Nanni Moretti e il comico Beppe Grillo hanno rilasciato pubbliche dichiarazioni circa le conseguenze che i valori veicolati dai media di Berlusconi potrebbero avere, secondo la loro opinione, alla lunga sulla stessa società civile, indirizzandone gusti e tendenze allo scopo di favorire la sua parte politica. A questo proposito, Dario Franceschini, leader del Partito Democratico, è arrivato a dire: «Alle italiane e agli italiani vorrei rivolgere una semplice domanda: fareste educare i vostri figli da quest'uomo? Chi guida un Paese ha il dovere di dare il buon esempio, di trasmettere valori positivi.» (Dario Franceschini) Secondo questa linea di pensiero, la comparsa sulla scena politica di Berlusconi avrebbe causato profonde mutazioni di costume nel tessuto civile del Paese e tra le sue diverse componenti sociali. Essi sostengono che sarebbe improprio, in un sistema democratico, esercitare al contempo azione di governo e di controllo su fonti di informazione a causa dell'influenza che i mass media (tv, radio, stampa, Internet) possono esercitare sulla società. L'opposizione ha chiesto invano a Berlusconi di rinunciare alla proprietà dei mass media giudicando anomala una simile concentrazione in mano al capo di una coalizione politica. La tesi di tale denuncia è che in Italia ci sarebbe uno sbilanciamento mediatico, possibile veicolo di orientamento dell'opinione pubblica attraverso metodi di propaganda più o meno nascosta, e che guidare una coalizione politica e al contempo un gruppo mediatico editoriale risulta contrario ai principi di equilibrio stabiliti dalla Costituzione italiana;[senza fonte] tali principi trovano concreta tutela anche per mezzo dell'art. 10 DPR 30 marzo 1957 numero 361, ove si prevede la «ineleggibilità di coloro che in proprio o in qualità di rappresentanti legali di società o imprese private risultano vincolati allo Stato per contratti di opere o di somministrazioni oppure per concessioni o autorizzazioni amministrative di notevole entità economica».
I rapporti con la mafia, Dell'Utri e Mangano. Nella prima metà degli anni settanta la criminalità organizzata di stanza a Milano organizzava numerosi sequestri di persona a scopo di estorsione. In questo contesto, nel luglio 1974, tramite l'avvocato palermitano Marcello Dell'Utri (all'epoca collaboratore di Berlusconi), Vittorio Mangano fu «chiamato a svolgere la funzione di "garanzia e protezione", a tutela della sicurezza del suo datore di lavoro e dei suoi più stretti familiari, in un momento in cui si era deciso il trasferimento di Berlusconi nella tenuta di Arcore, appena acquistata». Secondo i magistrati, dunque, Berlusconi «temeva che i suoi familiari fossero oggetto di sequestri di persona», e perciò Dell'Utri si adoperò «per l'assunzione di Vittorio Mangano presso la villa di Arcore [...] quale “responsabile” (o “fattore” o “soprastante” che dir si voglia) e non come mero “stalliere”, pur conoscendo lo spessore delinquenziale dello stesso Mangano sin dai tempi di Palermo (ed, anzi, proprio per tale sua “qualità”), ottenendo l'avallo compiaciuto di Stefano Bontate e Teresi Girolamo, all'epoca due degli “uomini d'onore” più importanti di “cosa nostra” a Palermo».[236] Inoltre «è certo che ad Arcore rimase, per tutto il 1975, la famiglia del Mangano [composta da moglie e figlie], il quale conservò ivi la sua residenza anagrafica ancora fino al mese di ottobre del 1976. Risulta ancora che, in data 1º dicembre 1975, Mangano, tratto nuovamente in arresto perché trovato in possesso di un coltello di genere vietato, dichiarò di essere residente ad Arcore e il 6 dicembre 1975, al momento in cui uscì dal carcere, elesse domicilio in via San Martino n. 42, dove è ubicata la villa di Arcore». Al riguardo la Corte fa riferimento anche a un'intervista a Dell'Utri pubblicata sul Corriere della Sera del 21 marzo 1994. Dal processo contro Dell'Utri non sono emersi elementi che «consentono di datare con certezza» l'allontanamento di Mangano da Arcore, e tuttavia «è certo che l'allontanamento avvenne in modo indolore per decisione (autonoma o suggerita da Marcello Dell'Utri) presa da Silvio Berlusconi, il quale continuò ad ospitare presso la propria villa la famiglia del Mangano e non risulta che abbia in alcun modo indirizzato i sospetti degli investigatori sul suo “fattore”, conservando ancora a distanza di molti anni le grate parole del Mangano»; al contrario di Dell'Utri che «non ha mai interrotto i suoi rapporti con il Mangano, pur essendo ben consapevole, alla luce delle sue stesse ammissioni, della caratura criminale del personaggio». Il 26 maggio 1975 una bomba esplose nella villa di Berlusconi in via Rovani a Milano, allora in restauro, «provocando ingenti danni con lo sfondamento dei muri perimetrali e il crollo del pianerottolo del primo piano». Secondo quanto testimoniato da Fedele Confalonieri, subito dopo l'allontanamento di Mangano da Arcore, Berlusconi aveva ricevuto delle lettere con minacce: «Proprio a causa di quelle minacce - dichiarò Confalonieri -, Berlusconi prese la sua famiglia e la portò prima in Svizzera; io mi ricordo che andammo anche a accompagnarlo con Marcello Dell'Utri a Nyon, che è vicino a Ginevra. Credo che poi stettero lì un paio di settimane o tre settimane e poi andarono nel sud della Spagna, a Marbella e stettero lì qualche mese». Nelle indagini dell'epoca gli autori dell'attentato restarono ignoti; «è risultato, invece, dal contenuto di conversazioni telefoniche intercettate circa 11 anni dopo, in occasione di un secondo attentato commesso in data 28 novembre 1986 ancora ai danni della stessa villa di via Rovani, che da parte di Silvio Berlusconi e di Marcello Dell'Utri non vi fossero dubbi in merito alla riconducibilità dell'attentato del 1975 proprio alla persona del Mangano». Il secondo attentato creò danni unicamente alla cancellata esterna. Berlusconi, intercettato, commentò l'esplosione al telefono con Dell'Utri definendola scherzosamente una cosa «fatta con molto rispetto, quasi con affetto [...] perché mi ha incrinato soltanto la parte inferiore della cancellata», aggiungendo che «secondo me, è come una rich... un altro manderebbe una lettera o farebbe una telefonata: lui ha messo la bomba!». La conversazione prosegue, anche con Confalonieri, con riferimenti all'attentato del 1975 e alla persona di Mangano ritenuto appena scarcerato. L'intercettazione del 1986 per la magistratura dimostra «adeguatamente come nessuno dei tre interlocutori nutrisse alcun dubbio nel ricondurre alla persona di Mangano Vittorio la responsabilità dell'attentato commesso ai danni della villa di via Rovani undici anni prima [...] . Malgrado non si nutrissero dubbi in merito al responsabile, nessuna utile indicazione all'epoca dei fatti era stata offerta agli investigatori ma, al contrario, si era deciso addirittura di non denunciare direttamente l'attentato».] L'attentato, invece, non è attribuibile a Mangano, che all'epoca del fatto era detenuto. Esso è ascrivibile altresì (come risulta dalle dichiarazioni di Antonino Galliano) alla mafia catanese, «evento che Totò Riina aveva voluto furbescamente sfruttare per le ulteriori intimidazioni telefoniche all'imprenditore ordinate a Mimmo Ganci e da costui effettuate poco tempo dopo da Catania. Una volta raccordatosi con il suo sodale Santapaola di Catania, il capo di “cosa nostra” aveva, come si suol dire, “preso in mano la situazione” relativa a Berlusconi e Dell'Utri, che, come si è visto (per concorde dichiarazione di Ganci, Anzelmo e Galliano), sarebbe stata sfruttata non soltanto per fini prettamente estorsivi, ma anche per potere “agganciare” politicamente l'on.le Bettino Craxi». Un rapporto della Criminalpol di Milano (rapporto numero 0500/CAS/Criminalpol del 13 aprile 1981) notava che «l'aver accertato attraverso la citata intercettazione telefonica (del 14 febbraio 1980 su l'utenza telefonica dell'Hotel Duca di York di Milano in uso a Mangano, ndr) il contatto tra Mangano Vittorio, di cui è bene ricordare sempre la sua particolare pericolosità criminale, e Dell'Utri Marcello ne consegue necessariamente che anche la Inim spa e la Raca spa (società per le quali il Dell'Utri svolge la propria attività), operanti in Milano, sono società commerciali gestite anch'esse dalla mafia e di cui la mafia si serve per riciclare il denaro sporco, provento di illeciti». Secondo la Corte, Dell'Utri «“rappresentava” presso i mafiosi gli interessi del gruppo [Fininvest, ndr], per conto di Silvio Berlusconi. «Era un manager dotato di altissima autonomia e di capacità decisionali, non un qualunque sottoposto al quale non restava altro che eseguire le decisioni del proprietario dell'azienda, in ipotesi impostegli. «È significativo che egli, anziché astenersi dal trattare con la mafia (come la sua autonomia decisionale dal proprietario ed il suo livello culturale avrebbero potuto consentirgli, sempre nell'indimostrata ipotesi che fosse stato lo stesso Berlusconi a chiederglielo), ha scelto, nella piena consapevolezza di tutte le possibili conseguenze, di mediare tra gli interessi di “cosa nostra” e gli interessi imprenditoriali di Berlusconi (un industriale, come si è visto, disposto a pagare pur di stare tranquillo). «Dunque, Marcello Dell'Utri ha non solo oggettivamente consentito a “cosa nostra” di percepire un vantaggio, ma questo risultato si è potuto raggiungere grazie e solo grazie a lui». Il boss mafioso Mangano, nuovamente in carcere dal 1995 in regime di 41 bis, morì nel luglio 2000, pochi giorni dopo essere stato condannato all'ergastolo per duplice omicidio. Dell'Utri commentò nell'aprile 2008 che Mangano era «un eroe, a suo modo» perché «sarebbe uscito dal carcere con lauti premi se avesse accusato me e il presidente Berlusconi», e dello stesso avviso si è il giorno dopo detto Berlusconi. La procura di Palermo ha indagato su Silvio Berlusconi e su Marcello Dell'Utri dal 2 gennaio 1996 per concorso esterno in associazione mafiosa e riciclaggio di denaro. Nel 1997 la posizione di Berlusconi è stata archiviata al termine delle indagini preliminari, che erano state prorogate per la massima durata prevista dalla legge, mentre Dell'Utri è stato rinviato a giudizio. Nel 2004 Marcello Dell'Utri è stato condannato in primo grado a Palermo a 9 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, pena ridotta in appello a 7 anni, avendo la Corte ritenuto che il fatto non sussiste limitatamente al periodo successivo al 1992. Il 9 marzo 2012 la quinta sezione penale della Corte di Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza d'appello, accogliendo così il ricorso della difesa avverso alla condanna a sette anni. Al processo di Marcello Dell'Utri per concorso esterno in associazione mafiosa, la Cassazione ritiene pienamente confermato l'incontro tra Berlusconi, Dell'Utri e i capimafia Francesco Di Carlo, Stefano Bontate e Mimmo Teresi, testimoniato dallo stesso Di Carlo, attualmente collaboratore di giustizia, e di cui ha parlato anche Galliano, un altro collaboratore. L'incontro sarebbe avvenuto nel 1974 in foro Bonaparte a Milano, dove venne presa la “contestuale decisione di far seguire l'arrivo di Vittorio Mangano presso l'abitazione di Berlusconi in esecuzione dell'accordo” per la protezione ad Arcore. La Corte parla “senza possibilità di valide alternative di un accordo di natura protettiva e collaborativa raggiunto da Berlusconi con la mafia per il tramite di Dell'Utri che, di quella assunzione, è stato l'artefice grazie anche all'impegno specifico profuso da Cinà”. Il 22 agosto 2013 l'ex boss Totò Riina di Cosa Nostra, in un dialogo durante l'ora d'aria con il co-detenuto Alberto Lorusso ripreso dalle telecamere del carcere di Opera, fa numerose dichiarazioni su Dell'Utri e Berlusconi, rivelando che quest'ultimo dagli anni ottanta pagava il pizzo a Cosa Nostra per ottenere in cambio dei favori reciproci e futuri, 250 milioni di lire ogni sei mesi. Nel 2014 vennero pubblicate alcune conversazioni tra Emilio Fede ed il suo personal trainer, Gaetano Ferri, segretamente registrate da quest'ultimo, in cui l'ex direttore del TG4 rivela particolari importanti sui rapporti illeciti tra Berlusconi e la mafia siciliana, veicolati attraverso Marcello Dell'Utri, che faceva da tramite per Silvio. In questi dialoghi registrati Fede parla anche di Flavio Briatore, che, secondo quanto risulta dalle registrazioni di Ferri, sarebbe stato coinvolto anch'egli in una storia di mafia, ordinando l'assassinio di un industriale di Cuneo.
I rapporti con il mondo dell'informazione. Il 18 aprile 2002, durante la visita di Stato a Sofia in Bulgaria Berlusconi, da circa un anno presidente del consiglio rende un'assai discussa dichiarazione (soprannominata dai suoi oppositori il "diktat bulgaro" o l'"editto di Sofia"): «L'uso che Biagi, come si chiama quell'altro...? Santoro, ma l'altro... Luttazzi, hanno fatto della televisione pubblica, pagata coi soldi di tutti, è un uso criminoso. E io credo che sia un preciso dovere da parte della nuova dirigenza di non permettere più che questo avvenga.» I tre non vennero più chiamati a condurre programmi in RAI: di fatto la nuova dirigenza RAI insediatasi all'epoca del governo Berlusconi e da esso spronata a prendere provvedimenti, espulse Biagi, Santoro e Luttazzi da tutte le programmazioni televisive. La situazione perdurò fino al 2006 quando, in seguito ad azioni giudiziarie che li hanno visti vincenti sulla dirigenza RAI, Biagi e Santoro hanno ripreso a condurre programmi giornalistici. Berlusconi ha sempre avuto rapporti contrastati con la televisione pubblica, da lui spesso accusata di essere, se non totalmente schierata a sinistra, per gran parte controllata dai partiti dell'opposizione (soprattutto Rai 3, definita da Berlusconi «una macchina da guerra contro il Presidente del Consiglio»). Questa visione è ovviamente ribaltata secondo il punto di vista dei suoi oppositori che lo accusano di averla pesantemente occupata nel periodo in cui è stato capo del governo. È del 12 marzo 2006 (durante la campagna elettorale per le elezioni politiche) la polemica, in occasione del programma di Rai 3, In mezz'ora, tra Berlusconi che accusava la conduttrice Lucia Annunziata di muoversi sulla base di posizioni di pregiudizio nei suoi confronti e di aperta partigianeria in appoggio della sinistra, e la giornalista stessa che gli rimproverava l'incapacità di trattare con i giornalisti. Silvio Berlusconi lasciò lo studio dopo 17 minuti. Nel 2007 la procura di Napoli apre un'inchiesta su Berlusconi (allora leader dell'opposizione) sospettato di aver corrotto Agostino Saccà, direttore di Rai Fiction. Tra gli atti dell'inchiesta c'è un'intercettazione telefonica tra i due imputati che viene pubblicata in tutti i media quando l'indagine è ancora in corso. Nella telefonata si ascolta Saccà esprimere una posizione di appassionato appoggio politico a Berlusconi e di critica per il comportamento degli alleati. Berlusconi sollecita Saccà a mandare in onda una trasmissione voluta da Umberto Bossi e Saccà si lamenta del fatto che ci sono persone che hanno diffuso voci su questo accordo provocandogli problemi. Berlusconi poi chiede a Saccà di dare una sistemazione in una fiction ad una ragazza spiegando in modo molto esplicito che questo servirebbe per uno scambio di favori con un senatore della maggioranza che lo aiuterebbe a far cadere il governo. Saccà saluta esortando Berlusconi a impadronirsi della maggioranza il prima possibile. Berlusconi ha sostenuto in sua difesa: «Lo sanno tutti nel mondo dello spettacolo, in certe situazioni in Rai si lavora soltanto se ti prostituisci oppure se sei di sinistra. [...] In Rai non c'è nessuno che non sia stato raccomandato». L'indagine napoletana è giunta a gennaio alla richiesta di rinvio a giudizio ma, prima che si aprisse il processo, nel luglio 2008 gli avvocati di Berlusconi chiesero ed ottennero dal GIP lo spostamento dell'indagine a Roma per incompetenza territoriale. Nel 2008 i pm romani nuovi titolari dell'inchiesta hanno chiesto l'archiviazione dell'inchiesta e la distruzione delle intercettazioni argomentando che «Non c'è alcuna certezza del "do ut des". Lo stretto legame tra l'onorevole Berlusconi e Saccà, che emerge con evidenza dall'attività investigativa, era tale da consentire al primo di effettuare segnalazioni al secondo senza dover promettere o ottenere nulla in cambio». Nel 2008 i pm romani nuovi titolari dell'inchiesta hanno chiesto l'archiviazione dell'inchiesta e la distruzione delle intercettazioni argomentando che «Non c'è alcuna certezza del "do ut des". Lo stretto legame tra l'onorevole Berlusconi e Saccà, che emerge con evidenza dall'attività investigativa, era tale da consentire al primo di effettuare segnalazioni al secondo senza dover promettere o ottenere nulla in cambio».
Scandali di natura sessuale.
Il caso Carfagna. Mara Carfagna, ex showgirl, successivamente Ministro per le pari opportunità. Nel quarto governo Berlusconi, l'onorevole Mara Carfagna, ex showgirl, è stata scelta per ricoprire il ruolo di Ministro per le pari opportunità. Secondo numerose indiscrezioni, alcune intercettazioni telefoniche effettuate nell'ambito di un'inchiesta per corruzione a carico di Berlusconi avrebbero prodotto materiale non penalmente rilevante riguardante presunti favori sessuali ottenuti dal Presidente del Consiglio dei ministri Berlusconi in cambio dell'incarico da ministro. Oltre alla stampa estera, dell'esistenza delle intercettazioni parlò Sabina Guzzanti durante una manifestazione politica e successivamente il deputato PdL Paolo Guzzanti sul suo blog, ritenendo esistessero «proporzionati motivi per temere che la signorina in questione occupi il posto per motivi che esulano dalla valutazione delle sue capacità di servitore dello Stato, sia pure apprendista». Le dichiarazioni sortirono una citazione in sede civile per Sabina Guzzanti.
Il caso Noemi. Il 28 aprile 2009, la moglie di Berlusconi, Veronica Lario, in un'e-mail all'ANSA espresse il suo sdegno riguardo alla possibile scelta del marito di candidare giovani ragazze di bella presenza, alcune delle quali senza esperienza politica, per le vicine elezioni europee. Il 2 maggio seguente, dopo aver saputo che Berlusconi si era recato alla festa del diciottesimo compleanno di Noemi Letizia (una ragazza di Portici), ha poi affidato ad un avvocato l'incarico di presentare richiesta di separazione dal marito. La Lario, a questo punto, ha fatto menzione di una supposta abitudine del marito di frequentare minorenni: «Non posso stare con un uomo che frequenta le minorenni», «[...] figure di vergini che si offrono al drago per rincorrere il successo, la notorietà e la crescita economica», «Ho cercato di aiutare mio marito, ho implorato coloro che gli stanno accanto di fare altrettanto, come si farebbe con una persona che non sta bene. È stato tutto inutile». Il 14 maggio il quotidiano La Repubblica pubblica un articolo in cui mostra le molte contraddizioni e discordanze della versione di Berlusconi concernente le sue frequentazioni con Noemi Letizia con le dichiarazioni degli altri protagonisti della vicenda, chiedendo al Presidente del Consiglio di rispondere a dieci domande, poi riformulate. Berlusconi non ritiene opportuno rispondere a queste domande, e il 28 agosto dà mandato al suo avvocato, Niccolò Ghedini, di intentare una causa civile di risarcimento contro il quotidiano per il danno di immagine causatogli (lo stesso avviene contestualmente anche nei confronti de L'Unità). Successivamente Berlusconi ha parzialmente risposto alle 10 domande di Repubblica sul libro di Bruno Vespa Donne di Cuori. Il 28 maggio Berlusconi giura sulla testa dei suoi figli di non aver mai avuto relazioni "piccanti" con minorenni, e che se stesse mentendo si dimetterebbe immediatamente. La questione è stata ampiamente trattata dalla stampa estera (per esempio dai quotidiani britannici The Times, Financial Times e dalla BBC). L'attenzione dei giornali è stata in seguito attirata da numerose foto che il fotografo Antonello Zappadu aveva scattato in diverse occasioni: alcune documentano una vacanza del maggio 2008 nella residenza estiva di Berlusconi a Porto Rotondo e vi appare l'allora primo ministro della Repubblica Ceca Mirek Topolanek in veste adamitica: durante la festa si vedono giovani ragazze in bikini o in topless. Il 5 giugno 2009 il quotidiano spagnolo El País pubblica 5 delle 700 foto della festa. La Procura di Roma, su segnalazione di Berlusconi, ha sequestrato il materiale fotografico per violazione della privacy.
Il caso D'Addario. Nel luglio 2009 il giornale L'Espresso pubblica sul suo sito le registrazioni audio ambientali degli incontri tra Silvio Berlusconi e l'escort Patrizia D'Addario, effettuate da quest'ultima nell'ottobre 2008 a palazzo Grazioli, residenza privata del capo di governo dell'epoca, e ancora depositate dalla stessa persona presso la Procura di Bari che le ha secretate in plichi sigillati collocati in una cassaforte blindata; sono state invece rese pubbliche altre intercettazioni di tipo telefonico acquisite dalla procura nell'ambito del procedimento giudiziario che intendeva far luce sui presunti favoritismi di Berlusconi verso l'imprenditore barese Gianpaolo Tarantini, concretizzàtisi poi in incarichi, affari pubblici ed appalti in cambio di prestazioni di natura sessuale da parte di ragazze appositamente reclutate e indotte alla prostituzione. Poco dopo il Premier dichiarò: "Non sono un santo, spero lo capiscano anche quelli di Repubblica". Al di là dell'interesse di natura scandalistica, le vicende riguardanti i presunti rapporti extraconiugali di Berlusconi con escort e giovani ragazze dello spettacolo hanno attirato l'attenzione dell'opinione pubblica e di parte del mondo politico, in quanto paiono essere in più punti intrecciate con la promessa di candidature politiche nelle liste del PdL e affiliate (La Puglia prima di tutto) in occasione delle elezioni europee e delle amministrative del giugno 2009.
Il caso Ruby. A novembre 2010 scoppia il cosiddetto "caso Ruby". La vicenda ruota attorno all'allora minorenne marocchina Karima El Mahroug detta Ruby Rubacuori, fermata per furto nel maggio 2010 a Milano. Accertata la minore età della ragazza, il magistrato dispose l'affidamento secondo le normali procedure. Tuttavia, dopo che Berlusconi ebbe telefonato in questura sostenendo che la giovane fosse la nipote dell'allora presidente egiziano Hosni Mubarak (fatto poi dimostratosi falso), la ragazza venne affidata al consigliere regionale PdL Nicole Minetti. Ruby dichiarò di essere stata più volte ospite di Berlusconi presso la sua residenza di Arcore e d'aver ricevuto denaro in tali occasioni. Ritenendo che quel denaro fosse stato il compenso per prestazioni sessuali, a gennaio 2011 la procura della Repubblica di Milano ha contestato a Berlusconi i reati di concussione e prostituzione minorile. La vicenda ha avuto un grande clamore anche sui media internazionali e ha acceso il dibattito all'interno dell'opinione pubblica italiana. Il 24 giugno 2013 Berlusconi viene condannato in primo grado a sette anni di reclusione per i reati di concussione per costrizione e favoreggiamento della prostituzione minorile, nonché alla perpetua interdizione dai pubblici uffici; tuttavia, al termine del processo d'appello, con la sentenza del 18 luglio 2014, viene assolto dalla concussione perché il fatto non sussiste e dalla prostituzione minorile perché il fatto non costituisce reato[301]. Le motivazioni della sentenza ufficializzeranno infatti che nessuna prova è stata accertata sul fatto che Berlusconi avesse esercitato un atteggiamento intimidatorio o quanto meno un'induzione indebita nei confronti del responsabile della questura milanese affinché rilasciasse la minorenne marocchina, né che fosse a conoscenza dell'età della ragazza all'epoca dei rapporti sessuali. L'assoluzione diventa definitiva il successivo 10 marzo 2015 con la favorevole sentenza della Corte di Cassazione.
Dichiarazioni e comportamenti controversi. In Italia e all'estero grande risalto mediatico hanno ricevuto alcune sue dichiarazioni, battute di spirito e comportamenti irrituali che gli hanno dato una fama di gaffeur, contribuendo nel contempo a caratterizzare la sua immagine pubblica. Secondo Peter Weber questi episodi avrebbero contribuito a far riemergere vecchi pregiudizi nei confronti della politica estera italiana condotta con «ambizione e leggerezza». Nel settembre 2001, in seguito agli attentati terroristici sferrati da al-Qa'ida agli Stati Uniti, dichiarò: «Noi [occidentali] dobbiamo essere consapevoli della superiorità della nostra civiltà, il nostro è un sistema che ha garantito il benessere, il rispetto dei diritti umani e, a differenza dei paesi islamici, il rispetto dei diritti religiosi e politici. Un sistema che ha come valore la comprensione delle diversità e la tolleranza». L'affermazione suscitò le proteste di diverse nazioni islamiche e della Lega araba. Nel 2003, particolarmente controversa fu la polemica che al Parlamento europeo – in occasione del suo esordio come presidente del Consiglio dell'UE – lo vide opposto all'eurodeputato socialista tedesco Martin Schulz, che lo criticò per i suoi problemi giudiziari, per il suo rapporto con l'informazione, e che lo accusò di avere un conflitto d'interessi. Berlusconi replicò all'intervento dell'eurodeputato dicendo: «Signor Schulz, so che in Italia c'è un produttore che sta facendo un film sui campi di concentramento nazisti. La suggerirò per il ruolo di kapò, lei sarebbe perfetto». Alle critiche da parte di alcuni europarlamentari, Berlusconi rispose rivolgendo un «turisti della democrazia» all'ala sinistra del Parlamento che lo contestava. Il presidente Pat Cox lo invitò a scusarsi, ma Berlusconi replicò: «Il signor Schulz mi ha offeso gravemente e personalmente, era solo una battuta ironica e non la ritiro». Accettò poi di scusarsi con il popolo tedesco, ma non con Schulz e l'Europarlamento. La controversia coinvolse anche il cancelliere Schröder, che convocò l'ambasciatore italiano a Berlino spingendo il governo italiano a fare lo stesso con quello tedesco a Roma. Successivamente Berlusconi dichiarò che in Italia «girano da anni storielle sull'Olocausto» perché «gli italiani sanno scherzare su tragedie come quella nel tentativo di superarle», provocando le proteste della comunità ebraica di Roma e dell'ANED. Qualche mese dopo, gli procurò altre critiche dalla comunità israelita, unite a quelle di alcuni familiari delle vittime dello squadrismo fascista, l'intervista concessa al periodico britannico The Spectator in cui disse che Mussolini, a differenza di Saddam Hussein, non avrebbe «mai ammazzato nessuno» e si sarebbe limitato a mandare «la gente a fare vacanza al confino». Della stessa intervista fu contestato anche il giudizio espresso sui giudici, definiti «mentalmente disturbati», che spinse il presidente della Repubblica Ciampi ad intervenire in difesa della magistratura. Ripercussioni sul piano diplomatico ci furono anche in altre occasioni. Nel 2005, quando irritò il governo finlandese dicendo di aver «rispolverato tutte le arti da playboy» con Tarja Halonen, capo di Stato della nazione finnica, per fare in modo che ritirasse la candidatura di Helsinki a sede dell'Autorità europea per la sicurezza alimentare in favore di Parma, non essendoci per lui «alcuna possibilità di confronto tra il culatello di Parma e la renna affumicata». In seguito a quell'episodio la catena di pizzerie Kotipizza chiamò "Pizza Berlusconi" la sua pizza alla renna affumicata. La pizza vinse il primo premio dell'America's Plate International nel marzo 2008. Nel 2006 contrariò il governo cinese dichiarando durante un comizio elettorale: «Leggetevi il libro nero del comunismo e scoprirete che nella Cina di Mao i comunisti non mangiavano i bambini, ma li bollivano per concimare i campi».[328] Nel febbraio 2009, Berlusconi affermò in un comizio: «Di me hanno detto di tutto i signori della sinistra, [...] che sono come quel dittatore argentino che faceva fuori i suoi oppositori portandoli in aereo con un pallone, poi apriva lo sportello e diceva: C'è una bella giornata, andate fuori un po' a giocare. Fa ridere ma è drammatico». Il Ministero degli esteri argentino convocò l'ambasciatore italiano Stefano Ronca per esprimere «la profonda preoccupazione» per le frasi dette sui cosiddetti voli della morte, per il governo italiano si trattò di uno stravolgimento delle parole pronunciate dal Presidente del Consiglio, un «finto caso». Sempre nel 2009, secondo indiscrezioni di un tabloid inglese, durante un vertice di capi di governo dell'Unione Europa a Bruxelles per discutere le questioni relative al cambiamento climatico in vista del summit di Copenaghen, alla presenza di leader quali Gordon Brown, Brian Cowen, Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, Berlusconi avrebbe scarabocchiato disegnini di "mutande femminili nel corso della storia" sotto il titolo "Mutandine da donna attraverso i secoli", passando i suoi bozzetti agli altri premier affinché potessero apprezzarli, creando ilarità e imbarazzo fra i presenti. Hanno suscitato clamore anche alcuni comportamenti scherzosi tenuti in presenza di ministri e governanti stranieri. Nel 2002 fece discutere la foto di gruppo dei Ministro degli affari esteri riuniti a Cáceres, in cui Berlusconi, titolare ad interim della Farnesina, fu immortalato mentre faceva il gesto delle corna alle spalle del suo omologo spagnolo per divertire un gruppo di boy-scout. Nel 2008, durante una conferenza stampa con il presidente russo uscente Vladimir Putin, dopo che una giornalista pose a quest'ultimo una domanda sgradita circa una sua presunta relazione extra-coniugale, Berlusconi mimò un mitra che le sparava. Il gesto fu criticato dalla Federazione Nazionale Stampa Italiana a causa dei numerosi casi di giornalisti assassinati in Russia. La cronista coinvolta successivamente puntualizzò: «Ho visto il gesto del vostro presidente e so che scherza sempre. So che il gesto non avrà alcuna conseguenza». Lo stesso anno, in seguito all'elezione dell'afro-americano Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti, Berlusconi, durante una conferenza stampa congiunta con il nuovo presidente russo Dmitrij Medvedev al Cremlino, affermò: «Ho detto a Medvedev che Obama ha tutto per andare d'accordo con lui: è giovane, bello e anche abbronzato». La frase suscitò polemiche poiché il termine "abbronzato" (in inglese tanned o suntanned) è stato talvolta impiegato in maniera dispregiativa nei confronti delle persone di colore. In seguito Berlusconi affermò che la sua intenzione era quella di rivolgere ad Obama «una carineria assoluta, un grande complimento», e definì «imbecilli» chi aveva criticato la dichiarazione. I media internazionali diedero ampio risalto alla vicenda. Il 27 settembre 2009 tornò sull'argomento dicendo: «Vi porto i saluti di uno che si chiama... uno abbronzato... Ah, Barack Obama. Voi non ci crederete, ma sono andati a prendere il sole in spiaggia in due, perché è abbronzata anche la moglie». L'anno successivo, durante la riunione del G20 a Londra, dopo la foto di rito Berlusconi chiamò il presidente statunitense a voce alta attirando l'attenzione della regina Elisabetta II che, giratasi per capire da dove e da chi provenisse il richiamo, apparentemente irritata esclamò: «Che cos'è? Ma perché deve urlare?» (What is it? Why does he have to shout?). L'episodio ricevé ampia eco mediatica da parte della stampa internazionale. Il giorno successivo Buckingham Palace intervenne puntualizzando che la sovrana non era affatto infastidita dall'irritualità del capo di governo italiano. In Italia hanno sollevato polemiche alcune sue esternazioni rivolte agli avversari politici ed alla magistratura. Nel 2006, in prossimità delle elezioni politiche che lo avrebbero contrapposto al candidato del centro-sinistra Romano Prodi, durante un discorso alla Confcommercio affermò: «Ho troppa stima dell'intelligenza degli italiani per pensare che ci siano in giro così tanti coglioni che possano votare contro i propri interessi». Definì inoltre la magistratura «il cancro del paese». Due anni dopo, alla Confesercenti, ribadì lo stesso concetto definendo «i giudici e i P.M. ideologizzati» una «metastasi della nostra democrazia». L'ANM protestò per la dichiarazione temendo una delegittimazione dell'intera categoria. Nel 2009, fu protagonista di uno scontro istituzionale con il presidente della Repubblica Napolitano, che rifiutò di firmare il decreto legge approvato dal Consiglio dei ministri che avrebbe vietato l'interruzione dell'alimentazione e dell'idratazione artificiale di Eluana Englaro. Berlusconi, contrariato dalla mancata firma, dichiarò: «si vogliono attribuire dei poteri che secondo l'interpretazione mia e del governo non sono del capo dello Stato ma semmai spettano al governo», quindi sollecitò una riforma della Costituzione, da lui ritenuta necessaria «perché la Carta è una legge fatta molti anni fa sotto l'influenza della fine di una dittatura e con la presenza al tavolo di forze ideologizzate che hanno guardato alla Costituzione russa come a un modello da cui prendere molte indicazioni». La dichiarazione fu accolta da diverse polemiche a cui Berlusconi replicò: «Ho giurato sulla Costituzione. La rispetto. È la prima legge alla base dello Stato. Non ho mai pensato di attaccarla», poi aggiunse: «La Costituzione però non è un Moloch: può evolvere con i tempi», ma ribadì: «Che i valori costituzionali abbiano guardato alla Carta dell'Unione Sovietica è una realtà storica». Hanno suscitato generale sorpresa, in Italia come all'estero, le affermazioni di Berlusconi in una conversazione del 13 luglio 2011, in cui definiva l'Italia un "paese di merda". Stando ad un articolo de Il Fatto Quotidiano del 10 settembre 2011 nel parlamento italiano girava voce di un'intercettazione in cui Berlusconi avrebbe etichettato Angela Merkel con l'epiteto di «culona inchiavabile». L'intercettazione in oggetto non è mai stata pubblicata, ma parte della stampa tedesca, tra cui il Financial Times Deutschland e il Der Spiegel, ha dato ampio risalto alla notizia e si sarebbe rischiato il richiamo dell'ambasciatore a Roma. In occasione della Giornata della Memoria, il 27 gennaio 2013 Berlusconi dichiarò che «il fatto delle leggi razziali è la peggior colpa di un leader, Mussolini, che, per tanti altri versi, invece, aveva fatto bene», suscitando ampie critiche da parte delle comunità ebraiche, dell'Anpi e di molti esponenti politici.
Procedimenti giudiziari a carico di Berlusconi. Silvio Berlusconi è stato oggetto di numerosi procedimenti penali, uno dei quali si è concluso con una sentenza definitiva di condanna passata in giudicato il 1º agosto 2013 nel processo Mediaset; fino ad allora nessuno dei procedimenti penali a suo carico si era concluso con una sentenza definitiva di condanna, per via di assoluzioni, declaratorie di prescrizione e depenalizzazioni dei reati contestati. Alcuni di questi procedimenti sono stati archiviati in fase di indagine; a seguito di altri è stato instaurato un processo nel quale Berlusconi è stato assolto. In altri processi, infine, sono state pronunciate, in primo grado o in appello, sentenze di condanna per reati quali corruzione giudiziaria, finanziamento illecito a partiti e falso in bilancio. In alcuni casi, dopo un esito del primo o del secondo grado di giudizio sfavorevole a Berlusconi, i procedimenti non si sono conclusi con una sentenza di condanna: ciò grazie a sopravvenuta amnistia, al riconoscimento di circostanze attenuanti che, influendo sulla determinazione della pena, hanno comportato il sopravvenire della prescrizione oppure a nuove norme che hanno modificato le pene e la struttura di taluni reati a lui contestati, come nel caso del reato di falso in bilancio. Dette norme, approvate in Parlamento dalla maggioranza di centro-destra mentre Silvio Berlusconi ricopriva la carica di Presidente del consiglio, in taluni casi hanno imposto una valutazione di non rilevanza penale di alcuni dei fatti contestati, poiché il fatto non è più previsto dalla legge come reato; in altri casi la riduzione della pene prevista per le fattispecie di reato contestate ha fatto sì che i termini di prescrizione maturassero prima che fosse pronunciata sentenza definitiva.
Sentenze di condanna passate in giudicato. Processo Mediaset, frode fiscale, falso in bilancio, appropriazione indebita, creazione di fondi neri gestendo i diritti tv di Mediaset; condannato in via definitiva, con sentenza della Corte di Cassazione del 1 agosto 2013, a 4 anni di reclusione, di cui 3 condonati per effetto dell'indulto disposto dalla legge 241 del 2006.
Sentenze di non doversi procedere passate in giudicato.
Reati estinti per prescrizione
Lodo Mondadori, corruzione giudiziaria (attenuanti generiche).
Bilanci Fininvest 1988-1992, falso in bilancio e appropriazione indebita relativi ai bilanci Fininvest dal 1988 al 1992.
All Iberian 1, 23 miliardi di lire di finanziamenti illeciti al PSI di Bettino Craxi.
Consolidato Fininvest, falso in bilancio.
Caso Lentini, falso in bilancio.
Tangenti a David Mills, corruzione giudiziaria.
Rivelazione di informazioni coperte da segreto istruttorio relative all'inchiesta Bnl-Unipol. Il 7 marzo 2013 il Tribunale di Milano lo condanna a un anno di reclusione e al risarcimento di 80 000 euro in solido col fratello Paolo Berlusconi. Il 31 marzo 2014 la Seconda Corte d'Appello di Milano ha dichiarato la prescrizione del reato, confermando il risarcimento di 80 000 euro a Piero Fassino. La Corte di Cassazione conferma la prescrizione esattamente un anno dopo, il 31 marzo 2015.
Reati estinti per intervenuta amnistia.
Falsa testimonianza P2 (amnistia applicata in fase dibattimentale).
Terreni Macherio, imputazione per uno dei due falsi in bilancio (amnistia applicata in seguito al condono fiscale del 1992).
Sentenze di assoluzione passate in giudicato.
Assoluzioni per intervenuta modifica della legge (il fatto non costituisce più reato).
All Iberian 2, falso in bilancio (stralciato in base alla riforma degli illeciti penali ed amministrativi delle società commerciali decisa col Dlgs 61/2002 emanato dal governo Berlusconi II).
Sme-Ariosto (falso in bilancio) (stralciato in base alla riforma degli illeciti penali ed amministrativi delle società commerciali decisa col Dlgs 61/2002 emanato dal governo Berlusconi II).
Sme-Ariosto (capo A), corruzione in atti giudiziari per due versamenti a Renato Squillante (assolto per non aver commesso il fatto e perché il fatto non sussiste).
Sme-Ariosto (capo B), corruzione giudiziaria.
Tangenti alla guardia di finanza (assolto per non aver commesso il fatto, anche grazie alla falsa testimonianza dell'avvocato David Mills).
Telecinco (in Spagna), violazione della legge antitrust, frode fiscale e reati vari (quali riciclaggio di denaro).
Medusa cinematografica, falso in bilancio (assolto in quanto per la sua ricchezza potrebbe non essere stato al corrente dei fatti contestati).
Terreni Macherio, imputazione per appropriazione indebita, frode fiscale, e uno dei due falsi in bilancio.
Inchiesta Mediatrade di Milano, appropriazione indebita e frode fiscale, Berlusconi insieme ad un socio occulto, l'egiziano Frank Agrama, si sarebbe appropriato illegalmente di fondi della società.
Inchiesta Mediatrade di Roma, evasione fiscale e reati tributari compiuti negli anni 2004, 2005.
Caso Ruby, concussione e prostituzione minorile. Condannato in primo grado a 7 anni di carcere e interdizione perpetua dai pubblici uffici[384], viene poi assolto con formula piena in appello il giorno 18 luglio 2014 perché il fatto non sussiste (concussione) e "perché il fatto non costituisce reato" (prostituzione minorile). L'assoluzione diviene definitiva il giorno 10 marzo 2015 con la sentenza favorevole della Corte di Cassazione.
Procedimenti archiviati.
Spartizione pubblicitaria Rai-Fininvest (archiviato per insufficienza di prove).
Traffico di droga.
Tangenti fiscali pay TV.
Stragi 1992-1993 (concorso in strage).
Caso Saccà, corruzione nei confronti di senatori per far cadere il governo Prodi.
Concorso esterno in associazione mafiosa e riciclaggio (insieme a Marcello Dell'Utri).
Abuso d'ufficio, abuso nell'uso dei voli di Stato.
Diffamazione aggravata dall'uso del mezzo televisivo.
Caso Trani, abuso d'ufficio.
Sentenze non passate in giudicato.
Concorso in corruzione, Berlusconi viene condannato in primo grado dal Tribunale di Napoli l'8 luglio 2015 a 3 anni di reclusione per aver corrotto nel 2006, con 3 milioni di euro, il senatore dell'IdV Sergio De Gregorio per favorire il suo passaggio tra le file della Casa delle Libertà.
Procedimenti in corso.
Processo escort, Berlusconi avrebbe pagato l'imprenditore Giampaolo Tarantini perché nascondesse dinanzi ai magistrati baresi la verità sulle escort portate alle feste organizzate nelle sue abitazioni (udienza preliminare).
Inchiesta Ruby Ter, avrebbe pagato le testimoni del Processo Ruby per fare falsa testimonianza (fase preliminare).
Finanziamenti illeciti erogati al Movimento Italiani nel Mondo (fase istruttoria).
Corruzione, Berlusconi avrebbe corrotto nel 2010 i senatori dell'IdV Antonio Razzi e Domenico Scilipoti per passare al PdL tenendo in piedi la maggioranza (fase istruttoria).
Su molti dei procedimenti giudiziari contro Berlusconi, alcuni dei quali ancora in corso, c'è acceso dibattito tra i suoi sostenitori e i suoi detrattori. Berlusconi ed i suoi sostenitori affermano che i processi relativi alla sua attività imprenditoriale sarebbero cominciati dopo la sua "discesa in campo", ed esclusivamente a scopo persecutorio nei suoi confronti.[401] Sostengono che tali processi, che ritengono basati su mere illazioni (spesso definite "teoremi") prive di riscontro probatorio, siano stati istruiti nell'ambito di una persecuzione giudiziaria orchestrata delle "toghe rosse", ossia da magistrati vicini ai partiti e alle ideologie di sinistra (iscritti a Magistratura democratica), che utilizzerebbero illegittimamente la giustizia a fini di lotta politica. I critici di Berlusconi sostengono invece che i processi siano iniziati prima della "discesa in campo" (e precisamente nel 1993), asserendo che se non fosse entrato in politica sarebbe finito in bancarotta e probabilmente in galera, e che, grazie alle cosiddette leggi ad personam varate dal suo governo, avrebbe evitato di essere condannato. A questo proposito Fedele Confalonieri dichiarò che se Berlusconi non fosse entrato in politica sarebbe stato condannato o costretto al fallimento. I critici inoltre sottolineano che svariate pronunce di proscioglimento non ne dichiarano l'assoluzione, ma la sopravvenuta prescrizione del processo: affermano quindi che, se avesse voluto che fosse riconosciuta la propria innocenza anche in tali processi, avrebbe potuto rinunciare espressamente alla prescrizione. Riguardo alle accuse di parzialità dei giudici, infine, essi osservano che Berlusconi, rispetto ad altri imputati, abbia al contrario giovato del vedersi riconoscere dai giudici le attenuanti generiche, anche se le attenuanti generiche, pur rimesse in toto alla discrezionalità del giudice, vengono di regola concesse sempre a chi sia incensurato, così come era incensurato Berlusconi sino al 1º agosto 2013. Silvio Berlusconi ha più volte ribadito che le indagini hanno seguito la sua "discesa in campo", e ha denunciato i magistrati milanesi, presso la procura di Brescia, per il reato di «attentato ad organo costituzionale»; la denuncia è stata archiviata, e nelle motivazioni si legge: «Risulta dall'esame degli atti che, contrariamente a quanto si desume dalle prospettazioni del denunciante, le iniziative giudiziarie [...] avevano preceduto e non seguito la decisione di "scendere in campo" (Carlo Bianchetti, giudice per le udienze preliminari di Brescia, ordinanza di archiviazione della denuncia, 15 maggio 2001).»
Le aggressioni. Il 31 dicembre 2004, in piazza Navona a Roma, Silvio Berlusconi venne colpito con un treppiede da macchina fotografica da Roberto Dal Bosco, un giovane muratore di Marmirolo. Dopo essere stato diciannove ore in arresto, Dal Bosco fu scarcerato e inviò le sue scuse al primo ministro italiano che decise di non sporgere denuncia. Il comitato "L'altrainformazione" e il senatore Mario Luzi ipotizzarono, in seguito, una possibile strumentalizzazione di Silvio Berlusconi dell'aggressione subita. Il 13 dicembre 2009, dopo un comizio in piazza del Duomo a Milano, Silvio Berlusconi venne colpito al volto con una riproduzione del duomo, lanciatagli da distanza ravvicinata, riportando diverse ferite al volto, nonché la frattura del setto nasale e di due denti dell'arcata superiore. L'aggressore, incensurato e precedentemente in cura per problemi psichici, fu subito arrestato e, in seguito, messo agli arresti domiciliari in una comunità terapeutica; il 29 giugno 2010 fu assolto perché incapace di intendere e di volere.
Riconoscimenti.
Il 23 settembre 2003, a New York, gli è stato consegnato il premio "Statista dell'anno" dalla Anti-Defamation League, l'organizzazione ebraica che combatte l'antisemitismo nel mondo.
Il 2 marzo 2006, negli Stati Uniti d'America, durante l'annuale celebrazione del "saluto alla Libertà", la Intrepid Foundation, ente privato statunitense, lo ha insignito del premio Libertà Intrepid 2006 per «la coraggiosa leadership contro il terrorismo».
Il 27 settembre 2006 gli viene riconosciuto il premio "Madonnina d'oro" offerto dalla Comunità Incontro di Don Gelmini per il contributo personale dato alla ricostruzione di una scuola in Thailandia, dopo lo tsunami, e per l'ampliamento di un ospedale in Bolivia.
Nel 2016 viene inserito nella Hall of Fame del calcio italiano nella categoria Dirigente italiano.
Laurea honoris causa in ingegneria gestionale dall'Università della Calabria — 27 novembre 1991
Onorificenze.
Onorificenze italiane.
Cavaliere del lavoro. «Dopo aver conseguito la laurea in Giurisprudenza con il massimo dei voti, decise di dar vita ad una attività indipendente nel settore dell'industria edile fondando la Società "Cantieri Riuniti Milanesi S.p.A.". Nel 1963 ha costituito la Società "Edilnord" che ha realizzato, tra l'altro, in provincia di Milano, un centro per quattromila abitanti, il primo in Lombardia dotato di centro commerciale, centro sportivo, campi di giuoco, scuole materne ed elementari. Dal 1969 al 1975, in applicazione di una nuova concezione urbanistica, Silvio Berlusconi ha realizzato la costruzione di "Milano 2", una città per diecimila abitanti contigua a Milano, dotata di tutte le più moderne attrezzature pubbliche e sociali, la prima unità urbana in Italia con tre circuiti differenziali per auto, ciclisti e pedoni. È Presidente e Direttore Generale della Edilnord progetti S.p.A. e Presidente della Fininvest S.p.A.» — 2 giugno 1977 (autosospeso il 19 marzo 2014)
Cavaliere di Gran Croce di merito con Placca d'Oro del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio — 14 marzo 2003.
Onorificenze straniere.
Membro di I Classe dell'Ordine del Re Abd al-Aziz (Arabia Saudita) — Jeddah, 22 novembre 2009[420]
Silvio Berlusconi. Biografia da “Cinquantamila Corriere della Sera”.
Milano 29 settembre 1936. Presidente del consiglio in carica mentre consegniamo questo libro (Berlusconi IV). Imprenditore. Padrone di Mediaset. Padrone della Mondadori. Padrone del Milan. Uomo più ricco e potente d’Italia. Cinquantunesimo al mondo nella lista dei ricchi (Forbes 2007). Già presidente del consiglio nel 1994 (Berlusconi I) e per tutta la XIV legislatura (2001-2006, Berlusconi II e III).
«“Quanti anni hai, piccolina?” “Sette”. “Sai, io alla tua età ne avevo solo cinque”» (a Milanello, il 23 luglio 2007, durante il primo giorno di ritiro dei milanisti campioni d’Europa).
Ultime Il 2 dicembre 2006 grande manifestazione contro Prodi e il governo di centro-sinistra: «Tre cortei partiti contemporaneamente da tre punti diversi della città e riuniti poi in piazza San Giovanni. Qui le riprese dall’alto hanno mostrato una folla tipica dei comizi del 1° maggio o delle grandi adunate sindacali dei decenni passati. Dunque anche il centro-destra sa muovere le masse. Infatti il Manifesto è uscito col titolo “Non sottovalutiamo” e la sinistra in genere s’è detta preoccupata. E però: a Roma hanno sfilato Forza Italia, Alleanza Nazionale e Lega, cioè Berlusconi (guarito e scatenato), Fini e Bossi. Il quarto attore della compagnia, cioè Casini con la sua Udc, è andato a manifestare a Palermo, in un Palazzetto dello Sport strapieno, facendo sapere che “ormai le opposizioni sono due”. Cioè la Casa delle Libertà è finita e l’Udc non vuol più sentir parlare di leadership di Berlusconi. Il significato di questo minuetto si capisce bene guardando Mastella, il capo dell’Udeur che fa il ministro della Giustizia e sta nel centro-sinistra: ha sùbito proposto a Casini di far liste comuni per le prossime elezioni europee. Dall’Udc gli hanno risposto: “Tu prima esci dal centro-sinistra”. Non è detto che non accada» (Giorgio Dell’Arti).
Durante la XV legislatura Berlusconi ha tentato di far cadere il governo Prodi anche tirando dalla sua - con ogni mezzo - senatori dello schieramento avverso. C’è riuscito quasi subito con Sergio De Gregorio. Solo alla fine con Bordon, Manzione, Dini e il suo piccolo gruppo di seguaci.
Berlusconi ha sostenuto per mesi e mesi che il voto del 9-10 aprile 2006 era stato truccato dal centro-sinistra, e ha preteso insistentemente che si ricontassero le schede (prima il Senato e poi la Camera concessero la riconta il 6 e il 7 dicembre 2006, l’esito dell’operazione è poco significativo). La tesi dei brogli è stata sostenuta anche da Enrico Deaglio, che dedicò alle politiche del 2006 un numero speciale della rivista Diario, con tanto di dvd a suo dire dimostrativo: per Deaglio, però, a truccare i dati sarebbe stato il centro-destra che avrebbe, con un software annidato nella rete informatica del ministero degli Interni, sottratto un milione di voti al centro-sinistra (numero di Diario del 24 novembre 2006: vedi anche DEAGLIO Enrico). Su tutta la vicenda hanno indagato Luca Ricolfi e Silvia Testa nel capitolo “L’ipotesi dei brogli” del saggio Nel segreto dell’urna. Un’analisi delle elezioni politiche del 2006 (Utet 2007), raccolta di studi curata da Paolo Feltrin, Paolo Natale e Luca Ricolfi. Le conclusioni dello studio sono che un imbroglio orchestrato dall’alto risulta «estremamente difficile, se non impossibile». Manomissioni delle schede in periferia, cioè a livello di sezioni, sono invece possibili, ma difficili da scoprire. I due studiosi hanno comunque dubbi sulla regolarità complessiva del voto: vi sarebbe stata «sistematica e grave violazione delle regole nel caso del voto degli italiani all’estero» e «una enorme massa di irregolarità e stranezze denunciate — e spesso documentate — da membri dell’opposizione (compresi due ex ministri), specie in Emilia Romagna, e nelle quattro regioni - Liguria, Lazio, Sardegna, Puglia - in cui lo scrutinio manuale è stato affiancato da quello elettronico». Le elezioni finirono con un margine di vantaggio risicatissimo per il centro-sinistra alla Camera (24 mila voti), che permise però a Prodi di godere, grazie al premio, di un’ampia maggioranza. Al Senato invece ebbe complessivamente più voti il centro-destra, però il gioco dei singoli premi regionali consegnò al centro-sinistra la maggioranza, anche se appena di due senatori, rinforzata poi, tra mille violentissime polemiche, dal sostegno dei sette senatori a vita. Dallo studio di Ricolfi-Testa si ricava che tutt’e due le parti organizzarono brogli, annullandosi in definitiva a vicenda.
Berlusconi lavorò tenacemente, mentre stava all’opposizione, per indebolire i propri alleati An e Udc. Via maestra per il raggiungimento di questo obiettivo fu l’offerta di collaborazione al centro-sinistra per la realizzazione delle riforme istituzionali e della nuova legge elettorale, presentata già all’indomani del voto del 9-10 aprile col nome di “governo delle larghe intese” e subito respinta da Prodi che resistette poi fino all’ultimo ad ogni ipotesi di apertura. La nascita del Partito democratico e l’ascesa di Veltroni (vedi) resero però di nuovo praticabile, almeno sul piano dei discorsi, questa tattica. Berlusconi e Veltroni si incontrarono pubblicamente il 29 novembre 2007 e, con due conferenze stampa di tono e argomenti molto simili, tenute a un’ora di distanza una dall’altra, annunciarono che avrebbero fatto insieme una nuova legge elettorale e, forse, un nuovo regolamento parlamentare. Berlusconi aveva già specificato, nei giorni precedenti, di volere una legge elettorale proporzionale con uno sbarramento che impedisse ai partiti piccoli l’accesso alle Camere. Veltroni era d’accordo, intanto sulla vocazione maggioritaria del proprio partito, e poi sul fatto che, essendoci in Italia due grandi forze politiche (Partito democratico e Forza Italia), toccava a loro garantire “il nuovo bipolarismo” e l’“alternanza”.
Nel mese di maggio del 2007 Berlusconi fece capire di aver scelto come suo successore una giovane e avvenente seguace, di nome Michela Vittoria Brambilla, di professione industriale nel settore gamberi surgelati, salmone affumicato e alimenti per animali. Costei - subito esaltata dal Foglio - aveva messo insieme, o diceva di aver messo insieme, una rete di Circoli della Libertà nei quali si raccoglievano a suo dire migliaia e migliaia di giovani supporters del Cavaliere. Benché la rete la facesse automaticamente nemica di Marcello Dell’Utri - a sua volta organizzatore di analoghi circoli giovanili, detti del Buongoverno, e freddo detrattore infatti della Brambilla - Berlusconi la portò in prima linea e, in agosto, depositò insieme a lei dal notaio il marchio di una nuova formazione (dallo statuto amplissimo) detta “Partito della Libertà”. Il senso di questa mossa era molto chiaro: creare un contenitore nel quale fare affluire tutte le liste del centro-destra e prepararsi così a sfruttare al meglio, in caso di vittoria del sì al referendum (vedi GUZZETTA Giovanni), le caratteristiche maggioritarie della legge elettorale. Il 18 novembre, in occasione di una raccolta di firme contro Prodi organizzata col sistema dei gazebo distribuiti su tutto il territorio nazionale, Berlusconi arrivò in piazza San Babila a Milano e annunciò la nascita della nuova formazione: «Con un microfono che non funziona, mezzo nascosto dalla scorta, sotto un gazebo che ondeggia e con tre quarti d’ora di ritardo (...) Nasce qui, o meglio viene annunciato alle 17.17 in piazza San Babila, il nuovo partito. Che si chiamerà Partito del Popolo Italiano, che in sigla fa Ppi, o forse Partito del Popolo e della Libertà, Ppl, ma di sicuro farà parte del Partito Popolare Europeo, Ppe. Per colpa del microfono tra i mille del gazebo l’hanno capito solo le prime file. “Vi ricorderete di essere stati in questa piazza con me”, saluta subito il Cavaliere. Appena due minuti per uno spot politico che rimette Berlusconi a capotavola, almeno nel centrodestra (...) Tra i fedelissimi che lo aspettavano al gelo di piazza San Babila, deputati e senatori e la prezzemolina Michela Vittoria Brambilla, alzi la mano chi l’aveva previsto (...) Però Berlusconi deve aver capito che quei due minuti di spot non potevano bastare, un nuovo partito non può nascere con un comizio da sveltina. E siccome il Ppl o Ppi deve nascere tra la gente, eccolo che va verso la Mercedes che lo aspetta alla fermata del bus 54, apre la portiera, si appoggia al pianale e improvvisa un qualcosa che non è un comizio e nemmeno una conferenza stampa. (...): “Non devo e non voglio convincere nessuno. Se ci stanno, bene. Altrimenti andremo avanti con questa gente”. La gente sono “i più di sette milioni di italiani che hanno firmato ai nostri gazebo per eleggere un governo in armonia con i cittadini e contro i parrucconi della vecchia politica”. Parte da loro il nuovo partito. “La gente è più avanti di noi e questo ci chiede. Mettiamo da parte remore e paure e spero che tutti ci stiano. Sarà il partito dei moderati”. Insiste, con la gente. E i suoi spiegano il perché: il Pd è nato dalla fusione fredda delle segreterie, noi dalla gente, dai 7 milioni dei gazebo. E Berlusconi è ancora in piedi sulla macchina, tra saluti e risposte: “Gazebo aperti tutta la settimana!”» (Giovanni Cerruti). Marcello Sorgi ricostruì così la genesi (soprattutto mentale) di questa invenzione del Cavaliere: «Due, tre anni di gestazione, se ci si riferisce al lavoro preparatorio fatto dalla Fondazione Liberal e diretto da Ferdinando Adornato, un altro di quelli che domenica non è stato avvertito e s’è dimesso per protesta. Un anno solo, se si parte dalla grande manifestazione del 2 dicembre 2006, un giorno “dei più belli della mia vita”, come lo ha definito il Cavaliere. Tra i due punti di partenza non c’è contraddizione, anche se è chiaro, dall’inizio, verso dove pendeva il cuore di Berlusconi. Il lavoro di Liberal procedeva a rilento. Era stata composta una commissione di un centinaio di persone, affittato un intero piano di Palazzo Wedekind a Piazza Colonna, stabilita una certa articolazione/lottizzazione degli incarichi fra i tre partiti (Forza Italia, An e Udc) che avrebbero dovuto confluire nel partito unico. Berlusconi era ancora a Palazzo Chigi, due anni fa, e veniva continuamente invitato a benedire i lavori della commissione. Lo faceva di buon grado. Usciva a piedi, subito circondato dalla folla di fan che lo aspettava per strada, attraversava a passi svelti la piazza, entrava nel palazzo, poi nel salone della commissione, e salutava tutti alla sua maniera, tra sorrisi e battute. Dopo una mezz’oretta, con la scusa di pressanti impegni di governo, se ne tornava in ufficio. Una, due, tre riunioni bastarono a fargli venire la noia. Arrivava motivato e convinto che di lì a poco sarebbe nato il nuovo partito, e trovava tutti intenti a discutere di statuti, princìpi, regole per avviluppare la creatura prima della nascita. Alle sue domande, la risposta era secca: un partito vero si fonda così. Lui ascoltava paziente, ma poi per strada, ai più stretti collaboratori obiettava: “Sarà pure come dicono loro. Ma il popolo, dove sta il popolo, in mezzo a queste carte?”. Fabrizio Cicchitto, il vicecoordinatore nazionale di Forza Italia, si ricorda ancora quella volta che Adornato intrattenne Berlusconi sul Pantheon dei numi tutelari del nuovo partito: “Ci aveva messo dentro di tutto, Dante, Papini, Prezzolini, perfino Pasolini”. Berlusconi ascoltò in silenzio senza entusiasmarsi. Un’altra volta, ed era alla fine del 2005, quando i cento saggi approvarono la Carta dei Valori, Berlusconi tornò al lavoro contrariato. Continuava a chiedere: “Ma il popolo?”, aggirandosi nervosamente tra i muri dell’ufficio. E incredibilmente, per uno come lui abituato a trattare sempre con cortesia qualsiasi tipo di collaboratore, se la prese con un commesso, al quale aveva chiesto un panino, che gli aveva invece portato un tramezzino rinsecchito. Un divario come questo, tra quelli che Berlusconi ancora non chiamava “parrucconi”, e il popolo che lo aspettava sempre per strada, non poteva che aggravarsi dopo la grande manifestazione del 2 dicembre. Berlusconi osannato da una folla festante, messo di fronte a una piazza in cui, con suo grande compiacimento, “le famiglie di Forza Italia marciavano a braccetto con gli ex missini romani e i leghisti padani”, tornò a casa felice di aver visto “finalmente insieme, senza distinzioni, il popolo di centrodestra”. Ormai, dopo la sconfitta elettorale, l’allontanamento di Casini e dell’Udc e con le angustie dell’opposizione, il progetto di Adornato per il Cavaliere era diventato acqua passata. Nel suo futuro c’era solo il popolo, il partito unico e cominciava ad esserci la signora dai capelli rossi, quella Michela Vittoria Brambilla oggi a capo dei circoli e nel cuore politico del Cavaliere. Ad Emilio Fede, che l’aveva conosciuta giovane giornalista, fece un certo effetto ritrovarsela davanti. “Eravamo ad Arcore, il presidente mi fa: ti dispiace se arriva la Brambilla? Ma figurati, dissi. Poi, vedendola arrivare, me ne andai”. A tutt’oggi, un termometro stabile degli umori interni del centrodestra, oltre che di casa Berlusconi, come il Tg4, non ha ancora dedicato un minuto, dicasi un minuto, alla regina dei circoli. Ma per il Cavaliere, già proiettato sul suo popolo e seccato per le resistenze interne del partito a cambiare, anche la fredda accoglienza riservata a MVB fu motivo di amarezza. Lei, la signora, non versava certo acqua sul fuoco, e in un’intervista disse che Dell’Utri e Tremonti, suoi avversari, erano come le mestruazioni: all’inizio fanno male ma poi passano. Una sera di luglio a Napoli in cui, con un caldo asfissiante, la gente lo aspettava a piazza Plebiscito, Berlusconi si rivolse così a Donato Bruno, ex presidente della commissione Affari istituzionali: “Guarda questa gente, con quaranta gradi mi aspettano da ore. Mi sai dire perché non riusciamo a dargli il partito che ci chiedono?”». Fini e Casini reagirono duramente alla creazione del Popolo della Libertà (nome assunto dalla nuova formazione dopo una consultazione popolare). Incontrarono Veltroni, fecero scrivere ai giornali (non tra virgolette) che avrebbero potuto mettere i loro voti a disposizione di Prodi, Fini arrivò al punto di minacciare (tra virgolette) un appoggio al disegno di legge Gentiloni sulla tv, che riformando la Gasparri (vedi) avrebbe ridotto di un buon quinto il mercato di Publitalia.
Caduto Prodi (su cui vedi anche MASTELLA Clemente), Berlusconi andò al voto imponendo a Fini e Casini di confluire nella lista del Popolo della Libertà oppure di correr da soli. Senza apparentamento, le due formazioni non sarebbero entrate a far parte del nuovo governo e non avrebbero goduto della loro parte del premio di maggioranza. Inoltre, correndo da sole, avrebbero dovuto superare uno sbarramento del 4% alla Camera e dell’8%, su base regionale, al Senato. Fini accettò la confluenza, Casini tentò di piegare il Cavaliere ricorrendo anche al Vaticano. Ma inutilmente: Berlusconi lasciò a terra persino Giuliano Ferrara e accettò, accanto a quello del PdL, solo i simboli della Lega, a Nord, e della Movimento per l’Autonomia di Raffaele Lombardo al Sud. L’Udc corse da sola e ottenne una rappresentanza parlamentare sparuta e ininfluente, condannandosi, almeno per la XVI legislatura, all’irrilevanza politica.
Berlusconi condusse una campagna elettorale tranquilla, specie se paragonata ai fuochi d’artificio del 2001. Due ragioni: la grave crisi economica incombente, che lo sconsigliò dal far promesse mirabolanti, e l’eventualità di dovere dialogare davvero con Veltroni dopo il voto fissato per il 13-14 aprile 2008.
Il PdL vinse col 45,7 alla Camera e il 47,18 al Senato, contro il 37,39 e il 38,12 dei Ds che s’erano apparentati con l’Italia dei Valori di Di Pietro. Luca Ricolfi: «Gli storici di domani parleranno del periodo 1994-2013 come oggi noi parliamo del fascismo. In che senso? Non certo nel senso che l’Italia di oggi abbia tratti fascisti, ma nel senso che entrambi saranno visti come due periodi storici piuttosto lunghi, piuttosto omogenei, e dominati da una figura politica centrale, Mussolini nel ventennio fascista, Berlusconi in quello - appunto - berlusconiano. Lo storico di domani sarà meno accecato dall’amore e dall’odio di quanto lo siamo noi oggi, e quindi riuscirà a vedere le cose freddamente. Naturalmente ci saranno gli storici di sinistra, che giudicheranno negativamente “il ventennio”, e ci saranno gli storici di destra, che lo giudicheranno positivamente. Ma quel che entrambi si chiederanno è: perché? Perché la sinistra è uscita sconfitta da Tangentopoli e dalla crisi della prima Repubblica (1994)? Perché è stata sconfitta di nuovo nel 2001 e nel 2008? Perché per vent’anni è stata succube, come ipnotizzata, dalla figura del Cavaliere?».
Berlusconi formò il seguente governo (Berlusconi IV): Silvio Berlusconi, presidente del Consiglio; Franco Frattini agli Esteri, Roberto Maroni agli Interni, Giulio Tremonti all’Economia, Ignazio La Russa alla Difesa, Angelo Alfano alla Giustizia, Maristella Gelmini all’Istruzione, Sandro Bondi ai Beni culturali, Claudio Scajola allo Sviluppo Economico, Altero Matteoli alle Infrastrutture, Maurizio Sacconi al Welfare, Luca Zaia alle Politiche agricole, Stefania Prestigiacomo all’Ambiente. Senza portafoglio: Umberto Bossi alle Riforme, Raffaele Fitto ai Rapporti con le Regioni, Elio Vito ai Rapporti col Parlamento, Andrea Ronchi alle Politiche europee, Renato Brunetta alla Pubblica amministrazione, Roberto Calderoli alla Semplificazione, Giorgia Meloni alle Politiche giovanili, Mara Carfagna alle Pari opportunità, Gianfranco Rotondi al Programma.
In campagna elettorale Berlusconi aveva promesso che nei primi cento giorni avrebbe abolito l’Ici (tassa comunale sulla prima casa), ripulito Napoli dalla spazzatura e venduto Alitalia a una cordata di imprenditori che l’avrebbero rilanciata preservandone l’italianità.
L’Ici sulla prima casa venne abolita in un consiglio dei ministri straordinario che si tenne a Napoli il 21 maggio 2008. Trattandosi di una tassa locale ed essendo il governo impegnato a varare una riforma federale centrata soprattutto sul fisco, il provvedimento venne criticato. E infatti Bossi - spinto dai sindaci del Nord - a Ferragosto chiese che venisse ripristinata. Calderoli annunciò allora la creazione di una tassa di servizio, all’interno della riforma federalista. Berlusconi negò con forza ciascuna di queste ipotesi. Nel momento in cui consegniamo questo libro è stata varata da un consiglio dei ministri tenutosi l’11 settembre 2009 un’ipotesi “preliminare” di riorganizzazione federalista (vedi CALDEROLI Roberto), priva però di numeri e impossibile quindi da analizzare. Il 18 luglio 2008 Berlusconi tenne un altro consiglio dei ministri a Napoli per certificare che, almeno dalla città, la spazzatura era sparita. Il direttore del Mattino Mario Orfeo, per verificare la verità dell’assunto, mise un suo giornalista (Pietro Treccagnoli) su un elicottero e gli fece sorvolare il centro abitato. I cumuli d’immondizia erano effettivamente spariti da Napoli, anche se erano ancora presenti in molti punti della provincia e della regione. Questo risultato era stato ottenuto attraverso la riattivazione delle due discariche di Savignano Irpino (provincia di Avellino) e di Sant’Arcangelo Trimonti (Benevento). Evitando la chiusura di Macchia Soprana. Ristabilendo i viaggi verso la Germania (cinque treni a settimana, ciascuno ogni volta con mille tonnellate di rifiuti). Infine facendosi aiutare da Piemonte, Lombardia, Puglia e Veneto, quattro Regioni che accettarono di smaltire la roba di Napoli. Essenziale fu per il successo dell’operazione la creazione di una Superprocura campana incaricata di occuparsi di tutti i reati connessi ai rifiuti e i cui pm erano legittimati a intervenire solo a seguito di decisione collegiale (decreto del 24 maggio 2008). In questo modo si riuscì a tenere aperta Macchia Soprana. La Procura di Napoli reagì mettendo sotto inchiesta il prefetto Pansa e facendo arrestare 25 manager che si erano occupati di discariche negli ultimi anni: tra questi Marta Di Gennaro, braccio destro di Guido Bertolaso, che Berlusconi aveva nuovamente nominato Commissario all’emergenza rifiuti. Questa inchiesta è ancora in corso, senza sviluppi apprezzabili al momento, nel giorno in cui consegniamo questo libro.
Durante la campagna elettorale, Berlusconi era intervenuto sulla tentata vendita di Alitalia ad Air France dichiarando che si trattava in realtà di una svendita e che l’azienda andava mantenuta in mani italiane (su questo vedi la voce PADOA-SCHIOPPA Tommaso). Tornato al governo, incaricò l’amministratore delegato di Banca Intesa, Corrado Passera, di preparare un piano industriale e mettere insieme una cordata di imprenditori. Nell’affidarsi proprio a Passera, c’era una punta di malizia: il presidente di Banca Intesa, Giovanni Bazoli, era generalmente considerato un forte supporter di Prodi (e infatti su tutta la vicenda non ha mai rilasciato una dichiarazione). D’altra parte, l’interesse di Intesa a una soluzione del problema che coinvolgesse anche Air One era evidente, dato che la compagnia di Carlo Toto doveva restituire alla banca 600 milioni. Mentre Passera radunava intorno a una società detta Cai (Compagnia Aerea Italiana) 16 imprenditori disposti a sborsare complessivamente un miliardo, il governo modificava con un decreto la vecchia legge Marzano, preparata nel 2003 per il salvataggio di Parmalat. I 16 imprenditori fondatori di Cai erano: Roberto Colaninno tramite Immsi, gruppo Benetton tramite Atlantia, Gruppo Aponte, Gruppo Riva, Gruppo Fratini tramite Fingen, gruppo Ligresti tramite Fonsai, Equinox, Clessidra, gruppo Toto, gruppo Fossati tramite Findim, Marcegaglia, Bellavista Caltagirone tramite Acqua Marcia, Gruppo Gavio tramite Argo, Davide Maccagnani tramite Macca, Marco Tronchetti Provera e Intesa Sanpaolo. Il testo della Marzano modificata sospendeva per sei mesi le regole antitrust, attenuava le garanzie per azionisti e creditori, rendeva possibile la vendita della parte buona di Alitalia salvando gli acquirenti (almeno in teoria) da futuri ricorsi. Inizialmente il piano prevedeva un’offerta d’acquisto di 450 milioni (la polpa Alitalia senza i debiti), fra i 3 e i 4 mila esuberi, un taglio degli stipendi del 20%, un aumento della produttività di circa un terzo, l’organizzazione logistica dei voli non su un singolo hub, ma su sei aeroporti (Milano, Venezia, Torino, Roma, Napoli, Catania), cosa che avrebbe comportato per il personale trasferimenti assai sgraditi. Il presidente di Cai, Roberto Colaninno, spiegò ai sindacati che la nuova proprietà non avrebbe tollerato la presenza di nove sigle e che dunque i sindacati si riunissero in una Rsu, si presentassero alla controparte avendo una sola voce e risolvessero tra di loro i differenti punti di vista. Inoltre il gruppo dirigente di Cai (come amministratore della società era stato scelto Rocco Sabelli) non intendeva cedere ai sindacalisti (qui il discorso riguardava soprattutto i piloti riuniti nei sindacati Anpac e Up) nessuno dei poteri decisionali che la vecchia Alitalia aveva loro delegato per debolezza. Si sarebbe anche dovuta chiudere la trattativa in fretta dato che la compagnia, nel frattempo messa in liquidazione e affidata al commissario Augusto Fantozzi, aveva un’autonomia finanziaria molto ridotta. La Cisl di Bonanni (principale responsabile della fuga di Air One nella primavera precedente) firmò quasi subito e così pure la Uil e la Ugl di Renata Polverini. Le cinque sigle dei sindacati autonomi, che rappresentavano piloti, assistenti di volo e personale di terra, si opposero con molta forza. La firma della Cgil, che condivideva la proposta sottoscritta da Bonanni e dagli altri, venne però bloccata da Epifani con la scusa «che una compagnia senza piloti non può volare». Dietro questa posizione singolare - con la quale il sindacato nazionale aveva bloccato la propria articolazione di categoria (il segretario confederale della Cgil Trasporti, Fabrizio Solari, era pronto a firmare) - c’era la mano di Veltroni deciso a impedire un altro successo di Berlusconi, dopo quello dei rifiuti in Campania. Saputo del “no” Cgil, però, la Cai ritirò l’offerta d’acquisto e il commissario annunciò che, esauriti i soldi e le scorte di benzina, avrebbe portato i libri in tribunale chiedendo il fallimento. Era cioè una questione di pochi giorni. Intanto un migliaio di dipendenti, convinti evidentemente che, ritirandosi Cai, lo Stato sarebbe rientrato e avrebbe mantenuto i privilegi di prima, si fece riprendere dalle telecamere a Fiumicino mentre gridava in coro «Mejo falliti/ che anna’ co’ ’sti banditi».
I sondaggi mostrarono però che gli italiani non avevano alcuna simpatia per i lavoratori Alitalia, percepiti come dei privilegiati negli anni della fortuna e dei privilegiati anche al momento della disgrazia dato che il governo aveva garantito agli esuberi - tra cassa integrazione e mobilità - sette anni d’assegno. Veltroni verificò facilmente che l’opinione pubblica avrebbe attribuito soprattutto a lui e alla Cgil la responsabilità del default - non così abominevole nell’opinione dei più - e che il danno d’immagine per Berlusconi sarebbe stato tutto sommato limitato. Berlusconi disse poi che su Veltroni era intervenuto lo stesso D’Alema, per ricondurlo alla ragione, circostanza che è stata negata da tutti e due. Mentre consegniamo questo libro, quindi, la crisi Alitalia sembra risolta. Si sa che un partner straniero prenderà una quota di minoranza, ma non si sa ancora se si tratterà di Lufthansa (come vuole la Lega), di Air France o di British Airways.
Berlusconi si difese dall’ultimo processo ancora aperto contro di lui (il tentativo di corruzione di David Mills testimone in due processi del 1997 e 1998: vedi GANDUS Nicoletta) costringendo il Parlamento ad approvare a tappe forzate (22 luglio 2008) il cosiddetto lodo Alfano che sospende qualunque iniziativa giudiziaria, per qualunque ragione intrapresa, contro le prime quattro cariche dello Stato: presidente della Repubblica, presidenti di Senato e Camera, presidente del Consiglio. Il premier resta fermo nella sua idea di riformare la giustizia, separando le carriere di pm e giudici e riformando il Csm in modo da aumentare la rappresentanza politica e diminuire quella giudiziaria. Il capo dell’Idv, Di Pietro, ha annunciato un referendum abrogativo del lodo Alfano, contro il quale è stato presentato un ricorso alla Corte costituzionale dal pm Fabio Di Pasquale.
Problemi di salute: s’è operato al menisco (novembre 2006), il 12 novembre 2006, sul palco del Palazzetto dello sport di Montecatini, ha avuto un mancamento (disidratazione: quando ha riaperto gli occhi, vedendo incombere su di lui il medico Giuseppe Papaccioli che ha una lunga barba sale e pepe, ha esclamato. «Ma chi sei, Bin Laden?»), il 17 dicembre 2006 il professor Andrea Natale lo ha operato di un disturbo al ritmo cardiaco nell’Heart Center di Cleveland.
L’8 dicembre 2007 s’è presentato a Napoli con una t-shirt sotto la giacca, fatto mai accaduto primo ed elogiato in genere dagli stilisti. L’evento ha provocato inchieste sul rapporto tra Berlusconi e i pullover, che il presidente del Consiglio adopera regolarmente nell’intimità (sempre di color blu).
Il 3 febbraio 2008, domenica, gli è morta la mamma, molto amata, Rosa Bossi Berlusconi (Milano, 1911-2008).
Grazie alla figlia Barbara, è diventato nonno per la quarta volta.
Per le altre iniziative del Berlusconi IV vedi, tra l’altro, alle voci BOSSI Umberto, BRUNETTA Renato, CALDEROLI Roberto, GELMINI Mariastella, MARONI Roberto, MATTEOLI Altero, TREMONTI Giulio. Per le questioni relative ai rapporti con la moglie vedi BERLUSCONI Veronica.
Vita Primo dei tre figli di Luigi Berlusconi (Saronno 1908-Milano 1989), funzionario e poi direttore della Banca Rasini, alla cui memoria è stato intitolato un torneo di calcio che si disputa in genere prima del campionato; e di Rosa Bossi, già stenografa-dattilografa alla Pirelli (defunta nel 2008). I due fratelli si chiamano Paolo (vedi) e Maria Antonietta (Como 9 giugno 1943). Infanzia qualunque a Milano, medie e liceo al Sant’Ambrogio dei salesiani di via Copernico 9, laurea alla Statale con una tesi intitolata Il contratto di pubblicità per inserzione (lode e premio di due milioni come primo classificato al concorso indetto dalla Manzoni). Aveva 25 anni e parecchie esperienze lavorative alle spalle: a 14 anni tre mesi di barista a Clusone, durante l’università fotografo di matrimoni e funerali (Time), agente immobiliare, rappresentante di elettrodomestici, cantante nel complessino di Fedele Confalonieri con cui andava anche in crociera. Appena laureato si dà all’edilizia, partendo da un terreno in via Alciati a Milano, 190 milioni garantiti dal padre. La madre Rosa su questo inizio che i suoi avversari qualificano come oscuro: «Carlo Rasini, proprietario della banca dove lavorava mio marito, gli concesse un prestito. Noi gli demmo tutto quello che avevamo da parte. “Però ricòrdati che di figli ne ho tre”, gli disse suo padre, “perciò un giorno dovrai aiutare la Maria Antonietta e il Paolo”. Alla fine mio marito lasciò la banca per seguire le imprese di Silvio. In casa avevamo valigie piene di cambiali. Ogni tanto el me Gino diseva: “Rosella, me buti giò de la finestra”» (Stefano Lorenzetto).
Costruisce a Brugherio e poi a Segrate Est il complesso oggi noto come Milano 2 (Alexander Stille: «un bizzarro mix tra la città ideale del Rinascimento italiano e una versione sterilizzata e un po’ kitsch del sogno suburbano americano»). Entra poi nel business della tv per offrire agli abitanti di Milano 2 un servizio in più, una televisione via cavo riservata. La chiama Telemilano e comincia a trasmettere il 24 settembre 1974. La sede viene sistemata nella sala congressi dell’hotel Jolly di Milano 2. Guido Medail, che partecipò all’impresa: «La prima trasmissione fu un’intervista fatta in francese e senza traduzione al capo della resistenza curda. Trasmettevamo soprattutto dibattiti politici. Accettarono di venire anche Eugenio Scalfari (che non aveva ancora fondato Repubblica), Giorgio Bocca, Massimo Fini. Qualche film che piratavamo ai preti delle edizioni San Paolo. Berlusconi si faceva sentire di rado» (Maurizio Caverzan). Nel 1976 la Corte Costituzionale sentenziò che in Italia l’emittenza privata era ammessa, ma solo in ambito locale. Medail racconta di aver sentito Berlusconi calcolare ad alta voce che a quel punto Telemilano avrebbe potuto produrre programmi da vendere alle altre tv private (in quel momento erano 434) finanziandosi con la pubblicità da inserire nelle trasmissioni. “Telemilano via cavo” fu perciò trasformata in “Telemilano 58”, rete locale via etere, ed ebbe inizio l’escalation televisiva le cui tappe fondamentali furono: 1) assunzione di Mike Bongiorno; 2) assunzione di Adriano Galliani; 3) interconnesione funzionale; 4) acquisizione dei diritti del Mundialito; 5) acquisto di Italiauno da Rusconi; 6) acquisto di Retequattro da Mondadori.
Sul primo punto vedi BONGIORNO Mike. Sul secondo punto: Galliani, che fabbricava apparati per ricevere le tv estere, s’era messo in testa di diffondere con quel sistema le tv locali in Italia, non riuscì a far società né con Rusconi né con Rizzoli né con Mondadori e si vide offrire un miliardo di lire da Berlusconi per il 50% della sua Elettronica Industriale (1 novembre 1979). Sul terzo punto: l’avvocato Aldo Bonomo (1929-2005) inventò l’interconnessione funzionale, un grimaldello giuridico che consentiva a Telemilano, ribattezzata intanto Canale 5 al Nord e Canale 10 al Centro e al Sud, di trasmettere in tutta Italia: in pratica si trattava di registrare una cassetta del programma e di farla avere subito alle altre emittenti, in modo che la trasmissione, sia pure distanziata di qualche minuto o di qualche secondo, venisse di fatto irradiata su tutto il territorio nazionale. Sul quarto punto: «Il Mundialito per nazioni è un torneo di calcio che nel 1981 si è svolto in Uruguay (dal 30 dicembre 1980 al 10 gennaio 1981) e di cui Canale 5 ha acquistato i diritti, dando il via alla competizione con la Rai. Il primo tentativo del network Fininvest di scalzare il monopolio delle reti di stato sulle dirette sportive è stato seguito da un’operazione ben più consistente: il 16 giugno del 1982 Canale 5 ha prodotto il suo torneo per squadre di club (ripetendolo il 25 giugno 1983 e il 22 giugno 1987). Questo Mundialito, uno dei primi grandi impegni produttivi della rete privata, è totalmente predisposto in funzione delle telecamere, secondo una formula già collaudata dalla televisione americana. Inquadrature tempestive del dettaglio, utilizzo opportuno del replay da tre angolazioni diverse, una dozzina di telecamere, due telecronisti e interviste dalla tribuna e a bordo campo in ogni intervallo di gioco fanno della telecronaca uno spettacolo e dello sport un evento mediatico» (Aldo Grasso). Sui punti 5 e 6: l’editore Edilio Rusconi, avendo verificato che i costi di produzione della sua Italiauno (creata il 3 gennaio 1982) superavano senza speranza i ricavi, la vendette a Berlusconi per 35 miliardi di lire (fine 82); allo stesso modo Mario Formenton, direttore generale della Mondadori padrona di Retequattro (fondata con Carlo Perrone e Carlo Caracciolo il 4 gennaio 1982 e comprendente 23 emittenti locali), sbaragliato da Canale 5 che contro il suo Venti di guerra (acquistato dall’americana Abc) aveva controprogrammato Uccelli di rovo e Dallas, fu costretto a dimettersi e il suo successore Leonardo Mondadori, per far fronte a un buco che stava mettendo a rischio la stessa casa editrice, preferì cedere Retequattro a Berlusconi per 135 miliardi di lire (28 agosto 1984) All’attacco dei pretori di Roma, Torino e Pescara, che nell’ottobre del 1984 gli oscurarono le reti sostenendo che l’interconnessione funzionale era fuori legge, Berlusconi rispose chiedendo aiuto al suo grande protettore, il presidente del Consiglio Bettino Craxi, in quel momento a Londra in visita ufficiale. Craxi tornò di corsa a Roma e emanò un decreto che consentiva a Berlusconi di trasmettere in attesa della legge che avrebbe regolamentato il settore e che il parlamento italiano approvò poi solo nel 1990 (legge Mammì, vedi MAMMÌ Oscar). Il ruolo di Craxi, segretario del Partito socialista italiano dal 1976, fu fondamentale nell’ascesa di Berlusconi per almeno tre ragioni: 1) gli consentì di operare in regime di “deregulation”, cioè senza norme che ne limitassero l’attività (fino al 1990); 2) operò attraverso il presidente socialista della Rai, Enrico Manca, affinché l’azienda di Stato tenesse un profilo concorrenziale basso (pax televisiva); 3) gli procurò un vasto credito bancario, imperniato soprattutto sulla Banca Nazionale del Lavoro, di cui il Psi era il referente politico. Si tenga conto che negli anni Ottanta Berlusconi mise in moto investimenti molto rilevanti sia per comprare all’estero pacchetti di film e di programmi televisivi sia per sottrarre alla Rai i migliori comici, presentatori, giornalisti sia per finanziare le altre sue attività, sempre più imponenti: acquisto da Giussi Farina del Milan (10 febbraio 1986, ne diventerà presidente il 24 marzo dello stesso anno), che dopo una formidabile opera di potenziamento renderà la squadra più vincente della storia del calcio; acquisto del pacchetto di maggioranza assoluta del quotidiano di Indro Montanelli, Il Giornale, di cui aveva preso il 12 per cento nel 1977 e il 37,5 nel 1979 (passato poi al fratello Paolo quando la legge Mammì proibì ai proprietari di televisioni di possedere anche quotidiani); acquisto della casa editrice Mondadori al termine di un’aspra battaglia legale e finanziaria con Carlo De Benedetti (l’erede Luca Formenton s’era impegnato a vendere la sua quota a De Benedetti e cambiò idea, cedendola a Berlusconi, poco prima che il patto sottoscritto venisse a scadenza: vedi anche SCALFARI Eugenio); ingresso nel mondo della finanza (Mediolanum con Ennio Doris) e della distribuzione (Standa); continuazione dell’attività edilizia. Berlusconi operò allora attraverso un’imponente rete di società, le principali delle quali erano la capogruppo Fininvest, posseduta inizialmente da 20 lussemburghesi (oggi dismesse), la Mediaset, dove furono raggruppate le reti televisive, e Publitalia, incaricata di vendere gli spot da mandare in onda su Canale 5, Italiauno e Retequattro (in ordine di importanza). L’esplodere di Tangentopoli – l’inchiesta che a partire dal 1992-93 mise in luce un vasto giro di corruzione politica – e la conseguente scomparsa dalla scena di Craxi indussero Berlusconi a intraprendere l’attività politica («scendere in campo», secondo la sua espressione). Esordio vero il 24 novembre 1993 quando, interrogato da un cronista sulle imminenti elezioni per il sindaco di Roma, disse che tra Francesco Rutelli, candidato delle sinistre, e Gianfranco Fini, candidato della destra e soprattutto segretario del “partito fascista”, avrebbe votato senz’altro per Fini (battuta che di fatto sdoganò il Msi). E infatti, quando si presentò alle elezioni del 1994, Berlusconi guidava un cartello formato dal partito Forza Italia, da lui fondato nel 1993, dal Msi-An, dalla Lega Nord – la formazione di Umberto Bossi che predicava la secessione dall’Italia della Padania –, dal Centro cristiano democratico e dall’Unione del centro democratico (due formazioni di risulta della Dc scomparsa causa Tangentopoli).
Come mai Berlusconi, che pareva diventato un imprenditore molto ricco e potente, sentì il bisogno di entrare in politica dopo la caduta di Craxi? Bruno Vespa: «Nel 1993 la Fininvest aveva 3.500 miliardi di debiti e si può immaginare che se le elezioni del 1994 avessero spazzato via Berlusconi come un fuscello, non tutti i banchieri sarebbero stati generosi con lui. Il Cavaliere (soprannome che la stampa adopera spesso, per via della nomina ricevuta da Giovanni Leone - ndr) restò spiazzato quando la Banca Nazionale del Lavoro, sul cui appoggio contava, gli chiese di rientrare. Enrico Cuccia voleva affondarlo».
L’annuncio della discesa in campo (26 gennaio 1994: vedi anche URBANI Giuliano) provocò una eco enorme. Berlusconi registrò un discorso su una cassetta e la mandò a tutti i telegiornali. Si fece riprendere in una luce morbida, dietro una scrivania, circondato dai libri e con le foto dei cari, incorniciate, bene in vista. Sorridente, rassicurante, inappuntabile: «Ho scelto di scendere in campo e di occuparmi della cosa pubblica perché non voglio vivere in un paese illiberale, governato da forze immature e da uomini legati a un passato fallimentare. Affinché il nuovo sistema funzioni, è indispensabile che alla sinistra si opponga un Polo delle Libertà capace di attrarre a sé il meglio di un paese pulito, ragionevole, moderno».
Al voto del 27 marzo 1994 la coalizione di centrodestra vinse col 42,9 per cento dei voti e Berlusconi diventò presidente del Consiglio. Cadde però dopo pochi mesi (22 dicembre 1994) per l’uscita della Lega (“ribaltone”), contraria a provvedimenti che colpissero le pensioni e delusa dal poco impegno della coalizione sul federalismo. Berlusconi non riuscì a tornare al governo prima del 2001. Nel frattempo rese chiari i fondamenti del proprio progetto politico: maggiori poteri all’esecutivo, separazione delle carriere tra magistratura inquirente e magistratura giudicante, federalismo. Discusse queste riforme nella cosiddetta Commissione Bicamerale presieduta da Massimo D’Alema, a quel tempo capo dei postcomunisti e da quel momento suo interlocutore principale. Alle elezioni del 18 aprile 2001Berlusconi si presentò avendo rafforzato Forza Italia e riportato la Lega dalla sua parte. Pronto a investire 100 miliardi di lire nella campagna elettorale, basata su enormi manifesti azzurri sui quali campeggiavano il suo volto e slogan assai facili («Meno tasse per tutti» ecc.), fece stampare in 12 milioni di copie una sua agiografia intitolata Una storia italiana spedita a tutti i capifamiglia (21 miliardi di lire di investimento per la stampa e 15 per la spedizione). Gli avversari, capitanati da Rutelli, gli risposero con una serie di attacchi in televisione: Daniele Luttazzi, Marco Travaglio, Michele Santoro, Enzo Biagi lo accusarono dal piccolo schermo, e in genere nel momento di massimo ascolto, di essere un ladro, un evasore fiscale, un corruttore, un capomafia ecc. Berlusconi rispose sottoscrivendo nella trasmissione Porta a Porta di Bruno Vespa un contratto con gli italiani nel quale si impegnava ad abbattere la pressione fiscale, diminuire la criminalità, alzare le pensioni minime ad almeno un milione di lire al mese, creare un milione e mezzo di nuovi posti di lavoro, aprire almeno il 40 per cento dei cantieri previsti dal Piano decennale delle Grandi opere. Vinse poi le elezioni con una maggioranza schiacciante (Forza Italia da sola ebbe il 29,4% dei voti).
I suoi cinque anni di governo si caratterizzarono in politica estera per l’appoggio incondizionato dato agli Stati Uniti di Bush (missioni in Afghanistan e in Iraq), la linea nettamente filoisraeliana e implicitamente antiaraba (contraddicendo con questo una lunga tradizione di relazioni ambigue dei nostri governanti con i paesi mediorientali), i cattivi rapporti con francesi e tedeschi (vedi lo scambio di insulti con Martin Schultz durante una celebre seduta del Parlamento europeo riprodotta poi nel Caimano di Nanni Moretti), l’asse con Aznar e Tony Blair e una propensione antieuropeista esplicitata nelle polemiche sulla moneta unica. In politica interna per la riforma del mercato del lavoro (reso più flessibile grazie alla legge Biagi), per quella delle pensioni (poi modificata da Prodi), per quella dell’emittenza (vedi GASPARRI Maurizio) e per quella della devoluzione o federalismo, poi bocciata dal referendum del 25-26 giugno 2006. Luca Ricolfi, politologo vicino al centrosinistra, alla fine del quinquennio di governo berlusconiano calcolò che il contratto con gli italiani sottoscritto durante Porta a Porta era stato rispettato al 60 per cento.
Le accuse e i processi Contro Berlusconi, specialmente da quando annunciò la decisione di entrare in politica, si è scatenata una pubblicistica di mole impressionante. I processi che gli sono stati intentati dalla magistratura non si contano. Diamo qui la lista delle imputazioni principali:
Le origini della ricchezza di Berlusconi sono misteriose e si sa comunque che, ai tempi in cui faceva il costruttore, ha pagato un mucchio di tangenti per costruire in deroga ai piani regolatori, per piazzare appartamenti altrimenti invendibili, per far spostare le rotte degli aerei che davano fastidio agli inquilini di Milano 2 ecc.;
Ha assunto come stalliere nella sua villa di Arcore un mafioso, Vittorio Mangano, e questo - insieme con altri indizi - dimostra che è sempre stato alleato con la mafia. I contatti con la mafia li teneva il palermitano Marcello Dell’Utri, suo braccio destro, che ha fatto per molto tempo la spola tra Milano e Palermo;
Ha corrotto i parlamentari per farsi approvare la legge Mammì che, nel 1990, rese legali le sue reti televisive;
Ha corrotto i giudici che, nella vertenza contro Carlo De Benedetti, gli assegnarono la Mondadori;
Ha partecipato all’opera di corruzione relativa alla mancata vendita della Sme da parte dell’Iri di Romano Prodi a Carlo De Benedetti (1985-86: Berlusconi intervenne sostenendo l’offerta di una cordata concorrente per fare un piacere a Craxi che non voleva far prendere la Sme a De Benedetti, nel 2007 fu assolto dall’accusa di concorso in corruzione);
Ha corrotto la Guardia di Finanza e ha pagato in nero, con complessi giri estero su estero, molti diritti su film, soap opera ecc.;
Si è iscritto alla loggia massonica P2 (26 gennaio 1978, tessera 1816) e ha poi fatto lavorare per sé il faccendiere Flavio Carboni, coinvolto anche nell’affare Roberto Calvi;
Da quando si è dedicato alla politica, è in perenne conflitto di interessi: controlla il 50 per cento dell’informazione televisiva e, quando occupa Palazzo Chigi, anche l’altro 50 per cento, attraverso la Rai. Essendo poi presente come imprenditore in tutti i settori dell’economia, qualunque legge va a suo beneficio. Da tutti i suoi guai giudiziari Berlusconi è finora uscito indenne: il 29 aprile 2007 è uscito totalmente assolto anche dalla vertenza Sme. Restano in piedi il processo Mills, sospeso grazie al lodo Alfano (vedi GANDUS Nicoletta) e una richiesta di rinvio a giudizio della Procura di Napoli per aver raccomandato cinque attricette ad Agostino Saccà (gennaio 2008).
Il 15 maggio 2007 Berlusconi annunciò di aver speso, fino a quel momento, 280 miliardi di lire in avvocati. Aggiunse: «Sabato scorso si è tenuta la 2235esima udienza contro di me. Un record assolutamente imbattibile nella storia dell’uomo». Bruno Vespa: «Ho fatto una verifica presso gli uffici legali che assistono il Cavaliere e mi è stato detto che nel gennaio 1994 Berlusconi non aveva nessun procedimento a carico (...) In compenso, dopo aver deciso di fare politica, Berlusconi fu il destinatario, da parte della Procura di Milano, di 17 inchieste nel 1994 e di altre 23 nel 1995 (...) Perché tutto questo è cominciato con la discesa in campo del Cavaliere, visto che qualche mese prima non c’era niente a suo carico? Quando lo chiesi a Francesco Saverio Borrelli, il procuratore mi rispose sostenendo che, quando una persona appare sul proscenio, è più facile che arrivino informazioni sul suo conto». Vespa, che è convinto della persecuzione giudiziaria, cita il caso del calciatore Gianluigi Lentini, pagato in nero da Berlusconi che fu per questo rinviato a giudizio. A Gianni Agnelli, che aveva fatto la stessa cosa per Dino Baggio, nessuno torse un capello.
Vita privata Due mogli, cinque figli. Prima moglie: «Berlusconi, una mattina, passa davanti alla Stazione Centrale. Lo attende l’imprevisto. Si chiama Carla Elvira Lucia Dall’Oglio (La Spezia 12 settembre 1940). Sta aspettando l’autobus. Improvvisamente Berlusconi dimentica tutto. Si presenta, scherza, si offre di accompagnarla a casa. Lei tergiversa e infine accetta» (da Storia di un italiano). Si sposarono il 6 marzo 1965. Due figli: Marina e Piersilvio.
Seconda moglie, l’attrice bolognese Miriam Bartolini, in arte Veronica Lario: «Il caso volle che mi trovassi a Milano. Una persona, che lavorava nella compagnia di Alberto Lionello e di cui ero amica, mi invitò a partecipare a una cena in casa del giovane imprenditore che da poco aveva comprato il teatro Manzoni... Il padrone di casa ci accolse “scompagnato” e mi sembrò single nel modo di porsi ai presenti. Era la prima volta che lui entrava nella mia vita e col tempo imparai che quel suo modo di voler apparire “solitario” era una costante della sua personalità. Imparai che già era accaduto prima e negli anni sarebbe accaduto anche dopo... Anch’io, come le altre e numerose giovani ospiti della serata, ottenni un poco della sua svolazzante e onnipresente attenzione. Nel suo sforzo appassionato non fu ingeneroso di sorrisi... A parte i sorrisi, quella sera finì lì».
Berlusconi e Veronica si frequentarono benché lui fosse ancora sposato. La sistemò, con la madre, in un appartamento vicino al suo ufficio. Nel 1984 nacque Barbara. L’anno dopo divorziò dalla Dall’Oglio che si trasferì poi nel Dorset, in Inghilterra. Nel 1986, sempre dalla sua relazione con Veronica, nacque Eleonora, nel 1988 Luigi. Si sposarono il 15 dicembre 1990, testimoni i coniugi Craxi (Bettino aveva già fatto il padrino di battesimo a Barbara), Fedele Confalonieri, Gianni Letta.
Fisico «Ci ho messo tanti anni per diventare così giovane» (spegnendo le candeline sulla torta del 68° compleanno).
Il suo cruccio è l’altezza. Ad Augusto Minzolini disse: «Lei quanto è alto? Un metro e 78? Non esageri. Venga qui allo specchio, vede, io sono alto un metro e 71. Ma le pare che un uomo alto un metro e 71 possa essere definito un nano?». Claudio Rinaldi riferì la seguente osservazione di Berlusconi: «Ai miei tempi potevo dirmi abbastanza alto, oggi con le nuove generazioni confesso di essere sotto la media. Ma non significa essere così nano come mi dipinge la satira». Corrado Guzzanti, che fece un programma intitolato L’ottavo nano, gli rispose: «Chiariamo subito che l’ottavo nano non è Berlusconi. Lui non si è classificato ottavo». Giuseppe Ayala sostiene che Berlusconi non sa e non vuole sapere la sua altezza. A Palazzo Chigi gli attribuiscono un 1,65. Valeria Paniccia ha raccontato che Mario Catalano, già regista di Buona Domenica e Risatissima, sarebbe l’inventore del “sopralzo”, un gradino posto dietro al podio che, adoperato per esempio alla Conferenza Intergovernativa di Roma del 2003, lo fece sembrare più alto di Prodi e della stessa statura di Pat Cox. Alessandra Stanley, del New York Times: «Misurando soltanto un metro e sessantasette, Berlusconi il problema della statura lo sente. Nelle conferenze stampa i suoi collaboratori gli sistemano un cuscino sulla sedia perché appaia alto come gli altri. E quando c’è una foto di gruppo, si alza sulla punta dei piedi subito prima del flash». Giorgio Dell’Arti nel 1994 parlò di due suolette in neoprene termodeformabile da un centimetro e mezzo l’una, che metterebbe sotto i tacchi delle scarpe, una all’esterno (alzatacco) e una all’interno (talloniere o tallonette). In questo modo fra l’altro si distribuisce meglio il peso del corpo e ci si stanca di meno a stare in piedi. Davanti ad Anna La Rosa, però, che lo aveva provocato con una domanda sull’alzatacco, «Berlusconi ha alzato il piede e ha detto: “Guardi, non è vero niente”». Pippo Baudoha testimoniato che ha capelli molto sottili, «capelli d’angelo». Ha combattuto la calvizie con i trapianti, realizzati nello studio del professor Piero Rosati, via Piangipane 141, Ferrara. Per ripararsi il capo dal primo intervento (aprile 2004), si coprì con una bandana con la quale lo fotografarono a Porto Cervo. Avendo passeggiato in quella foggia vicino a Tony Blair, gliene venne un successo internazionale: nel grande magazzino Harvey Nichols di Londra le bandane bianche e nere di John Galliano da 120 euro vennero esaurite in una mattina. Ottomila tifosi del Livorno, volendo festeggiare il ritorno in serie A della loro squadra, si fecero fare a Napoli delle bandane da 3 euro e con quelle in testa affollarono gli spalti per la partita con il Milan (11 settembre 2004, 2 a 2). Dopo il secondo trapianto, avvenuto il 5 agosto 2005, rinunciò alle bandane.
«Si sveglia alle 7, va a letto non prima delle due. Lo faceva prima del bypass, lo continua a fare. Inizia con del tè, gli piace lo yogurt, le buone intenzioni inseguono pochi carboidrati e molto pesce, molte verdure (in Sardegna una cucina di quasi 100 metri quadrati ospita 4 forni, uno solo per i cibi da cuocere a vapore). Che sia ad Arcore o a Roma, Berlusconi prende appuntamenti ogni 15 o 30 minuti: accoglie nel suo studio fra 10 e 20 persone diverse, ogni giorno. Il riposino dopo pranzo non esiste, al massimo un pisolino ricarica le batterie negli spostamenti: in macchina o in aereo» (Marco Galluzzo). Ricchezza Nel luglio 2005 le quote di Fininvest, strutturata in otto holding (residuo delle antiche 20), furono distribuite così: il capofamiglia possiede Holding I (15,27%), Holding II (15,27%), Holding III (7,83%), Holding VIII (20,48%), Holding XII (1,88%) più un altro 2,06%; Marina possiede Holding IV (7,65%); Piersilvio Holding V (7,65%); Holding XIV è divisa tra Eleonora, Barbara e Luigi (21,43%).
Nel novembre 2006, chiacchierando nel salotto di Daniela Santanché, Berlusconi stesso ha fatto il punto sulle sue ricchezze: 13 case, 14 piscine (perché una è coperta), quattro jet di cui uno rotto, sei panfili, duemila conti in banca, 56 mila collaboratori, una squadra di calcio, una di pallavolo (campioni d’Italia e d’Europa), una di hockey (idem). Aveva prodotto fino a quel momento 110 film (e sostiene di essersi fidanzato con il 60 per cento delle attrici). Le case, cioè le ville, possedute sono in realtà 14: Macherio (Villa Belvedere), Arcore (Villa San Martino), Portofino, Porto Rotondo (La Certosa), Cernobbio, due alle Bermuda, sette ad Antigua (Piccole Antille). Da ultimo ha comprato Villa Campari (già Villa Correnti), sul lago Maggiore, e lì ha festeggiato, il 29 settembre 2008, il 72esimo compleanno.
Il reddito personale 2006 - come risulta alla Camera - fu di 28 milioni di euro. L’utile Fininvest di 316 milioni, di cui 229 sono stati distribuiti in dividendi.
Pur possedendo tre cellulari le cui suonerie sono segrete, non ne tiene in tasca neanche uno: risponde il caposcorta e glieli passa (di recente, però, avrebbe imparato a scrivere gli sms e durante le riunioni noiose si divertirebbe a fare scherzi coi messaggini).
Nonostante queste disponibilità Berlusconi ha detto molte volte di detestare gli sprechi. «A Palazzo Chigi quando esco spengo io la luce in ufficio. E scrivo sempre sul retro dei fogli di carta» (Vanity Fair).
Televisione «I colori sgargianti del mondo televisivo di Berlusconi, pur in tutta la loro apparente stupidità e frivolezza, rappresentarono una rivoluzione nel mondo in bianco e nero della vita italiana» (Stille).
Berlusconi: «Ma lo vuoi capire che senza la televisione una cosa non esiste? Né un prodotto né un politico né un’idea?» (Corrias-Gramellini-Maltese).
«Io non vendo spazi, vendo vendite» (Giuseppe Fiori).
Confalonieri: «Dovevate vederlo discutere la programmazione per capire come siamo riusciti a superare la Rai. Era in grado di prevedere i dati d’ascolto di qualsiasi programma. Si interessava della riscrittura dei copioni, delle scenografie, del montaggio di tutte le produzioni. Dava suggerimenti agli autori, ai registi, agli attori. Inventava i format, i titoli dei programmi, gli slogan pubblicitari, le campagne promozionali. Era davvero l’Uomo Televisione» (Stille).
Gerry Scotti: «Berlusconi prendeva il pennello e faceva vedere al pittore il colore che voleva. Se la scenografia doveva essere arancione il colore lo dava lui: l’ho visto pitturare. Poi andava in sartoria e spiegava come voleva i costumi. Aveva intuizione non pensando di averla. Un dono dei grandi capitani d’industria» (Silvia Fumarola).
Milan Sotto la sua gestione il Milan ha vinto sette scudetti (1988, 1992, 1993, 1994, 1996, 1999, 2004), due coppe dei Campioni (1989, 1990), tre Champions League (1994, 2003, 2007), un Mondiale per club (2007).
Durante una visita in Vaticano, una volta disse al Papa: «Cara Santità, mi lasci dire che lei assomiglia al mio Milan. Infatti lei, come noi, è spesso in trasferta, a portare nel mondo un’idea vincente». Altre versioni: «L’Italia dovrebbe sforzarsi di adottare il modello Milan»; «La mia missione politica è come costruire una squadra di calcio»; «Il professor Luigi Spaventa, prima di competere alle elezioni con me, provi a vincere un paio di Coppe dei Campioni».
«Il calcio è più difficile, vince solo uno, il primato non si condivide; in politica invece il competitor resta in campo, non vince e non perde mai nessuno. Anche per questo in politica non mi sono mai veramente divertito».
«Il calcio è metafora di vita: dai successi del Milan la gente ha capito che la mia è una filosofia vincente, che lavorando si possono raggiungere risultati ambiziosi».
«Vincono i migliori. E sono i meglio pagati. Quindi chi ha soldi ha anche i migliori. Ma i migliori devono esserlo in tutto, non solo sul campo. Vent’anni fa, all’arrivo di Berlusconi, questo concetto elitario ha squassato il calcio. Berlusconi aumentò la posta, per giocare al suo tavolo bisognava continuamente rilanciare. Non ha resistito nessuno, nemmeno la Juve che per rimanere competitiva ha dovuto evidentemente arrangiarsi. È nato un calcio diverso ed è stato il calcio del Milan. Nel suo tempo il Milan ha inventato e costruito, è passato dalla rivoluzione di Arrigo Sacchi al Congresso di Vienna di Fabio Capello, ha sostituito gli olandesi con i brasiliani (molto meglio, molto più affidabili alla lunga), ha sintetizzato novità e reazione in Carlo Ancelotti e la sua squadra di tutti trequartisti. Ma è riuscito a fare una cosa che non era assolutamente pensabile. Ha sostituito per la prima volta la Juventus nell’immaginario degli italiani come simbolo nazionale e di successo» (Mario Sconcerti).
«Sulle cronache sportive si parla del Milan di Sacchi, di Alberto Zaccheroni e di Ancelotti, mai del Milan di Berlusconi. Eppure sono io che da anni faccio le formazioni, detto le regole e compro i giocatori. Sembra che io non esista» (Gian Antonio Stella). Sulla questione delle formazioni vedi ANCELOTTI Carlo.
Inter Giuseppe Ticozzi, ex calciatore dell’Edilnord (squadra allenata da Berlusconi quando faceva il costruttore), giura che all’epoca (anni Sessanta) Berlusconi era un grandissimo tifoso dell’Inter. Sandro Mazzola: «Non ricordo la data precisa, ma confermo che durante una riunione per il Mundialito, Berlusconi mi domandò: “Scusi, Mazzola, può chiedere a Ivanoe Fraizzoli se è disposto a vendermi l’Inter?”. Risposi che mi sarei informato e riferii. Sulle prime Fraizzoli non disse di no. Anzi. Indicò una strada: “Potrei cedere a Berlusconi il cinquanta per cento delle azioni”. Trascorso qualche giorno ci ripensò: “No, niente Berlusconi”. Comunicai la risposta e la cosa finì lì. Berlusconi voleva comprare l’Inter e a volte mi interrogo: che cosa ne sarebbe stato del Milan se l’operazione gli fosse riuscita?» (Carlo Laudisa).
Seduttore di uomini Berlusconi alla forza vendita: «Ricordate che i nostri spettatori hanno più o meno la licenza media, e non erano i primi della classe» (D’Anna-Moncalvo).
«I venditori di Berlusconi erano fortemente disincentivati dal fumare, portare la barba, i baffi o i capelli lunghi e disordinati, veniva detto loro di avere sempre l’alito fresco, di stare attenti alla forfora e di non avere mai, cascasse il mondo, le mani sudate» (Stille).
Berlusconi alla forza vendita: «I clienti stronzi sono quelli che si devono conquistare a tutti i costi, sono i clienti che non dobbiamo assolutamente lasciarci scappare, quelli sono i clienti che dobbiamo assolutamente raggiungere prima degli altri. Perché questi si alzano e tutte le mattine, guardandosi allo specchio, che cosa vedono? Vedono uno stronzo. Giorno dopo giorno, mattina dopo mattina, quello specchio riflette la stessa, drammatica immagine. E quindi i signori che appartengono disgraziatamente a questa categoria si incazzano immediatamente e restano incazzati per tutto il giorno. Questi uomini vengono sempre trattati da stronzi, tutti li trattano da stronzi, perché logicamente, essendo tali, vanno trattati così. Però, fate attenzione, perché dovete entrare in campo voi, con la vostra arte e le vostre astuzie. Siccome lo stronzo viene trattato da tutti come uno stronzo, se trova invece qualcuno che lo tratta in maniera diversa gli sarà grato, anzi gratissimo, per sempre. Sarà disponibile, sarà aperto, sarà cordiale, sarà gentile, sarà riconoscente, insomma sarà meno stronzo. E quindi abbiamo anche reso un servigio all’umanità, l’abbiamo alleggerita. Quindi bisogna conquistare questi clienti principalmente perché diventeranno gli amici più sinceri, i clienti più preziosi, in quanto vi saranno per sempre grati e riconoscenti» (D’Anna - Moncalvo, ripresi da Stille, il quale pensa che la descrizione del cliente stronzo abbia come modello Craxi).
Massimo Boldi: «Mi telefona spesso. Un giorno: “Ciao Massimo, come stai?”. Io ero emozionato anche se ci diamo del tu e siamo amici. Lui fa: “Senti Massimo, fra qualche giorno andrà in onda Un ciclone in famiglia. Volevo dirti che tra le tante famiglie che seguiranno questa fiction c’è anche la mia”. Accipicchia. Allora gli ho detto: “Silvio, sei veramente un amico”. E lui: “Ogni tanto vieni a trovarmi, ci facciamo quattro risate”».
Gigi D’Alessio: «Alla manifestazione del Vittoriano, io canto, lui è lì in prima fila e mi fa l’occhiolino. Due, tre volte. Allora vado a salutarlo e lui ferma la scorta e mi fa: “Complimenti, hai scritto una bella canzone”. Qualche sera dopo, mi ha chiamato Maurizio Costanzo: “Puoi venire subito qui?” mi fa. “C’è un ammiratore che ti vuole salutare. Si chiama Silvio”. Ho preso mia moglie e siamo andati a casa sua. Mariano Apicella suonava la chitarra, Berlusconi cantava canzoni francesi. Era molto musicale. Come autore è un romanticone. Mi piace soprattutto Colpa mia colpa tua. Una volta al Maurizio Costanzo Showne ho accennato una strofa e gliela ho dedicata. Lui ha telefonato subito per ringraziarmi».
Raimondo Vianello: «Un giorno si presenta a casa nostra. Ci dice che è pronto a darci un programma, che ci aspetta a braccia aperte. Ha uno stile asciutto, convincente. È un venditore. In quegli anni la Rai è un ministero, non si capisce con chi parlare di nuovi progetti, nuove idee. Avremmo dovuto realizzare un unico programma a Canale 5 e poi tornare a Viale Mazzini. Berlusconi offre patti chiari. E soldi. Insomma, ha argomenti convincenti. A un certo punto gli chiedo se vuole bere qualcosa. Lui mi risponde: “Non avrebbe un panino?”. Mi assale un dubbio: ma questo è davvero miliardario?».
Mike Bongiorno: «In Rai guadagnavo 20 milioni l’anno e mi dovevo fare il mazzo con le serate per racimolare qualche lira. Lui mi ha offerto 600 milioni ed è stata la svolta».
Fiorello: «Venne allo Sporting di Montecarlo per la serata di gala di Publitalia. Mi disse che ero bravo, che avrei fatto tanta strada se avessi tenuto la testa sulle spalle. Mi disse: impara da Mike. Poi si bloccò, stava passando una bellissima ragazza e mi disse: chi è quella bella gnocca?».
Giancarlo Magalli: «Ho incontrato Berlusconi una volta in un ristorante. Si alzò in piedi per salutarmi e io gli dissi: “Stia comodo, la prego”. E lui: “Ci mancherebbe altro”».
Vizi Dorme poco di notte. Legge i giornali alle due del mattino. Guarda i dossier col «dottor Letta» alle due e mezza. Qualche volta, la notte, compra oggetti alle televendite, qualificandosi.
Detesta l’aglio.
Passione assoluta per il giardinaggio, di cui è grande intenditore: a Villa Certosa in Sardegna ha realizzato, senza badare a spese, un parco di grande bellezza (per esempio un agrumeto contenente 140 specie di aranci, cioè tutti quelli esistenti, ecc.).
Giorgio Dell’Arti - Massimo Parrini. Catalogo dei viventi 2009, Marsilio scheda aggiornata al 5 ottobre 2008
La vita politica di Silvio Berlusconi. Dal videomessaggio del 1994 sulla sua discesa in campo, a quello di oggi con la rinascita di Forza Italia, scrive il 18 settembre 2013 Claudia Daconto su “Panorama”.
1994 - LA DISCESA IN CAMPO. “L’Italia è il Paese che amo, qui ho le mie radici, le mie speranze, i miei orizzonti. (...) Qui ho appreso la passione per la libertà. Ho scelto di scendere in campo e di occuparmi della cosa pubblica perché non voglio vivere in un paese illiberale, governato da forze immature e da uomini legati a un passato fallimentare”. E' il 26 gennaio del 2004, di mercoledì, quando da dietro una scrivania, circondato dai libri, tra le foto dei suoi cari, Silvio Berlusconi annuncia la sua decisione di dedicarsi alla politica. Il video, preregistrato, dura 9 minuti e viene trasmesso integralmente da Retequattro e Italia1, in un’ampia sintesi da Canale5, in forma molto stringata dai tg della Rai. Per il suo primo discorso da leader politico, Silvio Berlusconi sceglie il Palafiera di Roma. E' domenica 6 febbraio quando il più grande imprenditore televisivo italiano, dimessosi da tutte le cariche ricoperte nel gruppo Fininvest, lancia la sfida alla sinistra con una “chiamata alle armi” di tutti i liberaldemocratici. E' allora che avviene la presentazione di Forza Italia e del suo programma di governo: meno disoccupazione, più tolleranza, riduzione delle tasse. Sul fronte delle alleanze, l'apertura alla destra era stata già sancita alcuni mesi prima quando, inaugurando l'Euromercato di Casalecchio, alle porte di Bologna, Berlusconi disse che se avesse votato a Roma, nella sfida tra il candidato sindaco della sinistra Francesco Rutelli e quello della destra Gianfranco Fini, avrebbe sicuramente scelto quest'ultimo. Il 27 marzo, alla guida del Polo delle Libertà (formato da Forza Italia, l'Alleanza nazionale di Fini, la Lega Nord di Umberto Bossi e il Ccd di Pierferdinando Casini e Clemente Mastella), Silvio Berlusconi vince le elezioni con il 42,9% dei voti e diventa presidente del Consiglio. Il 21 novembre viene coinvolto nell’inchiesta sulle tangenti alla Guardia di Finanza. Sono le 5.40 del 22 novembre quando Gianni Letta telefona al Cavaliere per leggergli la prima pagina del Corriere della Sera in cui viene riportata la notizia dell'avviso di garanzia emesso dalla Procura di Milano per ordine del pool di Mani pulite guidato allora da Antonio Di Pietro. Berlusconi in seguito verrà prosciolto dalle accuse, ma il danno di immagine sarà enorme. Approvata la Finanziaria nel dicembre del 1994 la Lega toglie la fiducia al governo e dopo appena otto mesi di governo Silvio Berlusconi è costretto a dimettersi.
1996 – LA PRIMA SCONFITTA CONTRO ROMANO PRODI. Alle politiche del 1996 Forza Italia si presenta senza l'appoggio leghista. Berlusconi, indagato nel frattempo anche per storie di mafia, falso in bilancio, frode fiscali e corruzione giudiziaria insieme a Previti, perde contro il professore bolognese Romano Prodi leader dell'Ulivo, coalizione di centrosinistra che comprendeva dai Comunisti italiani di Cossutta e Diliberto all'Udeur di Clemente Mastella. Si vita domenica 21 aprile, Forza Italia ottiene il 20,6 per cento.
1997 – IN PIAZZA A MILANO CON LA GRANDE PAURA DELLA MALATTIA. Sabato 3 maggio il Polo delle Libertà manifesta a Milano contro la politica fiscale del governo Prodi. In piazza del Duomo Silvio Berlusconi parla a sostegno della candidatura a sindaco di Gabriele Albertini. In un intervista a Mario Calabresi apparsa su Repubblica il 23 luglio del 2000 rivelerà: “Ero sul palco, in mezzo alla gente, ma parlavo con la morte nel cuore. La mattina dopo dovevo entrare in sala operatoria, non riuscivo a non pensarci, temevo che il male fosse incurabile”. Il lunedì dopo la manifestazione il Cavaliere viene operato di tumore alla prostata al San Raffale di Milano. “Sono stati mesi da incubo – racconta Berlusconi 3 anni dopo nella stessa intervista a Repubblica - può immaginare come stavo, però ce l’ho fatta”.
1998 – IL PRIMO CONGRESSO DI FI E LA FINE DELLA BICAMERALE. Il 16 aprile Silvio Berlusconi apre, al Forum d'Assago, il primo congresso nazionale di Forza Italia: “Non siamo un partito di plastica, virtuale, aziendale”. Nel frattempo, dopo mesi di trattative, il leader del centrodestra annuncia il suo voto contrario in Commissione bicamerale per le riforme istituzionali presieduta da Massimo D'Alema per bloccare “questo semi-presidenzialismo” e dire no a “alla deriva verso le sabbie mobili di un compromesso di basso livello”.
1999 – FORZA ITALIA SFONDA ALLE EUROPEE E ALLE REGIONALI. Alle elezioni europee del 1999 Forza Italia sfiora il 30 per cento dei consensi e vince anche alle Regionali. Le conseguenze di questo successo costringeranno Massimo D'Alema a dimettersi dalla carica di premier. In campo europeo Forza Italia aderisce al Ppe: Silvio Berlusconi diventa uno degli esponenti di punta.
2000 - “MENO TASSE PER TUTTI”. Mentre è ancora in carica il governo Amato, riparte la campagna elettorale di Silvio Berlusconi in vista delle elezioni del 2001. Tra gli slogan di maggior presa “Meno tasse per tutti” e “Città più sicure”.
2001 – “IL PRESIDENTE OPERAIO”. All'inizio di gennaio appaiono sui muri delle città quattro nuovi maxi-manifesti: Berlusconi è ritratto in maglione, sullo sfondo la bandiera di Forza Italia e in rilievo le scritte “Un presidente operaio per cambiare l’Italia”, “Un presidente imprenditore per realizzare le grandi opere”, “Un imprenditore innovatore per ammodernare lo Stato”, “Un presidente amico per aiutare chi è rimasto indietro”. Intanto Berlusconi recupera il rapporto con la Lega, apre ai repubblicani e consolida l'alleanza con Fini: nasce la Casa delle Libertà. IL CONTRATTO CON GLI ITALIANI. Martedì 8 maggio mancano cinque giorni alle elezioni. Ospite di Bruno Vespa a Porta a Porta, il candidato premier del centrodestra sottoscrive un “contratto con gli italiani” in 5 punti nel quale si impegna ad abbattere la pressione fiscale, diminuire la criminalità, alzare le pensioni minime ad almeno un milione di lire al mese, creare un milione e mezzo di nuovi posti di lavoro, aprire almeno il 40 per cento dei cantieri previsti dal Piano decennale delle Grandi opere. NASCE IL SECONDO GOVERNO BERLUSCONI. Il 13 maggio la Casa delle libertà vince con il 45,4 per cento alla Camera e il 42,5 al Senato. In termini di seggi significa 368 seggi alla Camera (la maggioranza è di 315) e di 177 al Senato (la maggioranza è di 158). Forza Italia è il primo partito italiano con il 29,4 per cento dei voti.
2002- “L'EDITTO BULGARO”. Il 18 aprile scoppia il caso del cosiddetto “editto bulgaro”. Silvio Berlusconi è a Sofia in visita ufficiale. Durante la conferenza stampa un giornalista bulgaro gli chiede se comprerà una rete locale. Silvio Berlusconi risponde attaccando la sinistra per “l’occupazione militare” della Rai e accusando Biagi, Santoro e Luttazzi, che nel giro di poco verranno rimossi dai vertici di viale Mazzini, di “uso criminoso” della televisione pubblica.
2003 – LA PRESIDENZA EUROPEA E LO SCONTRO CON SCHULZ. Il 1 luglio inizia il semestre italiano nella Ue: Berlusconi diventa presidente del Consiglio europeo. Al suo esordio davanti al Parlamento di Strasburgo scoppia la polemica. Il capogruppo dei socialdemocratici, il tedesco Martin Schulz attacca pesantemente Silvio Berlusconi che replica dandogli del “kapò”. Il governo tedesco convoca l'ambasciatore italiano e Silvio Berlusconi è costretto a scusarsi: “Non volevo offendere nessuno, era una battuta ironica”.
2004 – IL CAVALLETTO IN PIAZZA NAVONA. E' venerdì 31 dicembre, Berlusconi passeggia tra le bancarelle di piazza Navona, a Roma, quando Roberto Dal Bosco, un muratore mantovano di 28 anni in gita nella Capitale con due amiche, gli lancia il cavalletto della macchina fotografica. Il premier è ferito dietro l’orecchio destro.
2005 – BERLUSCONI SI DIMETTE. Dopo la sconfitta alle regionali e l'uscita dal governo dei ministri di Udc e Nuovo Psi, il 20 aprile Berlusconi sale al Quirinale e si dimette. In carica quasi quattro anni, 1.412 giorni, il Berlusconi II è il governo più longevo della storia repubblicana. Tre giorni dopo, nasce il terzo governo Berlusconi.
2006 – LA SECONDA SCONFITTA CONTRO ROMANO PRODI. Nonostante la promessa elettorale di Berlusconi di abolire l'Ici sulla prima casa, gli italiani chiamati ad aprile alle urne scelgono nuovamente Romano Prodi. Il risultato resta incerto fino alla fine e il professore si ritroverà con una maggioranza risicatissima alla Camera e in minoranza al Senato, compensata solo dai tre seggi della circoscrizione estera. Il governo resta in carica per soli due anni.
2007 – IL PREDELLINO: NASCE IL PDL. Alle 17.17 di domenica 18 novembre, Silvio Berlusconi arriva in piazza San Babila, a Milano. Si stanno raccogliendo le firme contro Prodi e lui annuncia la nascita di un nuovo partito. Ma riescono a sentirlo in pochi per cui, raggiunta la sua auto che lo aspetta alla fermata del bus, apre la portiera, si appoggia al pianale e lancia il Popolo della Libertà.
2008 – PDL PRIMO PARTITO ITALIANO. Alle elezioni politiche del 2008 Berlusconi si presenta come leader della nuova formazione del PdL che unisce Forza Italia e Alleanza Nazionale, assieme a gruppi minori di orientamento democristiano e liberale. Il risultato delle elezioni decreta il PdL come primo partito italiano: nel maggio del 2008 prende il via il IV governo Berlusconi. Con il congresso del 29 marzo 2009, a Roma, viene poi sancita la nascita ufficiale del PdL.
2009 – L'ATTENTATO IN PIAZZA DUOMO. Silvio Berlusconi è colpito al volto al termine di un comizio con una riproduzione in miniatura della cattedrale del Duomo di Milano lanciatagli addosso da distanza ravvicinata da Massimo Tartaglia, incensurato, già in cura per problemi psichici. Berlusconi ha il setto nasale e due denti fratturati. E' domenica 13 dicembre.
2010 - “CHE FAI, MI CACCI?”, LA ROTTURA CON FINI. All’Auditorium della Conciliazione di Roma si tiene il Direttivo nazionale del Pdl. E' il 22 aprile e il rapporto tra i due leader fondatori è ormai alle corde. Dopo una serie di frecciate incrociate, Berlusconi chiede a Fini di dimettersi da presidente della Camera e lui, seduto in prima fila, si alza e, da sotto il palco, gli grida: “Che fai, mi cacci?”. E' la fine dell'alleanza. Giovedì 29 luglio viene votata l'uscita di Fini dal Pdl per “assoluta incompatibilità politica”. Il giorno dopo il presidente della Camera annuncia la nascita di Futuro e Libertà. Il 29 settembre Berlusconi si presenta alla Camera per chiedere la fiducia al governo che ottiene con largo margine: 342 sì e 275 no. LA FIDUCIA DEL 14 DICEMBRE. Il 14 dicembre il Parlamento conferma di nuovo la fiducia a Berlusconi. Mentre la Camera vota, Roma è assediata dalle manifestazioni e blindata dalle camionette della polizia, che impediscono ai manifestanti di raggiungere Palazzo Madama e Montecitorio.
2011 - “NEL 2013 LASCIO, TOCCA AD ALFANO”. In un'intervista a Repubblica dell'8 luglio, Silvio Berlusconi attacca pesantemente il suo ministro dell'Economia Giulio Tremonti e che alle prossime elezioni il candidato premier del centrodestra sarà Angelino Alfano. “Io – dice - farò il padre nobile”. LA RINUNCIA. Dopo la pesante sconfitta alle comunali di Napoli e Milano, il venire meno dell'asse con la Lega di Bossi, i nuovi scandali che hanno coinvolto alcuni esponenti della sua maggioranza, lo stesso Giulio Tremonti e lui in persona, la crisi economica che aggrava sempre di più la situazione finanziaria dell'Italia, colpito dal declassamento dell'Italia da parte delle agenzie di rating, le critiche della Chiesa, le risatine di Merkel e Sarkozy, la ribellione interna, le defezioni di alcuni parlamentari, alle 20.45 del 12 novembre Silvio Berlusconi getta la spugna e sale al Quirinale per rimette il suo incarico nelle mani del capo dello Stato Giorgio Napolitano mentre in piazza i suoi oppositori stappano bottiglie di spumante. Ad attenderlo al suo rientro a Palazzo Grazioli altri fischi, insulti e lanci di monetine.
2013 – LA GRANDE RIMONTA. “Abbiamo fatto una rimonta straordinaria, con questi numeri siamo determinanti. Dovranno venire a patti con noi”. E' il 25 febbraio del 2013. All'indomani dei risultati elettorali, Silvio Berlusconi festeggia il successo di un'impresa che solo poche settimane prima sembrava disperata. Dato per morto dal centrosinistra guidato dal candidato premier del Pd Pierluigi Bersani, a Silvio Berlusconi basta riprendere in mano le redini del suo partito per ribaltare tutti i pronostici. Complice anche l'exploit del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, la perdita in termini di numeri di milioni di voti rispetto al 2008 è consistente, ma non abbastanza da far vincere il centrosinistra. La coalizione di Bersani si impone sì alla Camera, come previsto, ma per solo mezzo punto percentuale: 29,53% contro il 29,13% dell'alleanza guidata da Pdl e Lega. Al Senato va ancora peggio: il centrosinistra non ha la maggioranza. Bersani non riesce a formare un governo e Napolitano, rieletto, darà vita a un esecutivo delle larghe intese in cui Silvio Berlusconi risulta determinante.
LA NUOVA FORZA ITALIA. 18 settembre 2013. A poche settimane dalla condanna definitiva in Cassazione nel processo Mediaset, sui diritti tv. All'indomani della sentenza di condanna ad un risarcimento di quasi 500 milioni di euro a De benedetti per il Lodo Mondadori, Silvio Berlusconi affida ad un nuovo videomessaggio la sua nuova mossa politica: la "rinascita" di Forza Italia.
La vita straordinaria di Silvio Berlusconi. Biografia da “L’Esercito della Libertà”. Silvio Berlusconi nasce il 29 settembre 1936, sotto il segno zodiacale della Bilancia (ascendente Bilancia) in una abitazione al numero 60 di via Volturno, a Milano. Innanzi ad una sede del PCI. Suo padre Luigi Berlusconi è un funzionario di banca Sua madre Rosa Bossi, al ricordo della quale è legatissimo, è casalinga. In seguito nasceranno la sorella Antonietta (1943) e il fratello Paolo (1949). I Berlusconi sono una famiglia della piccola borghesia milanese alle prese con tutti i problemi di sussistenza e pratici del dopoguerra.
LA CULTURA CATTOLICA: IN COLLEGIO DAI SALESIANI. Dopo la licenza elementare, a 12 anni Berlusconi viene affidato ai padri salesiani e nel vecchio convitto ristrutturato di via Copernico 9, a Milano, svolge gli studi sino a quando, diciannovenne, ottiene la maturità classica. I suoi ex compagni di scuola ricordano come Berlusconi facesse i compiti in un baleno e poi aiutasse i vicini di banco facendo scambio con giocattoli, caramelle, merende. Lo spirito imprenditoriale era innato.
UN ESEMPIO DA SEGUIRE: LAUREA CUM LAUDE. Nel 1961, studiando la notte come raccontava la mamma, Berlusconi consegue la laurea in Giurisprudenza, a 25 anni, con una tesi dal titolo “Il contratto di pubblicità per inserzione”, relatore il docente Remo Franceschelli, voto 110 e lode. Con la tesi Berlusconi vince un premio di 2 milioni messo in palio dall’agenzia pubblicitaria Manzoni di Milano che oggi, paradossalmente, raccoglie la pubblicità per i giornali del gruppo De Benedetti. E’ il sogno di ogni padre e madre italiana, si dedica anche allo sport e diventa campione di canoa.
LA PRIMA FAMIGLIA, LA PRIMA AZIENDA. A inizio anni Sessanta, Berlusconi conosce la sig.ra Carla Elvira Dall’Oglio. I due si sposano nel marzo 1965 e dalla loro unione nascono i figli Maria Elvira detta Marina (1966) e Pier Silvio (1969). Berlusconi si mette in proprio: fonda con il costruttore edile Pietro Canali che lo vuole come giovane socio vedendo in lui la passione per il lavoro, la Cantieri riuniti milanesi srl con la quale muove i primi passi nel settore delle costruzioni.
IMMAGINA IL FUTURO: EDILNORD E MILANO 2. Nel 1962, Berlusconi costituisce la Edilnord con la quale nel settembre 1968 acquista un’area di 712 mila metri quadrati a Segrate, alla periferia di Milano, su cui realizzare il quartiere residenziale di Milano 2, una città satellite sul modello delle New Town. Il Comune di Segrate nel 1969 concede a Edilnord la prima licenza edilizia. Milano 2 viene completata nel 1979 ed è una città nella città, una meravigliosa opera urbanistica della quale ancora oggi i milanesi vanno fieri. Milano due conferma la capacità di Berlusconi di disegnare e costruire il futuro, un quartiere città a portata d’uomo con scuole, strade, parchi e ciclabili. Un grande hotel condominiale. E si inizia a parlare di Berlusconi.
NASCE FININVEST E SARÀ UNA GRANDE STORIA AZIENDALE ITALIANA. A metà anni Settanta a Roma nasce la Fininvest. Nel consiglio d’amministrazione siedono il Presidente Silvio Berlusconi, il fratello Paolo e il cugino Giancarlo Foscale. Tra il 1979 e il 1990 Berlusconi realizza a Basiglio una nuova cittadella residenziale, Milano 3, il centro commerciale Il Girasole a Lacchiarella e progetta il villaggio residenziale Costa Turchese, a sud di Olbia, in Sardegna. Berlusconi nel 1980 acquista una villa con parco ad Arcore, ex dimora dei Casati Stampa. Berlusconi vi trasferisce la sua residenza privata e a tutt’oggi è casa e ufficio e ha visto passare nei suoi salotti la storia del nostro Paese. Sempre nel 1980 Berlusconi incontra una giovane attrice bolognese, Miriam Bartolini, in arte Veronica Lario. Nel 1985 si separa dalla signora Dall’Oglio. Dalla relazione con Veronica Lario nasce la prima figlia Barbara. Nel 1986 nasce Eleonora e nel 1988 il quinto figlio di Berlusconi, Luigi. Veronica Lario, divenuta la seconda moglie di Silvio Berlusconi, e i suoi tre figli, vivono nella settecentesca villa dei Visconti a Macherio.
CANALE 5, L’ITALIA SI SVEGLIA MODERNA: LE TV PRIVATE. Nel 1977 Berlusconi entra nel consiglio d’amministrazione del deficitario Giornale Nuovo di Indro Montanelli. Nel 1978 rileva il Teatro Manzoni di Milano, in crisi. Ma la sua lungimiranza lo porta a capire che il nuovo business è la tv: a Milano 2 aveva già creato la sua prima tv via cavo, Telemilano, che dal 1974 aveva iniziato a trasmettere come «tv condominiale»; nel 1979 costruisce un circuito televisivo nazionale, che sarà alimentato da Publitalia 80, la concessionaria che raccoglie pubblicità a tutt’oggi per le reti Fininvest.
LA LOTTA CONTRO IL MONOPOLIO RAI, IL MILAN, LA MONDADORI E FINALMENTE LA DIRETTA. Negli anni Ottanta, dopo aver lanciato Canale 5, la Fininvest di Berlusconi acquista Retequattro dalla Mondadori e Italia 1 dalla Rusconi. In mancanza di leggi sulle tv private, inesistenti fino ad allora, Berlusconi cresce fino a insidiare il monopolio Rai. Nell’ottobre 1984 le tre reti Fininvest, combattute dall’ANTI – un sindacato Rai, sono oscurate dai pretori di Roma, Torino e Pescara per avere trasmesso su tutto il territorio nazionale, in mancanza di una legge, col geniale sistema delle videocassette inviate regione per regione. Quattro giorni dopo Bettino Craxi, Presidente del Consiglio, capisce che il sistema paese deve investire sui nuovi modelli televisivi come avveniva negli stati Uniti sin dagli anni cinquanta, vara un decreto legge che consentirà alla Fininvest, in assenza di una legge sulle emittenze, di riprendere le trasmissioni su tutta Italia. Nel 1986 Silvio Berlusconi compera il Milan in crisi e ne diviene presidente. In 28 anni di presidenza centra 26 trofei. Tra il 1988 e il 1989, la Mondadori passa dalle mani di Carlo De Benedetti a quelle di Silvio Berlusconi, che nel 1990 diviene presidente della casa editrice. Dopo un lungo contrasto nelle aule di tribunale, nell’aprile 1991 è firmato l’accordo che assegna la Mondadori alla Fininvest con una transazione. Anni dopo de Benedetti fa causa a Berlusconi e una recente sentenza lo condanna a risarcire De Bendetti per la cifra astronomica di 555 milioni di euro. Si è in attesa della cassazione che restituirà giustizia a Berlusconi. Nel corso degli anni Ottanta le attività imprenditoriali di Berlusconi si estendono alla produzione e distribuzione cinematografica col gruppo Cecchi Gori e alla gestione delle sale. Nell’agosto 1990, dopo polemiche e contrattazioni senza fine, il Parlamento approva la legge Mammì sulla regolamentazione del settore televisivo.
E FU FORZA ITALIA! LA DISCESA NEL CAMPO DELLA POLITICA: 27 MARZO 1994 PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI. Intorno al 1992 le inchieste di Mani pulite portano alla dissoluzione dei partiti della prima repubblica, attraversati da scandali e lotte fratricide. Dopo vari tentativi di convinzione di politici professionisti come Mario segni – eroe dei referendum ed altri, intuito che al Paese serve un nuovo punto di riferimento Berlusconi, suo malgrado, coglie l’ansia di rinnovamento che esala dal Paese e nel novembre del ’93, crea il suo partito, Forza Italia attraverso migliaia di club che si formano sul territorio nazionale. E fu luce per l’Italia.
LE ELEZIONI DEL 1994, LE CADUTE, I COMPLOTTI, LE RISALITE. In soli tre mesi dalla discesa in campo del 26 gennaio 1994 con un memorabile discorso alla Nazione dal titolo “Per il mio Paese, io amo l’Italia” Forza Italia con il 21,01 % è il primo partito italiano, vince le elezioni politiche del 27 marzo 1994, contro la gioiosa macchina da guerra della sinistra di Occhetto grazie all’ inedito accordo con la Lega di Umberto Bossi al nord e all’Msi post-fascista di Gianfranco Fini al Sud, con la grande intuizione del Polo del Buon Governo e del Polo della Libertà. L’11 maggio 1994 Silvio Berlusconi diventa Presidente del Consiglio dei Ministri alla guida di un governo di centrodestra. Nel giugno 1994, alle elezioni europee, Forza Italia in un solo mese di governo Berlusconi, raggiunge il 30,6 % dei voti. Nel dicembre 1994 la Lega nord provoca la crisi e la caduta del governo. A seguito di un avviso di garanzia ricevuto per notizia data al Paese a caratteri cubitali dal Corriere della Sera, mentre l’interessato non ne sapeva nulla e stava presiedendo il vertice contro la criminalità a Napoli nel corso del G8, alla presenza cioè di capi di stato e di governo dei paesi del G8. Da quell’inchiesta Berlusconi viene completamente scagionato ma gli italiani non hanno più il governo che avevano così fortemente e democraticamente voluto. A Berlusconi viene impedito di governare e di cambiare l’Italia. Alla Lega, l’ex presidente della Repubblica Scalfaro, dice che Berlusconi è finito.
LE ELEZIONI DEL 1996, LA PRIMA SCONFITTA ELETTORALE E LA TRAVERSATA NEL DESERTO. Dopo un anno e mezzo di un governo tecnico guidato dall’ex ministro del tesoro del governo Berlusconi, Lamberto Dini, il Presidente della Repubblica scioglie anticipatamente le camere e il 21 aprile 1996 alle elezioni politiche, dopo essere stato tartassato da ogni genere di accusa specie sul piano giudiziario, Berlusconi e Forza Italia perdono rispetto alla coalizione di centrosinistra dell’Ulivo guidata da Romano Prodi e Valter Veltroni. Un governo che grazie al tradimento di rifondazione comunista, durerà in carica solo due anni senza aver fatto alcuna riforma e lasciando il passo al primo presidente post comunista della Storia, Massimo D’Alema. Il quale, riconosciuto il consenso elettorale di Berlusconi e il ruolo di Forza Italia come primo partito d’opposizione, riconosce Berlusconi come «padre costituente» nella Commissione bicamerale, e ne affida la guida al prof. Giuliano Urbani tra gli ideologi di forza Italia e futuro ministro. La bicamerale salta nell’impossibilità di trovare un accordo tra le parti e nell’incapacità della sinistra di governare, Berlusconi recupera consensi, cresce, raccoglie straordinari successi successi alle elezioni europee e regionali con la nave azzurra e si prepara alle politiche del 13 maggio 2001, che lo incoroneranno di nuovo – per cinque anni, il periodo più lungo della storia italiana, Presidente del Consiglio dei Ministri.
LE ELEZIONI DEL 2001, IL CONTRATTO CON GLI ITALIANI, INVESTIRE IN POLITICA ESTERA. Con la coalizione la Casa delle Libertà nella quale rientra la Lega dopo un’amara esperienza a sinistra e alla quale aderisce anche l’Udc di Casini, che precedentemente aveva dato vita al CCD pur essendosi candidato con Forza Italia nel 1994 – e il contratto con gli italiani firmato a Porta a Porta innanzi a Bruno Vespa, Berlusconi vince nettamente le elezioni e torna per la seconda volta a Palazzo Chigi. Le sue priorità sono l’aumento delle pensioni minime agli anziani, la decurtazione delle tasse, la sicurezza, dimezzamento della disoccupazione, gli investimenti per le grandi opere infrastrutturali e l’espansione delle imprese italiane all’estero. Con l’Interim alla Farnesina dà nuove mission ai diplomatici italiani nel mondo affinchè si prodighino per l’internazionalizzazione delle nostre imprese. Il contratto con gli italiani viene onorato all’80% nonostante gli alleati Fini e Casini e Follini, mettessero continuamente in forse, ostacolandolo, l’operato del governo con parole come “discontinuità”, “cabina di regia”, inducendo alle dimissioni il ministro dell’economia Tremonti. Le pensioni minime vengono alzate a 500 euro, il debito pubblico nel 2003 raggiunge il minimo storico del 103% sul Pil, vengono avviate le grandi opere con la legge obiettivo e ripartono le costruzioni con la legge Tremonti, vengono abolite le tasse di successione e donazione, l’occupazione cresce fino a sfiorare il milione di posti di lavoro promessi nel 1994, viene introdotto come promesso il poliziotto o il carabiniere di quartiere e l’indice di sicurezza percepito dalla popolazione aumenta esponenzialmente. Il suo massimo lo raggiunge in politica estera mettendo per la prima volta ad un tavolo della Nato la Russia del neo amico Putin che stringerà la mano a Bush al vertice di Pratica di mare. Come nel corso di tutta la sua vita si prodiga per la pace e per l’amore fra i popoli mettendo al centro del mondo l’Italia. Intesse amicizie personali con tutti i leader del mondo, a differenza di quanto dicono gli avversari. Le elezioni del 2006 vince Prodi, perde l’Italia. Berlusconi e la svolta del Predellino A scadenza naturale della legislatura, con una campagna mediatica sui temi della giustizia e della guerra in Iraq, la sinistra ripesca Romano Prodi ed è convinta di stravincere le elezioni forte dei sondaggi diffusi. La casa delle Libertà aveva perso le elezioni regionali del 2005, l’unica vittoria clamorosa nel maggio dello stesso anno, la città di Bolzano, appannaggio delle sinistre e della SVP. Al solito, i primi a giurare sulla sconfitta elettorale di Berlusconi erano gli “alleati” Fini e Casini, che si vergognavano di aver fatto parte della compagine di governo ed si completamente disimpegnarono nel corso della campagna elettorale .Contro ogni pronostico Berlusconi perde per soli – strani, 24.755 voti di scarto dall’unione di Prodi, una sorta di caravanserraglio delle sinistre che aveva caricato ogni partito distinto e distante dall’altro con un programma farraginoso di oltre 300 pagine. Vi fu un grande odore di brogli e Berlusconi stette due anni all’opposizione stretto tra gli attacchi esterni e soprattutto quelli interni di Fini e Casini. Tutti ricorderanno la famosa frase di Fini “siamo alle comiche finali” perché non credeva che il governo Prodi, forte di due senatori, sarebbe caduto come è poi accaduto. Non a causa delle navette di alcuni senatori come la sinistra vorrebbe far credere ma a causa dell’inchiesta giudiziaria che colpì la moglie del Ministro di Giustizia Clemente Mastella. Berlusconi resosi conto che la Casa delle Libertà è diventata ormai un ectoplasma a causa degli attacchi costanti di Fini e Casini, nel dicembre 2007 in piazza San Babila, con un atto fuoriuscitogli dal cuore e dalla pancia, pianta il seme del Popolo della Libertà, cioè del partito unico del centro destra. Fini da principio restio e prodigo di ogni tipo di accusa non vi aderisce. Ma al momento dello scioglimento delle Camere, molla Casini ed entra nel Popolo della Libertà come cofondatore. Dopo due anni di governo Prodi che hanno fatto tremare le vene ai polsi degli italiani, che lo ricordano non a caso come il peggior governo di sempre, il 13 aprile 2008 il Popolo della Libertà Berlusconi Presidente stravince le elezioni politiche con una maggioranza mai vista in precedenza. Il consenso di Berlusconi cresce a dismisura tanto da toccare il 70% degli italiani dopo il discorso di pacificazione nazionale di Onna del 25 aprile del 2009. L’Aquila e l’Abruzzo erano stati distrutti dal terremoto e Berlusconi prese in mano immediatamente le redini della situazione dando in soli sei mesi case nuove ai terremotati e portando lo sguardo del mondo in Abruzzo con l’organizzazione del G8 a l’Aquila. Dopo l’eliminazione dell’ICI sulla prima casa, la riforma della scuola e il successo per l’immediato intervento nel post terremoto, bisognava abbattere Silvio Berlusconi. Scandali inventati, complotti, il divorzio dalla moglie ed altro, il continuo prendere le distanze di Fini – Diventato Presidente della Camera, affievoliscono la forza del governo. La maggioranza traballa dopo la lite in diretta e l’uscita di Fini dal Pdl durante la direzione nazionale del 21 aprile 2010. Fini finirà per cacciarsi per sempre dalla politica italiana ed è storia dei nostri giorni, portando la colpa più grave in assoluto, quello di aver distrutto la maggioranza più ampia e coesa mai avuta nel Paese per le sue ambizioni personali. Se solo avesse aspettato il suo turno oggi l’Italia sarebbe diversa, migliore. Viceversa lui si è prodigato per un solo scopo, cancellare Berlusconi, abbattere colui che lo aveva sdoganato nel 1993 portandolo fuori dall’angolo nel quale era rinchiuso l’ex MSI. Questo gli italiani lo hanno capito bene e non lo hanno perdonato. Il 14 dicembre 2010 la prima imboscata per far cadere Berlusconi in aula. Fini fonda insieme ad Italo Bocchino, già vice presidente del gruppo parlamentare Pdl, Futuro e Libertà per l’Italia. Un partito senza futuro e che ha oscurato l’Italia. Berlusconi non viene tradito da molti di coloro che in coscienza sapevano di essere in parlamento grazie al suo nome nel simbolo e sopravvive per un altro anno. Una sopravvivenza deleteria. Se fossimo andati al voto in quel momento, oggi già parleremmo di Silvio Berlusconi al Quirinale perché avremmo stravinto le elezioni. Vivacchiare per un anno, stritolati dagli attacchi mediatici, giudiziari della sinistra e quelli dell’ex destra ha portato l’invenzione dello Spread dovuto al governo Berlusconi e le responsabili dimissioni del Presidente del Consiglio, che non era mai stato sfiduciato. L’arrivo di Mario Monti, tanto decantato dall’intellighenzia italiana e dallo stesso Presidente Napolitano, non ha provocato altro che portare l’Italia in recessione. Delle parole chiave di Monti, rigore, equità e sviluppo, gli italiani ricordano impressa sulla loro pelle solo la parola rigore. Un rigore imposto dall’Europa che ha finito per devastare l’Italia. Lo spread dopo mesi è sceso, è vero, ma questo dipende dalle dinamiche dei mercati internazionali non dalle politiche di governo. Ciò è dimostrato in questi giorni di assenza di un governo e della possibilità di formare un governo, dal fatto che lo spread a urne chiuse non è salito e ora sale e scende leggermente. Insomma con la scusa dello spread si è voluto mandare a casa il governo Berlusconi per sostituirlo con un governo tecnico, dimostratosi inefficace e inefficiente e che agli sgoccioli del suo mandato si è trasformato in politico con la sciagurata “salita in campo” nella politica di Mario Monti. Una salita breve, brevissima perché gli italiani sono intelligenti. E’ il popolo che vota, non i salotti. Dopo un anno e mezzo di aumenti di tasse, il Popolo della Libertà nel dicembre 2012 toglie finalmente la fiducia a Monti e il Presidente Napolitano scioglie le camere. I sondaggi per il Pdl sono impietosi, forti anche della devastazione del partito fatta da Fini e da molti della nomenklatura. In verità bisogna dirlo, la fusione tra Forza Italia e An non è mai riuscita. Tant’è che vi è stata un’uscita concordata di una parte di AN trasformatasi in Fratelli d’Italia e che oggi Berlusconi pensa di ritornare al glorioso, positivo logo di Forza Italia. Due parole importantissime in questo particolare momento storico che l’Italia sta vivendo. Berlusconi, criticato all’esterno e quel che è più grave all’interno, dagli stessi uomini che ha cresciuto e sostenuto da un nugolo di fedelissimi e fedelissime, decide di ridiscendere di nuovo in campo e come al solito di correre controvento. Tutti lo deridono, tutti lo danno per morto come dal 1994, lui arriva ad uno 0,49 di differenza dalla sinistra data per stravincente, una sinistra di Bersani che non ha la maggioranza al Senato. Il Pd quasi perde le elezioni, il Pdl le ha quasi vinte.
Silvio Berlusconi. Biografia da Nonciclopedia, l'enciclopedia libera...(irriverente, satirica, anzi, sarcastica, non diffamatoria ma divertente, in poche parole comunistoide, ndr) Oops! Forse cercavi altri significati per Berlusconi? MI CONSENTA!!! Questo articolo ha indispettito Sua Eccellenza il Presidente (un inchino). SILVIO BERLUSCONI. Lei è pregato di rimuovere immantinente ogni frase e/o parola offensiva verso il Cavaliere, altrimenti Lui sarà costretto a querelarLa per diffamazione! E che cribbio! (No, aspettate... sono stato frainteso!...).
Silvio Berlusconi. Sua Maestà Re Sola Silvio Berlusconi, Re d'Italia. Notare i tacchi e la parrucca portati entrambi con assoluta nonchalance, così come le calze con giarrettiera, dono della Brambilla.
Re d'Italia.
Imperatore di Mediaset.
Mandato da Dio.
Preceduto da Silvio Berlusconi I. (È lui, con un altro nome).
Succeduto da Silvio Berlusconi III (È sempre lui, con un altro nome).
Partito politico: FI (Fallimento Internazionale).
Tendenza politica: Pduista, Anticomunista, Monarchico-Assolutistica.
Nascita: Betlemme, anno 0, tra il bue, l'asinello e Bruno Vespa.
Morte: Le sue trasmissioni non avranno mai fine.
Coniuge: Sandro Bondi, Emilio Fede, Daniele Capezzone, Minzolini, Sallusti, Bruno Vespa eccetera eccetera
Religione: Profeta del Berlusconesimo.
NonCitazioni contiene deliri e idiozie (forse) detti da o su Silvio Berlusconi....ma Nonciclopedia contiene anche deliri e idiozie detti veramente da Silvio Berlusconi: Silvio's Facts. Dio, ho pregato perché tu eliminassi quel tipo truccato, pieno di lifting, dalla pelle di colore indefinito, a cui piacevano tanto le ragazzine... E mi hai fatto fuori Michael Jackson?! Deluso di sinistra sul trapasso di Michael Jackson. Basta! Mi hai deluso, Silvio, è l'ultima volta che ti voto e che mi prendi per i fondelli! Italiano medio qualche mese prima di votare Berlusconi. Non c'è bisogno di primarie per il Centro-destra, Dudù sarà il nostro candidato! Silvio Berlusconi sulle prossime elezioni. Silvio Berlusconi non esiste, o quasi. È un'allucinazione mafiosa collettiva multimediale a opera delle reti televisive Mediaset. Gli scienziati del M.I.B. hanno infatti scoperto che se tutti gli italiani spegnessero contemporaneamente la televisione per una intera settimana, Silvio Berlusconi non esisterebbe più. Berlusconi è il primo Presidente del Consiglio in formato sedici nani. Berlusconi è famoso anche per aver stipulato il misterioso Lodo Lucifero con il Diavolo, che alla sua tarda età gli ha permesso di vincere già 3 campagne elettorali semplicemente in cambio dell'anima. Il cavaliere, però, è come tutti gli altri politici che in verità non hanno un'anima (al massimo un grasso e vorace portafoglio) e il Lodo Lucifero si è rivelato un patto capestro ai danni dello stesso povero Diavolo. Questi, accortosi dell'errore fatto, ha cercato di svincolarsi dal lodo senza però riuscirci a causa di una clausola aggiunta a tradimento in caratteri piccolissimi e in veneto dagli avvocati del Cavaliere. Silvio Berlusconi soffre, purtroppo per lui e per noi, di una grave forma di intolleranza: è estremamente allergico alla democrazia, ai giudici, ai comunisti e a chi gli impedisce di fare i comodi suoi. Questo personaggio è la dimostrazione che, in Italia, chiunque abbia faccia tosta e tanto "carisma" (leggi soldi), può raggiungere una posizione di rilievo (anche senza tacchi) per poter evitare le sbarre. Berlusconi ha dato una speranza a tutti i latitanti di questo paese. Premettendo che non sa di aver fatto un plagio al povero Licio Gelli solo creando il PdL ("PdueLoggia"), preparatevi a scoprire cose inedite e/o idiote su questo multiforme personaggio. Attenzione! Politico con smanie autoritarie e con spiccata capacità di smentire qualsiasi cosa detta. In soggetti di sana e robusta Costituzione particolarmente sensibili ai repentini cambiamenti di libertà può provocare mal di testa, nausea, vomito, diarrea, ulcera perforante, malattie psicosomatiche, danni cerebrali permanenti. In soggetti affetti da comunismo può provocare la morte (politica). In soggetti affetti da fascismo può provocare gravi stati di allucinazione, ed alla fine profondi stati depressivi, e poi la morte (politica). Nel caso di interruzione del dosaggio, in alcuni soggetti destrorsi si sono riscontrate nel lungo periodo degenerazioni che possono portare a stati di comunismo confusionale (sindrome del Fini), e successivamente la morte. In caso di semplice contatto con gli occhi, cambiare immediatamente canale o leggere un quotidiano che non sia suo. In caso di contaminazione rivolgersi al web per un accurato lavaggio del cervello. Il politico, anche se in apparenza può sembrare integro, presenta nella confezione numerose tracce di conflitto di interessi mescolate ad altissime dosi di onnipotenza. Controllare attentamente la data di scadenza posta sotto il parrucchino. Una volta scelto non lasciare in luoghi aperti se non con una buona scorta. Teme l'acqua, le contestazioni e i souvenir. Per ulteriori informazioni si legga il foglietto illustrativo. Per la garanzia o l'assistenza rivolgersi alla sinistra. Silvio Berlusconi, genio italiota, è nato ad Arcore per immacolata concezione, il 25 dicembre dell'anno 0; alcuni sostengono che in verità sia solo un agglomerato di botulino senziente, ma non si spiega tuttavia come faccia a non liquefarsi al sole. A 2 anni pronuncia la parola: "mamma". Il giorno dopo smentisce di averla mai detta svelando il primo attentato disinformativo comunista nei suoi confronti. Qualche minuto dopo la nascita il Berlusconi era già vittima di un complotto da parte della magistratura. Cresciuto in un lazzaretto post-guerra mondiale, sin da piccolo si butta in qualunque attività commerciale: vende ghiaccioli agli eschimesi, stufe agli africani, cammelli agli arabi, vodka ai russi e mitragliatrici agli israeliani. Si narra che all'età di 22 anni abbia fatto una scommessa con il Diavolo che si manifestò nella sua stanza da letto con le sembianze di Cesare Previti: il Diavolo gli avrebbe dato potere, soldi e figa illimitati se fosse riuscito ad affondare l'economia, i risparmi e le speranze dell'intera popolazione italiana. Indovinate chi ha vinto la scommessa. In seguito Silvio prosegue l'attività paterna riciclando i proventi di alcuni grandi imprenditori (Totò Riina, Bernardo Provenzano, Raffaele Cutolo ed altri filantropi) e per questo gli fu conferito il titolo di Cav. Lup. Mann. Gran Figl. di Putt.. Infine, il giovane Silvio creò dozzine di canali TV allo scopo di mostrarsi alle masse, ma mai di spalle, per non far vedere la pelata e per paura di essere inchiappettato da Golda Mayer. Preoccupato dagli sviluppi della politica, nel 1993 informò gli itagliAni che alcuni alieni comunisti mutanti e affamati di bambini stavano per invadere il paese e che lui era il solo in grado di poterli fermare. La prima volta l'Italia gli credette in massa, ma poi capì che stava solo facendo un provino per Zelig. Ad un certo punto decise che era ora di farsi conoscere veramente per quello che è, oltre che per quello che NON è. Iniziò una relazione con un famoso avicoltore, Adriano Galliani, e dopo il suo terzo lifting si fece un regalo comprandosi il Milan. Allo stesso periodo risalgono alcune sue partecipazioni ad importanti pellicole come Il Signore dei Tranelli, Pirati delle Libertà, la mitica saga di Ecoballe Spaziali, tant'è che per un mese intero sfoggiò magliette, ricchi premi e cotillon vari del suddetto film fantascientifico con la celebre scritta "Che la farsa sia con voi!". Essendo stato circonciso da piccolo, è costretto a portare la bandana. Essendo un Dio in Terra, nel 1994 Berlusconi ha fondato una religione, il Berlusconesimo, i cui dogmi principali sono: "non avrai altro Dio all'infuori di Silvio" e "Ricordati di evadere le tasse".
Secondo le scritture, Berlusconi morirà in un futuro abbastanza prossimo per colpa dei comunisti e dei loro improperi, ma risusciterà dopo 3 giorni facendo esplodere il suo mausoleo ad Arcore; a quel punto tutti si convinceranno della sua grandezza e magnificenza. Si recherà a quel punto dai suoi 10 apostoli (in realtà erano dodici, ma Casini e Fini lo hanno tradito) Fede, Paolo Bonaiuti, Daniele Capezzone, Maurizio Gasparri, Bruno Vespa, Adriano Galliani, Umberto Bossi, Marcello Dell'Utri, Sandro Bondi e Cesare Previti e dirà loro di andare e diffondere la sua parola nel mondo. A Fede dirà: «Fede, tu sei Fede, e su questa Fede fonderò la mia Fede.» A quel punto tornerà in cielo e siederà al posto del padre, che scalerà di un posto sulla sua destra. Gli Apostoli di tale profeta, guidati dall'apostolo Bondi, predicano tutt'ora attraverso i canali mediatici sotto la guida del teorico della Fede, Emilio Fede. Con i loro proseliti hanno convinto i 2/3 degli italiani che Berlusconi è l'Unto del Signore, e che loro sono dei formidabili leccaculo. Questa fede, come spiega Fede, si basa sulla Santissima Trinità berlusconiana: il Papi, la Figa e lo Spiritoso Santo, e contempla anche una preghiera per ingraziarsi i favori del Cavaliere: il Silvio nostro, che sei ad Arcore. Berlusconi, si sa, è un gran cazz cattolico, nonché amico personale e sostenitore assiduo del Papa. Infatti è ormai certo che, mentre Ratzinger ottiene l'otto per mille dai suoi fedeli con la minaccia di fargli arrostire le pacche all'inferno per l'eternità, Silvio si accontenta tramite i suoi super poteri di accaparrarsi il restante 992 per mille della ricchezza italiana. Silvio Berlusconi ama la famiglia, la ama talmente tanto che ne ha avute due o tre. La ama talmente tanto che è arrivato a pagare i suoi fedeli per accorrere in sua difesa. Certo, è divorziato e ama spassarsela con le sue ragazze facili minorenni nella villa abusiva in Sardegna, ma a nessuno (che non abbia una mente propria) importa nulla. È proprio questo che conferma la vicinanza tra Berlusconi e la Chiesa: il comune impegno nel campo della pedofilia. In ciò non c'è neanche il conflitto di interessi: per quanto se ne sa finora, Berlusconi preferisce le femminucce. Se in un prossimo futuro dovesse diventare Papa (la possibilità esiste) ha già deciso che si chiamerà "Pio Tutto" o anche "Forza Papa Primo", nel frattempo è frate con il nome di fra' Inteso. Anche grazie al dono dell'ubiquità, Berlusconi è in grado di trasformarsi in un supereroe, Il Cavaliere Mascarato, non entrando in una cabina telefonica come Superman, bensì in una sala trucco. La sua identità segreta venne svelata nel corso del programma di enogastronomia balistica dei RIS "Striscia la Perizia". La memoria di tutti coloro che videro la trasmissione fu in seguito cancellata dal neuralizzatore dei Men in black e l'autore del servizio, Daniele Piombi, fu direttamente calciorotato fuori dal palinsesto televisivo e dall'universo conosciuto. Nei pochi frammenti di memoria rimasti nei telespettatori lobotomizzati, a distanza di anni riaffiorano alcuni dei superpoteri del Cavaliere Mascarato:
Dono di prendere voti nonostante la gente conosca che racconta cagate.
Lifting (tendendo la pelle in modo inimmaginabile diventa invulnerabile).
Riportare in vita i defunti (specialmente in periodo elettorale, nel quale i suoi poteri si accrescono) con la fatidica frase: Lazzaro, alzati e vai alle urne!
Sorriso ad 84 denti (superando lo Stregatto, per abbagliare e poi mordere): è molto contento pensando a tutti i soldi che ci ha fregato.
Dono del conflitto di interessi (per diventare il proprietario di qualsiasi cosa gli capiti sotto mano e poi creare conflitti di interessi che prontamente non saranno risolti dal governo che gli succederà).
Ciuffo di tre capelli (con cui capta e riceve onde radio a frequenza nascosta).
Op-op Gadget scarpe (che lo elevano da terra dandogli la statura di un centro dell'NBA).
Cantare con Mariano Apicella (è un'arma di distruzione di massa).
Spendere tutti i soldi delle casse dello stato e poi dire: "non sono stato io!"
Immunità Plenaria, concessagli da Padre Mastella in persona.
Ubiquità: gli consente di essere in villa, a "Porta a Porta", in Yacht, nella tenuta di Arcore, nella residenza in Sardegna e nelle mutande di 10 soubrette contemporaneamente.
Smentire le dichiarazioni pesanti e antidemocratiche e fare finta che non sia successo niente.
Abbassare le tasse prendendo i soldi mancanti dalle tasse.
Multifunzione: gli concede il potere di controllare contemporaneamente reti televisive, telegiornali, giornali, riviste, decisioni politiche, decisioni economiche, imprese, fabbriche, sondaggi, squadre di calcio, programmi televisivi e il pensiero degli italiani.
Multicitazione: ha il potere di essere citato in infiniti processi per infinite ragioni.
Annettere al suo harem qualunque troietta gli passi davanti (se la troietta è minorenne, questo potere si amplifica con ubiquità e multifunzione e diventa devastante).
Dono delle lingue (o Maccheronico): per farci fare figure di merda ovunque nel mondo.
Battuta letale: ha il potere di dire sempre freddure in grado di scaldare il soggetto della battuta stessa (se applicato in meeting internazionali molto importanti può portare alla terza e ultima guerra mondale).
Potere di preveggenza, dovuto alla testa pelata, gli consente continuamente di evitare la galera, mandandoci al suo posto l'amico Previti (che però se l'era ben guadagnata), sapendo comunque che l'indulto gli avrebbe salvato il fondoschiena.
Potere di farsi votare più e più volte ipnotizzando gli italiani tramite il Grande Fratello. Dopo la prima volta gli italiani si sarebbero accorti di sicuro di tutte le cazz... che aveva fatto.
Impossibile eliminare questo elemento: potere che gli consente di non lasciare mai la poltrona e di riscendere in campo. Avviate programmi di rimozione forzata o formattate il computer per rimuovere definitivamente questo virus. (è immune all'antivirus Bersani).
Top Secret: A costo della vita, un gruppo di ribelli ha trafugato i piani della Morte Nera un documento storico segreto di avventure del Cavaliere Mascarato: fate che il loro sacrificio non sia stato vano!
Silvio Berlusconi ama condurre una politica internazionale basata esclusivamente su legami di amicizia palesemente non ricambiati con i capi di stato esteri: due dei suoi più grandi amici sono Bush e Blair. La Politica Internazionale nei confronti di USA e Gran Bretagna è molto semplice: l'Italia garantisce il suo incondizionato appoggio a ogni fregnaccia partorita da USA e Inghilterra in cambio di tralicci dell'ENEL prefabbricati nelle potenti acciaierie estere. È molto importante anche il suo rapporto con Vladimir Putin, suo compagno di classe ai tempi del corso per majorette. Berlusconi e Putin sono soliti scambiarsi regali e gadget in occasione dei loro frequenti incontri. Nell'ultimo di questi, Berlusconi ha regalato a Putin la Puglia, Putin ha ricambiato con un dito medio appena tagliato al Cuompagno Strasbuijtiev, noto astronauta. Nei confronti della Russia la politica di Berlusconi è la seguente "Vai avanti tu, che a me scappa da ridere". Fra gli ultimi che hanno potuto fregiarsi del titolo di suoi amici, ci sono stati Mubarak e Gheddafi. Mubarak, in particolare, lo teneva tanto in conto da affidargli la nipotina prediletta, tale Ruby, mentre con Gheddafi ha avuto stimolanti scambi d'opinione sull'opportunità di costituire un reparto d'élite di guardie del corpo donne. I suoi amici, stranamente, finiscono qui. Ma non tanto stranamente, poi, vista anche la fine che hanno fatto gli ultimi due. Vale la pena soffermarsi quindi sulla politica tenuta nei confronti delle nazioni più importanti del mondo:
La politica verso l'Albania è alquanto aggressiva, a volte arriva addirittura a punire l'impero adriatico affondando le barche di clandestini.
Nei confronti della Francia si limita a inviare all'Eliseo migliaia di telefoni cordless al giorno.
Verso la Germania è in vigore una vantaggiosissima politica di scambi commerciali: in Italia vengono importati articoli Sadomaso in cambio di Piccioni utilizzati dai governanti tedeschi al solo scopo di insozzare i propri monumenti. I rapporti con quest'ultima, tuttavia, stanno migliorando da quando come cancelliere tedesco è stata eletta Angela Merkel che, come tutte le donne, non può resistere al grande fascino da playboy di Silvio.
A novembre 2008 Silvio si riporta sul palcoscenico internazionale e, in seguito alla Riforma Gelmini e alle sue battute del cazzo su Obama, l'Università La Sapienza gli conferisce la Laurea di Coglione ad honorem e l'Unesco, per proteggerlo dalla reazione americana, lo ha dichiarato Patrimonio Mondiale dell'Umanità.
Essendo l'uomo più potente del mondo, con una rilevanza politica superiore a quella del presidente degli Stati Uniti [citazione necessaria], Silvio Berlusconi è spesso bersaglio di attentati di natura terroristica, da parte di fazioni comuniste, che sfortunatamente non si sono mai conclusi in tragedia:
Il 31 dicembre 2004, il premier fu colpito da un treppiede, estremamente appuntito, di un fotografo notoriamente comunista. Secondo le testimonianze dei presenti il treppiede fu deviato, presumibilmente dalla mano della vergine Maria, a pochi centimetri dal soggetto, verso un punto non vitale del corpo. Il feroce attentatore fu prontamente arrestato e dopo un giorno di reclusione ricevette la visita di Berlusconi, che gli concesse il perdono e l'assoluzione di tutti i peccati.
Il 13 dicembre 2009, alla fine di un trionfale comizio del PdL il cavaliere, mentre rilasciava le ultime benedizioni ai fedeli in piazza Duomo, colpì con tutta la forza della sua testa una riproduzione in scala 1:1 del Duomo tenuta casualmente in mano dallo psicolabile Massimo Tartaglia. Berlusconi riuscì, sempre per opera divina, a sopravvivere e ancora una volta l'attentatore fu immediatamente arrestato. Il gesto fu subito condannato "senza se e senza ma®" da ogni schieramento politico, tranne ovviamente l'IdV. Massimo Tartaglia in seguito ad alcune analisi venne giudicato incapace di intendere e di volere, perché votava PD ma, sopratutto, per avere la tendenza a rovinare in modo incontrollato i souvenir di Milano.
«È tutta colpa di Annozero, anzi Annominchia!» (Emilio Fede risponde pacatamente ad un inviato di Annozero dopo l'aggressione a Berlusconi)
Non ti basta? C'è anche Veronica Lario. Ao' cari ciociari de repubblica, io devo vendicarmi di quel sant'uomo di mio marito, voi scrivete le prime cazzate che vi vengono in mente e attribuitele a me, ok, allego a questa lettera un assegno in bianco per motivarvi. Moglie di Silvio
Si sa, Berlusconi è un uomo fedele e casto, e non tradirebbe mai la moglie, ma la moglie, nel suo essere una malvagia comunista lo tradisce, cribbio se lo tradisce! Ma essendo comunista e visto che i comunisti pensano che tutto è di tutti, anche la moglie del cavaliere è di tutti.
Non ti basta? C'è anche Pier Silvio Berlusconi. Dei tre di secondo letto, due hanno preso fortunatamente dalla madre, ma con Barbara purtroppo la natura non è stata altrettanto compassionevole. I due di primo letto, invece, hanno preso fortunatamente da un vecchio vicino di casa.
In verità Silvio vorrebbe tanto costituirsi, ma una delle leggi che si è fatto glielo impedisce. Frange estremiste del Tg3 sostengono comunisticamente che Berlusconi abbia contatti con Satana, ma Silvio nega qualsiasi amicizia rossa. Frange estremiste delle Micro Machines dichiarano che Berlusconi sia in realtà una Cadillac del 1962 dopo un brutto incidente. La moglie, rivedendolo in casa dopo che si era trapiantato i capelli, ha detto che non aveva richiesto nessun idraulico.
Non ti basta? C'è anche Procedimenti giudiziari a carico di Silvio Berlusconi. "Quelle maledette toghe rosse non riusciranno più a intercettarmi adesso!"
1958 - False dichiarazioni, neanche tanto false... si stava per imbarcare su una nave da crociera dove era solito andare per raccontare barzellette, quando ubriaco venne fermato dal personale di polizia e intimò le guardie di lasciarlo stare perché lui sarebbe diventato Presidente del Consiglio e lì sarebbero stati cazzi amari per tutti.
1970 - Mancato pagamento del biglietto sul rapido Rimini-Bologna (Assolto perché il controllore era un comunista).
1976 - Atti osceni in luogo pubblico: si toccava osservando un manifesto di Veronica Lario (Assolto ma condannato a sposare la Lario).
1981 - Associazione sovversiva, si iscriveva alla bocciofila P2 di Castiglion Fibocchi. (Assolto perché non sapeva giocare a bocce).
1986 - Aggiotaggio, tentava di comprare Il Corriere della Sera. (Assolto perché non sapeva leggere).
1992 - Falso in bilancio, faceva la cresta sulla spesa per ricavare i soldi per comprare i dischi di Franco Califano. (Prescritto grazie al Lodo Califano).
1996 - Traffico di valuta, portava franchi di cioccolato dall'Italia alla Svizzera. (Assolto raccontando la barzelletta nella quale ci sono: uno svizzero, un americano e un napoletano...).
2001 - Corruzione, pagava (con la carta di credito di Zio Fester) una cenetta con annessa mignotta all'arbitro di Milan-Cesena (Prescritto perché la mignotta era un trans).
2008 - Disturbo alla quiete pubblica, alzava il volume dello stereo a tutto volume così che il suo album inciso con Mariano Apicella, La vita è 'nu babbà si sentiva da Villa Certosa a Villa San Giovanni (Prescritto in virtù del Lodo Apicella)
2009 - Per risolvere i suoi problemi giudiziari, il Cavaliere è ricorso prima al Lodo Schifani (bocciato perché incostituzionale), e poi al Lodo Alfano (identico e quindi ri-bocciato perché incostituzionale); infine ha pertanto deciso di raccogliere le Sfere del Drago perché gli fosse concessa l'immunità contro i giudici comunisti. La risposta del Drago Shenron, documentata da Emilio Fede nella puntata n. 666 di "Dragonball PdL", è stata: "Sti cazzi". Proprio per questo, Sua Nanezza ha intentato causa al Supremo, con l'accusa di essere una spia comunista proveniente dalla colonia sovietica di Namecc. In risposta a tale calunnia, i Guerrieri Z hanno organizzato un corteo di protesta contro Silvio Berlusconi ed in supporto del Supremo, cui hanno partecipato anche numerosi giudici, intonando all'unisono "Meno male che Shenron c'è!"
2013 - Concussione e prostituzione minorile, il ritorno dei soliti comunisti che fraintendono la realtà! Il Cavaliere è stato ripetutamente stuprato da minorenni da capogiro e igieniste dentali in maschera nella sua villa di Arcore, fin quando non arrivò una terrorista marocchina a peggiorare il tutto! Nonostante la condanna in primo grado, si auto-assolverà reincarnandosi in Spongebob e distruggendo finalmente il comunismo.
Nonostante alcuni (i giudici cattivoni comunisti, e i loro complici i collaboratori di giustizia) sostengano che Berlusconi sia mafioso, l'accusa è falsa. Il cavaliere non è assolutamente schierato dalla parte della Mafia, ma è uno statista equilibrato e super partes, con un alto senso morale dell'amicizia, come sanno bene gli amici degli amici. Ha infatti appoggiato ad esempio il politico camorrista Nicola Cosentino allo stesso modo del mafioso Totò Cuffaro, e dopo la monnezza a Napoli, ha provveduto per equità a riempire di spazzatura anche Palermo. Possiamo quindi rassicurare: la Camorra che non sarà danneggiata dai favoritismi. L'unica associazione benefica con cui non riesce ad entrare in contatto è la Sacra Corona Unita, in quanto tenuta in ostaggio da un Presidente di regione che incarna il peggior incubo di Berlusconi: un comunista omosessuale.
Pensi che Berlusconi sia onesto?
Certo che è onesto: mi ha appena pagato 600 mila dollari per testimoniare la sua onestà al processo.
Ho paura a rispondere sinceramente: se lo faccio il colore dei miei calzini verrà sputtanato in diretta tv.
Sì che è onesto: Emilio Fede lo ha appena detto al TG 4.
Minchia, Berlusconi non esiste: un'invenzione dei giornalisti è.
Berlusconi è diversamente onesto.
Berlusconi è onesto e vuole solo riparare i torti di Robin Hood; quindi ruba ai poveri, per dare a se stesso.
Ancora con le insinuazioni delle toghe rosse?! In base alla nuova legge che abbiamo approvato, Berlusconi è onesto.
Il sondaggio è stato creato alle ore 04:35 del lug 1, 2011, e finora 25802 persone hanno votato.
Non ti basta? C'è anche Vangelo Apocrifo di Arcore.
Santo Silvio da Arcòre ti porto sempre nel mio cuore; [ora pornobis]
Tu che fai sempre tutto in un botto facci presto vincere al superenalotto; [ora pornobis]
Tu con la tua grande coscienza donaci presto l'incontinenza; [ora pornobis]
Tu che ad Obama dici negretto prendilo a calci e buttalo dal tetto; [ora pornobis]
Tu che vuoi fare una buona azione alla Fiat mandali in cassa integrazione; [ora pornobis]
Tu che ami i tuoi connazionali falli vivere tutti come animali; [ora pornobis]
Tu che adori il Bunga Bunga fa che il Viagra funga; [ora pornobis]
Tu che sei l'utilizzatore finale a guardarti io sto male; [ora pornobis]
Ora pornobis; ma ci devi lasciare, solo senza di te possiamo pensare, [Ora pornobis]
Grazie all'utilizzo di ormone somatotropo (che gli ha restituito i capelli persi prima di diventare una divinità) Berlusconi è destinato a vivere molto a lungo, questo ovviamente gli permette di fare programmi a lungo termine, pare infatti che abbia intenzione di diventare prima presidente della repubblica, poi papa e infine Dio! Il berlusconismo smetterà quindi di essere una forma politica e diventerà una religione! Gli angeli custodi saranno il prestanome Alfano e la musa ispiratrice Totò Riina. La Bibbia verrà eliminata e sostituita dal manuale del mafioso perfetto. Dio, Gesù, Budda, Allah si stanno cagando sotto dalla paura! Una volta finito il suo mandato da presidente del consiglio, salirà sul famoso colle e spingerà di sotto Napolitano, impossessandosi definitivamente della Repubblica italiana. Dopo qualche anno, con l'appoggio della Lega e dei suoi quattro gatti chiederà le dimissioni di Papa Jorge Mario Bergoglio volgarmente detto Francesco I allo scopo di diventare il sovrano assoluto della Città del Vaticano. Arrivato infine alla tenera età di 96/97 anni nel pieno della sua giovinezza ambirà a diventare DIO. Si stima che Berlusconi vivrà almeno fino a 135 anni. Insomma, piano piano si farà, c'è tempo. Non temete....
Anche con tutta la sua buona volontà, la sag(r)a dell'uomo di Arcore prima o poi dovrà finire. Fermo restando l'augurio al Cavaliere di rimanere in vita almeno fino a che possa essere giudicato da un giudice, della fine di Silvio parla persino una quartina di Nostradamus, e già circolano vari sondaggi sull'argomento (forse richiesti da Lui in persona).
Secondo quanto riferito da qualcuno, il Berlusca è stato costretto a dimettersi con uno stratagemma: questi stava attendendo una igienista diciottenne per avere un servizio sanitario e invece gli è arrivata la Lewinsky, pare mandata dal Segretario di Stato Hillary Clinton in persona. Quando se n'è accorto era ormai troppo tardi e ha dovuto firmare le dimissioni sotto minaccia dentale.
Il 27 novembre 2013, dopo una lunga ed epica battaglia fra bene e male, giustizia e impunità, politica e palazzo, Travaglio e Sallusti, l'ignobile atto, l'indicibile stupro della democrazia è finalmente compiuto: il Cavalier Silvio Berlusconi decade da senatore, a vent'anni esatti dalla sua discesa sul ring, la spugna gli viene gettata in faccia da Paola Severino che, nonostante la menomazione, dimostra di avere un'ottima mira legislativa. Il popolo degli italiani che amano la figa è in lutto mentre quello degli spregevoli comunisti è in festa, colla barca Italia che affonda perché il Ministero per l'Avvistamento degli Iceberg nel Mediterraneo non ha svolto il proprio dovere.
Amici: Marcello Dell'Utri, Bernardo Provenzano, Vittorio Mangano, Licio Gelli (Compagno di merende ai tempi della scuola privata "Liceo Paritario Loggia P2"), Cesare Previti, Mariastella Gelmini, Umberto Smaila, Omino Silvio (fratello dell'Omino Sentenzioso), Totò Riina, Il Joker, Il Comandante Red del Red Ribbon (vanno spesso a Gardaland senza pagare perché più bassi di un metro), Gianni Baget Bozzo, Wikipedia, L'ano degli italiani, Renato Schifani, Sandro Bondi (Silvio ormai non è più quello una volta, lo lascia per un amante più giovane e più berlusconiano), Emilio Fede (l'ex), Il bisturi, Tu, Moratti (Massimo e Letizia), Vladimir Putin, Satana, Il chirurgo dei trapianti di capelli, Bruno Vespa.
Nemici: "La televisione italiana è comunista!". La Costituzione Italiana. La Magistratura. La Guardia di Finanza. Gli studenti universitari. Il Conflitto di interessi. Le intercettazioni telefoniche. L'intelligenza. La libera informazione. L'uguaglianza. L'onestà. Rai Tre. Massimo Tartaglia. Martin Schulz. Sua moglie. Io. Marco Travaglio. Enzo Biagi. Michele Santoro. I Power Rangers, specialmente quello rosso. La Kriptonite. I comunisti. Daniele Luttazzi. Rosy Bindi. La calvizie. L'altezza. Light Yagami che, come risaputo, perseguita i criminali. Phoenix Wright, il servitore della giustizia eterna. Romano Prodi. Angela Merkel. Nonciclopedia. Dio, perché si crede superiore a lui.
Denominazioni: Dio, Pirluscone. Burlesconi. Psico-nano malefico. Portatore sano di democrazia. Truffolo. Frottolo. Portatore nano di democrazia. Unto del Signore. Il signore dei tranelli. Napoleone. L'ottavo nano. Psiconano. Bubusettete. Berluscon de' Berlusconi. Papi. Presidente operaio. BerlusKaiser. Sua impunità. Plastic-face. Sua emittenza. Al Tappone.
Il futuro di Silvio Berlusconi: Iron Silvio, il politico bionico immortale.
Berlusconi non è un imbroglione, è solo un diversamente onesto.
Berlusconi detiene il copyright della frase: sono stato frainteso. Chiunque la dica deve pagargli diritti.
Il cervello di Berlusconi è come un elettrone: di massa trascurabile.
Se si digita "merda" su Google, apparirà come primo risultato un suo video. Clicca qui.
Se invece di "merda" si digita "buffone", il suo cognome farà capolino già dal primo risultato, sempre seguito dall'immancabile pagina di Wikipedia dedicata al termine in questione. Clicca qui.
Si deve a lui la diffusione della frase: "Mi sono fatto da solo" con la quale ha dato un grande insegnamento alle generazioni future che già da tempo si fanno da soli. Senza manco usare il laccetto.
Berlusconi è il protagonista del famoso videogioco President Evil.
È il più importante esponente dei Cavalieri della Tavola Rotonda: con la carica di "Condottiero del Popolo della Libertà" ha fermato lo strapotere dell'Impero rosso nel nostro paese.
Il presidente Berlusconi è davvero il presidente di tutti, infatti ha processi in corso con metà della popolazione italiana.
È una delle menti che stanno dietro il Grande Complotto Internazionale.
Molte persone considerano Berlusconi una persona così importante che molte persone vorrebbero pulirgli il culo con il dito medio.
I capelli di Berlusconi contengono kryptonite.
Berlusconi non ha mai avuto bisogno di farsi un bidet.
Berlusconi da piccolo non riuscivano mai a interrogarlo, riusciva sempre a temporeggiare fino a far suonare la campanella. Certe virtù te le porti dietro per tutta la vita.
Ha subito 10 by-pass al cuore, ma 7 se li è fatti condonare.
È l'unico capace di rendere costituzionale una legge anticostituzionale.
Recentemente in una conferenza ha dichiarato di aver pagato i giudici, poi si accorse dell'errore e pensò "Non è vero che io ho pagato i giudici! Ho pagato pure altra gente!!!".
Berlusconi presenta una curiosa allergia verso le statuette del Duomo di Milano: al solo contatto gli sanguina tutta la faccia e gli si rompono i denti.
Nel 2010 è stato eletto "Man of the year" per merito dall' A.I.E Associazione italiana Escort.
Berlusconi non ha mai corrotto nessuno, è solo un uomo molto generoso.
Alcuni sociologi sostengono che Berlusconi poteva far successo solo in un paese come l'Italia.
Nella sua pagina di Wikipedia la parola "corruzione" compare ben 11 volte.
Onorificenze e titoli:
- Cavaliere del Lavoro Nero.
- Gran maestro della smentita.
- Gran maestro delle leggi ad personam.
- Gran maestro del falso in bilancio.
- Gran cavaliere dell'ordine dei Barzellettieri.
- Grand'apprendista muratore della P2.
- Cavaliere dell'ordine dei Puffi.
- Miglior bersaglio del Duomo degli ultimi 150 anni.
- Membro di I classe dell'ordine dei vittimisti.
- Membro di I classe dell'ordine padano. (Conferitagli da Umberto Bossi)
IL VENTENNIO POLITICO DI SILVIO BERLUSCONI: L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
Luglio '93, viale Isonzo, Milano: così (in segreto) nasceva Forza Italia. Venticinque anni fa, in piena Tangentopoli, Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri creavano il loro nuovo partito. Ma solo sei mesi dopo il Cavaliere sarebbe "sceso in campo" pubblicamente. Ecco la storia di quei giorni, scrive Alessandro Gilioli il 24 luglio 2018 su "L'Espresso". È l’inizio di luglio del 1993. Due mesi dopo le monetine lanciate a Bettino Craxi al Raphaël. Una manciata di giorni prima dei suicidi eccellenti di Cagliari e Gardini, dello scioglimento della Democrazia Cristiana, delle bombe mafiose di Milano (via Palestro, 5 morti) e Roma (San Giovanni in Laterano, San Giorgio al Velabro). Silvio Berlusconi fa una telefonata a Edoardo Teruzzi, il suo geometra di fiducia, quello che gli aveva costruito Milano 2: «Mi serve per settembre», gli dice. Si riferisce alla ristrutturazione di un palazzo in viale Isonzo 25, a Milano, di proprietà Edilnord, quindi dello stesso Cavaliere. Sarà la prima sede nazionale di Forza Italia. Mentre la Prima Repubblica crolla e lo Stato trema, Berlusconi sta creando il suo nuovo partito e ne prepara il quartier generale. Il geometra Teruzzi deve rinunciare alle consuete vacanze a Clusone con la famiglia: resta in città per dare ordini ai muratori che sventrano pareti e cambiano pavimenti. Fino alle elezioni, sarà lì che si preparerà tutto. Intanto parte anche l’operazione immagine: due signore abbronzate che si qualificano come impiegate Fininvest si presentano alle sedi milanesi di tre agenzie fotografiche (Olympia, De Bellis e Fotogramma) chiedendo di acquistare per sempre - e quindi togliere dal mercato - tutte le foto in cui il Cavaliere è venuto male. Il 10 luglio, un sabato, alle 9,30 del mattino vengono convocati ad Arcore i cinque pezzi più grossi dell’azienda: Fedele Confalonieri, Marcello Dell’Utri, Adriano Galliani, Gianni Letta e Cesare Previti. Berlusconi annuncia ai suoi maggiorenti la decisione di entrare in politica. In quella stessa settimana iniziano anche i cosiddetti “cenacoli”: il Cavaliere incontra imprenditori e dirigenti per preparare la discesa in campo. Gli appuntamenti prendono il via a Roma, alla sala ricevimenti Villa dei Quintili, quattro ettari di parco sull’Appia Antica: ci sono tra gli altri Francesco Averna (quello dell’amaro), Gerardo Rubino (caffè Kimbo) e Gianfranco Carlone (pasta Molisana). Il Cavaliere arriva, saluta e attacca: «Non vi ho invitato per parlare del Milan né di Publitalia, ma di un nuovo partito politico». Dopo un po’ di cene La Stampa riceve una soffiata e ne scrive, ma subito Berlusconi smentisce: «Sono solo iniziative culturali tra persone che credono nella famiglia, nel lavoro, nel risparmio e nella libertà di mercato». Un partito? Macché, mente di nuovo il Cavaliere il giorno dopo a Repubblica: «Non abbiamo alcuna intenzione di fondarne uno. Ci sono state semplicemente cinque o sei cene private a casa di amici nelle quali in modo informale ci siamo detti di fare attenzione a quello che succede nel Paese». Infine Berlusconi inganna anche un cronista del suo Giornale, Nanni Delbecchi: «Il “partito di Berlusconi” è l’ultima trovata di certa stampa», dice. «Né io né i miei collaboratori ci siamo mai sognati di entrare in politica». La storia ufficiale di Forza Italia inizierà più di sei mesi dopo, con il famoso video da Arcore: «l’Italia è il Paese che amo», 26 gennaio 1994. Ma il Berlusconi capopartito nasce in realtà nei giorni più caldi del luglio di 25 anni fa, mentre l’Italia brucia di arresti e bombe mafiose, mentre cadono a uno a uno gli storici referenti di Fininvest nella Dc e nel Psi, mentre si conferma «il fondato pericolo che si crei una situazione ostile ai nostri interessi che ci costringa a scendere sul terreno politico» (parole del Cavaliere ai vertici della Mondadori, invitati ad Arcore appena caduto il governo Amato, ancor prima della telefonata al geometra Teruzzi). È così che inizia il quarto di secolo berlusconiano. E appena il palazzo di viale Isonzo è pronto, Edilnord lo cede in comodato d’uso a una nuova società creata per agevolare l’ingresso di Berlusconi in politica: la Diakron di Mario Valducci e Gianni Pilo, due dirigenti Fininvest formalmente licenziatisi dal gruppo per svolgere il nuovo compito. Valducci e Pilo sono i primi a trasferirsi da Milano 2 a viale Isonzo: il primo si occupa di conti (poi farà a lungo il deputato e il sottosegretario); il secondo inizia la raffica di sondaggi più o meno farlocchi che il Cavaliere cavalcherà per arrivare a Palazzo Chigi. Dopo le cene di luglio, a fine estate, è il momento dei pranzi ad Arcore, per esporre il piano ai maggiori esponenti dell’informazione Fininvest: Giuliano Ferrara, Maurizio Costanzo, Paolo Liguori, Gigi Vesigna, Andrea Monti, Nini Briglia, Enrico Mentana ed Emilio Fede, oltre naturalmente ai vertici dell’azienda, da Dell’Utri a Confalonieri, da Letta a Galliani. Nel primo di questi incontri, Berlusconi spiega il suo progetto politico «a disposizione del quale voglio mettere la mia capacità organizzativa», dice. Letta, Confalonieri e Mentana non nascondono le loro perplessità; Ferrara, Fede e Dell’Utri sono invece favorevoli. Ed è proprio quest’ultimo il più entusiasta, nominato capo operativo sul campo. Allora Dell’Utri è infatti il numero 1 di Publitalia ‘80, la concessionaria di pubblicità Fininvest, dotata di una rete capillare di venditori di spot: insomma, una grande macchina organizzativa sul territorio («diabolica e modernissima», la definisce entusiasta Vittorio Sgarbi), compattata da un forte senso di squadra, a sua volta irrobustito e celebrato a ogni annuale convention. Durante una di queste - quella del ‘94, a vittoria ottenuta - lo stesso Dell’Utri ringrazierà i suoi uomini rivendicando orgoglioso il suo e il loro operato: «Forza Italia è figlia nostra, l’abbiamo creata noi!», e giù un mare di applausi che fanno tremare i muri dell’Auditorium Hotel Loews di Montecarlo, tra il casinò e il mare. Già: sono quelli di Publitalia a creare i “club” e i “kit”, quell’estate, sono loro a selezionare i volti televisivi e i candidati. Loro, capitanati dallo stesso Dell’Utri e dal suo luogotenente Domenico Lo Jucco, uno dei primi a prendere possesso di un ufficio al terzo piano della sede a viale Isonzo, nel settembre del ‘93, quando ancora l’Italia ignora cosa sta preparando Berlusconi. Molti di loro nel ‘94 passano direttamente da Publitalia al Parlamento o al governo, fino a diventare per decenni volti noti della politica: come Micciché, Galan, Martusciello. Il loro capo, Dell’Utri, invece vuole diventare “coordinatore ufficiale” - insomma il segretario del nuovo partito - ma la nomina sfuma in fretta: già allora è sotto inchiesta (false fatture e frode fiscale) ma soprattutto è indagato in Sicilia per mafia (e ci vorranno vent’anni esatti perché si arrivi alla condanna definitiva per complicità con quella stessa Cosa Nostra che nel luglio del ‘93 metteva il suo esplosivo a Milano e a Roma). Curiosamente, la carica di coordinatore della neonata Forza Italia va allora a Cesare Previti, avvocato vicinissimo al Cavaliere da molti anni, l’uomo grazie al quale nel 1973 si era comprato a un prezzo di favore villa Certosa. Nel ‘93 Previti ha ancora la fedina penale pulita, ma nel 2006 finirà anche lui in galera: corruzione in atti giudiziari, condanna confermata in Cassazione con interdizione a vita dai pubblici uffici. Questo è l’inizio della storia di Forza Italia. Che non può essere ridotta solo a vicenda criminale, certo, eppure a questa s’intreccia: quello nato nel luglio del 1993 - mentre venivano arrestati i referenti politici di Berlusconi e mentre scoppiavano le bombe messe dai referenti mafiosi di Dell’Utri - è l’unico partito di sempre i cui tre cofondatori sono poi stati tutti condannati con pene definitive - e tutti passati per il carcere o altre pene alternative. E fino a pochi giorni fa Dell’Utri - ora ai domiciliari per motivi di salute - era ancora a Rebibbia. Vale la pena di ricordarlo anche adesso, che dopo cinque lustri la parabola personale di Berlusconi si è conclusa. Per rispetto della verità storica, cioè della memoria: senza la quale non si potrà mai capire il presente, né intravedere un futuro più decente.
Dieci anni, mille bugie. Ricordate il bel libretto che Berlusconi ci spedì a casa? Siamo andati a vedere che cosa c'era scritto. E a rileggerlo adesso non si sa se ridere o piangere, scrivono Marco Damilano e Denise Pardo il 20 giugno 2010 su "L'Espresso". Ponti, strade, porti e faraonici tunnel verso l'Europa. Uno Stato leggero, iper tecnologico, digitale. Un Parlamento finalmente snello. Una giustizia rapida con le norme riscritte da capo. E poi il Piano per il Sud, e soprattutto, la realizzazione dello slogan della vittoria, il lasciapassare per la Storia, la Rivoluzione Liberale. Via le tasse e, signore e signori, un Codice Fiscale Unico al posto di 3 mila leggi. Dopo Giustiniano e Napoleone, il Codex Berlusconi, uomo sobrio, cortese, animo bucolico e agreste. Italia 2010, il paese che non c'è. Il paese dei sogni? No, il paese di Silvio. Quello che aveva garantito nel 2001 con il libro spedito alla vigilia della campagna elettorale nelle case degli italiani per presentare lo Stato che avrebbe costruito in dieci anni, a immagine e somiglianza della sua vita e della sua vis. Ben più che un programma, un album di famiglia, una tavola delle leggi, la proiezione di quello che sarebbe diventata l'Italia sotto la sua guida. Il titolo, indimenticabile, "Una Storia Italiana". Dieci anni dopo, il Decennio si rivela per quello che è, una storia all'italiana: biografie candeggiate, promesse mirabolanti, progetti grandiosi. Tutto ancora da fare. "Prima della fine della legislatura arriveremo a un codice unico di norme fiscali", annuncia con l'aria di chi ne ha inventata una clamorosa il 9 giugno alla Confartigianato. Platea di personcine davvero educate o un bel po' smemorate. Infatti, la stessa scena si era ripetuta nello stesso posto due anni prima, e forse due anni prima ancora. Di certo era una delle cinque grandi missioni per cambiare il Paese. "Ecco l'Italia nuova, il progetto della Casa delle libertà, l'Italia del 2010", annunciava il cahier berlusconiano nella primavera 2001, quando Obama era solo un avvocato di Chicago, un caffè costava 800 lire e le Twin Towers erano ancora al loro posto. Invece del mondo nuovo, resta un diluvio di leggi ad personam, nessuna grande opera, solo se si escludono lifting e trapianti di capelli. Per tutti gli altri gli anni sono passati (invano), lui si comporta come se fosse sempre ai blocchi di partenza, come se fosse l'Anno Zero di Silvio. Nel 2000 aveva decretato: via l'Irap, "che io chiamo imposta rapina". Al massimo due aliquote, una al 23 e una al 33, poi esenzione totale per famiglie con redditi bassi. Fatto e stampato. Ma qualcosa deve essere andato storto. Perché due mesi fa, il Presidente Annunciatore ha preso un altro impegno solenne: "La prima cosa che faremo sarà pensare alle famiglie numerose". E la seconda? Indovinate: via l'imposta rapina. Peccato che, ha fatto sapere Giulio Tremonti, costi almeno 40 miliardi di euro e serva a finanziare la sanità. Un dettaglio per il Cavaliere: quando andrà al governo, allora sì che vi farà vedere come si fa. Nell'attesa, le due aliquote sono rimaste nel libro dei sogni: "Le faremo entro la fine della legislatura", ha ribadito il 27 marzo, "come da me immaginato nel '94". Appunto, l'immaginazione al potere. "Meno tasse uguale più investimenti uguale meno disoccupazione uguale più ricchezza", calcolava a inizio decennio. Al termine del decennio l'equazione è esattamente invertita: più disoccupazione, meno investimenti e la pressione fiscale in aumento: nel 2009 è salita al 43,2, tre punti sopra la media europea, "caso unico tra le grandi economie", sottolinea perfino il compassato Istat. Beh, almeno un record è stato raggiunto. Grandi opere nel 2000? Grandi opere nel 2010. Le stesse. Per forza, non sono state mai fatte. Eh sì che non si è mica stati con le mani in mano. Prendiamo la grande opera per eccellenza, il Ponte sullo Stretto di Messina: "I lavori sono già partiti con puntualità", ha dichiarato orgoglioso il ministro Altero Matteoli, otto anni dopo il primo decreto. Peccato che non sia vero, il cantiere non è stato ancora aperto, si comincia solo a lavorare, forse, sulla linea ferroviaria di Cannitello. A furia di annunci, il ponte è diventato la cattedrale al governo del non fare. Come la Salerno-Reggio Calabria: il Dpef 2002 del governo Berlusconi giurava che l'ampliamento sarebbe terminato nel 2006, in tempo per le elezioni. Ora si punta al 2013: altro anno elettorale. Il Mose di Venezia: prima pietra nel 2003, ora a fatica a metà strada avendo già consumato quasi tutto lo stanziamento: 3,2 miliardi di euro già spesi su 4,2. La sola infrastruttura portata a termine è l'ampliamento by Anemone del patrimonio immobiliare dell'ex ministro Pietro Lunardi, l'uomo dei tunnel. Un professionista delle ristrutturazioni: le sue. In sala d'attesa anche il Meridione. "Attuazione del Piano per il Sud, chiave di volta dello sviluppo nazionale", proclamava Silvio nel programmone. Per nove anni non se n'è saputo più nulla. Si è via via trasformato in una svaporata Banca per il Mezzogiorno e in una cabina di regia per i fondi europei. Poi, nell'estate 2009, la bomba: "Il piano è pronto". Decennale, ancora una volta: da qui al 2020, il rinascimento meridionale è assicurato. A dare il definitivo annuncio, il ministro dello Sviluppo economico Claudio Scajola: "Il Piano Berlusconi sarà pronto entro poche settimane", avvisa a metà 2009. "Entro la fine dell'anno", corregge a settembre. "Entro l'estate", ritorna sul luogo del delitto il 28 aprile. Le ultime parole: due giorni dopo si è dimesso da ministro. Italia 2010: nessuna "rivoluzione copernicana" all'orizzonte. Non si può dire lo stesso di Silvio 2010. O dieci anni fa non l'hanno raccontata tutta. Oppure quest'uomo è cambiato. Nel 2001 vagheggiava sui libri de chevet come "il Disprezzo del mondo" di Erasmo da Rotterdam, "Lo spaccio della bestia trionfante" di Giordano Bruno e i Mistici (sì, i mistici!) medievali: proprio il genere di testi da palinsesto del Biscione. La settimana scorsa a Parigi, ha rivelato la nuova fonte di ispirazione: "La sera leggo i "Diari di Mussolini"". Questa volta, il testo lo sta assorbendo bene. Dieci anni fa, indicava il trio di intellettuali di riferimento: Giuliano Ferrara, Paolo Guzzanti e Ferdinando Adornato (neanche una riga invece su Bossi, Fini e Casini). Oggi l'Elefantino si annoia. Adornato è finito nell'Udc, disperso, in quel mondo che definiva di "uomini cinici senza qualità". Guzzanti è un fiume in piena contro "il priapismo e cesarismo di Brianza". Al loro posto il professore di chiara fama Gaetano Quagliariello, il martire occidentale Renato Farina e, in primis, l'estensore materiale della Storia italiana: da coordinatore redazionale a ministro della Cultura, la corroborante parabola di Sandro Bondi. Ecco uno che in questi dieci anni ha svoltato, dopo aver cantato il culto per la famiglia e la dedizione del Cavaliere verso i suoi cari, Veronica, figli di primo e di secondo letto:" Adora fare il marito e il papà, autentici momenti di felicità" strappati "al lavoro alla scrivania fino alle due e mezzo". Eh, lavoro. Scrivania. Il paese non è cambiato, ma le notti del condottiero di Arcore si sono vivacizzate: spettacolini, farfalline, abitini, letterine, meteorine. E lettoni, però. Dalla foto di gruppo esce Veronica, passa Noemi, entra Patrizia D'Addario, spuntano nel Pdl fisioterapiste, infermiere, igieniste dentali, e ora, in via del divorzio numero due, chi lo tiene? In Abruzzo, educato: "Posso palpare la signora?". Il 2 giugno, a fianco di Giorgio Napolitano, manca poco che fischi come un marinaio che non tocca terra da mesi e che salti la barriera vip in preda a un virile e molto gesticolante entusiasmo al passaggio di una avvenente crocerossina. A Sofia: "Da quando sono scapolo ho la fila dietro la porta". Chissà i prossimi dieci anni, una storia italiana cosa riserva. Manca all'appello qualcosa? Lo Stato on line, ancora in stand by. La scuola delle tre I, Inglese, Internet, Impresa, difficile da attuare con 25 mila docenti, post cura Gelmini, senza cattedra da settembre. Sbandierava risorse per le forze dell'ordine, "da dotare di mezzi e tecnologie", nel 2001, ma sulla Finanziaria 2009 perfino il ministro Roberto Maroni si schierò con i poliziotti senza stipendi e benzina. E la Grande Riforma istituzionale: "Attribuzione ai cittadini del diritto di scegliere i governanti!", promise Silvio dieci anni fa, e invece è arrivato il Porcellum e quel poco che si poteva scegliere, con le liste bloccate è bello che andato. E "il dimezzamento del numero dei parlamentari". Mai avviato, peggio che posare la prima pietra a Messina. Il meglio di sé il Cavaliere in questi dieci anni l'ha dato su giustizia e informazione. Nuovo codice penale, nuovo codice civile, riforma della giustizia, sbandierava al punto di partenza. E qualche giorno fa, il ministro Angelino Alfano non si è fatto cogliere impreparato: "La riforma della Giustizia? A settembre si fa, sono pronto". E ci mancherebbe, dopo solo dieci anni che ne parlano. Molto più rapidi i berluscones si sono rivelati nella giustizia creativa quando in ballo c'è il corpo del capo, anzi del reato: 39 leggi ad personam che spaziano dal legittimo impedimento alle Cirami-Cirielli-Schifani-Alfano, dalla Gasparri all'ultimo ddl sulle intercettazioni. Il ddl sulla corruzione? Insabbiato: eppure era l'unico che serviva davvero, visto il prosperare del ramo corruttori & concussori, certifica la Corte dei conti: corruzione più 229 per cento, concussione più 153 nell'ultimo anno. Finalmente, un settore del fare. Libertà di opinione e di espressione, predicava allora. Nell'Italia 2010, l'obiettivo si è trasformato nel bavaglio all'informazione, e nella minaccia di non firmare, lui proprietario di Mediaset diventato con l'interim dello Sviluppo economico, anche ministro della televisione, il contratto di servizio con la Rai troppo faziosa ("Era una battuta", si sono affrettati a comunicare da Palazzo Chigi). Nonostante lo sbarco a viale Mazzini, di uomini di totale fiducia, dal dg Mauro Masi a quello del Tg1 Augusto Minzolini. "La libertà è come una corda tesa che non si spezza d'un colpo, ma si allenta, si infeltrisce, diventa infine libertà condizionata, libertà che non c'è più". E su questo, ce la mette tutta per non deludere. "Il nostro è un partito dei valori e dei programmi", sosteneva, "il contrario dei vecchi partiti che considerano il programma carta straccia". Lui no, se ne guarda bene. Non mettendolo mai in pratica, torna sempre utile. E sempre come nuovo.
Il ventennio di Silvio, l’italiano per antonomasia. Esattamente venti anni fa Silvio Berlusconi entrava ufficialmente in politica. Cominciava così una storia tutta italiana: quella di un uomo che, come pochi, è riuscito ad incantare un intero Paese. Vendendoci di tutto: sogni, illusioni e bugie, scrive il 26 gennaio 2014 Adriano Biondi su "Fanpage". La discesa in campo di Silvio Berlusconi avviene con un video, diffuso il 26 gennaio 1994, che è e resta uno dei più grandi spot pubblicitari della storia della televisione italiana. Il grande imbonitore presentava agli italiani un prodotto rivoluzionario, che avrebbe potuto cambiare volto al Paese, ma soprattutto rappresentare una svolta per le loro vite. Un acquisto necessario, per impedire l'impoverimento materiale e culturale del "Paese che amiamo", ma soprattutto per scacciare la paura del comunismo, per esorcizzare il pericolo rosso, rimasto inalterato nonostante il camuffamento in atto nella sinistra. È l'ennesima dimostrazione del trionfo della pubblicità e del marketing applicati alla sfera politica. E declinati in salsa italiana, cioè legati all'uomo che più di tutti saprà interpretare bisogni, sogni e desideri dell'italiano medio, della "pancia dell'elettorato", come si comincerà a dire. Un "signor Bonaventura eternamente in vacanza" ma allo stesso tempo capace di scelte radicali e cambi di marcia che gli hanno permesso di sopravvivere a tempeste e mareggiate. Nonché di cambiare radicalmente i modi ed i tempi della comunicazione politica (sui contenuti il ragionamento si fa necessariamente più ampio), anche brevettando un canovaccio difficilmente attaccabile: invasione ed occupazione degli spazi televisivi, monologhi interminabili, allergia al confronto, difesa ad oltranza del suo operato, demonizzazione dell’avversario e ossessione per i comunisti, per i giudici, per i giudici comunisti e via discorrendo. Impossibile riepilogare o riassumere il complesso di analisi, interpretazioni e questioni aperte del ventennio berlusconiano, ovviamente. Tuttavia c'è una lettura decisamente assolutoria che proprio non ci convince. Ed è quella, paternalista e moraleggiante, che tende a considerare la parentesi berlusconiana come chiusa e (forse) compiuta, un ventennio di "malattia", da cui gli italiani si sono liberati dopo vaccini e cure omeopatiche. Una lettura che ha il difetto di essere finanche irrispettosa nei confronti di milioni di italiani e di derubricare la volontà popolare a "valore minore" (al netto della considerazione per la quale il berlusconismo non è mai stato "vera" maggioranza nel Paese). Come abbiamo avuto modo di scrivere in altre sedi, dal nostro punto di vista "il berlusconismo non è stato (e non è) una eccezione, un fenomeno saltuario ed estemporaneo che cadrà ben presto nell’oblio, ma è la manifestazione lampante dello “stato” di un Paese. E’ il capitolo successivo dell’autobiografia della nazione di gobettiana memoria sotto forma di “bolla”, di un cambiamento solo apparente, di un prodotto scadente spinto da uno slogan attraente ed efficace. Un racconto in cui a farla da padrone è uno stanco e poco convinto gioco delle parti, amplificato dal vero fattore dirimente di questi ultimi anni, ovvero la spettacolarizzazione della politica, accompagnata da un suo evidente depotenziamento a tutti i livelli. In tal senso è innegabile lo sconvolgimento di tutti i canoni di riferimento antecedenti, con un vero e proprio stravolgimento finanche del lessico, del senso stesso delle parole e di concetti minimi come decenza e trasparenza". Una bolla, forse (per citare la definizione di Maltese, secondo cui dal "1994 l’Italia è divisa in due: chi vive felicemente dentro questa bolla di sapone, si sente protetto e si identifica con il carattere, i presunti vizi e le virtù del Capo; chi invece ostinatamente non si rassegna al fatto che metà paese si sia lasciato irretire, portare fuori strada dal Cavaliere il quale da 15 anni domina la scena politico-mediatica nazionale facendosi per forza di cose notare anche all’estero"). Ma parte essenziale della nostra storia, delle nostre contraddizioni, della vita di ognuno di noi. Con la capacità, in parte nuova, non solo di interpretare al meglio un certo spirito italiano, ma anche, grazie al formidabile supporto di una macchina pubblicitaria sempre a pieno regime, di stravolgere, corrompere finanche la stessa percezione dei fatti. In una personalizzazione non solo dello scontro politico, ma anche del linguaggio, dei concetti e della logica utilizzati per descriverne i fatti. Ne scrivevamo qualche settimana fa a proposito delle ormai arcinote vicende giudiziarie del Cavaliere: "Giustizialisti, garantisti, forcaioli: ogni concetto è finito con l’avere il suo termine di paragone nella condotta personale dell’ex premier. Il Paese dei 60 milioni di allenatori è diventato quello degli investigatori, dei giudici, dei partigiani della magistratura o dei falchi garantisti ad ogni costo (come un falco possa essere garantista resta un mistero). In un clima di mobilitazione perenne, in cui i conservatori hanno sollevato il vessillo della liberalità e dell’anticonformismo, bollando come bigotti, voyeur e sanfedisti coloro che credevano che nella decenza dei comportamenti potesse esserci un qualche metro di valutazione dell’individuo Berlusconi nel suo essere rappresentante di una istituzione". Una storia completamente, assurdamente italiana, anche nel suo epilogo: un uomo che si addormentava in pubblico per scatenarsi la sera in una sorta di Las Vegas casereccia; un uomo incapace di destreggiarsi fra bugie e mistificazioni, fra smentite e reticenze; un uomo "incredibilmente potente e assurdamente solo, circondato da un nugolo di faccendieri ed affaristi senza scrupolo, da giovani disposte a tutto e consiglieri pronti ad abbandonare la nave al primo accenno di tempesta"; un uomo convinto di essere immune alle elementari leggi della giustizia e della democrazia, come quando ognuno di noi riceve una multa per divieto di sosta. Appunto, come noi. E non si creda che sia di consolazione. Adriano Biondi.
GLI OTTANT’ANNI DI SILVIO BERLUSCONI: MENO MALE CHE SILVIO C’E’!
Ottant’anni di Silvio Berlusconi, luci e ombre di un ventennio italiano, scrive Margherita Scalisi il 28 settembre 2016 su "Mi faccio Cultura". Domani è il grande giorno: Silvio Berlusconi compie ottant’anni, e il Cavaliere si prepara a festeggiarlo in pompa magna, come declama a gran voce dall’intervista concessa a Chi e quella del suo avvocato Ghedini al Giornale. Luci e ombre di un uomo che, volenti o nolenti, è stato il protagonista indiscusso della politica italiana per un ventennio, da quando nel 1994fondò e vinse le elezione con Forza Italia. Un uomo che ancora oggi, dopo gli scandali politici, giudiziari e privati che si sono susseguiti negli ultimi anni, mette ancora se stesso al centro della scena: Berlusconi, in fondo, vede solo Berlusconi. «Non ho mai sbagliato un colpo» afferma con orgoglio, con una sicurezza che lascia tutti noi con un minimo di memoria e senso critico abbastanza perplessi. Perché di colpi sbagliati, di errori, ce ne sono stati molti: in primo luogo la sua disfatta politica, con la dissoluzione del suo partito, il Popolo della Libertà, e la conseguente perdita non solo di molti membri, ma anche di elettori. Anche sul piano giudiziario le magagne non sono poche, con la condanna per il caso Mediaset – ora al vaglio alla Corte europea di Strasburgo, a cui il Cavaliere guarda con speranzoso ottimismo – e i processi in corso per corruzione, finanziamenti illeciti e il sempiterno caso Ruby. Per non parlare delle gaffe che più di una volta hanno fatto mettere le mani nei capelli dalla disperazione e dalla vergogna anche i suoi elettori: da quel “culona inchiavabile” riferito ad Angela Merkel, che sebbene ora le sue fortune elettorali sembrino star cambiando, nel 2011 era – ed è ancora – la leader indiscussa dell’Unione Europea; al caso Ruby, “la nipote di Mubarak”, che ha aperto lo scandalo olgettine, escort e bunga bunga. Anche le sue amicizie scomode hanno contribuito, da Gheddafi quando tutta l’Europa – e la Libia – cercava di deporlo, fino a Putin, da alcuni osannato (leggasi Lega e compagnia bella) ma che in realtà in quel di Russia è un vero e proprio dittatore sotto le sempre più flebili sembianze di democrazia. Insomma, questa auto assoluzione del «non ho mai sbagliato un colpo» è forse la cosa più lontana dalla verità, eppure non ci stupisce affatto, anzi, ce lo aspettiamo. Il Cavaliere, in fondo, è la terra del suo personale sistema tolemaico, e ancora si considera il deus ex machina del centrodestra italiano, l’«indispensabile», come si definì lui stesso dopo essersi auto eletto capo del suo partito dopo aver lanciato le primarie di questo in cerca di un suo degno successore. È l’uomo che, in funzione di capo di governo, disse «la crisi non esiste, i ristoranti sono pieni», a fronte di quella che ormai viene chiamata come la Grande recessione, la più grave crisi economica della storia dopo quella del 1929; che nel 2009, dopo essere stato colpito al volto da una riproduzione del Duomo di Milano, si fece riprendere e fotografare insanguinato da mezzo mondo, martire e salvatore della patria contemporaneamente. Difficile dare un giudizio univoco, secco e deciso su questi ottant’anni di vita di Berlusconi, dunque, proprio perché è stata – ed è ancora – una figura indissolubilmente legata all’immagine dell’Italia degli ultimi vent’anni, tanto che il sui nome è andato ad aggiungersi ai famigerati stereotipi di pizza, pasta e mandolino che caratterizzano il nostro Paese all’estero. Un uomo che ha ridefinito l’idea stessa di politico e di fare politica in Italia, creando quella piattaforma mediatica, quel berlusconismo, adesso sfruttato da governo e opposizione in egual misura. Alla fine di tutto, questi ottant’anni non sono che l’inizio di una nuova primavera, un nuovo riscatto e il suo «terzo predellino» per il Cavaliere, come ha fatto ben capire agli uomini del suo partito quando ha fatto girare un foglio che elencava tutti i suoi successi politici del 1994 al 2011, da imparare a memoria come una poesia o i dieci comandamenti. Con magari Menomale che Silvio c’è di sottofondo, per ribadire e fissare il concetto.
CARISSIMO NEMICO.
L’ottantesimo anno, la centesima copertina, l’undicesima domanda. Dopo Berlusconi, destra e sinistra si sono decomposte. E l’Italicum è un algoritmo incapace di riaddensarle. Così in Italia tutto resta come prima, scrive Tommaso Cerno il 26 settembre 2016 su "L'Espresso". Cos'è l'Italicum? Una legge elettorale maggioritaria? Un ponte costituzionale verso la dittatura democratica? Semplicemente un papocchio, mal scritto? Un ripensamento della sinistra che, finalmente, si è accorta che non vincerà le elezioni nemmeno stavolta? Tutto vero, tutto sbagliato. La risposta a questa domanda, per nulla semplice, non sta nella riforma elettorale in sé. Né sta nella mozione della maggioranza che ha aperto a modifiche, né sta nella proposta grillina di tornare alla Prima Repubblica con proporzionale e preferenze (due parole abbattute a colpi di avvisi di garanzia, monetine scagliate addosso e referendum nell’era di Tangentopoli). No, la risposta sta nell’immagine di copertina di questo numero de “l’Espresso”. Un Silvio Berlusconi ritratto come l’avrebbe ritratto Andy Warhol, in stile Mao Tze-Tung, con uno sguardo fisso verso un futuro che fu incapace di costruire e i suoi nemici incapaci di liberare da lui. Una copertina che per la prima volta nella storia del nostro settimanale esce in quattro versioni diverse. Una citazione della pop art, ma anche una manifesta necessità di rendere cromaticamente la polivalenza del ragionamento che vi stiamo per fare. Un viaggio dentro il ventennio berlusconiano nella settimana in cui cade la data del 29 settembre, genetliaco del Cavaliere, o ex Cavaliere, di Arcore. Ma anche, inevitabilmente, un viaggio dentro di noi, dentro i suoi storici oppositori, dentro le nostre cento copertine (raccontate qui da Bruno Manfellotto) dedicate all’uomo che abbiamo combattuto e che, in virtù della sua forza oscura, ha consentito al fronte sedicente democratico, progressista, legalista, moralista (un po’ troppo) di rimanere unito e di giocare dalla stessa parte del campo. Mentre oggi tutto questo è finito. È finito Silvio, è finita la capacità di coesione del progetto alternativo. Scomposto come una maionese impazzita in mille ingredienti, ognuno ottimo, ma incapaci di condire ideali, valori, sogni, aspettative, speranze, desideri, diritti di una intera generazione e di un intero Paese sbandato. E così la centesima copertina che “l’Espresso” dedica a Berlusconi esce in quattro colori, quattro sfumature, se vogliamo quattro sfaccettature dello stesso, irrisolvibile rebus: chi siamo diventati? A guidarci dentro questa ispezione emotiva, politica, culturale e valoriale della “fu destra” e della “fu sinistra” è Ezio Mauro, che firma oggi per “l’Espresso” il suo primo articolo. Dalle colonne di “Repubblica”, nel 2009, sotto la sua direzione, Giuseppe D’Avanzo pose a Berlusconi, allora premier, dieci domande. Dieci domande che segnarono il momento più alto e intenso della contrapposizione culturale, prima ancora che politica, fra il nostro mondo e il mondo del Cavaliere (ora ex, per i maniaci della precisione). Alla fine del tempo, scrive Mauro, arriva l’undicesima domanda. Che ancora non vi sveliamo. Ma che segna la necessità di una svolta più profonda del Paese, se davvero vogliamo uscire dall’inerzia bellicosa in cui siamo finiti. Ecco cos’è l’Italicum. L’ingenuo tentativo di un’Italia malata di un virus che si ostina a non riconoscere, di cercare nell’algoritmo elettorale (imperfetto per definizione) il collante a quella maionese. Un collante tuttavia incapace di sostituire berlusconismo e antiberlusconismo, come ci raccontano Massimo Cacciari e Marco Damilano nei servizi di Prima pagina. Sarà pure una legge con mille storture, sarà pure giusto cambiarla, ma certamente siamo ipocriti se pensiamo che un correttivo percentuale infilato qua e là, una modifica alla tedesca, alla francese, alla spagnola possa ridarci l’equilibrio perduto. Perduto dopo una guerra dei vent’anni che ci ha mutati radicalmente. E che ancora non vogliamo ammettere nemmeno a noi stessi.
L'undicesima domanda a Silvio Berlusconi. L'ex Cavaliere, ottanta anni il 29 settembre, adesso è fuori gioco. Nel 2009 le 10 domande al Cavaliere di Giuseppe D'Avanzo su Repubblica. E oggi è il tempo di porne un'altra, scrive Ezio Mauro il 26 settembre 2016 su "L'Espresso". L’Undicesima domanda arriva alla fine del tempo, quando si è chiuso il baldacchino della politica, oltre lo scontro tra destra e sinistra, fuori dai calcoli delle competizioni elettorali e dopo la grande partita per il potere. Quella partita durata vent’anni tra Berlusconi e la sinistra è finita: il Cavaliere è fuori gioco, la sinistra non sa a che gioco deve giocare. Ci accorgiamo che quelle due anime perimetravano il campo, lo definivano e a noi assegnavano il posto sugli spalti per uno dei più grandi spettacoli politici del dopoguerra. Adesso il campo è vuoto, e come tutti gli spazi abbandonati è preda di incursioni casuali, episodiche, quasi aliene. Senza passione. Bisogna ammettere che l’ultima grande passione politica, per metà del Paese, è stato lui. E l’altra metà si è appassionata altrettanto all’idea di contrastargli il passo, cercando di fermare il piano di conquista di quello che era in quel momento l’uomo più potente d’Italia. Era già tutto pronto anni prima che l’avventura incominciasse ufficialmente. Due anni prima, quando lavoravo a Torino alla "Stampa", l’avvocato Agnelli, editore del giornale, mi disse che avevamo un invito a pranzo ad Arcore con l’imprenditore televisivo Berlusconi e ci saremmo andati insieme, come capitava talvolta con uomini d’impresa ma anche con Luciano Lama. Poi ci fu un contrattempo, e mi presentai da solo. Il pranzo che doveva essere a quattro diventò a tre, con il Cavaliere che non conoscevo e Fedele Confalonieri. Parlammo di tutto e di niente, in modo aperto e sciolto. Tanto che a un certo punto domandai: «Ho sentito dire che sta pensando di candidarsi a sindaco di Milano, è vero?». Mi rispose con un gesto infastidito della mano: «Una sciocchezza». Poi mi domandò quante lettere riceveva ogni giorno "Specchio dei tempi", la rubrica di dialogo coi lettori della "Stampa". Più di cento, risposi, pensando che avesse voluto cambiare discorso. Invece lo riprese: «Sa perché glielo chiedo? Perché io ricevo duecento lettere al giorno e sono delle massaie, felici perché ho regalato loro la libertà con le mie televisioni che guardano al mattino mentre fanno i mestieri, come si dice qui a Milano quando si rigoverna la casa. Bene, se pensassi di entrare in politica, io non farei il borgomastro di Milano ma fonderei un partito reaganiano, punterei proprio su quel mondo, prenderei la maggioranza dei voti e governerei il Paese». Una sorta di "Bum!" silenzioso risuonò nella stanza, attorno al tavolo dov’eravamo seduti con le finestre aperte. A me quella frase entrò da un orecchio e uscì dall’altro, pensai a una boutade estemporanea, un paradosso gratuito, come se Renzi mi dicesse oggi che pensa di fare il centravanti nella Fiorentina. E infatti quando Agnelli chiamò in macchina per sapere se c’era qualche curiosità in quell’incontro gli raccontai la conversazione, saltando quel piccolo particolare. Glielo avrei ricordato due anni dopo, d’urgenza, quando sullo sfondo di una politica disastrata si avvertivano i primi scalpiccii berlusconiani misteriosi, le voci di vertici segreti a Publitalia, la rete di uomini di Dell’Utri, le simulazioni strategiche e coperte con i giornalisti del gruppo, i sussurri di qualche navigatore democristiano di lungo corso che cercava una scialuppa di salvataggio dopo il grande naufragio, una cena al Cambio con imprenditori torinesi a cui era stato raccontato tutto chiedendo il silenzio come nelle sette, nelle operazioni di marketing, nei blitz militari. Io sapevo, anche se non avevo capito nulla. Non avevo considerato che il vuoto chiama il pieno. Che nella grande desertificazione della politica italiana dopo il suicidio di partiti centenari con le tangenti tutto era prosciugato, meno il deposito elementare ma identitario dell’anticomunismo, catalizzatore e collante istintivo: a patto che qualcuno fosse capace di riportare l’istinto in politica dopo l’uniformità scolastica degli anni democristiani e la rigidità monumentale della piramide comunista. Non avevo creduto possibile, soprattutto, che una creatura politica nuova potesse nascere dal nulla, dagli spettri del caos come direbbero i russi, senza il seme di una tradizione culturale, la selezione di un’élite allargata, la rappresentanza esplicita di una base sociale riconoscibile e riconosciuta. Eppure, il Cavaliere senza accorgersene mi aveva consegnato il bandolo, la scintilla identitaria con quell’aggettivo buttato sul tavolo dopopranzo: reaganiano. Non democristiano, o moderato, o conservatore o liberale. No: reaganiano. Qualcosa di sconosciuto alla politica italiana, ma qualcosa che contiene il vero elemento fondante dell’intera operazione. L’outsider che in Italia come in America viene da un altro mondo, e guarda caso è il mondo dello spettacolo che dà la temperatura del rapporto con la folla, abitua ai riflettori, evoca intorno a sé un’avventura più che un progetto, in un paesaggio smart di successi, denaro e sorrisi. La politica – per Reagan come per il Cavaliere – scoperta in età matura, come un’incursione estranea, senza l’imprinting originario dei professionisti. Proprio per questo, il tocco permanente del grande dilettante che non conosce il vocabolario istituzionale ma sa sfiorare perfettamente i tasti (basta leggere Lou Cannon, il biografo del presidente americano) dell’emozione popolare in ogni occasione, presentandosi come uomo nuovo, estraneo ai professionismi degli apparati. E infine, il nocciolo duro di quell’aggettivo: il profilo reaganiano disegnava fin dall’origine un progetto di destra, destra popolare ma destra vera, che dopo la mediazione democristiana puntava direttamente al comando, più che al governo. Naturalmente i denti d’acciaio (con cui il vecchio Gromiko misurava la durezza dei candidati alla guida del Cremlino) erano ben nascosti dentro il sorriso televisivo del Cavaliere, la cui iniziazione è insieme una grande dissimulazione. Deve nascondere i debiti che pesano come una macina al collo dell’azienda («ci vogliono vedere sotto un ponte», diceva allora Confalonieri), il debito politico dell’impero televisivo al Psi per le leggi che hanno consentito alla tv privata il volo nell’etere di Stato, la filiazione diretta del personaggio pubblico Berlusconi dal Caf, l’alleanza d’agonia della Prima Repubblica tra Craxi, Andreotti e Forlani, la macchia imprenditoriale nascosta (i tribunali l’accerteranno più tardi) del grande furto della Mondadori, la tessera P2 numero 625 fin dal 1978, e soprattutto le obbligazioni sotterranee che ne derivano. Proprio queste fragilità e queste ambiguità celate dietro i mausolei berlusconiani auto-eretti consigliavano prudenza ai personaggi più vicini al Cavaliere, secondo un modello democristiano teorizzato da Confalonieri: non vale la pena di gettarsi in politica in prima persona correndo il rischio di rompersi l’osso del collo, anche perché con tre televisioni basta avere pazienza, verrà la politica a cercare il becchime nella tua mano. E invece proprio qui c’è il rovesciamento delle aspettative, il ribaltamento delle convenienze. Il Cavaliere si dimostra uomo d’avventura, l’egolatria fino a quel momento tenuta a bada lo trascina ad un protagonismo diretto e gli fa puntare l’intera posta su una nuova partita, dopo quella immobiliare, quella editoriale, quella televisiva: la politica, o meglio il comando, soprattutto il potere. La politica vista come il cuore del potere, ben più che il cuore dello Stato, qualcosa da conquistare più che da governare. C’è in questo la "pazzia" di cui parla Giuliano Ferrara, che tradurrei con l’azzardo di pensare l’impensabile, crederci costringendo gli altri a credere nell’incredibile realizzandolo prima ancora di renderlo plausibile. Farlo senza adattare la propria natura estranea alle regole auree e comunemente accettate del sistema, ma anzi deformando quelle regole e quelle modalità secondo la propria natura. Siamo a un passo – magari senza saperlo – da Carl Schmitt, secondo cui il vero sovrano non è il garante dell’ordinamento esistente ma è colui che crea un nuovo ordinamento decidendo sullo stato d’eccezione. Mi sono sempre chiesto, in tutti questi anni, quanto tutto ciò fosse puro istinto di destra – destra reale, realizzata, come c’era il socialismo reale – e quanto invece progetto teorico dissimulato nel rifiuto del "culturame", ma in realtà accumulato con cura. Certo, l’istinto di classe ha convinto fin dall’inizio il Cavaliere a puntare sul ceto medio emergente proponendogli di mettersi in proprio per diventare finalmente soggetto politico, autonomizzandosi sia dalla grande borghesia che dal proletariato. Il progetto lo ha spinto a evocare un vero e proprio sovvertimento della classe dirigente, quasi una ribellione dei garantiti, perché c’è sempre un’élite più o meno ristretta contro cui mostrarsi ribelle. Il calcolo gli ha suggerito di infilarsi nella breccia aperta da Mani Pulite, nel solco della prima seminazione di antipolitica della Lega, e di radunare queste incoerenze sotto il doppiopetto miliardario, paradossalmente credibile proprio perché rivestiva un outsider rispetto all’aristocrazia delle grandi famiglie industriali cresciute nel fordismo e nell’acciaio, che lo consideravano imprenditore dell’immateriale e lo tenevano in fondo al tavolo. Ancora l’istinto barbaro e redditizio lo ha spinto a consigliare al cittadino di disinteressarsi dello Stato cercando un demiurgo, nascondendogli che su questa strada lo Stato avrebbe finito per disinteressarsi di lui, perché quando la sua libertà non si combina con la vita degli altri e l’esercizio dei suoi diritti resta esclusivamente individuale, separato, lui diventa un’entità anonima da rilevare nei sondaggi, realizzando la vera solitudine dei numeri primi. Ma questo paesaggio misto, abitato da solitudine e ribellione, era in realtà lo scenario perfetto di un esperimento del tutto nuovo per l’Italia e per le democrazie occidentali. Era nella mia stanza il direttore di un grande giornale europeo, a dicembre del 1994, mentre sul video subito dopo il telegiornale scorrevano riflessi negli addobbi rotondi e lucenti di un gigantesco albero di Natale le immagini di un Berlusconi sorridente, magnanimo, circondato dai bambini su un prato, mentre accarezzava i cani, o alzava le coppe vinte dal Milan. Mascherati da innocenti auguri di Natale erano i primi spot subliminali di un’avventura politica del tutto nuova. «Il solito italiano», disse il mio amico, «manca soltanto la chitarra o il mandolino». Naturalmente arrivarono, insieme all’iperrealismo di una bandana sulla fronte. Ma era tutt’altro che il volto di un arcitaliano, quello che stavamo vedendo: piuttosto l’inizio di un esperimento che l’Europa non aveva ancora conosciuto, e che in questi anni non ho saputo chiamare altrimenti che neo-populismo, qualcosa di modernissimo e primitivo insieme, con la sua neolingua e una dilatata dismisura. Ottimismo ad ogni costo, poiché le mani del demiurgo sono sul timone, soluzioni semplici davanti a problemi complessi (l’efficacia del "puerilismo", come lo chiamava Huizinga), invulnerabilità assoluta, tanto che le sconfitte sono sempre colpa di una truffa o di un inganno sopraffattore, in modo che il leader esca comunque dalla prova innocente, magari ferito ma superstite, nel cerchio intatto del carisma perenne. È un investimento sull’indebolimento dello spirito critico, a vantaggio di una visione mitologica dell’avventura eroica. Il cittadino viene autorizzato a farsi i fatti suoi, elevati a cifra privata della nuova dimensione pubblica. In cambio il leader gli parlerà direttamente saltando ogni intermediazione partitica, istituzionale, politica, e mentre provvederà alla guida del Paese gli chiederà soltanto una vibrazione costante di consenso, e una delega elettorale periodica e fissa. Principio e fine di tutto questo, l’evocazione di una destra che il Paese nel dopoguerra non aveva conosciuto, perché il filtro democristiano drenava al centro gli istinti post-fascisti del Paese. Berlusconi ha fatto l’opposto, radicalizzando a destra una propensione politica sconosciuta a se stessa, camuffata e scusata dal doroteismo di potere, liberandola nella sua vera natura. Una destra sdoganata con un progetto puramente elettorale e non culturale, senza chiedere revisioni e abiure, con la complicità dell’intellettuale italiano strabico, che per vent’anni (fino al declino del nuovo potere col calcio dell’asino) non ha usato a destra la pedagogia liberale impiegata giustamente a sinistra con il Pci. Il mix ha funzionato tre volte, perché il fuoco in pancia del Cavaliere lo ha trasformato in uno straordinario campaigner (salvo quando ha incontrato Romano Prodi), tanto quanto è risultato sempre un pessimo uomo di governo. A Palazzo Chigi quel fuoco si è ogni volta spento e tra le ceneri brillavano fisse le quattro anomalie del Cavaliere rispetto a qualsiasi moderna destra occidentale: le leggi ad personam, il conflitto d’interessi, lo strapotere economico che gli consentiva di comperare i deputati a grappoli, lo strapotere mediatico che alterava il mercato del consenso. A un certo punto l’uomo della grande avventura diventava un avventuriero, fino al punto di usare l’esecutivo per piegare il legislativo a fermare il giudiziario, con buona pace di Montesquieu. Le coalizioni assemblate senza il crogiuolo di una fusione culturale capace di dare al Paese una destra moderna, ogni volta si sfaldavano perdendo prima Bossi, poi Casini, quindi Fini, con gli intellettuali che se n’erano già andati. Infine la vicenda giudiziaria prese il sopravvento. Lui teorizzò la decapitazione per via processuale. In realtà aveva imposto una tale torsione al sistema che eravamo giunti al dubbio estremo: se la legge era ancora uguale per tutti, oppure no, nel suo unico caso. Anche qui, la concezione carismatica del populismo era perfettamente coerente con il rifiuto di essere giudicato, anzi con la giustizia vista come sopruso. Il leader unto dal Signore col voto popolare infatti risponde solo al popolo, ed è per questa sua stessa speciale natura insofferente ad ogni controllo, costituzionale da parte delle autorità di garanza, politico da parte del parlamento, di legalità da parte della magistratura. La legittimità dell’investitura assorbe la legalità fino a soffocarla nell’irrilevanza, l’annulla subordinandola. Ma proprio la specialità di questa eccezione – ecco il punto – rende oggi impossibile sciogliere il nodo gordiano del dopo-Berlusconi. Politicamente, la sua creatura è ancora irrisolta così com’è nata per conquistare il potere e non per cambiare il Paese, ferma al bivio tra moderatismo e radicalità. Leaderisticamente, bisogna prendere atto che ogni successione nel senso democratico e moderno del termine è nei fatti impossibile perché Crono divora ogni possibile figlio tanto che si è davvero pensato al passaggio dinastico come unica soluzione, in quanto avrebbe trasmesso integrale il conflitto d’interessi insieme con il dna familiare, perpetuando l’anomalia berlusconiana nella contemplazione perpetua del peccato originale. Siamo davanti alla metafisica di sé, con un’avventura straordinaria che consuma se stessa replicandosi ogni giorno in sedicesimo, come una condanna infernale, ormai fuori dal tempo. E guardando quel poco che resta, da qui nasce l’undicesima domanda: Cavaliere, ne valeva la pena?
Silvio Berlusconi, una magnifica ossessione. Da prima della discesa in campo, per oltre un quarto di secolo, "L’Espresso" ha messo il Cavaliere in prima pagina, scrive Bruno Manfellotto il 26 settembre 2016 su "L'Espresso". Ho sperato che in un émpito di autoironia, che non gli è del tutto estranea, il Cav., insomma Silvio Berlusconi decidesse di visitare a Roma o a Milano la mostra su sessant’anni di storia raccontati attraverso le fotografie dell’“Espresso” (ne è nato anche un volume, ora in edicola e in libreria). E accettasse di farsi immortalare dinanzi alla parete dove, l’una accanto all’altra, erano esposte le 100 (cento!) copertine dedicate al più immaginifico, pirotecnico, combattivo avversario mai avuto. Abbiamo lanciato messaggi, sollecitato amici, incaricato ambasciatori, ma niente, non s’è visto: e vabbè, si rifarà sfogliando queste pagine e ripensando ai suoi ottant’anni (auguri). A lui, com’è ovvio, “l’Espresso” deve molto, se non altro le copertine, appunto. Le ho viste e riviste: alcune sono belle, altre meno, ma certo tutte insieme rappresentano l’appassionata testimonianza di un’epoca che ha segnato gli italiani in politica, in economia, nel costume. E che non è finita: passate le nozze d’argento, aspettiamo quelle d’oro. Su quale immagine soffermarsi? Tra tutte, meritano particolare attenzione quelle firmate da Alberto Roveri nel 1977, pubblicate per la prima volta nel 2010, ai miei esordi alla direzione dell’“Espresso”. Perché nella loro storia già ci sono, in nuce, il carattere e la tenace determinazione dell’uomo, e anche l’uso spregiudicato della comunicazione di cui sarà poi maestro. Roveri era andato da Berlusconi per “Prima comunicazione”. Umberto Brunetti, il direttore, aveva per le mani una notiziona: quel quarantenne sconosciuto ai più, patron della Edilnord e immobiliarista rampante, era pronto ad acquistare addirittura il 51 per cento del “Giornale” di Indro Montanelli (alla fine si accontenterà del 30). Prima che cominciasse la seduta, Berlusconi s’era raccomandato con la segretaria di non passargli telefonate. E Roveri aveva cominciato a scattare: scrivania, libreria, lampada Arco firmata Castiglioni, ecco Silvio da solo e anche con il suo più stretto collaboratore, Marcello Dell’Utri: giovani e serissimi, compulsano cifre e dati. Dopo un po’, nonostante le raccomandazioni, suona l’interfono: «C’è il sindaco Tognoli», dice la segretaria. E B., irritato: «Ho detto che non ci sono per nessuno». Dopo un po’, altro cicalino, di nuovo il sindaco, e stessa risposta: «Non ho tempo, gli dica che lo chiamerò io stasera». Infine, terzo messaggio in viva voce: «C’è il Cardinale». Stavolta, però, Berlusconi si allontana per qualche minuto: a Carlo Maria Martini non ci si può negare. Giovane, relazioni giuste, precisa scala di priorità. Quando la seduta riprende, Berlusconi è Berlusconi: vuole scegliere lui le foto da pubblicare. Roveri allarga le braccia. E allora il Nostro chiama Brunetti, la cui risposta merita la citazione: «Caro dottore, si compri il 51 per cento di “Prima”, così poi ci mette tutte le foto che vuole…». Allora B. cambia tattica: «Quel che è fatto è fatto e va al giornale, ma d’ora in avanti lei, Roveri, lavora per me». Si ricomincia. Ed eccolo allora sbracato su una poltroncina, stivaletto in vista, capelli troppo lunghi. E dietro di lui sulla scrivania, tra libri e scartoffie, una pistola. «Ma lì c’è…», esclama il fotografo. «No, no, questa no», chiede B., e mette via l’arma in un cassetto assieme ad altre quattro: «Sa, di questi tempi, sequestrano gli imprenditori…». Passeranno molti anni prima che Roveri, mettendo a posto il suo archivio, si accorga che una foto era riuscita a scattarla. E “l’Espresso” la pubblica. Cento copertine, dunque. Una magnifica ossessione. Cominciata in realtà molti anni prima della “discesa in campo”, nel novembre del 1988, con l’inchiesta “A passo di spot” sul dilagare incontrollato della pubblicità tv. E poi tante altre, secondo filoni costanti e ben arati: 17 sul conflitto di interessi; nove sull’abbraccio incestuoso tra politica e affari; 50 su Forza Italia e i suoi governi; sei su “Sex and the Silvio” e derivati; e ben 12 in cui lo abbiamo dato per finito, abbattuto, ko. Sbagliando. A quali sono più affezionato? A due del periodo d’oro berlusconiano. Una è “Il Polo delle Vanità”, con le signore Previti, Berlusconi, Dell’Utri e Ariosto sulla tolda del “Barbarossa”, il brigantino dell’avvocato romano, marzo 1996, immagine plastica di una stagione e dei suoi clan d’affari; l’altra è “Dalemoni”, ottobre 1996, geniale intuizione di Giampaolo Pansa, disegno di Franco Bruna, simbolo del “nuovo compromesso” tra D’Alema e Berlusconi. Da allora sono passati vent’anni, eppure certi germi in politica sembrano duri a morire.
Dopo Berlusconi non siamo più noi. La fine politica di Silvio ha segnato anche la divisione del campo degli anti-B: rimasti senza progetto e senza identità, scrive Marco Damilano il 26 settembre 2016 su "L'Espresso". ll muro di B. cadde un 9 novembre, come il muro di Berlino. Cinque anni fa la fine del governo Berlusconi, la resa al termine di una giornata drammatica, di sfiducia politica e di spread alle stelle, conclusa con la nomina a senatore a vita di Mario Monti, già designato dal presidente Giorgio Napolitano per la successione a Palazzo Chigi. Tre giorni prima, il Pd di Pier Luigi Bersani aveva convocato una manifestazione per chiedere le dimissioni del Cavaliere, l’ennesima. Nel luogo storico della sinistra, la piazza San Giovanni dei grandi comizi, dei funerali di Palmiro Togliatti e di Enrico Berlinguer. Ricordo quel sabato pomeriggio: cielo di piombo, piazza stracolma e inquieta, urla della folla: «Silvio, vai via!», «Berlusconi dimettiti!», uragano di fischi quando sui maxi-schermi era stata rimandata in onda l’ultima conferenza stampa del Cavaliere a Cannes, quella su «la crisi non c’è, i ristoranti sono pieni». Nel retropalco si aggirava Matteo Renzi. Solo, o meglio accompagnato da due persone, il portavoce Marco Agnoletti e un vigile di nome Pablo che gli faceva da guardaspalle con un pistolone in tasca, perché il sindaco di Firenze aveva rifiutato la scorta. L’accoglienza della nomenklatura era stata gelida. Nessuno si era avvicinato, nessuno lo aveva salutato. Massimo D’Alema inacidito, Matteo Orfini con la pashmina al collo, Enrico Letta con un giubbotto alla Fonzie... Dal palco era arrivata la scomunica del segretario: «Si può discutere nel partito, ma con solidarietà, fraternità, unità», aveva scandito Bersani, acclamato dalla folla. La mistica dell’unità attorno al gruppo dirigente contro il corpo estraneo. L’anticipo della sfida ventura: Renzi rivendicava la sua appartenenza al Pd, gli altri capi lo trattavano come un virus da debellare, o da espellere. È stata quella l’ultima volta, a San Giovanni. L’ultima volta del Pd nella piazza rossa. E non è certo un caso che coincida con la settimana della caduta di Berlusconi. Dopo la piazza è stata occupata da altre bandiere. A San Giovanni, nel 2013, il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo ha chiuso la campagna che lo ha portato da zero a otto milioni di voti, evento ripetuto - ma con minore fortuna - un anno dopo, per le elezioni europee. Erano mondi che fino a un certo punto erano stati fragilmente insieme: la politica (il centro-sinistra nelle sue varie metamorfosi) e l’anti-politica (Beppe Grillo e il suo pubblico, non ancora elettorato di M5S), i partiti e i movimenti. Con momenti di conflitto durissimo: i girotondi, l’urlo di Nanni Moretti in piazza Navona nel 2002 («Con questi dirigenti non vinceremo mai!»), la manifestazione del 14 settembre 2002, sempre in piazza San Giovanni, con i leader dei partiti sotto il palco e la società civile sopra. Anti-politica? No, perché il più applaudito era stato poi un uomo che alla politica e alla sinistra aveva dedicato la vita, Vittorio Foa: «Io sono un seguace dell’Ulivo e in questa piazza sento che c’è un futuro. È stata per me una giornata felice che non dimenticherò». «Con i valori non si perdono voti», aveva gridato Nanni Moretti, ma in modo dolce, come una preghiera laica: «Noi continueremo a delegare, ma ci siamo svegliati, non sarà più una delega in bianco... Berlusconi non è contro la democrazia, è intimamente estraneo alla democrazia. Se un domani, Dio non voglia, dovesse diventare presidente della Repubblica io, ripensandoci, se non avessi fatto niente proverei vergogna». Caduto Berlusconi, quei popoli si sono sciolti. Divisi, frantumati. O senza più nulla da dire: silenti, immalinconiti. Si è scoperto negli anni successivi che, per dirla con Giorgio Gaber, qualcuno era anti-berlusconiano perché esistenzialmente alternativo al mondo delle tv commerciali e del Biscione, lo sarebbe stato anche se B. non fosse mai sceso in campo. Qualcuno era anti-berlusconiano perché Prodi era una brava persona e Dell’Utri e Previti no. Qualcuno era anti-berlusconiano perché non era riuscito a diventare berlusconiano. Qualcuno era anti-berlusconiano perché era stato berlusconiano, ma poi aveva cambiato idea. Qualcuno era anti-berlusconiano perché era anti-tutto: anti-destra, anti-sinistra, anti-politica... E qualcuno era anti-berlusconiano semplicemente perché era arrivato dopo la stagione delle grandi passioni. E dunque sarebbe diventato il più spendibile per guidare la fase successiva. Non da anti, ma da post-berlusconiano: un nuovo leader in grado di ereditare il berlusconismo, senza averlo mai combattuto. Come nella canzone di Gaber, «ci si sente come in due». Dopo la fine del muro di B. più che a una ricomposizione, un rimescolamento dei popoli, come nella Germania unita, abbiamo assistito alla balcanizzazione delle etnie politiche, su un fronte e sull’altro. Nel campo berlusconiano si dilaniano la Lega e i moderati, i forzisti della prima ora e i rinnovatori di Stefano Parisi. Nel campo opposto il muro attraversa la sinistra: la minoranza del Pd contro i renziani, gli scissionisti attuali e quelli futuri. E contro tutti c’è l’ex fustigatore dello psiconano di Arcore, Beppe Grillo. Era l’anti-berlusconismo il confine che teneva tutti compatti. La frontiera che definiva chi stava di qua e chi stava di là. Dopo il crollo dell’ex Cavaliere è diventata una missione impossibile per la sinistra italiana dire chi siamo: in quali valori, in quale identità riconoscersi, quale volo progettare. Ammesso che sia rimasta la voglia di volare.
Con lui è fallita una generazione politica, scrive Massimo Cacciari il 26 settembre 2016 su "L'Espresso”. La “rivoluzione conservatrice” non c’è stata. E anche la sinistra non è stata all’altezza del suo compito storico. Mentre i nostri Grandi si incontrano tra Europa e lo spettro delle Nazioni Unite per cercare di affrontare il disordine globale (o almeno evitare di farsi la guerra mentre combattono un nemico comune, come tragicamente avviene in tutto il Medio Oriente), forse non è superfluo collocare anche le tristi vicende patrie nell’onda lunga della storia dell’ultimo quarto di secolo. Storia che da noi si conclude certamente anche con i raggiunti limiti di età di Berlusconi, suo indiscutibile protagonista. È la storia, come non sarebbe mai troppo tardi riconoscere, del fallimento di una generazione politica e di un’intera classe dirigente. E non fa alcuna differenza tra chi ha predicato cose magari giuste, ma invano, e chi ad esse si è tenacemente opposto. Tra l’impotenza, da un lato, e l’incapacità progettuale e strategica, dall’altro, mascherata magari di retorica patriottica, quando non di demagogia reazionaria nazionalistica, in politica non fa alcuna differenza. Spiace per le anime belle, ma il fare politico non si giudica in base alle idee, ma ai loro effetti pratici e alla loro realizzazione. Dopo la caduta del Muro e la fine della guerra fredda si imponeva una radicale discontinuità. Occorreva una “rivoluzione” culturale sia per le destre che per le sinistre del Novecento. Una “rivoluzione conservatrice” era necessaria, ma questa non poteva certo ripetere la strategia dei Reagan e delle Thatcher. Questi leader avevano forse male compreso le trasformazioni sociali e culturali in atto nell’Occidente, ma certo benissimo la crisi dei modelli di Welfare e la debolezza degli avversari. Tuttavia, essi si muovevano ancora sostanzialmente nell’ambito degli equilibri di potenza usciti dalla Seconda guerra mondiale. Sono stati protagonisti della spallata estrema contro il Nemico. Ultimo atto del grande, tragico “secolo breve”. L’Evo nuovo comincia dopo di loro. Per Berlusconi invece non comincia affatto. La sua ideologia è tutta fuori tempo massimo; divide il Paese su questioni e paure inesistenti (se non la sua, realissima, legata alla sorte delle proprie imprese); forma, o cerca di formare, una coalizione che sarà tutto fuorché di governo e in cui trionfa l’eterno male del parlamentarismo italiano: il trasformismo. Soltanto oggi, e ancora con qualche incertezza, sembra finalmente che il centro-destra sia giunto a riconoscere che coalizioni di tal fatta non solo non possono produrre alcuna riforma, ma neppure bastano alla sopravvivenza politica dei propri membri. Nel frattempo però si è forse definitivamente esaurita la speranza di una efficace, razionale destra europea, cioè la possibilità, appunto, di una “rivoluzione conservatrice”. All’impotenza e al fallimento dell’esperimento berlusconiano, risponde “a sinistra” uno squillo perfettamente simmetrico e complementare. Mentre si disfano le vecchie forme politiche (quanti “rex destruens” in giro!), le “migliori” energie vengono spese per rintracciare leader e carismi da contrapporre a Berlusconi, accettando di fatto di giocare con lui, sul suo terreno, la più farsesca riedizione della dialettica amico-nemico. E alla sua non-coalizione contrapporne altre, di uguale natura, formate, di volta in volta con diverse dosi, da nostalgici dell’età dell’oro socialdemocratica, ultra-conservatori, laici e cattolici, in materia istituzionale, sedicenti comunisti in salsa ecologista e ambientalista (e cioè, sia detto per inciso, lontani dal marxismo molto più di Berlusconi!), giustizialisti vari. Affratellati tutti da patologica timidezza nel porre mano ai problemi reali di un nuovo rapporto Parlamento-Governo, del riassetto radicale dei catafalchi centralistici rappresentati dalle Regioni, del ruolo e dell’autonomia dell’Ente locale, dello smantellamento delle roccaforti burocratico-ministeriali, della riforma della Pubblica Amministrazione e della scuola. Su questo chiacchiere e pannicelli caldi, che si alternavano, aumentando il tasso di confusione, tra quelli firmati centro-destra e quelli firmati centro-sinistra. Di Berlusconi non rimane nulla; dei suoi avversari che cosa? L’Europa, si dice. Cioè, l’euro. È vero - come è vero che il dramma oggi è che sempre meno cittadini europei sono disposti a riconoscerlo come un merito. Che si è fatto perché l’Europa diventasse una realtà politica? Si tratta soltanto di strategie economiche di sviluppo o di allentamento di qualche vincolo? Che senza un New Deal non si possano affrontare crisi come quelle del 2007-2008 è assolutamente certo. Ma neppure possono darsi New Deal senza Stati Uniti d’America (sottolineo: Uniti), senza riconoscersi in un comune destino. È l’idea di questo destino che avrebbe dovuto rappresentare il vero terreno di scontro e competizione tra “rivoluzione conservatrice” e “rivoluzione socialdemocratica”. Troppo tardi? Siamo costretti ad augurare anche a lei un felice tramonto come al Cavaliere per i suoi ottant’anni?
"PAPI GIRLS": LE DONNE DI SILVIO.
LA CASTA DELLE PAPI GIRLS E DINTORNI.
Berlusconi, onda rosa su Forza Italia: non solo Carfagna, chi sono le donne che si prenderanno il partito, scrive l'11 Dicembre 2017 "Libero Quotidiano". In vista della prossima tornata elettorale, ancora una volta, Silvio Berlusconi punta sulle donne. E in queste ore sta mettendo a punto la nuova e ricca squadra di donna da far scendere in campo per le prossime elezioni. Imprenditrici, libere professioniste, blogger, giornaliste e amministratrici locali. "In questa direzione" si legge in un articolo de Il Mattino, "vanno le cene ad Arcore con tavolate di personalità espressione della società civile. Ma sempre di più si afferma il principio di rovesciare il concetto delle quote previsto per legge. Non si tratta del consenso femminile di cui il Cavaliere ha sempre goduto, ma del plusvalore dovuto alla iniezione di una forte componente di genere. Donne belle, in carriera. Altro che quote rosa del 40%, appunto: semmai le quote servono a preservare la presenza maschile nelle liste". C'è il nutrito gruppo delle ex ministre: da Mara Carfagna a Anna Maria Bernini, da Mariastella Gelmini a Stefania Prestigiacomo e Nunzia De Girolamo e Michela Vittoria Brambilla, leader del partito animalista. Ci sono poi le europarlamentari che vorrebbero tornare in Italia: Elisabetta Gardini e Lara Comi. Tra le imprenditrici spicca Emma Marcegaglia, già presidente di Confindustria, Lisa Ferrarini titolare dell'omonima impresa, vicepresidente di Confindustria per l'Europa, e la ex europarlamentare azzurra Luisa Todini. "Volti nuovi in arrivo da Comuni e Regioni" continua l'articolo, "il vero bacino nel quale il Cavaliere pescherà risorse fresche e rodate per dare corpo alle liste". E poi le new entry, le nuove leve su cui punta il Cavaliere: Anna Pettene, moglie del presidente di Erg Edoardo Garrone, la poco più che trentenne Paola Tommasi, economista che ha lavorato con Renato Brunetta e che ha anche fatto parte dello staff di Donald Trump.
Fare sesso per fare carriera? Scrivono su "Il Fatto Quotidiano" del Lunedì 1 aprile 2015 Elisabetta Ambrosi e Lia Celi.
Più che alla morale occhio alle complicazioni di Elisabetta Ambrosi. Una bufera di critiche, di accuse di scorrettezza politica e di bieco maschilismo si è rovesciata sulla chirurga vascolare Gabrielle McMullin, rea di aver affermato che, per far carriera, le donne devono essere anche disposte anche a qualche richiesta sessuale. Ma quello che i detrattori della dottoressa australiana non hanno capito è che la sua affermazione non era un auspicio, insomma un ‘dover essere’ (‘opportuno e giusto fare sesso con i capi’) ma una constatazione di fatto: se fai sesso con i capi, fai anche più carriera. Talmente vero da apparire banale, anche se non andrebbero sottovalutati fastidiosi effetti collaterali – proprio sul lavoro – quando la relazione si interrompe. Più interessante allora sarebbe stato però esplorare un altro aspetto del dilemma: posto che una decida di scopare col superiore, scelta libera in un Paese libero, com’è meglio farlo? Con astuto cinismo, come una specie di fastidioso straordinario, o con coinvolgimento sentimentale (accade, siamo umani, oltre al fascino del potere)? Non sempre è una scelta e normalmente la versione A – distacco completo e obiettivo solo strumentale – è molto rara, perché, nonostante i moralisti la propongano come l’immagine classica della donna avida di carriera che sfrutta qualsiasi mezzo, la realtà è impastata di ambiguità: e dunque di avances affettuose, gratificazioni narcisistiche reciproche, mezzi innamoramenti, a volte persino amore: insomma più spesso il sesso in ufficio appare così. Invece di gridare allo scandalo, allora, sarebbe meglio restare lucide sulle inevitabili ricadute anche professionali, della fine della storia. Se dunque esiste una vera obiezione all’evitare il letto del capo, non è morale, ma pratica. Non fate sesso col superiore perché a volte – altro che benefici- le complicazioni successive (anche sulla carriera) sono molte di più.
A letto con il capo? L’uomo non esiterebbe di Lia Celi. Ma l’avete visto quanto è bella Gabrielle McMullin, la chirurga australiana secondo cui ogni donna è seduta sulla sua meritocrazia e non lo sa? Una splendida 60 enne tipo Julie Andrews che irradia empowerment e autorevolezza. Il discorso “se il capo ve la chiede dàtegliela, na lavada, na sugada, la par nanca duperada” (non è il motto sull’ultima felpa di Salvini ma un cinico proverbio milanese, “una lavata, un’asciugata e non pare neanche usata”) ce lo saremmo aspettate da un’Olgettina o da una Biancofiore, per chi sa cogliere la sottile differenza. La dottoressa si riferiva in particolare alle stagiste e citava il caso di una giovane specializzanda che per aver denunciato le avance del suo supervisore ha perso il posto cui aspirava. Stop alla carriera, conclamata quanto rovinosa fama di cagacazzo: vale la pena, o è meglio chiudere gli occhi e pensare al proprio futuro? La Realpolitik della passera vale ancora, e a parti ribaltate gli uomini non si farebbero scrupolo a barattare una scopata con una promozione, perché badano al sodo e non dubitano che il loro coso resti come nuovo. Ma quando mio figlio è sul tavolo operatorio non voglio dover pensare che la anestesista che gli sta iniettando qualcosa di potenzialmente letale ha ottenuto quel lavoro non perché era la più competente in anestesiologia, ma perché è andata a letto col primario. Questo non esclude che sia anche competente, ma il dubbio mi induce a diffidare automaticamente di lei e di tutte le donne in ruoli di responsabilità, specie se giovani e belle, e di volere al loro posto dei maschi, che possono far carriera senza puntare sulla libido altrui. Almeno in Australia e nell’Occidente civilizzato. In Italia gli uomini devono puntare su parentele e raccomandazioni. E se fai carriera col sesso almeno devi scopare di tuo, se la fai con gli appoggi strumentalizzi papà ministro e amici di famiglia, che è anche più sporco. Da il Fatto del Lunedì, 23 Marzo 2015
Silvio Berlusconi, il mistero sulla sua scomparsa dalla tv? Ecco dove passa le serate, scrive Salvatore Dama il 23 Luglio 2018 su "Libero Quotidiano". Quando un ciclo politico finisce, Silvio Berlusconi si prende una pausa e si gode la sua "roba". Ora è il momento dei gialloverdi e il Cav lascia che gli altri si giochino la loro partita. Tornerà protagonista. Ma non ora. Lo stand-by berlusconiano, se capita d' estate, ha un solo nome: Villa Certosa. Con il possedimento sardo Berlusconi ha un rapporto di amore-odio. Negli ultimi anni gli è costato tanti dolori, i suoi ospiti sono stati ripetutamente paparazzati. Storico è rimasto il clic dell'ex premier ceco Topolanek con il birillo al vento. La magione è stata messa in vendita, ma non è semplice: 4.500 metri quadri, 126 stanze, 120 ettari di parco. Vale mezzo miliardo di euro. Ma il mercato immobiliare a Porto Rotondo è in calo, le agenzie immobiliari traboccano di annunci di vendite, la perla della Costa Smeralda si è opacizzata. Ora i russi e i cumenda della Brianza fanno rotta solo su Porto Cervo. Qui sì che l'industria dell'intrattenimento sardo è ripartita alla grande. Di giorno decine di tender fanno su e giù dagli yacht per traghettare clienti "farcitissimi" ai beach club di Liscia Ruja. Dove l'ambulante maghrebino vuole 250 euro per una Chanel tarocca. E va via insolentito se una sciura gli chiede di trattare sul prezzo. Ma la vera "riccanza" sta nell' accaparrarsi un lettino al Nikki beach di Cala Petra Ruja, marchio conosciuto dai frequentatori di Ibiza che ora ha deciso di aprire anche in Gallura per sfruttare la nuova ondata espansiva del turismo sardo, uscito da un decennio di appannamento. L' aperitivo al Phi beach è una sfilata di moda. Pure Flavio Briatore si è ingrandito. Oltre al Billionaire, adesso ad Arzachena ci sono anche il Crazy fish e il Crazy pizza. A Porto Rotondo? La piazzetta di sera è desolata. Il Blu Beach, i cui lettini ricordano ancora i tanga di Noemi Letizia, aspetta Agosto per decollare. L' unica attrazione è rimasta Silvio Berlusconi. Gli inviti alle sue feste restano ambiti, le sue incursioni nei locali della zona immortalate da decine di avventori e condivise su Instagram. «Lo zio», lo chiamano. Affettuosamente. Venerdì sera a Villa Certosa ha organizzato un party per un ospite d' eccellenza: Quincy Jones, produttore dei dischi di maggior successo di Michael Jackson. Un monumento. Un musicista che ha prodotto in studio vinili che hanno venduto milioni di copie nel mondo. Jones ha collaborato anche con Tony Renis e con Charles Aznavour, amici storici del Cav. E Silvio ha guidato personalmente l'artista in una visita guidata della Certosa: la collezione di farfalle, il finto vulcano in eruzione, la balena di pietra che spruzza acqua. Poi lo ha deliziato con i suoi vocalizzi in francese. Il produttore afroamericano, ospite prima all' Umbria Jazz e poi a Ischia, ha appena compiuto 85 anni. Ma è un altro ottuagenario "inconsapevole" come Berlusconi. Il Cav, che a settembre festeggerà 82 primavere, la scorsa settimana ha "fatto serata" al Country Club di Porto Rotondo. Vestito in una polo blu che enfatizzava la sua abbronzatura, Berlusconi era in versione "cucador", non si è sottratto a selfie con gruppi di donne adoranti e ragazzi che, nella didascalia di Instagram, hanno sottolineato la primaria dote berlusconiana, quelle di "maestro" di seduzione. Ai più attenti non è sfuggito il dettaglio: pelle più liscia e sorriso più smagliante. Berlusconi, nel suo ultimo soggiorno a Merano, sembra si sia sottoposto a nuovi ritocchini di chirurgia estetica che hanno ulteriormente allontanato lo spettro dell'anagrafe. Il decreto dignità, la Cassa depositi e prestiti? Ma "chissene", è cominciata l'estate smeralda di Silvio.
BERLUSCONI, FRASE CHOC CONTRO RAFFAELLA FICO E MARIO BALOTELLI. Silvio Berlusconi video shock diffuso dal sito "Giustiziami", la frase fortemente razzista contro Mario Balotelli e Raffaella Fico: “Una che va con un negro mi fa schifo!”, scrive il 22 luglio 2018 Valentina Gambino su "Il Sussidiario". Continua a far discutere il video girato di nascosto da Marystel Polanco mentre Silvio Berlusconi conversa con alcune ragazze coinvolte nello scandalo delle “Olgettine”, e finito allegato agli atti del processo Ruby ter. In un passaggio del video si sente l'allora presidente del Consiglio giudicare duramente la storia d'amore tra il calciatore Mario Balotelli e la showgirl Raffaella Fico. La battuta razzista di Berlusconi sta facendo discutere, ma il video integrale dura circa 27 minuti e riprende il «pressing messo in atto dalle ragazze nel tentativo di ottenere favori e lavori in televisione». Le immagini mostrano un Berlusconi stanco e amareggiato, che parla più volte di complotti nei suoi confronti e che si dice impossibilitato a soddisfare le richieste delle ragazze. «Ho trovato tre giudici comunisti. Adesso ho scoperto che due di loro scrivevano su Lotta Continua e hanno fatto una sentenza per farmi fallire» dice in un passaggio Berlusconi, in riferimento a una delle azioni giudiziarie intraprese nei confronti della sua azienda. Gad Lerner oggi ha commentato la battuta razzista, prendendo posizione sulla vicenda: «Non c'è da stupirsi se un tale figuro ha consegnato la destra italiana nelle mani di un #razzista più brutale di lui. A suo tempo in tv gli diedi del #cafone, ma era molto peggio» ha scritto su Twitter il giornalista, uno dei più grandi critici dell'ex premier. (agg. di Silvana Palazzo)
“Una che va con un negro mi fa schifo!”. "A me una che va con un negro mi fa schifo", queste le parole di Silvio Berlusconi in persona, nel video realizzato a metà del 2011 e girato senza autorizzazione da Marysthell Polanco. La clip in questione è stata depositata agli atti del processo Ruby ter. Il cavaliere si è lasciato letteralmente andare ad una affermazione razzista che ha sconvolto l’opinione pubblica. L’argomento di conversazione? Mario Balotelli e Raffaella Fico che all’epoca dei fatti stavano insieme. A rendere noto il video incriminato è il sito web giustiziami.it. "Riteniamo sia doveroso darne conto – scrive il portale che si occupa di cronache dal Palazzo di Giustizia milanese - considerato il ruolo pubblico che Berlusconi ancora ha, in un momento in cui il tema del razzismo è di lampante attualità". La conversazione poi prosegue con Marystell Polanco che replica: "Ma Papi, anche io sono negra". E Berlusconi sostiene: "Ma no, tu sei abbronzata". Una prima parte della conversazione era già stata condivisa. La giovane aveva chiesto a Berlusconi di farla lavorare a Mediaset ma lui le aveva spiegato di essere stato distrutto e di non essere più quello del Bunga Bunga.
Il discorso di Marysthell Polanco a Berlusconi. Dopo le frasi razziste, anche il discorso di Marysthell Polanco in qualche modo è degno di nota. Lei sosteneva di volere solo un contratto: "Tu sei il presidente del Consiglio d’Italia, proprietario comunque di Mediaset. Ma io vado a `Colorado´ e che cosa devo fare perché so che c’è la Belen che presenta (…) mettimi a Sipario ad esempio (…) ma un contratto almeno di un anno valido non di solo due mesi. Non è che chiedo tanto dai Papi". La donna ha poi affermato di non lavorare proprio per colpa del Bunga Bunga: "Io ti dico adesso non me ne vado da qua finché tu non firmi un bel contratto. Fai finta che noi siamo delle persone rifugiate (…) tutti lavorano grazie a te papi (…) fai finta che noi siamo delle persone che hanno perso famiglia e abbiamo perso tutto. Fai finta che siamo quelli del terremoto di Caterina e dacci una piccola mano. Se lavoriamo domani ti aiutiamo, ti diamo una mano anche noi in altre cose".
Berlusconi e il video con le olgettine: «Papi, facci lavorare in tv» e lui: «Impossibile, non conto nulla». Di Valentina Baldisserri - di Valentina Baldisserri /CorriereTV del 20 luglio 2018. «Io non sono presidente di niente a Mediaset, sono fuori da Mediaset da 18 anni». È così che Silvio Berlusconi, ripreso di nascosto col telefonino da una delle ragazze delle serate ad Arcore e seduto su un divano di villa San Martino, risponde alla pressanti richieste, definite «impossibili» dallo stesso ex premier, di alcune giovani in casa con lui che gli chiedono un lavoro in tv. Il video, di cui l’Ansa è venuta in possesso, è stato realizzato a metà del 2011, quando l’inchiesta sul caso Ruby era già scoppiata, depositato agli atti del processo Ruby ter e finora mai diffuso. «L’isola non l’ho fatta (...) il film che dovevo fare con Massimo Boldi l’hai dato a lei», dice una delle ragazze. E Berlusconi: «Non l’ho dato io». E un’altra giovane, presumibilmente Marysthell Polanco che riprende, dice: «Io un contratto e basta, papi, è quello che mi serve (...) tu sei il presidente del Consiglio d’Italia, proprietario comunque di Mediaset». E lui: «Sì hai visto cosa mi fanno? Presidente del Consiglio d’Italia...». L’allora premier, parlando con le giovani davanti a lui, come si vede nel video della durata di 27 minuti circa, di fronte al pressing incessante delle ragazze prova a tranquillizzarle, mentre loro gli fanno notare di continuo che nei vari programmi tv lavorano altre e non loro. «Per quanto riguarda Marysthell - spiega il leader di FI - va dentro `Colorado´». E Polanco: «Ma io vado a `Colorado´ e che cosa devo fare perché so che c’è la Belen che presenta (...) mettimi a Sipario (...) ma un contratto almeno di un anno valido non di due mesi». E ancora: «Non è che ti chiedo tanto papi». E lui, accasciato sul divano e all’apparenza stanco della `questua´ continua, le risponde: «Tu chiedi cose impossibili, che non posso fare, tieni presente che la televisione non è la mia». Polanco, a un certo punto, alza la voce. «Io non lavoro solo perché è successo questo casino qua», dice riferendosi all’inchiesta appena scoppiata sulle serate del “bunga-bunga” e alla loro «immagine» rovinata, perché vengono definite le «ragazze di Berlusconi». «Fai una cosa, dì a tuo figlio a Mediaset, digli `fai una carità´ anche se lui ci odia (...) se lui dice domani `io voglio quella che faccia questo programma´...». dice poi Marysthell Polanco. L’allora premier, come emerge dal filmato, cerca di spiegare alle ragazze che certamente loro sono state danneggiate, ma «io sono stato colpito più di tutti perché dopo una vita di lavoro sono distrutto come immagine nel mondo, perché sono quello del “bunga-bunga”, tutto quello che ho fatto come statista, come politico, ho evitato la guerra tra la Russia e la Georgia...». Il video è stato depositato da tempo agli atti del procedimento con al centro l’accusa di corruzione in atti giudiziari perché, secondo il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e il pm Luca Gaglio, Berlusconi avrebbe comprato con milioni di euro il silenzio o la reticenza delle ragazze, Karima El Mahroug compresa, che hanno testimoniato nei casi Ruby e Ruby bis parlando di «cene eleganti». Il processo, rimasto al palo per tanti mesi, non è ancora di fatto iniziato e la prima vera udienza è fissata per il 24 settembre. Tre le giovani parti civili e testimoni chiave dell’accusa: Imane Fadil, Ambra Battilana e Chiara Danese. Nel filmato Berlusconi prova a spiegare alle “olgettine” che stanno reagendo in malo modo allo scandalo esploso sui media di tutto il mondo: «Non dovete affrontarla con questo spirito (...) è come si ci fosse venuta addosso un’automobile, è chiaro, non è una cosa che abbiamo voluto, nessuna di voi l’ha voluto e tanto meno l’ho voluto io». E ancora: «Dobbiamo vedere in che modo uscirne con tranquillità, io vi avevo detto `andate via in vacanza per un po´ di mesi’ (...) vi divertivate in una casa che vi ho messo a disposizione ad Antigua».
La Casta delle Papi girls. Ben pagate, poco attive e spesso assenti: ecco cosa hanno fatto e quanto hanno guadagnato le fanciulle lanciate in politica da Silvio. Dalla Giammanco alla Pascale, dalla Carfagna alla Minetti, scrive su "L'Espresso" Emiliano Fittipaldi, ha collaborato Claudio Pappaianni, il 21 settembre 2011. A Montecitorio Gabriella Giammanco è arrivata nel 2008. Giornalista al Tg4, viene imposta da Silvio Berlusconi nelle liste elettorali siciliane. Nipote del boss mafioso Michelangelo Alfano, negli ultimi tre anni (stipendio più indennità 14 mila euro al mese) ha firmato solo 11 interrogazioni parlamentari. Quasi tutte riguardano animali: il 5 marzo 2011 ha chiesto conto e ragione della morte "della cavalla Tiffany al Palio di Ronciglione", il 15 febbraio ha spiegato all'aula che "il circo Embell Riva" non riusciva "a rientrare dalla Siria". Problemi anche per il circo Bellucci rimasto bloccato in Tunisia in mezzo ai tumulti. "Le tournée all'estero dei circhi italiani si stanno confermando come dei veri e propri incubi per gli animali!", ha chiosato indignata la deputata fidanzata con Augusto Minzolini, che pure riempie di bestiole la scaletta del suo Tg1. Epperò, la giornalista lo batte: mozioni o proposte di legge che siano, la Giammanco parla sistematicamente di "fringuello, peppola, frosone, pispola e pispolone (uccelli, ndr.)" o discetta dell'affidamento degli animali in caso di separazione di una coppia. A tre anni dalle elezioni politiche e a due da quelle europee oggi è possibile tirare le somme, e fare un primo bilancio della classe dirigente femminile su cui ha puntato il Cavaliere per governare l'Italia. Tra le varie tipologie di Papi girls, sono quelle che Veronica Lario detestava di più. Le raccomandate, e le ragazze dello show-biz lanciate in politica per il "divertimento dell'Imperatore". Il premier s'è sempre difeso, sottolineando che le sue candidate erano purosangue di razza, laureate con 110 e lode, "insomma preparatissime". Eppure, dati alla mano, in Parlamento, a Strasburgo, nei consigli regionali o provinciali, negli assessorati, quasi nessuna delle favorite pagate con soldi pubblici sembra aver lasciato il segno. Partiamo dal basso. Nel senso geografico: dalla Campania. Mara Carfagna è quella che ha fatto più carriera di tutte. Oggi è ministro. Per le altre, è un mito. Anche perché ha indicato la strada giusta. Per fare politica non bisogna esagerare. Mai pretendere deleghe al Bilancio, puntare sulla Sanità o su incarichi in uffici economici, dove il lavoro è troppo complesso e noioso: le girls di Silvio preferiscono occuparsi di parità tra i sessi, di problemi delle donne, di animaletti. Come Giovanna Del Giudice, 27 anni, ex meteorina al Tg4 e billionerina di Flavio Briatore, nominata dal presidente della provincia di Napoli Luigi Cesaro assessore, appunto, alle Pari opportunità. Dal giorno del suo insediamento, il 7 luglio 2010, periodo in cui ha guadagnato 2.500 euro al mese circa, ha firmato solo otto delibere. Una ogni due mesi e mezzo. In un anno s'è vista a un workshop per le "relazioni con la Palestina" (l'ex velina ha addirittura le deleghe alla Cooperazione internazionale), s'è occupata del progetto "Tifare Humanum Est" e ha promosso il concorso "Mai più violenza sulle donne" di cui non s'è saputo più nulla. Il suo staff? Due dipendenti della provincia e tre collaboratrici. Emanuela Romano, 30 anni e laurea di psicologia, è famosa per essere la co-fondatrice del comitato Silvio ci manchi e perché il padre Cesare minacciò di darsi fuoco sotto Palazzo Grazioli. Nel 2010 è stata lanciata come assessore alle Politiche sociali di Castellammare di Stabia. Stipendio da 1.800 euro al mese, in sei mesi nessun atto o intervento di rilievo. Si fa notare a inizio 2011, quando abbandona la carica preferendo una poltrona al Corecom, un ente regionale che ha il compito di monitorare il sistema delle comunicazioni. Servirebbe un esperto, la Romano può sventolare il suo master in Publitalia. Lo stipendio sale, oltre 2 mila euro al mese. La ragazza è felice, ma non sa che si sta cacciando in un guaio. I pm di Napoli infatti la indagano per falso in atto pubblico. Giovanna s'è dimenticata di segnalare, presentando la candidatura al Corecom, che era ancora assessore: le cariche sono incompatibili. Anche l'amica Virna Bello, detta la "Braciulona", fotografata sull'aereo presidenziale in rullaggio verso Villa Certosa, ha una storia simile. Pochi, dimenticabili mesi come assessore all'Istruzione a Torre del Greco, poi un'assunzione nella società Campania Navigando. Contratto ottenuto senza alcun concorso: così dopo appena due mesi, quando la società viene assorbita da Italia Navigando, la "Braciulona" viene licenziata in tronco. Chi non rischia di rimanere disoccupata è invece Francesca Pascale, la preferita tra le preferite delle Papi girls campane. Da molti è indicata come la vera fidanzata di Berlusconi: l'ultima foto abbracciata con il Cavaliere risale al 12 giugno, quando i duefurono pizzicati a Villa Certosa dall'obiettivo di Antonello Zappadu. Ex valletta del programma trash "Telecafone", eletta come consigliere Pdl alla provincia di Napoli con 7.600 voti, la Pascale nel 2010 è stata assente in aula il 49 per cento delle volte (14 su 30), mentre nel 2011 le presenze si contano su una sola mano. A lei, probabilmente, dei gettoni da quattro soldi che prendono i consiglieri non frega nulla, tanto che s'è trasferita a Roma, in un elegante condominio con piscina in zona Trionfale di proprietà dell'immobiliare Dueville: società, manco a dirlo, di Silvio Berlusconi.
Saliamo un po' più su, nella capitale. Vicino alla Giammanco è seduta Mariarosaria Rossi, organizzatrice di feste al Castello di Tor Crescenza affittato dal premier, intercettata mentre parlava del bunga bunga con Emilio Fede (era di casa anche ad Arcore). In tre anni il suo carniere da deputata è quasi vuoto: una sola proposta di legge come primo firmatario (le uniche che contano: a sottoscrivere la proposta di un altro son bravi tutti), nessuna mozione, interrogazione o risoluzione. Zero di zero. Presente però quasi sempre - giusto sottolinearlo - quando bisogna votare e spingere il pulsante. Invece Elvira Savino, l'amica di Sabina Began e Gianpi Tarantini, nell'emiciclo s'è vista pochino: una volta su tre non c'era. Per problemi di salute del figlio piccolo. In oltre tre anni ha firmato appena quattro interrogazioni e quattro proposte di legge (cioè una ogni 140 giorni), ma in compenso s'è fatta notare nelle pagine di cronaca giudiziaria: prima è stata accusata di aver agevolato operazioni finanziarie sospette compiute dal un riciclatore del clan mafioso dei Parisi, poi il suo nome è finito nell'inchiesta su Tarantini: in alcune intercettazioni la deputata è stata sorpresa a parlare con Gianpi di un possibile rendez-vous tra Berlusconi e la soubrette Carolina Marconi. A Milano la Papi girl che Silvio ha voluto nel listino bloccato per le Regionali è Nicole Minetti. Su di lei s'è scritto di tutto: specializzata in igiene orale, in lap dance e travestimenti (pare che si vestisse da suora per sollazzare il Capo), al Pirellone (dove guadagna oltre 10 mila euro al mese) ha co-firmato un progetto di legge per la "valorizzazione del patrimonio storico risorgimentale in Lombardia" e 14 mozioni, tra cui quella sulle nuove norme per gli acconciatori. Una sola interrogazione scritta di suo pugno: la Minetti vuole sapere da Formigoni quali sono i risultati di un progetto pilota sul Papilloma virus iniziato un anno prima. Infine, c'è la classe dirigente mandata al Parlamento europeo. Barbara Matera, ex "letteronza" di "Mai dire gol" e annunciatrice Rai, laureata in scienze dell'educazione, secondo alcune classifiche ad hoc è una delle deputate italiane più attive a Strasburgo. Anche Laura Comi si difende bene: nessuno, anche tra i colleghi dell'opposizione, osa parlarne male. La terza Papi girl lanciata in Europa è Licia Ronzulli, una habitué delle feste di Villa Certosa. Barbara Montereale la indicò come responsabile "della logistica dei viaggi delle ragazze: è lei che decide chi arriva e chi parte. E smista nelle varie stanze". A Strasburgo non ha mai scritto una relazione (il documento più impegnativo), ma ha presentato tante interrogazioni. Nel 2011 ha chiesto informazioni "sull'utilizzo del cloro nelle piscine", sulla "tratta di cuccioli nell'Europa dell'Est", sulla "lotta all'abbronzatura artificiale selvaggia", sul "contrasto al culto eccessivo della magrezza", senza dimenticare "il monitoraggio del buco dell'ozono", "il contrasto ai disturbi del sonno", "la salvaguardia delle ostriche", e "il silenzioso sterminio dei rinoceronti in Africa australe". Stipendio netto: circa 15 mila euro al mese.
Dire «Papi-girl» non è diffamatorio. Giornalisti assolti ad Avellino, scrive il 25 settembre 2013 "Il Corriere del Mezzogiorno". Rigettata la querela presentata dall’ex politica del Pdl Emanuela Romano. L'espressione «Papi Girl» è ormai parte del lessico politico e giornalistico. E definire «Papi girl» una giovane e bella ragazza che ha fatto carriera in politica nel Pdl dopo aver frequentato feste e ville di Silvio Berlusconi non è diffamazione «ma giudizio di espressione di una critica politica». Come riporta «Il Fatto Quotidiano», in un articolo firmato da Vincenzo Iurillo, il gup di Sant’Angelo dei Lombardi, Fabrizio Ciccone, ha rigettato la querela presentata dall’ex assessore azzurra alle Politiche Sociali di Castellammare di Stabia, Emanuela Romano, co-fondatrice insieme alla partenopea Francesca Pascale - oggi fidanzata ufficiale di Berlusconi - del frizzante comitato tutto al femminile «Silvio ci manchi».
PROSCIOLTO IL DIRETTORE DI METROPOLIS - «Prosciolti perché il fatto non sussiste» il direttore del quotidiano stabiese «Metropolis», Giuseppe Del Gaudio, e il giornalista Giovanni Santaniello, autore dell’articolo «La Papi girl finisce alla sbarra», entrambi difesi dagli avvocati Vincenzo Propenso e Luca Sansone. Erano stati querelati per aver pubblicato una notizia anticipata su ilfattoquotidiano.it: il rinvio a giudizio della Romano accusata di aver attestato falsamente di non avere incarichi in giunta al momento di presentare la domanda per concorrere al Corecom, nomina poi ottenuta. La Romano si era arrabbiata soprattutto per quell’appellativo, «Papi-girl», che proprio non digeriva: i suoi avvocati avevano già inviato una diffida per un precedente articolo: “Bobbio, ecco la giunta. C’è anche una Papi girl’.
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA - In otto pagine di motivazioni il giudice ricostruisce genesi e significato dell’espressione «Papi girl», inserita peraltro nel «Dizionario semiserio delle 101 parole che hanno fatto e disfatto la Seconda Repubblica» pubblicato da Lorenzo Pregliasco per Editori Riuniti. «Il Tribunale osserva che con l’espressione giornalistica Papi-girl, di cui si duole la parte offesa, si vuole indicare quel gruppo di giovani e belle ragazze che negli ultimi anni sono balzate agli onori della cronaca per avere intessuto rapporti di amicizia e di frequentazione con l’ex presidente del Consiglio Berlusconi, e che in alcuni casi hanno rivestito importanti cariche nelle istituzioni, locali e nazionali, spesso contraddistinguendosi per una forte identificazione personale e politica nella figura del Presidente Berlusconi».
LA QUERELA - Nella querela la Romano si era lamentata del titolo e di alcune considerazioni riportate nell’articolo. «Metropolis» scrisse che la sua fortuna politica dipese «dalla presenza a Villa Certosa in compagnia dell’allora premier Berlusconi» dal quale avrebbe ricevuto «la promessa di essere inserita nella lista Pdl per le europee». E dopo il tentativo di suicidio del padre, che minacciò di darsi fuoco sotto Palazzo Grazioli per la mancata candidatura della figlia, «nel 2010 (la Romano, ndr) fu ricompensata con una poltrona nella giunta Pdl a Castellammare» anche perché «la pupilla di (nell’ordine di importanza) Berlusconi, Cosentino, Cesaro e Bobbio (all’epoca sindaco di Castellammare, ndr)». Passaggi che secondo il giudice non hanno portata diffamatoria.
IL DECLINO DELLE "PAPI-GIRL" - DECADUTE, SENZA SOLDI E LAVORO: LE RAGAZZE DELLE “CENE ELEGANTI” SE LA PASSANO MALE - L’APE REGINA BEGAN VIVE A ROMA MA NON SI SA A FARE COSA - LA POLANCO VIVE ALL’ESTERO, LE GEMELLE DE VIVO SONO TORNATE A NAPOLI, BARBARA GUERRA E’ STATA CONDANNATA PER DIFFAMAZIONE A BARBARA D’URSO - SOLO NICOLE MINETTI E RUBY SE LA PASSANO BENE…
Estratto dell’articolo di Davide Milosa per il “Fatto Quotidiano” del 25 aprile 2018
Decadute, partite, in alcuni casi senza più soldi, con una carriera da showgirl mai iniziata, a barcamenarsi tra reality sgonfi di audience, comparsate, o addirittura a fare i conti con la giustizia. Con le "cene eleganti" finite sul banco morale degli imputati, anche le olgettine o papi-girl, seguono inesorabilmente il declino del loro pagatore e anfitrione. […]
Chi ricorda Noemi Letizia, giovanissima partenopea al fianco di Silvio nel 2009? […] E invece tutto lo sciame che per anni ha abitato nel palazzo a Milano 2 in via Olgettina? Quello che una di loro, Ioana Visan, chiamò "il clan delle belle gnocche"?
La grintosa Marysthell Polanco […] si è innamorata di un campione della pallacanestro ed è volata all'estero. E poi c' è lei, Ruby. […] Andata in Messico, dopo l'addio al marito Luca Risso, una figlia e, molti sussurrano, tanti soldi, pagati chissà dove e chissà come, per tenere il silenzio. […]
E poi c'è Nicole Minetti, igienista dentale, volata in Regione nel 2010 e protagonista delle notti di Silvio. Oggi, Nicole, dopo la burrasca giudiziaria del Ruby bis, vive, senza alcun problema economico, tra l'Italia e l'estero, soprattutto a Ibiza, corteggiata dagli stilisti. […]
Sabina Began , […]soprannominata l'Ape regina, […]è una della prima ora. […] Le ultime tracce, oltre che in tribunale, la raccontano molto dimessa e a passeggio per Roma. […]
Qui troviamo le gemelle De Vivo […] senza quattrini, più volte lo hanno dichiarato e ora rientrate a Napoli. […] Barbara Faggioli ha incrociato il destino di Danilo Gallinari, campionissimo del basket nostrano ora acclamato in Nba.
[…] Roberta Bonasia la quale, per voce dei fedelissimi del Cav. era finita nelle sue grazie più di tutte. […] oggi […] tira a campare anche coi soldi dei genitori. Insomma niente più denaro, né ville né contratti.
Francesca Cipriani ci ha provato recentemente con l'Isola dei famosi. Come lei, ma al Grande fratello, Giovanna Rigato, la quale, dopo aver visto sfumare un contratto Mediaset, medita di andare all' estero.
[…] Cinzia Molena ha recitato in Centovetrine. Dopodiché non l'hanno più chiamata. Finisce in tribunale Barbara Guerra. Dalla villa di Bernareggio, altro regalino di papi, alla condanna per diffamazione nei confronti di Barbara D'Urso. La Guerra intanto sogna la moda e una linea di intimo femminile.
Le redente di Villa Certosa: le Papi-girl mettono la testa a posto, scrive su Donne di Fatto Quotidiano l'8 settembre 2013 Flavia Perina, Giornalista. Ve le ricordate? Erano le icone dell’Italia femmina scatenata e rampante, i volti dello yuppismo in short e autoreggenti, la gioventù bruciata del berlusconismo, tra il 2008 e il 2012, quando il Cav poteva governare da solo e non per interposta persona. Noemi, Sabina, Sara, Nicole e le altre, le pupe del capo, che riempivano le trasmissioni televisive con le loro spericolate interviste sulla vita, gli uomini, la politica, e ovviamente sull’indiscutibile grandezza ed eleganza di Silvio. Finita la festa, sono state adeguatamente pensionate ed è curioso leggere le interviste in cui si reinventano come educande delle Orsoline, tutte casa, marito e famiglia. Noemi, ci racconta Oggi, «sta per laurearsi e aspetta un bimbo dal suo Vittorio». È «molto diversa dal passato. Capelli naturali schiariti dagli shatush, neanche un filo di trucco, dimagrita nonostante la gravidanza». La minorenne di Casoria che coniò l’immortale nomignolo di Papi, è un po’ scocciata perché i suoceri sono diffidenti, ma passerà: non sembra poi un dramma, se confrontato con le invettive di Veronica. Incinta pure Sara Tommasi. Lo racconta il suo fidanzato, Fabrizio Chinaglia. Chiosa il settimanale che ha dato la notizia: «Alle viste un nuovo inizio per l’ex showgirl redenta». Sabina Began si reinventa come manager dei diritti sportivi, con venature femministe: «Mi impegno in quello che faccio, non vendo il mio corpo, anche se sono attratta dagli uomini nascondo questo mio lato, voglio essere apprezzata per il mio cervello». La Minetti si rimette col penultimo fidanzato, cancella il suo sito, il profilo facebook e ogni traccia di sé dal web e sparisce a Ibiza. Dice che vuole trasferirsi in America. Un nuovo inizio pure per lei. Insomma, hanno tutte messo la testa a posto, o forse si sono solo rassegnate. Chissà a cosa aspiravano, chissà cosa si immaginavano per il futuro solo un paio di anni fa: conduttrici di prima serata, parlamentari, ambasciatrici, fidanzate ufficiali dell’uomo più ricco d’Italia. E tutta quella fatica, quelle notti bianche, la chirurgia estetica, le litigate furiose con le concorrenti, l’incubo di un chilo di troppo o di una ragazza nuova, per cosa? Per finire ai giardinetti con il pupo? Dovranno farsene una ragione. Il Bunga Bunga non si porta più. È l’epoca delle larghe intese e, quindi, della civile mediazione tra il modello Marysthell Polanco e il modello Rosy Bindi. Le vecchie bandiere della guerra contro “la sinistra bacchettona e moralista” – sì, le signorine furono anche questo, magari a loro insaputa – sono stati ammainate, e pure con una certa vergogna. A nessuno fa piacere ricordare che ci fu un tempo in cui 314 parlamentari votarono su Ruby nipote di Mubarak. Noemi e le altre dovranno rassegnarsi a una second life a bassa intensità e a farsi piacere l’impensabile, le scarpe basse e magari pure il grembiule, non per lo spettacolino di burlesque ma per lavare i piatti.
La fedeltà a orologeria delle Papi girl, scrive il 27 febbraio 2011 Marco Lillo, Giornalista e scrittore, su "Il Fatto Quotidiano". C’è una domanda alla quale nessuno sa rispondere. Perché le ragazze di Silvio Berlusconi non parlano? Secondo le ultime intercettazioni sarebbero ottanta quelle che avrebbero avuto rapporti a rischio con Papi. Ognuna di loro potrebbe descrivere quello che accade davvero nei sotterranei di Arcore e invece tutte continuano a recitare il mantra delle feste eleganti anche se nelle intercettazioni svelano di avere fatto il test anti-Aids, malattia che finora nessuno sapeva si trasmettesse bevendo Coca light. Nessuna di loro ha visto Ruby nelle tante notti trascorse dalla minorenne marocchina nella villa San Martino e nessuna ha mai sentito parlare di bonifici, buste piene di banconote, appartamentini e Mini Cooper fiammanti in cambio di sesso. Tutte restano mute e quando aprono bocca è solo per spandere generosità, eleganza e bontà sul santino di Silvio. Le uniche eccezioni alla regola sono le classiche voci dal sen fuggite come quella di Sara Tommasi. Una possibile spiegazione è: le ragazze non parlano perché continuano a essere pagate. Come dimostrano i bonifici ad Alessandra Sorcinelli versati dal conto del Cavaliere proprio nei giorni in cui la ex meteorina deponeva in Questura sul Bunga Bunga. La motivazione economica però non basta a spiegare il muro del silenzio che protegge il premier. Sommando le ragazze del giro romano, quelle napoletane, le baresi di Tarantini e le milanesi, si arriva a un centinaio. Non tutte sono a libro paga di Silvio, tutte però sanno di poter chiedere all’uomo più potente d’Italia una particina in una fiction, una comparsata in uno show, un ruolo in un reality, una raccomandazione per entrare in qualche grande società o in uno studio legale associato e intanto sorridono compiacenti al Cavaliere che le potrà aiutare. Male che vada, se proprio non si trova altro, c’è la candidatura in politica. Eppure anche questa attesa di una possibile ricompensa non basta a spiegare del tutto la cupola di omertà che avvolge i festini del Cavaliere. La verità è che molte ragazze non parlano perché sentono che sarebbe, oltre che controproducente, anche ingiusto, secondo il loro codice di valori che purtroppo è condiviso da una larga fetta della società. Per capire lo scandalo Ruby non bisogna guardare solo al “Drago”, per dirla con Veronica Lario, ma anche alle “vergini”. Non c’è solo la malinconica figura di un settantenne imbolsito che mente a sé stesso dicendo: “io non ho mai pagato una donna”, c’è anche una pletora di ragazze che non si fa scrupoli a vendere corpo e dignità per soldi, benefit e soprattutto ruoli pubblici e di spettacolo. Se analizziamo tutti i personaggi del fumettone di Arcore bisogna ammettere che le protagoniste femminili non fanno una bella figura. Prendendo in prestito la catalogazione stringata ma efficace di Nicole Minetti, non si trova “una zoccola, una sudamericana che non parla italiano e viene dalle favelas. Né una po’ più seria, né una tipa via di mezzo”, che abbia la dignità di dire “ho fatto parte di questo giro del presidente del consiglio e vi dico che fa schifo”. L’unica che ha detto qualcosa di simile è stata Sara Tommasi ma lo ha fatto solo dopo essere entrata in una profonda crisi psicologica. La stessa M.T., l’amica d’infanzia di Nicole Minetti che racconta al telefono e poi a verbale ai pm di essere rimasta turbata dal Bunga Bunga, non disdegna di intascare la busta con le banconote di Papi uscendo da Arcore. Anche Patrizia D’Addario non può certo essere definita un personaggio positivo. La escort di Bari svela il giro di prostituzione intorno alle residenze del premier solo per puro istinto di vendetta e non di giustizia. Si decide a parlare con giornalisti e magistrati solo quando capisce che Silvio Berlusconi ha fatto sesso con lei e non l’ha retribuita né con una candidatura, né con lo sblocco del suo cantiere a Bari. Non c’è una sola donna che parli di Papi per seguire impulsi antichi come la dignità, la pulizia, l’onore e la verità. Nessuna, soprattutto, che abbia in minima considerazione il versante pubblico di questa triste storia: il danno che il premier fa alle istituzioni e alla vita pubblica offrendo candidature e ruoli televisivi a escort, prostitute e mantenute. L’unica eccezione in questo scenario squallido è Veronica Lario. La scelta della signora di Macherio è un’eccezione anche rispetto alle altre donne che hanno puntato il dito contro i loro uomini negli scandali della recente storia italiana. Da Laura Sala (la moglie di Mario Chiesa), passando per Stefania Ariosto, per arrivare fino alla ex del sindaco di Bologna Flavio Delbono, Cinzia Cracchi, tutte hanno parlato solo dopo essere state lasciate dal proprio uomo o fatte fuori dal suo giro. Con l’unica eccezione forse di Stefania Ariosto, le grandi accusatrici non denunciano mai il malaffare dei loro uomini per un senso di onestà, ma usano la giustizia per vendicarsi delle ferite al proprio orgoglio femminile. La molla che le fa scattare non è mai pubblica ma sempre privata. Non reagiscono come cittadine, ma solo e soltanto come donne. Se Mario Chiesa avesse accettato di spartire il bottino con la moglie concedendole il mantenimento richiesto, non sarebbe scoppiata Mani Pulite. Se il sindaco di Bologna Flavio Delbono non si fosse innamorato di un’altra, Cinzia Cracchi (che oggi sfila alla manifestazione delle donne contro Silvio Berlusconi) avrebbe continuato allegramente a viaggiare a sbafo con lui e Delbono probabilmente sarebbe ancora sindaco. Stefania Ariosto è stata forse l’unica testimone con una motivazione etica, ma anche lei probabilmente non avrebbe mai raccontato le buste di Cesare Previti ai magistrati se non fosse stata tenuta ai margini dal giro di Berlusconi. Per sapere la verità sui festini del Cavaliere probabilmente bisognerà aspettare che una donna si senta tradita dal premier nel privato. Forse Nicole Minetti è l’unica che si avvicina all’identikit. Quando la sua rabbia monterà abbastanza e magari la legislatura in Regione Lombardia volgerà al termine, potrebbe essere proprio l’ex igienista dentale a svelarci qualche particolare in più sulle feste che hanno costellato la sua strana storia d’amore con il premier.
Caso Ruby, quella minorenne in Questura. Così nacque lo scoop del Fatto, scrive il 25 giugno 2013 su "Il Fatto Quotidiano" Gianni Barbacetto, Giornalista. Quante storie girano attorno alla vita personale, imprenditoriale e politica dell’uomo più ricco d’Italia. Vicende mirabolanti e incredibili, raccontate da testimoni a volte barocchi o imprendibili. Soldi, successo, sesso, calcio, mafia: quanti ingredienti, non manca quasi nulla nelle storie sussurrate sull’irresistibile ascesa di Silvio Berlusconi, passate o presenti. Nell’estate 2010 alcune buone fonti avevano da raccontare storie su clamorosi festini organizzati nella villa del presidente del Consiglio ad Arcore. Cene e incontri notturni, giostra di belle ragazze, e una minorenne accolta nel giro. Era già esploso lo scandalo di Noemi Letizia, la ragazza di Casoria che aveva festeggiato il suo diciottesimo compleanno con la presenza di un ospite speciale, “Papi” Silvio, che l’aveva avuta ospite nelle sue residenze ancora minorenne. Era balzata sulle pagine di cronaca anche la storia di Patrizia D’Addario, la escort barese che aveva passato una notte con lui a Palazzo Grazioli, a Roma. Erano emerse le foto e le feste dell’estate 2009 a Villa Certosa, in Sardegna, con la parlamentare europea Licia Ronzulli che, “per dare una mano al presidente”, smistava nelle camere del villone le ragazze che arrivavano a frotte. Un villaggio vacanze molto particolare, con feste sfrenate, balli notturni ed eruzione finale del vulcano artificiale di Silvio Berlusconi, quasi una metafora della vita reale. Un anno dopo, sulla scena si presenta, sfuocata, una minorenne. Chiacchierona, forse inattendibile, che racconta storie, forse millanta incontri ed evoca personaggi da rotocalco vip. Ormai erano in tanti a conoscere i suoi racconti e i brandelli della sua ancora sconclusionata storia. I poliziotti che l’avevano fermata il 27 maggio 2010 e portata in questura. Quelli che erano accorsi il 5 giugno a sedare la rissa scoppiata nella notte con Michelle Coincencao, la prostituta che la ospitava. Le ragazze che l’avevano conosciuta ad Arcore o in giro nei locali di Milano. Gli amici e i conoscenti che l’avevano avvicinata nei mesi del suo soggiorno milanese. Lele Mora e il suo giro di bei ragazzi e disponibilissime ragazze. Gli operatori del servizio minori del Comune di Milano e quelli della casa d’accoglienza dove era stata mandata, a Genova. E, infine, i magistrati di Milano che avevano cominciato a interrogarla, la Ruby, tra luglio e agosto, e la polizia giudiziaria che stava cercando riscontri alle sue dichiarazioni esaminando tabulati telefonici e ascoltando boccaccesche intercettazioni. Il lavoro di squadra della redazione milanese de il Fatto Quotidiano mette insieme, giorno dopo giorno, piccole tessere di un mosaico ancora informe. Emerge pian piano dai fumi delle notti milanesi una ragazza, non italiana, che racconta di aver partecipato alle feste di Arcore. È minorenne. È marocchina. Racconta storie piene di sesso e di soldi. Lunedì 25 ottobre 2010, la verifica definitiva: la ragazza esiste, la storia è vera, un’inchiesta giudiziaria è in corso. Martedì 26, il primo articolo sul caso Ruby appare su il Fatto Quotidiano, annunciato da un piccolo richiamo in prima pagina. Un secondo articolo, più ampio, mercoledì 27. Il giorno dopo, giovedì 28 ottobre, i giornali e le tv di tutto il mondo riprendono e approfondiscono la storia della ragazza del bunga-bunga. È scoppiato lo scandalo Ruby.
"Notti da incubo ad Arcore. Ecco la verità sul bunga bunga". Altre due ragazze raccontano ai pm i dettagli sulle serate nella villa di Berlusconi. Ci andarono il 22 agosto 2010, il giorno dopo essere state "provinate" da Emilio Fede. Le barzellette sconce del premier, i giochini a sfondo erotico, i balli delle giovani seminude, la lap dance della Minetti. Tutto alla presenza della presunta "fidanzata" del premier, scrivono Piero Colaprico, Giuseppe D'Avanzo, Emilio Randacio il 13 aprile 2011 su "La Repubblica". Altre due ragazze raccontano l'autentica "eleganza" delle notti di Arcore. A questo punto ci sono cinque giovanissime donne - testimoni dirette - che smentiscono la narrazione minimalista e fantasiosa di Silvio Berlusconi, il premier a giudizio per concussione e prostituzione minorile. Sono tutte e cinque estranee al giro della Dimora Olgettina, al mondo dello spettacolo e alla "scuderia" di Lele Mora. Le ultime due, in ordine di tempo, sono giovanissime. Si chiamano Ambra Battilana e Chiara Danese. Sono invitate a Villa San Martino il 22 agosto del 2010. Quel giorno, Ambra, che è nata il 15 maggio 1992, ha diciotto anni, tre mesi e sette giorni. Chiara, nata il 30 giugno 1992, ha diciott'anni, un mese e ventidue giorni. Quando le incontra, Silvio Berlusconi le chiamerà "le mie bambine". Il 4 aprile scorso Ambra e Chiara, con i loro avvocati, hanno presentato alla procura della Repubblica di Milano una "memoria" su quanto è avvenuto quella notte. Hanno confermato i loro ricordi in un interrogatorio, lunedì. Bisogna subito raccontare perché - solo ora e dopo otto mesi - Ambra e Chiara decidano di uscire allo scoperto, consapevoli "di essere finite - sono le loro parole - in fatti più grandi di noi". Ascoltiamole. Chiara: "Io non avevo alcuna intenzione di parlare. Mi sono sentita costretta dal clamore che ha assunto il caso e soprattutto dal fatto che nel mio paese, che è Gravellona, in provincia di Verbania, sono ingiustamente considerata una escort. È una denigrazione sulla bocca di tutti, sono continuamente infastidita da telefonate anonime". "È una situazione che mi fa soffrire molto e ho deciso di ribellarmi a un'immagine di me che non mi corrisponde". A scandalo scoppiato, racconta ai pubblici ministeri, Chiara prova a chiedere un consiglio a Emilio Fede: è stato lui a invitare le due giovanissime amiche a Villa San Martino.
Chiara: "All'inizio Fede mostra di non ricordare chi fossi, quando glielo ricordo mi dice in modo sarcastico, anzi in malo modo, se volevo dei "soldini". Mi chiede se volessi insinuare che lui mi aveva toccato, io rispondo che voglio soltanto parlargli di persona, non entro nel merito. Gli dico: "Voglio dei consigli, come devo fronteggiare questa situazione?". Fede è seccato, promette di richiamarmi ma non lo farà... Un altro motivo che mi ha spinto a prendere questa decisione è la posizione che ha assunto pubblicamente il presidente del Consiglio Berlusconi. In più occasioni ha definito "cene eleganti" le sue. Beh, per quanto mi risulta avevano tutt'altra natura. Per di più ha difeso proprio quelle ragazze che, quella notte, avevano avuto gli atteggiamenti più sconvenienti, mentre non ha ritenuto di spendere una parola a favore mio e di Ambra".
Ambra: "Oggi se digito il mio nome e cognome su Google, sono associata al bunga bunga e al processo in corso, anche se, con Chiara, sono stata una sola volta ad Arcore e pensando di partecipare a una normale cena e per di più a casa del presidente del Consiglio. Ora invece vengo associata a "trentadue prostitute" pur essendomi comportata in modo del tutto corretto. Il mio agente mi ha consigliato l'avvocato Patrizia Bugnano, ho saputo solo successivamente che è anche un deputato dell'Italia dei Valori. È uno stimato professionista e per di più è donna".
Chiara: "Apprendo solo in questo interrogatorio che l'avvocato di Ambra è deputato. A dir la verità, non so esattamente che cosa significa essere deputati e non so che cosa sia l'Idv. Non c'è stata alcuna interferenza, la memoria è frutto di ciò che abbiamo visto e vissuto io e Ambra", precisano le due ragazze, rispondendo ai pubblici ministeri Pietro Forno e Antonio Sangermano.
Ora i fatti. Sono le 23 del 22 agosto 2010. Ambra e Chiara hanno appena finito le selezioni di Miss Piemonte (Ambra è prima, Chiara è terza). Emilio Fede, che il giorno prima le ha "provinate" come meteorine, le invita nella residenza del Cavaliere. Si possono trascurare i dettagli dell'ingresso a Villa San Martino e dell'attesa del ritorno dallo stadio di San Siro del premier e del direttore del Tg 4. Il racconto può cominciare da quando Berlusconi entra in scena.
Ambra: "... Entriamo in casa e ci troviamo di fronte il presidente Silvio Berlusconi. Tiene in mano due vassoietti. Sopra ci sono degli anelli. Lui dice che sono di Tiffany, ma io mi accorgo che è semplice bigiotteria. Berlusconi li offre in dono. In quel momento arrivano tantissime ragazze. Noto Roberta Bonasia. Tutte cominciano a prendere i doni dai vassoietti, le ragazze hanno un atteggiamento molto confidenziale con il presidente. Sono elettrizzate. Il presidente si presenta a me e a Chiara e si mostra contento di vederci. Ci dice che siamo belle. Ci ricopre di complimenti. Chiede qualcosa della nostra vita personale. È evidente l'attrazione che Berlusconi ha per me e Chiara. È così evidente che Emilio Fede gli dice, infastidito: "Tu mangia nel piatto tuo che io mangio nel piatto mio". Ci è chiaro che per Fede io ero destinata a Berlusconi, Chiara a lui".
Chiara: "La serata prosegue con la cena. Ci sediamo tutti a tavola, siamo più o meno quindici. Con Fede e Berlusconi, me e Ambra, ricordo Roberta Bonasia; Maristhell Polanco che avevo visto in televisione a "Colorado cafè"; le due gemelline napoletane (Eleonora e Imma De Vivo), che avevo visto all'Isola dei Famosi; una ragazza che si presenta con il nome di Lisa, di origine cubana, subito mostra un'attenzione omosessuale nei miei confronti; una signora bionda alta e riccia, che durante la serata canta; una signora prosperosa; una ragazza mora abbastanza alta, quella che ho poi riconosciuto essere Nicole Minetti; due ragazze nere, piuttosto volgari e abbigliate in modo indecente, quando le ho viste ho subito pensato che fossero due prostitute; un signore piuttosto alto che non ci fu presentato; un altro ragazzo che suonava una pianola e un'altra signora non giovanissima, di circa 50 anni. Ambra poi mi disse che Lisa le confidò subito di essere lesbica".
Ambra: "Marysthell mi dice che se Berlusconi mi avesse notato, mi avrebbe fatto fare una bella carriera... Emilio Fede mi spiega che le due gemelline napoletane per partecipare alla cena avrebbero ricevuto una ricompensa di tremila euro ciascuna".
Chiara: "Durante la cena Emilio Fede è seduto tra me e Ambra, di fronte a Fede c'è Berlusconi, seduto tra Roberta Bonasia e Lisa. Emilio Fede per tutto il tempo tocca le gambe a me e ad Ambra. Ero a disagio, in imbarazzo, scambiavo sguardi d'intesa con Ambra".
Ambra: "Berlusconi guarda insistentemente me e Chiara. Ci dedica canzoni che interpreta lui stesso, in francese e in italiano. Ci chiama "bimbe" e suscita il visibile risentimento di Roberta Bonasia, che gli si butta continuamente addosso baciandolo. Quella sera il presidente non mangia niente e racconta molte barzellette particolarmente sconce, così sconce che io mangio di malavoglia, tanto era irritante il contenuto. Ma tutti ridevano a crepapelle e, a un certo punto, parte la canzoncina "E meno male che Silvio c'è" e tutte le ragazze cominciano a ballare e cantare intorno al tavolo. Io e Chiara ci guardiamo imbarazzate, come per dirci: "Ma dove siamo finite?". E dire che il peggio deve ancora arrivare perché dopo quindici minuti che siamo seduti a tavola, alcune delle ragazze scoprono i seni, li offrono al bacio di Berlusconi. Toccano il presidente nelle parti intime. Si fanno toccare. Anche Roberta Bonasia tocca ripetutamente nelle parti intime Berlusconi. Mentre accade questo, le ragazze cantano ancora "meno male che Silvio c'è", chiamano il presidente "papi" e Berlusconi chiama tutte noi "le mie bambine, le mie bimbe"".
Chiara: "Dopo l'ennesima barzelletta oscena, Berlusconi fa portare una statuetta. É uno specie di guscio. Dal guscio esce un omino con un pene grosso. La statuetta ha dimensioni di una bottiglietta d'acqua da mezzo litro. Il pene è visibilmente sproporzionato. Berlusconi fa girare la statuetta tra le ragazze. E chiede loro di baciarne il pene. Le ragazze cominciano a far girare la statuetta. Ne baciano il pene e simulano un rapporto orale. O se lo avvicinano ai seni scoperti. Tutti ridono. Io e Ambra non ci prestiamo al gioco indecente. Ci sorprende che anche la Bonasia, che il presidente ha presentato a tutti come la sua fidanzata, si presti. È in quel momento che la serata prende una direzione molto diversa da come l'ho immaginata. Le ragazze, visibilmente allegre, cominciano ad avvicinarsi al presidente, si fanno baciare i seni, lo toccano. È una specie di girotondo, le ragazze si dimenano, lo toccano di nuovo, lo stesso fanno con Emilio Fede. A un certo punto il presidente, visibilmente contento, chiede: "Siete pronte per il bunga bunga?". Le ragazze in coro urlano: "Siii". Io e Ambra non sappiamo che cosa sia questo bunga bunga, anche se dopo la statuina lo intuiamo. Sono agitata, mi sento male...".
Ambra: "Chiara chiede a Emilio Fede se può avere una camomilla perché si sente male. Siamo scioccate, Fede cerca di rassicurarci. Ci invita a rimanere tranquille, mentre Berlusconi ci invita a fare un giretto nella villa. Ci mostra una sala con delle statuette di mucche colorate, mi pare in ceramica, e nella stessa sala ci sono palloncini e cartelloni inneggianti a Berlusconi, del tipo "Viva Silvio". Poi ci porta a vedere una saletta del tipo discoteca, con al centro un palo da lap-dance. Mentre camminiamo, Berlusconi, che sta dietro di noi, ci tocca i glutei, ci palpeggia il sedere. Né io né Chiara lo abbiamo invitato a desistere, anche se ci siamo irrigidite, facendogli capire che non eravamo d'accordo con quanto stava facendo. Al piano superiore Berlusconi ci mostra una spa con piscina e palestra e ci dice che, la prossima volta, avrebbe organizzato una festa in piscina, per stare più in intimità con noi e conoscerci meglio".
Chiara: "Nella piccola discoteca con il palo al centro e i divanetti tutto intorno, e nell'angolo un dj, le ragazze iniziano a ballare in modo piuttosto volgare. Si tirano su la gonna. Mostrano il sedere. Alcune sono vestite da infermiere, come le gemelline di Napoli e la Bonasia, che tiene in mano anche un frustino. I vestitini da infermiera sono molto corti, da crocerossina, con i bordi rossi, il cappellino, i seni molto scoperti e con la biancheria intima in mostra. Anche le ragazze non travestite da infermiera tirano su i vestiti, mettono in mostra fondoschiena e seni. Ballando si avvicinano a Berlusconi, lo toccano e si fanno toccare, è il gioco che il presidente definisce bunga bunga".
Ambra: "Ricordo che anche Marysthell mostra i glutei, Emilio Fede mi dice che ha vinto una qualche gara di bellezza per il suo fondoschiena. Anche le due gemelle napoletane mostrano il seno nudo. A un certo punto Nicole Minetti si esibisce in uno spettacolo di lap-dance. Indossa uno di quei vestiti che si tolgono a strappo. Rimane completamente nuda ballando al palo, senza reggiseno e mutandine. Dopo essersi denudata, si avvicina a Berlusconi e ballando in maniera provocante avvicina il sedere al viso del presidente. Girandosi gli avvicina i seni alla bocca, il presidente le bacia i seni. Le ragazze tentano di coinvolgerci in questa danza, istigate da Fede e Berlusconi. Sento dietro di me frasi del tipo: "Ma che sono venute a fare quelle due?". Tutte le ragazze ci stanno intorno, ci toccano, ci prendono, tentano di toglierci i vestiti, ci toccano un po' dappertutto".
Chiara: "Fede e Berlusconi incitano le ragazze a coinvolgerci nel gioco, dicono: "Dai, spogliatele... dai, spogliatele... spogliatevi... ballate...". A quel punto siamo letteralmente terrorizzate. Vogliamo soltanto andarcene, ma non sappiamo come fare. È evidente a tutti il nostro disagio. Ci facciamo coraggio, andiamo da Fede e gli diciamo: "Vogliamo assolutamente andare via". Accanto al direttore c'è il presidente Berlusconi. Sente chiaramente la richiesta di Ambra. Emilio Fede risponde: "Se volete andare via, va bene. Ma non pensate di poter fare le meteorine o miss Italia"".
Ambra: "Berlusconi, seduto accanto a Fede, annuisce senza però dire una parola. Tanto che ne ricavo l'impressione che sia perfettamente d'accordo con Fede. A quel punto usciamo dalla villa insieme con Fede, che ci accompagna con la macchina guidata dal suo autista a piazzale Loreto. Fede, che si era mostrato molto seccato nei nostri confronti, quasi anticipando la nostra protesta, ci dice in macchina, alla presenza dell'autista, che avevamo fatto benissimo a comportarci così. Che avevamo superato una prova. Che non eravamo come le altre ragazze, tutte puttane. Che eravamo le "favorite" del presidente e avremmo fatto una bella carriera. Io e Chiara rimaniamo sbigottite".
Mamme e in carriera: così sono rinate le ragazze di "Gianpi" Tarantini. Dalle "cenette" con Berlusconi alle start-up all'estero. La rabbia di Patrizia D'Addario: ho pagato soltanto io, scrivono Carlo Bonini e Giuliano Foschini il 18 ottobre 2017 su "La Repubblica". Quando passò dallo studio legale di Totò Castellaneta alle fughe di stanze e alle cene eleganti di Palazzo Grazioli, Graziana Capone da Gravina di Puglia era una ragazzina appena laureata in giurisprudenza. E ora, seduta ai tavoli di un bistrot del quartiere Prati, incinta di sei mesi, guardandosi indietro, ha l'onestà di consegnare quel tempo a una verità che, a spanne, non riguarda solo lei, ma l'intero circo che si raccoglieva intorno all'allora Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. "Ho fatto quel che ho fatto per ambizione. Pura e semplice. Ho varcato consapevolmente la soglia di un mondo dove non sarei mai arrivata, considerato da dove partivo. Ma almeno non ne ho mai fatto mistero. Anche perché non avevo nulla di cui vergognarmi. Non dico che fossi una santa, ma non mi sono mai prostituita. Rifarei tutto. Assolutamente. Magari mi sceglierei meglio i miei avvocati. Continuo a sentire Silvio al telefono e mi definirei ancora una berlusconiana. E poi, a distanza di anni, qualcuno mi deve ancora spiegare cosa ci fosse di male in quelle serate con le ragazze. Ci sono uomini che per rilassarsi fanno zen o yoga. E ce ne sono altri che fanno le cenette". Quelle "cenette" sono finite con condanne in primo grado a Gianpaolo Tarantini a 7 anni e 10 mesi di reclusione per sfruttamento della prostituzione (la Capone si è costituita parte lesa). Lei, la Capone, di quella compagnia di giro dice di aver perso di vista tutti. Ma in quel "mondo" è rimasta e ha trovato a modo suo una strada. "Quando scoppiò il casino lavoravo con Paolo Bonaiuti a Palazzo Chigi. E decisi di chiudere con l'Italia. Partii per Londra, per un corso di business development managing alla London School of Economics. Dopodiché, per tre anni, mi sono messa a fare la start-up di imprese italiane a Londra". Per lo più ristoratori. E tra questi, Johnny Micalusi, il Re del Pesce, il pantagruelico oste di "Assunta Madre" che di quel tempo è stato icona, prima di finire, nel luglio scorso, agli arresti domiciliari per riciclaggio e intestazione fittizia di beni. Start up ma anche intermediazione im- mobiliare per l'acquisto di ville alle Bahamas. O l'amicizia con l'attore americano James Heisenberg di "Superman" ("Lo conobbi a Taormina e mi disse: "Vieni a Los Angeles con me". Ma mi ci vedete a Los Angeles? Io sempre di Gravina di Puglia sono"). Fino al ritorno a Roma. L'incontro con un professore universitario che insegna alla Luiss, padre del figlio che avrà, e il suo nuovo lavoro al dipartimento relazioni internazionali della fondazione "Luigi Einaudi". "Sono entrata nell'affascinante mondo dell'Accademia. Con la possibilità di interagire con professori e intellettuali di Oxford, Harvard. Epperò, ecco, penso che non sarei arrivata qui senza quelle sere a Palazzo Grazioli. Per questo rifarei tutto e non mi vergogno di niente".
Neanche Barbara Montereale si vergogna di ciò che è stato. Ma il codice del mondo e del contesto di cui era e resta figlia l'hanno convinta a non ricordare e farsi ricordare troppo. In una notte dell'estate 2009, mentre in una striminzita canottiera bianca mostrava a Repubblica, le farfalle di bigiotteria di cui il Cavaliere omaggiava le ragazze passate per le sue stanze e le sue residenze, il suo fidanzato di allora, un ragazzo del clan Parisi, trovò il modo di dimostrarle rumorosamente che tutta quella pubblicità non era gradita. Barbara è rimasta a Bari e ha un nuovo fidanzato. Accompagna tutte le mattine a scuola sua figlia. Ha ricominciato in tv, ma non dai reality. Dagli spot pubblicitari e dalla cartellonistica stradale. "Sono l'unica che non ha sfruttato la visibilità che quella vicenda ha dato alle ragazze che erano state coinvolte. Io sono ripartita davvero daccapo, anche se quel marchio resta ed è quasi impossibile da cancellare".
Anche Patrizia D'Addario è convinta di aver pagato un prezzo. "Sono la sola ad aver avuto il coraggio di raccontare cosa accadeva in quelle cene eleganti e, per questo, ne pagherò le conseguenze per il resto della mia vita ". Che ora pendola tra Bari e Roma in un lavoro che, direbbero a Bari, "è parente" a quello che lei è stata, o perlomeno per cui è stata conosciuta. Ha un sito web, patriziadaddario.net, che la vede fotografata di tre quarti, ora leopardata, ora in guepiere, mentre scorrono le immagini di lei che canta "You like torero" di Carosone. È stata madrina di un festival del sesso in Portogallo, dell'elezione di mister Puglia in provincia di Brindisi, ha fatto campagne contro la pedofilia, gira la provincia italiana per ospitate malinconicamente annunciate da titoli di scatola dalle cronache locali.
Forse hanno ragione le ragazze. Davvero sono volati solo gli stracci. E, dopo aver divorziato per necessità, gli uomini del mondo di sopra e le donne di quello di sotto sono stati restituiti senza scossoni al loro destino. Prendiamo il sistema di relazioni pugliese di Gianpaolo Tarantini. Venne messo a nudo nella sua corruzione dallo stesso Gianpi nei suoi primi interrogatori con la procura di Bari. Medici e professori delle Asl, corrotti, compravano protesi ossee che sapevano essere "fetenti". Non hanno fatto un giorno di carcere. Hanno fatto carriera. Un esempio? Il professor Vito Galante, medico ortopedico tarantino, e Michele Mazzarano, ex Ds, ora assessore regionale Pd allo Sviluppo Economico.
"Fu Galante - mette a verbale Gianpaolo Tarantini il 17 novembre del 2009 - a chiedermi di incontrare Mazzarano. Li feci incontrare nella sede del Pd di via Piccinni un paio di volte (...) Dissi a Mazzarano di intervenire presso Colasanto, direttore generale della Asl, promettendogli una tangente di un importo pari a 50mila euro, cosa che lui fece. La gara era di 600 mila. La vinsi ma poi fu sospesa per un ricorso di un'altra ditta concorrente e non ho più pagato la tangente". Aggiunge Claudio Tarantini, fratello di Gianpi: "Mazzarano assicurò un suo intervento per una soluzione dei problemi. So che ciò avvenne in quanto dopo l'intervento, Galante ottenne un incremento delle sedute operatorie e del personale paramedico". Ebbene, Galante è stato di recente nominato primario, mentre il suo processo si avvia alla prescrizione. Mazzarano - che dopo le accuse aveva annunciato il ritiro dalla candidatura alle elezioni regionali - è diventato assessore della giunta Emiliano dopo aver incassato due prescrizioni, prima ancora che il processo cominciasse: una per l'imputazione di millantato credito e l'altra per il finanziamento illecito ai partiti.
C'è un'altra chiave, forse, oltre a quella antropologica del Paese senza memoria e della giustizia scassata, per spiegare il Grande Nulla di questi otto anni. Ed è nella profezia che l'avvocato Michele Laforgia, uno dei migliori penalisti italiani, rassegnò al collegio che giudicava Sandro Frisullo, allora vice presidente della Regione, condannato per turbativa d'asta con Tarantini. E colpevole di aver goduto, anche lui, di una delle ragazze della scuderia di Gianpi. Durante la sua arringa, aprì scenograficamente le pagine di un quotidiano che dedicava esattamente lo stesso spazio alla debolezza della carne di Silvio Berlusconi e a quella di Sandro Frisullo. Era la prova che il sistema - pezzi della magistratura e degli organi inquirenti, informazione - erano pronti a far scendere su Bari una notte in cui tutti i gatti sarebbero risultati neri. Quindi, uguali. In fondo non troppo colpevoli. O comunque destinati a non essere sommersi. Come Ilaria Tatò, fisiatra e imprenditrice della sanità che, ieri sera, il tribunale di Bari, in uno dei processi per gli appalti nelle Asl pugliesi, ha condannato a 2 anni per associazione a delinquere. E questo, dopo che, appena due giorni fa, la sua azienda aveva vinto un appalto per la gestione di un servizio del Centro di accoglienza per i richiedenti asilo di Bari. Anche Gianpaolo Tarantini è stato condannato ieri sera (4 anni per associazione a delinquere e peculato). Ma i fatti sono del 2009. Siamo ancora in primo grado e 14 dei 21 capi di imputazione originari sono già caduti. Finché c'è prescrizione c'è speranza.
MERITOCRAZIA. Papi girls, tutte in carriera. Chi sta in Parlamento, chi fa l'assessore, chi il consigliere regionale, chi ha trovato lavoro a Palazzo Chigi, a Mediaset o in Rai. Un anno dopo, ecco che fine hanno fatto le preferite del sultano, scrivono Claudio Pappaianni ed Emiliano Fittipaldi il 25 luglio 2010 su "L'Espresso". Alcune sono diventate assessori e ministre della Repubblica. Altre hanno girato film e spot per la televisione. Poche fortunate sono finite sulle copertine dei settimanali della Mondadori, una ha dato la maturità da privatista e deve scegliere a quale università iscriversi, molte continuano a fare le escort. Tutte, al di là di cosa fanno e cosa diventeranno, resteranno nell'immaginario collettivo come le "Papi Girls", l'esercito di belle donne che per due stagioni ha ballato alle feste di Villa Certosa e frequentato le stanze di Palazzo Grazioli, la residenza romana del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. A un anno dagli scandali firmati Noemi Letizia e Patty D'Addario, il premier dice di aver cambiato vita. Con il divorzio da Veronica Lario è tornato single, anche se le battute sul gentil sesso continuano ad essere uno dei suoi cavalli di battaglia. Di liaison ufficiali nemmeno l'ombra. L'estate 2010 è appena iniziata, ed è probabile che ai vecchi bagordi sardi Silvio preferirà la quiete del castello di Tor Crescenza, la dimora dei Borghese immersa nel verde a cui fa sempre più spesso visita, location per matrimoni (organizzati dalla Relais le Jardin, società del genero di Gianni Letta) ben lontana da occhi indiscreti.
Ma che fine hanno fatto le ragazze che collezionavano ciondoli a forma di farfallina e si facevano tatuare sulla caviglia frasi tipo: "L'incontro che ha cambiato la mia vita: S.B."? L'elenco delle fanciulle che sono entrate in confidenza con Silvio e con le prime pagine di quotidiani importanti e periodici rosa è lungo. Partiamo da Noemi Letizia , che minorenne partecipò al capodanno 2007 a Villa Certosa e che chiama ancora oggi "Papi" il Cavaliere che presenziò al suo diciottesimo compleanno. Dopo essere passata dal chirurgo plastico, punta ancora sul cinema e sogna di sfondare nel mondo dello spettacolo. Poche occasioni, finora. Quest'anno ha seguito corsi di dizione e canto, e ha studiato italiano e matematica da privatista. Da qualche giorno è ragioniere: "L'esame di maturità? La ragazza ha sfiorato il massimo dei voti", dice il padre Elio. Noemi andrà all'università, ma intanto sta lavorando per lanciare una linea di abbigliamento e profumi, "Noemi L.". L'estate la passerà in Sardegna.
Patrizia D'Addario, invece, non fa più la escort. La donna che ha registrato la voce del premier in camera da letto e che ha dato il nome a un emendamento della legge sulle intercettazioni, ha scritto due libri sulle sue avventure ("Gradisca Presidente" è uscito a novembre ma non è mai entrato in classifica, la prossima fatica - legge bavaglio permettendo - dovrebbe uscire a dicembre). Da poco Patrizia ha ottenuto la licenza edilizia per costruire il famoso residence sui terreni di famiglia. Una pratica bloccata da 40 anni, tanto che chiese aiuto (inutilmente) al Cavaliere durante l'incontro del 4 novembre 2008.
Giampaolo Tarantini, oltre alla D'Addario, ha portato a via del Plebiscito altre ragazze e modelle che hanno guadagnato gettoni di presenza per passare una sera insieme al leader: Graziana Capone, detta l'Angiolina Jolie di Bari, da gennaio collabora con Roberto Gasparotti, l'esperto che cura l'immagine televisiva di Berlusconi. La prostituta Terry De Nicolò, famosa per essersi concessa anche all'ex assessore del Pd Sandro Frisullo, fa la ragazza immagine e di tanto in tanto appare nei salotti tv di Michele Santoro, Monica Setta e Gad Lerner. Durante l'anno si è anche dovuta difendere dalle (presunte) persecuzioni del finanziere che coordinava le inchieste sul premier, il colonnello Nicola Paglino, arrestato qualche settimana fa anche per stalking. Vanessa Di Meglio, a Palazzo Grazioli il 5 settembre 2008, è invece stata avvistata a Parigi: sembra che faccia ancora l'accompagnatrice.
Chi sta provando a trasformarsi da "Ape Regina", questo il nomignolo affibbiatole da Dagospia, in protagonista di fiction Mediaset è invece Sabina Began, la ragazza col tatuaggio che ha presentato Tarantini al Cavaliere: ancora molto vicina a Silvio, ha strappato una particina ne "Il falco e la colomba" (in conferenza stampa è scoppiata a piangere lamentandosi dei tagli in montaggio sul suo personaggio, praticamente muto) e un'altra in un horror Usa in fase di pre-produzione: si intitolerà "The reapers", regia di tal Sargon Yoseph. Niente di eccezionale, ma sempre meglio di Barbara Montereale, la girl amica di Emilio Fede che scattò le foto nei bagni di Palazzo Grazioli: nel suo carniere ha solo uno spot per una catena di negozi di gioielli, la "Giallo Oro" di Bari in compagnia di Corrado Tedeschi e Gigi di Gigi e Andrea.
Berlusconi, si sa, ama la città del Vesuvio e adora le sue abitanti. A parte Noemi da Casoria, le Papi Girls che parlano con accento del Golfo non si contano. Il Cavaliere è generoso, e nonostante i chiacchiericci e le malelingue, un anno dopo sembra averle piazzate tutte, o quasi. La stragrande maggioranza si è buttata in politica. Francesca Pascale, fondatrice del comitato "Silvio ci manchi" ed ex velina di Telecafone, nel novembre 2006 saliva sull'aereo privato di Silvio, destinazione Villa Certosa. Insieme a lei le avvenenti Emanuela Romano e Virna Bello, oltre alle gemelline De Vivo. Da allora la Pascale ha lavorato nell'ufficio stampa di Forza Italia, poi con il sottosegretario Francesco Giro. Alle ultime elezioni è stata eletta consigliere provinciale con 7500 voti (tre anni prima alle comunali ne aveva presi 83). L'agognata poltrona da assessore, però, l'ha guadagnata l'ex meteorina Giovanna Del Giudice, già ragazza immagine del Billionaire e frequentatrice del famoso corso di formazione targato Pdl nel quale si allevavano le ragazze da mandare a Bruxelles. Il presidente Luigi Cesaro, nonostante Giovanna sia arrivata penultima alle regionali, gli ha consegnato le deleghe alle Pari opportunità e alle politiche giovanili. Di recente Giovanna ha litigato in radio con Luca Telese e Giuseppe Cruciani che le chiedevano quali fossero le sue esperienze: "Non fate battute maliziose solo perché una donna ha avuto un incarico politico", ha detto salutando i conduttori.
Emanuela Romano, dopo infinite peripezie culminate nel gesto del padre che si è dato fuoco davanti a Palazzo Grazioli è assessore al Lavoro a Castellammare. Virna Bello, l'ultima del terzetto del comitato, ex pr di Torre del Greco chiamata dagli amici "la Braciulona", è diventata assessore all'Istruzione nella sua città natale (ma la nomina le è stata revocata qualche mese fa). Le altre vip care al presidente, le sorelle Valanzano, stanno seguendo carriere diverse: Benedetta recita in "Un posto al sole" e ha ballato sotto le stelle con Milly Carlucci; l'avvocato Maria Elena, nonostante la promessa di varie candidature, è ancora a spasso. Ora potrebbe entrare a far parte dello staff del neogovernatore Stefano Caldoro.
Nunzia De Girolamo, detta "la Carfagna del Sannio", brilla ovviamente su tutte: deputata dal 2008, era presente all'incontro ristretto di Palazzo Chigi che ha portato alle dimissioni di Nicola Cosentino. Si vocifera che possa essere proprio lei a sostituire Nick o'Americano alla testa del Pdl Campano. In ultimo, Elena Russo, una delle cinque "raccomandate" nelle telefonate Berlusconi-Saccà: in un anno ha inanellato uno spot per Napoli finanziato dal governo e due fiction Mediaset. Dopo molto tempo passato in Sicilia per accompagnare il fratello che lavora come elettricista su un set. Nel futuro un viaggio in Lituania per dieci pose per un film tv, che dovrebbe andare su Canale 5 il prossimo inverno.
A parte l'inarrivabile Mara Carfagna che brilla ormai di luce propria, sono tante le ragazze di Silvio finite sugli scranni di Montecitorio e negli uffici di Strasburgo. Licia Ronzulli, insieme a un gruppetto di avvenenti pulzelle, fu fotografata a Ferragosto 2008 sul motoscafo di Berlusconi, immagini che "L'espresso" pubblicò in esclusiva lo scorso luglio. Lei smentì di essere un habitué di Villa Certosa, ma fece un passo indietro quando la Montereale la indicò come la responsabile "della logistica dei viaggi delle ragazze: è lei che decide chi arriva e chi parte. E smista nelle varie stanze". Ex caposala dell'ospedale Galeazzi di Milano, con quasi 40mila preferenze è stata eletta europarlamentare. Di recente ha difeso la Nutella dagli attacchi dei tecnocrati ("Nessuno potrà impedirci di fare colazione con pane e Nutella"), e all'ultimo meeting di Confindustria a Parma si è seduta a tavola tra il premier ed Emma Marcegaglia.
Anche Barbara Matera e Laura Comi, che hanno seguito il famoso corso di formazione, ce l'hanno fatta: la prima, ex letteronza della Gialappa's e annunciatrice Rai, è stata la più votata - dopo il suo mentore - nella circoscrizione Sud e sta battendo a Strasburgo tutti i record di attivismo. La seconda ha presentato un'interrogazione sui giocattoli (prima di andare a Strasburgo lavorava come brand manager per la Giochi Preziosi) e promosso, insieme all'amica Gelmini e ai ministri Frattini e Bondi, la fondazione "Liberamente".
A colpi di tacco Elvira Savino, invece, è deputata. Celebre per essersi presentata il primo giorno a Montecitorio con un tacco 14 marchiato Gucci, è lei a far conoscere Tarantini alla Began (sua compagna di appartamento a Roma). Si è sposata un anno e mezzo fa con il napoletano Ivan Campili - testimone di nozze Berlusconi in persona - ed è finita in una brutta inchiesta della magistratura pugliese su mafia e appalti: accusata di aver aiutato una banda di malviventi a riciclare denaro sporco (nell'ordinanza ci sono anche nomi di spicco del clan Parisi), è di fatto scomparsa dalle cronache mondane e politiche dall'inizio del 2010. Ufficialmente, ha scritto in una nota, per problemi di salute del figlio piccolo.
Chi è sempre sulla breccia è invece Gabriella Giammanco, giornalista del Tg4 che Berlusconi volle inserire a sorpresa nelle liste siciliane per le politiche del 2008: nipote del boss di Cosa Nostra Michelangelo Alfano, condannato in via definitiva per mafia e morto suicida nel 2005, la reporter nata a Bagheria oggi si batte soprattutto contro la caccia e per la difesa degli animali ("grazie a me sono state introdotte agevolazioni fiscali a favore dei circhi senza animali") e fa coppia fissa nella Dolce Vita romana con il "direttorissimo" del Tg1 Augusto Minzolini.
Altre Papi girls si sono invece dovute accontentare. Al corso per volare a Strasburgo c'erano anche Angela Sozio, Camilla Ferranti e Eleonora Gaggioli. La rossa del Grande Fratello, fotografata da "Oggi" mano nella mano con il premier mentre passeggiavano nei vialetti della Certosa, non è mai stata candidata, nonostante le voci insistenti che venivano da via dell'Umiltà, sede del Pdl dove Frattini e Brunetta tenevano le lezioni. Da qualche tempo ha lasciato il posto come contabile della società di Antonio Flora (imprenditore del ramo sanità) e lavora, anche lei, per Mediaset. L'ultima fatica: giurato del reality "La pupa e il secchione", insieme ai giudici-colleghi Platinette, Claudio Sabelli Fioretti, Vittorio Sgarbi ed Alba Parietti.
La compagna di banco Camilla Ferranti, ballerina e figlia di un medico del premier, vanta nel suo lungo curriculum una parte da tronista di "Uomini e donne" e una raccomandazione di Silvio Berlusconi ad Agostino Saccà intercettata dalla procura di Napoli. È tra quelle che, nell'ultimo periodo, ha lavorato di più. In questi giorni è nei cinema protagonista di "Alice", prodotto dalla Videodrome e distribuito dalla Medusa, mentre nel 2011 tornerà su Mediaset: sarà attrice in "Angeli e Diamanti", una sorta di Charlie's Angels all'italiana.
Nemmeno la Gaggioli, anche lei finita nell'inchiesta - poi archiviata - su Saccà, può lamentarsi: dopo le lezioni non è stata candidata ("allieva sveglia e informata" raccontava "Il Foglio"), ma intanto ha recitato su Canale 5 nel tv-movie "Fratelli Benvenuti". Si prepara a sbancare il botteghino con il cinepanettone di Natale, senza dimenticare che nel 2008 ha avuto l'onore di presentare il concerto della polizia di Stato.
Pure le altre due "raccomandate" non sono restate con le mani in mano: Antonella Troise, che il Cavaliere definiva affettuosamente una "pazza pericolosa", ha girato "Negli occhi dell'assassino" (Canale 5 in prima serata) e un cammeo in un'altra serie di quattro puntate, mentre Evelina Manna, dopo aver comprato una casa a via Giulia da 950mila euro, ha girato come protagonista il mistery "La donna velata", in arrivo sui piccoli schermi. Ovviamente Mediaset.
Le Papi Girls sono tante, e sono ovunque. Non tutte hanno avuto lo stesso destino. Se le gemelle De Vivo sembrano in sonno e l'aristocratica Virginia Sanjust da tempo si è ritirata a vita privata, Susanna Petrone (con la Renzulli fotografata sul Magnum 70 di Berlusconi nell'estate del 2008) non ha ottenuto la candidatura alle europee ma è la conduttrice sexy di Guida al Campionato (Mediaset) e regina del gossip milanese. Siria De Fazio, conosciuta come la "lesbica" del GF9, fa ancora show come mangiafuoco, ma non ha ancora sfondato nel jet-set dello spettacolo. Nessuna notizia recente della vincitrice di "Un-Due-Tre Stalla", Imma Di Ninni, due volte ospite a Villa Certosa, né delle gemelline e meteorine Ferrera, mentre la collega del Meteo 4 Francesca Lodooggi è nota soprattutto alle riviste rosa e al pm Frank Di Maio, che la interrogò per l'inchiesta su vip e cocaina. Carolina Marconi (finita secondo i racconti di Tarantini due volte a Palazzo Grazioli) si è sposata pochi mesi fa con l'imprenditore Salvatore De Lorenzis, il re delle slot-machine del Salento, mentre l'altra attrice venezuelana Aida Yespica (che Berlusconi presentò addirittura al presidente Chavez) resta una delle show girl più note d'Italia. Anche Barbara Guerra, ex Fattoria, è ancora un personaggio in cerca d'autore: l'ultima apparizione è nella giuria di Sanremo per l'elezione del più bello d'Italia 2010, con lei Lele Mora, Alfonso Signorini e Siria De Fazio.
Più fortunata Nicole Minetti, l'igienista dentale del Cavaliere: buttati spazzolini e filo interdentale, è stata eletta consigliere per la Regione Lombardia alle ultime elezioni. Ora passa le giornate seduta vicino a Renzo "la trota" Bossi. Insomma, quasi tutte le Papi Girls se la passano bene. Brave e capaci? "Per fare questo mestiere" ha detto al mensile di Mondadori "First" la Manna "non serve lo sculettare delle vallette tivù. Il giro dei soldi è tale che se non vali nessuno ti prende, non serve essere raccomandati". Se lo dice lei...
Tutte quelle che «Io ho amato Silvio». Tante, forse troppe, le donne attribuite a Silvio Berlusconi. Ma chi sono quelle che hanno confessato di avere avuto una storia con il Cav? Da Sabina Began a Nicole Minetti, scrive Vanity Faire il 25 luglio 2010. Olgettine, showgirl, imprenditrici e donne in carriera. In questi anni sono state tante le dame attribuite a Silvio Berlusconi. Tra quelle comparse in atti di inchieste giudiziarie, in fotografie scattate nelle sue residenze e secondo testimonianze dirette, il totale (fino a oggi) sarebbe di 130. Tra queste, solo alcune hanno raccontato di avere occupato un posto importante nel cuoredell’ex premier. Ma quali sono le donne che hanno ammesso, confessato e svelato di avere avuto una liaison con il Cavaliere?
NICOLE MINETTI - Nicole, classe 1985, ex igienista dentale ed ex consigliere regionale della Lombardia, ha dichiarato il suo “amore” nell'aula del tribunale di Milano in cui si tiene il processo Ruby bis, nel quale è imputata. «Amavo Berlusconi – ha detto - il mio era un sentimento vero». Secondo Nicole, l’incontro con l’ex premier avvenne all’interno dell’ospedale San Raffaele. «Quando Silvio Berlusconi arrivò in clinica iniziò da parte sua un discreto corteggiamento, e non nego di essere rimasta affascinata da lui. Nacque così un rapporto di amicizia e poi una relazione sentimentale che si concluse alla fine di quell'anno». Per la Minetti «era un rapporto stabile, ci confrontavamo sul mio futuro, come due normali fidanzati».
FRANCESCA PASCALE - E' lei la fidanzata ufficiale. “Franceschina”, 27enne napoletana, segue il Cavaliere da molto prima di far breccia nel suo cuore. Da quando ha iniziato la sua carriera televisiva come showgirl per Telecafone. Dopo la tv, la politica: da fondatrice del comitato “Silvio ci Manchi”, a consigliera Provinciale del Pdl a Napoli. Il suo obiettivo è sempre stato uno: diventare la nuova first lady, e pazienza se per raggiungerlo la giovane ha dovuto affrontare ore di anticamera, corsi di dizione, e una dura competizione con una folta schiera di olgettine. Attualmente risiede a Arcore nei fine settimana e non solo. È con Berlusconi anche in Sardegna. E, si dice, che lo segua ovunque anche negli impegni di lavoro. Silenziosamente, sempre un passo indietro.
SABINA BEGAN - L’ape regina. La donna che ha detto «Sono io il bunga bunga». La vita della Began è cambiata radicalmente nel 2005. Era il 29 agosto e l'attrice fu invitata in Sardegna. Sabina incontrò, così, il Cavaliere nel giardino di Villa Certosa. «Chiesi al Presidente: “Se un giorno dovessi avere un fidanzato, lei mi concederebbe una gita romantica qui, con lui?”, ma Berlusconi mi guardò fisso negli occhi, e disse: “No, a meno che non ti fidanzi con me. Ma, per farlo, mi devi prendere la mano”. Da quel momento non mi ha più lasciata», raccontava la Began a Vanity Fair nel 2011. «Mi sussurrava all’orecchio, era come se mi ipnotizzasse, Dopo un paio d’ore ero cotta. Ero innamorata. È l’unico uomo che mi abbia fatto sentire donna». A ricordare l’importante legame che avrebbe avuto con il Cavaliere, ci sarebbe la scritta che Sabina si è fatta tatuare sul piede destro: «L'incontro che mi ha cambiato la vita. S.B.».
EVELINA MANNA - L'attrice e modella ha dichiato il suo amore per il Cavaliere nel 2012 «Ci siamo conosciuti a settembre del 2005. Lui aveva letto una mia intervista, gli era piaciuta e mi ha chiamato». Evelina, però, non ha mai voluto essere segnalata tra le amiche del premier «Io a essere associata a questa fauna volgare non ci sto, la nostra era una relazione d’amore durata anni e puntellata da episodi di intima vicinanza, e da momenti di tensione». Come qualche scenata di gelosia: «A volte mi svegliavo e lo trovavo in bagno alle 5 del mattino a parlottare al telefono a bassa voce con qualche amica. E lui negava, come un adolescente».
DARINA PAVLOVA - L’imprenditrice bulgara. I due, secondo il racconto della Pavlova, si conobbero a Washington nel 2004. Di lì a poco sarebbe scoccata la scintilla. «Ma quale scintilla? – ha precisato lei – Fu fuoco”. L’imprenditrice ha sempre preso le distanze dagli altri presunti flirt del cavaliere: «Io non sono come tante donne che parlano di love story con Silvio. Il mio profilo è ben diverso, ma l’amore per me è la cosa più importante e voglio proteggerlo». Oggi l’ereditiera bulgara dice di avere con B. un rapporto «basato sulla stima, l’affetto e la fiducia».
KATARINA KNEZEVIC - L'ex Miss Montenegro. La prima volta che abbiamo sentito parlare di Katarina è stato durante il processo per il Bunga bunga, quando Imane Fadil dichiarò che era Katarina la vera fidanzata di Silvio. Era il settembre 2011 e, qualche mese, dopo la modella decise di uscire allo scoperto e raccontare la sua storia con il capo del governo. «Ci siamo conosciuti nel 2009. Era l'inizio di maggio, io avevo 18 anni e Silvio si era appena separato dalla moglie». Dopo quell’incontro nacque l'amore. «Dove c'è lui ci sono io - raccontava anni fa la Knezevic - lo seguo ovunque. La nostra relazione non è un mistero». Katarina è tornata a parlare del Cav dopo l’ufficializzazione del rapporto tra lui e la Pascale. «Francesca Pascale ha vinto solo una battaglia, ma alla fine Silvio Berlusconi sposerà me. Sono ancora innamorata di Berlusconi come e più del primo giorno. Per un uomo così io ammazzerei e sono anche pronta a morire per lui».
Se questo non è amore...Grazie a Berlusconi ho fatto carriera in Italia: ma non mi ha mai toccata con un dito, scrive Maria Cristina Giongo su Libero Quotidiano il 4 febbraio 2011. Ho intervistato in Olanda una fotomodella e presentatrice che ha conosciuto molto bene Silvio Berlusconi, Monique Sluyter. Il mio servizio è stato pubblicato dal quotidiano Libero. Non troverete alcun mio commento perchè lo scopo di questa intervista non è quello di difendere Berlusconi o di condannarlo. Secondo me un giornalista che sia un vero professionista non deve esprimere le SUE idee personali (sicuramente non importanti al fine dell’articolo…); deve solo raccontare i FATTI. La persona che ho intervistato è stata sincera nella sua versione e nel racconto di quanto è accaduto in passato a casa del premier. Pertanto trovo giusto di pubblicare quanto mi ha detto. La scelta del quotidiano dipende dal fatto che Libero è stato il primo che ha accettato di renderla pubblica. L’avrei data anche ad un giornale di sinistra, se avessero voluto pubblicarla. Probabilmente tempo fa, quando “Il cavaliere” non aveva ancora conosciuto il potere dei soldi e della fama (ed era sposato), si comportava in un altro modo…. Qui sotto potete leggere la versione integrale della mia intervista; con due fotografie che ci sono state gentilmente concesse da Monique.
Prima pagina del quotidiano Libero del 4 febbraio 2011. “Berlusconi mi ha sempre rispettata; mi ha aiutata a far carriera ma si è sempre comportato come un vero signore nei miei confronti”. Chi parla è la fotomodella, presentatrice olandese Monique Sluyter, 43 anni, una bellissima donna, in un’intervista per Libero.
Monique, quando ha conosciuto Silvio Berlusconi?
“Quando avevo 18 anni, negli anni 80. Lui era un talent scouts; mi fece un provino. Poi mi disse che assomigliavo molto a Marilyn Monroe, promettendomi che nel giro di tre mesi mi avrebbe trovato un lavoro. E così fu. Venni assunta per il programma sexy Colpo grosso; a cui seguì Tutti i frutti, dove ero l’assistente del conduttore Umberto Smaila. Vivevo in un bell’appartamento a Milano con altre ragazze olandesi. Tuttavia posso assicurarle che non mi fece mai nessuna proposta sconcia: nè a me nè alle mie compagne.”
Eppure in un’intervista uscita oggi sul settimanale olandese Privè, a firma di Barbara Plugge, ha dichiarato che era diventata amica di Berlusconi e che andava spesso nella sua villa di Arcore.
“Infatti. Ma io sono sempre stata una donna seria e ad Arcore ci andavo proprio e solo come amica; lui cucinava gli spaghetti. Mangiavamo e basta. Ribadisco che con me è sempre stato un gentleman. Mai una parola fuori posto, uno sguardo che potesse farmi supporre che avesse altre intenzioni. Non capisco perchè tutta questa pubblicità negativa nei suoi confronti. Qui in Olanda lo descrivono come un uomo malato di sesso. Non posso crederci, dopo averlo conosciuto! Ovviamente parlo solo per quanto riguarda la mia esperienza!”
Però… le altre ragazze, compresa la famosa Ruby, hanno raccontato ben altro! Secondo lei perchè?
“Perchè sono ragazze poco per bene. Sicuramente si sono avvicinate a lui per il fatto che è famoso e ha tanti soldi; per cui hanno cercato di sfruttarlo per guadagnare più denaro possibile.”
Pensa a dei ricatti?
“Probabilmente sì. Sono ragazze senza scrupoli. Mi sembra un po’ la storia di Michael Jackson: anche lui è stato accusato di tutte le peggiori infamie, persino di pedofilia. Ma alla fine non si sono trovate alcune prove concrete. Erano i suoi nemici a volerlo distruggere. Berlusconi è un tipico uomo italiano; un uomo sano. Se gli piacciono le donne non è una colpa, ma, ripeto, io con lui ho solo parlato e riso tanto; perchè è molto simpatico e ha un grande senso dell’umorismo. Arcore è un posto bellissimo; ricordo la piscina e una grande tenuta che si doveva percorrere in auto, tanto era vasta! Aveva anche parecchi animali e dei lama.”
Nella residenza di Arcore ha incontrato anche sua moglie Veronica Lario?
“No. Lei non si faceva mai vedere! Ho conosciuto solo un figlio e due figlie. Tutti molto gentili. Lui mi ha creata; e di questo gli sono molto riconoscente. Il programma Tutti i frutti è stato trasmesso anche in Germania, da RTL e in seguito in ben 35 Paesi, Giappone compreso; per cui sono diventata una vera star! Ho posato 4 volte per Playboy e ho girato un film con Tarantino. In Italia ho lavorato anche per la Rai e soprattutto per Mediaset; l’ultimo programma a cui ho partecipato è stato Showgirl, dove c’era, come ospite, Anita Ekberg.
In Olanda ha condotto un programma (per l’emittente Veronica) decisamente “hot”, che all’epoca ebbe molto successo, intitolato “Erotica”…
“Sì, ma non pensi che sono una donna poco seria, glielo ripeto. Ho anche partecipato al Grande Fratello (olandese) ed i soldi che ho guadagnato sono andati alla Croce Rossa. Vivo da 14 anni con il mio compagno. Non sono una persona che si vende per far carriera o avvicina uomini potenti per sfruttarli a questo scopo. A proposito, ieri sono stata contattata dal regista Celeste Laudisio, che fu anche regista di Colpo grosso per un’eventuale mia partecipazione all’Isola dei famosi…
Secondo me il cast dell’Isola dei famosi è completo…
“Sì, ma potrei fare la riserva. Infatti una ragazza che doveva partecipare è stata buttata fuori perchè è proprio una di quelle che hanno sparlato di Berlusconi coprendolo di fango.”
I maligni si staranno chiedendo perchè Silvio Berlusconi si è dato tanto da fare per aiutarla nella sua carriera…
“Appunto; i maligni! Le ho già detto che sono stata da lui, anche a cena. Non lo nego: ma non mi ha mai chiesto di fare sesso. Nè a me nè alle mie amiche. Lui non è un tipo così…Ne sono sicura. D’altra parte non vivo a casa sua quindi non so che cosa succede adesso o che cosa è successo qualche anno fa. Mi ha aiutata per generosità. Punto e basta.”
Allora chiudiamo con un messaggio; che cosa vorrebbe dirgli in questo momento?
“Caro Silvio, io credo che tu sia un uomo positivo: allora rifiuta la negatività che ti sta distruggendo in questo momento. E ricordati che spesso si ripercuote proprio contro chi l’ha creata. Rimani forte, per condurre bene il tuo Paese; nella vita privata resta una persona buona, come lo eri quando ti ho conosciuto.”
Intervista di Maria Cristina Giongo Libero: 4 febbraio 2011 Proibita la riproduzione, anche parziale, dell’articolo e delle foto senza citare l’autore e la fonte di provenienza.
Berlusconi: Tutte le donne che hanno avuto un posto nel suo cuore, scrive il 15 giugno 2016 “Io Donna”. «Il suo cuore ha lavorato il triplo del normale», ha detto il medico. Ha battuto per la politica, per le aziende, certo. Ma non solo. Ci sono state le “Olgettine” che gli davano del pezzente perché seimila euro a sera erano pochi, le ragazze che s'accapigliavano per il trono di fidanzata ufficiale, c'è stata Veronica Lario che lasciandolo gli ha chiesto 540 milioni di euro... «Il cuore di Silvio Berlusconi ha lavorato il triplo di quello di una persona normale»: l’ha detto il suo medico personale Alberto Zangrillo, e nel caso dell’ex presidente del Consiglio ora reduce da un intervento alla valvola aortica è impossibile non pensare anche ad altre questioni di cuore.
Un cuore a 130 piazze. Quante sono le donne che hanno affaticato il cuore di Berlusconi? Nel 2013, il quotidiano Libero era arrivato a contare 130 ragazze solo fra quelle coinvolte vario titolo negli scandali delle Olgettine, della minorenne Ruby, di Patrizia D’Addario, di Noemi Letizia. Formidabili, quegli anni. Almeno per uno che ama vantarsi d’essere un grande amatore. Nomi, facce, foto di giovani corpi spuntavano da ogni pagina. I titoli s’ispiravano ai cataloghi che s’ingrossavano di ora in ora, non si faceva in tempo a sfogliare quello titolato “Cavaliere, dica 33!”, che arrivava la release “Le 44 gatte sul letto che scotta”.
Cuore machista. Tutti a fantasticare sul lettore di Putin, ma ci sono state donne, cribbio, che tuttavia resistevano al suo potere di seduzione. Ed erano affaticamenti di cuore d’altro genere. Tipo quando, nel 2005, lui cercava di ottenere l’Agenzia alimentare a Parma e dichiarò d’aver per questo corteggiato la presidentessa Tarja Halonen: «Con lei ho sfoderato tutte le mie arti di playboy», disse. Il che gli costò una protesta diplomatica ufficiale del governo di Helsinky. O come quando disse a Rosy Bindi che era più bella che intelligente, beccandosi un “Presidente, io sono una donna che non è a sua disposizione”. Anche Daniela Santanché, nel 2008, non gliele aveva mandate a dire: «Lui donne le vuole solo in orizzontale. È ossessionato da me, ma io non gliela do».
Cuore caliente. Sulle sue amanti presunte la letteratura è sterminata. In principio, vi fu Francesca Dellera, che ha sempre smentito. Le voci di una presunta relazione clandestina con Silvio Berlusconi giravano che erano un turbinio. Arrivarono anche alle orecchie di Veronica Lario, la seconda moglie del Cavaliere. Poi vi fu l’incauta frase rivolta a una giovane Mara Carfagna, la notte dei Telegatti, e a favore di giornalisti: «Se non fossi già sposato la sposerei». Veronica che gli chiede “pubbliche scuse”, dovette suonare peggio che una sberla. E ancora non doveva arrivare la più pesante, di cuore e di denari, ovvero la richiesta in sede di divorzio di 540 milioni di euro. C’erano state, in mezzo ma non solo, le intercettazioni piccantissime che avevano per oggetto mirabolanti imprese erotiche delle ministre Mara Carfagna e Maria Stella Gelmini. Roba di cui molto si favoleggiò e nulla di dimostrabilmente autentico si pubblicò. Tutto falso, tutto archiviato, con l’ordine (della procura di Napoli) di distruggere gli atti. Era la prima volta che si parlava di Cialis, di pompette. Un colpo, per il macho che c’è in lui.
Cuore amaro. Devono avergli fatto il cuore amaro le inchieste sulle Olgettine. Per una “cena elegante” ad Arcore dispensava buste da seimila euro, collanine, farfalline e si faceva lustro della generosità. Ha dovuto balzar su a giurare di non aver mai pagato una donna. E il suo avvocato Niccolò Ghedini ha dovuto chiarire, che se qualcuna era un’escort, Berlusconi ne era stato “l’utilizzatore finale”. Il dispiacere più grande deve averglielo dato Nicole Minetti. L’igienista mentale da lui incoronata Consigliere della Regione Lombardia, che in una telefonta gli diede del “culo flaccido”. Sono colpi al cuore, se sei convinto d’aver fatto solo bene a queste ragazze che hanno bisogno di tutto. Di riempire il frigorifero, di essere piazzate in una listino bloccato. Macché. «È un tirchio e un pezzente», diceva Iris Berardi a Imma De Vivo. Le due modelle s’erano fermate per la notte aspettandosi “qualcosina in più”, ma niente. Erano troppe, si dicevano fra loro, congetturavano che lui lo facesse apposta per far fuori quelle che si lamentavano. E il risultato è che ad affaticargli il cuore sopra ogni altra è stata una donna che con lui non è mai andata a cena: Ilda Boccassini, la Pm che l’ha indagato sulle ragazze.
Cuore conteso. Dovendosi poi sistemare, e rifarsi un’immagine, s’è vista la corsa di quelle che s’affollavano ad accollarsi il titolo di fidanzate. C’era Evelina Mannache giurato che era lei, perché “dormivamo abbracciati, a seggiolina e lui s’addormentava succhiando una mentina, per avere l’alito profumato”. C’era la miss del Montenegro Katarina Knezevic che sbandierava d’essere lei la fidanzata e non Francesca Pascale e che, un giorno, ad Arcore, così si dice, per attirare l’attenzione del padrone di casa, si lanciò giù per lo scalone. E c’era Sabina Began, l’ape regina. Diceva che il loro era stato amore vero e poi gli si rivoltò contro, disse che votava comunista. E così la Bulgara Michelle Bonev, che accusò la Pascale di essere lesbica.
Cuore spezzato. Anche Berlusconi ha preso i suoi due di picche. E per uno come lui devono essere colpi al cuore. Negli anni ’70, aveva scommesso dieci milioni di lire con Mike Bongiorno che si sarebbe portato a letto Sabina Ciuffini, ma lei si negò. In tempi più recenti, lo ha fatto spasimare Manuela Arcuri («prima vedere cammello…»). Poi non la volle più lui. La vide in Tv e la trovò volgare.
Cuore del potere (e cuore di figlia). E ora qualche angoscia gliela dà il suo “cerchio magico”: le donne che in questi anni di stanca hanno preso in consegna “il corpo del capo”. Quelle che fanno filtro al resto del partito, lo gestiscono, lo proteggono: la fidanzata Francesca Pascale, la portavoce Deborah Bergamini e il commissario straordinario di Forza Italia Maria Rosaria Rossi. Sono osteggiate, criticate, poco amate dalla vecchia guardia che si sente tagliata fuori. La primogenita di Berlusconi, Marina, pare che in ospedale se la sia presa con la Rossi. Stando al Fatto Quotidiano le avrebbe detto: «Stava morendo per colpa vostra, l’avete portato in giro in campagna elettorale e l’avete fatto affaticare troppo». Alla fine, il cuore di Berlusconi ha retto a tutto. Lui, con tutti i suoi acciacchi, ancora scommette di campare fino a 120 anni. Cuor di leone.
Silvio Berlusconi e le sue tante e bellissime conquiste, scrive "Super Eva". Tutte le fidanzate di Berlusconi non potrebbero essere contate sulle dita di entrambe le mani, ma nonostante questo il cavaliere non finisce mai di stupirci. Sono ormai ben oltre 130 le donne che hanno fatto la breccia nel cuore di Silvio, e che poi questo cuore lo hanno dovuto abbandonare. Iniziando dalla storia travagliata con Ruby, passando per Nicole Minetti e Manuela Arcuri, e finendo con le ultime voci su un possibile amore con Lavinia Palombini, la lista delle conquiste di Silvio Berlusconi è ricca non solo di showgirl italiane, tra i quali star italiane del cinema e della moda, ma anche di molti nomi stranieri. Nell’elencare tutte le storie d’amore dell’ex premier italiano, ci si potrebbe davvero impiegare un’eternità. Motivo per cui ne ricorderemo solo alcune, quelle più famose e popolari, ormai diventate leggenda nell’immaginario popolare. L’ultima love story del ricco politico italiano con la giovanissima Francesca Pascali sembra ormai agli sgoccioli, e fra tante possibili new entry spicca quella dell’ancora più giovane (e oltremodo bella!) Lavinia Palombini. Una che rimembra le ormai “vecchie” storie del cavaliere, fra cui spiccano quelle di Ruby (scoppiata a San Valentino) e Noemi Letizia (under 18, ma niente sesso), famose e oltremodo popolari specie per il successo mediatico che ebbero. Come non citare poi la famosa storia d’amore che il cavaliere ebbe con Veronica Lario… una seconda moglie con la quale il sentimento durò tanto, ma che fu comunque destinato a spegnersi. Al tempo vi erano poi voci incontrollate che parlavano dell’amore tra il cavaliere e Sara Tommasi, ora impegnata in vari film. Tra le molte poi c’è il nome di Nicole Minetti, con la quale Silvio Berlusconi sembra aver passato un bel periodo del proprio tempo e che ci ha messo un po’ per riprendersi dopo la fine della love story, per non citare una certa Iris Berardi, o Sabina Began (la quale in onore del cavaliere si è anche fatta un tatuaggio sul piede). Non sono da dimenticare poi le “avventure” dell’ex premier con Alessandra Sorcinelli e Barbara Guerra, le quali hanno dapprima finto un litigio, e quindi sembrano anche aver incassato un bel po’ di soldi. E parlando di showgirl, non si può tralasciare la breve storia che il cavaliere sembra aver avuto con l’argentina Belen Rodriguez. Silvio Berlusconi, oltre a essere il fondatore di Forza Italia è insomma un vero latin lover, e solo il tempo ci farà conoscere il nome della sua prossima preda.
Rassegna stampa dell'8 giugno 2013 su Dagospia.
1. DALL'APE REGINA ALLA PASCALE LE INNAMORATE DEL CAVALIERE - CHI GLI È VICINO LO SA: SE LUI S'INVAGHISCE, LORO DETTANO LEGGE. Di Maria Corbi per "La Stampa". Ricordate la copertina dedicata da Newsweek a Berlusconi, con un paio di affusolate gambe femminili? «Berlusconi's girl problem»... Il presidente innamorato delle donne. Serialmente, ma non importa. Oltre che a Ruby il soprannome «rubacuori» calza anche a Silvio. Chi pensa che le olgettine, le parlamentarine, le ragazze di Arcore e di palazzo Grazioli, siano delle arrampicatrici in cerca di schermi tv e assegni, se ne faccia una ragione. Lo avrebbero adorato anche se al posto del doppio petto blu di Caraceni avesse avuto una tuta blu da benzinaio? Dettagli. Molte di loro parlano d'amore, e non è solo Nicole Minetti a farlo nell'aula del Tribunale. O Francesca Pascale, first girl in carica, colei che oggi è temuta nelle stanze del potere Berlusconiano. Chi deve subire l'effetto zarina, si arrende: «Quando il presidente si innamora...». E il fatto è che è sempre innamorato. Difficile tenere i conti dopo (e durante) Veronica, la seconda moglie che oggi si gode i 100mila euro al giorno garantiti dalla separazione legale. Insieme alla Minetti, una folla. Ci sono state escort, ospiti disponibili a feste mascherate, amiche, mantenute a vario titolo. E poi le «innamorate». Prima fra tutte l'ape regina, Sabina Began, sospettata di essere la grande organizzatrice dei party a palazzo Grazioli. Il tatuaggio sulla caviglia parla chiaro: «L'incontro che mi ha cambiato la vita: SB». «Io lo amo, adoro Berlusconi e voglio che sia felice», raccontava. Difficile non adorare chi ti ha sistemato per la vita, come spiegavano Tarantini e Lavitola in una telefonata intercettata dalla procura di Napoli: «Se vedi la sua casa dici non è possibile perché sembra la casa di Onassis». Il Cavaliere innamorato. Anche di Roberta Bonasia, di Nichelino, miss Torino anni fa. Passione svelata da una telefonata intercettata tra Emilio Fede e Lele Mora: «Roberta Bonasia ha preso possesso di tutto. Pretende tutto. Lui è preso...». E anche papà Bonasia era favorevole: «Magari fosse vero». Perché anche i padri non sono più quelli di una volta. Ma quella con Roberta è una storia interrotta e dall'entourage del presidente spiegano: «Lui non era pronto». I requisiti per piacere a Berlusconi sono in fondo sempre gli stessi: corporatura esile e forme al posto giusto, carattere vivace e aperto alle esperienze. Le candidate giudicate idonee al ruolo sono state tante, e molte sono rimaste sul libro paga del presidente. E non pensate male, era necessario ricompensare il fatto che con lo scandalo bunga bunga avessero perso onore e lavori. Nel librone delle favorite - saltando il capitolo under 18 Ruby e Noemi Letizia (niente sesso per carità) - troviamo Patrizia D'Addario, Barbara Montereale, Maristel Garcia Polanco, Barbara Faggioli, le gemelle Eleonora e Imma De Vivo. Solo per citarne alcune. E adesso lei, Francesca, che in pochissimi anni da ballerina di «Telecafone» è diventata prima presidente del comitato «Silvio ci manchi», poi consigliera provinciale, fino all'endorsement sentimentale di Silvio: «Sì, è ufficiale, sono fidanzato. È una ragazza bella fuori e dentro, dai solidi principi morali, dalla grande allegria». E così Francesca è stata presentata in famiglia, fa jogging insieme a Daniela Santanchè, va a fare shopping scortata dai body guard, con un'alzata di sopracciglio sottolinea ospiti graditi e meno. Lui sembra pacificato: «Abbiamo "solo" 49 anni a separarci. Ma lei mi vuole bene e io la ricambio».
2. CON SILVIO ERA AMORE VERO» IL GRANDE CUORE DELLA MINETTI. Di Selvaggia Lucarelli per "Libero". Fermi tutti. Finalmente, dopo mesi di deposizioni improbabili, di testimonianze surreali e di teste capaci di rinnegare la propria parola, la propria madre e il proprio segno zodiacale, siamo arrivati a una verità. Siamo arrivati a conoscere l'oscuro significato racchiuso in quelle quattro parole pronunciate in una delicata intercettazione da Nicole Minetti. Parole che ronzavano moleste nella testa degli italiani senza trovare spiegazione. Ecco. Ora possiamo dichiarare con assoluta certezza che quando Nicole briffò così l'amica: «C'è la zoccola, la sudamericana che non parla l'italiano e vive nelle favelas e poi CI SONO IO CHE FACCIO QUEL CHE FACCIO», quell'enigmatico, impenetrabile, arcano «faccio quel che faccio» non voleva dire «metto il parmigiano sulla pasta tricolore» e nemmeno «Mi strofino così tanto sul palo della lap dance che faccio le scintille come la pietra focaia». No. Voleva semplicemente dire «E poi ci sono io che con lui ho un rapporto di vero amore». Ohhh. Non so voi, ma io mi sento più leggera, ora che i fatti stanno assumendo contorni più chiari. Prima mi sentivo presa in giro. Fede che mi parlava di balli africani, le ragazze che dicevano di aver cenato e poi aver visto Marzullo, Ghedini che mi descriveva gare di burlesque in salotto e di tuffi nel bidet del bagno padronale. Se non ci fossero state prima Ruby e ora Nicole, con la loro limpidezza e una capillare ricostruzione dei fatti, a raccontarci cosa accadeva ad Arcore e a spiegarci la reale natura del loro rapporto con Berlusconi, non avremmo mai capito nulla. Quindi, per Ruby era compassione e per Nicole amore vero. Del resto, come dargli torto. Le guardi e la prima cosa che pensi guardando Ruby è «Povera ragazza disagiata!» e guardando Nicole «Ecco la perfetta madre dei miei figli». Ma Nicole non si ferma al «Era vero amore». È un fiume in piena. Ieri ha deciso di vuotare il sacco. Cioè, la Birkin. Aggiunge che con Silvio era una relazione stabile. Che si confrontavano sul suo futuro. E se non è vero amore quando un uomo con cinque figli, due ex mogli e venti procedimenti giudiziari in corso, è profondamente in pena non per il suo futuro, ma per quello di un'ex igienista dentale e valletta di Colorado, allora ditemi voi cos'è. Ma non ha taciuto neppure sulla forte raccomandazione avuta per entrare in Regione, la Nicole. Che, come sospettavo, non è arrivata da Silvio, ma da don Verzè. «Il presidente Berlusconi mi disse che don Verzè avrebbe avuto piacere ad avere un rappresentante dell'istituto in consiglio regionale e io accettai con gioia e inconsapevolezza». Peccato che don Verzè non sia più in vita perché avrebbe senz'altro avuto il piacere di confermare una verità così cristallina. Così come avrebbero senz'altro voglia di confermare, Franco Califano, che gli raccomandò caldamente Barbara Guerra e Michael Jackson che gli presentò Ruby. Nicole ha poi spifferato tutto sulla fine della loro relazione e lì, bisogna ammettere che quando ha parlato di «rapporto che una volta finito si è trasformato in una straordinaria amicizia», noi donne abbiamo provato profonda empatia. Io, soprattutto. Ad esempio, quando penso a quella mitologica intercettazione in cui rammentando i momenti più romantici con Silvio disse a un'amica di cene: «È un vecchio, un pezzo di merda col culo flaccido», realizzo che ho la sua stessa capacità di mantenere rapporti di straordinaria amicizia con tutti i miei ex. Ne parlo con la stessa poesia. Con la stessa struggente nostalgia. Sappiamo poi, dopo la deposizione di ieri, che Nicole non ha mai introdotto nessuno ad Arcore, non organizzava nulla, non gestiva ragazze. Questo Nicole non l'ha potuto spiegare in aula perché come noto è una ragazza pudica, ma anche qui c'entra il vero amore. Lei andava a prendere le bollette delle olgettine perché Silvio si eccita con la lettura dei conguagli. Anche Galliani pare che per convincerlo a tenere Allegri un altro anno, l'abbia ammansito leggendogli le ultime due cifre del contatore del gas. Infine, Nicole ha squarciato definitivamente anche il velo di balle e omertà sul caso Ruby. «Non sapevo fosse minorenne. Quella sera sono andata in questura per fare del bene e per permettere che la ragazza tornasse a casa sua». In fondo è vero amore anche questo. Per la legge, soprattutto. Perché lasciare lì una ladra, quando puoi chiederne l'affidamento e affidarla poi al primo marciapiede di fronte alla questura? Quante montagne smuove il vero amore. E quanta invidia genera, in chi il vero amore non l'ha mai provato. «A causa di questa campagna d'odio, devo convivere con la paura», ha ammesso infine Nicole. E anche su questa paura paralizzante, Nicole ha detto la verità. Non si può non leggerle negli occhi, ogni volta che la gente la fissa per strada o al bar, quella maledetta paura. Paura che la gente crudele e carica di pregiudizi, pensi di lei: «Ha la cellulite». Nel frattempo, Gue Pequeño l'ha mollata. Ha dichiarato: «La Minetti? È bona come tante». Insomma, un altro vero amore.
3. TUTTE LE DONNE DEL CAVALIERE - L'ELENCO DELLE STORIE VERE E PRESUNTE DI SILVIO BERLUSCONI: PER TUTTE FU AMORE. Da "Libero". Sono tante. Sono tutte belle e giovani. Tutte con un sogno nel cassetto: diventare famose al fianco di uno degli uomini più potenti d'Italia. Sono le "papi girls" che in questi anni hanno fatto la loro comparsa a fianco di Silvio Berlusconi: ad alcune è stata attribuita una storia vera e propria, per altre la presenza nella vita del Cav è emersa solo per via delle carte giudiziarie. Su tutte la ha avuto la meglio Francesca Pascale che si è conquistata il ruolo di "fidanzata ufficiale" con tanto di annuncio pubblico da parte del leader del Pdl in diretta televisiva da Barbara D'Urso alla fine dell'anno scorso. La consigliera provinciale azzurra è riuscita a sbaragliare la concorrenza di un esercito molto agguerrito e corposo: il settimanale "Oggi" a marzo del 2012 aveva contato 130 ragazze, giovani e giovanissime, rosse, more e bionde che avrebbero fatto carte false per sistemarsi definitivamente a casa Berlusconi. Tra tutte Sabina Began, soprannominata l'Ape Regina che non ha mai fatto mistero del suo amore per il Cav, che si è fatta tatuare sulla caviglia le iniziali di lui accompagnate dalla frase "L'uomo che mi ha cambiato la vita", e Nicole Minetti che anche ieri, durante l'udienza in Tribunale del processo Ruby, ha fatto la sua dichiarazione d'amore a Silvio. Sulla stessa linea Barbara Guerra che ha difeso a spada tratta Berlusconi spiattellando al mondo il sentimento che la lega a lui. E ancora: Evelina Manna che descrive Berlusconi come un uomo tenero e romantico, che si addormenta "a seggiolina", "abbracciato" con lei e la "mentina in bocca"; Darina Pavlova che fece coming out nel 2012 raccontando la storia di otto anni ("fu vero amore") prima sbocciata con una notte di fuoco a Washington e Katarina Knezevic, Miss Montenegro, entrata a 18 anni alla corte di Arcore che per tre anni si autoelesse fidanzata ufficiale di Berlusconi: "Sono ancora innamorata di Silvio, come e più del primo giorno. Mi sento distrutta, ma so che vincerò", aveva dichiarato al Fatto quando ancora pensava di poter insidiare il trono della Pascale. Poi ci sono Noemi Letizia, Patrizia D'Addario, Maria Ester (detta Marystelle) Garcia Polanco, Barbara Faggioli, Eleonora e Imma De Vivo (definite da Berlusconi 'un amuleto'), Alessandra Sorcinelli, Elisa Toti, Iris Berardi, Raissa Skorkina, Raffaella Fico, Miriam Loddo. Poi c'è Ruby di cui, ormai, si è detto e scritto tutto. Di seguito l'elenco delle donne che sono entrate nella vita del Cavaliere (non necessariamente nella sua camera da letto), che si sono auto-proclamate fidanzate, innamorate, deluse. Sono nomi apparsi sui giornali, accostati al Cavaliere a titolo di amicizia, flirt, e fidanzamenti. Forse dovrà essere aggiornato, Pascale permettendo.
1. Sabina Began, 37 anni; 2. Terry de Nicolò, 36; 3. Carolina de Freitas, 36; 4. Francesca Lana, 26; 5. Letizia Filippi, 34; 6. Barbara Montereale, 25; 7. Daniela Lungoci, np; 8. Niang Kardiatau, 32; 9. Karen m. Buchanan, 40; 10. Manuela Arcuri, 34; 11. Camille c. Charao, 27; 12. Chiara Guicciardi, 34; 13. Fadoua Sebbar, np; 14. Sara Tommasi, 30; 15. Vanessa di Meglio, 38; 16. Monia Carpentone, 26; 17. Roberta Nigro, 34; 18. Maria j. De Britos Ramos, 37; 19. Graziana Capone, 26; 20. Michaela Pribisova, 28; 21. Luciana Francioli, 40; 22. Ioana Visan, 24; 23. Marysthell Garcia Polanco, 29; 24. Michelle Conceicao, 33; 25. Cinzia Caci, 37; 26. Barbara Guerra, 33; 27. Patrizia D'Addario, 45; 28. Lucia Rossini, 27; 29. Marica, np; 30. Michela, np; 31. Milena, np; 32. Carolina Marconi, 33; 33. Francesca Lodo, 27; 34. Diana Iawkic, 22; 35. Siria De Fazio, 34; 36. Nicole Minetti, 26; 37. Barbara Faggioli, 26; 38. Barbara Matera, 29; 39. Raffaella Fico, 23; 40. Cinzia Molena, 32; 41. Iris Berardi, 19; 42. Aris Espinoza, 22; 43. Alessandra Sorcinelli, 27; 44. Valentina Costanzo, 26; 45. Imane Fadil, 24; 46. Maria Makdoum, 20; 47. Ambra Battilana, 19; 48. Chiara Danese, 19; 49. Melania Tumini, 26; 50. Natascia, 21; 51. Katarina, 24; 52. Kristina, 24; 53. Diana Gonzales, 21; 54. Elisa Toti, 22; 55. Imma De Vivo, 23; 56. Eleonora De Vivo, 23; 57. Aida Yespica, 30; 58. Claudia Galanti, 30; 59. Roberta Bonasia, 27; 60. Florina Marincea, 27; 61. Nadia Macrì, 27; 62. Francesca Cipriani, 27; 63. Viviana Andreoli, 31; 64. Virna Bello, 29; 65. Francesca Pascale, 28; 66. Licia Ronzulli, 36; 67. Elisa Alloro, 35; 68. Emanuela Romano, 30; 69. Cristina Ravot, 28; 70. Lisandra Silva, 26; 71. Clarissa Campironi, np; 72. Noemi Letizia, 20; 73. Roberta Oronzo, 20; 74. Elvira Savino, 34; 75. Emiliana, np; 76. Miriam Loddo, 28; 77. Karima El Mahroug-Ruby, 18; 78. Marianna Ferrera, 27; 79. Manuela Ferrera, 27; 80. Marianna Yushkah, 24; 81 Raissa Skorkina, 29; 82. Jennifer Rodriguez, 34; 83. Linsey Barizonte, 25; 84. Maria Rosaria Rossi, 39; 85. Marisiel, np; 86. Roberta/1, np; 87. Roberta/2, np; 88. Ioana Claudia Amarghioale, 21; 89. Ludovica Leoni, 30; 90. Elena Morali, 30; 91. Giovanna Rigato, 30; 92. Ale, np; 93. Monica, np; 94. Silvia Travami, np; 95. Renata Wilson, 27; 96. Maribel Torres Munoz, 56; 97. Giada, np; 98. Imma Dininni, 32; 99. Susanna Petrone, 33; 100. Lara Comi, 28; 101. Stella Schan, np; 102. Donatella Marrazza, 37; 103. Stella Maria Novarino, 32; 104. Francesca Garasi, 26; 105. Linda Santaguida, 33); 106. Barbara Pedrotti, 38; 107. Francesca Romana Impiglia, 33; 108. Poliana Gomes, 26; 109. Belen Rodriguez, 26; 110. Dani Samvis, 26; 111. Geraldin Semeghini, 34; 112. Ania Goledzinowska, 28; 113. Elisa De Carolis, 33; 114. Angela Sozio, 38; 115. Giulia Mascellino 38; 116. Michela Nasponi, 24; 117. Laura Bertocco, 30; 118. Gemma, np; 119. Eleonora, np; 120. Miriam Marcondes, np; 121. Emanuela, np; 122. Michela Chillino, 30; 123. Lionella, np; 124. Christine Del Rio, 32; 125. Licia Nunez (Del Curatolo), 33; 126. Ludovica, np; 127. Giada Di Miceli, 29; 128. Silvia, np; 129. Valeria, np; 130. Giada Culite (alias Rasa Kulyte), 24.
LE DOMANDE POSTE A SILVIO BERLUSCONI.
I dieci quesiti sono stati pubblicati dal giornale “La Padania” il 19 agosto 1998. Sono apparsi successivamente, anche, su internet sul sito della Lega Nord, per poi scomparire misteriosamente. Sullo stesso argomento e in quel preciso momento storico è possibile trovare anche altri titoli del genere: La Fininvest è nata da Cosa Nostra (7.10.98), Berlusconi, metodi mafiosi (6.10.1999), Silvio riciclava i soldi della mafia (7.7.98), C’è una legge inapplicata: Berlusconi è ineleggibile (25.11.99). Ma non è che per caso che la storia ripetuta come un mantra da tg, giornali, radio, libri, opinionisti, “Silvio è l’uomo che si è fatto da solo e ha creato milioni di posti di lavoro” sia un po’ da rivedere? Le 10 domande a cui il sig. Berlusconi deve essere obbligato a rispondere, scrive Silvio Bugnano mercoledì 10 giugno 2009 su “Agora Vox". Dieci domande che rappresentano solo dieci delle ambiguitá legali che dominarono e contraddistinguono la traiettoria economica e politica del Presidente del Consiglio. L’analisi delle risposte del Presidente a queste domande genererebbe una presa di coscienza vitale, ormai, per la nostra boccheggiante democrazia. Le vere 10 domande poste dalla lega nel 1998. Molto meglio delle 10 domande ridicole poste da Repubblica di recente. Dato che sono domande più serie, saremo in grado di farlo diventare più grande dell’altro su Noemi?
1) Il 26 settembre 1968, la sua Edilnord Sas acquistò dal conte Bonzi l’intera area dove lei, signor Berlusconi, edificherà Milano2. Lei pagò il terreno 4.250 lire al metro, per un totale di oltre tre miliardi di lire. Questa somma dal ’68, quando lei aveva 32 anni e nessun patrimonio familiare a disposizione, era di enorme portata. Oggi, tabelle Istat alla mano, equivarrebbe a oltre 38.739.000.000 di lire. Dopo l’acquisto, lei aprì un gigantesco cantiere edile, il cui costo arriverà a sfiorare i 500 milioni al giorno, che in 4-5 anni edificherà l’area abitativa di Milano2. Tutto questo denaro chi gliel’ha dato, signor Berlusconi? Chi si nascondeva dietro le finanziarie di Lugano? Risponda.
2) Il 22 maggio 1974 la sua società Edilnord Centri Residenziali Sas compì un aumento di capitale che così arrivò a 600 milioni di lire (4,8miliardi di oggi Fonte Istat). Il 22 luglio1975 - un anno dopo - la medesima società eseguì un altro aumento di capitale passando dai suddetti seicento milioni a due miliardi (14 miliardi di oggi. Fonte Istat. Anche in questo caso, che è solo l’esempio di alcune delle tante e fortissime ricapitalizzazioni delle sue società, signor Berlusconi, vogliamo sapere da dove e da chi le sono pervenuti tali ingentissimi capitali in contanti. Se lei non lo spiega signor Berlusconi, si è autorizzati a ritenere che sia denaro di dubbia origine, denaro dell’orribile odore.
3) Il due febbraio del 1973, lei, signor Berlusconi, fondò un’altra società: la Italcantieri Srl. Il 18 luglio 1975 questa sua piccola impresa diventò una Spa con un aumento di capitale a 500 milioni. In seguito, quei 500 milioni diventeranno 2 miliardi, e lei farà in modo di poter emettere anche un prestito obbligazionario per altri due miliardi. Nell’arco di nemmeno tre anni, una società forte di capitale di 20 milioni appunto la Italcantieri Srl, si trasformerà in un colosso, moltiplicando per cento il suo patrimonio. Come fu possibile? Da dove prese, chi le diede, in che modo entrò in possesso, signore Berlusconi, di queste fortissime somme in contanti? Risponda. Lo spieghi.
4) Il 15 settembre 1977 la sua società Edilnord Sas, signor Berlusconi, cedette alla neo costituta Milano2 Spa tutto il costruito di Milano2 più alcune aree ancora da edificare. Tuttavia, quel giorno lei decise anche il contestuale cambiamento di nome della società acquirente. Infatti l’impresa Milano2 Spa cominciò a chiamarsi con un proprio da quella data. Quando fu fondata a Roma, il 16 settembre ’74 rispondeva al nome di immobiliare San Martino Spa, "forte di lire 1.000.000 di capitale e amministrata da Marcello Dell’Utri, il suo "segretario". Sempre il 15 settembre 1977, quel milione salirà a 500, il 19 luglio 1978 a due miliardi. Un’altra volta: tutto questo denaro da dove arrivò?
5) Signor Berlusconi, il cuore del suo impero, la notissima Fininvest, lei sa bene che nacque in due tappe. Il 21 Marzo 1975 a Roma lei diede vita alla Fininvest Srl, 20 milioni di capitale, che l’11 novembre diventeranno 2 miliardi con il contestuale trasferimento della sede a Milano. L’8 Giugno 1978, ancora a Roma, lei fondò la Finanziaria di Investimento Srl, soliti 20 milioni, amministrata da Umberto Previti, padre del noto Cesare. Il 30 giugno 1978, quei 20 milioni diventeranno 50, e il 7 dicembre 18 miliardi (81 miliardi di oggi). Il 26 gennaio 1979 le due "Fininvest" si fonderanno. Ebbene, questa gigantesca massa di capitali da dove arrivò, signor Berlusconi?
6) Signor Berlusconi, lei almeno una volta sostenne che le 22 holding alla testa del suo impero societario vennero costituite da Umberto Previti per pagare meno tasse allo Stato. Nessuno dubiterà mai più di queste sue affermazioni quando lei spiegherà per quale ragione affidò consistenti quote delle suddette 22 holding alla società Par.Ma.Fid. di Milano, la medesima società fiduciaria che nel medesimo periodo gestì il patrimonio di Antonio Virgilio, finanziere di Cosa Nostra e grande riciclatore di soldi sporchi per conto di Alfredo Giuseppe Bono, Salvatore Enea, Gaetano Fidanzati, Carmelo Gaeta e altri boss della mafia siciliana operanti a Milano. Perché la Par.Ma.Fid.?
7) E’ universalmente noto che lei, signor Berlusconi, come imprenditore è nato col "mattone" per poi approdare alla tivù. Ebbene, sul finire del 1979, lei diede incarico ad Adriano Galliani di girare l’Italia ad acquistare frequenze televisive, ed infatti Galliani si diede molto da fare. Iniziò dalla Sicilia, dove entrò in società con i fratelli Inzaranto di Misilmeri, frazione di Palermo, nella loro rete Sicilia Srl. Soltanto che Giuseppe Inzaranto, neo socio di Galliani, era anche marito della nipote prediletta di Tommaso Buscetta che nel 1979 non è un "pentito", è un boss di prima grandezza. Questo lei lo sapeva, signor Berlusconi? Sapeva di aver sfiorato i vertici della mafia?
8) E’ certo che a lei, signor Berlusconi, il nome dell’Immobiliare Romana Paltano non può risultare sconosciuto. Certo ricorda che nel 1974 la suddetta società. 12 milioni di capitale, finì sotto il suo controllo amministrata da Marcello Dell’Utri. Fu proprio sui terreni posseduti da questa immobiliare che lei edificherà Milano3. Così pure ricorderà, signor Berlusconi, che nel 1976 quel piccolo capitale di 12 milioni salirà a 500 e il 12 maggio 1977 a 1 miliardo. Inoltre lei modificherà anche il nome a questa impresa, che diventerà la notissima "Cantieri Riuniti Milanesi Spa". Ancora una volta: da dove prese, chi le fornì, i 988 milioni (5 miliardi d’oggi) per quest’ennesima iniezione di soldi?
9) Lei, signor Berlusconi, certamente rammenta che il 4 maggio 1977 a Roma fondò l’immobiliare Idra col capitale di 1 (un) milione. Questa società, che oggi possiede beni immobili pregiatissimi in Sardegna, l’anno successivo -era il 1978- aumentò il proprio capitale a 900 milioni di lire in contanti. Signor Berlusconi, da dove arrivarono gli 899 milioni che fecero la differenza? E poi: da dove, da chi, perché lei entrò in possesso delle stratosferiche somme che le permisero di far intestare all’Immobiliare Idra proprietà in Costa Smeralda - ville e terreni - il cui valore è da contarsi in decine di miliardi? Dica la verità, signor Berlusconi. Sveli anche questo mistero impenetrabile.
10) Signor Berlusconi, in più occasioni lei ha usato - vedi l’acquisto dell’attaccante Lentini dal Torino Calcio, ad esempio - la finanziaria di Chiasso denominata Fimo. Anche in questo caso, come in precedenza per la finanziaria Par.Ma.Fid., ha scelto una società fiduciaria al cui riguardo le cronache giudiziarie si sono largamente espresse. La Fimo, infatti, era la sede operativa di Giuseppe Lottusi, riciclatore di soldi sporchi della cosca dei Madonia e Lottusi il 15 novembre del 1991 verrà condannato per questo a vent’anni di reclusione. Ebbene, la transizione per l’acquisto di Lentini, tramite la Fimo, avvenne nella primavera del 1992. Perché la Fimo, signor Berlusconi?
Queste sono le domande che bisognerebbe presentare al premier, se fossimo in una democrazia veramente funzionale. Tutti noi dovremmo sentirci in dovere e diritto di presentare queste domande al premier che, come stipendiato dallo Stato (cioé da noi tutti) e che come impiegato pubblico deve essergli IMPOSTO il dovere di rispondere, pena la estromissione dal suddetto incarico.
Ecco cosa scriveva di Berlusconi il giornale ufficiale della Lega, dopo la caduta del suo primo governo. Ci si chiede come è possibile che siano ritornati alleati? Come è possibile che i leghisti puristi si alleino con un mafioso, senza ritrattare e sconfessare quanto scritto. E c'è da chiedersi come un uomo possa mettersi la dignità sotto ai piedi blandendo ed alleandosi con chi lo reputa un mafioso. Questa alleanza, che costruirà il nocciolo dura della lega, dà la cifra di cosa sia la destra italiana. Rammento ai lettori anche le parole di Fini, che all'epoca disse che con Bossi non avrebbe preso più manco un caffè. Potenza della coerenza!! Questo video è stato aggiunto il 29/8/09, dopo che Berlusconi ha denunciato La Repubblica per le dieci domande ritenendole calunniose. E quando Bossi lo chiamava "Il mafioso di Arcore"?? Vale la pena riproporre le domande di allora, scrive “Altre Storie”. Per chi non lo ricordasse, questo è un paese senza memoria, fu dopo la caduta del primo governo B, quando Bossi sostenne, insieme al centrosinistra, il governo Dini per mandare a casa Berlusconi. Dicono che furono i giudici. In realtà fu Bossi che usci dalla maggioranza. Fini e Berlusconi dissero: "Con Bossi mai più, manco un caffè!!" Curioso. I leghisti gli davano apertamente del mafioso. Ed oggi? Calunniavano allora oppure si sono adeguati in nome del potere?
Da La Padania 19/8/09 BERLUSCONI MAFIOSO? 11 domande al Cavaliere per negarlo di Max Parisi. Basta. Basta con questa indicibile manfrina messa in piedi dai mezzi di comunicazione di massa sulle vicende giudiziarie - specialmente quelle palermitane - di Silvio Berlusconi. E' arrivata l'ora delle certezze definitive. Di seguito presento al signor Berlusconi una serie di domande invitandolo pubblicamente a rispondere nel merito con cristallina chiarezza affinché una volta per tutte sia lui in prima persona a dimostrare - se ne e' capace - che con Cosa Nostra non ha e non ha mai avuto nulla a che fare. A scanso di equivoci e strumentalizzazioni, già da ora - signor Berlusconi - le annuncio che nessuna delle notizie sul suo conto che leggerà in questo articolo e' frutto di "pentimenti", e nessuna delle domande che le sto per porre si basa o prende spunto anche fosse in modo marginale dalle parole dei cosiddetti "pentiti". Tutto al contrario, esse si basano su personali indagini e su documenti amministrativi che in ogni momento - se lo riterrà - potrò inviarle perché si sinceri della loro autenticità. Detto questo, prego, legga, e mi sappia poi dire. Partiamo da lontano, perché lontano inizia la sua storia imprenditoriale, signor Berlusconi.
Primo quesito: lei certamente ricorda che il 26 settembre 1968 la sua società - l'Edilnord Sas - acquistò dal conte Bonzi l'intera area dove di lì a breve lei costruirà il quartiere di Milano2. Lei pagò l'area circa 4.250 lire al metro quadrato, per un totale di oltre 3 miliardi. Questa somma, nel 1968 quando lei aveva appena 32 anni e nessun patrimonio familiare alle spalle, e' di enorme portata. Oggi, tabelle Istat alla mano, equivarrebbe a 38 miliardi, 739 milioni e spiccioli. Dopo l'acquisto - intendo dire nei mesi successivi - lei aprì un gigantesco cantiere edilizio, il cui costo arriverà a sfiorare 500 milioni al giorno, che in circa 4-5 anni porterà all'edificazione di Milano2 così come e' oggi. Ecco la prima domanda: signor Berlusconi, a lei, quando aveva 32 anni, gli oltre 30 miliardi per comprare l'area, chi li diede? Inoltre: che garanzie offrì e a chi per ricevere tale ingentissimo credito? In ultimo: il denaro per avviare e portare a conclusione il super-cantiere, chi glielo fornì? Vede, se lei non chiarisce questi punti, si è autorizzati a credere che le due misteriose finanziarie svizzere amministrate dall'avvocato di Lugano Renzo Rezzonico "sue finanziatrici", così come altre finanziarie elvetiche che entreranno in scena al suo fianco e che tra poco incontreremo, sono paraventi dietro i quali si sono nascosti soggetti tutt' altro che raccomandabili. Sì, perché - mi creda signor Berlusconi - nel 1998, oggi, se lei chiarisse una volta per tutte, con nomi e cognomi, chi le prestò tale gigantesca fortuna facendo con questo crollare ogni genere di sospetto e insinuazione sul suo conto, nessuno e dico nessuno si alzerebbe per criticarla sostenendo che lei operò con capitali sfuggiti, per esempio, al fisco italiano e riparati in Svizzera, poi rientrati in Italia grazie alla sua attività imprenditoriale. Sarei il primo ad applaudirla, signor Berlusconi, se la realtà fosse questa. Se invece di denaro frutto di attività illecite, si trattò di risparmi onestamente guadagnati e quindi sottratti dai rispettivi proprietari al fisco assassino italiota che grazie a lei ridiventarono investimenti, lei sarebbe da osannare. Parli, signor Berlusconi, faccia i nomi e il castello di accuse di riciclaggio cadrà di schianto.
Secondo quesito: il 22 maggio 1974 - certamente lo ricorda, signor Berlusconi - la sua società "Edilnord Centri Residenziali Sas" compì un aumento di capitale che così arrivò a 600 milioni (4,8 miliardi di oggi, fonte Istat). Il 22 luglio 1975 la medesima società eseguì un altro aumento di capitale passando dai suddetti 600 milioni a 2 miliardi (14 miliardi di oggi, fonte Istat). Anche in questo caso, vorrei sapere da dove e da chi sono arrivati queste forti somme di denaro in contanti.
Terzo quesito: il 2 febbraio 1973 lei fondò un'altra società, la Italcantieri Srl. Il 18 luglio 1975 questa sua piccola impresa diventò una Spa con un aumento di capitale a 500 milioni. In seguito, quei 500 milioni diventeranno 2 miliardi e lei farà in modo di emettere anche un prestito obbligazionario per altri 2 miliardi. Signor Berlusconi, anche in questo caso le chiedo: il denaro in contanti per queste forti operazioni finanziarie, chi glielo diede? Fuori i nomi.
Quarto quesito: lei non può essersi scordato che il 15 settembre 1977 la sua società Edilnord cedette alla neo-costituita "Milano2 Spa" tutto il costruito del nuovo quartiere residenziale nel Comune di Segrate battezzato "Milano2" più alcune aree ancora da edificare di quell'immenso terreno che lei comperò nel '68 per l'equivalente di più di 32 miliardi in contanti. Tuttavia quel 15 settembre di tanti anni fa, accadde un altro fatto: lei, signor Berlusconi, decise il contemporaneo cambiamento di nome della società acquirente. Infatti l'impresa Milano2 Spa iniziò a chiamarsi così proprio da quella data. Il giorno della sua fondazione a Roma, il 16 settembre 1974, la futura Milano2 Spa - come lei senza dubbio rammenta - viceversa rispondeva al nome di Immobiliare San Martino Spa, "forte" di un capitale di lire 1 (un) milione, il cui amministratore era Marcello Dell'Utri. Lo stesso Dell'Utri che lei, signor Berlusconi, sostiene fosse a quell'epoca un ....... Sempre il 15 settembre 1977, quel milione venne portato a 500 e la sede trasferita da Roma a Segrate. Il 19 luglio 1978, i 500 milioni diventeranno 2 miliardi di capitale sociale. Ecco, anche in questo caso, vorrei sapere dove ha preso e chi le ha fornito tanto denaro contante e in base a quali garanzie.
Quinto quesito: signor Berlusconi, il cuore del suo impero, la notissima Fininvest, certamente ricorda che nacque in due tappe. Partiamo dalle seconda: l'8 giugno 1978 lei fondò a Roma la "Finanziaria d'Investimento Srl" - in sigla Fininvest - dotandola di un capitale di 20 milioni e di un amministratore che rispondeva al nome di Umberto Previti, padre del noto Cesare di questi tempi grami (per lui). Il 30 giugno 1978 il capitale sociale di questa sua creatura venne portato a 50 milioni, il 7 dicembre 1978 a 18 miliardi, che al valore d'oggi sarebbero 81 miliardi, 167 milioni e 400 mila lire. In 6 mesi, quindi, lei passò dall'avere avuto in tasca 20 milioni per fondare la Fininvest Srl a Roma, a 18 miliardi. Fra l'altro, come lei certamente ricorda, la società in questo periodo non possedeva alcun dipendente. Nel luglio del 1979 la Fininvest Srl, con tutti quei soldi in cassa, venne trasferita a Milano. Poco prima, il 26 gennaio 1979 era stata "fusa" con un'altra sua società dall'identico nome, signor Berlusconi: la Fininvest Spa di Milano. Questa società fu la prima delle due tappe fondamentali di cui dicevo poc'anzi alla base dell'edificazione del suo impero, e in realtà di milanese aveva ben poco, come lei ben sa. Infatti la Fininvest Spa venne anch'essa fondata a Roma il 21 marzo del 1975 come Srl, l'11 novembre dello stesso anno trasformata in Spa con 2 miliardi di capitale, e quindi trasferita nel capoluogo lombardo. Tutte operazioni, queste, che pensò, decise e attuò proprio lei, signor Berlusconi. Dopo la fusione, ricorda?, il capitale sociale verrà ulteriormente aumentato a 52 miliardi (al valore dell'epoca, equivalenti a più di 166 miliardi di oggi, fonte Istat). Bene, fermiamoci qui. Signor Berlusconi, i 17 miliardi e 980 milioni di differenza della Fininvest Srl di Roma (anno 1978) chi glieli fornì? Vorrei conoscere nomi e cognomi di questi suoi munifici amici e anche il contenuto delle garanzie che lei, signor Berlusconi, offrì loro. Lo stesso dicasi per l'aumento, di poco successivo, a 52 miliardi. Naturalmente le chiedo anche notizie sull'origine dei fondi, altri 2 miliardi, della "gemella" Fininvest Spa di Milano che lei fondò nel 1975, anno pessimo per ciò che attiene al credito bancario e ancor peggio per i fondamentali dell'economia del Paese.
Sesto quesito: lei, signor Berlusconi, almeno una volta in passato tentò di chiarire il motivo dell'esistenza delle 22 (ma c’è chi scrive, come Giovanni Ruggeri, autore di "Berlusconi, gli affari del Presidente" siano molte di più, addirittura 38) "Holding Italiane" che detengono tuttora il capitale della Fininvest, esattamente l'elenco che inizia con Holding Italiana Prima e termina con Holding Italiana Ventiduesima. Lei sostenne che la ragione di tale castello societario sta nell'aver inventato un meccanismo per pagare meno tasse allo Stato. Così pure, signor Berlusconi, lei ha dichiarato che l'inventore del marchingegno finanziario, che ripeto detiene - sono sue parole - l'intero capitale del Gruppo, fu Umberto Previti e l'unico scopo per il quale l'inventò consisteva - e consiste tutt'oggi - nell'aver abbattuto di una considerevole percentuale le tasse, ovvero il bottino del rapinoso fisco italiota ai suoi danni, con un meccanismo assolutamente legale. Queste, mi corregga se sbaglio, furono le ragioni che addusse a suo tempo, signor Berlusconi, per spiegare il motivo per cui il capitale della Fininvest è suddiviso così. E' una motivazione, però, che a molti appare quanto meno curiosa, se raffrontata - ad esempio - con l'assetto patrimoniale di un altro big dell'imprenditoria nazionale, Giovanni Agnelli, che viceversa ha optato da molti anni per una trasparentissima società in accomandita per detenere e definire i propri beni e quote del Gruppo Fiat. In sostanza lei, signor Berlusconi, più volte ha ribadito che "dietro" le 22 Holding c'è soltanto la sua persona e la sua famiglia. Non avrò mai più motivo di dubitare di questa sua affermazione quando lei spiegherà con assoluta chiarezza le ragioni di una sua scelta a dir poco stupefacente. Questa: c'è un indirizzo - a Milano - che lei, signor Berlusconi conosce molto bene. Si tratta di via Sant' Orsola 3, pieno centro cittadino. A questo indirizzo nel 1978 nacque una società fiduciaria - ovvero dedita alla gestione di patrimoni altrui - denominata Par.Ma.Fid. A fondarla furono due commercialisti, Roberto Massimo Filippa e Michela Patrizia Natalini. Detto questo, certo rammenta, signor Berlusconi, che importanti quote di diverse delle suddette 22 Holding verranno da lei intestate proprio alla Par. Ma.Fid. Esattamente il 10 % della Holding Italiana Seconda, Terza, Quarta, Quinta, Ventunesima e Ventiduesima, più il 49% della Holding Italiana Prima, la quale - in un perfetto gioco di scatole cinesi - a sua volta detiene il 100% del capitale della Holding Italiana Sesta e Settima e il 51% della Holding Italiana Ventiduesima. Vede, signor Berlusconi, dovrebbe chiarirmi per conto di chi la Par.Ma.Fid. gestirà questa grande fetta del Gruppo Fininvest e perché lei decise di affidare proprio a questa società tale immensa fortuna. Infatti lei - che è un attento lettore di giornali e ha a sua disposizione un ferratissimo nonchè informatissimo staff di legali civilisti e penalisti - non può non sapere che la Par.Ma.Fid. è la medesima società fiduciaria che ha gestito - esattamente nello stesso periodo - tutti i beni di Antonio Virgilio, finanziere di Cosa Nostra e grande riciclatore di capitali per conto dei clan di Giuseppe e Alfredo Bono, Salvatore Enea, Gaetano Fidanzati, Gaetano Carollo, Carmelo Gaeta e altri boss - di area corleonese e non - operanti a Milano nel traffico di stupefacenti a livello mondiale e nei sequestri di persona. Quindi, signor Berlusconi, a chi finivano gli utili della Fininvest relativi alle quote delle Holding in mano alla Par.Ma.Fid.? Per conto di chi la Par.Ma.Fid. incassava i dividendi e gestiva le quote in suo possesso? Chi erano - mi passi il termine - i suoi "soci", signor Berlusconi, nascosti dietro lo schermo anonimo della fiduciaria di via Sant'Orsola civico 3? Capisce che in assenza di una sua precisa quanto chiarificatrice risposta che faccia apparire il volto - o i volti - di coloro che per anni incasseranno fior di quattrini grazie alla Par.Ma.Fid., ovvero alle quote della Fininvest detenute dalla Par.Ma.Fid. non si sa per conto di chi, sono autorizzato a pensare che costoro non fossero estranei all'altro "giro" di clienti contemporaneamente gestiti da questa fiduciaria, clienti i cui nomi rimandano direttamente ai vertici di Cosa Nostra.
Settimo quesito: è universalmente noto che lei, signor Berlusconi, come imprenditore è "nato col mattone" per poi approdare alla televisione. Proprio sull'edificazione del network TV è incentrato questo punto. Lei, signor Berlusconi, certamente ricorda che sul finire del 1979 diede incarico ad Adriano Galliani di girare l'Italia ad acquistare frequenze TV. Lo scopo - del tutto evidente - fu quello di costituire una rete di emittenti sotto il suo controllo, signor Berlusconi, in modo da poter trasmettere programmi, ma soprattutto pubblicità, che così sarebbe stata "nazionale" e non più locale. La differenza dal punto di vista dei fatturati pubblicitari, ovviamente, era enorme. Fu un piano perfetto. Se non che, Adriano Galliani invece di buttarsi a capofitto nell'acquisto di emittenti al Nord, iniziò dal Sud e precisamente dalla Sicilia, dove entrò in società con i fratelli Inzaranto di Misilmeri (frazione di Palermo) nella loro Retesicilia Srl, che dal 13 novembre 1980 vedrà nel proprio consiglio di amministrazione Galliani in persona a fianco di Antonio Inzaranto. Ora lei, signor Berlusconi, da imprenditore avveduto qual è, non può non avere preso informazioni all'epoca sui suoi nuovi soci palermitani, personaggi molto noti da quelle parti per ben altre questioni, oltre la TV. Infatti Giuseppe Inzaranto, fratello di Antonio nonché suo partner, è marito della nipote prediletta di Tommaso Buscetta. No, sia chiaro, non mi riferisco al "pentito Buscetta" del 1984, ma al super boss che nel '79 è ancora braccio destro di Pippo Calò e amico intimo di Stefano Bontate, il capo dei capi della mafia siciliana. Quindi, signor Berlusconi, perchè entrò in affari - tramite Adriano Galliani - con gente di questa risma? C'è da notare, oltre tutto, che i fratelli Inzaranto sono di Misilmeri. Le dice niente, signor Berlusconi, questo nome? Guardi che glielo sto chiedendo con grande serietà. Infatti proprio di Misilmeri sono originari i soci siciliani della nobile famiglia Rasini che assieme alla famiglia Azzaretto - nativa di Misilmeri, appunto - fondò nel 1955 la banca di Piazza Mercanti, la Banca Rasini. Giuseppe Azzaretto e suo figlio, Dario Azzaretto, sono persone delle quali lei, signor Berlusconi, con ogni probabilità sentiva parlare addirittura in casa da suo padre. Gli Azzaretto erano - con i Rasini - i diretti superiori di suo padre Luigi, signor Berlusconi. Gli Azzaretto di Misilmeri davano ordini a suo padre, signor Berlusconi, che per molti anni fu loro procuratore, il primo procuratore della Banca Rasini. Certo non le vengo a chiedere con quali capitali - e di chi - Giuseppe Azzaretto riuscì ad affiancarsi nel 1955 ai potenti Rasini di Milano, tenuto conto che Misilmeri è tutt'oggi una tragica periferia della peggiore Palermo, però che a lei Misilmeri possa risultare del tutto sconosciuta, mi appare inverosimile. Ora le ripeto la domanda: si informò sulla "serietà" e la "moralità" dei nuovi soci - il clan Inzaranto - quando tra il 1979 e l'80 diverranno parte fondamentale della sua rete TV nazionale?
Ottavo quesito: certo a lei, signor Berlusconi, il nome della società Immobiliare Romana Paltano non può risultare sconosciuto. E' impossibile non ricordi che nel 1974 la suddetta, 12 milioni di capitale, finì sotto il suo controllo amministrata da Marcello Dell'Utri, perché proprio sui terreni di questa società lei darà corso all'iniziativa edilizia denominata Milano3. Così pure ricorderà che nel 1976 l'esiguo capitale di 12 milioni aumenterà a 500, e che il 12 maggio del 1977 salirà ulteriormente a 1 (un) miliardo, e che cambierà anche la sua denominazione in Cantieri Riuniti Milanesi Spa. Come al solito, vengo subito al dunque: anche in questo ennesimo caso, chi le fornì, signor Berlusconi, questi forti capitali per aumentare la portata finanziaria di quella che era una modestissima impresa del valore di soli 12 milioni quando la acquistò?
Nono quesito: lei, signor Berlusconi, certamente rammenta che il 4 maggio 1977 a Roma fondò l'Immobiliare Idra col capitale di 1 (un) milione. Questa società, che oggi possiede beni immobili pregiatissimi in Sardegna, l'anno successivo - era il 1978 - aumentò il proprio capitale a 900 milioni. Signor Berlusconi, da dove arrivarono gli 899 milioni (4 miliardi e 45 milioni d'oggi, fonte Istat) che fecero la differenza?
Decimo quesito: signor Berlusconi, in più occasioni lei ha usato per mettere in porto affari di vario genere - l'acquisto dell'attaccante Lentini dal Torino Calcio, ad esempio - la finanziaria di Chiasso denominata Fimo. Anche in questo caso, come nel precedente riferito alla Par.Ma. Fid., lei ha scelto una società fiduciaria - questa volta domiciliata in Svizzera - al cui riguardo le cronache giudiziarie si erano largamente espresse. Tenuto conto della potenza dello staff informativo che la circonda, signor Berlusconi, mi appare del tutto inverosimile che lei non abbia saputo, circa la Fimo di Chiasso, che e' stata per lungo tempo il canale privilegiato di riciclaggio usato da Giuseppe Lottusi, arrestato il 15 novembre del 1991 mentre "esportava" forti capitali della temibile cosca palermitana dei Madonia. Così pure non le sarà sfuggito che Lottusi venne condannato a 20 anni di reclusione per quei reati. Tuttora e' in carcere a scontare la pena. Ebbene, signor Berlusconi, se quel gangster finì in galera il 15 novembre del '91, nella primavera del 1992 - cioè pochi mesi dopo quel fatto che campeggiò con dovizia di particolari, anche circa la Fimo, sulle prime pagine di tutti i giornali - il suo Milan "pagò" una forte somma "in nero" - estero su estero - per la cessione di Gianluigi Lentini, e usò per la transazione proprio la screditatissima Fimo, fiduciaria di narcotrafficanti internazionali. Perchè, signor Berlusconi? Ecco, queste sono le domande. Risponda, signor Berlusconi. Presto. Come ha visto, di "pentiti" veri o presunti non c'è traccia negli 11 quesiti. Semmai c’è il profumo di centinaia di miliardi che tra il 1968 e il 1979 finirono nelle sue mani, signor Berlusconi. E tuttora non si sa da dove arrivarono. Poiché c'è chi l'accusa che quell'oceano di quattrini provenne dalle casse di Cosa Nostra e sta indagando proprio su questo, prego, schianti ogni possibile infamia dicendo semplicemente la verità. Punto per punto, nome per nome. E' un'occasione d'oro per farla finita una volta per tutte. Sappia che d'ora in poi il silenzio non le è più consentito né come imprenditore, né come politico, né come uomo. I quesiti sono 10 e non 11...forse che i padani hanno riformato la matematica? Rimane che le accuse, documentatissime, lanciate a Silvio Berlusconi avrebbero meritato una risposta che non è mai arrivata.
Giovedì 14 maggio 2009 il quotidiano Repubblica, amatissimo dal signor B., pubblica “le dieci domande mai poste al Cavaliere”, scrive "E suona Male". L’articolo è di Giuseppe D’Avanzo, e inizia così: «Repubblica ha chiesto, nei giorni scorsi, di rivolgere al presidente del Consiglio dieci domande sulle incoerenze e le omissioni di una storia che molti definiscono “di Veronica” o “di Noemi” e nessuno azzarda a definire per quel che è o appare: un “caso Berlusconi”. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta, lunedì, ha chiesto due giorni per dare una risposta. Quella risposta non è arrivata. Per non dissimulare, come vuole il nuovo conformismo dell’informazione italiana, ciò che dovrebbe essere chiarito, pubblichiamo oggi le domande che avremmo voluto rivolgere al premier: nascono dalle contraddizioni che abbiamo creduto di riscontrare tra le sue dichiarazioni e quelle degli altri protagonisti della vicenda.» Giuseppe D’Avanzo poi prosegue per la bellezza di due intere pagine confutando dichiarazioni su dichiarazioni e confrontandole con i fatti noti e meno noti. In conclusione all’articolo, il giornalista tira fuori le dieci domande: domande che hanno sollevato parecchie polemiche ma mai delle risposte. E quelle domande sono rimaste sul quotidiano ogni giorno, in attesa di una risposta. Dopo più di un mese, il 26 giugno 2009, Repubblica decide di pubblicare altre dieci domande, quelle nuove, aggiornate con gli ultimi sviluppi dell’intera vicenda. Eccole qua.
1) Quando, signor presidente, ha avuto modo di conoscere Noemi Letizia? Quante volte ha avuto modo d’incontrarla e dove? Ha frequentato e frequenta altre minorenni?
2) Qual è la ragione che l’ha costretta a non dire la verità per due mesi fornendo quattro versioni diverse per la conoscenza di Noemi prima di fare due tardive ammissioni?
3) Non trova grave, per la democrazia italiana e per la sua leadership, che lei abbia ricompensato con candidature e promesse di responsabilità politiche le ragazze che la chiamano «papi»?
4) Lei si è intrattenuto con una prostituta la notte del 4 novembre 2008 e sono decine le “squillo” che, secondo le indagini della magistratura, sono state condotte nelle sue residenze. Sapeva che fossero prostitute? Se non lo sapeva, è in grado di assicurare che quegli incontri non l’abbiano resa vulnerabile, cioè ricattabile – come le registrazioni di Patrizia D’Addario e le foto di Barbara Montereale dimostrano?
5) È capitato che “voli di Stato”, senza la sua presenza a bordo, abbiano condotto nelle sue residenze le ospiti delle sue festicciole?
6) Può dirsi certo che le sue frequentazioni non abbiamo compromesso gli affari di Stato? Può rassicurare il Paese e i nostri alleati che nessuna donna, sua ospite, abbia oggi in mano armi di ricatto che ridimensionano la sua autonomia politica, interna e internazionale?
7) Le sue condotte sono in contraddizione con le sue politiche: lei oggi potrebbe ancora partecipare al Family Day o firmare una legge che punisce il cliente di una prostituta?
8) Lei ritiene di potersi ancora candidare alla presidenza della Repubblica? E, se lo esclude, ritiene che una persona che l’opinione comune considera inadatta al Quirinale, possa adempiere alla funzione di presidente del consiglio?
9) Lei ha parlato di un «progetto eversivo» che la minaccia. Può garantire di non aver usato né di voler usare intelligence e polizie contro testimoni, magistrati, giornalisti?
10) Alla luce di quanto è emerso in questi due mesi, quali sono, signor presidente, le sue condizioni di salute?
Da quel 14 maggio sono passati quasi quattro mesi. A oggi sono la bellezza di 119 giorni. Centodiciannove giorni di silenzio: per le risposte e non certo per le minacce e le battutine tanto care al signor B., si capisce. Le dieci domande non hanno mai avuto risposta ma hanno continuato a restare sul quotidiano perché questo è il dovere e l’impegno dei giornalisti. Informare i cittadini, qualunque sia l’argomento trattato. Le dieci domande non verranno tolte fino a quando il premier non si deciderà a rispondere. Probabilmente mai. Ma le domande restano. Grazie, Repubblica. Grazie.
Incoerenze di un caso politico: dieci domande a Berlusconi, di Giuseppe D'Avanzo del 15 maggio 2009 su “La Repubblica". Repubblica ha chiesto, nei giorni scorsi, di rivolgere al presidente del Consiglio dieci domande sulle incoerenze e le omissioni di una storia che molti definiscono "di Veronica" o "di Noemi" e nessuno azzarda a definire per quel che è o appare: un "caso Berlusconi". Il sottosegretario alla presidenza del consiglio Gianni Letta, lunedì, ha chiesto due giorni per dare una risposta. Quella risposta non è arrivata. Per non dissimulare, come vuole il nuovo conformismo dell'informazione italiana, ciò che dovrebbe essere chiarito, pubblichiamo oggi le domande che avremmo voluto rivolgere al premier e le contraddizioni che abbiamo ritenuto di riscontrare tra le sue dichiarazioni e quelle degli altri protagonisti della vicenda. Silvio Berlusconi ha detto: "Credo che chi è incaricato di una funzione pubblica, come il presidente del Consiglio, possa accettare la continuazione di un rapporto [con la sua consorte, Veronica Lario] soltanto se si chiarisce chi ha provocato questa situazione". (Porta a Porta, 5 maggio 2009). Repubblica concorda con Silvio Berlusconi. E' evidente che, nonostante il frastuono mediatico di queste ore, non si discute di un divorzio o di una separazione, affare privato di due coniugi. Come ha chiaro il premier, la questione interroga i comportamenti di "un incaricato di una funzione pubblica". In quanto tali, quei comportamenti sono sempre di pubblico interesse e non possono essere circoscritti a un ambito familiare. D'altronde, la signora Veronica Lario, nelle sue dichiarazioni del 29 aprile e del 3 maggio, offre all'attenzione dell'opinione pubblica due certezze personali e una domanda. Le due certezze descrivono, tra il pubblico e il privato, i comportamenti del presidente del Consiglio: "Mio marito frequenta minorenni"; "Mio marito non sta bene". La domanda, posta dalla signora all'opinione pubblica e a chi in vario modo la rappresenta, è invece tutta politica e chiama in causa le pratiche del "potere", il suo modo di essere, che si degrada e si avvilisce pericolosamente quando a rappresentare la sovranità popolare vengono chiamate "veline" senza altro merito che un bell'aspetto e la prossimità al premier. Ha detto la signora Lario: "Quello che emerge oggi, attraverso il paravento delle curve e della bellezza femminile, è la sfrontatezza e la mancanza di ritegno del potere che offende la credibilità di tutte le donne (...). Qualcuno ha scritto che tutto questo è a sostegno del divertimento dell'imperatore. Condivido, quello che emerge dai giornali è un ciarpame senza pudore". (Ansa, 28 aprile, 22:31) Silvio Berlusconi ha replicato, a caldo, evocando un complotto "della sinistra e della sua stampa che non riescono ad accettare la mia popolarità al 75 per cento (...) Tutto falso, nato dalla trappola in cui anche mia moglie purtroppo è caduta. Le veline sono inesistenti. Un'assoluta falsità". (Porta a porta, 5 maggio) E' il primo ingombro che bisogna verificare. Questa storia è soltanto una trappola bene organizzata? E' vero, se di complotto si tratta, che nasconde la mano della sinistra e della "sua stampa"? Tre evidenze lo escludono. Il primo quotidiano che dà conto della candidatura di una "velina" alle elezioni europee è il Giornale della famiglia Berlusconi. Il 31 marzo, a pagina 12, nella rubrica Indiscreto a Palazzo si legge che "Barbara Matera punta a un seggio europeo". "Soubrette, già "Letterata" del Chiambretti c'è, poi "Letteronza" della Gialappa's, quindi annunciatrice Rai e attrice della fiction Carabinieri", la Matera, scrive il Giornale, "ha voluto smentire i luoghi comuni sui giovani che non si applicano e non si impegnano. "Dicono che i ragazzi perdino tempo. Non è vero: io per esempio studio molto"". "E si vede", commenta il giornale di casa Berlusconi. Il secondo giornale che svela "la carta segreta che il Cavaliere è pronto a giocare" è Libero, il 22 aprile. Notizia e foto di prima pagina con "Angela Sozio, la rossa del Grande Fratello e le gemelle De Vivo dell'Isola dei famosi, possibili candidate alle elezioni europee". A pagina 12, le rivelazioni: "Gesto da Cavaliere. Le veline azzurre candidate in pectore" è il titolo. "Silvio porta a Strasburgo una truppa di showgirl" è il sommario. Per Libero le "showgirl", che dovranno superare un colloquio, sono 21 (in lista i candidati a un seggio di Bruxelles, come si sa, sono 72). I nomi che si leggono nella cronaca sono: Angela Sozio, Elisa Alloro, Emanuela Romano, Rachele Restivo, Eleonora Gaggioli, Camilla Ferranti, Barbara Matera, Ginevra Crescenzi, Antonia Ruggiero, Lara Comi, Adriana Verdirosi, Cristina Ravot, Giovanna Del Giudice, Chiara Sgarbossa, Silvia Travaini, Assunta Petron, Letizia Cioffi, Albertina Carraro. Eleonora e Imma De Vivo e "una misteriosa signorina" lituana, Giada Martirosianaite. Difficile sostenere che Il Giornale e Libero siano fogli di sinistra. Come è arduo credere che la Fondazione farefuturo, presieduta da Gianfranco Fini, sia un pensatoio vicino al partito democratico. Il think tank, diretto dal professor Alessandro Campi, vuole "far emergere una nuova classe dirigente adeguata a governare le sfide della modernità e della globalizzazione". Coerentemente critica l'uso di "uno stereotipo femminile mortificante" e con un'analisi della politologa Sofia Ventura avverte che "il "velinismo" non serve". Nell'articolo si legge: "Assistiamo a una dirigenza di partito che fa uso dei bei volti e dei bei corpi di persone che con la politica non hanno molto da fare, allo scopo di proiettare una (falsa) immagine di freschezza e rinnovamento. Questo uso strumentale del corpo femminile, al quale naturalmente le protagoniste si prestano con disinvoltura, denota uno scarso rispetto, da un lato, per quanti, uomini e donne, hanno conquistato uno spazio con le proprie capacità e il proprio lavoro; dall'altro, per le istituzioni e per la sovranità popolare che le legittima". Sofia Ventura conclude: "Le donne non sono gingilli da utilizzare come specchietti per le allodole, non sono nemmeno fragili esserini bisognosi di protezione e promozione da parte di generosi e paterni signori maschi. Le donne sono, banalmente, persone. Vorremmo che chi ha importanti responsabilità politiche qualche volta lo ricordasse". Quando la signora Lario prende (buonultima) la parola per censurare il "velinismo" - e "il ciarpame senza pudore" del potere - non si muove nel vuoto, ma su un terreno già smosso dalle rivelazioni dei giornali vicini al premier e dalle analisi critiche di intellettuali prossimi alla maggioranza di governo. Questo "caso" non ha inizio con un intrigo, come protesta Berlusconi, ma trova la sua trasparente ragione nella preoccupazione di ambienti della destra per un "impoverimento della qualità democratica di un paese" (ancora la Ventura). Rimosso il presunto "complotto", resta il "caso" politico, dunque. Un "caso" che diventa anche familiare, quando Veronica Lario scopre che Silvio Berlusconi ha partecipato a Napoli alla festa di compleanno di una diciottenne (Repubblica, 28 aprile). E ancora una volta politico quando la signora, annunciando la sua volontà di divorziare, denuncia pubblicamente i comportamenti di un marito che, "incaricato di una pubblica funzione", "frequenta minorenni", prigioniero com'è di un disagio che minaccia il suo equilibrio psicofisico. Il presidente del Consiglio ha replicato ai rilievi della signora Lario con due interviste alla carta stampata (Corriere della Sera e la Stampa, 4 maggio) e con un lungo monologo a Porta a Porta (5 maggio). In queste tre sortite pubbliche, la ricostruzione degli avvenimenti di cui si discute (la candidatura di giovani donne selezionate per la loro bellezza e amicizia con il premier; il suo affetto per Noemi Letizia, maggiorenne il 26 aprile; la partecipazione alla festa di compleanno; il lungo sodalizio amicale con la famiglia Letizia) ha avuto, da parte di Berlusconi, una parola definitiva, ma o contraddittoria o omissiva. Berlusconi nega di aver mai avuto intenzione di candidare "soubrette". "Non avevamo messo in lista nessuna "velina"" (Corriere, 4 maggio) Noemi lo chiama "papi". Perché? A chi glielo chiede, replica: "E' uno scherzo, mi volevano dare del nonno, meglio mi chiamino papi. Non crede?" (Corriere, 4 maggio). Berlusconi è più preciso con la Stampa (4 maggio): "Io frequenterei, come ha detto la signora [Lario], delle diciassettenni. E' una cosa che non posso sopportare. Io sono amico del padre punto e basta. Lo giuro!" E' la stessa versione offerta a France2 (6maggio). Quando il presidente del Consiglio spiega le circostanze della frequentazione con Noemi Letizia - si tratta di un'antica amicizia di natura politica con il padre, dice - il giornalista lo interrompe per chiedere: "... dunque [Noemi] non è una ragazza che lei conosceva personalmente?". Berlusconi risponde: "No, ho avuto l'occasione di conoscerla con i suoi genitori. Questo è tutto". La versione di Berlusconi è contraddetta in tutti i suoi elementi dalle interviste che Noemi Letizia concede. Noemi così ricostruisce il suo legame affettivo con il presidente del Consiglio: "Mi vuole bene come a un figlia. E anch'io, noi tutti gli siamo molto legati". (Repubblica, 29 aprile) Al Corriere del Mezzogiorno, il 28 aprile, consegna dettagli chiave. "[Berlusconi, papi] mi ha allevata (...) E' un amico di famiglia. Dei miei genitori (...) non mi ha fatto mai mancare le sue attenzioni. Un anno [per il mio compleanno], ricordo, mi ha regalato un diamantino. Un'altra volta, una collanina. Insomma, ogni volta mi riempie di attenzioni. (...) Lo adoro. Gli faccio compagnia. Lui mi chiama, mi dice che ha qualche momento libero e io lo raggiungo. Resto ad ascoltarlo. Ed è questo che desidera da me. Poi, cantiamo assieme. (...) Quando vado da lui ha sempre la scrivania sommersa dalle carte. Dice che vorrebbe mettersi su una barca e dedicarsi alla lettura. Talvolta è deluso dal fatto che viene giudicato male, gli spiego che chi lo giudica male non guarda al di là del proprio naso. Nessuno può immaginare quanto papi sia sensibile. Pensi che gli sono stata vicinissima quando è morta, di recente, la sorella Maria Antonietta. Gli dicevo che soltanto io potevo capire il suo dolore. (...) [Da grande vorrò fare] la showgirl. Mi interessa anche la politica. Sono pronta a cogliere qualunque opportunità. (...) Preferisco candidarmi alla Camera, al parlamento. Ci penserà papi Silvio". Nel racconto di Noemi c'è la narrazione di un rapporto diretto, intenso con il presidente del Consiglio. Che le fa tre regali per il 16°, 17° e 18° compleanno. Quindi, si può concludere, Berlusconi ha conosciuto Noemi quindicenne. Nel loro rapporto non c'è alcun ruolo o presenza dei genitori. Noemi non vi fa alcun riferimento e non è corretta dalla madre, presente al colloquio con Angelo Agrippa del Corriere del Mezzogiorno. Berlusconi ha tentato di ridimensionare il legame con la minorenne: "Ho incontrato la ragazza due o tre volte, non ricordo, e sempre alla presenza dei genitori". I genitori non hanno ancora confermato le parole del premier. Durante l'incontro con il giornalista, la signora Anna Palumbo - madre di Noemi - interviene soltanto per specificare le circostanze in cui Berlusconi ha conosciuto suo marito, Benedetto "Elio" Letizia. Dice: "[Berlusconi] ha conosciuto mio marito ai tempi del partito socialista. Ma non possiamo dire di più". Noemi non è così evasiva quando affronta una delle questioni decisive per questa storia. E' addirittura esplicita. Ella ritiene di poter ottenere da Berlusconi l'opportunità di fare spettacolo o, in alternativa, di essere eletta in parlamento. Televisione o scranno a Montecitorio. Le aspettative di Noemi, sollecitate dalle attenzioni (o promesse) di Berlusconi, sono in linea con le riflessioni critiche di farefuturo, il think tank di Gianfranco Fini ("Le donne non sono gingilli") e della signora Lario ("Ciarpame senza pudore"). Quando e dove e come si sono conosciuti Berlusconi e Benedetto Letizia è un altro enigma di questa storia che raccoglie versioni successive e contraddittorie. A Varsavia Berlusconi dice: "[Benedetto] lo conosco da anni, è un vecchio socialista ed era l'autista di Craxi". (Ansa, 29 aprile, 16:34) Quando la circostanza è subito negata da Bobo Craxi ("Cado dalle nuvole. L'autista di mio padre si chiamava Nicola, era veneto, ed è morto da qualche anno", Ansa, 29 aprile, 16:57), Palazzo Chigi con un imbarazzato ritardo di venti ore, smentisce a sua volta: "Si rileva che il presidente Berlusconi non ha mai detto che il signor Letizia fosse autista dell'on. Bettino Craxi" (Ansa, 30 aprile, 12:30). Dal suo canto, Letizia non vuole ricordare in pubblico come e dove e quando ha conosciuto Berlusconi. Chi lo interroga raccoglie soltanto parole vuote. "Volete sapere come ho conosciuto Berlusconi? Va bene, ve lo dico, però allora vi racconto anche come ho conosciuto tutte le persone che conosco...". (Corriere, 10 maggio) In qualche altra occasione, il rifiuto di Letizia a raccontare il primo incontro con il futuro premier è ancora più categorico: "Non ho alcuna intenzione di farlo" (Oggi, in edicola il 6 maggio) Anche Noemi non ha voglia di offrire rievocazioni: "Non ricordo i particolari [di come è nato il contatto familiare], queste cose ai miei genitori non le ho chieste. Non è che si siano incrociati sul lavoro: mio padre è un dipendente comunale...". (Repubblica, 29 aprile) Un ricordo vivo del primo incontro tra Berlusconi e Letizia sembra averlo Arcangelo Martino, un ex assessore socialista al comune di Napoli, oggi vicino al partito del presidente del Consiglio. "Fra il 1987 e il 1993 sono stato grande amico di Bettino Craxi. Tutti i mercoledì andavo a trovarlo a Roma all'hotel Raphael, una consuetudine. Mi accompagnava sempre qualcuno del mio staff e quel qualcuno era quasi sempre Elio Letizia (...) Parecchie volte è capitato che al Raphael ci fosse Silvio Berlusconi. E' lì che ho presentato i due che poi hanno fatto amicizia". (Corriere della sera, 10 maggio). Il ricordo di Arcangelo Martino è sconfessato con nettezza ancora una volta da Bobo Craxi. "Escludo categoricamente che il signor Letizia fosse un habitué dell'hotel Raphael (...) Lo stesso Martino credo che sia passato qualche volta a salutare mio padre". (Repubblica, 11 maggio) Chiara anche la smentita di uomini che furono accanto al leader socialista: Gianni De Michelis ("Mai sentito nominare Letizia"); Gennaro Acquaviva ("Mai sentito nominare Letizia, neanche dai napoletani"); Giulio Di Donato ("Questo signor Letizia, nel panorama napoletano e campano dei socialisti, non esisteva, a mia memoria"). Ancora più efficace la contestazione di Stefano Caldoro: "Proprio nei primi anni novanta, abitavo al Raphael tutte le volte che mi fermavo a Roma. Si scherzava sulla intraprendenza di Martino (...) ma escludo categoricamente di aver mai visto e sentito che questo Letizia venisse presentato a Craxi. Perché mai l'avrebbero dovuto presentare? Non era un dirigente, non era un esponente del sociale, non era un militante" (Ancora Repubblica, 11 maggio 2009). L'occasione dell'incontro tra Berlusconi e Letizia è ancora da chiarire. Come i tempi della decisione del presidente del Consiglio di partecipare alla festa di compleanno di Noemi. Al Corriere della sera, 4 maggio, così Berlusconi ha spiegato la sua presenza a Napoli: "Racconto come è andata veramente. Quel giorno mi telefona il padre, un mio amico da tanti anni. E quando sa che in serata sarei stato a Napoli, per controllare lo stato di avanzamento del progetto per il termovalorizzatore, insiste perché passi almeno un attimo al compleanno della figlia. La casa è vicina all'aeroporto. Non molla. Io non so dir di no. Eravamo in anticipo di un'ora e ci sono andato. Nulla di strano, è accaduto altre volte per compleanni e matrimoni". Berlusconi, dunque, partecipa alla festa per un atto di affetto nei confronti di Elio Letizia. Non si parla di Noemi né di altra necessità politica o urgenza di altra natura. Diversa la versione offerta, lo stesso giorno (4 maggio) alla Stampa: "Suo padre, che conoscevo da tempo, mi ha telefonato per chiedermi se lasciavo fuori Martusciello (Flavio, consigliere regionale del PdL) dalle liste per le Europee, io gli ho spiegato che avrei cercato di mettere sia l'ex-questore Malvano (Franco, già candidato a sindaco di Napoli) sia Martusciello e che stavo arrivando a Napoli per dare una spinta ai contratti per i nuovi termovalorizzatori che sono frenati dalla burocrazia. A quel punto lui mi ha interrotto e mi ha detto: "Stavi venendo a Napoli? Io stasera festeggio il diciottesimo compleanno di Noemi, perché non vieni con un brindisi, lo facciamo in un locale poco distante dall'aeroporto. Ti prego vieni sarebbe il più bel regalo della mia vita". Così ci sono andato...". Berlusconi aggiunge qualche dettaglio in più nel solco di questa versione, il 5 maggio, durante Porta a Porta: "Ero al salone del Mobile della Fiera di Rho, imbarazzato per i cori "Meno male che Silvio c'è”, "Magico" e il capitano dell'elicottero mi ha detto che era in arrivo entro mezz'ora un temporale che ci avrebbe costretto ad andare in macchina a Linate. Per questo siamo partiti in anticipo e [visto il tempo a disposizione, prima di] una riunione politica che avevo in serata [con il ristorante a soli tre minuti dall'aeroporto] sono entrato..." Anche questa ricostruzione trova delle evidenze che la contraddicono. Berlusconi giunge a Napoli con un regalo per Noemi, "cerchi concentrici in oro rosa arricchiti da una cascata di diamanti bianchi montati su oro bianco, 6mila euro, il ciondolo è anche nella collezione di Sophia Loren" (Gente, 19 maggio). Si è molto discusso di questa circostanza che, al contrario, non pare molto significativa: il presidente potrebbe aver a bordo del suo aereo dei cadeaux da distribuire secondo necessità. Più interessante è che l'aereo di Berlusconi giunga a Napoli con un'ora di anticipo rispetto all'inizio della festa e il presidente attenda nell'aeromobile per un'ora prima di muoversi ed entrare "cinque minuti dopo l'arrivo in sala di Noemi" (Annozero, 7 maggio). Secondo la testimonianza di un fotografo, ingaggiato dal patron del ristorante "Villa Santa Chiara", si sapeva da sabato 25 aprile dell'arrivo del premier e, in ogni caso, la "bonifica" della sala da parte della polizia è stata predisposta già nella mattinata, "alle 15", per alcune fonti del Dipartimento di sicurezza. (Repubblica, 9 maggio). Sembra di poter dire che non c'è stato alcun cambio di programma a Rho nel tardo pomeriggio di domenica 26 aprile. La partecipazione alla festa di Noemi era già nell'agenda del presidente da giorni, come dimostrano la "bonifica", l'attesa in aereo, l'arrivo nel ristorante subito quasi contestualmente all'ingresso della diciottenne come per un copione precedentemente preparato. C'è un'ultima contraddizione da sciogliere. La scelta o indicazione delle "veline" da candidare è stata opera di Berlusconi? A Porta a Porta, 5 maggio, il presidente del Consiglio sostiene di non aver messo becco nella candidature europee: "Le candidature per le Europee non sono state gestite direttamente dal premier. Ad occuparsene sono stati i tre coordinatori del PdL Bondi, La Russa e Verdini che "da migliaia di segnalazioni sono giunti a 500 schede" per individuare i 72 candidati si sono orientati secondo le indicazioni del congresso, spazio ai giovani e alla donne. Tra questi candidati nessuna è qualificabile come velina" (resoconto delle parole del premier a Porta a porta, 5 maggio, tratto dal Giornale, 6 maggio). Berlusconi ammette però di avere discusso con Elio Letizia (non è un dirigente del PdL né, che si sappia, un iscritto al partito) le candidature di Malvano e Martusciello e per farlo lo raggiunge addirittura a Napoli alla festa di sua figlia. La circostanza appare contraddittoria e, senza altre spiegazioni, inverosimile. Il rosario di incoerenze che si incardina sulla questione politica posta da farefuturo e dalla signora Lario (come Berlusconi seleziona le classi dirigenti) sollecita di rivolgere a Berlusconi dieci domande:
1. Quando e come Berlusconi ha conosciuto il padre di Noemi Letizia, Elio?
2. Nel corso di questa amicizia, che il premier dice "lunga", quante volte si sono incontrati e dove e in quale occasioni?
3. Ogni amicizia ha una sua ragione, che matura soprattutto nel tempo e in questo caso - come ammette anche Berlusconi - il tempo non è mancato. Come il capo del governo descriverebbe le ragioni della sua amicizia con Benedetto Letizia?
4. Naturalmente il presidente del Consiglio discute le candidature del suo partito con chi vuole e quando vuole. Ma è stato lo stesso Berlusconi a dire che non si è occupato direttamente della selezione dei candidati, perché farlo allora con Letizia, peraltro non iscritto né militante né dirigente del suo partito né cittadino particolarmente influente nella società meridionale?
5. Quando Berlusconi ha avuto modo di conoscere Noemi Letizia?
6. Quante volte Berlusconi ha avuto modo di incontrare Noemi e dove?
7. Berlusconi si occupa dell'istruzione, della vita e del futuro di Noemi. Sostiene finanziariamente la sua famiglia?
8. E' vero, come sostiene Noemi, che Berlusconi ha promesso o le ha lasciato credere di poter favorire la sua carriera nello spettacolo o, in alternativa, l'accesso alla scena politica e questo "uso strumentale del corpo femminile", per il premier, non "impoverisce la qualità democratica di un paese" come gli rimproverano personalità e istituzioni culturali vicine al suo partito?
9. Veronica Lario ha detto che il marito "frequenta minorenni". Al di là di Noemi, ci sono altre minorenni che il premier incontra o "alleva", per usare senza ironia un'espressione della ragazza di Napoli?
10. Veronica Lario ha detto: "Ho cercato di aiutare mio marito, ho implorato coloro che gli stanno accanto di fare altrettanto, come si farebbe con una persona che non sta bene. E' stato tutto inutile". Geriatri (come il professor Gianfranco Salvioli, dell'Università di Modena) ritengono che i comportamenti ossessivi nei confronti del sesso, censurati da Veronica Lario, potrebbero essere l'esito di "una degenerazione psicopatologica di tratti narcisistici della personalità". Quali sono le condizioni di salute del presidente del Consiglio?
La sentenza: "Lecite le dieci domande di Repubblica a Berlusconi". Anche in appello i giudici danno torto al leader di Forza Italia: "Fondate su fatti veri, strano se nessuno le avesse fatte", scrive Liana Milella il 4 settembre 2016 su "La Repubblica". "Lecite". "Fondate su fatti veri". Motivate "dal pubblico interesse dei cittadini a conoscere di quale reputazione godesse all'estero Berlusconi quando era a capo del governo". In quegli anni - siamo nel giugno 2009 quando Giuseppe D'Avanzo, su Repubblica, pone all'allora premier le famose 10 domande sui casi Noemi e Ruby - "sarebbe stato strano se, alla luce di ciò che stava accadendo, nessuno le avesse fatte". Di più: quelle domande rispondevano "a un interesse di rango elevato, sicuramente tutelato dalla Costituzione, perché avevano come oggetto notizie che potevano concorrere a definire le scelte politiche individuali". I giudici della Corte di Appello di Roma - il presidente Roberto Reali, i consiglieri Lucio Bochicchio e Riccardo Scaramuzzi - danno ragione a Repubblica e torto a Berlusconi che aveva chiesto un milione di euro per la pubblicazione "reiterata e ossessiva" delle 10 domande e per un articolo di Giampiero Martinotti che raccontava come i giornali stranieri (Nouvel Observateur, Independent, Figaro, Daily Telegraph) descrivessero "il libidinoso Silvio". In una sentenza motivata in 11 pagine il collegio rigetta l'appello del capo dell'allora Pdl e conferma la sentenza di primo grado favorevole a Repubblica. Le tesi di Berlusconi vengono bocciate come del tutto infondate, sia in fatto che in diritto. Fu una grande battaglia di cronaca politica quella del 2009, quando, proprio grazie a Repubblica, prima si scoprì che Berlusconi aveva partecipato alla festa di compleanno dell'allora diciottenne Noemi Letizia, e poi arrivarono le durissime parole di Veronica Lario, moglie del premier, che annunciava di "non poter stare con un uomo che frequenta minorenni". Qualche mese ed ecco esplodere a Milano il caso Ruby, la giovane protagonista delle feste ad Arcore del Cavaliere, e a Bari il caso D'Addario, con le rivelazioni della escort portata a Roma dall'imprenditore Tarantini per altre feste di Silvio. In quel contesto nascono le 10 domande che, scrivono adesso i giudici romani, "non erano spuntate dal nulla, ma nascevano da avvenimenti assolutamente veri che rendevano leciti i dubbi alla base delle stesse domande". Un contesto che "abilitava qualsiasi giornalista, soprattutto se dedito alla cronaca politica, a formulare al primo ministro i quesiti in questione". Berlusconi, nella sua azione civile, bolla quelle domande come "capziose e suggestive". Ma l'ex premier ha torto perché, come scrivono i giudici, "è lecito che una testata giornalistica reiteri domande su circostanze di grande importanza anche politica sul personaggio che guida la nazione". Nessuna responsabilità, ma anzi un merito, per Ezio Mauro, che in quegli anni dirigeva Repubblica, e che Berlusconi ha citato in giudizio. Ha fatto il suo mestiere come Martinotti quando ha riferito le critiche della stampa straniera, non inventandosi nulla ma riferendo puntualmente i contenuti di quegli articoli e ha dato conto di "un giudizio che veramente si stava diffondendo sul capo del governo italiano sulle pubblicazioni estere". In una parola, Repubblica ha fatto corretta cronaca politica, quindi non ha colpe di sorta verso Berlusconi.
Berlusconi risponde alle 10 domande. Affidata a Vespa la replica a Repubblica. Nel libro di Vespa, Berlusconi replica ai dieci quesiti con cui da mesi il giornale di De Benedetti cerca di delegittimarlo. Mai frequentato minorenni, ho una salute di ferro e non sono ricattabile. Mai pensato al Quirinale, meglio Gianni Letta, scrive Vincenzo La Manna, Venerdì 6/11/2009, su “Il Giornale”. Uno, due, tre, quattro... centotrentadue giorni. Uno dopo l’altro. Un tormentone in atto dal 26 giugno, che risparmia le edicole solo il 16 agosto: causa «stop alle rotative» nel dì di Ferragosto. Ma tant’è. Una, due, tre... dieci domande. Parliamo degli ormai arcinoti quesiti di Repubblica, rivolti ogni santa mattina a Silvio Berlusconi, con tanto di manchette in bella vista sull’edizione cartacea. Un martellamento strategico, a corredo di un attacco mediatico sulla vita privata del premier, portato avanti da inizio estate dal quotidiano di Ezio Mauro. Ebbene, forse ci siamo, forse sarà presto acqua passata. Chissà. Perché il Cavaliere, se non a tutti, quantomeno a otto punti interrogativi su dieci, in realtà, ha già risposto. A Bruno Vespa però - come anticipato nei giorni scorsi da Dagospia -, per il suo Donne di cuori, da oggi in libreria. E non certo direttamente al giornale di largo Fochetti, che ha citato in giudizio proprio per quelle domande, considerate «retoriche e palesemente diffamatorie», riproposte di continuo. Già. «Berlusconi risponde di fatto a quasi tutte le domande che gli erano state rivolte nei mesi scorsi da Repubblica», fa sapere l’autore del libro in uscita oggi. Che non a caso aggiunge: «Il presidente del Consiglio non ha ritenuto opportuno un dialogo, sia pure mediato, con il quotidiano romano», ecco perché Vespa ha «riformulato alcune domande che erano state peraltro via via rilanciate anche da esponenti dell’opposizione». Ecco, di seguito, il virtuale botta e risposta a distanza.
1) Quando ha avuto modo di conoscere Noemi Letizia? Quante volte ha avuto modo di incontrarla e dove? Ha frequentato o frequenta altre minorenni? «Non avuto alcuna relazione con la signorina Noemi e a riguardo si sono dette e scritte soltanto calunnie», ribadisce subito il premier, stoppando così la polemica nata per la sua partecipazione alla festa di Casoria, organizzata per festeggiare i suoi diciotto anni. Vespa, tra l’altro, ricorda che il libro «ricostruisce le quattro occasioni in cui il presidente del Consiglio ha detto di aver visto la ragazza napoletana, sempre in presenza di altre persone». A seguito del clamore mediatico, la moglie del capo del governo, Veronica Lario, annunciò la richiesta di divorzio.
2) Qual è la ragione che l’ha costretta a non dire la verità per due mesi, fornendo quattro versioni diverse per la conoscenza di Noemi? In Donne di cuori non vi sarebbe alcuna risposta a riguardo. Non si sa se Vespa abbia o no formulato questa domanda.
3) Non trova grave che lei abbia ricompensato con candidature e promesse di responsabilità le ragazze che la chiamano “papi”? «Non posso trovare grave ciò che non esiste. Ho proposto incarichi di responsabilità soltanto a donne con un profilo morale, intellettuale, culturale e professionale di alto livello». Un punto fermo, questo, rilanciato più volte, a onor del vero, anche durante la campagna elettorale per le elezioni Europee.
4) Lei si è intrattenuto con una prostituta la notte del 4 novembre 2008. Sono decine le “squillo”, secondo le indagini, condotte nelle sue residenze. Sapeva fossero prostitute? «Sulla D’Addario debbo ribadire che c’era una cena con molte persone organizzata dalle militanti dei club “Forza Silvio” e “Meno male che Silvio c’è”. All’ultimo momento ci si infilò anche Tarantini con due sue ospiti». (In una precedente anticipazione del libro, il Cavaliere aveva risposto così).
5) È capitato che “voli di Stato” senza la sua presenza a bordo, abbiano condotto nelle sue residenze le ospiti delle sue festicciole? «La magistratura ha già archiviato la pratica al riguardo ed io non ho mai utilizzato “voli di Stato” in modo non lecito», è la replica affidata al conduttore di Porta a porta, che ricorda come il presidente del Consiglio «fu anche sospettato di aver messo a disposizione di persone invitate alle sue cene in Sardegna aerei di Stato senza la sua presenza». E poi, aggiunge Berlusconi, «ho cinque aerei privati che posso utilizzare in qualunque momento».
6) Può dirsi certo che le sue frequentazioni non abbiano compromesso gli affari di Stato? Può rassicurare il Paese che nessuna donna, sua ospite, abbia oggi in mano armi di ricatto? «La risposta vale per oggi come per il passato, in quanto io non mi sono mai lasciato ricattare da nessuno, né mi sono mai comportato in modo per cui un simile evento si potesse verificare. Quando nei miei confronti sono state avanzate richieste che secondo il giudizio mio e dei miei legali si configuravano come ricattatorie (vedi il caso Zappadu, ndr), mi sono immediatamente rivolto all’autorità giudiziaria». Tanto per essere chiari, come già fatto trapelare martedì, «nessuno dispone di “armi di ricatto” nei miei confronti».
7) Le sue condotte sono in contraddizione con le sue politiche: lei oggi potrebbe ancora partecipare al Family Day o firmare una legge che punisce il cliente di una prostituta? Anche in questo caso, come al punto 2, il quesito rimane al momento inevaso. Non si sa se il giornalista abbia o no formulato una domanda simile.
8) Lei ritiene di potersi ancora candidare alla presidenza della Repubblica? E, se lo esclude, ritiene di poter adempiere alla funzione di presidente del Consiglio? «Non ho mai pensato di candidarmi alla presidenza della Repubblica», riferisce Berlusconi, pronto invece a rilanciare il nome del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta, come avvenuto più volte in passato. «Come molti ricorderanno - prosegue nel corso dell’intervista per il libro di Vespa - ho ripetutamente indicato a titolo di suggerimento, affinché dal Parlamento possa essere compiuta la scelta migliore, un candidato che ritengo sia il migliore in assoluto».
9) Lei ha parlato di un «progetto eversivo» che la minaccia. Può garantire di non aver usato né di voler usare intelligence e polizie contro testimoni, magistrati, giornalisti? «I violenti attacchi contro di me, sempre avulsi da ogni attinenza alla realtà e frutto solo di preconcetta ostilità, sono sotto gli occhi di tutti. Ma non ho certo mai pensato di impiegare queste risorse contro alcuno. Solo menti distorte e disoneste possono pormi una simile domanda, immaginandosi comportamenti che probabilmente sarebbero i loro se si trovassero al mio posto».
10) Alla luce di quanto emerso in questi mesi, quali sono, signor presidente, le sue condizioni di salute? «A questa domanda rispondono i fatti. Da quella data a oggi le mie condizioni di salute, a parte un fastidioso torcicollo ormai debellato e la scarlattina che ho avuto a fine ottobre, sono infatti quelle che mi hanno permesso di proseguire e completare sedici mesi di fittissimi impegni, che per brevità così riassumo: 170 incontri internazionali, 25 vertici multilaterali, 9 vertici bilaterali, 80 conferenze stampa, 66 consigli dei ministri, 91 interventi e discorsi pubblici a braccio. Cosa avrei fatto se non fossi stato ammalato?».
«Facciamo un po’ di sana provocazione estremista, quelle che mandano in bestia tutti e specialmente nella sinistra codarda moralmente. Basta con la favola del povero Sud angariato dalla malavita cui è estraneo. Il Sud è esso stesso il terreno di coltura e della complicità con la malavita, mafia, camorra e ‘ndrangheta (senza trascurare la Sacra Corona Unita pugliese) e ovunque il Sud sia emigrato nel mondo, dalla Lombardia all’Australia, dall’Argentina agli Stati Uniti, là ha portato anche (non soltanto, ma anche) le uova della mafia. Oggi la mafia organizza e promuove turpi fiaccolate antimafia e così facendo si protegge coperta da una sinistra codarda moralmente, incapace di denunciare lo stato delle cose e che preferisce fingere che la colpa sia sempre di altri. Così la mafia stravince e controlla l’Italia. L’appuntato D’Avanzo a domanda NON risponde.»
CASO MITROKHIN: DA PAOLO GUZZANTI 10 DOMANDE A "LA REPUBBLICA". 10 DOMANDE 10 A GIUSEPPE D’AVANZO, PER VEDERE L’EFFETTO CHE FA. Tre anni fa moriva a Londra Alexander Litvinenko. “La Repubblica” organizzò una serie di interviste devastanti che risultarono poi false e smentite dagli intervistati ancora vivi (Bukovsky e Gordievsky), scrive Paolo Guzzanti il 22 novembre 2009. Quanto a Litvinenko non poté smentire nulla, benché la pretesa intervista fosse vecchia di quasi due anni, perché era appena morto. D’Avanzo da allora impartisce severe lezioni di etica giornalistica nel suo buffo italiano ed è l’autore del tormentone delle 10 domande a Berlusconi su “papi” e Casoria. Ora, a tre anni dalla doppia tragedia che vide l’assassinio sia di Alexander Litvinenko che della Commissione Mitrokhin, Paolo Guzzanti e Gabriele Paradisi pongono le loro 10 domande a D’Avanzo. E vogliono vedere se il severo moralista reagirà comportandosi come Silvio Berlusconi, tacendo e facendo finta di niente, oppure se risponderà seguendo i propri sbandierati canoni etici. Siamo curiosi. (Adnkronos 22 novembre 2009) – A tre anni dalla morte di Alexander Litvinenko avvenuta a Londra il 23 novembre 2006, l’ex presidente della Commissione parlamentare Mitrokhin, Paolo Guzzanti, autore di "Il mio agente Sasha", e Gabriele Paradisi, blogghista e autore del libro inchiesta "Periodista, dì la verdad", pongono sul blog “Rivoluzione Italiana” (paologuzzanti.it) – dieci domande a Giuseppe D’Avanzo di Repubblica. “Nelle domande da noi poste a D’Avanzo -spiega Guzzanti- si documenta che le interviste pubblicate su Repubblica tre anni fa e sulle quali si è fondato il massacro della Commissione Mitrokhin, sono state smentite dagli intervistati (senza che i lettori di Repubblica ne sapessero nulla) e quella a Litvinenko, raccolta due anni prima ma pubblicata dopo la sua morte, è’ priva di qualsiasi elemento di autenticità”.
Dieci domande a Giuseppe D’Avanzo di Repubblica. È giunto il tempo, tre anni dopo, di tirare le somme. Bisogna annotare con cura le bugie ascoltate; interrogarsi sulle ragioni dei troppi silenzi; afferrare il filo rosso che da una storia [l’assassinio di Alexander Litivinenko] mi ha condotto a un’altra [le interviste di Carlo Bonini e Giuseppe D’Avanzo a Alexandr Litvinenko, Evgenij Limarev, Oleg Gordievskij e Vladimir Bukovskij] e in un’altra ancora [la scoperta che di quelle interviste non esisteva registrazione audio] fino alla soglia di una quarta [le vibranti smentite degli intervistati mai pubblicate su “Repubblica”]. In tutto questo tempo Giuseppe D’Avanzo ha scritto una serie di articoli offrendo ai lettori lezioni di giornalismo e lamentandosi dello stato dell’informazione in Italia. Parole sante. Ecco, dopo aver letto pochi giorni fa l’ennesima lezione di giornalismo, animato dalla sua stessa ricerca di verità e trasparenza, vorrei porre anch’io 10 quesiti a Giuseppe D’Avanzo.
Premessa. Carlo Bonini e Giuseppe D’Avanzo, a partire dal 26 novembre 2006, ovvero tre giorni dopo la tragica morte di Aleksandr Litvinenko, avvelenato con una dose di polonio 210 il 1º novembre, furono gli autori di una serie di articoli pubblicati su Repubblica incentrati sulla morte del defezionista russo riparato in Gran Bretagna e sulla Commissione parlamentare d’inchiesta concernente il “dossier Mitrokhin” e l’attività d’intelligence italiana, che aveva indagato dal luglio 2002 al marzo 2006 sulle attività dei servizi dell’est nel nostro paese. Se l’archivio online di Repubblica non m’inganna, non risulta che prima di quella data i due giornalisti di punta del quotidiano romano si fossero mai occupati della vicenda Mitrokhin e dei lavori della relativa Commissione parlamentare. Tant’è. Il primo articolo, un colloquio con Alexandr Litvinenko risalente al 3 marzo 2005, è introdotto dalla precisazione che “per espressa volontà dell’ex colonnello, [l'incontro] è interamente “on the record”. Eccone la trascrizione”. Tuttavia, come Carlo Bonini ebbe a scrivermi per e-mail “L’intervista non venne incisa su nastro ma da me “stenografata” e quindi trascritta integralmente il giorno stesso sul mio computer portatile”: in poche parole non era “on the record”, non esisteva un testo scritto controfirmato da Alexandr Litvinenko, non erano riportate nemmeno le domande poste all’intervistato. Tutto questo contrariamente alle abitudini di Bonini e D’Avanzo, i quali, in una deposizione di fronte ai magistrati torinesi il 20 febbraio 2001 riguardante la vicenda Telekom Serbija, avevano spiegato il loro “metodo” di lavoro abituale impiegato nelle vicende di una certa delicatezza. Queste le parole esatte: «In effetti, secondo il nostro metodo, la registrazione, avvenuta in Belgrado il 12 febbraio, venne trascritta, venne redatta l’intervista che era naturalmente fedele al testo registrato e venne poi inviata all’intervistato, data la delicatezza della questione» (il Giornale, 29 settembre 2003). Non solo, nei virgolettati riferibili alle parole di Litvinenko si riscontrano alcune evidenti incongruenze: Litvinenko dichiara di non aver “mai sentito parlare di Prodi”: falso. Ne aveva sentito parlare dal generale Anatolij Trofimov nel 2000 e, oltre ad averne parlato con diverse persone, lo riferì addirittura in un video nel febbraio 2006 e lo scrisse di suo pugno in russo il 13 gennaio 2004. Litvinenko dichiara di aver deciso di concedere quell’intervista perché deluso dal fatto che “sul giornale di Berlusconi” era apparso il suo nome come collaboratore della “Commissione Mitrokhin”: falso. Il fatto risale al 2006, e non al 2005, quando cioè Bonini e D’Avanzo dicono di aver intervistato Litvinenko. La seconda intervista, pubblicata su Repubblica lo stesso 26 novembre 2006, è ad Evgenij Limarev, anche questa risale al 2005 (21 e 22 febbraio). Limarev, come Litvinenko, era un contatto di Mario Scaramella e, secondo quanto dichiarato da lui stesso in seguito, era una fonte anche di Repubblica. L’intervista a Limarev conteneva accuse se possibile ancora più pesanti di quelle di Litvinenko, tanto che il ministro dell’Interno Giuliano Amato, il 27 novembre 2006, ordinò un’ispezione interna al suo Ministero per appurare se veramente agenti di polizia, carabinieri o funzionari del Sisde avessero mai collaborato illegalmente con il presidente della “Commissione Mitrokhin” Paolo Guzzanti. L’indagine del ministro Amato accertò la totale infondatezza delle accuse di Limarev e lo stesso Limarev, in una dichiarazione “on the record” raccolta da Paolo Guzzanti e pubblicata online, ritrattò buona parte di quelle affermazioni. C’è poi una terza intervista, pubblicata il 7 dicembre 2006, è al colonnello Oleg Gordievskij. Anche di questa intervista non esiste registrazione su nastro e anche in questo caso le parole attribuite a Gordievskij vennero seccamente smentite dall’interessato in una sua e-mail inviatami direttamente (e da me girata per conoscenza a Bonini e D’Avanzo). La Repubblica non ha mai dato notizia di questa smentita. La quarta ed ultima intervista della serie, pubblicata il 9 dicembre 2006, è quella a Vladimir Bukovskij. Anche di questa non esiste registrazione. Il 9 febbraio 2007 Vladimir Bukovskij inviò una lunga e-mail a Carlo Bonini, e per conoscenza anche a me, nella quale contestava punto per punto le affermazioni che Bonini e D’Avanzo gli avevano attribuito. La sua smentita non fu mai pubblicata. Infine, l’11 gennaio 2007, Bonini e D’Avanzo scrissero un articolo intitolato: “Ecco il falso dossier su Prodi che Scaramella preparava a settembre”, nel quale si lasciava intendere che nel PC di Mario Scaramella, arrestato il 24 dicembre 2006 con l’accusa di calunnia nei confronti di un agente ucraino dell’SVR di nome Aleksandr Talik, fosse stato rinvenuto un file-dossier contro Romano Prodi realizzato dallo stesso Scaramella nel settembre 2006 (quindi a Commissione Mitrokhin chiusa). Emerse successivamente che quel documento in realtà era stato redatto da Evgenij Limarev e che Scaramella lo aveva salvato sul suo computer senza apporvi correzioni o aggiungervi considerazioni personali. In quello stesso articolo Bonini e D’Avanzo dichiararono “circostanza falsa” l’informazione contenuta nel file scritto da Limarev e recuperato dagli inquirenti sul PC di Scaramella secondo la quale loro avrebbero cominciato a raccogliere informazioni su Mario Scaramella e Paolo Guzzanti prima che Litvinenko fosse avvelenato (novembre 2006). Tuttavia sappiamo che entrambi si erano recati a Londra per intervistare Litvinenko proprio su Guzzanti e Scaramella già nel marzo 2005 ed avevano intervistato Limarev sugli stessi argomenti nel febbraio dello stesso anno.
Ecco quindi le 10 domande a Giuseppe D’Avanzo:
1) Perché lei e Bonini scriveste che il colloquio con Alexandr Litvinenko era «per espressa volontà dell’ex colonnello, interamente “on the record”» quando invece non lo era?
2) Perché non esiste registrazione di nessuna delle vostre interviste a Litvinenko, Limarev, Gordievskij e Bukovskij quando invece lei ebbe modo di spiegare in dettaglio che è vostra abitudine farlo regolarmente quando si tratta di argomenti delicati?
3) Perché le interviste a Evgenij Limarev e ad Alexandr Litvinenko furono raccolte rispettivamente nel febbraio e marzo 2005, ma vennero pubblicate solo dopo la morte di Alexandr Litvinenko, a 21 mesi di distanza? Perché non pubblicaste quelle interviste esplosive (nelle quali si facevano affermazioni pesanti sulle modalità di lavoro e sulle finalità della “Commissione Mitrokhin”) quando la Commissione era ancora in pieno svolgimento e, secondo le informazioni in vostro possesso, attivamente impegnata a minacciare la sicurezza dello Stato?
4) Perché non pubblicaste quelle interviste quando, il 3 aprile 2006, il deputato inglese al Parlamento Europeo Gerard Batten presentò all’assemblea una richiesta di indagine a carico di Romano Prodi (ex presidente della Commissione Europea) per via di suoi presunti legami con il KGB? Le ricordo che la fonte dell’accusa era proprio Aleksandr Litvinenko e che in quello stesso mese di aprile 2006 si sarebbero tenute in Italia le elezioni politiche (9 e 10 aprile).
5) Perché, il 19 novembre, quando si era ormai diffusa sui media italiani la notizia che Litvinenko era morente, decideste di non pubblicare quella testimonianza e attendeste invece il 26 novembre, quando Litvinenko era già morto da tre giorni?
6) Perché non pubblicaste le secche smentite di Oleg Gordievskij e Vladimir Bukovskij su quanto era stato loro attribuito nelle vostre interviste e perché il vostro direttore Ezio Mauro, da me interpellato in merito, avallò questa decisione?
7) Quando Litvinenko vi confidò di aver scelto di testimoniare a Repubblica il suo disagio nei confronti della Commissione Mitrokhin – perché sul “giornale di Berlusconi” era stata incautamente rivelata la sua collaborazione con la “Commissione Mitrokhin” – fu Litvinenko a leggere nella sfera di cristallo ciò che sarebbe accaduto l’anno dopo, o foste voi, che, col senno di poi, quando due anni dopo decideste di pubblicare l’intervista, trovaste opportuno arricchirla di questa motivazione?
8) Perché dopo che la pubblicazione della vostra intervista a Evgenij Limarev aveva originato un’ispezione del ministero dell’Interno, quando (il 24 gennaio 2007) si appurò l’assoluta infondatezza delle accuse di Limarev contro Guzzanti e Scaramella non vi premuraste di onorare il codice deontologico e non tornaste direttamente sulla notizia ammettendo che l’informazione fornitavi da Limarev era risultata falsa?
9) Perché quando venne alla luce che il “dossier” su Romano Prodi che avevate attribuito alla mano di Mario Scaramella in realtà era stato redatto da Evgenij Limarev, consulente anche di Repubblica, non vi premuraste di informarne i vostri lettori? E per quale ragione in quell’articolo faceste di tutto per radicare nell’opinione pubblica la convinzione che la calunnia di cui era accusato Scaramella fosse nei confronti di Prodi quando sapevate bene che non era così?
10) Perché, sempre nell’articolo del gennaio 2007, dichiaraste “circostanza falsa” l’affermazione di Limarev secondo cui lei e il suo collega Bonini avevate cominciato a raccogliere informazioni su Mario Scaramella e Paolo Guzzanti prima della morte di Litvinenko se, come invece sappiamo, vi eravate recati a Londra per sentire Litvinenko proprio su Guzzanti e Scaramella già nel marzo 2005 ed avevate intervistato Limarev nel febbraio dello stesso anno?
Paolo Guzzanti già Presidente della Commissione Parlamentare Bicamerale sul dossier Mitrokhin, autore de “Il mio agente Sasha – L’assassinio di Litvinenko e della Commissione Mitrokhin”, Aliberti Editore, maggio 2009, pp. 458
Gabriele Paradisi fondatore e direttore del blog “Cieli limpidi”, autore di “Periodista, di la verdad! – Controinchiesta sulla Commissione Mitrokhin, il caso Litvinenko e la repubblica della disinformazione”, Giraldi Editore, Bologna, 2008, pp.324.
BERLUSCONI E COMPANY: L’ESERCITO DEI CAVALIERI.
Da Berlusconi a D’Alema, da Formigoni a Gianni Letta: ecco l’esercito dei Cavalieri. Politici, banchieri, militari ma anche boss mafiosi fra i membri dei sette misteriosi ordini religiosi che il Vaticano e lo Stato italiano riconoscono. E che generano potere e relazioni trasversali alla società. Tra spade, croci e mantelle si celano i misteri della storia del nostro Paese, scrive Carlo Tecce il 13 luglio 2013 su "Il Fatto Quotidiano". Non sappiamo quanti sono, i Cavalieri, religiosi, militari o laici. Sappiamo che gli ordini riconosciuti sono sette. Il Vaticano ne custodisce quattro, tre fanno riferimento al Sommo pontefice. Per lo Stato italiano ne esistono tre e quelli esterni al colonnato di San Pietro, forse, sono i più agguerriti. Hanno mitologie, tradizioni, simbolismi e rituali che se non fanno pensare ai tempi massonici vuole dire che siete di fronte a un plagio d’autore.
San Gregorio Magno: Masi, Sarmi e Di Paola. Il collo va osservato. Nudo vuol dire povero. Il ricamo deve brillare, argento vivo. E il collo, pavoneggiante, deve sovrastare l’uniforme di panno verde, distesa sui pantaloni sempre di panno verde e velata di un fascione ancora d’argento. E lo spadino deve luccicare d’acciaio e i paramani devono incrociare simboli mistici, religiosi, esoterici. Così puoi riconoscere il Cavaliere di Gran Croce o il semplice Commendatore detto Commenda, eredi di quel gruppo di “personalità eminenti” che papa Gregorio XVI volle riunire dal 1 settembre 1831 per plasmare l’Ordine di San Gregorio Magno, il secondo per blasone in Vaticano, l’unico che rievochi la Legion d’Onore di Napoleone. Così, soltanto così, fra medaglioni rossi con santini e decorazioni militari d’impatto emotivo, puoi capire perché, in un salone rinascimentale e non certo in caverna, l’ex direttore generale Rai, Mauro Masi, potrebbe brindare con l’ex sottosegretario Paolo Peluffo. E l’amministratore delegato di Poste Italiane, Massimo Sarmi, potrebbe chiacchierare con il collega-fratello Arturo De Felice, il poliziotto a capo dell’Antimafia e l’ex ministro e ammiraglio, Giampaolo Di Paola. Benedetto XVI ha ringraziato e reclutato anche Gabriello Mancini, presidente della fondazione Monte dei Paschi di Siena. Mancini era stato generoso, la Fondazione aveva donato denaro utile e i giochetti contabili erano sacri, poteva e doveva entrare. Capita, al nunzio apostolico e persino al pontefice di sbagliare o di confondere i buoni e i cattivi. Un’inchiesta di qualche anno fa, a Napoli, mise insieme, vicini nei rapporti pubblici e privati, camorristi, poliziotti e imprenditori e una corrente di informazioni riservate perché c’era un Commendatore, che poteva sapere, chiedere e ottenere. In nome di San Gregorio Magno. Perché la gloria, che si manifesta con placche d’oro massiccio appese al petto, non passa soltanto per i posteri. Un alfiere di papa Gregorio XVI può domare piazza San Pietro a cavallo e può dormire il sonno eterno in una chiesa. Ma l’estremo privilegio fu concesso anche al boss Renatino De Pedis.
Costantiniano di San Giorgio: “Mons. 500 euro” e Berlusconi. Il labaro di Costantino, l’imperatore. La spada a forma di croce, vita o morte. La missione, proteggere la Chiesa. La beneficenza, poveri e malati. Un patrimonio di 600 milioni di euro, case e terre. E il sovrano, il Principe Carlo di Borbone e Due Sicilie, Duca di Castro. Militari religiosi, monsignori e politici, giuristi e burocrati: l’Ordine costantiniano di San Giorgio ha il piacere di includere per il vizio di escludere. Il circolo unisce don Nunzio Scarano, arrestato, che voleva importare 20 milioni di euro con un elicottero privato e l’intermediario Giovanni Caranzio. Non poteva mancare Silvio Berlusconi, e chissà se rispettò l’investitura e reclinò il capo per accogliere il mantello di velluto che si stringe con un collare d’oro. L’ex ministro Franco Frattini ha penato anni prima di poter ricevere, e poi sfoggiare, la feluca di feltro nera che si rivolge al Signore con un tripudio di piumette di struzzo color petrolio. La croce deve battere in petto, sempre, per avere addosso il peso di un compito storico, rivoluzionario e mitologico, un miscuglio di tradizione, rituali e deviazioni elitarie. A Napoli quel tipo di cintura e quel tipo di guanti fanno alzare la livella che rende uguali. Il cardinale Crescenzio Sepe, che gestiva bene il patrimonio immobiliare di Propaganda Fide e male le inchieste che l’hanno reso inquieto, detiene un posto, ma per un diritto più partenopeo che ecclesiale, più borbonico che vaticano. E di riflesso, per ragioni istituzionali, il governatore Stefano Caldoro. E per origini napoletane, l’ex prefetto Francesco La Motta, arrestato per i fondi al Viminale. Ma la Sicilia, la gamba mediterranea, non va mai trascurata. Anche Totò Cuffaro, ora in galera per mafia, ebbe l’onore di poter indossare i pantaloni di un blu fra la prugna e il curacao farciti di galloni in filo d’oro di 38 millimetri. I Cavalieri di Grazia o di Gran Croce hanno accolto il mite Corrado Calabrò (ex garante Agcom) che scrive poesie e l’inossidabile Pasquale De Lise, che non scrive poesie, ma ha occupato tante poltrone. Il presidente emerito Francesco Cossiga, appassionato di soldati e crociati, aeroplani (miniatura) e servizi (segreti), ne era affascinato.
Piano di Pio IX: Guardie svizzere per Bobo. Umberto Bossi non si piegherà, non si potrà mai genuflettere dinanzi al delfino ingrato che, per supremo desiderio di Benedetto XVI, fu nominato Cavaliere del Sacro Ordine Piano, il più antico, il più ambito e il più esclusivo. Roberto Maroni va chiamato eccellenza e merita il saluto d’onore di guardie svizzeree gendarmi impettiti. Quando attraversa il colonnato di San Pietro, discendente di quella corte laica e non armata che volle Pio IX il 17 giugno 1847, Bobo deve indossare lo stellone a otto punte che sostituisce la croce, una fascia rossa e azzurra, rigida perché sottoposta al blasone di una placca che segnala il grado: oltre l’oro non c’è nulla. I Cavalieri portano al petto uno scudetto che racchiude il motto ottocentesco: virtus et merito e la sigla Pius IX. Il prestigio non ha eguali, superiore per tradizione e benefici, Maroni potrebbe passeggiare per il Vaticano e ricevere l’attenzione e il riguardo che spetta ai vescovi o ai cardinali. Il fascismo aveva ottenuto il riconoscimento pontificio – fra i primi ci furono Benito Mussolini e Galeazzo Ciano – ma Pio XII soppresse la dote nobiliare che poteva far elevare per sempre le squadracce nere perché si poteva tramandare per generazioni. Il Sacro Ordine Piano ospita il presidente della Repubblica italiana, Francesco Cossiga, che ne fu molto lusingato, seguirono Oscar Luigi Scalfaro, Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano. Le istituzioni di più stretta osservanza politica non venivano ammesse, però il governo di Silvio Berlusconi ha conquistato tante stelle e tante medaglie: il Cavaliere per antonomasia, ovvio, poi Gianni Letta, Franco Frattini e Gianfranco Fini. Ma fu Massimo D’Alema a rompere l’embargo per i politici.
San Silvestro Papa: Boss e imbarazzi. Quando fu arrestato per associazione mafiosa, ‘ndrangheta esportata in Lombardia, il presunto boss Giulio Lampada chiamò a testimoniare il primo ministro vaticano, il segretario di Stato, il riflesso politico di Benedetto XVI, il cardinale Tarcisio Bertone. Il salesiano, qualche anno prima (2009), aveva firmato la nomina di Lampada a Cavaliere per l’Ordine di San Silvestro Papa, la categoria che premia i cattolici che eccellono con l’arte musicale, pittorica, scultoria e che, condizione irrinunciabile, servono con benevolenza la Chiesa cattolica. L’imprenditore Lampada gestiva una sala giochi. L’onorificenza vaticana non viene conferita senza un’istruttoria interna che verifichi meriti e qualità morali. L’Ordine di San Silvestro Papa, istituito nel 1841 da Gregorio XVI, rivisitò la Milizia Aurata, subì riforme e correzioni finché Giovanni Paolo II introdusse il rango di dame e legittimò la presenza femminile. Il pontefice arruola i Cavalieri e li governa, soltanto l’erede di San Pietro può essere il Gran maestro. L’uniforme è abbastanza spoglia, seppur la decorazione sia vistosa e preziosa. La croce di Malta contiene una raggiera d’oro e un medaglione con l’effigie di San Silvestro, il protettore. I colori ricorrenti sono il rosso e il nero. Furono ammessi i luogotenenti dei Carabinieri, Roberto Lai e Fiorenzo Leandri; l’ex ministro Sergio Berlinguer, cugino di Enrico; Roberto Paolo Ciardi, storico.
Santo Sepolcro: La mafia e Contrada. Il conte Goffredo di Buglione liberò Gerusalemme, ma la crociata non è mai finita. L’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme, fra leggende e furori, deve proteggere la città santa e onorare Cristo. Un compito che spettò persino a Licio Gelli, la mente P2, che poteva offrire un elaborato apprendistato massonico. Sono militari e testimoni: “Il 17 giugno del 1099 l’esercito dei crociati – si legge sul sito ufficiale – dopo aver conquistato le città di Nicea e Antiochia, giunse a Gerusalemme, governata a quel tempo da Iftiker ad Daula, a capo di una guarnigione di arabi e sudanesi. Gerusalemme era ben fortificata, i crociati avevano scarse riserve d’acqua e non erano abituati al caldo della Palestina, che peraltro affrontavano vestiti di pesanti armature. Per poter espugnare la città, i crociati dovettero costruire delle enormi macchine da guerra in legno che consentirono loro di penetrare in Gerusalemme tra il 14 e il 16 luglio”. Il Vaticano e l’Italia riconoscono l’ordine laico nazionale che gestisce 60 parrocchie, 45 scuole, alleva 18.000 studenti e coccola 900 insegnanti, fa opera di carità e, in passato, faceva tanti errori. Vent’anni fa, il collaboratore di giustizia Vincenzo Calacaro dichiarò: “’Mi fu detto che si erano riuniti elementi della Cupola palermitana, tra cui Mariano Agate e zu Totò (Riina, ndr) ed elementi dell’ordine di Santo Sepolcro (a cui sono iscritti uomini d’onore di spicco). Anche monsignor Marcinkus faceva parte di quest’ordine. Mi fu spiegato che il Papa voleva fare dei cambiamenti che avrebbero danneggiato non solo ambienti del Vaticano, ma anche interessi di Cosa Nostra. Ambienti del Vaticano ovviamente corrotti e collusi con Cosa Nostra”. Negli anni Novanta, a Palermo, si chiacchiera tanto dei custodi del Santo Sepolcro. C’erano avvocati, magistrati e malavitosi. Anche Bruno Contrada, numero 2 del Sisde, ne faceva parte. L’anno scorso, poco prima di lasciare l’incarico e divenire emerito, papa Benedetto XVI nominò Gran maestro il cardinale americano O’Brien. I Cavalieri del Santo Sepolcro, alfieri che possono e devono proteggere la Terra Santa, si distinguono per un collare e la tipica mantella bianca con la croce rossa.
Cavalieri di Malta: Le poltrone in Vaticano. Il Sovrano militare ordine ospedaliero di San Giovanni di Gerusalemme di Rodi e di Malta ha la fortuna di non essere una propaggine vaticana. E fa nulla che Ernst von Freyberg, costruttore di fregate militari, sia il presidente dell’Istituto per le Opere religiose e un gran dignitario di un ordine internazionale che celebra la carità. L’inglese Mattew Festing, ex maresciallo in campo al servizio di sua maestà, fu ricevuto con gli onori istituzionali da Renato Schifani, allora presidente del Senato. E non c’è mai una convenzione sanitaria fra gli italiani e i maltesi che non abbia un brindisi di buon augurio. Così pare normale che la Guardia Costiera doni all’ordine una motovedetta in disuso, può sempre tornare utile. E ancora non sorprende che Silvio Berlusconi, grazie a sapienti suggerimenti di Gianni Letta, non mancasse mai a un pranzo dei Cavalieri. Fra i quasi 12mila affiliati che per il mondo offrono assistenza sanitaria, senza praticare troppo la teoria di volontariato, c’è anche Roberto Formigoniche ottenne l’agognata fascia per “l’instancabile attività, soprattutto in politica estera, di interventi umanitari”. L’ex governatore lombardo si commosse: “Voglio esprimere la mia gratitudine, so bene il significato di questa investitura”. E chissà se Formigoni sia un Cavaliere di giustizia, di onore e devozione, di grazia magistrale o un semplice donato di classe. Il mantello nero fa la differenza, i politici e i burocrati sgomitano per averlo. Ogni tanto, a ritmo regolare, c’è un’inchiesta che manda in galera furbacchioni che mettono in scena la cerimonia solenne. Anche la ballerina romena Ramona Badescu fu raggirata. Qualche anno fa, Bobo Craxi rivelò che i maltesi potevano aiutare suo padre Bettino, prima di morire in latitanza: “Ringrazio Andreotti perché si prodigò per far rientrare in patria mio padre: tentò di fargli avere un passaporto dell’Ordine dei Cavalieri di Malta e ne parlò con Ciampi”. Il patrono è il cardinale Paolo Sardi, un porporato di primissimo livello. I Cavalieri, che “difendono la fede”, sono invincibili perché a volte sono religiosi, a volte sono laici, a volte sono entrambe le cose. Da Il Fatto Quotidiano del 13.07.2013
DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
«Berlusconi aveva assunto lo stalliere Vittorio Mangano per far entrare Cosa Nostra dentro la sua villa. Il patto sancito in una cena a Milano alla quale avevano partecipato lo stesso Cavaliere e diversi esponenti della criminalità organizzata siciliana». Le motivazioni (pesantissime) della condanna d'appello per Dell'Utri. «E' stato definitivamente accertato che Dell'Utri, Berlusconi, Cinà, Bontade e Teresi (tre mafiosi) avevano siglato un patto in base al quale l'imprenditore milanese avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a Cosa nostra per ricevere in cambio protezione (...)». E poi: «Vittorio Mangano non era stato assunto per la sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi e i suoi familiari e come presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore». Sono parole pesantissime quelle che i giudici della terza sezione penale della Corte di appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui Marcello Dell'Utri è stato condannato il 25 marzo 2013 a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Parole pesanti verso lo stesso Dell'Utri, che «tra il 1974 e il 1992 non si è mai sottratto al ruolo di intermediario tra gli interessi dei protagonisti», e «ha mantenuto sempre vivi i rapporti con i mafiosi di riferimento», ma anche verso l'ex premier dato che Dell'Utri viene definito «mediatore contrattuale» del patto tra Cosa Nostra e lo stesso Berlusconi. Secondo i giudici, «è stato acclarato definitivamente che Dell'Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e Cinà (mafioso siciliano) a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con Berlusconi». «In tutto il periodo di tempo in oggetto (1974-1992) Dell'Utri ha, con pervicacia, ritenuto di agire in sinergia con l'associazione e di rivolgersi a coloro che incarnavano l'anti Stato, al fine di mediare tra le esigenze dell'imprenditore milanese (Silvio Berlusconi) e gli interessi del sodalizio mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale dell'associazione», è scritto poi nelle motivazioni. Dell'Utri quindi è «ritenuto penalmente responsabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, della condotta di concorso esterno in associazione mafiosa dal 1974 al 1992» e la sua personalità «appare connotata da una naturale propensione ad entrare attivamente in contatto con soggetti mafiosi, da cui non ha mai mostrato di volersi allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative gli aveva dato una possibilità di farlo» .
Per i magistrati è più utile considerare Berlusconi un mafioso, anziché considerarlo una vittima dell’inefficienza dello Stato che non sa difendere i suoi cittadini. Una vittima che è disposta ai compromessi per tutelare la sicurezza dei suoi affari e della sua famiglia.
Corruzione, le carte dell'inchiesta Tangenti in cassette di sicurezza e a casa le sentenze da ricopiare. Tra i documenti sequestrati, il ricorso di Berlusconi contro Bankitalia. Per i pm, i giudici del Consiglio di Stato avrebbero accontentato le richieste di politici e manager, scrive Fiorenza Sarzanini il 22 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera". Sentenza di accoglimento del ricorso di Silvio Berlusconi contro il provvedimento di Bankitalia che imponeva la cessione delle quote di Mediolanum. È uno dei documenti sequestrati per ordine dei magistrati romani a casa del funzionario di Palazzo Chigi Renato Mazzocchi, indagato per riciclaggio e corruzione. E tanto basta per capire quale direzione abbia imboccato l’inchiesta sulla «rete» di faccendieri e politici sospettati di aver «aggiustato» numerosi processi. Ma anche di aver pilotato appalti, assunzioni e nomine. Altre mazzette sono state trovate nella cassaforte di uno degli imprenditori arrestati il 4 luglio scorso durante il blitz del Nucleo Valutario della Guardia di Finanza. Secondo il giudice sono i «fondi neri» accantonati per pagare le tangenti necessarie ad ottenere le proroghe di un appalto dell’Inps. Sono svariati i filoni di indagine aperti dal procuratore aggiunto Paolo Ielo e dal sostituto Stefano Fava. E tutti si concentrano sui contatti e i legami di Raffaele Pizza e Alberto Orsini, ritenuti le «menti» dell’organizzazione che poteva contare sulla disponibilità di politici, manager e magistrati che avrebbero accontentato le loro richieste in cambio di soldi. L’ultimo riguarda proprio l’operato dei giudici del Consiglio di Stato. Oltre ai 247 mila euro conservati nelle confezioni di spumante, Mazzocchi aveva nella propria abitazione numerose sentenze del Consiglio di Stato. Alcune sono «segnate» con appunti e «post it». Ma il sospetto maggiore riguarda il fatto che oltre agli originali (che potrebbero anche essere state scaricati dal sito internet) nei fascicoli custoditi dal funzionario c’erano anche le «minute», cioè le bozze. E dunque bisognerà scoprire in che modo si sia procurato i documenti, quali contatti abbia con i giudici di palazzo Spada e soprattutto quali compiti gli siano stati affidati dal parlamentare Ncd Antonio Marotta (indagato per associazione per delinquere, corruzione e traffico d’influenza) al quale era legato da un rapporto stretto. Anche tenendo conto che un paio di anni fa Mazzocchi avrebbe collaborato, seppur saltuariamente, proprio con uno dei magistrati amministrativi di secondo grado. Alcune sentenze non contengono l’indicazione delle parti, altre sono invece complete. La più importante è certamente quella emessa nel marzo scorso per rispondere al ricorso di Silvio Berlusconi. Dopo la condanna definitiva a quattro anni nel processo per i diritti Tv, Bankitalia impose al Cavaliere di cedere «la propria quota in Mediolanum oltre il 9,9 per cento, ovvero il 20 circa, che valeva circa 1 miliardo di euro». Era il 7 ottobre 2014. Secondo Palazzo Koch Berlusconi non era più in possesso dei «requisiti di onorabilità» necessari per essere soci al 10 per cento in un gruppo bancario e dunque doveva cedere una parte del proprio patrimonio che Fininvest poteva conferire in un trust per poi vendere. Il leader di Forza Italia decise di ricorrere al Tar, ma gli fu dato torto. Non si arrese e presentò una nuova istanza al Consiglio di Stato. Quattro mesi fa i giudici (presidente Francesco Caringella, estensore Roberto Giovagnoli) gli danno ragione, accogliendo la tesi secondo cui le quote erano già detenute prima del passaggio dal sistema assicurativo a quello bancario. Adesso sarà Mazzocchi a dover chiarire come mai custodiva tutta la documentazione — anche riservata — relativa a quel pronunciamento, da chi l’abbia avuto e soprattutto a quale scopo. E diverse spiegazioni dovrà fornirle Roberto Boggio, l’imprenditore titolare della «Transcom WorldWide» che ha ottenuto l’appalto per la gestione del call center dell’Inps nel maggio 2010 ed è indagato per emissione di fatture false per oltre 210 mila euro. Nella sua cassetta di sicurezza «presso la Banca di Credito Bergamasco, Agenzia 1, sono stati trovati contati pari a 77.880 euro». Secondo le indagini Boggio ha «subappaltato fittiziamente una parte del lavoro alla “Dacom Service”». Scrive il giudice nella convalida del sequestro dei soldi: «Dagli accertamenti bancari è risultato che il beneficiario finale delle rimesse provenienti dalle società è Raffaele Pizza per l’interessamento da questi manifestato per assicurare a Boggio le proroghe dell’appalto, sino all’ultima, in scadenza a giugno 2016». Adesso si sta cercando di scoprire con chi — all’interno dell’Inps — Pizza abbia diviso le «mazzette».
PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.
La sentenza contro il Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).
Frasi senza soggetto, punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio anche per la lingua italiana. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella autentica dettatura delle motivazioni a pag.183: «Deve essere infine rimarcato che Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione della difesa Agrama della dichiarazione a non doversi procedere per prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità. quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante subordinate transitano sul foglio. «...ad una affermazione di responsabilità di Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti...». Eppoi, affiorano, «le prove sono state analiticamente analizzate». O straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento delle prove compito dai due gradi di merito..» E poi, nello scorrere delle 208 pagine della motivazione, ci trovi i «siffatto contesto normativo», gli «allorquando», gli «in buona sostanza», che accidentano la lettura. Ed ancora la frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...». Linguaggio giuridico? Bene anch’io ho fatto Giurisprudenza, ed anch’io mi sono scontrato con magistrati ed avvocati ignoranti in grammatica, sintassi e perfino in diritto. Ma questo, cari miei non è linguaggio giuridico, ma sono gli effetti di un certo modo di fare proselitismo.
LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.
LA FAMIGLIA ESPOSITO
Le strane relazioni del giudice che ha condannato Silvio Berlusconi, scrive “Libero Quotidiano”. C'è una famiglia di imprenditori di Cassino, in provincia di Frosinone, in guerra con la magistratura da trent'anni. Loro, come spiega Giacomo Amadori su Libero in edicola oggi, sono Vincenzo Gabriele Terenzio, 62 anni, e il figlio Luigi, 41 anni. Sono stati arrestati e processati diverse volte. Tra prescrizioni ed assoluzioni hanno sempre evitato la galera. "Sono vicini alla camorra", dicono i magistrati. I reati? Truffa, evasione fiscale, bancarotta. Ma soprattutto l'accusa di rapporti con la criminalità organizzata. Nel luglio 2013, la Corte d'Appello di Roma ha confermato la confisca dei beni del 2009 e del 2011: un tesoro da circa 150 milioni di euro. Ora si attende la conferma del sequestro da parte della Suprema Corte. Tra i beni confiscati diversi immobili, terreni, imbarcazioni, auto e rapporti bancari. Secondo la Dia, i Terenzio, nel corso degli anni hanno movimentato la bellezza di "76 milioni di euro a fronte di redditi minimi". Il figlio Luigi, il membro più facoltoso, risulta dipendente della società svizzera Az Fashion: stipendio di 10mila euro lordi. Insomma, la storia dei Terenzio è costellata da guai giudiziari, e sulla stessa storia si allunga l'ombra lunga della criminalità organizzata. La famiglia, oggi, si è stabilita sulle rive del lago di Lugano. La Svizzera, dunque, da cui comunque continuano ad intessere la loro rete di rapporti. Ed è proprio spulciando tra le relazioni dei Terenzio che spunta il nome di Claudio D'Isa, 65 anni, di Piano di Sorrento: nel 2013 fece parte della sezione feriale che condannò Silvio Berlusconi nel processo Mediaset (per inciso, D'Isa fu più volte corteggiato dal Pd per candidarsi a sindaco di Sorrento). Claudio D'Isa avrebbe conosciuto i Terenzio tramite il figlio Dario, avvocato e imprenditore. Da quella che era una vicenda giudiziaria nacque un'amicizia, tanto che Luigi Terenzio e Dario D'Isa, dopo la sentenza Mediaset, trascorsero insieme le vacanze estive. Un legame scivoloso, insomma, quello tra la famiglia del giudice D'Isa e una famiglia di pluriinquisiti e arrestati, sospettati di rapporti con la criminalità organizzata. Un rapporto che Claudio D'Isa - intervistato da Libero in edicola oggi - cerca di ridimensionare. Eppure sul nostro quotidiano riportiamo testimonianze che raccontano di un quadro ben differente. Un rapporto difficile da giustificare, per D'Isa, sempre in prima linea contro la criminalità organizzata, tra presentazioni dei libri di Antonio Ingroia a e lezioni nei licei sorrentini. A una di quelle lezioni, nel 2013, attaccò Berlusconi poiché aveva criticato Roberto Saviano. Durante quella lezione, al fianco di Claudio D'Isa, era seduto Antonio Esposito, il presidente di quella sezione feriale di Cassazione che pochi giorni prima aveva condannato Berlusconi. Proprio quell'Esposito finito al centro delle polemiche per aver anticipato le motivazioni della condanna al quotidiano Il Mattino.
Esposito, da Antonio a Vitaliano: una famiglia di toghe tra gaffe e scivoloni, scrive “Libero Quotidiano”. Una famiglia spesso in prima pagina, e non sempre in buona luce. Quella degli Esposito è una storia fatta di toghe, giustizia, scivoloni e gossip. Il più famoso è ormai Antonio Esposito, presidente della sezione feriale della Cassazione (nonché alla guida dell'Ispi) che lo scorso agosto condannò Silvio Berlusconi al processo sui diritti tv Mediaset e che, pochi giorni dopo, anticipò le motivazioni di quella sentenza in una improvvida conversazione con un abile cronista del Mattino. Inevitabili il polverone delle polemiche e le accuse di parzialità del collegio giudicante, anche perché un testimone riferì di presunti commenti contro Berlusconi rilasciati in libertà dal giudice durante una cena. Pare probabile che il Csm voglia archiviare il caso senza procedere a sanzioni disciplinari. La figuraccia, in ogni caso, resta, con tanto di richiamo del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in quelle caldissime settimane di fine estate 2013, alla "continenza" per chi di mestiere fa il giudice. Le bucce di banana per la Esposito family non finiscono qui: l'ultimo a inciamparci è il figlio di Antonio, Ferdinando Esposito. Pubblico ministero a Milano, risulta indagato a Brescia e a Milano in seguito alle accuse di un suo amico avvocato, che sostiene di avergli prestato soldi e di essere stato "pressato" per pagargli l'affitto di casa. Prima ancora, era finito al centro del gossip per un incontro con Nicole Minetti (sotto processo per il Rubygate) avvenuto in un prestigioso ristorante milanese nel 2012. L'altro ramo della famiglia è altrettanto prestigioso: Vitaliano Esposito, fratello di Antonio, è stato Procuratore generale della Cassazione. Sempre sul finire dello scorso agosto è stato "paparazzato" in spiaggia nel suo stabilimento abituale ad Agropoli, nel Cilento. Piccolo particolare: lo stabilimento era abusivo. Foto imbarazzante, invece, per sua figlia Andreana Esposito, giudice alla Corte europea dei diritti dell'Uomo. Un po' di clamore aveva suscitato lo scatto da lei pubblicato sui social network (e poi cancellato in fretta e furia) in cui esibiva una maglietta decisamente inappropriata per una toga: "Beato chi crede nella giustizia perché verrà... giustiziato", slogan che aveva messo in allarme lo stesso Cavaliere, che di lì a qualche mese si sarebbe rivolto proprio alla Corte europea per vedere ribaltata la sentenza stabilita dallo zio di Andreana. Un corto circuito da barzelletta.
Qualcuno potrebbe definirla una famiglia “particolare” scrive “Libero Quotidiano”. Al centro c'è Antonio Esposito, giudice della Corte di Cassazione che in una telefonata-intervista al Mattino anticipò le motivazioni della condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset. E che in più occasioni è stato “pizzicato” da testimoni a pronunciare frasi non proprio di ammirazione nei confronti del Cavaliere. Poi c'è la nipote Andreana, che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui i legali di Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza emessa dalla Cassazione. Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata da Esposito potrebbe essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di Andreana, che come scrive, mercoledì 28 agosto, su Libero Peppe Rinaldi, è stato fotografato mentre prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di Agropoli, nel Cilento. Il problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a indagini, interpellanze, ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso che Vitaliano Esposito, ex procuratore generale della Cassazione, non sappia di mettersi a mollo in uno stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua insaputa). Infine, della famiglia fa parte anche Ferdinando Esposito, Pubblico Ministero a Milano, che tempo fa finì sotto indagine del Csm (che poi archiviò) per le cene a lume di candela del giudice (ma va, anche lui?) in Porsche con Nicole Minetti, allora già imputata per istigazione alla prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio Fede.
Una famiglia, gli Esposito, una delle tante dinastie giudiziarie, che non fosse altro dimostra come la magistratura sia una vera, autentica, casta.
Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia, i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730!!!
. E' stato condannato a 2 anni e 4 mesi l'ex pm di Milano Ferdinando Esposito, figlio del giudice Antonio Esposito, presidente del collegio che ha condannato Silvio Berlusconi nel processo Mediaset nel 2013, scrive "L'Ansa" il 6 luglio 2016. L'udienza del processo, con rito abbreviato, si è celebrata in mattinata al Tribunale di Brescia. Ferdinando Esposito era accusato di aver tentato di indurre l'avvocato Michele Morenghi e una dirigente immobiliare a sottoscrivere un contratto di affitto della sua abitazione attraverso una società facente capo ai due, dunque a pagargli l'affitto di casa. Esposito ha risposto anche dell'accusa di induzione nei confronti di un commercialista al fine di ottenere un prestito di denaro, allettandolo con la possibilità di presentargli magistrati che potessero poi affidargli incarichi come consulente. ''E' stata una decisione inattesa - ha dichiarato il legale di Esposito, l'avvocato Gian Piero Biancolella - perchè confligge con due decisioni emesse dal Gip e dal Tribunale del Riesame di Brescia, che avevano escluso nelle condotte tenute dal dottor Esposito un abuso della propria funzione e avevano ritenuto i fatti per cui oggi è stata emessa condanna penalmente irrilevanti. Leggeremo e poi presenteremo impugnazione''. Per il legale, l'ex pm di Milano sarebbe ''rimasto basito. Proprio in considerazione delle precedenti pronunce, non riteneva potesse essere pronunciata una sentenza di condanna''.
La commedia dei due Esposito. Gli altarini familisti di una sentenza berlusconicida, scrive Giuliano Ferrara il 25 Marzo 2015 su "Il Foglio". Il figlio pm del giudice di Cassazione che ha elaborato e letto il verdetto di condanna contro Berlusconi (parliamo dei due Esposito, come nelle commedie di Totò) soleva andare dall’imputato giudicato da suo padre a chiedergli di fargli fare carriera in politica, anche in pendenza del giudizio medesimo. La frode fiscale attribuita al padrone di Mediaset e statesman e outsider italiano, ma non ai suoi amministratori, come prezzo per un rifiuto o un’incapacità a promuovere il cursus honorum del figliolo? Ma no. Non vogliamo dire tanto. Ci vogliono le prove. Ci sono delle cravatte regalate dal Cav. al giovane Ferdinando, esplicite, durante i ripetuti colloqui eleganti ad Arcore, prima della condanna paterna, ma non c’è un Rolex. Ci sono le sue ammissioni esplicite, quelle di Ferdinando figlio di Antonio Esposito: volevo i pantaloni del politico e li ho chiesti a don Berlusconi, ma non se ne può inferire assolutamente che “poi ha provveduto paparino a vendicarmi” Quindi è tutto a posto. Salvo che noi in solitario su questo giornale abbiamo sempre chiamato quella sentenza, che contribuì alla storia politica italiana più della farsa detta processo Ruby, risoltasi in pochade voyueuristica, la “sentenza Esposito”. Et pour cause, miei cari. ARTICOLI CORRELATI C'è un giudice a Strasburgo La visita fiscale del giudice Esposito Nutro poche speranze nella stampa nazionale e nel funzionamento della giustizia, che stanno correndo appresso agli scatoloni pieni di soldi dell’ingegner Incalza e all’arsenale, un taglierino per il pesce giapponese, della mafia de Roma. A chi possiamo rivolgerci, noi del Foglio, che meriteremmo la presidenza della Cassazione honoris causa? Alla stampa straniera per esempio. Quei pecoroni se la sono bevuta tutta. Visto che l’Italia è borbonizzante, è molto diversa dalla giustizia newyorkese, dove te la puoi cavare se non ci sono prove stracerte anche se una cameriera ti denuncia per stupro e ti trovano il dna del tuo seme dieci minuti dopo nella tua stanza d’albergo, allora tutto è possibile. Così il culetto rotondo e ordinario e privato della signora El Marough e le ambizioni di un Ferdinando Esposito, bello a papà, vengono messe in secondo piano: c’era un delinquente a palazzo, e non si dica che la giustizia italiana è politicizzata. A parte i colleghi del Wall Street Journal, pochi si sono accorti di come è veramente fatta l’Italia o hanno fatto finta di non accorgersene perché in fondo è più comodo remare nelle galere con la canaglia degli schiavi. Dunque il primo di agosto di un anno e mezzo fa, regnante Enrico Letta con il conforto di Alfano e Lupi, Berlusconi viene condannato per frode fiscale (ed è se Dio vuole pendente un giudizio alla Corte europea di giustizia), condannato in simili illustri circostanze, da una magistratura figliante e paterna e cuginante. Il Cav. risorto dal caso Ruby e dal caso Fini-Montecarlo aveva quasi rivinto le elezioni del febbraio 2013, e impedito agli avversari di vincerle, aveva varato un secondo mandato al Quirinale e un governo di larga coalizione con il nipote del suo numero due. Ed ecco che già in agosto trovano il modo di dargli un altro colpo, che pensano decisivo, a lui e all’autogoverno degli italiani. Il gruppo della sussidiarietà, Letta e soci lupeschi, decide che di Berlusconi si può fare a meno, una squadretta ristretta è meglio di una maggioranza con lui. Ma hanno fatto i conti senza il Matteo, che li sgomina vincendo le primarie del Pd e andando a Palazzo Chigi con il patto per le riforme detto del Nazareno. Tutto, ma proprio tutto, dalla cacciata del capo del governo eletto nel 2011 allo sfascio della maggioranza possibile nel 2013, tutto è stato architettato da politici complici di una magistratura cugina e ferocemente personalizzata e politicizzata. Ora sono sconfitti i pregiudizi sulla furbizia orientale di Ruby e vengono allo scoperto gli altarini della sentenza Esposito, senza voler pensare male, senza per carità stabilire relazioni improprie. Il figliolo del Signor Giudice di Ultima Istanza aveva chiesto qualcosa che il Cav. non gli ha dato: una svolta politica e di carriera nella sua vita, da ottenere a mezzo di ripetute visite con cravatte in regalo. Chissà se i tanti cialtroni che hanno commentato gli eventi si sveglieranno dal torpore della loro intelligenza e della loro morale.
Un campionato truccato. La magistratura di sinistra è realtà: il pm indaga e propone, il suo compagno di corrente giudice dispone. Una anomalia che ormai si è radicata in tutti i livelli di giudizio, scrive Alessandro Sallusti, Lunedì 12/08/2013, su "Il Giornale". La magistratura di sinistra, ideologica e settaria, non è un'invenzione, o addirittura una paranoia, del berlusconismo. Nel corso degli anni le toghe rosse hanno seminato tracce documentali che le configurano come una setta a tratti segreta. Lo ammise anche Massimo Caprara, segretario particolare di Palmiro Togliatti e membro del comitato centrale del Pci. Nel 2005, testimoniando a Trento in un processo per diffamazione, Caprara svelò l'esistenza di un registro segreto di magistrati iscritti al Pci che era custodito a Mosca. Craxi, in tempi non sospetti, confidò di essere venuto a conoscenza di scuole del Pci per formare magistrati organici al partito e Cossiga, nel 1997, ascoltato dalla commissione stragi, sostenne che la magistratura occupava uno dei livelli della Gladio rossa, la struttura paramilitare e clandestina che doveva essere pronta a ribaltare lo Stato democratico. A metà degli anni Sessanta accadde un fatto nuovo, destinato a cambiare per sempre la giustizia italiana. Alcuni magistrati uscirono allo scoperto fondando, cosa senza precedenti in Paesi occidentali, una corrente ideologica di sinistra chiamata Magistratura democratica, alla quale aderì (e aderirà più tardi) la maggior parte dei pm e dei giudici italiani, poi protagonisti delle inchieste che azzerarono tutti i partiti meno il Pci (Tangentopoli) e più di recente della maggior parte dei 42 processi contro Berlusconi. Il Pm indaga e propone, il suo compagno di corrente giudice dispone. Chi è iscritto a Magistratura democratica fa politica, dichiara la sua fede e combatte apertamente le altre, partecipa a convegni e dibattiti per orientare scelte legislative, alcuni si fanno eleggere in Parlamento, ne abbiamo pure visto uno, Ingroia, fondare un partito e candidarsi premier contro i suoi inquisiti di centrodestra. Una anomalia che ormai si è radicata in tutti i livelli di giudizio. Nella corte che ha confermato il carcere per Berlusconi ben due giudici, De Marzo e Aprile, erano di area Md. Può un magistrato che dichiara la sua idea politica, e sostiene di volerla imporre, giudicare serenamente politici di segno opposto? È come se un giocatore arbitrasse la partita della vita della sua squadra. La partita sarebbe truccata a prescindere, come quella che ha visto in campo Berlusconi. E questo lo sa bene anche Napolitano, che da quel mondo viene.
Ecco la vera storia di «Md»: i giudici rossi che fanno politica. Così Magistratura democratica ha acquisito potere e condizionato le scelte dei partiti La regola sin dall'inizio: le toghe devono schierarsi e cercare il consenso della piazza, scrive Stefano Zurlo, Lunedì 12/08/2013, su "Il Giornale". Sono di sinistra e hanno accompagnato la storia della sinistra italiana. I giudici di Magistratura democratica sono diventati anche uno dei più famosi brand d'Italia da quando il Cavaliere ha dichiarato loro guerra. Forse, ingenuamente, qualche anima bella penserà che chiamarle toghe rosse sia una forzatura del nostro bipolarismo muscolare, ma non è così. O meglio, la storia di questa costola del potere giudiziario è un riassunto delle ideologie, degli ideali, delle ubriacature, dei condizionamenti e delle illusioni che hanno animato il versante della magistratura che da sempre ha coltivato ambizioni progressiste. Risultato: in un sistema malato, in cui le toghe sono divise in correnti e le correnti compongono una sorta di parlamento parallelo, Md è uno degli attori del sistema politico italiano. Inutile scandalizzarsi: in Italia, come ha spiegato a suo tempo Antonio Ingroia al Giornale, «la magistratura si concepisce per metà come corporazione per metà come contropotere». Ecco, Md è o dovrebbe essere, perché poi spesso è diventata il suo esatto contrario, il contropotere che si oppone alla presunta casta, coglie le sensibilità più profonde del Paese, cattura le esigenze e le istanze sociali più avanzate, capovolgendo gli equilibri reali dentro le istituzioni. Si può essere d'accordo o no, ma questo è un po' il senso dei tanti manifesti e proclami e documenti elaborati in questi lunghi anni dalle teste d'uovo della corrente. Citiamo, per esempio, Livio Pepino con il suo articolo Appunti per la storia di Magistratura democratica. Scrive il magistrato: «Che Magistratura democratica sia stata (sia) la sinistra della magistratura è noto e da sempre rivendicato». Questo l'incipit che toglie ogni ambiguità e fraintendimento. Certo, questo non vuol dire che i magistrati siano pedine del sistema dei partiti, dal Pci e dai suoi eredi a Rifondazione, ma indica comunque una precisa collocazione. Ma Pepino va ben oltre, verso la militanza attiva: «La rottura con il passato è radicale e gravida di conseguenze: ad una magistratura longa manus del governo, si addice, infatti, un modello di giudice burocrate e neutrale, mentre ad una magistratura radicata nella società più che nell'istituzione deve corrispondere un giudice consapevole della propria autonomia, attento alle dinamiche sociali e di esse partecipe». Eccolo qui il magistrato che si afferma come contropotere: questo giudice fugge dal Palazzo, inteso come luogo di conservazione e di stagnazione, e si mette in testa al popolo, ne guida le battaglie, lo conduce verso la liberazione, come nel celebre dipinto di Pellizza da Volpedo Il Quarto Stato. Si dirà che si tratta di suggestioni ma non è non è così. E Pepino, in quel testo, lo spiega fin troppo bene: «Il dogma dell'apoliticità si rovescia nel suo contrario». La magistratura fa politica. Appunto. Md fa politica, da sinistra. Anche se fuori dal parlamento e senza tessere. È tutto scritto e declamato nei sacri testi. Nei comizi. Nei convegni. Nelle controinaugurazioni dell'anno giudiziario. Nei pugni alzati, come al funerale di Ottorino Pesce, anima della sezione romana di Md, morto nel gennaio '70. È quasi cinquant'anni ormai che Md cerca la sua bussola nel grande arcipelago della sinistra. Talvolta soffrendo di collateralismo, talvolta cercando di dettare la linea al Pci-Pds e alle altre sigle della sinistra, oppure ancora spaccandosi al suo interno fra ortodossi e movimentisti e fra garantisti e giustizialisti. Se un giudice, per stare ancora a Pepino, fa a pezzi il modello basato sulla neutralità, sceglie «l'opzione di sinistra», testuale, «fa la sua scelta di campo», afferma il suo «sentirsi dalla parte dei soggetti sottoprotetti», fin dove si può spingere? Siamo su un piano inclinato su cui, sin dall'atto di fondazione del 27 luglio 1964, e poi attraverso la virata del 30 novembre 1969, si sono esercitate almeno due generazioni di toghe, con risultati che è difficile riassumere. Ma certo si tratta di alcuni dei nomi più noti della magistratura italiana: da Gian Carlo Caselli a Gerardo D'Ambrosio e a Gherardo Colombo, per rimanere fra Palermo e Milano, fra i processi alla cupola, ad Andreotti e a Dell'Utri e l'epopea di Mani pulite. E poi Livio Pepino, Vittorio Borraccetti, Elena Paciotti, Giuseppe Palombarini, autore del fondamentale Giudici a sinistra. Ma l'elenco è chilometrico. E molti i tornanti, le curve, le risse, le divisioni e le ricomposizioni, le diverse sottolineature. Qualcuno, brutalmente, ritiene che la parabola di Md sia quella di un movimento che porta aria fresca nelle ovattate stanze degli ermellini, rompe tabù, distrugge un vecchio e logoro apparato di relazioni elitarie, poi piano piano, di emergenza in emergenza, fra il terrorismo e tangentopoli, si appiattisce sulle posizioni giustizialiste. Quelli di Md, con dietro tutti gli altri, un tempo ribattezzati per la loro furia culturale gli iconoclasti, diventano i picconatori della Prima repubblica e poi del berlusconismo consegnando i santuari del potere ai postcomunisti. E così la sinistra vince in Italia passando per la scorciatoia della via giudiziaria, ma dopo essere stata sconfitta proprio sul piano delle idee, delle ideologie e degli ideali naufragati fra le macerie del Muro di Berlino. È la storia drammatica che Francesco Misiani racconta nel suo bellissimo La toga rossa. Una lunga cavalcata nelle contraddizioni dei magistrati rossi: dall'epoca dei processi popolari, cui il giovane e compiaciuto Misiani assiste in Cina, all'ubriacatura da manette ai tempi di Tangentopoli quando le tentazione di abbattere un sistema marcio entra a piedi uniti anche nelle aule di giustizia. Il matrimonio è arrivato nel grande braciere di Mani pulite, scrive "Il Giornale" il 27/11/2013. Un partito ormai svuotato, senza ideologia, ha sposato un'ideologia senza partito, ovvero Magistratura democratica, la corrente di sinistra delle toghe italiane. La corporazione ha orientato l'ago della sua bussola sull'antiberlusconismo, la sinistra si è accodata. Non è una fiction, ma il pensiero di un ex di Md, Sergio d'Angelo, oggi in pensione, ma per lunghi anni giudice a Milano. D'Angelo, dopo le tante giravolte e contorsioni dei colleghi, se n'è andato. E oggi consegna al Giornale un memoriale sul rapporto malato fra politica e giustizia.
Primavera '93. Nei lunghi corridoi dechirichiani della Procura di Milano incrocio il capo del Pool Gerardo D'Ambrosio, scrive Stefano Zurlo, Venerdì 29/11/2013, su "Il Giornale". Lui mi concede al volo un'intervista clamorosa: «Mani pulite è finita». Peccato che in quelle settimane Tiziana Parenti stia indagando sul cosiddetto fronte orientale di Tangentopoli. Impresa difficilissima, fra reticenze, silenzi, difese d'ufficio. Botteghe oscure resiste all'assalto dei pm milanesi. Qualche giorno dopo la Parenti, sempre più emarginata e destinata ad uscire da quel gruppo, me lo dirà apertamente: «La sua intervista mi ha delegittimato. Ho capito che non sarei andata da nessuna parte». Sono passati vent'anni, il Pci-Pds è passato indenne, o quasi, attraverso le forche caudine della magistratura di rito ambrosiano e ha assaporato il potere, salvo poi farselo portare via da un certo Silvio Berlusconi e avviarsi a recuperarlo, giusto l'altro ieri e cambiato ancora il nome, con l'estromissione del Cavaliere dal Senato. La battaglia politico-giudiziaria va avanti intrecciata e confusa. E proprio di quella stagione gloriosa e terribile, ancora oggi controversa, parla Sergio d'Angelo nella terza puntata del memoriale scritto in esclusiva per il Giornale. D'Angelo, che per molti anni è stato fra i membri di Magistratura democratica e Milano e ora è in pensione, lo sguardo critico e anche di più sullo specchietto retrovisore del suo passato, si sofferma proprio su quel periodo e fa scorrere le facce dei magistrati che, fra avvisi di garanzia e tintinnar di manette, hanno scritto un pezzo della nostra storia. Per D'Angelo è proprio in quei mesi che si realizza il matrimonio fra Md, insomma la costola sempre inquieta della sinistra in toga, e gli eredi del Partito comunista. Un partito senza ideologia, smarritosi sotto le macerie del Muro di Berlino, sposa un'ideologia senza partito, quella dei giudici che dagli anni Sessanta hanno elaborato una loro strategia per cambiare i rapporti di forza dentro il potere giudiziario e poi per entrare nei Palazzi della nomenklatura. La lunga marcia di Md, fra bandiere rosse pugni chiusi, si compie secondo d'Angelo, con «l'occupazione» del partito. Contemporaneamente, e se ne parlerà nella parte conclusiva del saggio, l'ideologia forte delle toghe forti -gli iconoclasti per usare un termine allora in voga - inizia a contaminare tutta la magistratura. Compatta conservatori e progressisti. E troverà la sua declinazione, quasi la sua colonna sonora, nell'antiberlusconismo. Fino all'epilogo drammatico di queste ore.
Da vent'anni è in corso una guerra tra magistratura e mondo politico, scrive "Il Giornale" il 01/12/2013. Il cuore del problema è la messe di privilegi cui la casta in toga non vuole rinunciare, grazie soprattutto agli eredi dell'ex Pci cresciuti all'ombra del giustizialismo propagandato dall'ala più massimalista di Magistratura democratica. L'ideologia senza partito di Md, che sogna di essere una delle colonne della lotta di classe, ha sposato un partito senza ideologia come il Pci-Pds-Ds-Pd per combattere chi aveva deciso di ostacolare il loro piano di potere: Bettino Craxi prima, Silvio Berlusconi poi. In mezzo c'è un Paese dilaniato tra le macerie.
ANTONIO GIANGRANDE, GABRIELLA NUZZI, SILVIO BERLUSCONI: LE RITORSIONI DEI MAGISTRATI.
IO, MAGISTRATO OLTRAGGIATA. Gabriella Nuzzi: Come si uccide un’inchiesta. Da Il Fatto Quotidiano del 6 Agosto 2010. "Ho scelto di percorrere in questi mesi la strada della riflessione e del silenzio. Non certo per timore, né per rassegnazione. L’esame introspettivo degli eventi consente di trovare soluzioni, le migliori possibili, per sé e per gli altri. Di fronte all’ingiustizia, e più di tutto se gli è inflitta, un magistrato, che sia davvero tale, non cerca vie di fuga, né comodi ripari. Perciò, ho continuato a credere nella magistratura e nel suo operato. La Grande Bugia della guerra tra le procure di Salerno e Catanzaro, creata ad arte per sottrarre a me e ai colleghi salernitani le inchieste sugli uffici giudiziari calabresi e privarci delle funzioni inquirenti, non può non trovare risposte giuridiche e giudiziarie. Macigni e ostacoli sulla verità. Quando il 2 dicembre 2008 furono eseguiti il sequestro probatorio del fascicolo “Why Not” e le perquisizioni ai magistrati che l’avevano gestito a colpi di stralci e archiviazioni, si accusarono i Pubblici ministeri salernitani di aver redatto provvedimenti “abnormi” ed eversivi, manifestando in tal modo “un’eccezionale mancanza di equilibrio, un’assoluta spregiudicatezza nell’esercizio delle funzioni ed un’assenza del senso delle istituzioni e del rispetto dell’Ordine giudiziario”. Con queste motivazioni, l’8 gennaio 2009, su proposta del capo dell’Ispettorato Arcibaldo Miller (coinvolto nello scandalo P3), il ministro della Giustizia Alfano richiese, in via d’urgenza, alla Sezione Disciplinare del Csm, presieduta da Nicola Mancino, l’applicazione di “misure cautelari” disciplinari nei miei confronti, del collega Verasani e del procuratore Apicella. Intervento preannunciato in Parlamento dal sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo (coinvolto nello scandalo P3) ai suoi amici di partito On.li Amedeo Laboccetta & C., che, in difesa dei calabresi, chiedevano la testa del dott. De Magistris e di noi altri suoi “sodali”. L’intero mondo politico-giudiziario, spalleggiato dalla grande “libera” stampa, che scatenò una tempesta mediatica, condannò la nostra scelta investigativa come un atto di “terrorismo giudiziario”, un attacco “senza precedenti” alle istituzioni democratiche, ispirato al perseguimento di fini personalistici e politici, di pericolosità tale da esigere una repressione esemplare e immediata. La Prima Commissione del Csm presieduta da Ugo Bergamo avviò il trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale, poi sospeso in attesa degli esiti disciplinari. L’Associazione Nazionale Magistrati accettò di buon grado l’epurazione, nell’illusione di una futura pace dei sensi. Dopo appena dieci giorni, con un processo da Santa Inquisizione, ci strapparono le funzioni inquirenti, allontanandoci dalla nostra Regione. Una cortina di silenzio e indifferenza s’innalzò intorno al “caso Salerno”. I magistrati calabresi inquisiti, autori del contro-sequestro del “Why Not”, instaurarono un procedimento penale a nostro carico e del dott. De Magistris, trasmettendolo poi alla Procura di Roma che, con l’Aggiunto Achille Toro (indagato sullo scandalo G8 Sardegna), si mise a investigare liberamente sulle nostre vite private, senza alcun fondamento. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione presiedute dal dott. Vincenzo Carbone (coinvolto nello scandalo P3) chiusero in gran fretta il capitolo disciplinare con una pronuncia sommaria, storico esempio di come sia possibile, in tema di etica giudiziaria, affermare tutto e il contrario di tutto. Si aprirono a nostro carico ulteriori procedimenti penali e disciplinari, branditi come clave, affinché ci sentissimo sotto perenne minaccia. Il 19 ottobre 2009, la stessa Sezione Disciplinare, su relazione dell’avv. Michele Saponara, accolse l’azione disciplinare promossa dal Procuratore generale della Cassazione Esposito, infliggendo a me e al collega Verasani la sanzione della perdita di anzianità (rispettivamente, sei e quattro mesi) e del trasferimento d’ufficio di sede e funzione. Non è stato facile resistere a tanta violenza morale. Una violenza frutto di arbitrio, che ha indecentemente calpestato ogni regola, senza arretrare neppure di fronte al riconoscimento giurisdizionale della legalità e necessità dei nostri comportamenti. La delegittimazione, l’isolamento, l’eliminazione sono metodi di distruzione mafio-massonici. E noi abbiamo pagato per aver osato far luce sulla massoneria politico-giudiziaria. Da allora, pazientemente, ho atteso che a parlare fossero i fatti. E i fatti, nel tempo, come tasselli di un incomprensibile puzzle, si stanno lentamente ricomponendo. Logge, cappucci e grandi vecchi. Alcuni di coloro che hanno concorso alla nostra epurazione pare avessero incontri con presunti appartenenti ad un’associazione segreta. Dunque, di fronte a innegabili evidenze, parlare oggi di consorterie massoniche interne anche agli apparati giudiziari non è più atto eversivo o scandaloso. Ampi dibattiti si sono aperti sulla “questione morale” delle nostre istituzioni. L’Associazione Nazionale Magistrati, rimembrando proprio la nostra vicenda, ha stigmatizzato la “caduta nel vuoto” delle sue richieste di rigore, gridate a gran voce. Sicché contro l’ennesima ipocrisia del “sistema” s’infrange oggi il mio silenzio. Mi rivolgo agli illustri attivisti del correntismo giudiziario, quelli che mai sono stati sfiorati da un dubbio o da un ripensamento, trovando superfluo finanche articolare il pensiero. Esprimano, nella loro purezza, e possibilmente con cognizione di causa, una posizione precisa su ciò che di illecito è stato compiuto ai nostri danni, sull’“etica” che l’avrebbe ispirato, sulle scandalose ingiustizie di un “sistema” che, ancora oggi, incredibilmente, avalla l’impunità, lasciando che i potenti, corrotti o collusi, continuino a rimanere ai loro posti o peggio, siano premiati. Non sono i loro rappresentanti più degni a spartirsi gli scranni del nostro “autogoverno”, a decidere nomine, promozioni, trasferimenti, punizioni disciplinari? O forse l’associazionismo sta dissociandosi da se stesso? Non vi sono oggi “questioni morali” che non lo fossero anche ieri. E allora occorre ripartire da zero, passando attraverso un profondo mea culpa. Questa pericolosa caduta libera di credibilità può arrestarsi soltanto con il ripristino del primato del Diritto e il ripudio definitivo delle logiche di appartenenza e protezionismo. Solo proponendosi tali obiettivi e scegliendo figure di guida autorevoli, per integrità, indipendenza e competenza, l’Ordine giudiziario può sperare in un autentico rinnovamento morale, nell’interesse supremo del popolo e della democrazia."
Nubi minacciose si addensano sul futuro delle «toghe» coinvolte nell’inchiesta romana sulla P3. Dopo il presidente della Corte d’Appello di Milano, Alfonso Marra, tocca a un altro magistrato subire l’onta del procedimento disciplinare, scrive Fulvio Milone su "La Stampa".
L’inchiesta della procura romana ha provocato un terremoto nella magistratura. Oltre alla Cassazione, si è mosso il Csm, che dopo avere avviato una procedura di trasferimento per il giudice Marra, ha adottato un provvedimento analogo per incompatibilità ambientale nei confronti di Umberto Marconi.
La Prima Commissione del Csm ha avviato una procedura di trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale a carico di Umberto Marconi, scrive "Il Corriere della Sera", il presidente della Corte di Appello di Salerno il cui nome compare nella mole delle intercettazioni dell’inchiesta sulla cosiddetta P3. Anche il suo nome compare nelle carte del procedimento. A lui i carabinieri attribuiscono un ruolo determinante nella fabbricazione del dossier falso che avrebbe dovuto fare affondare la candidatura a Governatore della Campania di Stefano Caldoro: una faida all’interno del Pdl, organizzata da Carboni e soci che si muovevano per favorire Nicola Cosentino. Marconi, però, ha anticipato le mosse del Csm: ha già chiesto il trasferimento, anche se giura di essere «assolutamente estraneo» alla vicenda. «Ho anche chiesto alla procura di Roma di essere sentito per quello che ritengo essere un complotto ordito contro di me», ha detto.
Signor Presidente, le comunico l'irrevocabile decisione di lasciare l'Associazione Nazionale Magistrati. Il plauso da lei pubblicamente reso all'ingiustizia subita, per mano politica, da noi magistrati della Procura della Repubblica di Salerno è per me insopportabilmente oltraggioso. Oltraggioso per la mia dignità di Persona e di essere Magistrato. Sono stata, nel generale vile silenzio, pubblicamente ingiuriata; incolpata di ignoranza, negligenza, spregiudicatezza, assenza del senso delle istituzioni; infine, allontanata dalla mia sede e privata delle funzioni inquirenti, così, in un battito di ciglia, sulla base del nulla giuridico e di un processo sommario. Per bocca sua e dei suoi amici e colleghi, la posizione dell'Associazione era già nota, sin dall'inizio. Quale la colpa? Avere, contrariamente alla profusa apparenza, doverosamente adottato ed eseguito atti giudiziari legittimi e necessari, tali ritenuti nelle sedi giurisdizionali competenti. Avere risposto ad istanze di verità e di giustizia. Avere accertato una sconcertante realtà che, però, doveva rimanere occultata. Né lei, né alcuno dei componenti dell'associazione che oggi degnamente rappresenta ha sentito l'esigenza di capire e spiegare ciò che è davvero accaduto, la gravità e drammaticità di una vicenda che chiama a riflessioni profonde l'intera Magistratura, sul suo passato, su ciò che è, sul suo futuro; e non certo nell'interesse personale del singolo o del suo sponsor associativo, ma in forza di una superiore ragione ideale, che è - o dovrebbe essere - costantemente e perennemente viva nella coscienza di ogni Magistrato: la ricerca della verità. Più facile far finta di credere alla menzogna: il conflitto, la guerra tra Procure, la isolata follia di "schegge impazzite". Il disordine desta scandalo: immediatamente va sedato e severamente punito. Il popolo saprà che è giusto così. E il sacrificio di pochi varrà la Ragion di Stato. L'Associazione non intende entrare nel merito. Chiuso. Nel dolore di questi giorni, Signor Presidente, il mio pensiero corre alle solenni parole che da Lei (secondo quanto riportato dalla stampa) sarebbero state pubblicamente pronunciate pochi attimi dopo l'esemplare "condanna": «Il sistema dimostra di avere gli anticorpi». Dunque, il sistema, ancora una volta, ha dimostrato di saper funzionare. Mi chiedo, allora, inquieta, a quale "sistema" Lei faccia riferimento. Quale il "sistema" di cui si sente così orgogliosamente rappresentante e garante. Un "sistema" che non è in grado di assicurare l'osservanza minima delle regole del vivere civile, l'applicazione e l'esecuzione delle pene? Un "sistema" in cui vana è resa anche l'affermazione giurisdizionale dei fondamentali diritti dell'essere umano; ove le istanze dei più deboli sono oppresse e calpestato il dolore di chi ancora piange le vittime di sangue? Un "sistema" in cui l'impegno e il sacrificio silente dei singoli è schiacciato dal peso di una macchina infernale, dagli ingranaggi vetusti ed ormai irrimediabilmente inceppati? Un "sistema" asservito agli interessi del potere, nel quale è più conveniente rinchiudere la verità in polverosi cassetti e continuare a costellare la carriera di brillanti successi? Mi dica, Signor Presidente, quali sarebbero gli anticorpi che esso è in grado di generare? Punizioni esemplari a chi è ligio e coraggioso e impunità a chi palesemente delinque? E quali i virus? E mi spieghi, ancora, quale sarebbe «il modello di magistrato adeguato al ruolo costituzionale e alla rilevanza degli interessi coinvolti dall'esercizio della giurisdizione» che l'Associazione intenderebbe promuovere? Ora, il "sistema" che io vedo non è affatto in grado di saper funzionare. Al contrario, esso è malato, moribondo, affetto da un cancro incurabile, che lo condurrà inesorabilmente alla morte. E io non voglio farne parte, perché sono viva e voglio costruire qualcosa di buono per i nostri figli. Ho giurato fedeltà al solo Ordine Giudiziario e allo Stato della Repubblica Italiana. La repentina violenza con la quale, in risposta ad un gradimento politico, si è sommariamente decisa la privazione delle funzioni inquirenti e l'allontanamento da inchieste in pieno svolgimento nei confronti di Magistrati che hanno solo adempiuto ai propri doveri, rende, francamente, assai sconcertanti i vostri stanchi e vuoti proclami, ormai recitati solo a voi stessi, come in uno specchio spaccato. Mentre siete distratti dalla visione di qualche accattivante miraggio, faccio un fischio e vi dico che qui sono in gioco i principi dell'autonomia e dell'indipendenza della Giurisdizione. Non gli orticelli privati. Non vale mai la pena calpestare e lasciar calpestare la dignità degli esseri umani. Per quanto mi riguarda, so che saprò adempiere con la stessa forza, onestà e professionalità anche funzioni diverse da quelle che mi sono state ingiustamente strappate, nel rispetto assoluto, come sempre, dei principi costituzionali, primo tra tutti quello per cui la Legge deve essere eguale per deboli e potenti. So di avere accanto le coscienze forti e pure di chi ancora oggi, nonostante tutto, crede e combatte quotidianamente per l'affermazione della legalità. Ed è per essa che continuerò sempre ad amare ed onorare profondamente questo lavoro. Signor Presidente, continui a rappresentare se stesso e questa Associazione. Io preferisco rappresentarmi da sola. Gabriella Nuzzi, Sostituto Procuratore Salerno (tratta dall'edizione salernitana de "Il Mattino).
Chi spiegherà al pm Carbone di sinistra (espressione di Area: Magistratura Democratica e Movimento per la Giustizia) che le leggi si applicano e si rispettano, e non si contestano? Scrive “Il Corriere del Giorno” il 6 luglio 2015. “No comment e musi lunghi tra i magistrati tarantini all’indomani dell’ennesimo decreto del governo salva Ilva, l’ottavo, che dissequestra l’altoforno 2 dell’Ilva di Taranto, azzerando il provvedimento cautelare era stato deciso dalla procura dopo l’incidente dell’8 giugno scorso in cui ha perso la vita l’operaio trentacinquenne, Alessandro Morricella, investito da una colata di ghisa fusa. Per il magistrato inquirente prima, e per il gip dopo, l’impianto non era sicuro pertanto doveva essere fermato per evitare altri incidenti mortali. Questa presunta pericolosità è ora scomparsa per decreto” secondo quanto racconta il Corriere del Mezzogiorno, cioè l’edizione barese del Corriere della Sera – “Ad esprimere il malessere che serpeggia tra i magistrati tarantini, ma non solo, è il segretario dell’Associazione nazionale magistrati, Maurizio Carbone, egli stesso pubblico ministero presso la Procura della Repubblica di Taranto.” Il segretario dell’Associazione nazionale dei magistrati, dimenticando che le Leggi si rispettano ed applicano, contesta quanto deciso dal Governo ed avvallato dal Presidente della Repubblica sostenendo che “Il caso ILVA – dice – è la dimostrazione di come il legislatore tuteli l’interesse economico rispetto ad altri interessi come quelli sulla sicurezza dei lavoratori e della tutela ambientale». Il segretario dell’Anm– sempre secondo il Corriere del Mezzogiorno – mette in luce una pericolosa spaccatura tra i due poteri dello Stato. “Tutto questo – continua Carbone – crea una ulteriore contrapposizione tra potere giudiziario e potere legislativo sulla base di una evidente e più volte dimostrata priorità di quest’ultimo verso la tutela economiche rispetto ad altri diritti…. Ognuno –ha concluso Carbone – valuta le situazioni a modo suo. Certo è che scelte come questa sull’ ILVA, da parte della politica, non possono che lasciare perplessi e destare preoccupazione e non soltanto tra gli operatori della giustizia». Il dottor Carbone non spende nessuna parola però sulla circostanza che non risulta che la Procura e tantomeno il gip abbiano richiesto a dei periti (da nominare) una perizia tecnica sull’incidente mortale, nè tantomeno il magistrato si sofferma sulla circostanza che i soliti giornalisti “ventriloqui” di Palazzo Giustizia , abbiano censurato quanto circola in ambienti industriali interni (fornitori e dipendenti) allo stabilimento siderurgico dell’ ILVA, e cioè che il tragico incidente occorso all’operaio Alessandro Morricella sia stato provocato e determinato in realtà da comportamenti operativi di alcuni operai, molto lontani dalle note vigenti disposizioni aziendali in materia di sicurezza. Comportamenti analoghi a quelli che proprio nei giorni scorsi hanno portato alla condanna di alcuni operai dell’ILVA, responsabili di “scherzi” poco piacevoli ad un loro collega. Secondo nostre fonti confidenziali infatti, sembrerebbe che l’operaio deceduto non indossasse l’abbigliamento tecnico di sicurezza necessario sul posto di lavoro, di cui infatti nei primi rilievi di polizia giudiziaria dicono non ci sia alcuna traccia. Ma tutto questo nessuno lo dice e racconta. Come nessuno in Procura si meraviglia che il marito di un magistrato ricopra incarichi di gestione e rappresentanza societaria in aziende municipali e pubbliche. O di altro “professionista” tarantino legato ad un altro magistrato che vive, lavora e guadagna fior di quattrini (letteralmente) grazie alle CTU cioè le “perizie” affidategli dal Tribunale di Taranto, come questo quotidiano in un recente articolo ha già raccontato e denunciato. Di questi conflitti d’interesse, l'Associazione Nazionale dei Magistrati ed il suo segretario none parlano. Strano vero? Poi qualcuno si meraviglia che in un recente passato a Taranto siano stati arrestati un magistrato ed un giudice! Tutto ciò probabilmente spiega anche le ragioni per cui il dr.Cataldo Motta, Procuratore della Repubblica di Lecce, che regge anche il vertice della Direzione Distrettuale Antimafia che sovrintende per competenza sul territorio di Taranto, ha ottenuto dal plenum del Consiglio Superiore della Magistratura con parere favorevole del Ministro di Giustizia, la deroga a reggere il suo incarico sino al 2017. Mentre invece per il dr. Franco Sebastio, procuratore capo della repubblica di Taranto, la deroga non è arrivata. P.S. nel frattempo attendiamo ancora risposta ad una richiesta “pubblica” al dr. Sebastio di intervista da video filmare (invito che estendiamo anche al dr. Carbone). O forse le nostre domande scomode danno un pò di fastidio…?
Perchè leggere Antonio Giangrande?
Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....
All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.
Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.
LE RITORSIONI DEI MAGISTRATI. Con procedimento n. 1833/13 il PM di Potenza d.ssa Daniela Pannone, chiedeva ed otteneva il rinvio a giudizio da parte della d.ssa Rosa Larocca per il processo tenuto dal dr Lucio Setola, ex PM.
Imputato: Antonio Giangrande, nato ad Avetrana (Ta) il 02.06.1963 ed ivi elettivamente domiciliato, ex art. 161 c.p.p., alla via Manzoni, 41.
Persona Offesa: Rita Romano, nata a Roma il 30.05.1967, magistrato in servizio presso il Tribunale di Taranto.
A) Reato previsto e punito dall’art. 595 comma 3 codice penale (diffamazione) perché, nella qualità di imputato nel procedimento n° 8486/08 RGNR e n° 5089/05 r.g.n.r, nell’atto di avocazione delle indagini indirizzato al Procuratore Generale di Taranto – depositata in data 27/01/2011 presso la Sezione Distaccata di Manduria del Tribunale di Taranto – offendeva la reputazione della dott.ssa Rita Romano, magistrato in servizio presso il Tribunale di Taranto, scrivendo che il predetto magistrato “abusando dell’ufficio adottava atti con intento persecutorio, lesivi degli interessi, dell’immagine e della sua persona, motivati da pregiudizio ed inimicizia e non sostenute da prove” e che “nei procedimenti che riguardavano direttamente o indirettamente il Giangrande Antonio, quando questi esercitava la professione forense, essa ha condannato quando le prove erano evidenti riguardo l’innocenza; ha assolto quando le prove erano evidenti sulla colpevolezza”. In Manduria (TA) il 27/01/2011 – competenza dell’A.G. di Potenza ex art. 11 c.p.p.
B) Reato previsto e punito dall’art. 368 Codice penale (calunnia) perché, nella qualità di imputato nel procedimento n° 8486/08 RGNR e n° 5089 RGNR, nell’atto di avocazione delle indagini indirizzato al Procuratore Generale di Taranto - depositato in data 27/01/2011 presso la Sezione Distaccata di Manduria del Tribunale di Taranto – autorità che ha l’obbligo di riferirne, pur sapendola innocente, accusava la dott.ssa Rita Romano, magistrato in servizio presso il Tribunale di Taranto, del reato di abuso d’ufficio, di falso in atto pubblico. In particolare, accusava il predetto magistrato utilizzando le seguenti frasi: “abusando dell’ufficio adottava atti con intento persecutorio, lesivi degli interessi, dell’immagine e della sua persona, motivati da pregiudizio ed inimicizia e non sostenute da prove” e “nei procedimenti che riguardavano direttamente o indirettamente il Giangrande Antonio, quando questi esercitava la professione forense, essa ha adottato quando le prove erano evidenti riguardo l’innocenza; ha assolto quando le prove erano evidenti sulla colpevolezza”. In Manduria (TA) il 27/01/2011 – competenza dell’A.G. di Potenza ex art. 11 c.p.p.
Il procedimento penale su denuncia di Rita Romano. Denuncia per calunnia e diffamazione, questa è l’accusa che mi si oppone. Calunnia per aver presentato in data 27/01/2011 al Presidente del Tribunale di Taranto in allegato ed a sostegno dell’atto di ricusazione, in procedimenti penali per il quale il magistrato denunciato era decidente sulle mie sorti, una richiesta motivata e circostanziata di avocazione delle indagini inviata al Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Taranto, ma anche di Potenza. Avocazione delle indagini presentata il 18 aprile 2008 a Taranto e Potenza. Magistrato già precedentemente denunciato alle procure di Taranto e Potenza ben prima del 18 aprile 2008, sapendolo colpevole con prove a sostegno. Denunce presentate in data 22/03/2006 e rimaste lettera morta.
Diffamazione per aver presentato in data 27/01/2011 tale richiesta di avocazione delle indagini al Presidente del Tribunale di Taranto in allegato ed a sostegno dell’atto di ricusazione in procedimenti penali per il quale il magistrato denunciato era decidente sulle mie sorti. Diffamazione perché denunciavo la grave inimicizia causa di persecuzione. Diffamazione tardiva perché richiesta simile di ricusazione era stata presentata già il 29/09/2010. Le ricusazioni (erano tre per tre distinti procedimenti), poi, non sono state rese operative, in quanto il magistrato ricusato ha presentato la denuncia contro di me per giustificare la sua astensione. Cosa che rimarca ogni volta in tutti i procedimenti nei quali, investita come magistrato titolare, sia costretta a rinunciare: «Mi astengo dal procedimento a carico dell’imputato in quanto ho presentato denuncia penale contro lo stesso per calunnia e diffamazione.» Intanto per quei processi, sempre per diffamazione a mezzo stampa, con condanna scontata se fossi rimasto inerte, sono stato successivamente prosciolto dagli altri giudici subentranti.
La grave inimicizia, causa della ricusazione di cui si pretendeva l’impedimento dell’esercizio del diritto, era palesata dai precedenti giudizi di causa cui tale magistrato era competente ed io sempre soccombente, quando io esercitavo la professione forense, per le quali io ero imputato o difensore di parte. Dalla lettura delle sentenze si evince tale pregiudizio.
In effetti, la denuncia nei miei confronti, è un atto ritorsivo. Non tanto per la richiesta di ricusazione ed avocazione delle indagini ed atti allegati, ma per la mia attività di scrittore noto nel mondo che denuncia le malefatte dei magistrati a Taranto e pubblica quanto gli altri non osano dire. Vedi caso killer delle vecchiette, Sarah Scazzi, Ilva, ecc.
D'altronde la calunnia non sussiste, sapendo il magistrato colpevole ed evidenziandolo in più atti di denuncia, né sussiste la diffamazione, in quanto, ai sensi dell’art. 596 c.p., come pubblico Ufficiale la prova della verità del fatto determinato è ammessa nel processo penale.
Oltretutto i reati sono ampiamente prescritti e decaduti, ove vi fosse bisogno della querela.
Questa è la denuncia penale, così come richiesta in sede di avocazioni delle indagini alla procura Generale della Corte di Appello di Potenza, e per la quale è stata presentata (a dire di Rita Romano) denuncia per calunnia.
DENUNCIA ALLA S.V.
Rita Romano, giudice monocratico del Tribunale di Taranto, sezione staccata di Manduria,
domiciliata in viale Piceno a Manduria,
per i reati di cui agli artt. 81, 323, 476, 479 c.p., con applicazione delle circostanze aggravanti, comuni e speciali ed esclusione di tutte le attenuanti,
IN QUANTO
Essa, abusando del suo ufficio, ha adottato continuamente atti del suo ufficio, con “INTENTO PERSECUTORIO”, lesivi degli interessi, dell’immagine e della persona del sottoscritto, motivati da pregiudizio ed inimicizia e non sostenute da prove.
Nei procedimenti che riguardavano direttamente o indirettamente il Giangrande Antonio, quando questi esercitava la professione forense, essa ha condannato quando le prove erano evidenti riguardo l’innocenza, o essa ha assolto quando le prove erano evidenti sulla colpevolezza.
PREMESSO CHE:
Giangrande Antonio, da difensore, è stato vittima di un aggressione in casa da parte del marito di una sua assistita in un procedimento di separazione, al fine di impedirgli la presenza all’udienza del giorno successivo. Nel processo penale n. 10354/03 RGD, in data 14 febbraio 2006, la Romano assolveva l’aggressore Mancini Salvatore. In un processo istruito, in cui il PM non ha richiesto l’ammissione di alcun testimone, pur indicanti in denuncia Giangrande Antonio, sua moglie Petarra Cosima e il figlio Giangrande Mirko, la Romano sente solo i coniugi ai sensi del’art. 507 c.p.p. su indicazione del Giangrande, ma rinuncia alla testimonianza di Mirko, il vero testimone. Tale abnorme decisione di assoluzione è stata assunta disattendendo i fatti, ossia le lesioni e le testimonianze, e definendo testimoni inattendibili il Giangrande e la Petarra.
Giangrande Antonio era accusato di esercizio abusivo della professione forense e per gli effetti di circonvenzione di incapace. Nel processo penale n. 7612/01 RGPM, in data 06/03/2007, nonostante lo stesso PM riteneva il reato di esercizio abusivo della professione forense infondato e inesistente, essendovi regolare abilitazione al patrocinio legale, chiedendone l’assoluzione, la Romano condannava il Giangrande per circonvenzione di incapace. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante le tariffe forensi prevedevano l’obbligatorietà dell’onorario per il mandato svolto. Tale abnorme decisione è stata assunta nonostante più volte si sia denunciata la violazione del diritto di difesa per mancata nomina del difensore, per impedimento illegittimo all’accesso al gratuito patrocinio. E’ seguito appello. Da notare che il giorno della sentenza era l’ultimo processo ed erano presenti solo il PM, il giudice Romano, il cancelliere e il difensore dell’imputato. Dagli uffici giudiziari è partita la velina. Il giorno dopo i giornali portavano la notizia evidenziando il fatto che il condannato Giangrande Antonio era il presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Era la prima volte che le vicende del Tribunale di Manduria avevano degna attenzione.
Giangrande Antonio era difensore di Natale Cosimo in una causa civile di sinistro stradale. Il testimone Fasiello Mario dichiara di non sapere nulla del sinistro. Esso era denunciato per falsa testimonianza. Nel processo penale n. 1879/02 PM , 1231/04 GIP, 10438/05 RGD, in data 27 novembre 2007, la Romano lo assolveva. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante lo stesso rendeva testimonianza contrastante a quella contestata. Lo assolveva nonostante affermava il vero e quindi il contrario di quanto falsamente dichiarato in separata causa. Lo assolveva nonostante a difenderlo ci fosse un difensore, Mario De Marco, impedito a farlo in quanto Sindaco pro tempore di Avetrana. Il De Marco e Nadia Cavallo hanno uno studio legale condiviso.
Giangrande Antonio e Giangrande Monica erano accusati di calunnia, per aver denunciato l’avv. Cavallo Nadia per un sinistro truffa, in cui definiva, in reiterati atti di citazione, Monica “RESPONSABILE ESCLUSIVA” del sinistro. Atti presentati due anni dopo la richiesta di risarcimento danni, che la compagnia di assicurazione ha ritenuto non evadere. Il Giangrande Antonio non aveva mai presentato denuncia. Antonio era fratello e difensore in causa di Monica. La posizione del Giangrande Antonio era stralciata per lesione del diritto di difesa e il fascicolo rinviato al GIP. Nel processo penale n. 10306/06 RGD, in data 18 dicembre 2007, la Romano condannava Giangrande Monica e rinviava al PM la testimonianza di Nigro Giuseppa per falsità. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante la presunta vittima del sinistro non abbia riconosciuto l’auto investitrice, si sia contraddetto sulla posizione del guidatore, abbia riconosciuto Nigro Giuseppa quale responsabile del sinistro, anziché Giangrande Monica. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante Nigro Giuseppa abbia testimoniato che la presunta vittima sia caduta da sola con la bicicletta e che con le sue gambe sia andato via, affermando di stare bene. E’ seguito appello.
Giangrande Antonio era difensore di Erroi Salvatore, marito di Giangrande Monica, sorella di Antonio. In causa civile, in cui difensore della contro parte era sempre Cavallo Nadia, tal Gioia Vincenzo ebbe a testimoniare sullo stato dei luoghi, oggetto di causa. Il Gioia, in chiara falsità, palesava uno stato dei luoghi, oggetto di causa, diverso da quello che con rappresentazione fotografica si è dimostrato in sede civile e penale. Il Gioia, denunciato per falsa testimonianza veniva rinviato a giudizio in proc. 24/6681/04 R.G./mod 21. Difeso da Cavallo Nadia in proc. 10040/06 RGD. In data 16 aprile 2008 il giudice Rita Romano, pur evidenti le prove della colpevolezza, assolveva il Gioia Vincenzo.
"La pubblicazione della notizia relativa alla presentazione di una denuncia penale e alla sua iscrizione nel registro delle notizie di reato, oltre a non essere idonea di per sé a configurare una violazione del segreto istruttorio o del divieto di pubblicazione di atti processuali, costituisce lecito esercizio del diritto di cronaca ed estrinsecazione della libertà di pensiero previste dall'art 21 Costituzione e dall'art 10 Convenzione europea dei diritti dell'uomo, anche se in conflitto con diritti e interessi della persona, qualora si accompagni ai parametri dell'utilità sociale alla diffusione della notizia, della verità oggettiva o putativa, della continenza del fatto narrato o rappresentato. (Rigetta, App. L'Aquila, 10 Marzo 2006)". (Cass. civ. Sez. III Sent., 22-02-2008, n. 4603; FONTI Mass. Giur. It., 2008).
Mallegni: "Non chiamatemi più Massimo della pena". Il sindaco di Pietrasanta dopo sei processi racconta la sua Odissea. Iniziata con l’esposto di una vigilessa che Renzi ha portato a Palazzo Chigi, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama” il 6 luglio 2015. "Ho una sola preghiera: non chiamatemi più Massimo della pena". Alla guida di una lista di centrodestra, Massimo Mallegni è stato appena rieletto per la terza volta e a furor di popolo sindaco di Pietrasanta, la città-gioiello della Versilia lucchese. Il nomignolo gliel’hanno affibbiato le malelingue toscane e non hanno tutti i torti: dal maggio 2001, pochi mesi dopo la prima elezione, Mallegni è finito sotto processo ininterrottamente per 13 anni. I processi sono stati sei e tutti duri, brutti e cattivi. Lui oggi scherza: "Silvio Berlusconi si lamentava perché da presidente del Consiglio doveva dedicare un giorno a settimana ai suoi processi. Io ero costretto ad andare in tribunale tre volte a settimana". Sorride, Mallegni. Eppure è stato accusato di decine di reati, dalla A di abuso fino alla T di truffa. Lo hanno perfino arrestato, ha fatto 39 giorni di carcere e 119 agli arresti domiciliari. Ma tutto è sempre finito in nulla: proscioglimenti in istruttoria, assoluzioni con formula piena. Per qualche reato minore, prescritto, pende l’appello: "E solo perché mi sono sempre opposto alla prescrizione". Dall’ultimo procedimento è uscito definitivamente assolto nel febbraio 2014: un abuso d’ufficio ed edilizio per il quale, a lui albergatore già nel cuore della stagione turistica, il 4 agosto 2010 la Procura di Lucca aveva ordinato il sequestro della Spa dell’hotel. "Il sequestro" sottolinea Sandro Guerra, che del sindaco è (come da nome) il battagliero avvocato "l’aveva firmato un giudice che dopo l’arresto del 2006 aveva querelato Mallegni per diffamazione. Sicuramente non ha collegato le due vicende, ci mancherebbe". Era il momento in cui il già due volte sindaco era appena stato sbattuto, con padre e cinque assessori, nel carcere di Lucca. «Sezione 4, cella numero 17» dice Mallegni. «M’ha salvato la fede. Pensavo a mio figlio, a mia moglie…». Tornato a casa, ebbe la cattiva idea di pronunciare parole di sconforto, qualcosa sulla sua vita rovinata. Bastò a quel giudice per citarlo in giudizio. Il sindaco ricorda la cella: "Ero in isolamento, come i mafiosi al 41 bis, e sempre controllato dal foro nella porta, anche quando andavo al gabinetto. Ma gli agenti erano ottime persone". Questo va detto, di Mallegni. Non porta rancore, né si ritiene un perseguitato. Anzi, continua a ripetere che con lui "la giustizia ha funzionato". Un bel paradosso, non c’è dubbio. "Ho incontrato una ventina di giudici" spiega "e sono stati indipendenti. Hanno letto le carte, mi hanno ascoltato". L’avvocato Guerra è un po’ meno conciliante. Ricorda soprattutto i duelli in aula con il pubblico ministero "fratello". No, non massone, avete equivocato: fratello in senso stretto, di sangue. Perché all’origine dei peggiori guai di Mallegni ci sono stati gli esposti firmati da Antonella Manzione, ex comandante dei vigili urbani di Pietrasanta, e gestiti a livello giudiziario dal pm lucchese Domenico Manzione. Da allora fratello e sorella hanno fatto carriera. Domenico nell’ottobre 2009 fu nominato procuratore di Alba e dal maggio 2013è sottosegretario all’Interno, scelto da Enrico Letta e confermato da Matteo Renzi; Antonella invece è divenuta prima comandante dei vigili urbani di Firenze, con Renzi sindaco, e oggi è il suo capo dell’ufficio legislativo a palazzo Chigi. Mallegni non ce l’ha nemmeno con loro: "Si vede che lei è brava e lui è ancora più bravo" commenta. Ma torniamo alla querelle con la comandante dei vigili. Tutto inizia quando il sindaco si è da poco insediato a Pietrasanta, nel 2000. "Trovo una delibera firmata dal mio predecessore che riorganizza il Comune". La delibera pone fine a un’anomalia: la comandante è anche capo dello Sportello unico attività produttive, e le viene tolto il primo incarico. Mallegni conferma la delibera: "La signora non perde un euro" dice "ma evidentemente la cosa le provoca disagio. E presenta un esposto di 20 pagine alla Procura di Lucca". È da quelle pagine che partono tre processi, con 51 capi d’accusa. Manzione accusa Mallegni di avere abusato dell’auto di servizio ("Si dimostrò che in realtà era l’auto civetta dei carabinieri della scorta: avevo ricevuto 4 proiettili calibro 38 dal Partito comunista combattente"); di avere inalberato un lampeggiante blu sulla sua auto ("Altro errore: era la vettura di Gianfranco Fini, presidente della Camera"); di avere estorto a un vigile la remissione di una multa ("Ma era un’auto del Comune"). L’esposto, firmato da altri 5 vigili, si fa più delicato in campo urbanistico: qui Antonella Manzione accusa il sindaco di avere fatto sperticati maneggi. Ed è su questo tema che partono gli arresti del gennaio 2006, chiesti da Domenico Manzione per associazione a delinquere, truffa, abuso d’ufficio, voto di scambio, estorsione… "L’ex pm oggi nega di avere avuto un ruolo importante nel processo" polemizza l’avvocato Guerra "ma non è così. Lo seguì fino al suo trasferimento ad Alba, e ci sono i verbali delle udienze. Ricordo che, indispettito, uscì sbattendo la porta dall’aula alla fine di un lungo interrogatorio nel quale ponevo a testi e parti civili domande sul ruolo della sorella comandante dei vigili". Già nel 2006 la Cassazione stabilì che gli arresti erano stati illegittimi. "Intanto" ricorda Mallegni "avevo ricevuto 755 lettere di solidarietà dai miei concittadini". In Parlamento ci fu chi si rivolse al ministero della Giustizia, allora retto dal leghista Roberto Castelli, segnalando l’anomalia di Lucca, dove un pm agiva su esposti firmati da sua sorella: in procura arrivarono gli ispettori, poi il governo cadde e tutto finì in niente. Sei anni dopo il processo terminò allo stesso modo. Oggi Mallegni è di nuovo lì. Paura? "No" risponde. "Fare il politico da imprenditore non è conveniente, ma si deve andare avanti". E con il nuovo capo dei vigili urbani è tutto a posto? O si rischiano nuovi guai? "È uno dei cinque che mi aveva denunciato con la sua comandante. Ma è un tipo in gamba. E poi io non porto rancore".
Il Cav? È l'unico corruttore al mondo. La condanna di Silvio Berlusconi per il "tradimento" dell'ex senatore De Gregorio mostra la totale parzialità di una giustizia che vede solo quel che vuole vedere, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama” il 9 luglio 2015. A che cosa deve servire una sentenza di tribunale penale? A fare giustizia, risponderete voi. Errato: serve “a offrire una funzione generalpreventiva". Così ha detto ieri il pubblico ministero napoletano John Henry Woodcock nell'aula del processo sulla presunta compravendita dell'ex senatore Sergio De Gregorio. Il processo di primo grado si è concluso proprio ieri con la condanna di Silvio Berlusconi, il presunto corruttore, a tre anni di reclusione (ma l'accusa ne aveva chiesti cinque). L'altro condannato è Valter Lavitola, presunto tramite del passaggio di denaro (tre milioni di euro, due dei quali in nero) che pure si è visto assegnare tre anni. Strana maniera di vedere la giustizia, quella del pm Woodcock. Il processo, destinato a concludersi per l'intervenuta prescrizione, lascerà proprio per questo a metà ogni certezza giuridica. Non sarà quindi certa né l'attribuzione del reato, né la sua configurazione storica. Parlare di giustizia "generalpreventiva", in questo caso, è davvero improprio. Inoltre, la questione di cui si è dibattuto a Napoli è decisamente controversa: non solo nella verità storica dei fatti, negata con forza dagli imputati, ma anche in punto di diritto. È infatti la prima volta in Italia (ma forse anche nel mondo) che un "cambio di casacca" parlamentare viene punito con una condanna. In Italia, peraltro, la Costituzione prevede all'articolo 67 che nessun deputato o senatore possa essere soggetto a un "vincolo di mandato": questo vuol dire che è libero di esprimersi nel voto parlamentare come meglio crede, e anche di cambiare gruppo. Il procuratore di Napoli, Giovanni Colangelo, ha dichiarato però che a essere punita in questo caso "non è l'insindacabilità del voto, ma il condizionamento del voto: espresso non per libera scelta politica, ma per un pagamento. E il reato di corruzione non si riferisce all'espressione di un voto, ma alla promessa di un voto". Ma anche quella del procuratore Colangelo è una ben strana maniera di vedere le cose. Perché l'alto magistrato pare dimenticare le centinaia, migliaia di altri passaggi di campo che si sono verificati nella Storia parlamentare italiana, e pare dimenticare soprattutto che molti di questi hanno di certo avuto avuto alla loro base scambi di qualche utilità. Quante volte si è saputo (e scritto sui giornali) delle prebende o dei vantaggi ottenuti dal "traditore" di turno? Quanti senatori e deputati sono "migrati" soltanto in virtù delle garanzie di una successiva elezione, o della promessa del successivo ottenimento di posti importanti negli enti pubblici, o della facile carriera garantita in altro settore? Certo, il trasformismo è purtroppo costume trasversale, in questo Paese, fin dai tempi di Agostino Depretis. E non è certo pratica commendevole. Ma allora perché per le altre centinaia e migliaia di "cambi di casacca" parlamentari, comunque premiati con un vantaggio evidente, non si è mai ipotizzato che potesse trattarsi di corruzione? Eppure l'articolo 318 del Codice penale individua la corruzione nello scambio di un atto con "denaro o altra utilità". Non dovrebbe allora essere punito chi ha costretto decine di deputati berlusconiani a passare con il centrosinistra nelle precedenti legislature, per poi ottenere in cambio un seggio più sicuro alle successive elezioni?
Per di più, in questo caso, la ricostruzione giudiziaria del passaggio di De Gregorio con il centrodestra ha stravolto anche la verità storica. L'ex senatore infatti aveva trascorso tutta la sua vita politica nel centrodestra, per poi passare da ultimo (e strumentalmente) con il centrosinistra. Il suo "ritorno a casa" in realtà avviene nel 2006, all'inizio della legislatura. Questa circostanza nega con evidenza la "verità giudiziaria" uscita da Napoli, dove si è sentenziato che il tradimento di De Gregorio avrebbe causato la caduta del governo di Romano Prodi. In realtà il fragilissimo esecutivo di Prodi, che per lunghi mesi si era sostenuto soltanto con l'aiuto dei senatori a vita, avvenne nel 2008 per tutt'altro motivo: le crescenti turbolenze giudiziarie sul suo ministro della Giustizia, Clemente Mastella, e la sua uscita dalla maggioranza.
E poi… Silvio Berlusconi è decaduto da senatore e non è stato più candidabile per effetto della legge Severino, scrive "Il Corriere della Sera". Malgrado la stessa legge, il sindaco di Napoli Luigi De Magistris (eletto nelle fila dell’Idv) e il neo-governatore della Campania Vincenzo De Luca del PD possono invece restare in carica, per effetto di sentenze sospensive a loro favorevoli. Come quella del 2 luglio 2015 che di fatto consente a De Luca di prendere pieno possesso delle proprie funzioni dopo la sua sospensione decretata nei giorni prima dal governo Renzi. Una diversità di applicazione della norma che fa insorgere il centrodestra: «Dopo il trattamento favorevole a de Magistris e De Luca, non chiamatela più legge Severino ma con il suo vero nome: legge anti-Berlusconi - commenta la deputata di Forza Italia, Elvira Savino -. Ormai è chiaro a tutti che è una legge, applicata addirittura retroattivamente, che è servita solo per estromettere vergognosamente il presidente Berlusconi dal Senato». Stesso concetto ribadito da Maria Stella Gelmini, per la quale si è trattato di una legge «contra-personam» («visto che dopo il caso Berlusconi non è stata più applicata o, laddove applicata, i suoi effetti sono stati cancellati con sentenze del Tar»), che aggiunge: «Ora è chiaro perché il governo non ritiene utile una revisione della legge Severino. Per la semplice ragione che essa viene interpretata per gli amici e applicata ai nemici. Con buona pace dello stato di diritto». Il capogruppo alla Camera di Forza Italia, Renato Brunetta, fa notare via Twitter che «la decisione del Tribunale di Napoli riabilita Berlusconi, ma il caso De Luca resta aperto. Sinistra giustizialista chieda scusa a Cav. Severino da cambiare!». E con un paio di tweet interviene anche Giorgia Meloni, già ministro del governo Berlusconi, secondo cui la legge Severino è «l’unica vera legge ad personam. #superioritamoraleuncorno». E ancora: «De Luca te lo avevamo detto che potevi stare sereno: la Severino vale solo per Berlusconi e il centrodestra. La sinistra è al di sopra della legge». In una nota, i legali del leader FI, Franco Coppi, Piero Longo e Niccolò Ghedini, parlano di «gravissima ingiustizia» osservando come siano «quasi due anni che inascoltati sosteniamo la assoluta inapplicabilità della legge Severino ai fatti precedenti, per il fondamentale principio di irretroattività. Finalmente alcune decisioni stanno riconoscendo la evidente correttezza di questa impostazione».
«Renzi può intervenire con una modifica alla legge Severino, cosa che non ha ritenuto di fare quando si è trattato di Silvio Berlusconi. - Così l’ex Cavaliere a Radio anch’io, commentando la vicenda del candidato Pd alle regionali campane Vincenzo De Luca, candidabile ma ineleggibile per la legge sulla “repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione". - Io chiedevo – ha sostenuto Berlusconi – una cosa semplice, cioè di aggiungere una norma che dice che la presente legge si applica a fatti successivi alla sua entrata in vigore. Cosa addirittura pleonastica ma che è stata dimenticata, e la legge Severino con me è stata applicata retroattivamente. Così sono riusciti a farmi decadere dal Senato e rendermi incandidabile per sei anni. Tuttavia sto aspettando la Corte dei diritti di Strasburgo e spero che la sentenza verrà ribaltata».
«Fino ad ieri potevamo, politicamente, solo sospettare che la legge Severino fosse stata fatta per espellere Berlusconi dal Senato. Da ieri, invece, dopo tre indizi abbiamo raggiunto la prova “regina”, storica e politica al tempo stesso: la legge Severino fu fatta contro e ad personam». Maria Stella Gelmini attacca nonostante siano trascorsi ormai di due anni da quando, all’indomani della sentenza Mediaset della Cassazione, il Senato espulse Silvio Berlusconi. Proprio per effetto della legge Severino, scrive Antonio Manzo su “Il Mattino”.
Quali sono i tre indizi, onorevole Gelmini, che la fanno raggiungere la prova?
«De Luca uno, con il Governo che si guarda bene dal sospenderlo subito; De Luca due, con l’ordinanza urgente del tribunale di Napoli; De Magistris tre, salvato sempre dallo stesso giudice civile del caso De Luca. Abbiamo avuto così la dimostrazione che tra ordinanze e sentenze, la legge Severino è stata interpretata, favorevolmente, per gli amici ed è stata applicata, implacabilmente, per i nemici. Altro che garantismo, qui è la morte dello stato di diritto».
Scusi, ma uno dei presupposti delle valutazioni dei magistrati è che sia nel caso di De Luca, che in quello di de Magistris fossero in gioco valori costituzionalmente protetti come quelli espressi da rappresentanti istituzionali eletti dal popolo?
«Se c’è un leader politico che in Italia può dichiarare, a piena voce, di essere un eletto dal popolo è Silvio Berlusconi. Che poi anche De Luca e de Magistris siano stati eletti dal popolo per governare la Regione Campania ed il Comune di Napoli, è altra storia. Nel caso di Silvio Berlusconi è stata minata, stracciata, distrutta la volontà popolare e il valore elettivo, quello sì costituzionalmente protetto ed universale, incarnato da un membro del Parlamento, massima espressione della democrazia repubblicana. È un vulnus più grave. Non le pare?»
La legge Severino fu votata anche da voi di Forza Italia. È mai possibile che nessuno si sia accorto all’epoca dei fatti dei profili di incostituzionalità che oggi vengono a più riprese evidenziati?
«Vogliamo ricordare in che clima e in che contesto fu varata la legge Severino? Ebbene, contestualizziamo l’epoca, è quella del Governo Monti che cacciò Berlusconi, eletto dal popolo».
Governo votato dal Parlamento, l’unità nazionale con lo spread in salita quotidiana...
«Quella fu la cacciata di Silvio Berlusconi, eletto dal popolo, che inaugurò la stagione dei nominati a Palazzo Chigi, Monti, Letta e Renzi».
Ma è anche il tempo, ricorderà, degli scandali Fiorito, Lusi, Belsito, tutta gente che aveva preso in ostaggio le casse dei rispettivi partiti rimpinguate dal finanziamento pubblico come un bancomat personale.
«Non vorrà mica farmi dire che la ricostruzione del contesto politico dell’epoca, con la cacciata di Berlusconi da palazzo Chigi, annulli le responsabilità di chi aveva fatto dei partiti un bancomat personale? E allora, che ci volesse una reazione con norme più incisive alla corruzione, che facessero riguadagnare la faccia alla politica, è cosa scontata ed ineludibile. Ma che quella della legge Severino fosse una reazione emotiva è altrettanto vero. Anzi, come poi abbiamo registrato, sottintendeva l’idea piuttosto obliqua di prefigurare una risposta repressiva contro il leader dell’opposizione parlamentare, Silvio Berlusconi. Altro che questione morale...».
La prova definitiva: in Italia la legge non è uguale per tutti, scrive Maurizio Belpietro su “Libero Quotidiano”. La legge non è uguale per tutti. Per qualcuno è più uguale di altri, nel senso che è più rigida, soprattutto se ci si chiama Silvio Berlusconi. Ricordate la sentenza con cui l’ex Cavaliere è stato condannato a quattro anni di detenzione e sospeso dai pubblici uffici? Cioè quella misura che ha consentito la sua estromissione dal Parlamento e ha stabilito la sua ineleggibilità? Per i giudici della Corte di Cassazione il fondatore di Forza Italia fu l’artefice di una frode fiscale ai danni dell’erario e per questo fu costretto non solo a lasciare il suo seggio da senatore, ma anche a risarcire l’agenzia delle entrate. Peccato che in una sentenza del 20 maggio 2014, cioè emessa dieci mesi dopo quella pronunciata contro Berlusconi, la suprema corte si rimangi tutto, sostenendo che non si può condannare un contribuente solo in base alla presunzione di colpevolezza. Per stabilire che ha frodato il fisco ci vuole ben altro, ad esempio un atto fondamentale, ossia che l’accusato abbia materialmente partecipato alla frode compiendo l’atto finale: la dichiarazione dei redditi. Testuale: «I reati di dichiarazione fraudolenta hanno natura istantanea e si consumano soltanto con la presentazione della dichiarazione annuale». Ancor più esplicita: i reati di frode non possono essere provati «dalla mera condotta di utilizzazione, ma da un comportamento successivo e distinto, quale la presentazione della dichiarazione, alla quale in base alla disciplina in vigore non dev'essere allegata alcuna documentazione probatoria». Tradotto, tutto quel che succede prima, tutta la fase di valutazione antecedente al fatto, non ha importanza, perché «il comportamento precedente alla dichiarazione, quindi si configura come ante factum meramente strumentale e prodromico per la realizzazione dell'illecito, e perciò non punibile». La Cassazione, assolvendo nel maggio scorso un imputato di frode fiscale, nega dunque la rilevanza penale delle violazioni «a monte» della dichiarazione e lo fa facendosi forte di una serie di pronunciamenti passati. A qualcuno il discorso potrà sembrare ostico e forse anche ininfluente, in quanto la sentenza si riferisce a un caso diverso rispetto a quello di Silvio Berlusconi e, come è a tutti noto, ogni processo fa caso a sé, anche perché ogni giudice fa caso a sé. E per questo appunto c'è la Cassazione e le sezioni unite che fissano i principi inderogabili. I principi valgono per tutti e non si possono cambiare le carte in tavola a seconda di chi finisce alla sbarra. Dunque «i comportamenti di un soggetto quando era ancora amministratore di una società e che si era dimesso prima della presentazione della dichiarazione dei redditi, non possono essere valorizzati neppure in termini di concorso con colui che, rivestendo successivamente la carica di amministratore, aveva indicato nella dichiarazione gli elementi fittizi». Tutto ciò messo nero su bianco da una sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione, un provvedimento che fa giurisprudenza e al quale ci si deve attenere.
"Ora la revisione del processo Mediaset". Una sentenza di assoluzione della Cassazione su un caso analogo a quello di Berlusconi riapre la partita. L'annuncio di Ghedini, scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”. C'è una sentenza della Cassazione che, dieci mesi dopo quella Mediaset di condanna di Silvio Berlusconi, la bolla esplicitamente come sbagliata. Si regge su una tesi, spiega la motivazione, «che non può essere qui condivisa e confermata, perché contraria alla assolutamente costante e pacifica giurisprudenza di questa Corte e al vigente sistema sanzionatorio dei reati tributari». Il caso è del tutto analogo a quello Mediaset, frode fiscale, le conclusioni opposte: sentenza di condanna confermata per il leader azzurro il primo agosto 2013, sentenza di condanna annullata per il signor X il 20 maggio 2014. Colpisce che il relatore sia lo stesso, il giudice Amedeo Franco, che già aveva firmato precedentemente altre sentenze «conformi» a quest'ultima. E che la sezione sia la Terza penale, cui era naturalmente destinato il processo Mediaset prima di venire dirottato a quella Feriale, presieduta da Antonio Esposito, per il timore (poi, a quanto sembra, rivelatosi infondato) che nei mesi estivi potesse scattare la prescrizione. «Questo dimostra - spiega il legale di Berlusconi, Niccolò Ghedini - che la condanna Mediaset ha rappresentato un unicum nella giurisprudenza della Cassazione. Che prima e dopo la legge è stata interpretata in maniera diversa, con un orientamento univoco. Se il processo Mediaset fosse arrivato alla Terza Sezione e non in quella Feriale, e con quello stesso relatore, sarebbero cambiate le sorti di Berlusconi e del Paese, sarebbe cambiata la storia. Questo sarà un elemento importante per la decisione della Corte europea per i diritti dell'uomo, che attendiamo. Ma soprattutto, sulla base di questa sentenza e delle nuove prove che abbiamo raccolto, chiederemo la revisione del processo». La difformità nella giurisprudenza di per sé non produce effetti sulla condanna Mediaset, ma potrebbe convalidare una violazione del principio del giusto processo, tra le ipotesi che giustificano la revisione del processo. E la strada sarebbe aperta se la Corte di Strasburgo, nella pronuncia attesa dopo l'estate, affermasse appunto che questa violazione c'è stata. È vero che ogni giudice e ogni collegio fa giurisprudenza a sé, ma è anche vero che la Suprema Corte ha proprio la funzione di uniformare l'interpretazione e l'applicazione del diritto. È lecito chiedersi perché prima della sentenza Mediaset si è seguita una strada precisa per il reato di frode fiscale e anche dopo è stato così, mentre in quel caso isolato ha prevalso proprio la teoria rivelata dal presidente Esposito in un'intervista al Mattino che gli ha procurato un processo disciplinare: Berlusconi fu condannato «perché sapeva», fu informato da altri della frode, non per il principio astratto del «non poteva non sapere», essendo il capo. Proprio qui sta il punto in cui la sentenza depositata in Cassazione il 19 dicembre scorso contraddice quella Mediaset, che cita esplicitamente, con data e numero di serie. Contestando la condanna dell'imputato, i Supremi giudici scrivono: «In sostanza, la corte d'appello appare aver adottato una interpretazione (analoga a quella poi seguita dalla Sezione feriale 1-8-2013, n.35729) nel senso che per la sussistenza del reato sarebbe sufficiente la prova di un "coinvolgimento diretto e consapevole alla creazione del meccanismo fraudolento... che ha consentito... di avvalersi della documentazione fiscale fittizia", al sottoscrittore della dichiarazione». Invece, continua la sentenza, questo non è affatto sufficiente. E le massime che l'accompagnano, quelle che per il futuro indicano ai giudici come interpretare la legge, dicono chiaro che: «I reati di dichiarazione fraudolenta hanno natura istantanea e si consumano soltanto con la presentazione della dichiarazione dei redditi». Le fasi preparatorie, il sapere o non sapere, non contano.
La Cassazione si rimangia la sentenza su Berlusconi, scrive Davide Giacalone su “Libero Quotidiano”. Il condannato Silvio Berlusconi ha terminato di espiare la pena. E questo è noto a tutti. Quel che non è noto, però, è che nel frattempo la corte di Cassazione ha condannato la sentenza che lo condannava. La considera un’eccezione, da non prendere ad esempio, perché sbagliata. Il nome del condannato agita le tifoserie. Gli capitava da imprenditore, ancor più da politico. La condotta di quelle trincee vocianti non è per nulla interessante. Talora neanche ragionevole. La linea cui ci si deve attenere, quando si affrontano questioni di giustizia, consiste nel non cedere alla contrapposizione fra innocentisti e colpevolisti, ma di attenersi alla difesa del diritto e dei diritti. Solo in questo modo non ci si limita a discutere casi personali, sollevando questioni che, sempre, riguardano tutti. Il che vale anche questa volta. Ma non faccio il falso ingenuo, so bene che il nome di Berlusconi è divisivo, capace, per i simpatizzanti e gli antipatizzanti, di distorcere la percezione della realtà. Chiedo uno sforzo, però: prima si capisca quel che è successo, poi si passi alle considerazioni, anche politiche e personali, che se ne possono far discendere. Con sentenza della Cassazione, emessa il primo agosto del 2013 (numero 35729), è stata confermata la condanna inflitta agli imputati in appello. Per Berlusconi la Cassazione chiese anche il ricalcolo della pena accessoria. Il reato contestato era la frode fiscale, con violazione (scusate la pedanteria, ma fra poco ne sarà chiara la ragione) del decreto legislativo 10 marzo 2000, numero 74. Detto in soldoni: la dichiarazione dei redditi della società (Mediaset) era mendace, giacché contenente riferimenti e contabilizzazioni di documenti falsi (fatture). Il seguito lo conoscono tutti: decadenza da parlamentare e affidamento ai servizi sociali. Il 20 maggio del 2014, quasi un anno dopo, quindi, la terza sezione della corte di Cassazione si è trovata ad esaminare un caso del tutto analogo, emettendo una sentenza, depositata in cancelleria il 19 dicembre successivo. L’imputato era stato condannato a due anni e sei mesi di reclusione. Osserva la Cassazione, a pagina 10 della sentenza: «In sostanza, la corte d’appello appare aver adottato una interpretazione (analoga a quella poi seguita dalla Sezione Feriale 1/8/2013, n. 35729) nel senso che per la sussistenza del reato sarebbe sufficiente la prova di un “coinvolgimento diretto e consapevole alla creazione del meccanismo fraudolento (…) che ha consentito (…) di avvalersi della documentazione fiscale fittizia” al sottoscrittore della dichiarazione» (corsivo e omissioni come da sentenza). Tenetevi forte, perché le parole che seguono vanno valutate una per una. Scrive la Corte: «Si tratta però di una tesi che non può essere qui condivisa e confermata, perché contraria alla assolutamente costante e pacifica giurisprudenza di questa Corte ed al vigente sistema sanzionatorio dei reati tributari introdotto dal legislatore con il decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74». Detto in altro modo: le ragioni per cui Berlusconi, assieme ad altri, è stato condannato non solo sono difformi dalla «contraria» e «assolutamente costante e pacifica giurisprudenza» della Cassazione, ma sono in contrasto con quanto stabilisce la legge. Tanto che, quel 20 maggio dell’anno scorso, la Cassazione annullò la sentenza che le era stata sottoposta. Il primo agosto del 2013, invece, la confermò. Non è finita. Alla sentenza si accompagnano delle «massime», che sono delle brevi citazioni, utili a fissare i principi di diritto che la sentenza afferma. La Cassazione, infatti, esiste quale giudice di legittimità ed ha una funzione nomofilattica, che significa: garantire l’uniformità dell’interpretazione e dell’applicazione del diritto. Le massime aiutano i futuri giudici di merito (e gli avvocati, naturalmente) ad attenersi a quell’uniforme interpretazione e applicazione. Ebbene, la sentenza di cui parliamo è accompagnata da alcune massime, in calce alle quali ci sono i riferimenti a varie sentenze, sempre della Cassazione, «conformi», vale a dire che sostengono la stessa cosa. E c’è la difforme: la numero 35729. Quella che condannò Berlusconi. Nelle motivazioni e nella massime si legge la corretta interpretazione della legge: la frode fiscale nasce e si concretizza nel momento in cui è firmata la dichiarazione mendace, mentre nessuno degli atti preparatori può, in nessun caso, essere utilizzato per dimostrarla e indicarne il colpevole. Tale, del resto, è chi firma il falso, ovvero nessuno degli imputati allora condannati. Ma colpevole può anche essere chi induce l’amministratore di una società in errore, mediante l’inganno. Circostanza negata dalla sentenza d’appello, quindi, ove la si voglia contestare, sarebbe stato un motivo di annullamento (con rinvio), non di conferma. Colpevole può anche essere l’amministratore di fatto, ovvero la persona che non figura come amministratore, ma che ne esercita le funzioni. Nel qual caso, però, si deve dimostrarlo. Senza nulla di ciò non può esserci condanna, questo stabilisce la Cassazione, con «assolutamente costante e pacifica giurisprudenza». Vengo all’ultimo aspetto, che a sua volta ha un peso dirompente. I contrasti di giurisprudenza esistono fin da quando esiste la giurisprudenza. Per quanto la Cassazione s’affanni a perseguire l’uniformità, agguantarla in modo assoluto è impossibile. Quindi, se due giudici emettono sentenze diverse non è una cosa poi così terribile. Peccato, però, che la Cassazione esiste proprio per correggere, non per produrre le difformità. E peccato che, in questo caso, non ci sono due giudici, ma uno solo. I due collegi, quello del 2013 e quello del 2014, si compongono complessivamente di dieci giudici, ma, come si vede dal frontespizio delle due sentenze, il «consigliere relatore» è uno solo. La stessa persona. Che ad agosto del 2013 scrive una cosa e a maggio del 2014 la demolisce. Anche in modo sprezzante, e ben più a lungo e dettagliatamente di quanto qui riportato. Nessuno pensi di cavarsela supponendo uno sdoppiamento della personalità. Meno ancora in un cambio di opinione, perché ha messo nero su bianco che l’orientamento era univoco sia prima che dopo. In quelle parole, dure e inequivocabili, io leggo il dolore. Un cultore del diritto cui si è storto fra le mani. E siccome la legge impedisce a un giudice di manifestare e rendere noto il proprio dissenso (in altri sistemi di diritto si verbalizza il diverso parere e, anzi, lo si utilizza pubblicamente per aiutare l’interpretazione della sentenza), quello ha preso la forma di una sentenza successiva. Tutto questo dice una cosa terribile: s’è scassata la Cassazione. La prova ce l’avete sotto gli occhi, contenuta nelle due sentenze. Questo è il punto che considero più rilevante e, ovviamente, di valore generale. Ma so benissimo che tutti guarderanno al nome del condannato, sicché aggiungo un dettaglio, che le tifoserie interpreteranno da par loro, mentre a me preme perché conferma quanto appena, tristemente, constatato: quel condannato, quando ancora era imputato, sarebbe dovuto finire davanti alla terza sezione, perché così stabilisce la Costituzione, affermando che il giudice non lo sceglie nessuno, ma è precostituito per legge, invece finì davanti alla sezione feriale. Perché accadde? Allora si disse, e ovunque si scrisse, perché i reati contestati sarebbero andati in prescrizione di lì a qualche settimana. In questi casi, giustamente, non si lascia che le ferie dei giudici mandino al macero le sentenze. Ma l’autorità giudiziaria di Milano, dove si era svolto il processo e dove risiedeva la procura che aveva sostenuto l’accusa, aveva inviato un fax con il quale dimostrava che la prescrizione, correttamente conteggiata, non era così imminente. Le tifoserie pro Berlusconi grideranno d’orrore, vedendoci il complotto. Le tifoserie anti Berlusconi grideranno d’orrore, vedendoci la delegittimazione di giudici e sentenza. Lasciatemi accudire l’orrore silente, per una giustizia che si fatica a considerare tale.
I giudici Esposito e Berlusconi: il figlio gli chiedeva favori, il padre lo condannava, scrive "Articolo 3". Si torna a parlare degli anomali rapporti tra i giudici Esposito, padre e figlio, e l'ex premier Silvio Berlusconi. Il motivo è chiaro: nell'agosto del 2013, il collegio della Corte di Cassazione, presieduta da Antonio Esposito, aveva confermato la condanna di 4 anni per evasione fiscale nei confronti di Berlusconi, nell'ambito del processo Mediaset. Nello stesso periodo, però, il figlio di Antonio, Ferdinando Esposito, giudice a Brescia, aveva avuto rapporti con l'ex premier. E non solo: ci sarebbero state anche delle visite, ad Arcore, e regali. Il rapporto "sconveniente" è emerso nell'ambito di un altro processo, che con quello Mediaset non c'entra niente: Ferdinando Esposito è indagato per “tentata induzione indebita” e “tentata estorsione”. Secondo gli inquirenti, avrebbe fatto pressioni indebite per spingere un avvocato, oggi suo accusatore, a subentrare nell'affitto da 32mila euro annui della casa in cui il pm abitava. L'accusatore di Esposito, nel raccontare il tutto, aveva anche rivelato appunto i rapporti con Berlusconi. E il giudice, da parte sua, li ha confermati: ha rivelato di aver conosciuto l'ex premier attraverso la parlamentare di Forza Italia Michela Brambilla e, tra il 2009 e il 2013, vi furono anche delle visite ad Arcore che, secondo il pm, riguardavano una sua «possibile entrata in politica», cosa che poi non è avvenuta. "Io mai e poi mai nella maniera più assoluta ho trattato questioni che avessero a che fare con i processi Ruby e Mediaset”, ha precisato, pur confessando di aver anche ricevuto dei regali da Berlusconi: «Soltanto regalie d’uso che è solito dare a tutti quando si presentano lì», ossia cravatte.
Ed ancora. «Incompatibilità ambientale» Via da Milano il pm Esposito, scrive Luigi Ferrarella su “Il Corriere della Sera”. Stop come pm e via dalla Procura di Milano: la sezione disciplinare del Csm ha deciso in via cautelare il trasferimento a Torino di Ferdinando Esposito per «incompatibilità ambientale» (con la sede giudiziaria di Milano) e «funzionale» (con il ruolo inquirente) del pm della Procura di Milano, nipote dell’ex procuratore generale della Cassazione (Vitaliano) e figlio del magistrato (Antonio) che in Cassazione nell’estate 2013 presiedette il collegio di 5 giudici che condannarono Silvio Berlusconi per frode fiscale Mediaset. Tra i capi di «incolpazione» disciplinare (per cui ora proseguirà il procedimento di merito) c’erano la disponibilità per quasi 4 anni di un attico per il quale circa 150.000 euro di affitto furono saldati dalla società di un manager e da un banchiere all’epoca inquisito dalla Procura di Milano; i rapporti con l’avvocato ed ex amico Michele Morenghi, per i quali il pm è al momento indagato a Brescia; prestiti di denaro da più persone, tra le quali un consulente proposto a un collega pm; e la storia del bigliettino dato durante le indagini a questo collega pm per chiedergli «inventiamoci qualcosa è una cazzata ma è importante che le versioni coincidano». Esposito impugnerà il trasferimento cautelare disciplinare alle Sezioni Unite civili della Cassazione.
«Non si può fare l’ayatollah dell’Antimafia», scrive “Tempi”. «A vent’anni di distanza si deve prendere atto che è una vera illusione affidare alla magistratura le leve del cambiamento». Parola di Giovanni Fiandaca, giurista, candidato Pd alle Europee 2014. «Non si può fare l’ayatollah dell’Antimafia», dice oggi al Corriere della Sera Giovanni Fiandaca. Giurista palermitano, celebrato trai maggiori esperti di diritto penale, Fiandaca correrà nelle liste del Pd per le Europee. Il fatto è di straordinario interesse, soprattutto perché segnala che, anche a sinistra, qualcosa si muove nel campo di chi non ne può più di una politica asservita alla magistratura. Il fatto che poi Fiandaca sia un ex membro del Csm, maestro di Antonio Ingroia, uno dei penalisti di riferimento della sinistra, non fa altro che aumentare l’interesse per questa candidatura (molto osteggiata infatti dalle parti di Travaglio e manettari affini). Nei mesi scorsi, l’ordinario di Diritto Penale all’università palermitana ha avuto parole molto nette sia sulla trattativa Stato-Mafia sia sul suo allievo Ingroia che ha pesantemente criticato. Ma Fiandaca ha fatto anche un discorso di più ampio respiro sulla situazione della giustizia in Italia, coinvolgendo nelle critiche anche il mondo dell’informazione per la “drammatizzazione” eccessiva con cui si sofferma su indagini e processi solo per attizzare gli istinti più bassi e forcaioli. Al Corriere, dunque, Fiandaca spiega che l’Antimafia oggi va ripensata perché «nessuno può arrogarsi il diritto di decretare cosa è Antimafia autentica o fasulla». Così come un ripensamento va fatto sulla stagione che ha seguito Tangentopoli: «A vent’anni di distanza si deve prendere atto che è una vera illusione affidare alla magistratura le leve del cambiamento». Anche a Repubblica il professore dice: «La sinistra, per 20 anni, ha coltivato l’idea dell’intoccabilità dei magistrati. Da intellettuale non posso che criticare con forza questo appiattimento fideistico e dogmatico».
Così si decapita la democrazia. Un uomo politico è stato fatto fuori con una sentenza anziché con il voto: i pm hanno un potere illimitato, scrive Vittorio Feltri, Venerdì 02/08/2013, su "Il Giornale". Fino all'ultimo non ci avevamo creduto. Pensavamo fosse impossibile che si potesse far secco un uomo politico con una sentenza anziché col voto popolare. E invece è successo proprio questo: Silvio Berlusconi è stato fatto fuori; non potrà più mettere piede in Parlamento. Non solo perché la pena accessoria (interdizione dai pubblici uffici) glielo vieta per un periodo ancora da stabilirsi, ma anche perché esiste una legge, paradossalmente voluta dal centrodestra, secondo la quale chi ha subìto una condanna superiore a due anni di carcere non ha facoltà di presentarsi candidato alla Camera o al Senato. Peggior disastro era inimmaginabile. Anzi, si supponeva che il terzo grado di giudizio agisse con mano più leggera rispetto all'appello e trovasse il modo per salvare capra e cavoli. Dove per capra si intende la dignità della giustizia, che aveva infierito sull'imputato eccellente, e per cavoli si intende l'equilibrio politico che la maggioranza cosiddetta delle larghe intese garantiva all'Italia, sostenendo il governo guidato da Enrico Letta e tenuto a battesimo dal presidente Giorgio Napolitano. Non è stato così. I giudici della Corte di Cassazione, nonostante la difesa brillante dell'avvocato Franco Coppi, affiancato dal collega Niccolò Ghedini, hanno preferito confermare il verdetto infausto che costringe il fondatore di Forza Italia e del Popolo della libertà ad arrendersi. Non è questa la sede più adatta per entrare nel merito delle accuse rivolte al proprietario di Mediaset nonché capo carismatico del Pdl. Ci limitiamo a valutare le conseguenze della sentenza. Che sono terribili per il nostro Paese. L'eliminazione diremmo fisica di un soggetto politico importante, quale è (era) il Cavaliere, per via giudiziaria, costituisce un precedente che fa venire i brividi: la democrazia è stata per la prima volta decapitata in un tribunale. Un fatto inedito e gravissimo che segna l'inizio, probabilmente, di un'era in cui l'esito della lotta politica non sarà più determinato dal consenso popolare, bensì dalle toghe cui gli stessi politici hanno consegnato poteri illimitati, illudendosi di trarne chissà quali vantaggi. Ci riferiamo alla rinuncia avvenuta vent'anni orsono, da parte dei deputati e dei senatori, dell'immunità parlamentare che i padri costituenti avevano introdotto nella Carta allo scopo di tutelare gli eletti nella loro libertà e indipendenza, anche dalla magistratura. Abolita l'immunità, i parlamentari si sono esposti all'azione penale obbligatoria col risultato che qualunque sostituto procuratore può aprire un'inchiesta e portarla a compimento contro chi sia stato prescelto dai cittadini e ne abbia ricevuto il mandato di rappresentarli alla Camera o in Senato. Se poi aggiungiamo che, nel periodo di Tangentopoli e Mani pulite, si è creata una strana alleanza tra sinistra e alcune toghe, si comprende il motivo per il quale vari magistrati hanno dato l'impressione, col loro lavoro, di favorire un partito danneggiandone altri. Naturalmente, queste sono chiacchiere, il cui senso molti non condividono. Rimane il fatto storico che Berlusconi, da quando ha smesso di fare l'imprenditore e si è gettato nell'agone politico, non ha più avuto pace. I suoi guai giudiziari cominciarono infatti nel 1994, subito dopo aver vinto le elezioni nazionali. Decine di processi, accuse d'ogni tipo, perquisizioni, controlli. Mediaset non ha mai più avuto requie. E il suo principale azionista, il Cavaliere, ha trascorso più tempo a difendersi che non a curare gli interessi degli italiani che governava o che rappresentava all'opposizione. Un fenomeno mai visto, al quale tuttavia ci eravamo abituati. A un certo punto, Berlusconi indagato o processato non faceva più notizia. Era una consuetudine. Tant'è che nessuno immaginava che egli potesse essere condannato. Anche ieri, in attesa del verdetto della Cassazione, eravamo tutti tranquilli: non lo condanneranno mai. La nostra fantasia, pur fervida, non contemplava l'ex premier privato della libertà personale. Viceversa, è successo anche questo: in galera. O ai domiciliari. O ai servizi sociali. Non sono i dettagli che contano ma la liquidazione di un personaggio con le maniere forti. Quelle della legge. Che non si discute. Chissà perché, poi, una sentenza emessa in nome del popolo italiano non può essere discussa, ma solamente rispettata. C'è qualcosa di abnorme, di assurdo. Quale futuro ci attende? Non lo sappiamo. Sappiamo però che stiamo sprofondando. E la chiamano giustizia.
Silvio no, Matteo neppure Non è che il problema sono proprio i magistrati? I magistrati si sentono dei padreterni e rifiutano critiche desiderando continuare a spadroneggiare, scrive Vittorio Feltri, Domenica 25/10/2015, su "Il Giornale". Ieri i giornaloni italiani, Corriere e Repubblica, avevano in prima pagina un titolo dedicato allo scontro tra toghe e governo. Le prime si lagnano con il secondo perché si sentono delegittimate. Cosa vuol dire? Senza perderci in voli pindarici, semplifichiamo: i magistrati, dei quali non voglio parlare male perché li temo (peggio, ne ho una paura fottuta) ce l'hanno a morte con l'esecutivo, lo accusano di essere più attento alle intercettazioni (odiate dai politici) che alla mafia. Il premier Matteo Renzi risponde irritato: i giudici non fanno mai autocritica. Per pura piaggeria sarei tentato di dare ragione ai signori della cosiddetta giustizia allo scopo di tenermeli buoni, però non posso nascondere il sospetto che essi si sentano dei padreterni e rifiutino critiche desiderando continuare a spadroneggiare. Perché dico questo? Quando a menare il torrone era Silvio Berlusconi, notoriamente intenzionato a riformare l'ordine giudiziario, i magistrati hanno fatto il diavolo a quattro per incastrarlo e ci sono riusciti alla grande, vincendo la partita. Tant'è che lo hanno messo fuori gioco conservando i privilegi di cui godono da sempre. Poi è arrivato Renzi a Palazzo Chigi ed è noto com'è andata. Il premier ha cercato di ridurre le loro ferie, ha introdotto un ampliamento della possibilità di ricorso contro di loro in caso di negligenza, senza contare altri ritocchi limitativi. Non entriamo nei dettagli della mini riforma onde non annoiare il lettore che, comunque, avrà capito quanto sia difficile disciplinare il lavoro nei tribunali. Ciò che ci sorprende è il fatto che, a prescindere dal colore della maggioranza da cui dipende la guida del Paese, i magistrati - non tutti, ma quasi - mal sopportino le ingerenze nella loro attività, dando l'impressione di considerarsi intoccabili, al di sopra di ogni autorità, come se costituissero una casta divina, non soggetta ad alcun controllo. Perfino noantri, gente volgare, siamo consapevoli che una Repubblica democratica si regga sull'equilibrio dei poteri: legislativo, esecutivo e giudiziario. Ma non ignoriamo neppure che esista la legittima possibilità che ciascuno di essi sia soggetto a modifiche tese a migliorare il funzionamento dello Stato. Un esempio. Per quale motivo qualunque lavoratore che commette un errore è chiamato a risponderne in sede penale o civile, tranne colui che indossi una toga? I medici, ai quali la nostra vita è legata, se sbagliano una diagnosi o una terapia, sono processati ed eventualmente obbligati a risarcire, mentre i magistrati sono sollevati da responsabilità? Inoltre, perché i dipendenti pubblici sono costretti a timbrare il cartellino, eccetto lorsignori addetti all'amministrazione della giustizia? Ci sono giudici che si portano a casa fascicoli giudiziari, nei quali chiunque, dai figli alle mogli e alle collaboratrici domestiche, ha facoltà di ficcarvi il naso, quando invece dovrebbero restare segreti? Non sarebbe il caso di rivedere certe norme? Vietato anche solo parlarne senza suscitare reazioni scomposte da parte degli interessati. Noi non siamo tifosi di Renzi, e il lettore se ne sarà accorto, ma nella presente circostanza siamo con lui, che non ha in programma di distruggere l'ordine giudiziario, bensì di renderlo compatibile con gli schemi vigenti in altri settori, non solo pubblici. Suvvia magistrati, siamo nelle vostre mani; vi preghiamo di averle pulite. Vi consigliamo altresì la lettura del libro di un vostro collega aderente a Magistratura democratica, Piero Tony, ex procuratore capo di Prato, ovviamente di sinistra, che ha denunciato le porcherie della propria categoria. Un testo istruttivo, mai smentito, dove si scoprono molti altarini e si dimostra quanto una riforma della corporazione non sia necessaria, bensì indispensabile. Se destra e sinistra sono critiche nei confronti della casta togata forse la casta stessa dovrebbe tacere e cogliere l'occasione per farsi un esame di coscienza. Se ce l'ha. Dimenticavo il titolo del volume: Io non posso tacere.
BERLUSCONI. VENTA’ANNI DI PERSECUZIONE GIUDIZIARIA?
Berlusconi, vent’anni di rapporti con la magistratura. Dalle «toghe rosse» ai ringraziamenti per i giudici della Cassazione che hanno confermato l’assoluzione nel processo Ruby. Dal 22 novembre 1994 - data in cui Berlusconi, capo del governo, riceve un invito a comparire dalla Procura di Milano che sta indagando sulle tangenti alla Guardia di finanza - fino a oggi, sono stati altalenanti e spesso conflittuali i rapporti del leader di Forza Italia con la magistratura, scrive “Il Corriere della Sera”.
1. Il pool «Mani Pulite» e l’avviso di garanzia del 1994. Il primo interessamento della giustizia nei confronti di Berlusconi risale al 1983 quando la Guardia di finanza segnalò un suo presunto coinvolgimento in un traffico di droga con la Sicilia. L’inchiesta venne archiviata. La prima condanna, invece, è del 1990: la Corte d’appello di Venezia, dichiara Berlusconi colpevole di aver giurato il falso davanti ai giudici, a proposito della sua iscrizione alla lista P2. Nel settembre 1988, infatti, in un processo per diffamazione da lui intentato contro alcuni giornalisti, Berlusconi aveva dichiarato al giudice: «Non ricordo la data esatta della mia iscrizione alla P2, ricordo che è di poco anteriore allo scandalo». Nonostante la Corte d’appello di Venezia dichiari Berlusconi colpevole (il giudice era Luigi Lanza), il reato è considerato estinto per l’amnistia del 1989. Il 22 novembre del 1994 Berlusconi, capo del governo, mentre presiede la Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulla criminalità transnazionale, riceve un invito a comparire dalla Procura di Milano che stava indagando sulle tangenti alla Guardia di finanza. Le tangenti servivano per alleggerire le verifiche alle società Mondadori, Mediolanum, Videotime, Telepiù: in primo grado Berlusconi è stato condannato a 2 anni e 9 mesi; in appello, grazie alle attenuanti generiche, è scattata la prescrizione.
2. All Iberian, dalle accuse alla prescrizione. Il 12 luglio 1996 Silvio Berlusconi, l’ex segretario del Psi Bettino Craxi, l’amministratore delegato di Mediaset Ubaldo Livolsi vengono rinviati a giudizio con altre nove persone per l’inchiesta sul presunto finanziamento illecito della Fininvest, attraverso la società All Iberian, al Psi nel 1991. Il processo inizia il 21 novembre 1996 davanti ai giudici della seconda sezione penale del tribunale di Milano. Il pm Francesco Greco chiede per Berlusconi 5 anni e 6 mesi di reclusione e 12 miliardi di multa poi, dopo lo stralcio del reato di falso in bilancio, riformula la richiesta in due anni e mezzo di reclusione e 12 miliardi di multa. Nel 1998 Berlusconi viene condannato in primo grado (2 anni e 4 mesi). «I giudici hanno riscritto il codice penale per allineare le norme alle esigenze repressive della procura» dichiara Berlusconi. In appello però, nel 2000, sempre per le attenuanti generiche scatta la prescrizione.
3. Colombo, il caso Lentini e la prescrizione. C’è anche un capitolo «sportivo»: versamento in nero di una decina di miliardi dalle casse del Milan a quelle del Torino, per l’acquisto di Gianluigi Lentini. Il dibattimento si conclude con la dichiarazione che il reato è prescritto, grazie alla legge che abolisce il falso in bilancio. È lo stesso pubblico ministero Gherardo Colombo a chiedere l’applicazione della prescrizione, dopo che il tribunale respinge la sua eccezione di incostituzionalità della normativa varata nel marzo 2002 in materia di falso in bilancio.
4. Il tribunale civile e il risarcimento a De Benedetti. Berlusconi è poi coinvolto in una lunga serie di processi per la corruzione dei giudici romani in relazione al Lodo Mondadori e al caso Sme. Sono i processi che hanno protagonista Stefania Ariosto, il teste «Omega» e Cesare Previti. Condanne per Cesare Previti e il giudice Metta. Per quanto riguarda il Lodo Mondadori, dopo una guerra durata vent’anni, si stabilisce che Berlusconi deve risarcire De Benedetti. Luigi de Ruggiero, Walter Saresella e Giovan Battista Rollero sono i tre giudici della seconda sezione civile della Corte d’Appello di Milano che emettono la sentenza nell’ambito della vicenda del Lodo Mondadori che condanna Fininvest al pagamento di circa 560 milioni di euro. La cifra diventa 494 milioni dopo la Cassazione.
5. De Pasquale e l’accusa nel caso Mills, ma è prescrizione. Le procure di Caltanissetta e Firenze che hanno indagato sui mandanti a volto coperto delle stragi del 1992 e del 1993 hanno svolto indagini sull’eventuale ruolo che Berlusconi e Dell’Utri possono avere avuto in quelle vicende. L’inchiesta è stata chiusa con l’archiviazioni nel 1998 (Firenze) e nel 2002 (Caltanissetta). La procura di Palermo, inoltre, ha indagato su Berlusconi per mafia: concorso esterno in associazione mafiosa e riciclaggio di denaro sporco. Nel 1998 l’indagine e’ stata archiviata per scadenza dei termini massimi concessi per indagare. Definitiva la prescrizione per il caso Mills, l’avvocato inglese che avrebbe ricevuto 600 mila euro da Berlusconi per testimonianze reticenti ai processi per All Iberian e tangenti alla Gdf. A sostenere l’accusa contro Berlusconi il pm Fabio De Pasquale.
6. Caso Ruby, Boccassini è pubblica accusa. Il procuratore aggiunto di Milano Ilda Boccassini, insieme al pm Antonio Sangermano, rappresenta la pubblica accusa nel processo di primo grado sul caso Ruby. I rapporti di Berlusconi con Boccassini sono conflittuali. L’ex premier respinge le accuse e condanna l’operato dei pm di Milano.
7. Tre donne per la condanna in primo grado. Il 24 giugno 2013, nel processo Ruby, Silvio Berlusconi viene condannato in primo grado a 7 anni per entrambi i reati contestati: concussione per costrizione e prostituzione minorile. Il collegio della quarta sezione penale del Tribunale di Milano che giudica Berlusconi è composto da donne: la presidente Giulia Turri, che nel marzo del 2007 firmò l’ordinanza di arresto per il “fotografo dei vip” Fabrizio Corona; Carmen D’Elia, che già nel 2002 aveva fatto parte del collegio di giudici del processo Sme che vedeva come imputato, tra gli altri, proprio Silvio Berlusconi; Orsola De Cristofaro, la terza componente del collegio, con un passato da pm e gip, già giudice a latere nel processo che ha portato alla condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario di chirurgia toracica, imputato con altri medici per il caso della clinica Santa Rita.
8. L’assoluzione in appello. Il presidente si dimette. Il processo d’appello per il caso Ruby si tiene davanti alla seconda Corte d’Appello: Enrico Tranfa è il presidente, Concetta Lo Curto e Alberto Puccinelli i giudici a latere. Berlusconi viene assolto dal reato di concussione «perché il fatto non sussiste» e dal reato di prostituzione minorile «perché il fatto non costituisce reato». L’ex Cavaliere commenta che «la maggioranza magistrati è ammirevole». Enrico Tranfa, il presidente, si dimette subito dopo aver firmato le motivazioni della sentenza, in dissenso con la sentenza presa a maggioranza con il sì degli altri due giudici. E così, dopo 39 anni di servizio, a 15 mesi dalla pensione, il magistrato lascia anzitempo la toga. Tranfa ha esercitato la professione in gran parte a Milano. Negli anni 90 è stato all’ufficio Gip. Come giudice delle indagini preliminari, nel periodo di Mani Pulite, si era occupato di uno dei filoni dell’inchiesta sugli appalti Anas e di quella sulla centrale dell’Enel a Turbigo per cui dispose l’arresto, tra gli altri, dell’ex assessore lombardo in quota alla Dc Serafino Generoso. Nel 2002 è stato nominato presidente del Tribunale del Riesame sempre di Milano. Come giudice d’appello ha confermato, tra l’altro, la condanna a tre anni di carcere per Ubaldo Livolsi per la bancarotta di Finpart. Concetta Lo Curto, entrata in magistratura nel 1990, è stata giudice al Tribunale di Milano, prima all’ottava sezione penale e poi alla terza dal 1995 al 2013 quando poi è passata in Corte d’Appello. Nel 2010 assolse l’allora deputato del Pdl Massimo Maria Berruti, imputato per la vicenda Mediaset (la sua posizione era stata stralciata da quella di Berlusconi e degli altri). Puccinelli, entrato in magistratura nell’89, è stato il giudice relatore al processo di appello che si è concluso con la prescrizione per Berlusconi, imputato per la vicenda del «nastro Unipol».
9. Processo Ruby, il pg De Petris contro l’assoluzione. La sesta sezione penale della Corte di Cassazione confermato l’assoluzione, che diventa definitiva, di Silvio Berlusconi nel processo Ruby. Il sostituto procuratore della Corte d’Appello Pietro De Petris aveva fatto ricorso in Cassazione contro l’assoluzione.
10. Processo Mediaset, l’accusa di De Pasquale e Spadaro. Il 18 giugno 2012 i pm di Milano Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro chiedono una condanna a 3 anni e 8 mesi di reclusione per Silvio Berlusconi, imputato di frode fiscale nel processo sulle presunte irregolarità nella compravendita dei diritti tv da parte di Mediaset. Il 26 ottobre 2012 l’ex premier viene condannato a 4 anni di reclusione, cinque anni di interdizione dai pubblici uffici e tre anni di interdizione dagli uffici direttivi delle imprese.
11. Pena più severa di quanto richiesto. Il presidente del collegio che condanna Berlusconi in primo grado è Edoardo D’Avossa con i giudici a latere Teresa Guadagnino e Irene Lupo). La pena è maggiore di quanto chiesto dai pm. Berlusconi commenta: «È una condanna politica, incredibile e intollerabile. È senza dubbio una sentenza politica come sono politici i tanti processi inventati a mio riguardo».
12. Il giudice Galli conferma in appello. L’8 maggio 2013, dopo quasi sei ore di camera di consiglio, i giudici della seconda Corte d’Appello di Milano, presieduti da Alessandra Galli (nella foto Brandi/Fotogramma), confermano la condanna a 4 anni di reclusione, di cui tre coperti da indulto, per Silvio Berlusconi, accusato di frode fiscale nell’ambito del processo sulla compravendita dei diritti tv Mediaset. Berlusconi parla di «persecuzione» da parte della magistratura che vuole eliminarlo dalla scena politica.
13. Esposito, la Cassazione e l’intervista contestata. Il primo agosto 2013 la Cassazione conferma la condanna a quattro anni di carcere. A leggere la sentenza sul processo Mediaset è il presidente della sezione feriale della corte di cassazione Antonio Esposito. Nei giorni successivi, il giudice Esposito finisce nella bufera per un’intervista a «Il Mattino» in cui parla della sentenza sul processo Mediaset-Berlusconi. Lo stesso magistrato farà seguire una smentita riguardo ad alcuni passaggi. In particolare, Esposito smentisce anche «di aver pronunziato, nel colloquio avuto con il cronista - rigorosamente circoscritto a temi generali e mai attinenti alla sentenza, debitamente documentato e trascritto dallo stesso cronista e da me approvato - le espressioni riportate virgolettate: “Berlusconi condannato perché sapeva non perché non poteva non sapere».
10 marzo 2015. La Corte di Cassazione assolve. Questa donna (la Boccassini) ha distrutto il Paese. Ma resterà impunita. Anche un magistrato come Emiliano si indigna: "Chieda scusa". E nonostante tutto Ilda Boccassini rimarrà al suo posto come sempre, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. Per La Repubblica, Berlusconi non è un innocente perseguitato ma un «colpevole salvato», come si evince dal titolo che racconta con stizza dell'assoluzione definitiva in cassazione sul caso Ruby. Il Corriere della Sera affida invece al suo segugio Luigi Ferrarella la difesa senza se e senza ma dell'operato dei pm milanesi. Un ufficio stampa della procura non avrebbe saputo fare di meglio e, ovviamente, Ferrarella tace sul fatto che lui stesso e autorevoli colleghi del suo giornale nel corso di questi anni avevano già emesso la sentenza di colpevolezza in centinaia di articoli nei quali si spacciavano per prove certe i farneticanti teoremi dell'accusa. Non sappiamo invece il commento di Ilda Boccassini, la pm che ha fatto da redattore capo di quella grande messa in scena truffaldina ed esclusivamente mediatica che è stata l'inchiesta Ruby. Una cosa però conosciamo. E cioè che la Boccassini, grazie a questa inchiesta, è stata inclusa dalla rivista statunitense Foreign Policy al 57esimo posto nella lista delle personalità che nel corso del 2011 hanno influenzato l'andamento del mondo nella politica, nell'economia, negli esteri. Non stiamo parlando di un dettaglio. Anche dall'altra parte dell'Oceano erano giunti alla conclusione che le notizie costruite dalla procura di Milano e spacciate da Corriere e Repubblica non costituivano un mero fatto giudiziario ma avevano contribuito in modo determinante a modificare giudizi sull'Italia con ricadute decisive financo sul piano internazionale. Oggi, grazie alla sentenza di Cassazione, sappiamo che si trattò di una iniziativa scellerata, completamente falsa, paragonabile a un complotto per destabilizzare un Paese sovrano. Complotto ordito da magistrati e sostenuto da complici, o almeno utili idioti, nelle redazioni dei giornali nazionali ed esteri, nelle stanze di governi stranieri e in quelle della politica di casa. A partire da quella più prestigiosa del Quirinale, allora abitata da Giorgio Napolitano. Il quale non solo non mosse un dito per fermare il linciaggio del suo primo ministro, ma, proprio sull'onda di quella destabilizzazione, ricevette in segreto banchieri, editori e imprenditori di sinistra per organizzare un controgoverno (Monti, per intenderci) nonostante quello in carica godesse ancora della piena fiducia del Parlamento. Alla luce di tutto questo, e in attesa che la Corte europea faccia giustizia di un'altra bufala giudiziaria (la condanna di Berlusconi per evasione fiscale, avvenuta grazie al trucco di assegnare la sentenza non al giudice naturale, ma a un collegio costruito ad hoc, guarda caso su sollecitazione del Corriere della Sera), ora si pongono problemi seri che meritano risposte veloci e all'altezza di un Paese libero e democratico. Riguardano la permanenza nelle loro delicate funzioni dei responsabili e la riabilitazione politica della vittima Berlusconi. Nessuno, su questo, può permettersi di fare il pesce in barile.
«Non farò la fine di Bettino Craxi». «Non mi faranno finire come Giulio Andreotti». Negli ultimi mesi, con frequenza significativa, Silvio Berlusconi esorcizzava il pantheon tragico dei suoi predecessori della Prima Repubblica tritati dalla macchina della giustizia, scrive Massimo Franco, sempre su “Il Corriere della Sera”. E senza volerlo, né saperlo, accostava la propria sorte alla loro. Il primo, ex premier socialista, morto contumace o esule, secondo i punti di vista, in Tunisia; il secondo, democristiano, assolto per alcuni reati e prescritto per altri dopo processi lunghi e tormentati. Ma comunque liquidato politicamente. Il ventennio berlusconiano cominciò all'inizio della loro fine. E adesso può essere archiviato da una sentenza della Corte di cassazione che conferma una condanna per frode fiscale e dilata il vuoto del sistema politico: un cratere di incertezza più profondo di quello lasciato dalla fine della Guerra Fredda. Puntellare la tregua politica sarà meno facile. Anche se tutti sanno che i problemi rimangono intatti e non esiste un'alternativa al governo di larghe intese di Enrico Letta. Il tentativo di stabilizzazione dell'Italia vacilla dopo un verdetto che riconsegna, irrisolto, il problema dei rapporti fra politica e magistratura. Mostra entrambe impantanate in una lotta che ha sfibrato il Paese; e che si conclude con una vittoria dei giudici dal sapore amaro: se non altro perché allunga un'ombra di precarietà su un'Italia bisognosa di normalità. E poi, una parte dell'opinione pubblica tende a percepire Berlusconi come una vittima e la sentenza rischia di accentuare questa sensazione: il tono del videomessaggio di ieri sera a «Porta a porta» è studiato e esemplare, in proposito. Certamente, non si tratta più del Cavaliere in auge che sugli attacchi e sugli errori altrui mieteva consensi e potere; che risorgeva da ogni sconfitta e sentenza sfavorevole per riemergere più agguerrito di prima, a farsi beffe della sinistra e dei «magistrati comunisti». Non è il Berlusconi del contratto con gli italiani stipulato davanti alle telecamere né il leader colpito in faccia da una statuetta scagliata da un fanatico nel dicembre del 2009 dopo un comizio in piazza Duomo, a Milano, che si issava sanguinante sul predellino dell'auto come per gridare: «Sono invincibile». Stavolta c'è un signore appesantito dagli anni, che ha perso oltre sei milioni di voti alle elezioni di febbraio e che lotta per la sopravvivenza. Continuando a inanellare sbagli, la sinistra gli ha dato un altro vantaggio nelle elezioni per il Quirinale. E non è escluso che la sentenza della Cassazione gli regali un ultimo, involontario aiuto. Ma la corsa è diventata affannosa da tempo. Da un paio d'anni, da quando l'illusione del berlusconismo «col sole in tasca» si è trasformato nell'incubo di un'Italia immersa nella crisi finanziaria e economica, la sua lotta ha velato il tentativo di salvarsi dai processi; e l'incapacità di liberarsi del passato e di preparare una nuova classe dirigente. Le immagini di Palazzo Grazioli, la sua residenza romana, ieri sera davano l'idea del bunker nel quale si discuteva l'ultima battaglia. Un'offensiva segnata stavolta dalla disperazione e dall'esasperazione, però, senza più certezze di vittoria. Il governo e la sua maggioranza anomala sono in attesa di sapere che cosa succederà: sebbene Berlusconi sappia che difficilmente potrebbe nascere una coalizione meno ostile al centrodestra; anzi, forse non ne potrebbe nascere nessuna. Fosse stato il 2008, anno della vittoria più trionfale, avrebbe messo in riga tutti in un amen. Ora non più: le tribù berlusconiane sono in lotta e lui fatica a tenerle unite. A frenare l'impatto della sentenza non basta l'annullamento della parte che riguarda la sua interdizione dai pubblici uffici, sulla quale dovrà pronunciarsi di nuovo la Corte d'appello di Milano. Né è stato sufficiente il capovolgimento della strategia processuale, attuato dal professor Franco Coppi: il tentativo tardivo di difendere Berlusconi nel processo e non dal processo, come avevano fatto i suoi legali eletti in Parlamento. L'impressione è che, accusando la magistratura di perseguitarlo, il Cavaliere abbia alimentato senza volerlo quello che chiama «l'accanimento» della Procura; e spinto la Cassazione a confermare le sue responsabilità senza grandi margini di interpretazione. Il contraccolpo che si teme è quello di radicalizzare le posizioni nel Pdl e nel Pd, nonostante i richiami del Quirinale a guardare avanti. Le opposizioni urlano di gioia, pregustando la destabilizzazione. Ma bisogna capire se nel centrodestra l'urto di chi vuole una crisi prevarrà davvero sul tentativo dell'ex premier di «tenere» su una linea di responsabilità. E, sul versante opposto, se il Pd resisterà o no alla pressione di quella sinistra che non ha mai digerito un'alleanza in nome dell'emergenza. Il videomessaggio diffuso da Berlusconi fornisce scarsi indizi. Sembra il sussulto drammatico di un leader che lega le vicende di Tangentopoli del 1992-93 alle proprie, additando una parte della magistratura come «soggetto irresponsabile». I fantasmi del passato lo tallonano, mettendogli in tasca non raggi di sole ma presagi di umiliazione. Lui reagisce promettendo il miracolo dell'ultima rivincita. Evoca Forza Italia e la ripropone per le elezioni europee del 2014. Ma è un ritorno al 1994: la parabola di un ventennio.
Vent'anni di persecuzione continua. Cambiano accuse e processi, ma l'obiettivo della Procura di Milano è sempre lo stesso: il berlusconismo e l'impero del Cav, scrive Luca Fazzo, Venerdì 02/08/2013, su "Il Giornale". E pensare che sarebbe bastato poco. Forse un po' di pazienza in più da parte di Silvio Berlusconi. Forse qualche oscillazione nei misteriosi, delicati equilibri di potere che governano la Procura milanese. Quattordici anni fa, la pace che avrebbe cambiato la storia del paese era a portata di mano: e non si sarebbe arrivati alla sentenza di oggi. Una domenica di maggio del 1999 Berlusconi salì nell'ufficio del pubblico ministero Francesco Greco e ci rimase tre ore. Con Greco e il suo collega Paolo Ielo si parlò ufficialmente di una accusa di falso in bilancio. Ma era chiaro a tutti - e il procuratore capo Gerardo D'Ambrosio lo rese esplicito - che quell'incontro era il segno di un tentativo di dialogo. Berlusconi faceva alcune ammissioni, concedeva - e lo mise per iscritto in una memoria - che l'«espansione impetuosa» del suo gruppo poteva avere creato «percorsi finanziari intricati». La Procura si impegnava ad evitare accanimenti, e a trattare Berlusconi alla stregua di qualunque altro imprenditore: con la possibilità di fuoriuscite soft come quelle concesse al gruppo Fiat. Sarebbe interessante capire ora, a distanza di tanti anni, dove si andò a intoppare il dialogo. Sta di fatto che rapida come era emersa, la strada si arenò. Il partito della trattativa si arrese. E riprese, violento come prima e più di prima, lo scontro senza quartiere. Da una parte un gruppo inquirente che ha dimostrato di considerare Berlusconi, nelle multiformi incarnazioni dei suoi reati, all'interno di quello che può in fondo essere letto come un unico grande processo, come la sintesi dei vizi peggiori dell'italiano irrispettoso delle leggi: il berlusconismo, insomma, come autobiografia giudiziaria della nazione. Dall'altra, il Cavaliere sempre più convinto di avere di fronte un potere fuori dalle regole, dalla cui riduzione ai binari della normalità dipende la sua stessa sopravvivenza. Da vent'anni Berlusconi e la Procura di Milano pensano che l'Italia sia troppo piccola per tutti e due. Ma da dove nasce, come nasce, questa contrapposizione insanabile? L'apertura formale delle ostilità ha, come è noto, una data precisa: 22 novembre 1994, data del primo avviso di garanzia a Berlusconi. Ma la marcia di avvicinamento inizia prima. Inizia fin dalla prima fase di Mani Pulite, quando il bersaglio grosso della Procura milanese è Bettino Craxi. E, passo dopo passo, i pm si convincono che Berlusconi - che pure con le sue televisioni tira la volata all'inchiesta - è la vera sponda del «Cinghialone», il suo finanziatore e beneficiario. Chi c'è dietro All Iberian, la misteriosa società che nell'ottobre 1991 versa quindici miliardi di lire a Craxi, e riesce anche a farsene restituire cinque? Dietro questa domanda, che diventa strada facendo una domanda retorica, i pm lavorano a dimostrare la saldatura tra Craxi e Berlusconi. Quando nell'aprile 1994 Berlusconi diventa presidente del Consiglio, per il pool la vicinanza Craxi-Berlusconi diventa anche continuità politica, perché da subito la battaglia craxiana contro il potere (o strapotere) giudiziario diventa uno dei cavalli di battaglia del nuovo premier. Dal Quirinale viene messo il veto alla nomina di Cesare Previti a ministro della Giustizia. Ma al ministero va Alfredo Biondi, che di lì a poco vara il decreto subito etichettato come «salva ladri», ritirato a furor di popolo dopo il pronunciamento del pool in diretta tv. È da quel momento che lo scontro compie il salto di qualità. Per la Procura milanese non c'è differenza sostanziale tra il Berlusconi imputato e il Berlusconi politico, perché il secondo è funzionale al primo: come dimostreranno poi le leggi ad personam, e, più di recente, la telefonata salva-Ruby alla questura di Milano. Le inchieste che si susseguono in questi vent'anni stanno tutte in questo solco, dentro la teoria della «capacità a delinquere» che diverrà uno dei passaggi chiave della sentenza per i diritti tv. Sotto l'avanzare degli avvisi di garanzia, Berlusconi si irrigidisce sempre di più, come ben racconta l'evoluzione delle strategie difensive: da un professore pacato come Ennio Amodio si passa all'ex sessantottardo Gaetano Pecorella, poi si approda alla coppia da ring, Niccolò Ghedini e Piero Longo. Le dichiarazioni di sfiducia di Berlusconi verso la serenità della giustizia milanese si fanno sempre più esplicite. Per due volte, nel 2003 e nel 2013, il Cavaliere chiede che i suoi processi siano spostati a Brescia, sotto un clima meno ostile. Per due volte la Cassazione gli dà torto. Eppure, fino alla condanna definitiva di oggi, nessuno dei processi era arrivato ad affossare Berlusconi. Assoluzioni con formula piena, prescrizioni, proscioglimenti. Il catalogo dei modi in cui l'asse Ghedini-Longo riesce a tenere l'eterno imputato al riparo da condanne definitive è ricco. Una parte nasce da leggi varate per l'occasione, ma altre assoluzioni danno atto dell'inconsistenza di accuse che la Procura riteneva granitiche. La si potrebbe leggere come una prova della tenuta di fondo del sistema giudiziario, dei contrappesi tra pubblici ministeri e giudici? Berlusconi non la pensa così. E la severità delle ultime sentenze, i giudizi sferzanti dei tribunali del caso Unipol, la batosta del risarcimento a De Benedetti, la decisione dei giudici del processo Ruby 2 di candidarlo a una nuova incriminazione per corruzione in atti giudiziari lo avevano già convinto definitivamente che la contiguità tra pm e giudici era arrivata livelli intollerabili. Guardia di finanza, All Iberian, Mills, Sme, Lodo Mondadori, diritti tv, Mediatrade, Ruby, il rosario delle pene giudiziarie del Cavaliere a Milano sembra interminabile. Cambiano i procuratori, cambiano alcuni dei pubblici ministeri, ma la linea non cambia. Eppure questa è la Procura dove due magistrati di spicco del pool, Antonio Di Pietro e Gerardo D'Ambrosio, hanno detto a posteriori di non avere condiviso la decisione dell'avviso di garanzia del 1994 (il procuratore Borrelli replicò a Di Pietro pacatamente, «Ha detto così? Beh, se si presenta in Procura lo butto giù dalle scale»). È la Procura dove, con Romano Prodi al governo, Francesco Greco andò a un convegno di Micromega ad accusare il centrosinistra, «questi fanno quello che neanche Forza Italia ha osato fare». È insomma la Procura dove la parte più pensante si rende conto che l'insofferenza di Berlusconi verso la magistratura è in fondo l'insofferenza di tutta la politica verso il potere giudiziario, e che non è affatto sicuro che il dopo Berlusconi porti alle toghe spazio e prebende. Ma per adesso lo scontro è con lui, con il Cavaliere. E i pochi giudici che in questi anni hanno disertato, in corridoio venivano guardati storto.
Così Berlusconi smaschererà i giudici. L'ex premier spiegherà agli italiani tutte le falle del processo Mediaset e l'assurdità della condanna: ecco cosa dirà, scrive Paolo Guzzanti, Giovedì 22/08/2013, su "Il Giornale". Che dirà agli italiani Silvio Berlusconi all'inizio di settembre? Tutti si arrovellano, molti si chiedono, altri ipotizzano e quanto a me, ho formato il numero di telefono di Arcore e ho avuto fortuna: mi ha risposto dopo un paio di minuti. Quella che segue non è un'intervista, ma quel che resta di una conversazione durata otto minuti e 43 secondi, tanti quanti ne ha contati il mio cellulare. Che cosa farà dunque l'ex presidente del Consiglio? Se ho capito bene, sta preparando una vera lezione di storia. Certo, sarà la sua storia, ma nessuno può negare che la sua storia coincida con una parte della storia collettiva del nostro Paese. Berlusconi traccerà dunque la storia del suo processo e spiegherà ciò che a suo parere documenta la sua innocenza e l'ingiustizia subíta. Spiegherà che cosa avrebbero potuto dire i testimoni che la sua difesa aveva chiesto di udire, ma che sono stati rifiutati dalla Corte. Sosterrà l'assurdità di una condanna penale per un reato fiscale su una vicenda ancora aperta in sede di ricorso per dire ai suoi ascoltatori ed elettori (prima o poi, si dovrà pur andare a votare) di essere stato vittima di un'antica e ben oliata trappola giudiziaria per farlo fuori. Mi ha però particolarmente colpito quel che Berlusconi ha detto a proposito della magistratura. La sua tesi è che il problema non è tanto quello di un'entità astratta (potere? ordine?) come la magistratura, ma di quella specifica parte dei magistrati che fa capo alla corrente politica chiamata Magistratura democratica. Così, mentre ascoltavo mi è venuto un flash: rivedevo me stesso negli anni Sessanta e Settanta, quando ero psiuppino (da Psiup, Partito socialista di unità proletaria) cioè parecchio più a sinistra del Pci, e cominciai a seguire le vicende e le parole dei primi magistrati di sinistra - chi ricorda più i «pretori d'assalto»? - i loro congressi, le pubblicazioni, i dibattiti. Non ne mancavo uno e li trovavo straordinari: vi si diceva, su una vasta scala di tonalità, che in Italia c'è un deficit di democrazia che sarebbe stato colmato soltanto quando la sinistra, allora comunista, sarebbe andata al potere. I magistrati di quella corrente che diventò «Emmedì» (Magistratura democratica, appunto) non facevano mistero della loro missione politica mentre indossavano la toga e dicevano tutti più o meno così: «Noi, in quanto operatori della giustizia, dobbiamo fare tutto quanto in nostro potere per bloccare qualsiasi persona o partito che possa ostacolare l'avanzata della sinistra». A me, allora che avevo quarant'anni meno di oggi, sembravano propositi meravigliosi, rivoluzionari e «in linea» con la nostra linea di allora. Non ce ne fregava assolutamente niente - politicamente parlando - di che cosa fosse vero e che cosa fosse falso, di chi fosse buono e di chi fosse cattivo, purché la linea andasse avanti. Eravamo tutti, allora, «sdraiati sulla linea». Non avevamo, noi giovani rivoluzionari e i giovani magistrati di allora, nulla di liberale: la parola «libertà» la trovavamo utile per le lapidi e le canzoni partigiane che cantavamo a squarciagola, perché venivamo da una scuola di pensiero - comune a tutti i comunisti, ma anche a tutti i fascisti e nazionalsocialisti del secolo scorso - secondo cui l'unica cosa che importa è la presa del potere, possibilmente per vie legali e democratiche (ma senza rinunciare ad altre opzioni che la Storia nella sua generosità può metterti a disposizione) sapendo che questa presa del potere, come ogni parto difficile, ha bisogno di bravi ginecologi, talvolta del forcipe e anche della lama del bisturi. «La rivoluzione non è un pranzo di gala» disse Lenin a Bertrand Russell orripilato per le esecuzioni di massa a Mosca, e neanche la giustizia deve essere tanto ossessionata dalle buone maniere, o semplicemente dall'idea «borghese» del giudice terzo, indipendente, sereno, che appende con il cappotto anche le sue idee sull'attaccapanni. Qualcosa di analogo avveniva in psichiatria. Ero molto amico di Franco Basaglia, padre della psichiatria democratica, che quando era a Roma veniva spesso a prendere un caffè da me. Basaglia mi spiegava con entusiasmo rivoluzionario che non esiste la malattia mentale, ma soltanto la malattia generata dalla classe borghese che con le sue contraddizioni e violenze crea la malattia, schizofrenia e paranoia. Dunque, mi diceva, il disturbo andava trattato come una questione politica: «Non si tratta soltanto di chiudere i manicomi - chiariva - ma di far esplodere il nucleo sorgente della borghesia stessa, ovvero la famiglia borghese». Ne seguì una legge di riforma psichiatrica che ha seguito quelle direttive: i manicomi sono stati chiusi, ma la sofferenza psichiatrica è stata spostata sulla famiglia incriminata con il bel risultato di far accatastare negli anni più di diecimila morti per violenze psichiatriche, come documentò l'indimenticato psicanalista liberale e libertario Luigi De Marchi in un convegno che promovemmo insieme in Senato anni orsono. È sintomatico come due cardini regolatori della stabilità sociale come la psichiatria e la giustizia siano stati mossi dallo stesso impulso ideologico e negli stessi anni. E che da allora seguitino a diffondere le conseguenze di quella distorsione ideologica. Ma torniamo alla chiacchierata con Berlusconi. Quando mi ha riportato alla memoria storica di Emmedì per averne letto - mi ha detto - centinaia di documenti antichi e recentissimi - mi sono suonati parecchi campanelli. Ho ricordato che quando io stesso mi sentivo dalla loro parte mi rendevo conto che non avessero come primo scopo l'esercizio di una giustizia indipendente, tale da garantire ogni cittadino a prescindere dalle sue idee. Volevano, al contrario, garantire la vittoria di chi stava sul carro della presa del potere e procurare la sconfitta di chiunque fossa dalla parte opposta e ostacolasse la sinistra. La fedina penale di Berlusconi diventò subito nerissima appena sfidò «la gioiosa macchina da guerra» di Achille Occhetto e la ridusse in frantumi. Partirono subito raffiche di avvisi di garanzia che mi ricordavano i killer di Al Capone che, quando andavano a far fuori qualcuno, prima di tirare il grilletto ci tenevano a precisare: «Nothing personal: it's just business». Nulla di personale, è solo una questione di affari, e facevano fuoco. Anche con Berlusconi, e non soltanto con lui molti magistrati sembrano comportarsi come se fossero animati da quell'antico modo di intendere la giustizia. E così quando il Cavaliere mi ha detto che si era messo a studiare i dossier di tutte le dichiarazioni politiche dei magistrati di Emmedì raccolte negli ultimi anni, ho capito perfettamente a che cosa si riferiva. Spesso si leggono delle espressioni sarcastiche sulla questione delle «toghe rosse», come se si trattasse di una tipica panzana berlusconiana, del tutto inventata. Penso che siano sarcasmi difensivi. Penso anche - calendario e fatti alla mano - che la magistratura avesse fin dal 1980, almeno, tutti gli elementi per scatenare una campagna moralizzatrice sulle ruberie della politica, sulla commistione tra affari e politica, come io documentai con la storica e fortunata intervista a Franco Evangelisti passata alla storia delle cronache come «A' Fra' che te serve». La risposta della magistratura fu il silenzio di tomba. Il sistema di approvvigionamento dei partiti, Pci in testa, andava allora benissimo anche a quella parte della magistratura democratica che soltanto quando partì la parola d'ordine di decapitare la prima Repubblica, scattò gridando allo scandalo, alla necessità di fare pulizia, di castigare e demolire. Prima, neanche un fiato. L'operazione Mani pulite annunciò con le trombe e i tamburi la scoperta dell'acqua calda, annunciando che i partiti prendevano il pizzo dagli imprenditori e il Pci, in barba al codice penale e alla Costituzione, lo prendeva dall'Urss. Anzi, il reato commesso dal Pci, che importava capitali in nero su cui non pagava una lira di tasse - a proposito di evasione fiscale! - veniva usato come alibi: poiché i comunisti prendono soldi dai russi, noi per pareggiare il conto li andiamo a prelevare dalle tasche degli imprenditori. La magistratura inquirente usò senza risparmio la detenzione preventiva come forma di tortura che condusse molti al suicidio (penso a Gabriele Cagliari che si ficca in testa un sacchetto di plastica e muore in cella e a Raul Gardini che si ficca una pallottola nella tempia dopo essersi fatto una lunga doccia purificatrice) e tutte le suggestioni mediatiche che indussero gli italiani a credere davvero che la corruzione a favore dei partiti fosse nata con il Psi di Craxi e con la Dc di Andreotti e Forlani. Mentre la memoria mi riportava a quei vecchi fatti - ma come mai il libro The Italian Guillotine di Peter Burnett e Luca Mantovano non è stato mai tradotto in italiano? - Berlusconi sosteneva che è veramente un caso straordinario in Italia che un uomo sia condannato a una pena detentiva per una supposta evasione fiscale per una cifra ancora sottoposta a vari ricorsi. E riflettevo: è vero. Ditemi voi, dica qualcuno più informato di me, quanti imprenditori, evasori, uomini politici e no, sono finiti in galera per evasione. La memoria non mi soccorre. La Guardia di finanza ha appena accertato che 5mila evasori totali, ora identificati, hanno sottratto al fisco ben 17 miliardi di euro «a spese dei contribuenti onesti». Non ricordo di aver letto che una processione di cellulari li abbia trasferiti in galera. Eppure, 17 miliardi sottratti sono più del doppio dei miliardi di ricchezza che le aziende di Berlusconi hanno versato nelle casse dello Stato. Ma Berlusconi è stato condannato alla galera per una supposta evasione dell'1,2 per cento delle sue imposte. Bah, sarà tutto vero, ma non c'è qualcosa che non quadra? Per la cronaca, Berlusconi mi ha confermato che non chiederà la grazia, non chiederà i servizi sociali, non chiederà i domiciliari, non chiederà nulla: c'è in ballo un enorme problema politico e a quello deve pensare chi ha gli strumenti per farlo, dice. Penso alluda al presidente della Repubblica, ma non l'ha detto. Ci siamo salutati e mi sembrava tutt'altro che depresso e rassegnato.
Gli Usa: l'ex Pci voleva rovinare Berlusconi e tutte le sue aziende. Nel maggio '94 l'ambasciatore avvisò la presidenza Clinton: "Il Pds è deciso a distruggere il nuovo premier". Pochi mesi dopo l'agguato dei pm di Milano, scrive Stefano Zurlo, Lunedì 29/02/2016, su "Il Giornale". La sinistra vuole distruggere Silvio Berlusconi. I postcomunisti non accettano la discesa in campo del Cavaliere e hanno deciso di toglierlo di mezzo. Come un abusivo. Le carte della diplomazia Usa, pubblicate oggi per la prima volta dal Giornale, sono un documento straordinario, un'anticipazione di quel che sarebbe puntualmente successo di lì a pochi mesi: l'uscita di scena del premier, azzoppato dall'avviso di garanzia del Pool Mani pulite. L'ambasciatore Usa Reginald «Reg» Bartholomew aveva capito tutto e aveva avvisato Washington e l'amministrazione Clinton. I documenti trovati a Washington al Dipartimento di Stato da Andrea Spiri, professore della Luiss, confermano la previsione dell'accerchiamento e poi dell'attacco letale. È il 4 maggio 1994 quando Bartholomew invia a Washington un documento profetico, chiamato «Profilo del primo ministro incaricato Silvio Berlusconi». Il 4 maggio il governo deve ancora insediarsi, il Cavaliere entrerà a Palazzo Chigi solo il 10 maggio, ma il film è già scritto: il countdown è partito, il Pds non tollera l'idea che la gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto sia stata battuta quando pensava di avere campo libero sulle macerie della Prima Repubblica. A dicembre, ben prima delle elezioni, Bartholomew aveva già incontrato Berlusconi e il Cavaliere gli aveva spiegato che «il suo primo obiettivo, quando ha deciso di entrare in politica, era sconfiggere la sinistra». Il problema è che la sinistra, che verrà presa in contropiede dal clamoroso successo di Forza Italia, ha deciso di far fuori la nascente anomalia in grado di scompaginare i piani di D'Alema e Occhetto. Berlusconi l'ha raccontato subito all'ambasciatore che però ha messo insieme altri indizi e non si fa nessuna illusione su quello che avverrà: «Berlusconi ha riferito, e i contatti giornalistici giurano sia vero, che gli uomini del Pds (e D'Alema in particolare) hanno apertamente fatto sapere che se venissero eletti distruggerebbero economicamente Berlusconi. È stato riferito che D'Alema avrebbe detto (e non l'ha mai smentito) che il suo grande desiderio era quello di vedere Berlusconi elemosinare nel parco. È stato anche riferito che altri esponenti Pds avrebbero detto che lo stesso Berlusconi farebbe bene a lasciare l'Italia in caso di loro vittoria perché l'avrebbero distrutto». Storie note, fra voci e suggestioni, rimbalzate per molti anni nell'arena del bipolarismo italiano. Ma certo, in quel fatale maggio di 22 anni fa, Bartholomew, scomparso nel 2012 a 76 anni, mette in fila gli elementi e prefigura il copione che puntualmente si svolgerà nelle settimane successive: il 10 maggio, solo sei giorni dopo, il Cavaliere giura ma la macchina bellica, per niente gioiosa, è già in moto. I postcomunisti troveranno una sponda decisiva nell'azione della magistratura che il 21 novembre uccide di fatto il governo inviando al premier un invito a comparire per corruzione, recapitato direttamente in edicola dal Corriere della sera. Per di più nelle stesse ore in cui Berlusconi è impegnato in una conferenza internazionale contro la criminalità a Napoli. L'effetto è devastante e si somma alle manovre di Palazzo del presidente Oscar Luigi Scalfaro, lo stesso di cui altri report americani, pubblicati ieri in esclusiva dal Giornale, documentano l'ostilità totale verso il Cavaliere. Un intruso da sloggiare prima possibile, come ha svelato agli americani una fonte autorevolissima: l'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga. «Cossiga - scriverà Bartholomew il 20 dicembre, quando ormai Berlusconi è sull'orlo delle dimissioni - ha detto di ritenere che Scalfaro farebbe qualunque cosa pur di evitare un ritorno di Berlusconi al governo». Ma il 4 maggio 1994 la breve avventura del Cavaliere deve ancora cominciare. Eppure, con alcuni distinguo e con la necessaria prudenza, l'amministrazione democratica sembra accogliere senza diffidenza l'uomo cresciuto lontano dal Palazzo: «Berlusconi è un uomo che si assume dei rischi... che si è mosso in maniera rapida per colmare il vuoto politico provocato da Tangentopoli». Del resto con straordinaria preveggenza in un altro report, datato addirittura 15 ottobre '92, l'ambasciatore Peter Secchia, a Roma prima di Bartholomew, già aveva battezzato il Cavaliere «come nuovo leader politico», con la benedizione del declinante Craxi. E aveva evidenziato la sua partecipazione a una cena organizzata dal segretario del Pli Renato Altissimo per creare un soggetto politico in grado di raccogliere l'eredità del pentapartito. «Il governo Berlusconi sembra cadere - scrive a dicembre Bartholomew - E poi? Se cade - nota con un affilato giudizio controcorrente - questo potrebbe rafforzare l'impressione che l'Italia stia scivolando indietro».
IL PROCESSO RUBY.
Il giallo Tranfa e quei Servizi rimasti muti, scrive Giovanni Maria Jacobazzi su “Il Garantista”. Il processo Ruby non è stato un processo come tanti. Molti aspetti, oscuri, hanno connotato questa vicenda penale che ha portato alla caduta di un governo e allo sfascio di un partito. Tralasciando lo sputtanamento internazionale e il ludibrio planetario che hanno investito Silvio Berlusconi e, di riflesso, il Paese. Due, principalmente, sono gli episodi che fanno riflettere e che ad oggi non hanno avuto risposta. Episodi che riguardano proprio l’inizio e la fine dell’inchiesta. Il primo riguarda le modalità con cui sono state condotte le indagini preliminari da parte della Procura della Repubblica di Milano. Il secondo le dimissioni del giudice Enrico Tranfa, il presidente del collegio che in appello ha assolto Silvio Berlusconi dopo la condanna in primo grado a sette anni. Per scoprire cosa accadesse la sera nella residenza di Arcore, la Procura di Milano non ha lesinato energie. Con un dispiegamento di forze senza pari in relazione ai tipo di reato perseguito, una ipotesi di prostituzione minorile e di concussione, i pubblici ministeri milanesi hanno posto in essere un numero elevatissimo di intercettazioni telefoniche. Tranne Silvio Berlusconi che, essendo parlamentare, non poteva essere intercettato, chiunque entrasse in contatto con Villa San Martino si ritrovava il telefono sotto controllo. Decine di ragazze, ma non solo, furono intercettate per mesi. Ogni loro spostamento accuratamente monitorato. Centinaia i servizi di osservazione, controllo e pedinamento come si usa dire in gergo questurile. All’epoca dei fatti, il 2009, Silvio Berlusconi era il presidente del Consiglio. Il suo uomo più fidato, Gianni Letta, sottosegretario di Stato con delega ai Servizi. Come è stato possibile effettuare una attività investigata di queste proporzioni, migliaia le intercettazioni effettuate, senza che nessuno, in maniera ovviamente riservata, facesse arrivare il “messaggio” all’indagato eccellente di prestare attenzione alle persone frequentate ed ai comportamenti da tenere? Nessuna indicazione dai gestori telefonici? Nessun dubbio circa questa anomala concentrazione di utenze sotto controllo proprio nella residenza privata del presidente del Consiglio, sottoposta a misure di massima sicurezza secondo la legge 801 che disciplina il segreto di Stato? Ma il rapporto anomalo con gli apparati di sicurezza è anche alla base dell’accusa più grave caduta sulla testa di Berlusconi. Quella di concussione nei confronti del capo di gabinetto della Questura di Milano. Come mai il presidente del Consiglio, residente a Milano, città dove ha il centro dei suoi interessi e dove vive la sua famiglia, non si rivolge, per motivi di opportunità e riservatezza, direttamente al Questore ma passa attraverso il suo capo di gabinetto, peraltro chiamatogli al telefono dal suo capo scorta? Essendo il Consiglio dei ministri preposto alla nomina dei questori delle città, non si può proprio dire che l’allora premier non conoscesse chi fosse al vertice della pubblica sicurezza del capoluogo lombardo. E infine le dimissioni improvvise e inaspettate del giudice Enrico Tranfa, il presidente del collegio di Appello che ha assolto Silvio Berlusconi, subito dopo il deposito delle 330 pagine delle motivazioni della sentenza. Come si ricorderà, dopo aver depositato la sentenza di assoluzione, Enrico Tranfa fece domanda per essere collocato in pensione. Poteva restare in servizio altri quindici mesi. Decise di anticipare l’uscita dalla magistratura. Campano di Ceppaloni, il paese che ha dato i natali anche a Clemente Mastella, collocabile nella corrente di Unicost, Tranfa era dal 2012 a Milano in Corte d’Appello come presidente della seconda sezione penale. Equilibrato, molto preparato, mai una parola fuori posto. Un persona mite. Nulla che potesse far prevedere una reazione del genere. Le sue dichiarazioni, a chi gli chiedeva il perché di una simile decisione, furono soltanto “è una decisione molto meditata, perché in vita mia non ho fatto niente di impulso. Tutti sono utili, nessuno è indispensabile”. Per poi aggiungere: “Il compito di un giudice non è quello di cavillare con i tecnicismi, ma prendere un fatto, valutarlo alla luce delle norme, e poi fare un atto di volontà, decidendo. Altrimenti è la giustizia di Ponzio Pilato”. Sul caso montò la contrapposta lettura politica: “Solidarietà” dal Pd e dure critiche da Forza Italia. Le dimissioni in polemica con l’assoluzione scatenarono anche le ire del presidente della Corte d’Appello Giovanni Canzio. “Se dettate da un personale dissenso per l’assoluzione di Silvio Berlusconi non appaiono coerenti con le regole ordinamentali e deontologiche che impongono l’assoluto riserbo sulle dinamiche della Camera di consiglio”, disse Canzio, “trattasi di un gesto clamoroso e inedito”. Se per ogni disaccordo in un collegio il magistrato dovesse dimettersi, in magistratura rimarrebbero in pochi. Ma quell’anomalia, come la prima, con ogni probabilità rimarrà senza risposta.
Processo Ruby, pool di Milano: le lettere segrete delle toghe rosse alla giudice che assolse Silvio Berlusconi, scrive “Libero Quotidiano”. Le toghe rosse di Milano si attendevano l'annullamento dell'assoluzione in secondo grado. Volevano Silvio Berlusconi di nuovo alla sbarra nel processo Ruby. Ma così non è andata. Confermata l'assoluzione. E dopo la conferma, oltre al Cav, ci sono state diverse persone che si sono levate dei sassolini dalle scarpe. Una di queste era la giudice Concetta Locurto, toga stimata e progressista, già coordinatrice milanese di Area, il cartello tra le correnti di sinistra di Magistratura Democratica. Una, insomma, che aveva il "pedegree" giusto per condannare Berlusconi in secondo grado. Già, perché la Locurto la scorsa estate era la relatrice della sentenza di assoluzione del Cav nel processo Ruby. L'assoluzione scatenò un vespaio di polemiche in magistratura, culminate con le dimissioni del suo collega e presidente del collegio, Enrico Tranfa, che con il passo indietro volle dissociarsi da un verdetto che non condivideva. La Locurto, al tempo, non volle commentare. E non ha voluto commentare neppure dopo la conferma dell'assoluzione che, nei fatti, ha confermato la bontà del suo operato. E il silenzio le deve essere costato, perché come spiega il Corriere della Sera la toga che ha assolto Berlusconi ha vissuto mesi da incubo, tra "attacchi e implicite insinuazioni di cosa di oscuro potesse essere accaduto attorno al processo" per spingere Tranfa alle dimissioni. Ha taciuto, la Tranfa. Almeno in pubblico. Già, perché secondo quanto scrive sempre il Corsera, la toga avrebbe scritto una piccola lettera ai colleghi (agli stessi colleghi che nei mesi precedenti tempestavano la sua email parlando di "torsione del diritto"). Il Corsera ha provato a chiederle del contenuto della lettera, ma la Tranfa, fedele alla sua riservatezza, ha scelto di non parlare. Eppure qualcosa è emerso. Nonostante il rifiuto della giudice, è stato ricostruito quanto abbia detto interpellando i destinatari della missiva. La Tranfa non giudicava la bontà della sentenza, ma metteva in guardia dai rischi di "una malevola dietrologia faziosa", del "pregiudizio", dei "pensieri in libertà da chiacchiera da bar" della quale è stata vittima per mesi per aver fatto il suo lavoro, che nella fattispecie prevedeva di assolvere Berlusconi. La Tranfa avrebbe scritto dei "magistrati che giudicano senza conoscere, finendo - proprio loro - per partecipare al tiro al piccione senza alcun rispetto per l'Istituzione e le persone". E il piccione, in quel momento, era proprio lei. E il "piccione", ora, si toglie le sue soddisfazioni. Nella missiva avrebbe aggiunto l'invito ai colleghi ad "andarsi a rileggere i provvedimenti redatti nel corso dell'intera carriera, piccoli o grandi che fossero, per avere certezza dell'identità di metro di valutazione utilizzato indifferentemente per extracomunitari e potenti". Quel metro di giudizio imparziale che però, i colleghi, le rimproverano: se c'è il Cav alla sbarra deve essere condannato.
Filippo Facci su “Libero Quotidiano”: logica da pm. Se Silvio Berlusconi conosce Noemi Letizia, è colpevole. La Cassazione doveva confermare o non confermare l’assoluzione di Silvio Berlusconi (caso Ruby) per concussione e prostituzione: dopodiché, lo schema era il solito. La Corte che si riunisce nel primo pomeriggio, i giornalisti italiani e stranieri che ciacolano, la consueta assicurazione che la sentenza arriverà «in serata» e che perciò potranno scriverne, hurrà. Ma forse i giudici non erano aggiornati: non sapevano che i quotidiani hanno le chiusure sempre più anticipate, mannaggia: come possono non tener conto delle sacre esigenze mediatiche? Come possono aver saltato i telegiornali della sera? I giudici (presidente Nicola Milo, consiglieri Giorgio Fidelbo, Stefano Mogini e Gaetano De Amicis) dovevano prendere esempio dal procuratore generale Eduardo Scardaccione, che nel pomeriggio aveva esposto una requisitoria mediaticamente perfetta. Niente di strano che abbia chiesto di annullare - con rinvio in Appello - l’assoluzione di Berlusconi per entrambi i reati: è ciò che ci si attendeva da lui, un’apologia di quel processo che in primo grado aveva condannato il Cav a sette anni. Mentre invece le assoluzioni di luglio scorso - pochi mesi fa: la giustizia italiana sa essere velocissima - secondo Scardaccione andavano polverizzate: altro che «il fatto non sussiste» (concussione) e «il fatto non costituisce reato» (prostituzione minorile). Sin qui tutto normale. Ma sono altri argomenti che ha adottato - poi - a farci pensare ancora una volta che taccuini e telecamere andrebbero tenuti lontani dai palazzi di giustizia. Scardaccione ha detto che le accuse sono «pienamente provate» (vabbeh) e che la Corte d’appello non doveva riaprire il processo bensì rideterminare la pena di primo grado: e ci sta anche questo. Poi lo show: «L’episodio nel quale Berlusconi racconta che Ruby è la nipote di Mubarak è degno di un film di Mel Brooks e tutto il mondo ci ha riso dietro». Uhm. Purtroppo «il mondo» non ha testimoniato a processo. E neppure Mel Brooks. A ogni modo il procuratore Scardaccione ha proseguito spiegando che la concussione c’è stata, anzi «c’è stata una violenza irresistibile» per ottenerla. Lo proverebbe il fatto che dal momento in cui ha ricevuto la telefonata di intervento da Berlusconi il capo di gabinetto della Questura di Milano «non capisce più nulla e fa ben 14 telefonate: c’è spazio per ritenere che la pressione fosse resistibile?... No... L’intervento ha avuto una potenza di fuoco tale da annullare le scelte autonome del funzionario». Par di capire che qualsiasi telefonata di Berlusconi in quel periodo - essendo lui premier ed essendo Berlusconi - avesse una potenziale valenza concussoria: chiunque ne riceveva una andava praticamente in palla e veniva annullato nella volontà, una forma di ipnosi. Il procuratore generale non ha contemplato che i dirigenti della Questura fossero banalmente eccitati all’idea di poter fare un favore al presidente del Consiglio: cosa che avrebbe avuto una valenza più che ambigua se solo avessero fatto qualcosa che non dovevano fare. Ma ciò che fecero (identificazione di Ruby, foto segnalazione e ricerca di una comunità per l’affido) corrispondeva alla prassi in vigore. Ma secondo Scardaccione no, c’è stata «una violenza grave, perdurante e irresistibile anche a margine della consegna di Ruby a Nicole Minetti». Il dettaglio è che l’idea di consegnare Ruby alla Minetti non fu un’idea di Berlusconi bensì una soluzione escogitata in questura. Ma - possiamo dirlo? - ci sta anche questo. È passando al reato di prostituzione minorile che si giunge all’incredibile: perché Scardaccione ha tirato in ballo Noemi Letizia, una ragazza che non c’entra un accidente - mai tirata in ballo in nessun processo, in nessun modo - perché la circostanza che Noemi e Ruby fossero due minorenni «non è una coincidenza» e rende «non credibile» che Berlusconi non sapesse della minore età di Ruby. Scardaccione ha ricordato quanto aveva detto Ruby in un’intercettazione: «Noemi è la sua pupilla e io il suo culo». Cioè: il fatto che due amici di Berlusconi avessero una figlia minorenne non poteva essere un caso. E chissà - aggiungiamo noi - quanti milioni di elettori di Forza Italia, negli ultimi vent’anni, hanno avuto figlie minori. Insomma: se Berlusconi sapeva che la figlia di due suoi amici era minorenne, beh, doveva sapere anche l’età di tutta la carovana di signorine che la sera gli portavano a casa con la carriola. Pagandole, certo: perché Franco Coppi, l’avvocato di Berlusconi, ieri non l’ha negato: «La sentenza d’appello ammetteva che ad Arcore avvenivano fatti di prostituzione, cosa che non contestiamo nemmeno noi difensori: ma manca, in fatto, la prova che Berlusconi prima del 27 maggio sapesse che Ruby era minorenne». Sempre che i processi si facciano ancora con le prove.
Il caso Ruby c’è costato mezzo milione. Per i pm le spese ammontano a 65mila euro, ma facendo altri calcoli si sfiorano i 600mila, scrive Simone Di Meo su “Il Tempo”. Quanto è costata l'inchiesta Ruby alle casse dello Stato? La classica domanda da un milione di dollari ha una doppia risposta. La versione minimalista, accreditata dai conti della Procura della Repubblica di Milano contenuti nel faldone 33 del procedimento, parla di appena 65mila euro così suddivisi: in sei mesi sono stati pagati 26mila euro per le intercettazioni e 39mila euro per trascrizioni di interrogatori, traduzioni dall’arabo, per il noleggio auto, la più costosa delle quali - una Golf - è stata pagata 4mila euro, e per l’acquisto di registratori digitali. Pochi spiccioli anche per le trasferte dei poliziotti in alcuni hotel di Rimini: poco meno di 200 euro per tre diversi viaggi. Insomma, per questa scuola di pensiero il procedimento penale del pm Ilda Boccassini non ha prosciugato le casse del ministero della Giustizia ma si è mantenuto addirittura al di sotto dello standard della Direzione distrettuale antimafia. Questione risolta, allora? Mica tanto perché a questa immagine light dell'inchiesta se ne contrappone una più approfondita che zavorra con almeno uno zero la cifra iniziale portandola a oltre mezzo milione di euro. Ci sono alcuni costi che, nel computo del pubblico ministero, non vengono infatti elaborati. Sarà sicuramente una distrazione, ma bisogna fare chiarezza. Stiamo parlando dei cosiddetti costi fissi che riguardano l'utilizzo della polizia giudiziaria per condurre un'indagine fatta a pezzi dalla Corte d'appello e dalla Cassazione dopo una prima condanna a sette anni nei confronti di Silvio Berlusconi. Un'indagine fondata su due capi di imputazione che tecnicamente non hanno retto al vaglio delle toghe. Perché è vero che un poliziotto o un carabiniere viene ugualmente stipendiato dallo Stato (e ci mancherebbe) ma c'è un particolare di cui non tutti si ricordano: il poliziotto o il carabiniere in questione avrebbe potuto essere impiegato su un altro versante giudiziario, magari più interessante e utile. E questo - dal punto di vista aziendalistico - è un costo che non può essere omesso se si vuole davvero fare una descrizione esatta del valore contabile del fascicolo Ruby. Dare per scontate queste voci di costo è un errore. Così come è un errore non calcolare il noleggio dell'apparecchiatura utilizzata per geolocalizzare i cellulari che hanno agganciato la cella di Arcore alla ricerca delle utenze delle partecipanti alle "cene eleganti". Un'attrezzatura che, secondo quanto risulta a Il Tempo costa in media 1000 euro al giorno: è probabile che fosse già in dotazione agli uomini del Servizio centrale operativo cui sono state delegate le attività investigative, ma il suo utilizzo, in termini economici, dev'essere adeguatamente riportato nello schema della Procura. I "target" di intercettazioni e acquisizioni di traffico telefonico e di tabulati sono stati circa trenta per oltre 115mila conversazioni monitorate. Nell'intera operazione è presumibile che siano stati impegnati oltre cento poliziotti che, per la durata delle indagini, sono stati distolti da altri fascicoli, ovviamente. Non sbirri qualunque, ma uomini dello Sco, l'organo investigativo di punta del Viminale che solitamente dà la caccia a mafiosi, narcotrafficanti e serial killer. Per dire: i due superlatitanti del clan dei Casalesi, Antonio Iovine e Michele Zagaria, sono stati presi anche con la collaborazione del Servizio centrale. Che, nel caso in esame, è stato invece sguinzagliato sulle tracce delle olgettine e del ragionieri Spinelli, lauto pagatore ufficiale del Cav. Anche i loro stipendi, anche i loro straordinari, anche i loro ticket sono dei costi a carico dello Stato (e quindi dei cittadini) che devono essere inseriti nel bilancio Ruby. Alla fine, calcoli alla mano, l'indagine di "Ilda la rossa" tra costi fissi (quelli appena descritti, che riguardano l'intera struttura) e costi variabili (i famosi 65mila euro, che dipendono appunto dalle necessità investigative del momento) ha gravato sulle casse dello Stato per circa 600mila euro. È una stima prudenziale ma che ha un suo fondamento considerato che un poliziotto viene pagato in media 100 euro lordi al giorno. Qualcuno ci aggiungerebbe anche i costi dei processi (stipendi dei giudici, dei cancellieri, del personale amministrativo, fotocopie) ma entriamo nel fantastico mondo delle ipotesi e allora tutte le ricostruzioni sono possibili.
Signori del Csm, quell’inchiesta è senza ombre? Scrive Tiziana Maiolo su “Il Garantista. Sono politici, non morali, i motivi per cui è andato in onda per cinque anni il Pornofilm del Bungabunga che ha messo nel tritacarne un presidente del Consiglio, preso a picconate il suo partito, distrutto la sua reputazione nel mondo, insieme alla sua immagine personale e i suoi affetti. Tutto nasce non tanto dal fermo, in una serata di maggio del 2010, di una giovane marocchina. Né dalla successiva telefonata di Berlusconi alla questura di Milano. Casomai dall’uso che dell’episodio venne fatto dalla Procura della Repubblica più famosa e discussa d’Italia. E’ negli uffici del quarto piano del palazzo di giustizia di Milano, già allenati dalla caccia al cinghialone ai tempi di Craxi e di Tangentopoli, che parte la crociata di stampo talebano che prende di mira il presidente del Consiglio per i suoi costumi sessuali. Ma il Pornofilm è solo l’involucro, un uovo di pasqua con sorpresa. La sorpresa è tutta politica. Se il Consiglio superiore della magistratura volesse occuparsene, potrebbe rilevare parecchie anomalie, dentro quell’uovo. Prima cosa: Ruby viene fermata e rilasciata in una notte di fine maggio. Che cosa è successo tra quella data e quella in cui Silvio Berlusconi viene iscritto nel registro degli indagati (21 dicembre 2010) e in seguito raggiunto da un invito a comparire (14 gennaio 2011)? Succede che Ruby viene ripetutamente interrogata, una serie di persone che frequentavano la casa di Arcore viene monitorata e intercettata e si tende la tela del ragno che deve catturare la preda. Che la preda sia un Arcinemico di certa magistratura e certi Pubblici ministeri non è un segreto. Che dalle parti di Milano si usino metodi disinvolti sulle competenze territoriali (un presidente del Consiglio non dovrebbe essere giudicato dal Tribunale dei ministri?) è cosa altrettanto nota. Ma quel che succede a Milano è qualcosa di ben più mostruoso: per sette-otto mesi vengono fatte indagini su un contesto che ha al centro una persona che non è indagata, vengono disposte intercettazioni a persone che parlano al telefono con un parlamentare senza che sia chiesta, come prescrive la legge, l’autorizzazione alla Camera di appartenenza. Nei fatti si indaga su una persona in violazione delle normali procedure di legge. A nulla valgono le proteste degli avvocati, le interrogazioni parlamentari del deputato di Forza Italia Giorgio Stracquadanio, la curiosità che comincia a serpeggiare nella stampa italiana e anche straniera. La Procura di Milano tira dritto. Apparentemente arrogandosi il diritto di moralizzare i costumi altrui, in realtà con obiettivi ben più ambiziosi. Ma un’altra anomalia esplode clamorosa a un certo punto, la rissa da cortile tra il procuratore capo Bruti Liberati e il suo aggiunto Robledo sulle competenze tematiche e le assegnazioni delle inchieste. Perché le indagini su Berlusconi e il “caso Ruby” vengono assegnate a Ilda Boccassini, titolare delle inchieste sulla mafia e non a Robledo che si occupa di Pubblica Amministrazione? Berlusconi non è forse accusato di aver abusato del suo potere di presidente del Consiglio, con quella famosa telefonata in questura che gli costerà la condanna in primo grado per concussione? Questo aspetto della vicenda giace nelle scartoffie (nei fatti archiviate) del Csm sulla querelle Bruti-Robledo, che nessuno pare avere la curiosità di esaminare più. Sarebbe bene, invece, che l’organo di autogoverno di Pm e giudici riaprisse gli occhi, su questo punto, e si chiedesse “perché” fosse così importante quella sostituzione di Robledo con Boccassini in un’inchiesta dal sapore squisitamente politico. Questo è il succo della vicenda: forzature e anomalie per il raggiungimento di uno scopo. Addirittura il procuratore generale di Milano, pur di fare il ricorso in Cassazione, si è appellato a questioni di merito, trascurando il fatto che il terzo grado di giudizio può riguardare solo questioni di legittimità. Un’altra delle anomalie “lombarde”, che la Cassazione avrebbe dovuto rilevare subito, rigettando il ricorso in dieci minuti. Nove ore di discussione sono un bel tributo alle tricoteuses di tutta Italia. In ogni caso, tutto il resto è contorno, il Pornofilm, il Bungabunga, sparsi a piene pani tramite un ventilatore in funzione permanente con lo scopo dello Sputtanamento. Oggi, con Berlusconi che porta a casa con una certa velocità (quattro anni per tre gradi di giudizio sono un’altra, piacevole, anomalia) l’assoluzione piena da due reati infamanti, resta il reato di Sputtanamento ancora vivo e vegeto nelle immagini del Pornofilm, tanto che gli avvocati sono stati costretti a dire (un po’ andando di fantasia) che, in fondo si, forse un po’ di prostituzione ad Arcore c’è stata, per rafforzare la realtà dei fatti sulla non conoscenza dell’età di una quasi-diciottenne che dimostrava, a detta di tutti, almeno venticinque anni. E che probabilmente era più una mantenuta che una prostituta. Anche in questo il processo Ruby è stato speciale. Ma non può finire qui. Il Csm ci deve spiegare se tutte queste violazioni sono consentite, se anche il nuovo corso “renziano” ha intenzione di chiudere gli occhi, come già si fece 20 anni fa con Tangentopoli, su questi metodi machiavellici, per cui la finalità politica può fare a pezzi le regole dello Stato di diritto e prevale sempre la filosofia del “tipo d’autore” (individuo la tipologia del colpevole, poi colpisco la persona), per cui la responsabilità penale non è più personale ma esplicitamente politica. Alla faccia dell’obbligatorietà dell’azione penale.
PROCESSO MEDIASET. LA CONDANNA DI SILVIO BERLUSCONI.
I tratti giovanili e insieme antichi del sostituto procuratore generale della Cassazione Antonello Mura non si scompongono nel momento del successo, scrive Giovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera”. Professionale, s'intende. Quando il presidente della Corte Antonio Esposito la sera del 1 agosto 2013 legge nel dispositivo le parole «annulla limitatamente alla statuizione della condanna accessoria» e subito dopo «rigetta nel resto», è chiaro che ha vinto il rappresentante dell'accusa. Ma lui non lo dà a vedere. Non tradisce emozioni. Davanti a cinque giudici chiamati «supremi» perché oltre loro la giustizia umana non è previsto che vada, ha prevalso la tesi che Mura - per conto del suo intero ufficio, come ha ripetuto più volte nella requisitoria - ha sostenuto nella causa numero 27884/13 iscritta al ruolo con il numero 8, contro «Berlusconi Silvio +3». «Nessuno dei motivi di ricorso sulla configurazione del reato e sulla colpevolezza degli imputati ha fondamento giuridico» aveva detto con tono pacato in quattro ore di intervento, dopo l'ormai famosa premessa sulle «passioni e le aspettative di vario genere» che dovevano rimanere fuori dall'aula del «palazzaccio». Le ha lasciate fuori lui e le hanno lasciate fuori i giudici della sezione feriale della Cassazione, un collegio di magistrati istituito con criteri casuali nel mese di maggio, ancor prima che arrivasse il ricorso di Berlusconi contro la condanna a 4 anni di carcere nel processo chiamato «Mediaset». Dopodiché, di fronte alle carte di quella causa e alle ragioni esposte da accusa e difesa, i giudici hanno preso la loro decisione. Sulla base del dispositivo letto ieri sera dal presidente Esposito si può ben dire che hanno aderito quasi per intero all'impostazione della Procura generale. Tranne che su un punto: la rideterminazione dell'interdizione dai pubblici uffici, stabilita in cinque anni dalla Corte d'appello. Dovevano essere tre, aveva detto la Procura generale, perché deve applicarsi la legge speciale del 2000 anziché la norma generale; un ricalcolo che poteva fare direttamente la Cassazione, secondo il pg Mura, mentre la Corte ha ritenuto di non averne il potere. Perciò rispedirà il fascicolo a Milano, insieme alle motivazioni, affinché una nuova sezione della Corte d'appello si pronunci «limitatamente alla statuizione della pena accessoria». Per il resto le sentenze di primo e secondo grado, da considerarsi nel loro insieme, non presentavano vizi tali da farle annullare; l'aveva sostenuto l'accusa e l'ha ribadito la Corte, a dispetto dei 47 motivi di presunta nullità presentati dagli avvocati Franco Coppi e Niccolò Ghedini. Non sul piano della procedura, che è stata rispettata; non sul piano della efficacia probatoria, ché gli elementi a fondamento della condanna si sono rivelati coerenti e ben motivati; non sul piano del diritto, dal momento che i reati contestati erano quelli che bisognava contestare. Ogni altra valutazione non competeva ai giudici di legittimità. Il nocciolo del giudizio riguardava il secondo gruppo di lamentele avanzate dalla difesa: sotto il presunto «vizio di motivazioni» gli avvocati avevano ribadito che non c'era la prova che Berlusconi fosse colpevole di frode fiscale, poiché dal 1994 non riveste più cariche all'interno della Fininvest e di Mediaset e non si poteva condannarlo col criterio del «non poteva non sapere» ciò che facevano i suoi sottoposti. Anche il professor Coppi, aggregato dall'ex premier per quest'ultimo passaggio giudiziario, aveva insistito sulle «prove travisate» e mancanti, sul diritto di difesa negato, prima di immaginare un diverso tipo di reato. Ebbene, secondo i giudici tutto questo non è vero. I dibattimenti di primo e secondo grado si sono svolti nel rispetto delle regole del «giusto processo» e la responsabilità del proprietario di Fininvest e Mediaset non è legata al «non poteva non sapere», bensì al riscontro di una partecipazione diretta al sistema illecito individuato nelle sentenze di condanna. «Vi è la piena prova, orale e documentale che Berlusconi abbia direttamente gestito la fase iniziale dell'enorme evasione fiscale realizzata con le società off shore» aveva decretato la Corte d'appello. E dopo la cessazione dalle cariche sociali aveva affidato il sistema di cui continuava ad essere dominus, persone di sua stretta fiducia, che rispondevano solo a lui. Ora la Cassazione ha stabilito che i giudici di merito sono giunti a queste conclusioni senza violare alcuna norma di legge, senza contraddizioni o illogicità. Con «motivazioni solide», aveva detto il pg. Nemmeno il fatto che altri due giudici, a Roma e Milano, su questioni simili avessero prosciolto l'ex premier con sentenze confermate in Cassazione significa che in questo processo si dovesse giungere alle stesse conclusioni. «Sono decisioni che non toccavano la questione centrale di questo processo» secondo il pg e così deve aver ritenuto la corte. Che non poteva sconfinare nella rivalutazione dei fatti. La sentenza è arrivata dopo oltre sette ore di discussione, nelle quali i cinque giudici «feriali» si sono confrontati per giungere a una conclusione che - vista con gli occhi della premessa condivisa anche dagli avvocati difensori, tranne Ghedini che non riusciva a staccarsi dalle «passioni» - sembra sancire una volta di più la cosiddetta «autonomia della giurisdizione». E considerato chi l'ha pronunciata, si presta poco alle abituali letture sulla magistratura politicizzata, condizionata da questo o quel colore.
LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.
La Repubblica delle manette (e degli orrori giudiziari). Augusto Minzolini, già direttore del Tg1, è stato assolto ieri dall'accusa di avere usato in modo improprio la carta di credito aziendale. Tutto bene? Per niente, risponde scrive Alessandro Sallusti. Perché quell'accusa di avere mangiato e viaggiato a sbafo (lo zelante Pm aveva chiesto due anni di carcere) gli è costata il posto di direttore oltre che un anno e mezzo di linciaggio mediatico da parte di colleghi che, pur essendo molto esperti di rimborsi spese furbetti, avevano emesso una condanna definitiva dando per buono il teorema del Pm (suggerito da Antonio Di Pietro, guarda caso). Minzolini avrà modo di rifarsi in sede civile, ma non tutti i danni sono risarcibili in euro, quando si toccano la dignità e la credibilità di un uomo. Fa rabbia che non il Pm, non la Rai, non i colleghi infangatori e infamatori sentano il bisogno di chiedere scusa. È disarmante che questo popolo di giustizialisti non debba pagare per i propri errori. Che sono tanti e si annidano anche dentro l'ondata di manette fatte scattare nelle ultime ore: il finanziere Proto, l'imprenditore Cellino, il manager del Montepaschi Baldassarri. Storie diverse e tra i malcapitati c'è anche Angelo Rizzoli, l'erede del fondatore del gruppo editoriale, anziano e molto malato anche per avere subito un calvario giudiziario che gli ha bruciato un terzo dell'esistenza: 27 anni per vedersi riconosciuta l'innocenza da accuse su vicende finanziarie degli anni Ottanta. L'uso spregiudicato della giustizia distrugge le persone, ma anche il Paese. Uno per tutti: il caso Finmeccanica, che pare creato apposta per oscurare la vicenda Montepaschi, molto scomoda alla sinistra. Solo la magistratura italiana si permette di trattare come se fosse una tangente da furbetti del quartierino il corrispettivo di una mediazione per un affare internazionale da centinaia di milioni di euro. Cosa dovrebbe fare la più importante azienda di alta tecnologia italiana (70mila dipendenti iper qualificati, i famosi cervelli) in concorrenza con colossi mondiali, grandi quanto spregiudicati? E se fra due anni, come accaduto in piccolo a Minzolini, si scopre che non c'è stato reato, chi ripagherà i miliardi in commesse persi a favore di aziende francesi e tedesche? Non c'entra «l'elogio della tangente» che ieri il solito Bersani ha messo in bocca a Berlusconi, che si è invece limitato a dire come stanno le cose nel complicato mondo dei grandi affari internazionali. Attenzione, che l'Italia delle manette non diventi l'Italia degli errori e orrori.
Un tempo era giustizialista. Ora invece ha cambiato idea. Magari si avvicinano le elezioni e Beppe Grillo comincia ad avere paura anche lui. Magari per i suoi. Le toghe quando agiscono non guardano in faccia nessuno. E così anche Beppe se la prende con i magistrati: "La legge protegge i delinquenti e manda in galera gli innocenti", afferma dal palco di Ivrea. Un duro attacco alla magistratura da parte del comico genovese, che afferma: "Questa magistratura fa paura. Io che sono un comico ho più di ottanta processi e Berlusconi da presidente del Consiglio ne ha 22 in meno, e poi va in televisione a lamentarsi". Il leader del Movimento Cinque Stelle solo qualche tempo fa chiedeva il carcere immediato per il crack Parmalat e anche oggi per lo scandalo di Mps. Garantista part-time - Beppe ora si scopre garantista. Eppure per lui la presunzione di innocenza non è mai esistita. Dai suoi palchi ha sempre emesso condanne prima che finissero le istruttorie. Ma sull'attacco alle toghe, Grillo non sembra così lontano dal Cav. Anche se in passato, il leader Cinque Stelle non ha mai perso l'occasione per criticare Berlusconi e le sue idee su una riforma della magistratura. E sul record di processi Berlusconi, ospite di Sky Tg24, ha precisato: "Grillo non è informato. Io ho un record assoluto di 2700 udienze. I procedimenti contro di me più di cento, credo nessuno possa battere un record del genere".
"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Sui media prezzolati e/o ideologicizzati si parla sempre dei privilegi, degli sprechi e dei costi della casta dei rappresentanti politici dei cittadini nelle istituzioni, siano essi Parlamentari o amministratori e consiglieri degli enti locali. Molti di loro vorrebbero i barboni in Parlamento. Nessuno che pretenda che i nostri Parlamentari siano all’altezza del mandato ricevuto, per competenza, dedizione e moralità, al di là della fedina penale o delle prebende a loro destinate. Dimenticandoci che ci sono altri boiardi di Stato: i militari, i dirigenti pubblici e, soprattutto, i magistrati. Mai nessuno che si chieda: che fine fanno i nostri soldi, estorti con balzelli di ogni tipo. Se è vero, come è vero, che ci chiudono gli ospedali, ci chiudono i tribunali, non ci sono vie di comunicazione (strade e ferrovie), la pensione non è garantita e il lavoro manca. E poi sulla giustizia, argomento dove tutti tacciono, ma c’è tanto da dire. “Delegittimano la Magistratura” senti accusare gli idolatri sinistroidi in presenza di velate critiche contro le malefatte dei giudici, che in democrazia dovrebbero essere ammesse. Pur non avendo bisogno di difesa d’ufficio c’è sempre qualche manettaro che difende la Magistratura dalle critiche che essa fomenta. Non è un Potere, ma la sinistra lo fa passare per tale, ma la Magistratura, come ordine costituzionale detiene un potere smisurato. Potere ingiustificato, tenuto conto che la sovranità è del popolo che la esercita nei modi stabiliti dalle norme. Potere delegato da un concorso pubblico come può essere quello italiano, che non garantisce meritocrazia. Criticare l’operato dei magistrati nei processi, quando la critica è fondata, significa incutere dubbi sul loro operato. E quando si sentenzia, da parte dei colleghi dei PM, adottando le tesi infondate dell’accusa, si sentenzia nonostante il ragionevole dubbio. Quindi si sentenzia in modo illegittimo che comunque è difficile vederlo affermare da una corte, quella di Cassazione, che rappresenta l’apice del potere giudiziario. Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato. Lasciando perdere Berlusconi, è esemplare il caso ILVA a Taranto. Tutta la magistratura locale fa quadrato: dal presidente della Corte d’Appello di Lecce, Buffa, al suo Procuratore Generale, Vignola, fino a tutto il Tribunale di Taranto. E questo ancora nella fase embrionale delle indagini Preliminari. Quei magistrati contro tutti, compreso il governo centrale, regionale e locale, sostenuti solo dagli ambientalisti di maniera. Per Stefano Livadiotti, autore di un libro sui magistrati, arrivano all'apice della carriera in automatico e guadagnano 7 volte più di un dipendente”, scrive Sergio Luciano su “Il Giornale”.
LE SENTENZE DEI GIUDICI SI APPLICANO, SI RISPETTANO, MA NON ESSENDO GIUDIZI DI DIO SI POSSONO BEN CRITICARE SE VI SONO FONDATE RAGIONI.
Piero Longo e Niccolò Ghedini, legali di Silvio Berlusconi, criticano duramente la decisione della Consulta sull'ex premier. «I precedenti della Corte Costituzionale in tema di legittimo impedimento sono inequivocabili e non avrebbero mai consentito soluzione diversa dall'accoglimento del conflitto proposto dalla presidenza del Consiglio dei Ministri», assicurano. Per poi aggiungere: «Evidentemente la decisione assunta si è basata su logiche diverse che non possono che destare grave preoccupazione». "La preminenza della giurisdizione rispetto alla legittimazione di un governo a decidere tempi e modi della propria azione - continuano i due legali di Silvio Berlusconi - appare davvero al di fuori di ogni logica giuridica. Di contro la decisione, ampiamente annunciata da giorni da certa stampa politicamente orientata, non sorprende visti i precedenti della stessa Corte quando si è trattato del presidente Berlusconi e fa ben comprendere come la composizione della stessa non sia più adeguata per offrire ciò che sarebbe invece necessario per un organismo siffatto". Mentre per Franco Coppi, nuovo legale al posto di Longo, si tratta di «una decisione molto discutibile che crea un precedente pericoloso perché stabilisce che il giudice può decidere quando un Consiglio dei ministri è, o meno, indifferibile. Le mie idee sul legittimo impedimento non coincidono con quelle della Corte Costituzionale ma, purtroppo, questa decisione la dobbiamo tenere così come è perché è irrevocabile».
Ribatte l'Associazione Nazionale Magistrati: «È inaccettabile attribuire alla Consulta logiche politiche»; un'accusa che «va assolutamente rifiutata». A breve distanza dalla notizia che la Consulta ha negato il legittimo impedimento a Silvio Berlusconi nell'ambito del processo Mediaset, arriva anche la reazione di Rodolfo Sabelli, presidente dell'associazione nazionale magistrati, che ribadisce alle voci critiche che si sono sollevate dal Pdl la versione delle toghe. "Non si può accettare, a prescindere dalla decisione presa - dice Sabelli - l’attribuzione alla Corte Costituzionale di posizioni o logiche di natura politica". Ribadendo l'imparzialità della Corte Costituzionale "a prescindere dal merito della sentenza", chiede "una posizione di rispetto" per la Consulta e una discussione che - se si sviluppa - sia però fatta "in modo informato, conoscendo le motivazioni della sentenza, e con rigore tecnico".
La Corte costituzionale ha detto no. Respinto il ricorso di Silvio Berlusconi per il legittimo impedimento (giudicato non assoluto, in questo caso) che non ha consentito all’allora premier di partecipare all’udienza del 10 marzo 2010 del processo Mediaset, per un concomitante consiglio dei ministri. Nel dare ragione ai giudici di Milano che avevano detto no alla richiesta di legittimo impedimento di Berlusconi, la Corte Costituzionale ha osservato che «dopo che per più volte il Tribunale (di Milano), aveva rideterminato il calendario delle udienze a seguito di richieste di rinvio per legittimo impedimento, la riunione del Consiglio dei ministri, già prevista in una precedente data non coincidente con un giorno di udienza dibattimentale, è stata fissata dall'imputato Presidente del Consiglio in altra data coincidente con un giorno di udienza, senza fornire alcuna indicazione (diversamente da quanto fatto nello stesso processo in casi precedenti), nè circa la necessaria concomitanza e la non rinviabilità» dell'impegno, né circa una data alternativa per definire un nuovo calendario. "La riunione del Cdm - spiega la Consulta - non è un impedimento assoluto". Si legge nella sentenza: "Spettava all'autorità giudiziaria stabilire che non costituisce impedimento assoluto alla partecipazione all'udienza penale del 1 marzo 2010 l'impegno dell'imputato Presidente del Consiglio dei ministri" Silvio Berlusconi "di presiedere una riunione del Consiglio da lui stesso convocata per tale giorno", che invece "egli aveva in precedenza indicato come utile per la sua partecipazione all'udienza".
Ma è veramente imparziale la Corte costituzionale?
Tutta la verità sui giornali dopo la bocciatura del “Lodo Alfano”, sulla sospensione dei procedimenti penali per le più alte cariche dello Stato, avvenuta da parte della Corte Costituzionale il 7 ottobre 2009. La decisione della Consulta è arrivata con nove voti a favore e sei contrari. Quanto al Lodo Alfano, si sottolinea che il mutamento di indirizzo della Corte "oltre che una scelta politica si configura anche come violazione del principio di leale collaborazione tra gli organi costituzionali che ha avuto la conseguenza di sviare l'azione legislativa del Parlamento". Berlusconi dice: "C'è un presidente della Repubblica di sinistra, Giorgio Napolitano, e c'è una Corte costituzionale con undici giudici di sinistra, che non è certamente un organo di garanzia, ma è un organo politico. Il presidente è stato eletto da una maggioranza di sinistra, ed ha le radici totali della sua storia nella sinistra. Credo che anche l'ultimo atto di nomina di un magistrato della Corte dimostri da che parte sta". La Corte ha 15 membri, con mandato di durata 9 anni: 5 nominati dal Presidente della Repubblica, Ciampi e Napolitano (di area centro-sinistra); 5 nominati dal Parlamento (maggioranza centro-sinistra); 5 nominati dagli alti organi della magistratura (che tra le sue correnti, quella più influente è di sinistra). Non solo. Dalla Lega Nord si scopre che 9 giudici su 15 sono campani. «Ci sembra alquanto strano che ben 9 dei 15 giudici della Consulta siano campani» osservano due consiglieri regionali veneti della Lega Nord, Emilio Zamboni e Luca Baggio. «È quasi incredibile - affermano Zamboni e Baggio - che un numero così elevato di giudici provenga da una sola regione, guarda caso la Campania. Siamo convinti che questo dato numerico debba far riflettere non solo l'opinione pubblica, ma anche i rappresentanti delle istituzioni». «Il Lodo Alfano è stato bocciato perché ritenuto incostituzionale. Ma cosa c'è di costituzionale - si chiedono Baggio e Zamboni - nel fatto che la maggior parte dei giudici della Consulta, che ha bocciato la contestata legge provenga da Napoli? Come mai c'è un solo rappresentante del Nord?».
Da “Il Giornale” poi, l’inchiesta verità: “Scandali e giudizi politici: ecco la vera Consulta”. Ermellini rossi, anche per l’imbarazzo. Fra i giudici della Corte costituzionale che hanno bocciato il Lodo Alfano ve n’è uno che da sempre strizza un occhio a sinistra, ma li abbassa tutti e due quando si tratta di affrontare delicate questioni che riguardano lui o i suoi più stretti congiunti. È Gaetano Silvestri, 65 anni, ex csm, ex rettore dell’ateneo di Messina, alla Consulta per nomina parlamentare («alè, hanno eletto un altro comunista!» tuonò il 22 giugno 2005 l’onorevole Carlo Taormina), cognato di quell’avvocato Giuseppe «Pucci» Fortino arrestato a maggio 2007 nell’inchiesta Oro Grigio e sotto processo a Messina per volontà del procuratore capo Luigi Croce. Che ha definito quel legale intraprendente «il Ciancimino dello Stretto», con riferimento all’ex sindaco mafioso di Palermo, tramite fra boss e istituzioni. Per i pm l’«avvocato-cognato» era infatti in grado di intrattenere indifferentemente rapporti con mafiosi, magistrati, politici e imprenditori. Di Gaetano Silvestri s’è parlato a lungo anche per la vicenda della «parentopoli» all’università di Messina. Quand’era rettore s’è scoperto che sua moglie, Marcella Fortino (sorella di Giuseppe, il «Ciancimino di Messina») era diventata docente ordinario di Scienze Giuridiche. E che costei era anche cognata dell’ex pro-rettore Mario Centorrino, il cui figlio diventerà ordinario, pure lui, nel medesimo ateneo. E sempre da Magnifico, Silvestri scrisse una lettera riservata al provveditore agli studi Gustavo Ricevuto per perorare la causa del figlio maturando, a suo dire punito ingiustamente all’esito del voto (si fermò a 97/100) poiché agli scritti - sempre secondo Silvestri - il ragazzo aveva osato criticare un certo metodo d’insegnamento. La lettera doveva rimanere riservata, il 5 agosto 2001 finì in edicola. E fu scandalo. «Come costituzionalista - scrisse Silvestri - fremo all’idea che una scuola di una Repubblica democratica possa operare siffatte censure, frutto peraltro di un non perfetto aggiornamento da parte di chi autoritariamente le pone in atto. Ho fatto migliaia di esami in vita mia, ma sentirei di aver tradito la mia missione se avessi tolto anche un solo voto a causa delle opinioni da lui professate». Andando al luglio ’94, governo Berlusconi in carica, Silvestri firma un appello per «mettere in guardia contro i rischi di uno svuotamento della carta costituzionale attraverso proposte di riforme e revisione, che non rispettino precise garanzie». Nel 2002 con una pletora di costituzionalisti spiega di «condividere le critiche delle opposizioni al Ddl sul conflitto di interessi». L’anno appresso, a proposito del Lodo sull’immunità, se ne esce così: «Siamo costretti a fare i conti con questioni che dovrebbero essere scontate, che risalgono ai classici dello stato di diritto (...). Se si va avanti così fra breve saremo capaci di metabolizzare le cose più incredibili». Altro giudice contrarissimo al Lodo è Alessandro Criscuolo. Ha preso la difesa e perorato la causa dell’ex pm di Catanzaro, Luigi De Magistris, nel procedimento disciplinare al Csm: «Non ha mai arrestato nessuno ingiustamente, De Magistris è stato molto attento alla gestione dei suoi provvedimenti». Smentito. Quand’era presidente dell’Anm, alle accuse dei radicali sulla (mala) gestione del caso Tortora, Criscuolo rispose prendendo le parti dei magistrati, difese la sentenza di primo grado, ringraziò i pentiti per il loro contributo (sic!). Nel ’97 entrò a gamba tesa in un altro processo, quello per l’omicidio del commissario Calabresi, al grido di «meglio un colpevole libero che un innocente dentro». E che dire del giudice Franco Gallo, già ministro delle Finanze con Ciampi, nemico giurato del successore visto che all’insediamento di Giulio Tremonti (scrive Il Fatto) rassegnò le dimissioni dalla scuola centrale tributaria dopo esser uscito da un’inchiesta finita al tribunale dei ministri, su presunti illeciti compiuti a favore del Coni per il pagamento di canoni irrisori per alcuni immobili. Altro ministro-giudice di Ciampi, rigorosamente no-Lodo, è il professor Sabino Cassese, gettonatissimo in commissioni di studio e d’inchiesta, ai vertici di società importanti e di banche. A proposito della sentenza del gip Clementina Forleo, che assolveva cinque islamici accusati di terrorismo definendoli «guerriglieri», chiosò dicendo che gli Stati Uniti avevano violato lo stato di diritto. Giuseppe Tesauro, terza creatura di Ciampi alla Consulta, viene ricordato al vertice dell’Antitrust per la sua battaglia contro la legge Gasparri («è una legge contro la concorrenza», oppure, «il testo non è in odor di santità, la riforma mescola coca-cola, whisky e acqua»). Di lui si parlò come candidato dell’Ulivo a fine mandato 2005 e come «persecutore» di Gilberto Benetton e della sua Edizioni Holding interessata ad acquistare la società Autogrill (l’inchiesta venne archiviata). Considerato a sinistra da sempre anche Ugo De Siervo, almeno dal ’95 quando al convegno «Con la Costituzione non si scherza» parlò di comportamenti «ispirati a dilettantismo e tatticismo, interpretazioni di stampo plebiscitario, spregio della legalità costituzionale». A maggio 2001 è a fianco dell’ex sottosegretario e senatore dei Ds Stefano Passigli, che annuncia un esposto contro Berlusconi per la violazione dei limiti di spesa per la legge elettorale.
Certo c’è da storcere il naso nel constatare che non di democrazia si parla (POTERE DEL POPOLO) ma di magistocrazia (POTERE DEI MAGISTRATI).
Detto questo parliamo del Legittimo Impedimento. Nel diritto processuale penale italiano, il legittimo impedimento è l'istituto che permette all'imputato, in alcuni casi, di giustificare la propria assenza in aula. In questo caso l’udienza si rinvia nel rispetto del giusto processo e del diritto di difesa. In caso di assenza ingiustificata bisogna distinguere se si tratta della prima udienza o di una successiva. Nel caso di assenza in luogo della prima udienza il giudice, effettuate le operazioni riguardanti gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti (di cui al 2° comma dell'art. 420), in caso di assenza non volontaria dell'imputato se ne dichiara la condizione di contumacia e il procedimento non subisce interruzioni. Se invece l'assenza riguarda una udienza successiva alla prima ed in quella l'imputato non è stato dichiarato contumace, questi è dichiarato semplicemente assente. E ancora, se nell'udienza successiva alla prima alla quale l'imputato non ha partecipato (per causa maggiore, caso fortuito o forza maggiore) questi può essere ora dichiarato contumace.
''L'indipendenza, l'imparzialità, l'equilibrio dell'amministrazione della giustizia sono più che mai indispensabili in un contesto di persistenti tensioni e difficili equilibri sia sul piano politico che istituzionale''. Lo afferma il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano l’11 giugno 2013 al Quirinale ricevendo i neo giudici al Quirinale e, come se sentisse puzza nell’aria, invita al rispetto della Consulta. Tre ''tratti distintivi'' della magistratura, ha sottolineato il capo dello Stato, ricevendo al Quirinale i 343 magistrati ordinari in tirocinio, che rappresentano ''un costume da acquisire interiormente, quasi al pari di una seconda natura''. Napolitano ha chiesto poi rispetto verso la Consulta: serve "leale collaborazione, oltre che di riconoscimento verso il giudice delle leggi, ossia la Corte Costituzionale, chiamata ad arbitrare anche il conflitto tra poteri dello Stato''. E dopo aver fatto osservare che sarebbe ''inammissibile e scandaloso rimettere in discussione la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, per ciechi particolarismi anche politici'', Napolitano parlando del Consiglio superiore della magistratura ha detto che ''non è un organo di mera autodifesa, bensì un organo di autogoverno, che concorre alle riforme obiettivamente necessarie'' della giustizia.
D’altronde il Presidente della Repubblica in quanto capo dei giudici, non poteva dire altrimenti cosa diversa.
Eppure la corte Costituzionale non si è smentita.
Per quanto riguarda il Legittimo Impedimento attribuibile a Silvio Berlusconi, nelle funzioni di Presidente del Consiglio impegnato in una seduta dello stesso Consiglio dei Ministri, puntuale, atteso, aspettato, è piovuto il 19 giugno 2013 il "no" al legittimo impedimento. La Corte Costituzionale, nel caso Mediaset, si schiera contro Silvio Berlusconi. Per le toghe l'ex premier doveva partecipare all'udienza e non al CDM. È stato corretto l'operato dei giudici di Milano nel processo “Mediaset” quando, il primo marzo del 2010, non hanno concesso il legittimo impedimento a comparire in udienza all'allora premier e imputato di frode fiscale Silvio Berlusconi. A deciderlo, nel conflitto di attribuzioni sollevato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri in dissidio con i togati milanesi, è stata la Corte Costituzionale che ha ritenuto che l'assenza dall'udienza non sia stata supportata da alcuna giustificazione relativa alla convocazione di un Cdm fuori programma rispetto al calendario concordato in precedenza.
"Incredibile" - In una nota congiunta i ministri PDL del governo Letta, Angelino Alfano, Gaetano Quagliariello, Maurizio Lupi, Nunzia De Girolamo e Beatrice Lorenzin, commentano: "E' una decisione incredibile. Siamo allibiti, amareggiati e profondamente preoccupati. La decisione - aggiungono - travolge ogni principio di leale collaborazione e sancisce la subalternità della politica all'ordine giudiziario". Uniti anche tutti i deputati azzurri, che al termine della seduta della Camera, hanno fatto sapere in un comunicato, "si sono riuniti e hanno telefonato al presidente Berlusconi per esprimere la loro profonda indignazione e preoccupazione per la vergognosa decisione della Consulta che mina gravemente la leale collaborazione tra gli organi dello Stato e il corretto svolgimento dell’esercizio democratico". Al Cavaliere, si legge, "i deputati hanno confermato che non sarà certo una sentenza giudiziaria a decretare la sua espulsione dalla vita politica ed istituzionale del nostro Paese, e gli hanno manifestato tutta la loro vicinanza e il loro affetto". "Siamo infatti all’assurdo di una Corte costituzionale che non ritiene legittimo impedimento la partecipazione di un presidente del Consiglio al Consiglio dei ministri", prosegue il capogruppo del Pdl alla Camera, Renato Brunetta, "Dinanzi all’assurdo, che documenta la resa pressoché universale delle istituzioni davanti allo strapotere dell’ingiustizia in toga, la tentazione sarebbe quella di chiedere al popolo sovrano di esprimersi e di far giustizia con il voto". Occorre – dice – una riforma del sistema per limitare gli abusi e una nuova regolazione dei poteri dell’ordine giudiziario che non è un potere ma un ordine in quanto la magistratura non è eletta dal popolo. ''A mente fredda e senza alcuna emozione il giudizio sulla sentenza è più chiaro e netto che mai. Primo: la sentenza è un'offesa al buon senso, tanto varrebbe dichiarare l'inesistenza del legittimo impedimento a prescindere, qualora ci sia di mezzo Silvio Berlusconi. Secondo: la Consulta sancisce che la magistratura può agire in quanto potere assoluto come princeps legibus solutus. Terzo: la risposta di Berlusconi e del Pdl con lui è di netta separazione tra le proteste contro l'ingiustizia e leale sostegno al governo Letta. Quarto: non rinunceremo in nessun caso a far valere in ogni sede i diritti politici del popolo di centrodestra e del suo leader, a cui vanno da parte mia solidarietà e ammirazione. Quinto: credo che tutta la politica, di destra, di sinistra e di centro, dovrebbe manifestare preoccupazione per una sentenza che di fatto, contraddicendo la Costituzione, subordina la politica all'arbitrio di qualsiasi Tribunale''. E' quanto afferma Renato Brunetta, presidente dei deputati del Pdl. Gli fa eco il deputato Pdl Deborah Bergamini, secondo cui "è difficile accettare il fatto che viviamo in un Paese in cui c’è un cittadino, per puro caso leader di un grande partito moderato votato da milioni di italiani, che è considerato da una parte della magistratura sempre e per forza colpevole e in malafede. Purtroppo però è così".
Nessuna preoccupazione a sinistra. "Per quanto riguarda il Pd le sentenze si applicano e si rispettano quindi non ho motivo di ritenere che possa avere effetti su un governo che è di servizio per i cittadini e il Paese in una fase molto drammatica della vita nazionale e dei cittadini", ha detto Guglielmo Epifani, "È una sentenza che era attesa da tempo. Dà ragione a una parte e torto all’altra, non vedo un rapporto tra questa sentenza e il quadro politico".
Non si aveva nessun dubbio chi fossero gli idolatri delle toghe.
LE SENTENZE DEI GIUDICI SI APPLICANO, SI RISPETTANO, MA NON ESSENDO GIUDIZI DI DIO SI POSSONO BEN CRITICARE SE VI SONO FONDATE RAGIONI.
Piero Longo e Niccolò Ghedini, legali di Silvio Berlusconi, criticano duramente la decisione della Consulta sull'ex premier. «I precedenti della Corte Costituzionale in tema di legittimo impedimento sono inequivocabili e non avrebbero mai consentito soluzione diversa dall'accoglimento del conflitto proposto dalla presidenza del Consiglio dei Ministri», assicurano. Per poi aggiungere: «Evidentemente la decisione assunta si è basata su logiche diverse che non possono che destare grave preoccupazione». "La preminenza della giurisdizione rispetto alla legittimazione di un governo a decidere tempi e modi della propria azione - continuano i due legali di Silvio Berlusconi - appare davvero al di fuori di ogni logica giuridica. Di contro la decisione, ampiamente annunciata da giorni da certa stampa politicamente orientata, non sorprende visti i precedenti della stessa Corte quando si è trattato del presidente Berlusconi e fa ben comprendere come la composizione della stessa non sia più adeguata per offrire ciò che sarebbe invece necessario per un organismo siffatto". Mentre per Franco Coppi, nuovo legale al posto di Longo, si tratta di «una decisione molto discutibile che crea un precedente pericoloso perché stabilisce che il giudice può decidere quando un Consiglio dei ministri è, o meno, indifferibile. Le mie idee sul legittimo impedimento non coincidono con quelle della Corte Costituzionale ma, purtroppo, questa decisione la dobbiamo tenere così come è perché è irrevocabile».
Ribatte l'Associazione Nazionale Magistrati: «È inaccettabile attribuire alla Consulta logiche politiche»; un'accusa che «va assolutamente rifiutata». A breve distanza dalla notizia che la Consulta ha negato il legittimo impedimento a Silvio Berlusconi nell'ambito del processo Mediaset, arriva anche la reazione di Rodolfo Sabelli, presidente dell'associazione nazionale magistrati, che ribadisce alle voci critiche che si sono sollevate dal Pdl la versione delle toghe. "Non si può accettare, a prescindere dalla decisione presa - dice Sabelli - l’attribuzione alla Corte Costituzionale di posizioni o logiche di natura politica". Ribadendo l'imparzialità della Corte Costituzionale "a prescindere dal merito della sentenza", chiede "una posizione di rispetto" per la Consulta e una discussione che - se si sviluppa - sia però fatta "in modo informato, conoscendo le motivazioni della sentenza, e con rigore tecnico".
La Corte costituzionale ha detto no. Respinto il ricorso di Silvio Berlusconi per il legittimo impedimento (giudicato non assoluto, in questo caso) che non ha consentito all’allora premier di partecipare all’udienza del 10 marzo 2010 del processo Mediaset, per un concomitante consiglio dei ministri. Nel dare ragione ai giudici di Milano che avevano detto no alla richiesta di legittimo impedimento di Berlusconi, la Corte Costituzionale ha osservato che «dopo che per più volte il Tribunale (di Milano), aveva rideterminato il calendario delle udienze a seguito di richieste di rinvio per legittimo impedimento, la riunione del Consiglio dei ministri, già prevista in una precedente data non coincidente con un giorno di udienza dibattimentale, è stata fissata dall'imputato Presidente del Consiglio in altra data coincidente con un giorno di udienza, senza fornire alcuna indicazione (diversamente da quanto fatto nello stesso processo in casi precedenti), nè circa la necessaria concomitanza e la non rinviabilità» dell'impegno, né circa una data alternativa per definire un nuovo calendario. "La riunione del Cdm - spiega la Consulta - non è un impedimento assoluto". Si legge nella sentenza: "Spettava all'autorità giudiziaria stabilire che non costituisce impedimento assoluto alla partecipazione all'udienza penale del 1 marzo 2010 l'impegno dell'imputato Presidente del Consiglio dei ministri" Silvio Berlusconi "di presiedere una riunione del Consiglio da lui stesso convocata per tale giorno", che invece "egli aveva in precedenza indicato come utile per la sua partecipazione all'udienza".
Ma è veramente imparziale la Corte costituzionale?
Tutta la verità sui giornali dopo la bocciatura del “Lodo Alfano”, sulla sospensione dei procedimenti penali per le più alte cariche dello Stato, avvenuta da parte della Corte Costituzionale il 7 ottobre 2009. La decisione della Consulta è arrivata con nove voti a favore e sei contrari. Quanto al Lodo Alfano, si sottolinea che il mutamento di indirizzo della Corte "oltre che una scelta politica si configura anche come violazione del principio di leale collaborazione tra gli organi costituzionali che ha avuto la conseguenza di sviare l'azione legislativa del Parlamento". Berlusconi dice: "C'è un presidente della Repubblica di sinistra, Giorgio Napolitano, e c'è una Corte costituzionale con undici giudici di sinistra, che non è certamente un organo di garanzia, ma è un organo politico. Il presidente è stato eletto da una maggioranza di sinistra, ed ha le radici totali della sua storia nella sinistra. Credo che anche l'ultimo atto di nomina di un magistrato della Corte dimostri da che parte sta". La Corte ha 15 membri, con mandato di durata 9 anni: 5 nominati dal Presidente della Repubblica, Ciampi e Napolitano (di area centro-sinistra); 5 nominati dal Parlamento (maggioranza centro-sinistra); 5 nominati dagli alti organi della magistratura (che tra le sue correnti, quella più influente è di sinistra). Non solo. Dalla Lega Nord si scopre che 9 giudici su 15 sono campani. «Ci sembra alquanto strano che ben 9 dei 15 giudici della Consulta siano campani» osservano due consiglieri regionali veneti della Lega Nord, Emilio Zamboni e Luca Baggio. «È quasi incredibile - affermano Zamboni e Baggio - che un numero così elevato di giudici provenga da una sola regione, guarda caso la Campania. Siamo convinti che questo dato numerico debba far riflettere non solo l'opinione pubblica, ma anche i rappresentanti delle istituzioni». «Il Lodo Alfano è stato bocciato perché ritenuto incostituzionale. Ma cosa c'è di costituzionale - si chiedono Baggio e Zamboni - nel fatto che la maggior parte dei giudici della Consulta, che ha bocciato la contestata legge provenga da Napoli? Come mai c'è un solo rappresentante del Nord?».
Da “Il Giornale” poi, l’inchiesta verità: “Scandali e giudizi politici: ecco la vera Consulta”. Ermellini rossi, anche per l’imbarazzo. Fra i giudici della Corte costituzionale che hanno bocciato il Lodo Alfano ve n’è uno che da sempre strizza un occhio a sinistra, ma li abbassa tutti e due quando si tratta di affrontare delicate questioni che riguardano lui o i suoi più stretti congiunti. È Gaetano Silvestri, 65 anni, ex csm, ex rettore dell’ateneo di Messina, alla Consulta per nomina parlamentare («alè, hanno eletto un altro comunista!» tuonò il 22 giugno 2005 l’onorevole Carlo Taormina), cognato di quell’avvocato Giuseppe «Pucci» Fortino arrestato a maggio 2007 nell’inchiesta Oro Grigio e sotto processo a Messina per volontà del procuratore capo Luigi Croce. Che ha definito quel legale intraprendente «il Ciancimino dello Stretto», con riferimento all’ex sindaco mafioso di Palermo, tramite fra boss e istituzioni. Per i pm l’«avvocato-cognato» era infatti in grado di intrattenere indifferentemente rapporti con mafiosi, magistrati, politici e imprenditori. Di Gaetano Silvestri s’è parlato a lungo anche per la vicenda della «parentopoli» all’università di Messina. Quand’era rettore s’è scoperto che sua moglie, Marcella Fortino (sorella di Giuseppe, il «Ciancimino di Messina») era diventata docente ordinario di Scienze Giuridiche. E che costei era anche cognata dell’ex pro-rettore Mario Centorrino, il cui figlio diventerà ordinario, pure lui, nel medesimo ateneo. E sempre da Magnifico, Silvestri scrisse una lettera riservata al provveditore agli studi Gustavo Ricevuto per perorare la causa del figlio maturando, a suo dire punito ingiustamente all’esito del voto (si fermò a 97/100) poiché agli scritti - sempre secondo Silvestri - il ragazzo aveva osato criticare un certo metodo d’insegnamento. La lettera doveva rimanere riservata, il 5 agosto 2001 finì in edicola. E fu scandalo. «Come costituzionalista - scrisse Silvestri - fremo all’idea che una scuola di una Repubblica democratica possa operare siffatte censure, frutto peraltro di un non perfetto aggiornamento da parte di chi autoritariamente le pone in atto. Ho fatto migliaia di esami in vita mia, ma sentirei di aver tradito la mia missione se avessi tolto anche un solo voto a causa delle opinioni da lui professate». Andando al luglio ’94, governo Berlusconi in carica, Silvestri firma un appello per «mettere in guardia contro i rischi di uno svuotamento della carta costituzionale attraverso proposte di riforme e revisione, che non rispettino precise garanzie». Nel 2002 con una pletora di costituzionalisti spiega di «condividere le critiche delle opposizioni al Ddl sul conflitto di interessi». L’anno appresso, a proposito del Lodo sull’immunità, se ne esce così: «Siamo costretti a fare i conti con questioni che dovrebbero essere scontate, che risalgono ai classici dello stato di diritto (...). Se si va avanti così fra breve saremo capaci di metabolizzare le cose più incredibili». Altro giudice contrarissimo al Lodo è Alessandro Criscuolo. Ha preso la difesa e perorato la causa dell’ex pm di Catanzaro, Luigi De Magistris, nel procedimento disciplinare al Csm: «Non ha mai arrestato nessuno ingiustamente, De Magistris è stato molto attento alla gestione dei suoi provvedimenti». Smentito. Quand’era presidente dell’Anm, alle accuse dei radicali sulla (mala) gestione del caso Tortora, Criscuolo rispose prendendo le parti dei magistrati, difese la sentenza di primo grado, ringraziò i pentiti per il loro contributo (sic!). Nel ’97 entrò a gamba tesa in un altro processo, quello per l’omicidio del commissario Calabresi, al grido di «meglio un colpevole libero che un innocente dentro». E che dire del giudice Franco Gallo, già ministro delle Finanze con Ciampi, nemico giurato del successore visto che all’insediamento di Giulio Tremonti (scrive Il Fatto) rassegnò le dimissioni dalla scuola centrale tributaria dopo esser uscito da un’inchiesta finita al tribunale dei ministri, su presunti illeciti compiuti a favore del Coni per il pagamento di canoni irrisori per alcuni immobili. Altro ministro-giudice di Ciampi, rigorosamente no-Lodo, è il professor Sabino Cassese, gettonatissimo in commissioni di studio e d’inchiesta, ai vertici di società importanti e di banche. A proposito della sentenza del gip Clementina Forleo, che assolveva cinque islamici accusati di terrorismo definendoli «guerriglieri», chiosò dicendo che gli Stati Uniti avevano violato lo stato di diritto. Giuseppe Tesauro, terza creatura di Ciampi alla Consulta, viene ricordato al vertice dell’Antitrust per la sua battaglia contro la legge Gasparri («è una legge contro la concorrenza», oppure, «il testo non è in odor di santità, la riforma mescola coca-cola, whisky e acqua»). Di lui si parlò come candidato dell’Ulivo a fine mandato 2005 e come «persecutore» di Gilberto Benetton e della sua Edizioni Holding interessata ad acquistare la società Autogrill (l’inchiesta venne archiviata). Considerato a sinistra da sempre anche Ugo De Siervo, almeno dal ’95 quando al convegno «Con la Costituzione non si scherza» parlò di comportamenti «ispirati a dilettantismo e tatticismo, interpretazioni di stampo plebiscitario, spregio della legalità costituzionale». A maggio 2001 è a fianco dell’ex sottosegretario e senatore dei Ds Stefano Passigli, che annuncia un esposto contro Berlusconi per la violazione dei limiti di spesa per la legge elettorale.
Tanto comandano loro: le toghe! Magistrati, raddoppiati gli incarichi extragiudiziari. Le richieste per svolgere un secondo lavoro sono aumentate in 12 mesi del 100%. Sono passate da 961 a 494. Un record. Consulenze e docenze le più appetibili, scrive “Libero Quotidiano”. La doppia vita dei magistrati. Alle toghe di casa nostra non bastano mai i soldi che incassano con il loro lavoro da magistrato. Le toghe preferiscono la seconda attività. Negli ultimi sei mesi il totale degli incarichi autorizzati dal Csm alle toghe ha toccato quota 961, quasi il doppio dei 494 concessi nei sei mesi precedenti. Insomma il doppio lavoro e la doppia busta paga servono per riempire le tasche. La doppia attività è una tradizione dei nostri magistrati. E la tendenza è in crescita. Si chiamano incarichi “extragiudiziari”, in quanto relativi ad attività che non fanno riferimento alla professione giudiziaria. Gli incarichi per le toghe arrivano dalle società, dagli enti di consulenza e università private, come quella della Confindustria. I dati sull'incremento degli incarichi extragiudiziari li fornisce il Csm. Tra novembre 2012 e maggio 2013 gli incarichi sono raddoppiati. A dare l'ok alla doppia attività è proprio il Csm. Le toghe amano le cattedre e così vanno ad insegnare alla Luiss, l’ateneo confindustriale diretto da Pier Luigi Celli. Poi ci sono le consulenze legali per la Wolters Kluwer, multinazionale che si occupa di editoria e formazione professionale. Ma non finisce qua. Qualche magistrato lavora per la Altalex Consulting, altra società attiva nell’editoria e nella formazione giuridica. Le paghe sono sostanziose. Ad esempio Giovanni Fanticini, racconta Lanotiziagiornale.it, è giudice al tribunale di Reggio Emilia. Ma ha 11 incarichi extragiudiziali. Tra docenze, seminari e lezioni varie, è semplicemente impressionante: dalla Scuola superiore dell’economia e delle finanze (controllata al ministero di via XX Settembre) ha avuto un incarico di 7 ore con emolumento orario di 130 euro (totale 910 euro); dalla società Altalex ha avuto sei collaborazioni: 15 ore per complessivi 2.500 euro, 7 ore per 1.300, 8 ore per 1.450, 15 ore per 2.500, 5 ore per 750 e 5 ore per 700; dal Consorzio interuniversitario per l’aggiornamento professionale in campo giuridico ha ottenuto due incarichi, complessivamente 8 ore da 100 euro l’una (totale 800 euro). Insomma un buon bottino. In Confindustria poi c'è l'incarico assegnato a Domenico Carcano, consigliere della Corte di cassazione, che per 45 ore di lezioni ed esami di diritto penale ha ricevuto 6 mila euro. C’è Michela Petrini, magistrato ordinario del tribunale di Roma, che ha incassato due docenze di diritto penale dell’informatica per complessivi 4.390 euro. Ancora, Enrico Gallucci, magistrato addetto all’Ufficio amministrazione della giustizia, ha ottenuto 5.500 euro per 36 ore di lezione di diritto penale. Il doppio incarico di certo non va molto d'accordo con l'imparzialità della magistratura. Se le società dove lavorano questi magistrati dovessero avere problemi giudiziari la magistratura e i giudici quanto sarebbero equidistanti nell'amministrare giustizia? L'anomalia degli incarichi extragiudiziari va eliminata.
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”
Per esempio nei processi, anche i testimoni della difesa.
Tornando alla parafrasi del “TUTTI DENTRO, CAZZO!!” si deve rimarcare una cosa. Gli italiani sono: “Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigatori”. Così è scritto sul Palazzo della Civiltà Italiana dell’EUR a Roma. Manca: “d’ingenui”. Ingenui al tempo di Mussolini, gli italiani, ingenui ancora oggi. Ma no, un popolo d’ingenui non va bene. Sul Palazzo della Civiltà aggiungerei: “Un popolo d’allocchi”, anzi “Un popolo di Coglioni”. Perché siamo anche un popolo che quando non sa un “cazzo” di quello che dice, parla. E parla sempre. Parla..…parla. Specialmente sulle cose di Giustizia: siamo tutti legulei.
Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.
Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.
Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip».
Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».
Sul degrado morale dell’Italia berlusconiana (e in generale di tutti quelli che hanno votato Berlusconi nonostante sia, per dirla con Gad Lerner, un “puttaniere”) è stato detto di tutto, di più. Ma poco, anzi meno, è stato detto a mio parere sul degrado moralista della sinistra anti-berlusconiana (e in generale di molti che hanno votato “contro” il Cavaliere e che hanno brindato a champagne, festeggiato a casa o in ufficio, tirato un sospiro di sollievo come al risveglio da un incubo di vent’anni). Quella sinistra che, zerbino dei magistrati, ha messo il potere del popolo nelle mani di un ordine professionale, il cui profilo psico-fisico-attitudinale dei suoi membri non è mai valutato e la loro idoneità professionale incute dei dubbi.
Condanna a sette anni di carcere per concussione per costrizione (e non semplice induzione indebita) e prostituzione minorile, con interdizione perpetua dai pubblici uffici per Silvio Berlusconi: il processo Ruby a Milano finisce come tutti, Cavaliere in testa, avevano pronosticato. Dopo una camera di consiglio-fiume iniziata alle 10 di mattina e conclusa sette ore abbondanti dopo, le tre giudici della quarta sezione penale Giulia Turri, Orsola De Cristofaro e Carmen D'Elia hanno accolto in pieno, e anzi aumentato, le richieste di 6 anni dell'accusa, rappresentata dai pm Ilda Boccassini (in ferie e quindi non in aula, sostituita dal procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati, fatto mai avvenuto quello che il procuratore capo presenzi in dibattimento) e Antonio Sangermano. I giudici hanno anche trasmesso alla Procura, per le opportune valutazioni, gli atti relativi alla testimonianza, tra gli altri, di Giorgia Iafrate, la poliziotta che affidò Ruby a Nicole Minetti. Inoltre, sono stati trasmessi anche i verbali relativi alle deposizioni di diverse olgettine, di Mariano Apicella e di Valentino Valentini. Il tribunale di Milano ha disposto anche la confisca dei beni sequestrati a Ruby, Karima El Mahroug e al compagno Luca Risso, ai sensi dell'articolo 240 del codice penale, secondo cui il giudice "può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto".
I paradossi irrisolti della sentenza sono che colpiscono anche la “vittima” Ruby e non solo il “carnefice” Berlusconi. L’ex minorenne, Karima El Mahroug, «per un astratta tutela della condizione di minorenne», viene dichiarata prima “prostituta” e poi i suoi beni le vengono confiscati: «Come nel caso del concusso, la parte lesa non si dichiara tale anzi si manifesta lesa per l’azione dei magistrati». Ruby «è doppiamente lesa dai magistrati», spiega Sgarbi, «nella reputazione e nel vedersi sottrarre, in via cautelativa, i denari che Berlusconi le ha dato».
«Non chiamiamola sentenza. Non chiamiamolo processo. Soprattutto, non chiamiamola giustizia». Comincia così, con queste amarissime parole, la nota di Marina Berlusconi in difesa di suo padre. «Quello cui abbiamo dovuto assistere è uno spettacolo assurdo che con la giustizia nulla ha a che vedere, uno spettacolo che la giustizia non si merita. La condanna - scrive Marina - era scritta fin dall'inizio, nel copione messo in scena dalla Procura di Milano. Mio padre non poteva non essere condannato. Ma se possibile il Tribunale è andato ancora più in là, superando le richieste dell'accusa e additando come spergiuri tutti i testi in contrasto con il suo teorema». Nonostante la "paccata" di testimoni portati in tribunale dalla difesa di Silvio Berlusconi, il presidente della Corte Giulia Turri e i giudici Orsolina De Cristofano e Carmen D'Elia hanno preferito inseguire il teorema costruito ad arte dal pm Ilda Boccassini e tacciare di falsa testimonianza tutte le persone che, con le proprie parole, hanno scagionato il Cavaliere. Insomma, se la "verità" non coincide con quella professata dalla magistratura milanese, allora diventa automaticamente bugia. Non importa che non ci sia alcuna prova a dimostrarlo.
L'accusa dei giudici milanesi è sin troppo chiara, spiega Andrea Indini su "Il Giornale": le trentadue persone che si sono alternate sul banco dei testimoni per rendere dichiarazioni favorevoli a Berlusconi hanno detto il falso. Solo le motivazioni, previste tra novanta giorni, potranno chiarire le ragioni per cui il collegio abbia deciso di trasmettere alla procura i verbali di testimoni che vanno dall’amico storico dell’ex premier Mariano Apicella all’ex massaggiatore del Milan Giorgio Puricelli, dall’europarlamentare Licia Ronzulli alla deputata Maria Rosaria Rossi. Da questo invio di atti potrebbe nascere, a breve, un maxi procedimento per falsa testimonianza. A finir nei guai per essersi opposta al teorema della Boccassini c'è anche il commissario Giorgia Iafrate che era in servizio in Questura la notte del rilascio di Ruby. La funzionaria aveva, infatti, assicurato di aver agito "nell’ambito dei miei poteri di pubblico ufficiale". "Di fronte alla scelta se lasciare la ragazza in Questura in condizioni non sicure o affidarla ad un consigliere regionale - aveva spiegato - ho ritenuto di seguire quest’ultima possibilità". Proprio la Boccassini, però, nella requisitoria aveva definito "avvilenti le dichiarazioni della Iafrate che afferma che il pm minorile Fiorillo le aveva dato il suo consenso". Alla procura finiscono poi i verbali di una ventina di ragazze. Si va da Barbara Faggioli a Ioana Visan, da Lisa Barizonte alle gemelle De Vivo, fino a Roberta Bonasia. Davanti ai giudici avevano descritto le serate di Arcore come "cene eleganti", con qualche travestimento sexy al massimo, e avevano sostenuto che Ruby si era presentata come una 24enne. "I giudici hanno dato per scontato che siamo sul libro paga di Berlusconi - ha tuonato Giovanna Rigato, ex del Grande Fratello - io tra l’altro al residence non ho mai abitato, sono una che ha sempre lavorato, l’ho detto in mille modi che in quelle serata ad Arcore non ho mai visto nulla di scabroso ma tanto...". Anche Marysthelle Polanco è scioccata dalla sentenza: "Non mi hanno creduto, non ci hanno creduto, io ho detto la verità e se mi chiamano di nuovo ripeterò quello che ho sempre raccontato". Sebbene si siano lasciate scivolare addosso insulti ben più pesanti, le ragazze che hanno partecipato alle feste di Arcore non sono disposte ad accettare l’idea di passare per false e bugiarde. Da Puricelli a Rossella, fino al pianista Mariani e ad Apicella, è stato tratteggiato in Aula un quadro di feste fatto di chiacchiere, balli e nessun toccamento.
Nel tritacarne giudiziario finisce anche la Ronzulli, "rea" di aver fornito una versione diversa da quella resa da Ambra e Chiara nel processo "gemello" e di aver negato di aver visto una simulazione di sesso orale con l’ormai famosa statuetta di Priapo. Stesso destino anche per l’ex consigliere per le relazioni internazionali Valentino Valentini che aveva svelato di esser stato lui a far contattare la Questura di Milano per "capire cosa stesse accadendo". Ed era stato sempre lui a parlare di una conversazione tra Berlusconi e l'ex raìs Hosni Mubarak sulla parentela con Ruby. Anche il viceministro Bruno Archi, all’epoca diplomatico, ai giudici aveva descritto quel pranzo istituzionale nel quale si sarebbe parlato di Karima. E ancora: sono stati trasmessi ai pm anche i verbali di Giuseppe Estorelli, il capo scorta di Berlusconi, e del cameriere di Arcore Lorenzo Brunamonti, "reo" di aver regalato al Cavaliere, di ritorno da un viaggio, la statuetta di Priapo. Tutti bugiardi, tutti nella tritarcarne del tribunale milanese. La loro colpa? Aver detto la verità. Una verità che non piace ai giudici che volevano far fuori a tutti i costi Berlusconi.
C'era un solo modo per condannare Silvio Berlusconi nel processo cosiddetto Ruby, spiega Alessandro Sallusti su "Il Giornale": fare valere il teorema della Boccassini senza tenere conto delle risultanze processuali, in pratica cancellare le decine e decine di testimonianze che hanno affermato, in due anni di udienze, una verità assolutamente incompatibile con le accuse. E cioè che nelle notti di Arcore non ci furono né vittime né carnefici, così come in Questura non ci furono concussi. Questo trucco era l'unica possibilità e questo è accaduto. Trenta testimoni e protagonisti della vicenda, tra i quali rispettabili parlamentari, dirigenti di questura e amici di famiglia sono stati incolpati in sentenza, cosa senza precedenti, di falsa testimonianza e dovranno risponderne in nuovi processi. Spazzate via in questo modo le prove non solo a difesa di Berlusconi ma soprattutto contrarie al teorema Boccassini, ecco spianata la strada alla condanna esemplare per il capo: sette anni più l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, esattamente la stessa pronunciata nella scena finale del film Il Caimano di Nanni Moretti, in cui si immagina l'uscita di scena di Berlusconi. Tra questa giustizia e la finzione non c'è confine. Siamo oltre l'accanimento, la sentenza è macelleria giudiziaria, sia per il metodo sia per l'entità. Ricorda molto, ma davvero molto, quelle che i tribunali stalinisti e nazisti usavano per fare fuori gli oppositori: i testimoni che osavano alzare un dito in difesa del disgraziato imputato di turno venivano spazzati via come vermi, bollati come complici e mentitori, andavano puniti e rieducati. Come osi, traditore - sostenevano i giudici gerarchi - mettere in dubbio la parola dello Stato padrone? Occhio, che in galera sbatto pure te. Così, dopo Berlusconi, tocca ai berlusconiani passare sotto il giogo di questi pazzi scatenati travestiti da giudici. I quali vogliono che tutti pieghino la testa di fronte alla loro arroganza e impunità. In trenta andranno a processo per aver testimoniato la verità, raccontato ciò che hanno visto e sentito. Addio Stato di diritto, addio a una nobile tradizione giuridica, la nostra, in base alla quale il giudizio della corte si formava esclusivamente sulle verità processuali, che se acquisite sotto giuramento e salvo prova contraria erano considerate sacre.
Omicidi, tentati omicidi, sequestro di persona, occultamenti di cadavere. Per la giustizia italiana questi reati non sono poi così diversi da quello di concussione, scrive Nadia Francalacci su "Panorama". La condanna inflitta a Silvio Berlusconi a 7 anni di carcere, uno in più rispetto alla pena chiesta dai pubblici ministeri, e interdizione perpetua dai pubblici uffici per i reati di prostituzione minorile e concussione, non differisce che di poche settimane da quella inflitta a Michele Misseri il contadino di Avetrana che ha occultato il cadavere della nipotina Sara Scazzi in un pozzo delle campagne pugliesi. Non solo. La condanna all’ex premier è addirittura ancor più pesante rispetto a quella inflitta a due studenti di Giurisprudenza, Scattone e Ferraro, che “quasi per gioco” hanno mirato alla testa di una studentessa, Marta Russo, uccidendola nel cortile interno della facoltà. Quasi per gioco. Così in pochi istanti hanno ucciso, tolto la vita, ad una ragazza che aveva tanti sogni da realizzare. Marta Russo così come Sara Scazzi oppure un Gabriele Sandri, il tifoso laziale ucciso nell’area di servizio dopo dei tafferugli con i tifosi juventini. Il poliziotto che ha premuto il grilletto colpendolo alla nuca, è stato condannato a 9 anni e 4 mesi. A soli 28 mesi in più di carcere rispetto a Silvio Berlusconi.
In tema di Giustizia l'Italia è maglia nera in Europa. In un anno si sono impiegati 564 giorni per il primo grado in sede civile, contro una media di 240 giorni nei Paesi Ocse. Il tempo medio per la conclusione di un procedimento civile nei tre gradi di giudizio si attesta sui 788 giorni. Non se la passa meglio la giustizia penale: la sua lentezza è la causa principale di sfiducia nella giustizia (insieme alla percezione della mancata indipendenza dei magistrati e della loro impunità, World Economic Forum). La durata media di un processo penale, infatti, tocca gli otto anni e tre mesi, con punte di oltre 15 anni nel 17% dei casi. Ora, tale premessa ci sbatte in faccia una cruda realtà. Per Silvio Berlusconi la giustizia italiana ha tempi record, corsie preferenziali e premure impareggiabili. Si prenda ad esempio il processo per i diritti televisivi: tre gradi di giudizio in nove mesi, una cosa del genere non si è mai vista in Italia. Il 26 ottobre 2012 i giudici del Tribunale di Milano hanno condannato Silvio Berlusconi a quattro anni di reclusione, una pena più dura di quella chiesta dalla pubblica accusa (il 18 giugno 2012 i PM Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro chiedono al giudice una condanna di 3 anni e 8 mesi per frode fiscale di 7,3 milioni di euro). Il 9 novembre 2012 Silvio Berlusconi, tramite i suoi legali, ha depositato il ricorso in appello. L'8 maggio 2013 la Corte d'Appello di Milano conferma la condanna di 4 anni di reclusione, 5 anni di interdizione dai pubblici uffici e 3 anni dagli uffici direttivi. Il 9 luglio 2013 la Corte di Cassazione ha fissato al 30 luglio 2013 l'udienza del processo per frode fiscale sui diritti Mediaset. Processo pervenuto in Cassazione da Milano il 9 luglio con i ricorsi difensivi depositati il 19 giugno. Per chi se ne fosse scordato - è facile perdere il conto tra i 113 procedimenti (quasi 2700 udienze) abbattutisi sull'ex premier dalla sua discesa in campo, marzo 1994 - Berlusconi è stato condannato in primo grado e in appello a quattro anni di reclusione e alla pena accessoria di cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. Secondo i giudici, l'ex premier sarebbe intervenuto per far risparmiare a Mediaset tre milioni di imposte nel 2002-2003. Anni in cui, per quanto vale, il gruppo versò all'erario 567 milioni di tasse. I legali di Berlusconi avranno adesso appena venti giorni di tempo per articolare la difesa. «Sono esterrefatto, sorpreso, amareggiato» dichiara Franco Coppi. Considerato il migliore avvocato cassazionista d'Italia, esprime la sua considerazione con la sua autorevolezza e il suo profilo non politicizzato: «Non si è mai vista un'udienza fissata con questa velocità», che «cade tra capo e collo» e «comprime i diritti della difesa». Spiega: «Noi difensori dovremo fare in 20 giorni quello che pensavamo di fare con maggior respiro». Tutto perché? «Evidentemente - ragiona Coppi -, la Cassazione ha voluto rispondere a chi paventava i rischi della prescrizione intermedia. Ma di casi come questo se ne vedono molti altri e la Suprema Corte si limita a rideterminare la pena, senza andare ad altro giudice. Al di là degli aspetti formali, sul piano sostanziale, dover preparare una causa così rinunciando a redigere motivi nuovi, perché i tempi non ci sono, significa un'effettiva diminuzione delle possibilità di difesa». Il professore risponde così anche all'Anm che definisce «infondate» le polemiche e nega che ci sia accanimento contro il Cavaliere.
113 procedimenti. Tutto iniziò nel 1994 con un avviso di garanzia (poi dimostratosi infondato) consegnato a mezzo stampa dal Corriere della Sera durante il G8 che si teneva a Napoli. Alla faccia del segreto istruttorio. E’ evidentemente che non una delle centinaia di accuse rivoltegli contro era fondata. Nessun criminale può farla sempre franca se beccato in castagna. E non c’è bisogno di essere berlusconiano per affermare questo.
E su come ci sia commistione criminale tra giornali e Procure è lo stesso Alessandro Sallusti che si confessa. In un'intervista al Foglio di Giuliano Ferrara, il direttore de Il Giornale racconta i suoi anni al Corriere della Sera, e il suo rapporto con Paolo Mieli: «Quando pubblicammo l'avviso di garanzia che poi avrebbe fatto cadere il primo governo di Silvio Berlusconi, ero felicissimo. Era uno scoop pazzesco. E lo rifarei. Ma si tratta di capire perché certe notizie te le passano. Sin dai tempi di Mani pulite il Corriere aveva due direttori, Mieli e Francesco Saverio Borrelli, il procuratore capo di Milano. I magistrati ci passavano le notizie, con una tempistica che serviva a favorire le loro manovre. Mi ricordo bene la notte in cui pubblicammo l'avviso di garanzia a Berlusconi. Fu una giornata bestiale, Mieli a un certo punto, nel pomeriggio, sparì. Poi piombò all'improvviso nella mia stanza, fece chiamare Goffredo Buccini e Gianluca Di Feo, che firmavano il pezzo, e ci disse, pur con una certa dose di insicurezza, di scrivere tutto, che lo avremmo pubblicato. Parlava con un tono grave, teso. Quella notte, poi, ci portò in pizzeria, ci disse che aveva già scritto la lettera di dimissioni, se quello che avevamo non era vero sarebbero stati guai seri. Diceva di aver parlato con Agnelli e poi anche con il presidente Scalfaro. Ma poi ho ricostruito che non era così, non li aveva nemmeno cercati, secondo me lui pendeva direttamente dalla procura di Milano».
Si potrebbe sorridere al fatto che i processi a Silvio Berlusconi, nonostante cotanto di principi del foro al seguito, innalzino sensibilmente la media nazionale dello sfascio della nostra giustizia. Ma invece la domanda, che fa capolino e che sorge spontanea, è sempre la stessa: come possiamo fidarci di "questa" giustizia, che se si permette di oltraggiare se stessa con l’uomo più potente d’Italia, cosa potrà fare ai poveri cristi? La memoria corre a quel film di Dino Risi, "In nome del popolo italiano", 1971. C'è il buono, il magistrato impersonato da Tognazzi. E poi c'è il cialtrone, o presunto tale, che è uno strepitoso Gassman. Alla fine il buono fa arrestare il cialtrone, ma per una cosa che non ha fatto, per un reato che non ha commesso. Il cialtrone è innocente, ma finalmente è dentro.
Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia, i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730. Accadde che un vigile, a Montagnano, provincia di Campobasso, nel lontano 2 novembre 2005 fermò un uomo di 70 anni: la sua auto viaggiava con un solo faro acceso. Ne seguì una vivace discussione tra il prossimo multato e l'agente. Quando contravvenzione fu, il guidatore si lasciò andare al seguente sfogo: "Invece di andare ad arrestare i tossici a Campobasso, pensate a fare queste stronzate e poi si vedono i risultati. In questo schifo di Italia di merda...". Il vigile zelante prese nota di quella frase e lo denunciò. Mille euro di multa - In appello, il 26 aprile del 2012, per il viaggiatore senza faro che protestò aspramente contro la contravvenzione arrivò la condanna, pena interamente coperta da indulto. L'uomo decise così di rivolgersi alla Cassazione. La sentenza poi confermata dai giudici della prima sezione penale del Palazzaccio. Il verdetto: colpevole di "vilipendio alla nazione". Alla multa di ormai otto anni fa per il faro spento, si aggiunge quella - salata - di mille euro per l'offesa al tricolore. L'uomo si era difeso sostenendo che non fosse sua intenzione offendere lo Stato e appellandosi al "diritto alla libera manifestazione di pensiero". «Il diritto di manifestare il proprio pensiero in qualsiasi modo - si legge nella sentenza depositata - non può trascendere in offese grossolane e brutali prive di alcuna correlazione con una critica obiettiva»: per integrare il reato, previsto dall'articolo 291 del codice penale, «è sufficiente una manifestazione generica di vilipendio alla nazione, da intendersi come comunità avente la stessa origine territoriale, storia, lingua e cultura, effettuata pubblicamente». Il reato in esame, spiega la Suprema Corte, «non consiste in atti di ostilità o di violenza o in manifestazioni di odio: basta l'offesa alla nazione, cioè un'espressione di ingiuria o di disprezzo che leda il prestigio o l'onore della collettività nazionale, a prescindere dai vari sentimenti nutriti dall'autore». Il comportamento dell'imputato, dunque, che «in luogo pubblico, ha inveito contro la nazione», gridando la frase “incriminata”, «sia pure nel contesto di un'accesa contestazione elevatagli dai carabinieri per aver condotto un'autovettura con un solo faro funzionante, integra - osservano gli “ermellini” - il delitto di vilipendio previsto dall'articolo 291 cp, sia nel profilo materiale, per la grossolana brutalità delle parole pronunciate pubblicamente, tali da ledere oggettivamente il prestigio o l'onore della collettività nazionale, sia nel profilo psicologico, integrato dal dolo generico, ossia dalla coscienza e volontà di proferire, al cospetto dei verbalizzanti e dei numerosi cittadini presenti sulla pubblica via nel medesimo frangente, le menzionate espressioni di disprezzo, a prescindere dai veri sentimenti nutriti dall'autore e dal movente, nella specie di irata contrarietà per la contravvenzione subita, che abbia spinto l'agente a compiere l'atto di vilipendio».
A questo punto ognuno di noi ammetta e confessi che, almeno per un volta nella sua vita, ha proferito la fatidica frase “che schifo questa Italia di merda” oppure “che schifo questi italiani di merda”.
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!
Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e gran parte della classe politica del tempo tranne quei pochi che ne erano i veri destinatari (Craxi e Forlani) e quei pochissimi che si rifiutarono di partecipare al piano stragista (Andreotti Lima e Mannino) e che per questo motivo furono assassinati o lungamente processati. La Sinistra non di governo sapeva. La Sinistra Democristiana ha partecipato al piano stragista fino all'elezione di Scalfaro poi ha cambiato rotta. I traditori di Craxi e la destra neofascista sono gli artefici delle stragi. Quelli che pensavamo essere i peggio erano i meglio. E quelli che pensavamo essere i meglio erano i peggio. In questo contesto non si può cercare dai carabinieri Mario Mori e Mario Obinu che comunque dipendevano dal Ministero degli Interni e quindi dal Potere Politico, un comportamento lineare e cristallino.
Ed a proposito del “TUTTI DENTRO”, alle toghe milanesi Ruby non basta mai. Un gigantesco terzo processo per il caso Ruby, dove sul banco degli imputati siedano tutti quelli che, secondo loro, hanno cercato di aiutare Berlusconi a farla franca: poliziotti, agenti dei servizi segreti, manager, musicisti, insomma quasi tutti i testimoni a difesa sfilati davanti ai giudici. Anche Ruby, colpevole di avere negato di avere fatto sesso con il Cavaliere. Ma anche i suoi difensori storici, Niccolò Ghedini e Piero Longo. E poi lui medesimo, Berlusconi. Che della opera di depistaggio sarebbe stato il regista e il finanziatore. I giudici con questa decisione mandano a dire (e lo renderanno esplicito nelle motivazioni) che secondo loro in aula non si è assistito semplicemente ad una lunga serie di false testimonianze, rese per convenienza o sudditanza, ma all'ultima puntata di un piano criminale architettato ben prima che lo scandalo esplodesse, per mettere Berlusconi al riparo dalle sue conseguenze. Corruzione in atti giudiziari e favoreggiamento, questi sono i reati che i giudici intravedono dietro quanto è accaduto. Per l'operazione di inquinamento e depistaggio la sentenza indica una data di inizio precisa: il 6 ottobre 2010, quando Ruby viene a Milano insieme al fidanzato Luca Risso e incontra l'avvocato Luca Giuliante, ex tesoriere del Pdl, al quale riferisce il contenuto degli interrogatori che ha già iniziato a rendere ai pm milanesi. I giudici del processo a Berlusconi avevano trasmesso gli atti su quell'incontro all'Ordine degli avvocati, ritenendo di trovarsi davanti a una semplice violazione deontologica. Invece la sentenza afferma che fu commesso un reato, e che insieme a Giuliante ne devono rispondere anche Ghedini e Longo. E l'operazione sarebbe proseguita a gennaio, quando all'indomani delle perquisizioni e degli avvisi di garanzia, si tenne una riunione ad Arcore tra Berlusconi e alcune delle «Olgettine» che erano state perquisite. Berlusconi come entra in questa ricostruzione? Essendo imputato nel processo, il Cavaliere non può essere accusato né di falsa testimonianza né di favoreggiamento. La sua presenza nell'elenco vuol dire che per i giudici le grandi manovre compiute tra ottobre e gennaio si perfezionarono quando Berlusconi iniziò a stipendiare regolarmente le fanciulle coinvolte nell'inchiesta. Corruzione di testimoni, dunque. Ghedini e Longo ieri reagiscono con durezza, definendo surreale la mossa dei giudici e spiegando che gli incontri con le ragazze erano indagini difensive consentite dalla legge. Ma la nuova battaglia tra Berlusconi e la Procura di Milano è solo agli inizi. D’altra parte anche Bari vuol dire la sua sulle voglie sessuali di Berlusconi. Silvio Berlusconi avrebbe pagato l'imprenditore barese Gianpaolo Tarantini tramite il faccendiere Walter Lavitola, perchè nascondesse dinanzi ai magistrati la verità sulle escort portate alle feste dell’ex premier. Ne è convinta la procura di Bari che ha notificato avvisi di conclusioni delle indagini sulle presunte pressioni che Berlusconi avrebbe esercitato su Tarantini perchè lo coprisse nella vicenda escort. Nell’inchiesta Berlusconi e Lavitola sono indagati per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria. Secondo quanto scrivono alcuni quotidiani, l’ex premier avrebbe indotto Tarantini a tacere parte delle informazioni di cui era a conoscenza e a mentire nel corso degli interrogatori cui è stato sottoposto dai magistrati baresi (tra luglio e novembre 2009) che stavano indagando sulla vicenda escort. In cambio avrebbe ottenuto complessivamente mezzo milione di euro, la promessa di un lavoro e la copertura delle spese legali per i processi. Secondo l’accusa, Tarantini avrebbe mentito, tra l'altro, negando che Berlusconi fosse a conoscenza che le donne che Gianpy reclutava per le sue feste erano escort. Sono indagati Berlusconi e Lavitola, per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria.
Comunque torniamo alle condanne milanesi. Dopo il processo Ruby 1, concluso con la condanna in primo grado di Silvio Berlusconi a 7 anni, ecco il processo Ruby 2, con altri 7 anni di carcere per Emilio Fede e Lele Mora e 5 per Nicole Minetti. Ma attenzione, perché si parlerà anche del processo Ruby 3, perché come accaduto con la Corte che ha giudicato il Cav anche quella che ha condannato Fede, Mora e Minetti per induzione e favoreggiamento della prostituzione ha stabilito la trasmissione degli atti al pm per valutare eventuali ipotesi di reato in relazione alle indagini difensive. Nel mirino ci sono, naturalmente, Silvio Berlusconi, i suoi legali Niccolò Ghedini e Piero Longo e la stessa Karima el Mahroug, in arte Ruby. Come accaduto per il Ruby 1 anche per il Ruby 2 il profilo penale potrebbe essere quello della falsa testimonianza. La procura, rappresentata dal pm Antonio Sangermano e dall’aggiunto Piero Forno, per gli imputati aveva chiesto sette anni di carcere per induzione e favoreggiamento della prostituzione anche minorile. Il processo principale si era concluso con la condanna a sette anni di reclusione per Silvio Berlusconi, accusato di concussione e prostituzione minorile. Durante la requisitoria l’accusa aveva definito le serate di Arcore “orge bacchiche”. Secondo gli inquirenti sono in tutto 34 le ragazze che sono state indotte a prostituirsi durante le serate ad Arcore per soddisfare, come è stato chiarito in requisitoria, il “piacere sessuale” del Cavaliere. Serate che erano “articolate” in tre fasi: la prima “prevedeva una cena”, mentre la seconda “definita ‘bunga bunga’” si svolgeva “all’interno di un locale adibito a discoteca, dove le partecipanti si esibivano in mascheramenti, spogliarelli e balletti erotici, toccandosi reciprocamente ovvero toccando e facendosi toccare nelle parti intime da Silvio Berlusconi”. La terza fase riguardava infine la conclusione della serata e il suo proseguimento fino alla mattina dopo: consisteva, scrivono i pm, “nella scelta, da parte di Silvio Berlusconi, di una o più ragazze con cui intrattenersi per la notte in rapporti intimi, persone alle quali venivano erogate somme di denaro ed altre utilità ulteriori rispetto a quelle consegnate alle altre partecipanti”. A queste feste, per 13 volte (il 14, il 20, il 21, il 27 e il 28 febbraio, il 9 marzo, il 4, il 5, il 24, il 25 e il 26 aprile, e l’1 e il 2 maggio del 2010) c’era anche Karima El Mahroug, in arte Ruby Rubacuori, non ancora 18enne. La ragazza marocchina, in base all’ipotesi accusatoria, sarebbe stata scelta da Fede nel settembre del 2009 dopo un concorso di bellezza in Sicilia, a Taormina, dove lei era tra le partecipanti e l’ex direttore del Tg4 uno dei componenti della giuria. Secondo le indagini, andò ad Arcore la prima volta accompagnata da Fede con una macchina messa a disposizione da Mora. Per i pm, però, ciascuno dei tre imputati, in quello che è stato chiamato “sistema prostitutivo”, aveva un ruolo ben preciso. Lele Mora “individuava e selezionava”, anche insieme a Emilio Fede, “giovani donne disposte a prostituirsi” nella residenza dell’ex capo del Governo scegliendole in alcuni casi “tra le ragazze legate per motivi professionali all’agenzia operante nel mondo dello spettacolo” gestita dall’ex agente dei vip. Inoltre Mora, come Fede, “organizzava” in alcune occasioni “l’accompagnamento da Milano ad Arcore” di alcune delle invitate alla serate “mettendo a disposizione le proprie autovetture”, con tanto di autista. I pm in requisitoria hanno paragonato Mora e Fede ad “assaggiatori di vini pregiati”, perché valutavano la gradevolezza estetica delle ragazze e le sottoponevano a “un minimo esame di presentabilità socio-relazionale”, prima di immetterle nel “circuito” delle cene. Nicole Minetti, invece, avrebbe fatto da intermediaria per i compensi alle ragazze – in genere girati dal ragionier Giuseppe Spinelli, allora fiduciario e “ufficiale pagatore” per conto del leader del Pdl – che consistevano “nella concessione in comodato d’uso” degli appartamenti nel residence di via Olgettina e “in contributi economici” per il loro mantenimento o addirittura per il pagamento delle utenze di casa o delle spese mediche fino agli interventi di chirurgia estetica.
Il rischio di una sentenza che smentisse quella inflitta a Berlusconi è stato dunque scongiurato: e di fatto la sentenza del 19 luglio 2013 e quella che del 24 giugno 2013 rifilò sette anni di carcere anche al Cavaliere si sorreggono a vicenda. Chiamati a valutare sostanzialmente il medesimo quadro di prove, di testimonianze, di intercettazioni, due tribunali composti da giudici diversi approdano alle stesse conclusioni. Vengono credute le ragazze che hanno parlato di festini hard. E non vengono credute le altre, Ruby in testa, che proprio nell’aula di questo processo venne a negare di avere mai subito avances sessuali da parte di Berlusconi. La testimonianza di Ruby viene trasmessa insieme a quella di altri testimoni alla procura perché proceda per falso, insieme a quella di molti altri testimoni. I giudici, come già successo nel processo principale, hanno trasmesso gli atti alla Procura perché valutino le dichiarazioni di 33 testimoni della difesa compresa la stessa Ruby; disposta la trasmissione degli atti anche per lo stesso Silvio Berlusconi e dei suoi avvocati: Niccolò Ghedini e Piero Longo per violazione delle indagini difensive. Il 6-7 ottobre 2010 (prima che scoppiasse lo scandalo) e il 15 gennaio 2011 (il giorno dopo l’avviso di garanzia al Cavaliere) alcune ragazze furono convocate ad Arcore, senza dimenticare l’interrogatorio fantasma fatto a Karima. Durante le perquisizioni in casa di alcune Olgettine erano stati trovati verbali difensivi già compilati. Vengono trasmessi gli atti alla procura anche perché proceda nei confronti di Silvio Berlusconi e dei suoi difensori Niccolò Ghedini e Piero Longo, verificando se attraverso l'avvocato Luca Giuliante abbiano tentato di addomesticare la testimonianza di Ruby. In particolare la Procura dovrà valutare la posizione, al termine del processo di primo grado «Ruby bis» non solo per Silvio Berlusconi, i suoi legali e Ruby, ma anche per altre ventinove persone. Tra queste, ci sono numerose ragazze ospiti ad Arcore che hanno testimoniato, tra le quali: Iris Berardi e Barbara Guerra (che all'ultimo momento avevano ritirato la costituzione di parte civile) e Alessandra Sorcinelli. Il tribunale ha disposto la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica anche per il primo avvocato di Ruby, Luca Giuliante. «Inviare gli atti a fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e i suoi difensori è davvero surreale». Lo affermano i legali di Berlusconi, Niccolò Ghedini e Piero Longo, in merito alla decisione dei giudici di Milano di trasmettere gli atti alla procura in relazione alla violazione delle indagini difensive. «Quando si cerca di esplicare il proprio mandato defensionale in modo completo, e opponendosi ad eventuali prevaricazioni, a Milano possono verificarsi le situazioni più straordinarie» proseguono i due avvocati. E ancora: «La decisione del Tribunale di Milano nel processo cosiddetto Ruby bis di inviare gli atti per tutti i testimoni che contrastavano la tesi accusatoria già fa ben comprendere l'atteggiamento del giudicante. Ma inviare gli atti ai fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e per i suoi difensori è davvero surreale. Come è noto nè il presidente Berlusconi nè i suoi difensori hanno reso testimonianza in quel processo. Evidentemente si è ipotizzato che vi sarebbe stata attività penalmente rilevante in ordine alle esperite indagini difensive. Ciò è davvero assurdo».
La sentenza è stata pronunciata dal giudice Annamaria Gatto. Ad assistere all'udienza anche per il Ruby 2, in giacca e cravatta questa volta e non in toga, anche il procuratore Edmondo Bruti Liberati, che anche in questo caso, come nel processo a Berlusconi, ha voluto rivendicare in questo modo all'intera Procura la paternità dell'inchiesta Ruby. Il collegio presieduto da Anna Maria Gatto e composto da Paola Pendino e Manuela Cannavale è formato da sole donne. Giudici donne come quelle del collegio del processo principale formato dai giudici Orsola De Cristofaro, Carmela D'Elia e dal presidente Giulia Turri. Anche la Turri, come la Gatto, ha deciso anche di rinviare al pm le carte per valutare l'eventuale falsa testimonianza per le dichiarazioni rese in aula da 33 testi: una lunga serie di testimoni che hanno sfilato davanti alla corte.
TOGHE ROSA
Dici donna e dici danno, anzi, "condanno".
È il sistema automatico che porta il nome di una donna, Giada (Gestione informatica assegnazioni dibattimentali) che ha affidato il caso della minorenne Karima el Mahroug, detta Ruby Rubacuori, proprio a quelle tre toghe. Che un processo possa finire a un collegio tutto femminile non è una stranezza, come gridano i falchi del Pdl che dopo troppi fantomatici complotti rossi ora accusano la trama rosa: è solo il segno dell'evoluzione storica di una professione che fino a 50 anni fa era solo maschile. Tra i giudici del tribunale di Milano oggi si contano 144 donne e 78 uomini: quasi il doppio.
Donna è anche Ilda Boccassini, che rappresentava l’accusa contro Berlusconi. Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini - ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».
Dovesse mai essere fermata un'altra Ruby, se ne occuperebbe lei. Il quadro in rosa a tinta forte si completa con il gip Cristina Di Censo, a cui il computer giudiziario ha affidato l'incarico di rinviare a "giudizio immediato" Berlusconi, dopo averle fatto convalidare l'arresto di Massimo Tartaglia, il folle che nel 2010 lo ferì al volto con una statuetta del Duomo. Per capirne la filosofia forse basta la risposta di una importante giudice di Milano a una domanda sulla personalità di queste colleghe: «La persona del magistrato non ha alcuna importanza: contano solo le sentenze. È per questo che indossiamo la toga».
Donna di carattere anche Annamaria Fiorillo, il magistrato dei minori che, convocata dal tribunale, ha giurato di non aver mai autorizzato l'affidamento della minorenne Ruby alla consigliera regionale del Pdl Nicole Minetti e tantomeno alla prostituta brasiliana Michelle Conceicao. Per aver smentito l'opposta versione accreditata dall'allora ministro Roberto Maroni, la pm si è vista censurare dal Csm per "violazione del riserbo".
Ruby 2, chi sono le tre giudicesse che hanno condannato Mora, Fede e la Minetti, e trasmesso gli atti per far condannare Berlusconi, i suoi avvocati e tutti i suoi testimoni? Anna Maria Gatto, Paola Pendino e Manuela Cannavale. Si assomigliano molto anche nel look alle loro colleghe del Ruby 1.
Anna Maria Gatto si ricorda per una battuta. La testimone Lisa Barizonte, sentita in aula, rievoca le confidenze tra lei e Karima El Mahrough, alias Ruby. In particolare il giudice le chiede di un incidente con l’olio bollente. La teste conferma: “Mi disse che lo zio le fece cadere addosso una pentola di olio bollente”. “Chi era lo zio? Mubarak?”, chiede Anna Maria Gatto strappando un sorriso ai presenti in aula. Ironia che punta dritta al centro dello scandalo. La teste, sottovoce, risponde: “No, non l’ha detto”. Annamaria Gatto, presidente della quinta sezione penale, è il giudice che, tra le altre cose, condannò in primo grado a 2 anni l'ex ministro Aldo Brancher per ricettazione e appropriazione indebita, nell'ambito di uno stralcio dell'inchiesta sulla tentata scalata ad Antonveneta da parte di Bpi.
Manuela Cannavale, invece, ha fatto parte del collegio che nel 2008 ha condannato in primo grado a tre anni di reclusione l'ex ministro della Sanità Girolamo Sirchia.
Paola Pendino è stata invece in passato membro della Sezione Autonoma Misure di Prevenzione di Milano, e si è occupata anche di Mohammed Daki, il marocchino che era stato assolto dall'accusa di terrorismo internazionale dal giudice Clementina Forleo.
Ruby 1, chi sono le tre giudichesse che hanno condannato Berlusconi?
Giulia Turri, Carmen D’Elia e Orsola De Cristofaro: sono i nomi dei tre giudici che hanno firmato la sentenza di condanna di Berlusconi a sette anni. La loro foto sta facendo il giro del web e tra numerosi commenti di stima e complimenti, spunta anche qualche offesa (perfino dal carattere piuttosto personale). L’aggettivo più ricorrente, inteso chiaramente in senso dispregiativo, è quello di “comuniste”. Federica De Pasquale le ha definite “il peggior esempio di femminismo” arrivando ad ipotizzare per loro il reato di stalking. Ma su twitter qualche elettore del Pdl non ha esitato a definirle come “represse” soppesandone il valore professionale con l’aspetto fisico e definendole “quasi più brutte della Bindi”. Ma cosa conta se il giudice è uomo/donna, bello/brutto?
Condanna a Berlusconi: giudici uomini sarebbero stati più clementi? Ma per qualcuno il problema non è tanto che si trattasse di “toghe rosse” quanto piuttosto di “giudici rosa”. Libero intitola l’articolo sulla sentenza di condanna alle “giudichesse”, sottolineando con un femminile forzato di questo sostantivo la natura di genere della condanna e quasi a suggerire che se i giudici fossero stati uomini la sentenza sarebbe stata diversa da quella che il giornale definisce “castrazione” e “ergastolo politico” del Cav. La natura rosa del collegio quindi avrebbe influenzato l’esito del giudizio a causa di un “dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi”. Eppure è lo stesso curriculum dei giudici interessati, sintetizzato sempre da Libero, a confermare la preparazione e la competenza delle tre toghe a giudicare con lucidità in casi di grande impatto mediatico.
Giulia Turri è nota come il giudice che nel marzo del 2007 firmò l’ordinanza di arresto per Fabrizio Corona ma è anche la stessa che ha giudicato in qualità di gup due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro e che, nel 2010, ha disposto l’arresto di cinque persone nell’ambito dell’inchiesta su un giro di tangenti e droga che ha coinvolto la movida milanese, e in particolare le note discoteche Hollywood e The Club.
Orsola De Cristofaro è stata giudice a latere nel processo che si è concluso con la condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario di chirurgia toracica, nell’ambito dell’inchiesta sulla clinica Santa Rita.
Carmen D’Elia si è già trovata faccia a faccia con Berlusconi in tribunale: ha fatto infatti parte del collegio di giudici del processo Sme in cui era imputato.
A condannare Berlusconi sono state tre donne: la Turri, la De Cristofaro e la D'Elia che già lo aveva processato per la Sme. La presentazione è fatta da “Libero Quotidiano” con un articolo del 24 giugno 2013. A condannare Silvio Berlusconi a 7 anni di reclusione e all'interdizione a vita dai pubblici uffici nel primo grado del processo Ruby sono state tre toghe rosa. Tre giudichesse che hanno propeso per una sentenza pesantissima, ancor peggiore delle richieste di Ilda Boccassini. Una sentenza con cui si cerca la "castrazione" e l'"ergastolo politico" del Cav. Il collegio giudicante della quarta sezione penale del Tribunale di Milano che è entrato a gamba tesa contro il governo Letta e contro la vita democratica italiana era interamente composto da donne, tanto che alcuni avevano storto il naso pensando che la matrice "rosa" del collegio avrebbe potuto avere il dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi.
A presiedere il collegio è stata Giulia Turri, arrivata in Tribunale dall'ufficio gip qualche mese prima del 6 aprile 2011, giorno dell'apertura del dibattimento. Come gup ha giudicato due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro, sequestrato e ucciso nel 2006, pronunciando due condanne, una all'ergastolo e una a 30 anni. Nel marzo del 2007 firmò l'ordinanza di arresto per il "fotografo dei vip" Fabrizio Corona, e nel novembre del 2008 ha rinviato a giudizio l'ex consulente Fininvest e deputato del Pdl Massimo Maria Berruti. Uno degli ultimi suoi provvedimenti come gip, e che è salito alla ribalta della cronaca, risale al luglio 2010: l'arresto di cinque persone coinvolte nell'inchiesta su un presunto giro di tangenti e droga nel mondo della movida milanese, e in particolare nelle discoteche Hollywood e The Club, gli stessi locali frequentati da alcune delle ragazze ospiti delle serate ad Arcore e che sono sfilate in aula.
La seconda giudichessa è stata Orsola De Cristofaro, con un passato da pm e gip, che è stata giudice a latere nel processo che ha portato alla condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l'ex primario di chirurgia toracica, imputato con altri medici per il caso della clinica Santa Rita e che proprio sabato scorso si è visto in pratica confermare la condanna sebbene con una lieve diminuzione per via della prescrizioni di alcuni casi di lesioni su pazienti.
Carmen D'Elia invece è un volto noto nei procedimenti contro il Cavaliere: nel 2002, ha fatto parte parte del collegio di giudici del processo Sme che vedeva come imputato, tra gli altri, proprio Silvio Berlusconi. Dopo che la posizione del premier venne stralciata - per lui ci fu un procedimento autonomo - insieme a Guido Brambilla e a Luisa Ponti, il 22 novembre 2003 pronunciò la sentenza di condanna in primo grado a 5 anni per Cesare Previti e per gli altri imputati, tra cui Renato Squillante e Attilio Pacifico. Inoltre è stata giudice nel processo sulla truffa dei derivati al Comune di Milano.
STATO DI DIRITTO?
Berlusconi, il discorso integrale. Ecco l’intervento video del Cavaliere: «Care amiche, cari amici, voglio parlarvi con la sincerità con cui ognuno di noi parla alle persone alle quali vuole bene quando bisogna prendere una decisione importante che riguarda la nostra famiglia. Che si fa in questi casi? Ci si guarda negli occhi, ci si dice la verità e si cerca insieme la strada migliore. Siete certamente consapevoli che siamo precipitati in una crisi economica senza precedenti, in una depressione che uccide le aziende, che toglie lavoro ai giovani, che angoscia i genitori, che minaccia il nostro benessere e il nostro futuro. Il peso dello Stato, delle tasse, della spesa pubblica è eccessivo: occorre imboccare la strada maestra del liberalismo che, quando è stata percorsa, ha sempre prodotto risultati positivi in tutti i Paesi dell’Occidente: qual è questa strada? Meno Stato, meno spesa pubblica, meno tasse. Con la sinistra al potere, il programma sarebbe invece, come sempre, altre tasse, un’imposta patrimoniale sui nostri risparmi, un costo più elevato dello Stato e di tutti i servizi pubblici. I nostri ministri hanno già messo a punto le nostre proposte per un vero rilancio dell’economia, proposte che saranno principalmente volte a fermare il bombardamento fiscale che sta mettendo in ginocchio le nostre famiglie e le nostre imprese. Ma devo ricordare che gli elettori purtroppo non ci hanno mai consegnato una maggioranza vera, abbiamo sempre dovuto fare i conti con i piccoli partiti della nostra coalizione che, per i loro interessi particolari, ci hanno sempre impedito di realizzare le riforme indispensabili per modernizzare il Paese, prima tra tutte quella della giustizia. E proprio per la giustizia, diciamoci la verità, siamo diventati un Paese in cui non vi è più la certezza del diritto, siamo diventati una democrazia dimezzata alla mercé di una magistratura politicizzata, una magistratura che, unica tra le magistrature dei Paesi civili, gode di una totale irresponsabilità, di una totale impunità. Questa magistratura, per la prevalenza acquisita da un suo settore, Magistratura Democratica, si è trasformata da “Ordine” dello Stato, costituito da impiegati pubblici non eletti, in un “Potere” dello Stato, anzi in un “Contropotere” in grado di condizionare il Potere legislativo e il Potere esecutivo e si è data come missione, quella - è una loro dichiarazione - di realizzare “la via giudiziaria” al socialismo. Questa magistratura, dopo aver eliminato nel ’92 - ’93 i cinque partiti democratici che ci avevano governati per cinquant’anni, credeva di aver spianato definitivamente la strada del potere alla sinistra. Successe invece quel che sapete: un estraneo alla politica, un certo Silvio Berlusconi, scese in campo, sconfisse la gioiosa macchina da guerra della sinistra, e in due mesi portò i moderati al governo. Ero io. Subito, anzi immediatamente, i P.M. e i giudici legati alla sinistra e in particolare quelli di Magistratura Democratica si scatenarono contro di me e mi inviarono un avviso di garanzia accusandomi di un reato da cui sarei stato assolto, con formula piena, sette anni dopo. Cadde così il governo, ma da quel momento fino ad oggi mi sono stati rovesciati addosso, incredibilmente, senza alcun fondamento nella realtà, 50 processi che hanno infangato la mia immagine e mi hanno tolto tempo, tanto tempo, serenità e ingenti risorse economiche. Hanno frugato ignobilmente e morbosamente nel mio privato, hanno messo a rischio le mie aziende senza alcun riguardo per le migliaia di persone serie ed oneste che vi lavorano, hanno aggredito il mio patrimonio con una sentenza completamente infondata, che ha riconosciuto a un noto, molto noto, sostenitore della sinistra una somma quattro volte superiore al valore delle mie quote, con dei pretesti hanno attaccato me, la mia famiglia, i miei collaboratori, i miei amici e perfino i miei ospiti. Ed ora, dopo 41 processi che si sono conclusi, loro malgrado, senza alcuna condanna, si illudono di essere riusciti ad estromettermi dalla vita politica, con una sentenza che è politica, che è mostruosa, ma che potrebbe non essere definitiva come invece vuol far credere la sinistra, perché nei tempi giusti, nei tempi opportuni, mi batterò per ottenerne la revisione in Italia e in Europa. Per arrivare a condannarmi si sono assicurati la maggioranza nei collegi che mi hanno giudicato, si sono impadroniti di questi collegi, si sono inventati un nuovo reato, quello di “ideatore di un sistema di frode fiscale”, senza nessuna prova, calpestando ogni mio diritto alla difesa, rifiutandosi di ascoltare 171 testimoni a mio favore, sottraendomi da ultimo, con un ben costruito espediente, al mio giudice naturale, cioè a una delle Sezioni ordinarie della Cassazione, che mi avevano già assolto, la seconda e la terza, due volte, su fatti analoghi negando - cito tra virgolette - “l’esistenza in capo a Silvio Berlusconi di reali poteri gestori della società Mediaset”. Sfidando la verità, sfidando il ridicolo, sono riusciti a condannarmi a quattro anni di carcere e soprattutto all’interdizione dai pubblici uffici, per una presunta ma inesistente evasione dello zero virgola, rispetto agli oltre 10 miliardi, ripeto 10 miliardi di euro, quasi ventimila miliardi di vecchie lire, versati allo Stato, dal ’94 ad oggi, dal gruppo che ho fondato. Sono dunque passati vent’anni da quando decisi di scendere in campo. Allora dissi che lo facevo per un Paese che amavo. Lo amo ancora, questo Paese, nonostante l’amarezza di questi anni, una grande amarezza, e nonostante l’indignazione per quest’ultima sentenza paradossale, perché, voglio ripeterlo ancora, con forza, “io non ho commesso alcun reato, io non sono colpevole di alcunché, io sono innocente, io sono assolutamente innocente”. Ho dedicato l’intera seconda parte della mia vita, quella che dovrebbe servire a raccogliere i frutti del proprio lavoro, al bene comune. E sono davvero convinto di aver fatto del bene all’Italia, da imprenditore, da uomo di sport, da uomo di Stato. Per il mio impegno ho pagato e sto pagando un prezzo altissimo, ma ho l’orgoglio di aver impedito la conquista definitiva del potere alla sinistra, a questa sinistra che non ha mai rinnegato la sua ideologia, che non è mai riuscita a diventare socialdemocratica, che è rimasta sempre la stessa: la sinistra dell’invidia, del risentimento e dell’odio. Devo confessare che sono orgoglioso, molto orgoglioso, di questo mio risultato. Proprio per questo, adesso, insistono nel togliermi di mezzo con un’aggressione scientifica, pianificata, violenta del loro braccio giudiziario, visto che non sono stati capaci di farlo con gli strumenti della democrazia. Per questo, adesso, sono qui per chiedere a voi, a ciascuno di voi, di aprire gli occhi, di reagire e di scendere in campo per combattere questa sinistra e per combattere l’uso della giustizia a fini di lotta politica, questo male che ha già cambiato e vuole ancora cambiare la storia della nostra Repubblica. Non vogliamo e non possiamo permettere che l’Italia resti rinchiusa nella gabbia di una giustizia malata, che lascia tutti i giorni i suoi segni sulla carne viva dei milioni di italiani che sono coinvolti in un processo civile o penale. È come per una brutta malattia: uno dice “a me non capiterà”, ma poi, se ti arriva addosso, entri in un girone infernale da cui è difficile uscire. Per questo dico a tutti voi, agli italiani onesti, per bene, di buon senso: reagite, protestate, fatevi sentire. Avete il dovere di fare qualcosa di forte e di grande per uscire dalla situazione in cui ci hanno precipitati. So bene, quanto sia forte e motivata la vostra sfiducia, la vostra nausea verso la politica, verso “questa” politica fatta di scandali, di liti in tv, di una inconcludenza e di un qualunquismo senza contenuti: una politica che sembra un mondo a parte, di profittatori e di mestieranti drammaticamente lontani dalla vita reale. Ma nonostante questo, ed anzi proprio per questo, occorre che noi tutti ci occupiamo della politica. È sporca? Ma se la lasci a chi la sta sporcando, sarà sempre più sporca… Non te ne vuoi occupare? Ma è la politica stessa che si occuperà comunque di te, della tua vita, della tua famiglia, del tuo lavoro, del tuo futuro. È arrivato quindi davvero il momento di svegliarci, di preoccuparci, di ribellarci, di indignarci, di reagire, di farci sentire. È arrivato il momento in cui tutti gli italiani responsabili, gli italiani che amano l’Italia e che amano la libertà, devono sentire il dovere di impegnarsi personalmente. Per questo credo che la cosa migliore da fare sia quella di riprendere in mano la bandiera di Forza Italia. Perché Forza Italia non è un partito, non è una parte, ma è un’idea, un progetto nazionale che unisce tutti. Perché Forza Italia è l’Italia delle donne e degli uomini che amano la libertà e che vogliono restare liberi. Perché Forza Italia è la vittoria dell’amore sull’invidia e sull’odio. Perché Forza Italia difende i valori della nostra tradizione cristiana, il valore della vita, della famiglia, della solidarietà, della tolleranza verso tutti a cominciare dagli avversari. Perché Forza Italia sa bene che lo Stato deve essere al servizio dei cittadini e non invece i cittadini al servizio dello Stato. Perché Forza Italia è l’ultima chiamata prima della catastrofe. È l’ultima chiamata per gli italiani che sentono che il nostro benessere, la nostra democrazia, la nostra libertà sono in pericolo e rendono indispensabile un nuovo, più forte e più vasto impegno. Forza Italia sarà un vero grande movimento degli elettori, dei cittadini, di chi vorrà diventarne protagonista. Una forza che può e che deve conquistare la maggioranza dei consensi perché, vi ricordo, che solo con una vera e autonoma maggioranza in Parlamento si può davvero fare del bene all’Italia, per tornare ad essere una vera democrazia e per liberarci dall’oppressione giudiziaria, per liberarci dall’oppressione fiscale, per liberarci dall’oppressione burocratica. Per questo vi dico: scendete in campo anche voi. Per questo ti dico: scendi in campo anche tu, con Forza Italia. Diventa anche tu un missionario di libertà, diffondi i nostri valori e i nostri programmi, partecipa ai nostri convegni e alle nostre manifestazioni, impegnati nelle prossime campagne elettorali e magari anche nelle sezioni elettorali per evitare che ci vengano sottratti troppi voti, come purtroppo è sempre accaduto. Voglio ripeterlo ancora: in questo momento, nella drammatica situazione in cui siamo, ogni persona consapevole e responsabile che vuol continuare a vivere in Italia ha il dovere di occuparsi direttamente del nostro comune destino. Io sarò sempre con voi, al vostro fianco, decaduto o no. Si può far politica anche senza essere in Parlamento. Non è il seggio che fa un leader, ma è il consenso popolare, il vostro consenso. Quel consenso che non mi è mai mancato e che, ne sono sicuro, non mi mancherà neppure in futuro. Anche se, dovete esserne certi, continueranno a tentare di eliminare dalla scena politica, privandolo dei suoi diritti politici e addirittura della sua libertà personale, il leader dei moderati, quegli italiani liberi che, voglio sottolinearlo, sono da sempre la maggioranza del Paese e lo saranno ancora se sapranno finalmente restare uniti. Sono convinto che mi state dando ragione, sono convinto che condividete questo mio allarme, sono convinto che saprete rispondere a questo mio appello, che è prima di tutto una testimonianza di amore per la nostra Italia. E dunque: Forza Italia! Forza Italia! Forza Italia! Viva l’Italia, viva la libertà: la libertà è l’essenza dell’uomo e Dio creando l’uomo, l’ha voluto libero.»
Lettera aperta al dr Silvio Berlusconi.
«Sig. Presidente, sono Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso. Diverso, perché, nell’informare la gente dell’imperante ingiustizia, i magistrati se ne lamentano. E coloro che io critico, poi, sono quelli che mi giudicano e mi condannano. Ma io, così come altri colleghi perseguitati che fanno vera informazione, non vado in televisione a piangere la mia malasorte.
Pur essendo noi, per i forcaioli di destra e di sinistra, “delinquenti” come lei.
Sono un liberale, non come lei, ed, appunto, una cosa a Lei la voglio dire.
Quello che le è capitato, in fondo, se lo merita. 20 anni son passati. Aveva il potere economico. Aveva il potere mediatico. Aveva il potere politico. Aveva il potere istituzionale. E non è stato capace nemmeno di difendere se stesso dallo strapotere dei magistrati. Li ha lasciati fare ed ha tutelato gli interessi degli avvocati e di tutte le lobbies e le caste, fregandosene dei poveri cristi. Perché se quello di cui si lamenta, capita a lei, figuriamoci cosa capita alla povera gente. E i suoi giornalisti sempre lì a denunciare abusi ed ingiustizie a carico del loro padrone. Anzi, lei, oltretutto, imbarca nei suoi canali mediatici gente comunista genuflessa ai magistrati. Non una parola sul fatto che l’ingiustizia contro uno, siffatto potente, è l’elevazione a sistema di un cancro della democrazia. Quanti poveri cristi devono piangere la loro sorte di innocenti in carcere per convincere qualcuno ad intervenire? Se è vero, come è vero, che se funzionari di Stato appartenenti ad un Ordine si son elevati a Potere, è sacrosanto sostenere che un leader politico che incarna il Potere del popolo non sta lì a tergiversare con i suoi funzionari, ma toglie loro la linfa che alimenta lo strapotere di cui loro abusano. Ma tanto, chi se ne fotte della povera gente innocente rinchiusa in canili umani.
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso! Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente in Italia. Cose che nessuno a lei vicino le dirà mai. Non troverà le cose ovvie. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.
Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.
Ad oggi, per esempio, sappiamo che lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più gli avversari politici; i magistrati di destra insabbiano di più le accuse contro i loro amici e colleghi. E poi. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi. Inutile lamentarci dei "Caccamo" alla Cassazione. Carmine Schiavone ha detto: Roma nostra! "Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori. Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.
Bene, dr Berlusconi, Lei, avendone il potere per 20 anni, oltre che lamentarsi, cosa ha fatto per tutelare, non tanto se stesso, i cui risultati sono evidenti, ma i cittadini vittime dell’ingiustizia (contro il singolo) e della malagiustizia (contro la collettività)?
Quello che i politici oggi hanno perso è la credibilità: chi a torto attacca i magistrati; chi a torto li difende a spada tratta; chi a torto cerca l’intervento referendario inutile in tema di giustizia, fa sì che quel 50 % di astensione elettorale aumenti. Proprio perché, la gente, è stufa di farsi prendere in giro. Oltremodo adesso che siete tutti al Governo delle larghe intese per fottere il popolo. Quel popolo che mai si chiede: ma che cazzo di fine fanno i nostri soldi, che non bastano mai? E questo modo di fare informazione e spettacolo della stampa e della tv, certamente, alimenta il ribrezzo contro l'odierno sistema di potere.
Per fare un sillogismo. Se l’Italia è la Costa Concordia, e come tale è affondata, la colpa non è dello Schettino di turno, ma dell’equipaggio approssimativo di cui si è circondato. E se la Costa Crociere ha la sua Flotta e l’Italia ha la sua amministrazione centrale e periferica, quanti Schettino e relativi equipaggi ci sono in giro a navigare? E quante vittime i loro naufragi provocano? Si dice che l’Italia, come la Costa Concordia, è riemersa dall’affondamento? Sì, ma come? Tutta ammaccata e da rottamare!!! E gli italioti lì a belare……»
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
IL COMPLOTTO PER ELIMINARE SILVIO BERLUSCONI.
Berlusconi intercettato: vogliono arrestarmi su ordine Napolitano. Nelle carte dell’inchiesta spunta anche il nome dell’ex Cavaliere, scrive “Il Corriere della Sera”. Anche il nome dell’ex premier Silvio Berlusconi spunta tra le migliaia di intercettazioni dell’inchiesta sulle tangenti a Ischia. Sono le 11.31 dell’11 maggio dello scorso anno. È Silvio Berlusconi, tramite la sua segreteria - annotano i carabinieri del Noe - a chiamare Amedeo Laboccetta, ex parlamentare del Pdl. È lui ad essere intercettato, perché gli inquirenti intendono chiarire soprattutto la natura dei suoi contatti con Francesco Simone, il responsabile delle relazioni istituzionali della cooperativa CPL, arrestato nei giorni scorsi. Con Laboccetta il Cavaliere «parla, tra l’altro, della situazione di crisi sociale. Berlusconi dice inoltre - scrivono ancora i carabinieri - che i giudici, anche su ordine del Capo dello Stato, aspettano soltanto un suo passo falso per avere la scusa ed arrestarlo». Nell’atto giudiziario in questione, che è una richiesta di proroga delle intercettazioni nei confronti di Labocetta datato 5 giugno 2014, non c’è la trascrizione testuale della telefonata ma solo il sunto della conversazione. Stessa cosa in molti altri atti in cui lo stesso il passaggio viene riportato, sempre in forma sintetica. Gli investigatori si occupano di Laboccetta in quanto ritenuto una delle persone della «rete relazione» di tom-tom Simone, il consulente della Cpl che «arrivava dovunque».
In particolare, al di là del lavoro svolto per conto della cooperativa rossa, Simone aveva stretto rapporti con Alessandro Clementi, della Wave Investment partners di Roma, una società che si occupa di gestione e recupero del credito al quale segnalava aziende che vantavano dei crediti, anche con la pubblica amministrazione, disposte a cederli alla Wave. E Laboccetta era stato da poco nominato presidente della società campana Gori che vantava qualcosa come 170 milioni di crediti nei confronti sia dei privati che della Pa. «Laboccetta - scrivono i carabinieri, dando conto dell’esito di una intercettazione - dice che sarebbe opportuno fare una manifestazione d’interesse perché una gara avrebbe tempi più lunghi, ma Simone si raccomanda di non spargere la voce sulla questione che stanno trattando, trovando d’accordo il suo interlocutore». In un successivo colloquio intercettato tra Simone e Clementi «si parla del nuovo Decreto che è stato emanato e che stabilisce che solo le banche possono acquistare e scegliere i crediti relativi alla pubblica amministrazione». In questo contesto Clementi «fa presente che `quella roba lì´ vista con Laboccetta non può farla con il decreto legge in questione. In conclusione Simone dice però a Clementi di andare avanti con Laboccetta e company rassicurandolo che probabilmente il decreto decadrà». È in questo scenario che i carabinieri del Noe annotano i «contatti frequenti» di Laboccetta «sia con l’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi che con l’ex deputato Marco Milanese», in passato consigliere dell’ex ministro Giulio Tremonti e coinvolto in diverse inchieste. Viene citata in particolare la telefonata dell’11 maggio, nella quale Berlusconi e Laboccetta «commentano la situazione di crisi che c’è in giro...disoccupazione giovanile e problema immigrati e l’Europa che non prende posizioni». Segue la considerazione di Berlusconi sui giudici che «aspettano solo un suo passo falso» per arrestarlo. La conversazione chiude con la proposta di Labocetta di far incontrare al Cavaliere, di lì a poco, «l’amico Marco», riferendosi a Milanese. Berlusconi acconsente, ma poi di fatto l’incontro salta. Alcuni giorni prima, emerge sempre dagli atti dell’inchiesta, Laboccetta era stato a cena con Milanese e la compagna di questi, la quale aveva incontrato Berlusconi a Palazzo Grazioli quello stesso pomeriggio. «È stata una cena molto, molto interessante», riferisce alle 23.58 Laboccetta a Berlusconi, aggiungendo che martedì avrà «..un promemoria analitico, preciso e puntuale che è veramente interessantissimo».
Gli Usa: l'ex Pci voleva rovinare Berlusconi e tutte le sue aziende. Nel maggio '94 l'ambasciatore avvisò la presidenza Clinton: "Il Pds è deciso a distruggere il nuovo premier". Pochi mesi dopo l'agguato dei pm di Milano, scrive Stefano Zurlo, Lunedì 29/02/2016, su "Il Giornale". La sinistra vuole distruggere Silvio Berlusconi. I postcomunisti non accettano la discesa in campo del Cavaliere e hanno deciso di toglierlo di mezzo. Come un abusivo. Le carte della diplomazia Usa, pubblicate oggi per la prima volta dal Giornale, sono un documento straordinario, un'anticipazione di quel che sarebbe puntualmente successo di lì a pochi mesi: l'uscita di scena del premier, azzoppato dall'avviso di garanzia del Pool Mani pulite. L'ambasciatore Usa Reginald «Reg» Bartholomew aveva capito tutto e aveva avvisato Washington e l'amministrazione Clinton. I documenti trovati a Washington al Dipartimento di Stato da Andrea Spiri, professore della Luiss, confermano la previsione dell'accerchiamento e poi dell'attacco letale. È il 4 maggio 1994 quando Bartholomew invia a Washington un documento profetico, chiamato «Profilo del primo ministro incaricato Silvio Berlusconi». Il 4 maggio il governo deve ancora insediarsi, il Cavaliere entrerà a Palazzo Chigi solo il 10 maggio, ma il film è già scritto: il countdown è partito, il Pds non tollera l'idea che la gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto sia stata battuta quando pensava di avere campo libero sulle macerie della Prima Repubblica. A dicembre, ben prima delle elezioni, Bartholomew aveva già incontrato Berlusconi e il Cavaliere gli aveva spiegato che «il suo primo obiettivo, quando ha deciso di entrare in politica, era sconfiggere la sinistra». Il problema è che la sinistra, che verrà presa in contropiede dal clamoroso successo di Forza Italia, ha deciso di far fuori la nascente anomalia in grado di scompaginare i piani di D'Alema e Occhetto. Berlusconi l'ha raccontato subito all'ambasciatore che però ha messo insieme altri indizi e non si fa nessuna illusione su quello che avverrà: «Berlusconi ha riferito, e i contatti giornalistici giurano sia vero, che gli uomini del Pds (e D'Alema in particolare) hanno apertamente fatto sapere che se venissero eletti distruggerebbero economicamente Berlusconi. È stato riferito che D'Alema avrebbe detto (e non l'ha mai smentito) che il suo grande desiderio era quello di vedere Berlusconi elemosinare nel parco. È stato anche riferito che altri esponenti Pds avrebbero detto che lo stesso Berlusconi farebbe bene a lasciare l'Italia in caso di loro vittoria perché l'avrebbero distrutto». Storie note, fra voci e suggestioni, rimbalzate per molti anni nell'arena del bipolarismo italiano. Ma certo, in quel fatale maggio di 22 anni fa, Bartholomew, scomparso nel 2012 a 76 anni, mette in fila gli elementi e prefigura il copione che puntualmente si svolgerà nelle settimane successive: il 10 maggio, solo sei giorni dopo, il Cavaliere giura ma la macchina bellica, per niente gioiosa, è già in moto. I postcomunisti troveranno una sponda decisiva nell'azione della magistratura che il 21 novembre uccide di fatto il governo inviando al premier un invito a comparire per corruzione, recapitato direttamente in edicola dal Corriere della sera. Per di più nelle stesse ore in cui Berlusconi è impegnato in una conferenza internazionale contro la criminalità a Napoli. L'effetto è devastante e si somma alle manovre di Palazzo del presidente Oscar Luigi Scalfaro, lo stesso di cui altri report americani, pubblicati ieri in esclusiva dal Giornale, documentano l'ostilità totale verso il Cavaliere. Un intruso da sloggiare prima possibile, come ha svelato agli americani una fonte autorevolissima: l'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga. «Cossiga - scriverà Bartholomew il 20 dicembre, quando ormai Berlusconi è sull'orlo delle dimissioni - ha detto di ritenere che Scalfaro farebbe qualunque cosa pur di evitare un ritorno di Berlusconi al governo». Ma il 4 maggio 1994 la breve avventura del Cavaliere deve ancora cominciare. Eppure, con alcuni distinguo e con la necessaria prudenza, l'amministrazione democratica sembra accogliere senza diffidenza l'uomo cresciuto lontano dal Palazzo: «Berlusconi è un uomo che si assume dei rischi... che si è mosso in maniera rapida per colmare il vuoto politico provocato da Tangentopoli». Del resto con straordinaria preveggenza in un altro report, datato addirittura 15 ottobre '92, l'ambasciatore Peter Secchia, a Roma prima di Bartholomew, già aveva battezzato il Cavaliere «come nuovo leader politico», con la benedizione del declinante Craxi. E aveva evidenziato la sua partecipazione a una cena organizzata dal segretario del Pli Renato Altissimo per creare un soggetto politico in grado di raccogliere l'eredità del pentapartito. «Il governo Berlusconi sembra cadere - scrive a dicembre Bartholomew - E poi? Se cade - nota con un affilato giudizio controcorrente - questo potrebbe rafforzare l'impressione che l'Italia stia scivolando indietro».
Caso Geithner, ira Berlusconi: “Fu un complotto contro di me”. La ricostruzione dell’ex segretario Usa del Tesoro anticipata da La Stampa: “Funzionari dell’Ue chiesero a Obama di far cadere Silvio”. Brunetta: s’indaghi. Bruxelles: erano gli americani a volere l’Italia sotto tutela. Kerry: io non so nulla, scrive “La Stampa”. La ricostruzione di Timothy Geithner in merito alla caduta di Silvio Berlusconi irrompe nella campagna elettorale. Il leader di Forza Italia è furioso: «Questa è la mia rivincita. La conferma che nel 2011 c’è stato un Colpo di Stato», dice. Mentre i suoi parlamentari chiedono un’inchiesta per fare luce sull’accaduto. Nell’autunno del 2011, quando la drammatica crisi economica aveva portato l’euro ad un passo dal baratro, alcuni funzionari europei avvicinarono il ministro Geithner, proponendo un piano per far cadere il premier italiano Berlusconi. Lui lo rifiutò, come scrive nel suo libro di memorie appena pubblicato “Stress Test”. La ricostruzione di Geithner, anticipata da La Stampa, fa discutere. Berlusconi si butta in un nuovo tour mediatico (intervista al Corriere.it, al Tg5, e poi al quotidiano il Foglio). È incontenibile: sono stato vittima di un «complotto» e con me «è stata messa in discussione anche la sovranità dell’Italia». Berlusconi non fa trasparire in pubblico tutta la rabbia che ha dentro per quanto trapelato dagli Stati Uniti. Anzi, si affretta a ribadire più e più volte di «non essere per nulla sorpreso» da quanto detto dall’ex ministro dell’economia americano: «Già nel giugno del 2011, quando ancora non era scoppiato l’imbroglio degli spread, il Presidente della Repubblica Napolitano riceveva Monti e Passera, come è stato scritto, per scegliere i tecnici di un nuovo governo tecnico». In privato però la reazione è bene diversa. L’ex premier con i suoi si dice consapevole che questa storia non sposterà un voto, ma chiede comunque ai vertice azzurro di alzare il polverone. Da Forza Italia parte il fuoco di fila con la richiesta di una commissione d’inchiesta parlamentare sui fatti del 2011 ed un chiarimento da parte del governo: «Renzi venga a riferire in Parlamento», dice Renato Brunetta pronto a chiamare in causa anche Giorgio Napolitano: «Gli ho scritto una lettera - fa sapere - proprio per sapere cosa intenda fare». Già perché è proprio il Capo dello Stato che l’ex capo del governo ha sempre chiamato in causa bollandolo come «regista» dell’operazione che portò alle sue dimissioni. Dal Quirinale non trapela nessuna replica, così come dalla Casa Bianca: no comment, è il massimo che fanno sapere dallo staff del presidente americano. Sulle barricate è invece Bruxelles che non ci sta a passare come parte in causa di un complotto: «Erano gli americani a volere l’Italia sotto tutela», è la replica delle fonti europee alle rivelazioni di Geithner. A parlare ufficialmente è il presidente della Commissione Barroso sostenendo che ai tempi del G20 del 2011 «l’Italia era vicinissima all’abisso e alcuni tentarono di metterla sotto la supervisione del Fmi, mente noi siamo stati quasi soli a dire che questo non doveva succedere». Anche la linea del governo italiano è quella di non intervenire sulla questione: «Abbiamo voltato pagina, non è utile tornare su questi eventi», si limita a dire il ministro degli Esteri Federica Mogherini. A palazzo Grazioli però la pensano diversamente, tanto che il Cavaliere coglie ogni occasione per ricordare come sono andati i fatti: «I magistrati che mi hanno perseguitato una vita senza prove li chiamerebbero “riscontri” del colpo di Stato». L’idea però che la vicenda possa avere dei riscontri positivi sui sondaggi non sembra convincere Berlusconi, pronto però a «sfruttare» in termini di voti a Forza Italia la «delusione degli elettori verso Matteo Renzi». L’ex capo del governo non nasconde lo scetticismo per il governo guidato dal leader del Pd tanto, raccontano da Forza Italia, da averne parlato nei giorni scorsi con il Colle. Il leader di Fi è sempre più convinto che le elezioni politiche si avvicinano perché il presidente del Consiglio è sempre più impantanato, anche sul fronte del rilancio dell’economia: Le persone iniziano ad essere stanche degli annunci - è stato il ragionamento fatto a via del Plebiscito - e le riforme non sono certo un tema che Matteo può giocarsi per coprire l’aumento delle tasse. Dagli Usa, invece, il segretario di Stato Usa John Kerry dice (in italiano): «Io non so niente». «Assolutamente è la prima volta che ne sento parlare», ha aggiunto Kerry che aveva accanto a se il ministro degli Esteri Federica Mogherini al termine dell’incontro al dipartimento di Stato a a Washington. Rispondendo alla domanda se avesse letto il libro ha detto: «No, non l’ho letto».
L’ex ministro Usa: funzionari europei ci proposero di far cadere Silvio. Geithner: ovviamente dissi a Obama che non potevamo starci, scrive Paolo Mastrolilli su “La Stampa”. Nell’autunno del 2011, quando la drammatica crisi economica aveva portato l’euro ad un passo dal baratro, alcuni funzionari europei avvicinarono il ministro del Tesoro americano Geithner, proponendo un piano per far cadere il premier italiano Berlusconi. Lui lo rifiutò, come scrive nel suo libro di memorie appena pubblicato, e puntò invece sull’asse col presidente della Bce Draghi per salvare l’Unione e l’economia globale. «Ad un certo punto, in quell’autunno, alcuni funzionari europei ci contattarono con una trama per cercare di costringere il premier italiano Berlusconi a cedere il potere; volevano che noi rifiutassimo di sostenere i presti dell’Fmi all’Italia, fino a quando non se ne fosse andato». Geithner, allora segretario al Tesoro Usa, rivela il complotto nel suo saggio «Stress Test», uscito ieri. Una testimonianza diretta dei mesi in cui l’euro rischiò di saltare, ma fu salvato dall’impegno del presidente della Bce Mario Draghi a fare «tutto il necessario», dopo diverse conversazioni riservate con lo stesso Geithner. I ricordi più drammatici cominciano con l’estate del 2010, quando «i mercati stavano scappando dall’Italia e la Spagna, settima e nona economia più grande al mondo». L’ex segretario scrive che aveva consigliato ai colleghi europei di essere prudenti: «Se volevano tenere gli stivali sul collo della Grecia, dovevano anche assicurare i mercati che non avrebbero permesso il default dei paesi e dell’intero sistema bancario». Ma all’epoca Germania e Francia «rimproveravano ancora al nostro West selvaggio la crisi del 2008», e non accettavano i consigli americani di mobilitare più risorse per prevenire il crollo europeo. Nell’estate del 2011 la situazione era peggiorata, però «la cancelliera Merkel insisteva sul fatto che il libretto degli assegni della Germania era chiuso», anche perché «non le piaceva come i ricettori dell’assistenza europea - Spagna, Italia e Grecia - stavano facendo marcia indietro sulle riforme promesse». A settembre Geithner fu invitato all’Ecofin in Polonia, e suggerì l’adozione di un piano come il Talf americano, cioè un muro di protezione finanziato dal governo e soprattutto dalla banca centrale, per impedire insieme il default dei paesi e delle banche. Fu quasi insultato. Gli americani, però, ricevevano spesso richieste per «fare pressioni sulla Merkel affinché fosse meno tirchia, o sugli italiani e spagnoli affinché fossero più responsabili». Così arrivò anche la proposta del piano per far cadere Berlusconi: «Parlammo al presidente Obama di questo invito sorprendente, ma per quanto sarebbe stato utile avere una leadership migliore in Europa, non potevamo coinvolgerci in un complotto come quello. “Non possiamo avere il suo sangue sulle nostre mani”, io dissi». A novembre si tenne il G20 a Cannes, dove secondo il Financial Times l’Fmi aveva proposto all’Italia un piano di salvataggio da 80 miliardi, che però fu rifiutato. «Non facemmo progressi sul firewall europeo o le riforme della periferia, ma ebbi colloqui promettenti con Draghi sull’uso di una forza schiacciante». Poco dopo cadde il premier greco Papandreu, Berlusconi fu sostituito da Monti, «un economista che proiettava competenza tecnocratica», e la Spagna elesse Rajoy. A dicembre Draghi annunciò un massiccio programma di finanziamento per le banche, e gli europei iniziarono a dichiarare che la crisi era finita: «Io non la pensavo così». Infatti nel giugno del 2012 il continente era di nuovo in fiamme, perché i suoi leader non erano riusciti a convincere i mercati. «Io avevo una lunga storia di un buon rapporto con Draghi, e continuavo ad incoraggiarlo ad usare il potere della Bce per alleggerire i rischi. “Temo che l’Europa e il mondo guarderanno ancora a te per un’altra dose di forza bancaria intelligente e creativa”, gli scrissi a giugno. Draghi sapeva che doveva fare di più, ma aveva bisogno del supporto dei tedeschi, e i rappresentanti della Bundesbank lo combattevano. Quel luglio, io e lui avemmo molte conversazioni. Gli dissi che non esisteva un piano capace di funzionare, che potesse ricevere il supporto della Bundesbank. Doveva decidere se era disponibile a consentire il collasso del’Europa. “Li devi mollare”, gli dissi». Così, il 26 luglio, arrivò l’impegno di Draghi a fare «whatever it takes» per salvare l’euro. «Lui non aveva pianificato di dirlo», non aveva un piano pronto e non aveva consultato la Merkel. A settembre, però, Angela appoggiò il «Draghi Put», cioè il programma per sostenere i bond europei, che evitò il collasso.
Usa, l'ex ministro del Tesoro: "Nel 2011 complotto contro il Cav". Le rivelazioni choc di Geithner, ex ministro del Tesoro Usa, nel saggio Stress test: "Alcuni funzionari europei ci contattarono con una trama per costringere Berlusconi a cedere il potere". Ma a Obama disse: "Non possiamo avere il suo sangue sulle nostre mani", scrive Andrea Indini “Il Giornale”. Al G20 del 2011 funzionari europei chiesero agli Stati Uniti di aderire a un "complotto" per far cadere l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Nel memoir Stress test, anticipato oggi dalla Stampa e dal Daily Beast, Timothy Geithner, ex ministro del Tesoro americano, aggiunge nuovi, inquietanti tasselli al golpe ordito contro il Cavaliere per cacciarlo da Palazzo Chigi e mettere al suo posto Mario Monti, un tecnico scelto ad hoc per far passare le misure lacrime e sangue imposte da Bruxelles e dalla cancelliera tedesca Angela Merkel. "Ma a Obama dissi: 'Non possiamo avere il suo sangue sulle nostre mani'", racconta ancora Geithner nel volume che ripercorre la disastrosa situazione finanziaria che spinse quei funzionari a progettare il "complotto". Le prime indiscrezioni su un golpe ai danni di Berlusconi sono state appena sussurrate. E, inevitabilmente, i media progressisti hanno fatto a gara per distruggerle. Oggi, invece, Geithner spazza via qualunque dubbio sul drammatico piano che il 12 novembre del 2011, con lo spread tra i Btp decennali e i Bund tedeschi artificiosamente pompato sopra i 470 punti, Berlusconi si dimise dopo l'approvazione della legge della stabilità alla Camera. Ebbene, dietro a quelle dimissioni c'è un vero e proprio piano ordito a Bruxelles per far cadere un governo eletto democraticamente e piazzarne uno tecnico e asservito ai diktat dell'Unione europea. "Ad un certo punto, in quell'autunno, alcuni funzionari europei ci contattarono con una trama per cercare di costringere il premier italiano Berlusconi a cedere il potere - svela oggi Geithner - volevano che noi rifiutassimo di sostenere i prestiti dell’Fmi all’Italia, fino a quando non se ne fosse andato". Dal 26 gennaio 2009 al 28 febbraio 2013 Timothy Geithner ricopre, infatti, l'incarico di segretario al Tesoro degli Stati Uniti durante il primo governo presieduto da Barack Obama. L'obiettivo degli innominati "funzionari europei" è quello di accerchiare Berlusconi, anche attraverso i ricatti del Fondo monetario internazionale, pur di farlo uscire di scena. Il golpe non viene organizzato su due piedi, ma iniziò a essere tessuto nell'estate del 2010, quando "i mercati stavano scappando dall'Italia e la Spagna, settima e nona economia più grande al mondo". Nel saggio Stress test Geithner scrive di aver consigliato più volte ai colleghi europei di essere prudenti: "Se volevano tenere gli stivali sul collo della Grecia, dovevano anche assicurare i mercati che non avrebbero permesso il default dei paesi e dell’intero sistema bancario". Ma all’epoca Germania e Francia "rimproveravano ancora al nostro West selvaggio la crisi del 2008" e rifiutavano i consigli del Tesoro statunitense che chiedeva di mobilitare più risorse per prevenire il crollo economico del Vecchio Continente. Nell’estate del 2011 la situazione precipita. "La cancelliera Angela Merkel insisteva sul fatto che il libretto degli assegni della Germania era chiuso - racconta l'ex segretario del Tesoro - non le piaceva come i paesi che ricevevano assistenza europea (Spagna, Italia e Grecia) stavano facendo marcia indietro sulle riforme promesse". Quando a settembre Geithner arriva in Polonia per partecipare all'Ecofin, propone ai Paesi dell'Eurozona di adottare un piano simile al Term asset-backed securities loan facility (Talf), il muro di protezione creato dalla Federal reserve e finanziato dal governo e soprattutto dalla banca centrale per impedire insieme il default dei Paesi e delle banche. Viene quasi insultato. "Gli americani, però - continua Geithner - ricevevano spesso richieste per fare pressioni sulla Merkel affinchè fosse meno tirchia, o sugli italiani e spagnoli affinchè fossero più responsabili". È proprio in questo quadro inquietante di supponenza tedesca e incompetenza europea che arrivano le prime pressioni per cambiare il governo italiano. A G20 di Cannes lo stesso governatore della Bce, Mario Draghi, gli promette "l'uso di una forza schiacciante". "Parlammo al presidente Obama di questo invito sorprendente - racconta Geithner - ma per quanto sarebbe stato utile avere una leadership migliore in Europa, non potevamo coinvolgerci in un complotto come quello". Nonostante il niet degli Stati Uniti, i "funzionari europei" riescono nell'intento: nel giro di poche settimane si dimette il premier greco George Papandreou, Berlusconi viene sostituito con Monti ("un economista che proiettava competenza tecnocratica") e in Spagna viene eletto Mariano Rajoy. A dicembre la Bce approva il piano per finanziare per le banche. Piano che viene accolto con euforia da Bruxelles che si fionda a dichiarare che l'Europa è uscita dal tunnel della crisi. "Io non la pensavo così", sottolinea l'ex segretario del Tesoro. E, infatti, nel giugno del 2012 la minaccia del default tornerà a mettere in ginocchio i mercati del Vecchio Continente.
Gli Stati Uniti: "Funzionari Ue ci chiesero di far cadere Silvio Berlusconi", scrive “Libero Quotidiano”. Non solo Monti. Non solo Napolitano. Non solo Prodi. Anche a Barack Obama fu chiesto da alcuni funzionari europei di prendere al complotto per far cadere Silvio Berlusconi. A fare pressioni sul presidente Usa furono alcuni funzionari europei, che proposero ad Obama un piano per far crollare l'esecutivo, nell'infuocato 2011. Gli Stati Uniti, però, si sottrassero al complotto: "Non possiamo avere il suo sangue sulle nostre mani". La fonte di tali rivelazioni? Niente meno che l'ex ministro del Tesoro, Timothy Geithner, che spiega quanto accaduto in un libro di memorie uscito lunedì, Stress Test, e anticipata dalla stampa. Dopo il il libro-rivelazione di Alan Friedman, Ammazziamo il gattopardo, che svelava le indebite e (troppo) preventive pressioni di Giorgio Napolitano su Mario Monti, ecco un nuovo pamphlet destinato a fare molto rumore politico. Geithner, uno degli uomini più potenti degli States, scrive: "Ad un certo punto in quell'autunno, alcuni funzionari europei ci contattarono con una trama per cercare di costringere il premier italiano Berlusconi a cedere il potere; volevano che noi rifiutassimo di sostenere i prestiti del Fmi all'Italia, fino a quando non se ne fosse andato". L'ennesima prova al fatto che l'Europa berlinocentrica voleva far fuori lo Stivale e il suo presidente del Consiglio. Geithener si riferisce ai mesi più difficili per l'Italia, alle prese con le bizze dello spread, nell'autunno 2011. In particolare le richieste agli Stati Uniti furono avanzate già a settembre 2011, prima che lo spread raggiungesse i massimi, quando in Polonia all'Ecofin ricevette richieste per "fare pressioni sulla Merkel affinché fosse meno tirchia, o sugli italiani e gli spagnoli affinché fossero più responsabili". Contestualmente, come detto, arriva anche la proposta di far cadere Berlusconi. Ma Geighner precisa che, per quanto gli Usa avrebbero preferito un altro leader, gli Stati Uniti preferirono evitare il complotto.
Angela Merkel pianse con Barack Obama: "Obbedisco alla Bundesbank", scrive Martino Cervo su “Libero Quotidiano”. Sul Financial Times è apparso uno degli articoli di giornale più appassionanti degli ultimi anni. L’intero testo si trova all’indirizzo goo.gl/p11UOo (necessaria una registrazione gratuita). È un lunghissimo retroscena sulla notte dell’euro, a firma Peter Spiegel, che della testata è corrispondente da Bruxelles. Un romanzo breve (5 mila parole), primo di una serie che il quotidiano dedica alla ricostruzione delle giornate che cambiarono per sempre l’Europa. L’interesse per il lettore italiano è doppio: il nostro Paese è, nel novembre 2011, lo spartiacque per la sopravvivenza dell’euro, e manca una ricostruzione non strumentale di cosa accadde in ore che costarono la caduta di due governi (Papandreou e Berlusconi), sotto il rischio concreto di una catastrofe finanziaria. Il racconto si apre con una scena difficile da immaginare: Angela Merkel è in una stanza di hotel con Obama, Barroso, Sarkozy, e piange. «Non è giusto», stritola tra i denti con le lacrime agli occhi, «Io non mi posso suicidare». Perché la signora d’Europa è ridotta così? Libero riassume l’articolo di Spiegel per i suoi lettori. Siamo, come detto, a inizio novembre 2011. L’estate si è conclusa avvolta dalle fiamme dello spread. La Grecia è sul filo della permanenza nell’euro. L’Italia è la prossima preda di chi scommette sull’implosione della moneta unica, lo spread vola a quota 500, il governo traballa sulle pencolanti stampelle dei «responsabili», Merkel e Sarko hanno appena sghignazzato in mondovisione alla domanda sull’affidabilità di Berlusconi. Il G20 di Cannes del 3-4 novembre diventa un appuntamento carico di tensione. Il premier greco Papandreou ha annunciato un referendum sull’uscita dall’euro. L’eventualità manda letteralmente nel panico soprattutto i paesi creditori. A 48 ore dall’inizio del vertice Sarkozy raduna tutti i protagonisti del redde rationem: il premier greco, la Merkel, il capo dell’eurogruppo Juncker (oggi candidato del Ppe alla guida della Commissione Ue), il capo del Fondo monetario Christine Lagarde, i capi dell’Unione José Barroso e Herman van Rompuy. Il dramma greco è affiancato a quello italiano. Roma, rispetto ad Atene, è «too big to bail». La Lagarde è durissima: «L’Italia non ha credibilità». Quel che si fa con la Grecia avrà una ricaduta immediata, ed esponenziale, sul nostro Paese. Con Papandreou c’è Venizelos, ministro delle Finanze. Sarkozy mette spalle al muro il premier ateniese, per evitare il referendum e costringerlo a prendere una decisione lì, sul posto: dentro o fuori. Qui si apre un retroscena nel retroscena: il Ft racconta che Barroso poche ora prima, all’insaputa di Merkel e Sarko (padrone di casa del G20), incontra il capo dell’opposizione greca Samaras, offrendogli sostegno istituzionale a un governo di unità nazionale a patto di abbattere il referendum. Poi inizia il vertice «vero». Senza che i premier sappiano dell’accordo Barroso-Samaras, il capo della Commissione Ue fa il nome di Lucas Papademos, vicepresidente della Bce, come possibile guida di un esecutivo di larghe intese ad Atene. «Dobbiamo ammazzare questo referendum», dice Barroso. Venizelos soppianta il suo premier e cancella il referendum con una dichiarazione ufficiale. Papademos diventerà premier sette giorni più tardi. La Grecia è «sistemata». A questo punto bisogna sollevare una barriera contro l’assedio dei mercati all’euro. La trincea si chiama Italia. Molti delegati sono sconcertati dalla presenza al tavolo di Obama, che in teoria non ha titoli per sedersi a una riunione informale sull’eurozona. Segno di debolezza delle istituzioni comunitarie? Della gravità globale di un possibile tracollo che rischia di far saltare un mercato decisivo per i prodotti Usa? Il nodo cruciale è il ruolo del Fondo monetario. Come più volte raccontato da Giulio Tremonti, l’Italia declina l’offerta di una linea di credito da 80 miliardi di dollari, accettando solo il monitoraggio del Fmi. «I think Silvio is right», dice Obama, buttando sul tavolo una carta nuova, che assegna a Berlino una posizione cruciale. Per aggirare i veti dei trattati che impediscono alla Bce di finanziare direttamente gli Stati, il presidente Usa - in accordo coi francesi, alla faccia del tanto sbandierato asse Merkozy raccontato in quei giorni - propone l’utilizzo del «bazooka» con un’ennesima sigla: SDR. Che sta per «special drawing rights» (diritti speciali di prelievo), un particolare tipo di valuta che il Fmi stesso usa come unità di conto della partecipazione finanziaria dei singoli Stati. Una strategia simile (usare la potenza di fuoco degli SDR contro la crisi) era stata usato nel post-Lehman. Qui si tratterebbe di riversare quelle risorse nel fondo salvaStati europeo in via di formazione. Quel che segue è il miglior esempio possibile per raffigurare il nodo della democrazia ai tempi della crisi, e investe in pieno il tema della famosa «indipendenza» delle Banche centrali. La gestione degli SDR è infatti in capo a queste ultime. E il capo della Bundesbank è Jens Weidmann, custode dell’ortodossia dell’austerity tedesca. Appena si diffonde il piano Obama-Sarko, il «falco» apre le ali e dice «nein» al telefono con i delegati tedeschi: la Germania non paga. La Merkel scoppia in pianto e pronuncia il suo: «Non è giusto, non posso suicidarmi. Non posso decidere io al posto della Bundesbank». Il dramma dell’euro è qui: quattro tra i più potenti governi democraticamente eletti del mondo si fermano davanti al veto (legittimo) di un banchiere. Obama vuole che la Germania alzi la quota degli SDR. La Merkel apre, purché l’Italia accetti di farsi commissariare dal Fondo. Tremonti e Berlusconi non mollano, Angela neppure, a causa di Weidmann. La tensione è totale. La riunione si scioglie con un nulla di fatto, salvo la richiesta al governo di Berlino di provare a smussare la Buba. «Non mi prendo un rischio simile se non ottengo in cambio nulla dall’Italia». Alla conferenza stampa dopo il G8 Berlusconi rivela l’offerta del Fmi e il «no» italiano. Pochi giorni dopo, il governo cade. Al supervertice non è successo nulla. Toccherà a Draghi tenere in piedi l’euro, e (anche) a noi pagare per il fondo salvastati.
Gli attacchi vengono anche dall'interno. L'accordo tra Fini e Napolitano per "eliminare" Berlusconi, scrive “Libero Quotidiano”. "Il golpe contro Silvio Berlusconi non è cominciato nell’estate del 2011 come scrive Friedman. Ma molto prima, nel 2009. E a muovere i fili furono il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e quello della Camera Gianfranco Fini". A tirare in ballo altri protagonisti del complotto anti Cav è Amedeo Labboccetta. In una intervista al Tempo, l'allora braccio destro di Fini, racconta le ambizioni dell'ex presidente della Camera che ha giocato di sponda con il Quirinale per fare le scarpe al leader azzurro con l'obiettivo di prendere il suo posto a Palazzo Chigi. "Fini me lo disse in più circostanze. 'Ma tu credi che io porterei avanti un’operazione del genere se non avessi un accordo forte con Napolitano?!", rivela Labboccetta a Carlantonio Solimene che racconta anche di come nacqua il feeling tra Fini e il Colle: "Quando nel 2008 Berlusconi diventa premier e il leader di An va alla presidenza della Camera, i rapporti con Napolitano diventano strettissimi. Si sentono al telefono praticamente ogni giorno". E lui, dice, di essere testimone di quelle chiamate essendo in quel periodo in una posizione privilegiata. All'inizio, prosegue l'ex deputato del Pdl, Fini giustificò il suo controcanto al Cavaliere come normali reazioni agli attacchi de Il Giornale. Lui e Dell'Utri tentarono più volte di fargli cambiare idea. Berlusconi, secondo il racconto di Labboccetta, arrivò perfino ad offrirgli la segreteria del partito. Ma niente, Fini, non smetteva e alzava la posta chiedendo la testa dei ministri La Russa e Matteoli e del capogruppo al Senato Gasparri. "Mi disse che non avrebbe mai lasciato la terza carica dello Stato perché da lì poteva tenere per le palle Berlusconi', continua Laboccetta secondo il quale l'obiettivo di Fini era di "eliminare politicamente Berlusconi". "Quando lo costrinsi a spiegarmi con quali numeri e appoggi voleva farlo", rivela, "mi confessò che Napolitano era della partita. Usò proprio queste parole. Aggiunse che presto si sarebbero create le condizioni per un ribaltone e che aveva notizie certe che la magistratura avrebbe massacrato il Cavaliere. "Varie procure sono al lavoro", mi svelò, "Berlusconi è finito, te ne devi fare una ragione". E aggiunse che come premio per il killeraggio del premier sarebbe nato un governo di "salvezza nazionale" da lui presieduto con la benedizione del Colle. Quando parlava di Silvio, Gianfranco era accecato dall’odio, sembrava un invasato. Una volta mi disse: "Non avrò pace fino a quando non vedrò ruzzolare la testa di Berlusconi ai miei piedi"». Labboccetta non raccontò mai a Berlusconi quello che Fini stava ordendo alle sue spalle, ma si giustifica sostenendo che si diede da fare perché quel piano saltasse: "Cercai di fargli capire che Fini era solo l’esecutore, ma i disegnatori erano altri. Magari con una regia extranazionale". "Me lo fece capire lo stesso Gianfranco, parlando tra le righe. Non va dimenticato che in passato era stato ministro degli Esteri, ed era stato bravo a tessere le giuste relazioni". Alla domanda di Solimente: "Ma perché dice queste cose solo oggi?" Labboccetta risponde: "All’epoca ho fatto di tutto per favorire una ricomposizione. In seguito, ho ritenuto che era meglio lasciare queste cose alle miserie umane. Ma adesso che la verità sta venendo a galla, è giusto che si sappia tutto di quegli anni".
Sallusti: "Dietro al complotto per far fuori Berlusconi c'è Clio Napolitano", scrive “Libero Quotidiano”. “Dietro al golpe del 2011 c'è Clio Napolitano". Alessandro Sallusti ai microfoni de La Zanzara su Radio 24 aggiunge nuove elementi alle rivelazioni di Alan Friedman che parlano di una strategia chiara da parte del Colle per destabilizzare il governo Berlusconi nel 2011 e sostituire il Cav a palazzo Chigi con Mario Monti. Il direttore de Il Giornale punta il dito contro la moglie del Capo dello Stato e afferma: "Mi dicono che la moglie di Napolitano, la comunista Clio, odia Silvio, e ha molto peso sulle scelte del Quirinale. Dietro al complotto politico finanziario che ha fatto cadere Berlusconi, c'è Clio Napolitano". Insomma secondo Sallusti la mano occulta che guidò la caduta di Berlusconi nel 2011 appartiene a Clio Napolitano. Il direttore de Il Giornale però non risparmia critiche nemmeno agli ex alleati del Cav: "Sia Fini che Alfano sono stati cooptati da Napolitano per uccidere Berlusconi". Sallusti parla anche dello spread: "Fu creato ad arte ed il complotto contro Berlusconi ci fu". Infine l'annuncio poi confermato nel suo editoriale di oggi su il Giornale: "Se siamo in un Paese libero, mettiamo in stato d'accusa Napolitano".
Berlusconi: «Complotto contro di me? Obama si comportò bene». «Non mi sorprende che l’uomo del presidente Usa abbia confermato le manovre nei miei confronti… Ma lui si comportò bene durante tutto il G20 e mi diede ragione», scrive Alan Friedman su “Il Corriere della Sera”. Seduto nel giardino di Villa San Martino a Arcore, Silvio Berlusconi è più che soddisfatto. Le anticipazioni del libro di memorie di Timothy Geithner (Stress Test) confermano quello che il Cavaliere dice di sapere da tempo, e cioè, che la Casa Bianca bocciò una richiesta da parte di alcuni europei di far cadere il suo governo nell’autunno del 2011. «Non sono sorpreso. Ho sempre dichiarato che nel 2011 nei confronti del mio governo, ma anche nei confronti del mio Paese, c’è stato tutto un movimento che era partito dal nostro interno ma poi si è esteso anche all’esterno per tentare di sostituire il mio governo, eletto dai cittadini, con un altro governo», dice Berlusconi. «Già nel giugno del 2011, quando ancora non era scoppiato l’imbroglio degli spread, il Presidente della Repubblica Napolitano riceveva Monti e Passera, come è stato scritto, per scegliere i tecnici di un nuovo governo tecnico e addirittura per stilare il documento programmatico. E poi abbiamo saputo anche che ci sono state quattro successive tappe di scrittura, con l’ultima addirittura di 196 pagine». Berlusconi è in grande forma e viene fuori un ricordo preciso. «Io avevo la contezza che stesse accadendo qualcosa e avevo anche ad un certo punto ritenuto che ci fosse una precisa regia. Al G-20 di Cannes, addirittura, amici e colleghi di altri paesi mi dissero: "Ma hai deciso di dare le dimissioni? Perché sappiamo che tra una settimana ci sarà il governo Monti…". E l’ha rivelato per esempio Zapatero in un suo libro che riguardava quel periodo». Non è sorpreso che queste nuove rivelazioni vengano da un uomo di Obama. «Io devo dire che Obama si comportò bene durante tutto il G20. Noi fummo chiamati dalla Merkel e Sarkozy a due riunioni in due giorni consecutivi e in queste riunioni si tentò di farmi accettare un intervento dal Fondo Monetario Internazionale. Io garantii che i nostri conti erano in ordine e non avevamo nessun bisogno di aiuti dall’esterno e rifiutai di accedere a questa offerta, che avrebbe significato colonizzare l’Italia come è stata colonizzata la Grecia, con la Troika».
Da Scalfaro a Napolitano: le trame anti Cav del Colle nei rapporti segreti Usa. Ecco le carte choc della diplomazia americana che dimostrano il pressing del Quirinale dietro le cadute dei governi Berlusconi nel 1994 e nel 2011, scrive Stefano Zurlo, Domenica 28/02/2016, su "Il Giornale". Strategie e complotti. Washington e Silvio Berlusconi. Amministrazioni diverse, repubblicana e poi soprattutto democratica, ma grande attenzione ai volteggi del Cavaliere, alle convulsioni della politica italiana dominata da Berlusconi alle cospirazioni di Palazzo. Un monitoraggio fittissimo e a tratti invasivo lungo un ventennio. Alcune carte inedite, oggi pubblicate per la prima volta dal Giornale, documentano rapporti consolidati e preferenziali con alcune personalità, dubbi e oscillazioni dei presidenti a stelle e strisce e dei loro staff. Una mole di carte che Andrea Spiri, professore a contratto alla Luiss, ha scovato al Dipartimento di Stato di Washington, dopo la progressiva desecretazione dei file fra l'ottobre 2012 e il dicembre 2015. Gli americani mostrano di avere antenne molto sensibili nel nostro Paese e individuano subito, addirittura nell'ottobre '92, in piena tempesta Mani pulite, Silvio Berlusconi come possibile leader di un nuovo partito. Siamo molto prima della discesa in campo, a Washington sono gli ultimi mesi della presidenza di Bush padre, ma i riflettori si accendono subito su un futuro che ancora nessuno conosce. L'ambasciatore Peter Secchia invia un documento classificato come confidential: Le incertezze italiane. La soluzione è un nuovo partito politico? L'ambasciatore ha fatto indagini che riassume con concisione e pragmatismo: «Il segretario del Pli Altissimo ha organizzato una cena di lavoro segreta il 12 ottobre per proporre la formazione di un nuovo partito... La cena si è tenuta il 13 ottobre presso il Grand Hotel. Da quanto viene riferito il gruppo, di cui faceva parte il magnate dei media Berlusconi, così come Francesco Cossiga, ha deciso di chiedere allo stesso Cossiga di formare un nuovo partito... La partecipazione di Berlusconi è di speciale significato, per via della vicinanza di Craxi. La sua apparizione come un nuovo leader politico potrebbe avere la benedizione dello stesso Craxi. Comunque è anche la riprova che la potenza di Craxi, duramente colpito dagli scandali, continua a declinare». In ogni caso, «gli italiani - spiega - sono confusi e cercano il cambiamento». Una discontinuità che porterà a Palazzo Chigi nel '94 proprio Berlusconi. Due anni più tardi, a fine '94, il nuovo ambasciatore Reginald Bartholomew scrive a Washington e descrive con una certa preoccupazione l'agonia del primo esecutivo Berlusconi, minato dall'avviso di garanzia e dalla manovre del presidente Oscar Luigi Scalfaro. «Il governo Berlusconi - nota l'ambasciatore - sembra cadere. E poi? Se cade, questo potrebbe rafforzare l'impressione che l'Italia stia scivolando indietro verso la politica screditata che ha visto succedersi dalla fine della Seconda guerra mondiale 52 governi. Potrebbe inoltre consolidare la percezione che la politica operi essenzialmente in maniera indipendente e lontana dalla gente». Bartholomew, insomma, ha più di un dubbio sull'operazione in corso a Roma per sloggiare il Cavaliere. Ma non c'è niente da fare. Il 20 dicembre, due giorni prima delle dimissioni, Bartholomew invia una nota a Washington in cui spiega senza tanti giri di parole che il presidente Scalfaro l'ha giurata a Berlusconi e vuole cacciarlo da Palazzo Chigi. A svelargli gli intrighi è stato un testimone eccellente come Francesco Cossiga. «Cossiga - scrive l'ambasciatore rivolgendosi alo staff di Bill Clinton - ha sottolineato che uno dei fattori che stanno incidendo sulla crisi è la rottura irrecuperabile fra Scalfaro e Berlusconi. Cossiga ha riferito che Scalfaro si sentiva profondamente offeso dalle recenti batoste pubbliche ricevute dai berlusconiani, in particolare dal portavoce del governo Ferrara. Cossiga ha detto di ritenere che Scalfaro farebbe qualunque cosa pur di evitare un ritorno di Berlusconi al governo». Il destino è segnato. Di crisi in crisi si arriva fino all'attualità. E all'ultimo giro di valzer del Cavaliere a Palazzo Chigi. A novembre 2011, con lo spread impazzito e la coppia Merkel-Sarkozy che lo guarda con sorrisetti di scherno, Berlusconi getta la spugna. Il 12 novembre il sottosegretario alla crescita economica Robert Hormats invia una mail a Jacob Sullivan, capo dello staff del segretario di Stato Hillary Clinton. Hormats riprende il report spedito il 9 novembre dall'ambasciatore David Thorne: «Continuano i battibecchi politici, ma la direzione generale è fissata». Segue un misterioso omissis. Quindi Thorne riprende: «Sono anche intervenuti la Merkel e Sarkozy. Lo spread è sotto il picco, ma ancora molto alto. L'Italia sa quello che deve fare. David». «Spero - riprende un per niente galvanizzato Hormats - che Thorne abbia ragione, che l'Italia sappia quello che deve fare. Dovremmo vedere se Monti può farcela con gli insofferenti e se può portare dalla sua parte l'opinione pubblica. Egli è molto brillante, ma le sue capacità politiche e motivazionali andranno verificate». E infatti Monti si rivelerà un disastro.Intanto, Giorgio Napolitano, presunto regista del complotto anti Cav del 2011, annuncia che non risponderà alle domande su quel che successe in quelle settimane. Quel che è accaduto nel 2011 - confida all'Huffington Post - possono ricavarsi da molteplici miei interventi pubblici. Non ritengo ritornarci attraverso mie memorie che al pari dei miei predecessori non scriverò».
Quando De Benedetti voleva creare Forza Italia. Nel '91 l'Ingegnere preparava un partito, ma il Cavaliere gli guastò i piani, scrive Stefano Zurlo, Mercoledì 16/12/2015, su "Il Giornale". La «rivoluzione senza sangue». Fuor di metafora, un nuovo partito pronto a prendere il potere. Nella primavera del '91, dopo il crollo del Muro ma prima dell'incipit di Mani pulite, Carlo De Benedetti e Cesare Romiti, con la probabile benedizione dell'avvocato Agnelli, tramavano per rifondare lo scricchiolante edificio della politica italiana. E per consegnare alle teste d'uovo della vecchia sinistra azionista le chiavi di Palazzo Chigi. Dove si sarebbe insediato Carlo Azeglio Ciampi con la benedizione di schegge importanti del vecchio Pci e della sinistra democristiana. Non era una fiction ma un progetto avanzato che De Benedetti spiegò senza tanti giri di parole a Paolo Cirino Pomicino in quei mesi preinsurrezionali. E che l'ex ministro democristiano lascia balenare in un passaggio del suo ultimo libro, La repubblica delle giovani marmotte (Utet): «Gli ideologi del nuovo pensiero politico, De Benedetti e Romiti in prima linea, furono cosi umiliati nell'anno del Signore 1994, dalla vittoria di un dilettante - più-dilettante di quelli che avevano promosso la rivoluzione senza sangue, della quale De Benedetti mi aveva anticipato il disegno nella primavera del '91».Sì, è il paradosso che l'Italia visse in quegli anni: De Benedetti & soci avevano inventato una sorta di Forza Italia, naturalmente modellata sulle esigenze della sinistra giacobina e giustizialista, ma la creatura ancora in fasce fu uccisa dall'irruzione di Berlusconi e della sua Forza Italia che nel '94 sconfisse la gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto. Dietro Occhetto c'erano De Benedetti e la borghesia dei salotti buoni, con forti agganci nella sinistra Dc e nel nascente Pds. Commenta oggi Cirino Pomicino: «Nella primavera del '91 mi incontrai con De Benedetti che mi disse: Stiamo creando un nuovo partito, vuoi fare il mio ministro? Io la presi sul ridere: Mi hai preceduto, sto lavorando a un nuovo soggetto imprenditoriale, vuoi fare il mio imprenditore? Pensavo sarebbe finita lì e invece venti-trenta giorni dopo ottenni altre informazioni e mi resi conto che il disegno era assai dettagliato». L'idea era quella di dare la leadership del Paese ai tecnici, espressione di quella borghesia. E di utilizzare il vecchio corpo del Partito comunista per dare spessore al progetto e garantirgli i numeri o se si preferisce, le truppe di sfondamento. Insomma, si puntava a mettere insieme democristiani e postcomunisti, impresa oggi realizzata nel Pd, ma la stanza dei bottoni sarebbe stata affidata ai tecnici, ai tecnocrati, agli eredi dell'azionismo. «Ma - prosegue Cirino Pomicino - molti fra gli autorevoli imprenditori responsabili dell'originario disegno per far saltare in aria il sistema dei partiti furono azzannati dalla bestia che avevano aizzato». Mani pulite entrò anche in quei salotti vellutati, lo stesso De Benedetti fu arrestato anche se per poche ore dai magistrati di Roma, il vuoto fu infine riempito con sorprendente tempismo dal più dilettante dei dilettanti, quel Silvio Berlusconi che alla fine sbaragliò la sinistra e bloccò il partito delle élite. La guerra fra l'Ingegnere e il Cavaliere sarebbe invece andata avanti fino ai nostri giorni.
L'ultimo tassello che dimostra il complotto di Napolitano & C. Le carte pubblicate da Repubblica sono solo la conferma dello scenario sul golpe del 2011. Prima l'attacco speculativo sui mercati, poi le manovre per far cadere il governo Berlusconi, scrive Renato Brunetta, Mercoledì 24/02/2016 su “Il Giornale”. Un fatto di gravità inaudita è stato rivelato ieri da Repubblica, che ha attinto da Wikileaks la notizia provata delle intercettazioni che uno Stato amico e alleato ha compiuto ai danni del nostro Paese e della sua legittima autorità di governo, rubando le telefonate del nostro presidente del Consiglio e dei suoi più stretti collaboratori. Questo Stato si chiama Stati Uniti d'America, negli anni di Barack Obama, e il presidente del Consiglio italiano è Silvio Berlusconi. Si tratta di una violazione che si configura come attacco alla nostra sovranità nazionale. Ma a questo credo che saprà (o no?) rispondere da par suo (ahinoi!) Matteo Renzi. Il quale, visto che chiama gli oppositori interni gufi, come minimo dovrà dare della iena a Obama. Figuriamoci. Qui restringiamo il campo a chi ha fornito le prove di questo scempio: Repubblica. E Repubblica, se possibile, è peggio degli spioni. Infatti la chiave di lettura che essa dà di questo crimine è di compiacimento, poiché vuol convincere il mondo che questa infamia fornisce nuovi proiettili contro il nemico storico, Silvio Berlusconi e il suo governo. In particolare nell'editoriale di Claudio Tito usa le telefonate carpite per negare l'esistenza di qualsivoglia complotto contro l'ultimo premier legittimato dal voto e di conseguenza contro il nostro Paese. Lo scopo è chiaro: volgarmente si direbbe, mettere le mani avanti. Più raffinatamente, trattasi della classica operazione di disinformacija. Tito, e Calabresi-De Benedetti, vogliono creare il mainstream, il pensiero unico su questa vicenda, obbligando tutti i commenti a instradarsi su questi binari, ad accettare l'agenda proprio di coloro che ordirono il complotto, i quali stavano e stanno non solo all'estero, ma in Italia, e proprio molto vicino all'area politico-culturale di Repubblica-Espresso. Perché queste intercettazioni sono solo nelle loro mani? Hanno per caso pagato per averle? Perché non le hanno anche gli altri giornali? Si fa per caso un uso selettivo di WikiLeaks? L'asino però casca sull'ignoranza, voluta o determinata dal pregiudizio proprio e della casa madre, qui non importa. Il diavolo sta nei dettagli. E i dettagli dicono topiche clamorose nell'impostazione delle fondamenta di una tesi smentita dalla realtà. Ma è proprio questa miseria morale e deontologica a essere la caratteristica espressiva non solo del giornalismo del gruppo editoriale di De Benedetti, ma della sinistra intellettuale e politica in quanto tale. Uno spirito di diserzione rispetto agli interessi nazionali, abbandonando quel minimo di patriottismo che sarebbe naturale riscontrare in chiunque ami il proprio Paese e lo veda ferito con strumenti di scasso che mettono in pericolo la sicurezza di tutti. Il Giornale ha, nel maggio del 2014, pubblicato e diffuso un libro che porta la mia firma e si intitola Berlusconi deve cadere. Cronaca di un complotto. Le rivelazioni odierne forniscono in realtà totale conferma della mia narrazione di quegli eventi che videro l'Italia, soprattutto nel secondo semestre del 2011, sotto attacco speculativo. Prima partì l'aggressione finanziaria ai titoli di Stato, mentre i fondamentali della nostra economia erano stati ben valutati dalla Commissione europea. Dal complotto finanziario si passò senza soluzione di continuità al complotto politico, bene assecondato in Italia dal Quirinale (e da Repubblica). Dalle telefonate intercettate in particolare al consigliere politico e deputato Valentino Valentini, che partecipò ai colloqui riservati di Berlusconi con i leader franco-tedeschi, si evince che Sarkozy e Merkel misero sotto pressione fortissima Berlusconi anche in privato. Contemporaneamente ordirono nei corridoi e in incontri riservati al vertice del G20 di Cannes quello che il segretario del Tesoro americano Tim Geithner ha definito nelle sue memorie the scheme, il complotto. A cui si sottrasse, non volendosi «macchiare le mani del sangue» di Berlusconi. Ps. Ecco a uso della scuola di giornalismo e magari alla attenzione dell'Ordine dei giornalisti per la diffusione di notizie false. Prima il testo di Tito, poi la confutazione delle topiche. «Il governo venne umiliato in Parlamento: incapace di approvare la legge di Stabilità... La paura di essere travolti dal buco nero italiano diventava il vero incubo dell'Unione europea e di tutti gli alleati internazionali. Non è un caso che in quei giorni (autunno 2011, ndr) la Deutsche Bank - allora ancora solida - si liberava in un colpo solo dell'88% dei titoli di Stato italiani che aveva in cassaforte. Quasi in contemporanea, dal vertice europeo di Nizza di ottobre arrivava un altro schiaffo. La Cancelliera tedesca Merkel e il presidente francese Sarkozy ironizzavano con un sorriso eloquente sulla capacità dell'esecutivo berlusconiano di mettere al riparo i conti dello Stato». Il governo non era «incapace di approvare la legge di Stabilità». La legge di Stabilità non era allora in questione. Si trattava, invece, del voto sul rendiconto generale dello Stato, un atto dovuto, e peraltro approvato dalla Camera. La Deutsche Bank non vende «per paura di essere travolti dal buco nero italiano» dopo l'estate, ma sono le decisioni dei suoi vertici a causare ad arte questa paura innescando la tempesta perfetta sui mercati. La Deutsche Bank cedette i titoli di Stato italiani tra marzo e giugno 2011. La Bundesbank impose lo stesso comportamento a tutti gli istituti presenti sul suolo tedesco ai primi di luglio. Fu questa vendita preordinata e in blocco a causare la crescita artificiosa dello spread. I sorrisetti di Merkel e Sarkozy non furono «durante il vertice europeo di Nizza», ma durante una conferenza stampa a Bruxelles il 23 ottobre 2011. Il vertice europeo di Nizza si svolse un po' prima, esattamente tra il 7 e il 9 dicembre 2000, e c'erano Giuliano Amato, Jacques Chirac e Gerhard Schröder. In effetti lì non ci fu nessun complotto. Lo spread non ha mai «sfiorato» 600 punti base, ma al massimo 529 il 15 novembre 2011, quando Berlusconi, tra l'altro, si era già dimesso. Ciò detto, a chi giova oggi questa divulgazione di informazioni? Chi è il vero obiettivo di questa campagna? È l'operazione verità rispetto al passato, per cui noi abbiamo già chiesto l'istituzione di una Commissione parlamentare d'inchiesta, oppure l'obiettivo è l'attuale governo? È un avvertimento a Renzi? Domande inquietanti, che chiedono risposte immediate. Ha niente da dire il solitamente ciarliero presidente del Consiglio italiano?
Labocetta: "Vi racconto quella telefonata tra Fini e Napolitano per far fuori il Cav". Amedeo Laboccetta, già deputato del Pdl e a lungo amico e stretto collaboratore di Fini si racconta in un libro. “Almirante, Berlusconi, Fini, Tremonti, Napolitano. La vita è un incontro” traccia la storia degli ultimi anni della storia italiana e apre uno squarcio sulle presunte manovre di palazzo ordite da Fini e Napolitano per estromettere il Cav da palazzo Chigi, scrive Mario Valenza, Domenica 13/12/2015, su "Il Giornale". “Almirante, Berlusconi, Fini, Tremonti, Napolitano. La vita è un incontro” traccia la storia degli ultimi anni della storia italiana e apre uno squarcio sulle presunte manovre di palazzo ordite da Fini e Napolitano per estromettere il Cav da palazzo Chigi. Come racconta a Libero, "il culmine della vicenda è il 22 aprile 2010, all’auditorium della Conciliazione (potere dei nomi) a Roma, direzione nazionale del Pdl. Ma sì, il famoso 'Che fai, mi cacci?' scagliato da Fini da sotto il palco a Silvio. Una sceneggiata. Qualche ora dopo, appartamento di Fini a Montecitorio. Laboccetta lo ha raggiunto per farlo ragionare, ricordargli che se il Msi e lui stesso sono usciti dal recinto dei paria, sono arrivati al governo e alle più alte responsabilità, lo devono a Berlusconi. La replica è tranchant. "Lui fu spietato: “Berlusconi va politicamente eliminato. E Napolitano è della partita... Ma lo vuoi capire che il presidente della Repubblica condivide, sostiene e avalla tutta l’operazione?”. A riprova, Fini chiama il Quirinale e mette in viva voce. E questa è la trascrizione che fa Laboccetta di quanto si dicono, come due vecchi amiconi, "Giorgio" e "Gianfranco". “Caro Presidente, come avrai visto abbiamo vissuto una giornata campale...”. “Più che campale - rispose Napolitano - direi una giornata storica...”. “Ovviamente, caro Giorgio, continuo ad andare avanti senza tentennamenti”. “Certamente. Fai bene ma fallo sempre con la tua ben nota scaltrezza”. Amedeo Laboccetta annota: "Avevo assistito - in diretta - all’organizzazione di un golpe bianco orchestrato dalla prima e dalla terza carica dello Stato...". In realtà il progetto è cominciato prima. "Fini lo stava coltivando forse fin dal post-elezioni del 2008" è la convinzione di Laboccetta: "Della sua ambizione e della sua personalissima sfida contro il Cavaliere, ha approfittato Giorgio Napolitano che ha saputo blandirlo e utilizzarlo per liberarsi dell’ingombrante presenza di Berlusconi, salvo poi abbandonarlo al suo destino a missione fallita".
Libri. “Almirante, Berlusconi, Fini, Tremonti, Napolitano. La vita è un incontro” di Laboccetta, scrive il 24 marzo 2016 Luca Gallesi su “Barbadillo”. A chi non fosse di Napoli o non avesse a lungo militato nei ranghi del Msi, il nome di Amedeo Laboccetta risultava familiare per due motivi contrastanti: da un lato, il personaggio si era guadagnato una certa fama come epigono di “Mani Pulite” in salsa partenopea, mentre, dall’altro, risultava invischiato in certi loschi affari legati al mondo del gioco d’azzardo, e a un computer portatile che, durante una perquisizione, rifiutò di consegnare agli inquirenti, avvalendosi dell’immunità parlamentare. Questo, almeno, era ciò che io, meneghino distante dalle beghe politiche, ricordavo del consigliere comunale, poi onorevole, per averlo letto sui giornali. Accettai, quindi, con qualche riserva l’invito del caro amico Angelo Ruggiero a presentare a Milano, assieme all’autore e ad Alfredo Mantica, il libro autobiografico di Laboccetta Almirante, Berlusconi, Fini, Tremonti, Napolitano. La vita è un incontro pubblicato da Controcorrente (pagg.160 €15). Dopo le perplessità iniziali, mi sono ricreduto immediatamente: ho divorato il libro in due sere, trovandolo appassionante e ben scritto da una persona sincera e verace, fugando tutti i dubbi che erano semplicemente dovuti a una lettura distratta delle cronache. Come scrive Marcello Veneziani nella prefazione, oltre che autobiografico in senso stretto, il libro è “l’autobiografia collettiva di una generazione meridionale e di destra in un’epoca a cavallo tra i millenni”. Ci troviamo, infatti, di fronte a una testimonianza personale, politica e anche storica. Personale, perché all’inizio e alla fine Laboccetta ci racconta della sua famiglia, storia avvincente e appassionata, fatta di slanci e casualità, governata dal destino. Il sottotitolo, che definisce la vita come “incontro”, infatti, sottolinea proprio questo, l’inevitabilità, per chi ci crede e vi si abbandona, della “fortuna” in senso latino, che per i pagani era il fato e per i cristiani la Provvidenza. Lasciando al lettore il piacere di scoprire la vita avventurosa dell’autore, penso che il libro debba sollecitare prima delle riflessioni, magari private, e poi una discussione, sicuramente pubblica, su almeno due livelli di lettura: uno politico e uno storico. Quello politico riguarda un mondo che non c’è più, almeno in Occidente: quello delle vite spese in politica. Sebbene non siano passati secoli ma soltanto pochi decenni, sembra lontanissimo il tempo in cui si faceva politica per passione, spendendosi, appunto, in un’attività che, specialmente a destra, non offriva che molti rischi e ben pochi vantaggi. Oggi, più che di una vita “spesa” in politica, dovremmo parlare di una vita “guadagnata”, rappresentando – o avendo rappresentato anche a destra- la politica il modo più rapido di ascesa sociale e soprattutto economica offerto dalla società. La vita di Laboccetta, senza inutili nostalgie o sterili piagnistei ci ricorda un mondo fatto di passione e sacrificio, di militanza e condivisione, di guasconerie e, anche, di divertimento: esperienze ormai bandite dal mondo sordo e grigio della politica odierna. Un altro fattore sottolineato dal politico napoletano è l’importanza della cultura, importanza che non si riduce alle solite chiacchiere preelettorali, ma che ha visto l’autore impegnarsi concretamente ed efficacemente per trovare una cordata imprenditoriale disposta ad avviare l’ultimo esperimento editoriale significativo della destra, quel settimanale “Lo Stato”, che per poco tempo rinnovò i fasti dell’“Italia settimanale” . Fanno davvero sorridere, inoltre, gli aneddoti raccontati nel libro sugli intellettuali considerati “inaffidabili” perché pensano, e quelli che riguardano la politica culturale di Berlusconi, il quale, agli articolati progetti di Marcello Veneziani preferì la musichetta dell’inno di Forza Italia, sicuro che quel jingle avrebbe affascinato il popolo ben più di qualsiasi ardita teoria costituzionale, e purtroppo aveva ragione. Ma le pagine che dovrebbero davvero suscitare un polverone mediatico, con girotondi frenetici dei soliti indignati e paludati giornaloni che si stracciano le vesti per le gravissime violazioni delle regole democratiche, riguardano le rivelazioni del vero e proprio golpe (altro che Borghese, altro che Sogno!) effettuato da Napolitano ai danni di Berlusconi, con la complicità di Fini e di Tremonti. Lasciando al lettore il piacere –e l’irritazione- di scoprire i retroscena della politica italiana degli ultimi anni, raccontati con dovizia di particolari e prove inoppugnabili da Laboccetta, mi limito a sottolineare come questo libro sarebbe dovuto uscire per la Mondadori con il titolo Intrigo Internazionale, con prefazione di Silvio Berlusconi, che, a un certo punto (indovinate quale) ha cambiato parere, invitando l’autore a non pubblicare nulla. Buona lettura.
Dal libro “Almirante, Berlusconi, Fini, Tremonti, Napolitano - La vita è un incontro” (Controcorrente edizioni). […] Alla fine, decisi di andare a incontrare un’ultima volta il Presidente della Camera per rinfacciargli tutto quello che non ero riuscito a mandar giù in direzione nazionale e dirgli, a brutto muso, che la sua strategia era ripugnante. “È una cosa ignobile, Gianfranco. Il tuo non è nemmeno un errore, ma un orrore. Silvio Berlusconi non merita quello che gli stai facendo”. Lui fu spietato: “Berlusconi va politicamente eliminato. E Napolitano è della partita”. Usò proprio questa espressione: essere della partita. Ed io aggiunsi: “Ma che significa essere della partita?”. Replicò dicendo: “Ma lo vuoi capire che il Presidente della Repubblica condivide, sostiene e avalla tutta l’operazione?”. Era la prima volta che si lasciava andare a una considerazione così esplicita. In altre occasioni, mi aveva fatto intuire l’esistenza di quest’alleanza ma mai in maniera così brutale. Sapevo che diceva la verità, ma lui volle regalarsi il coupe-detheatre. Davanti ai miei occhi, chiamò il Quirinale per informarlo degli ultimi sviluppi del golpe. Attivò il vivavoce e parlò con Napolitano delle sue prossime mosse. “Caro Presidente – salutò Fini – come avrai visto abbiamo vissuto una giornata campale”. Il riferimento, chiaro, era alla sceneggiata nell’Auditorium della Conciliazione. “Più che campale – rispose Napolitano – direi una giornata storica”. Era proprio la voce del Presidente della Repubblica. Non riuscivo a crederci. Mi accasciai sulla sedia, come svuotato. “Ovviamente, caro Giorgio, continuo ad andare avanti senza tentennamenti”. “Certamente. Fai bene – lo incitò Re Giorgio – ma fallo sempre con la tua ben nota scaltrezza”. Ascoltai come incantato quella decina di secondi di conversazione in vivavoce, con lo sguardo perso nel vuoto. Avevo assistito – in diretta – all’organizzazione di un golpe bianco orchestrato dalla prima e dalla terza carica dello Stato. Rimasi per qualche istante ammutolito, mentre i due – disattivato il vivavoce – si mettevano d’accordo per l’indomani. Lasciai subito dopo l’ufficio di Fini in preda a una crisi nervosa. Frugai nelle tasche alla ricerca dei miei sigari. Ma nemmeno qualche boccata mi restituì i nervi saldi. Attraversai a grandi falcate i corridoi e le stanze di Montecitorio per guadagnare il prima possibile l’uscita. Dopo averla varcata, feci un bel respiro. E non per colpa del fumo. Era l’aria velenosa e tossica della Camera che mi aveva strozzato la gola. Una telefonata inaspettata mi raggiunse nel mese di giugno 2004. Gianfranco Fini, all’epoca Vice Presidente del Consiglio, mi chiamò per chiedermi se fossi stato in grado di organizzargli una vacanza a Saint Martin per un paio di settimane. Rimasi per qualche istante interdetto. Erano anni che non mi chiamava. “Ma figurati Gianfranco, che problema c’è.” Gli risposi. Quella vacanza caraibica la ricordo molto bene. Alla vigilia di ferragosto del 2004, Fini atterrò all’aeroporto Juliana con quattordici persone al seguito, la comitiva aveva già trascorso una lunga vacanza negli Stati Uniti d’America. C’era anche il suo segretario particolare, l’amico Checchino Proietti con moglie e figli. Provvidi ad ospitare tutti in una delle più prestigiose ville dell’isola. Si trova a nord. Nella zona francese, denominata Ance Marcel. Il proprietario del panoramico complesso è Monsieur Collarò, il Mike Bongiorno della televisione francese. La villa si trova in collina, a strapiombo sul mare. Una zona tranquilla e riservata con vista mozzafiato: erano tutti incantati, d’altronde, quando faccio le cose, in genere, mi piace farle bene. Fini mi aveva sottolineato le sue intenzioni. Ci teneva a fare immersioni tutti i giorni. Fu per questo che reclutai, anche per motivi di sicurezza, un istruttore subacqueo, un californiano con esperienza collaudata ed un fotografo marino di nazionalità francese. Ovviamente mi preoccupai anche di noleggiare una barca. Devo dire che nelle immersioni Fini se la cavava fin troppo bene. Mi fu confermato dai due esperti che lo accompagnarono per quindici giorni alla scoperta di quei fantastici fondali nell’Oceano Atlantico. Dopo la mattinata sportiva, li riaccompagnavo in villa. Ci si rivedeva la sera, con tutto il suo gruppo, per cenare insieme. La sera del 25 Agosto del 2004, onomastico di mia moglie, durante la cena al ristorante di Davide Foini, il vice di Berlusconi, volle omaggiare la mia Patrizia con un dono raccolto in fondo al mare. Una conchiglia bianca. Un ricordo per la bella vacanza trascorsa insieme. Dopo la mezzanotte, si andò tutti a giocare in uno dei casinò di Francesco Corallo. Fini vinse. Nel suo delirio di onnipotenza quel colpo era significativo. Subito incassò e volle andare via. Dopo tre giorni, la comitiva ripartì per l’Italia. Io e Patrizia rimanemmo ancora una settimana. Avevamo bisogno di rilassarci... Sono preciso nell’ospitalità e provo piacere nel vedere gli amici sempre contenti e soddisfatti. Quella bella conchiglia non l’ho portata in Italia. Il giorno dopo la partenza di Fini, con Patrizia decidemmo di restituirla a quel meraviglioso e cristallino mare caraibico. Era quella la sua giusta dimora. Non certo una mensola della nostra casa...
Urss, Kissinger, massoneria Ecco i misteri di Napolitano. Da dirigente Pci intrattenne rapporti riservati con Unione sovietica e Usa, dove andò durante il sequestro Moro. E da allora la "fratellanza" mondiale lo tratta con riguardo scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. «Il presidente Napolitano è stato sempre garante dei poteri forti a livello nazionale e degli equilibri internazionali sull'asse inclinato dal peso degli Stati Uniti» scrivono i giornalisti di inchiesta Ferruccio Pinotti (del Corriere della sera) e Stefano Santachiara (Il Fatto) in "I panni sporchi della sinistra" (ed. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano Chiarelettere). Il primo ritratto, di 60 pagine, è dedicato proprio al presidente della Repubblica («I segreti di Napolitano»), «l'ex ministro degli esteri del Pci» come lo definì Bettino Craxi interrogato dal pm Di Pietro nel processo Enimont. I rapporti con Mosca, quelli controversi con Berlusconi (il mensile della corrente migliorista del Pci, Il Moderno, finanziato da Fininvest, ma anche dai costruttori Ligresti e Gavio), e le relazioni oltreoceano, con Washington. Una storia complessa, dalla diffidenza iniziale del Dipartimento di Stato Usa e dell'intelligence americana («nel 1975 a Napolitano gli fu negato il visto, come avveniva per tutti i dirigenti comunisti»), alle aperture dell'ambasciata Usa a Roma, al «misterioso viaggio» di Napolitano negli Stati uniti nel '78, nei giorni del sequestro Moro, l'altro viaggio insieme a Occhetto nel 1989, fino «all'incontro festoso, molti anni dopo, nel 2001, a Cernobbio, con Henry Kissinger, ex braccio destro di Nixon, che lo saluta calorosamente: My favourite communist, il mio comunista preferito. Ma Napolitano lo corregge ridendo: Il mio ex comunista preferito!». Il credito di Napolitano presso il mondo anglosassone si dipana nel libro-inchiesta anche su un fronte diverso, che Pinotti segue da anni, la massoneria, e che si intreccia con la storia più recente, in particolare con le dimissioni forzate di Berlusconi nel 2011, a colpi di spread e pressioni delle diplomazie internazionali. Su questo terreno gli autori fanno parlare diverse fonti, tra cui una, di cui non rivela il nome ma l'identikit: «Avvocato di altissimo livello, cassazionista, consulente delle più alte cariche istituzionali, massone con solidissimi agganci internazionali in Israele e negli Stati Uniti, figlio di un dirigente del Pci, massone, e lui stesso molto vicino al Pd». Il quale racconta: «Già il padre di Giorgio Napolitano è stato un importante massone, una delle figure più in vista della massoneria partenopea» (proprio nei giorni successivi all'uscita del libro sarebbe spuntata, dagli archivi di un'associazione massonica di primo piano, la tessera numerata del padre di Napolitano). Tutta la storia familiare di Napolitano è riconducibile all'esperienza massonica partenopea, che ha radici antiche e si inquadra nell'alveo di quella francese...». Avvocato liberale, poeta e saggista, Giovanni Napolitano avrebbe trasmesso al figlio Giorgio (legatissimo al padre) non solo l'amore per i codici «ma anche quello per la fratellanza» si legge. E poi: «Per quanto riguarda l'attuale presidente, negli ambienti massonici si sussurra da tempo di simpatie della massoneria internazionale nei confronti dell'unico dirigente comunista che a metà anni Settanta, all'epoca della Guerra fredda, sia stato invitato negli Stati Uniti a tenere un ciclo di lectures presso prestigiosi atenei. Napolitano sarebbe stato iniziato, in tempi lontani, direttamente alla «fratellanza» anglosassone (inglese o statunitense)». Da lì il passo ad accreditare la tesi, molto battuta in ambienti complottisti, di un assist guidato a Mario Monti, è breve, e viene illustrata da un'altra fonte, l'ex Gran maestro Giuliano Di Bernardo («criteri massonici nella scelta di Mario Monti») e da uno 007 italiano. L'asse di Berlusconi con Putin - specie sul dossier energia - poco gradito in certi ambienti, entra in questo quadro (fantapolitica?). Con un giallo finale nelle pagine del libro, raccontato dalla autorevole fonte (senza nome): Putin avrebbe dato a Berlusconi delle carte su Napolitano. Se queste carte esistono, riguardano più i rapporti americani di Napolitano che quelli con i russi». Materiale per una avvincente spy story su Berlusconi, Napolitano, Monti, Putin, la Cia, il Bilderberg...
Il Cav fu costretto da Napolitano a dimettersi perché voleva che l'Italia uscisse dall'euro, scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Alla luce delle recenti rivelazioni, si conferma che il 12 novembre 2011 Berlusconi fu costretto da Napolitano a dimettersi da presidente del Consiglio, pur in assenza di un voto di sfiducia del Parlamento, perché in seno ai vertici dell'Ue aveva ventilato la possibilità che l'Italia esca dall'euro. Di fatto fu un colpo di Stato ordinato dai poteri forti in seno all'Unione europea e alla Bce, innanzitutto la Germania di Angela Merkel, manovrando l'impennata dello spread (il differenziale tra Btp-Bund) che sfiorò i 600 punti alimentando un clima di terrorismo finanziario, politico e mediatico, con la connivenza dei poteri finanziari speculativi che determinarono il crollo delle azioni Mediaset in Borsa, realizzato con un comportamento autocratico di Napolitano che in quattro giorni ottenne le dimissioni di Berlusconi, nominò Mario Monti senatore a vita e lo impose a capo di un governo tecnocratico a cui lo stesso Berlusconi fu costretto a dare fiducia. Questo complotto contro il governo legittimo di uno Stato sovrano va ben oltre l'ambito personale. Lorenzo Bini Smaghi, membro del Comitato esecutivo della Bce dal giugno 2005 al 10 novembre 2011, a pagina 40 del suo recente libro Morire d'austerità rivela: «Non è un caso che le dimissioni del primo ministro greco Papandreou siano avvenute pochi giorni dopo il suo annuncio di tenere un referendum sull'euro e che quelle di Berlusconi siano anch'esse avvenute dopo che l'ipotesi di uscita dall'euro era stata ventilata in colloqui privati con i governi degli altri Paesi dell'euro». Hans-Werner Sinn, presidente dell'Istat tedesco, durante il convegno economico Fuehrungstreffen Wirtschaft 2013 organizzato a Berlino dal quotidiano Sueddeutsche Zeitung, ha rivelato negli scorsi giorni: «Sappiamo che nell'autunno 2011 Berlusconi ha avviato trattative per far uscire l'Italia dall'euro». Lo stesso Berlusconi, intervenendo sabato scorso a un raduno della Giovane Italia, ha rivelato: «Oggi operiamo con una moneta straniera, che è l'euro»; «Siamo nelle stesse condizioni dell'Argentina che emetteva titoli in dollari»; «Il Giappone ha un debito pubblico del 243% rispetto al Pil ma ha sovranità monetaria»; «Le mie posizioni nell'Ue hanno infastidito la Germania»; «La Germania ordinò alle sue banche di vendere i titoli italiani per far salire lo spread, provocando l'effetto gregge»; «Nel giugno 2011 Monti e Passera preparavano già il programma del governo tecnico»; «Nel 2011 ci fu una volontà precisa di far fuori il nostro governo»; «Al Quirinale mi dissero che per il bene del Paese avrei dovuto cedere la guida del governo ai tecnici». Nessuno si illude che la magistratura, ideologicamente schierata a favore della sinistra, interverrà per sanzionare Napolitano (che è il presidente del Csm) o per salvaguardare la sovranità nazionale dell'Italia dalla dittatura dell'Eurocrazia e della finanza globalizzata. Dobbiamo prendere atto che siamo in guerra. Abbiamo perso del tutto la sovranità monetaria, all'80% la sovranità legislativa e ci stanno spogliando della sovranità nazionale. Berlusconi, a 77 anni, limitato sul piano dell'agibilità politica, può oggi dare un senso alto alla sua missione politica contribuendo con tutto il suo carisma e le sue risorse al riscatto della nostra sovranità monetaria, legislativa, giudiziaria e nazionale dalla schiavitù dell'euro, dalla sudditanza di questa Ue alla Germania, ai banchieri e ai burocrati, dalla partitocrazia consociativa che ha ucciso la democrazia sostanziale e lo Stato di diritto, perpetuando uno Stato onerosissimo che impone il più alto livello di tassazione al mondo che finisce per condannare a morte le imprese. Ma bisogna rompere ogni indugio schierandosi con imprenditori, famiglie, sindaci e forze dell'ordine, promuovendo subito la rete di tutti coloro che condividono la missione di salvare gli italiani e far rinascere l'Italia libera, sovrana e federalista. Zapatero rivela: il Cav obiettivo di un attacco dei leader europei.
In un libro l'ex premier spagnolo svela i retroscena del G20 di Cannes nel 2011 e il pressing sull'Italia per accettare i diktat Fmi: "Si parlava già di Monti", scrive Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Vorremmo dire «clamoroso», ma non è così perché sapevamo da tempo, e lo abbiamo più volte scritto, che non solo in Italia ma anche dall'estero arrivavano pesanti pressioni per far fuori Silvio Berlusconi. L'ultima prova, che conferma la volontà di rovesciare un governo democraticamente eletto, la rivela l'ex premier spagnolo Luis Zapatero, che nel libro El dilema (Il dilemma), presentato a Madrid, porta alla luce inediti retroscena sulla crisi che minacciò di spaccare l'Eurozona. Il 3 e 4 novembre 2011 sono i giorni ad altissima tensione del vertice del G-20 a Cannes, sulla Costa Azzurra. Tutti gli occhi sono puntati su Italia e Spagna che, dopo la Grecia, sono diventate l'anello debole per la tenuta dell'euro. Il presidente americano Barack Obama e la cancelliera tedesca Angela Merkel mettono alle corde Berlusconi e Zapatero, cercando di imporre all'Italia e alla Spagna gli aiuti del Fondo monetario internazionale. I due premier resistono, consapevoli che il salvataggio da parte del Fmi avrebbe significato accettare condizioni capestro e cedere di fatto la sovranità a Bruxelles, com'era già accaduto con Grecia, Portogallo e Cipro. Ma la Germania con gli altri Paesi nordici, impauriti dagli attacchi speculativi dei mercati, considerano il vertice di Cannes decisivo e vogliono risultati a qualsiasi costo. Le pressioni sono altissime. Zapatero descrive la cena del 3 novembre, con il tavolo «piccolo e rettangolare per favorire la vicinanza e un clima di fiducia». Ma l'atmosfera è esplosiva. «Nei corridoi si parlava di Mario Monti», rivela il premier spagnolo. Già, Monti. Che solo una settimana dopo sarà nominato senatore a vita da Napolitano e che il 12 novembre diventerà premier al posto di Berlusconi. Il piano era già congegnato, con il Quirinale pronto a soggiacere ai desiderata dei mercati e di Berlino. La Merkel domanda a Zapatero se sia disponibile «a chiedere una linea di credito preventiva di 50 miliardi di euro al Fondo monetario internazionale, mentre altri 85 sarebbero andati all'Italia. La mia risposta fu diretta e chiara: no», scrive l'ex premier spagnolo. Allora i leader presenti concentrano le pressioni sul governo italiano perché chieda il salvataggio, sperando di arginare così la crisi dell'euro. «C'era un ambiente estremamente critico verso il governo italiano», ricorda Zapatero, descrivendo la folle corsa dello spread e l'impossibilità da parte del nostro Paese di finanziare il debito con tassi che sfiorano il 6,5 per cento. Insomma, i leader del G-20 sono terrorizzati dai mercati e temono che il contagio possa estendersi a Paesi europei come la Francia se non prendono il toro per le corna. Il toro in questo caso è l'Italia. «Momenti di tensione, seri rimproveri, invocazioni storiche, perfino invettive sul ruolo degli alleati dopo la seconda guerra mondiale...», caratterizzano il vertice. «Davanti a questo attacco - racconta l'ex leader socialista spagnolo - ricordo la strenua difesa, un catenaccio in piena regola» di Berlusconi e del ministro dell'Economia Giulio Tremonti. «Entrambi allontanano il pallone dall'area, con gli argomenti più tecnici Tremonti o con le invocazioni più domestiche di Berlusconi», che sottolinea la capacità di risparmio degli italiani. «Mi è rimasta impressa una frase che Tremonti ripeteva: conosco modi migliori di suicidio». Alla fine si raggiunge un compromesso, con Berlusconi che accetta la supervisione del Fmi ma non il salvataggio. Ma tutto ciò costerà caro al Cavaliere. «È un fatto - sostiene Zapatero - che da lì a poco ebbe effetti importantissimi sull'esecutivo italiano, con le dimissioni di Berlusconi, dopo l'approvazione della Finanziaria con le misure di austerità richieste dall'Unione europea, e il successivo incarico al nuovo governo tecnico guidato da Mario Monti».
Un governo, ora sappiamo con certezza, eletto da leader stranieri nei corridoi di Cannes e non dalla volontà popolare degli italiani. Verrà un giorno in cui l’Italia troverà il coraggio e l’onestà di rileggere (alcuni, se la coscienza li soccorrerà, lo faranno non senza vergogna) la storia di questi giorni, prima ancora di dedicarsi all’analisi del cosiddetto ventennio di Silvio Berlusconi. Perché è da qui, dai giorni tristi e terribili dell’umiliazione del Diritto, che bisognerà partire per spiegare come sia stato possibile arrivare al sabbah giacobino contro il Cavaliere al Senato in barba a regole, buon senso e dignità, scrive Giorgio Mulè, direttore di “Panorama”, nel suo editoriale. Era cominciato tutto dopo la sentenza di condanna del 2 agosto emessa (prima anomalia) da una sezione feriale della Cassazione, presieduta da un magistrato chiacchierone (seconda anomalia) che non avrebbe dovuto giudicare l’ex premier. Una sentenza in palese contraddizione con i verdetti di due sezioni «titolari» della Suprema corte (terza anomalia) che avevano valutato le stesse identiche prove nella vicenda della compravendita dei diritti televisivi giungendo alla conclusione opposta, e cioè che l’ex premier era innocente. Ma innocente nel profondo, senza ombra di dubbio e senza nemmeno una formula dubitativa che, come un sigaro, non si nega mai a nessuno. Una classe politica prigioniera della sua mediocrità e ossessionata dalla presenza di Berlusconi non poteva far altro che cogliere l’occasione. A cominciare da Beppe Grillo e dai suoi accoliti, arrivati in Parlamento con l’ambizioso programma fondato sull’eliminazione del Cav. Così, dal 2 agosto, è iniziata una corsa orgiastica e forsennata per liberarsi dell’odiato Caimano. In prima fila, a battere il tamburo per la caccia grossa, ci sono stati sempre loro, gli avanguardisti della Repubblica con i cugini del Fatto quotidiano, la falange editoriale che tiene al guinzaglio la mejo sinistra e che ha sempre vissuto con il complesso di disfarsi del male assoluto incarnato nell’uomo di Arcore. Il tutto portato avanti con la solita tecnica becera delle inchieste da buco della serratura grazie all’ausilio di compiacenti magistrati (quarta anomalia), della lettura distorta degli atti, del moralismo ipocrita un tanto al chilo e a senso unico. Una sentina maleodorante spacciata per giornalismo nobile dove si sorvola se a finire accusato di gravissimi reati c’è Carlo De Benedetti. Chi poteva fermare questa ordalia non l’ha fatto. Avrebbe potuto e dovuto farlo Giorgio Napolitano, in virtù dell’alto ed esclusivo ruolo che gli assegna la Costituzione. Avrebbe dovuto usare la tanto sbandierata moral suasion (quinta anomalia) per ricondurre alla ragione i sanculotti del suo ex partito e provare nell’ardua impresa di riuscirci con gli attuali maggiorenti; a cominciare da Matteo Renzi che scimmiotta Fonzie, si indigna per una battuta in un cartone animato dei Simpson e non si rende conto di essere la copia spiccicata (per la profondità delle riflessioni…) del simpatico Kermit, il leader indiscusso dei pupazzi del Muppet show. E invece dal Colle sono venute fuori interpretazioni pelose delle procedure e più o meno pubblici risentimenti per le sacrosante lamentele espresse da un Berlusconi profondamente deluso. Bisogna prendere atto chiaramente che Napolitano poteva concedere la grazia al Cavaliere e non solo per la pena principale ma anche per quella accessoria, cioè l’interdizione dai pubblici uffici, eventualità da lui espressamente negata nella lunga nota del 13 agosto. Non è vero che per la concessione del beneficio fosse necessario aver accettato la sentenza o aver iniziato a espiare la pena (sesta anomalia). È una balla. Il 5 aprile di quest’anno, il Quirinale comunicava: «Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ai sensi dell’articolo 87, comma 11, della Costituzione, ha oggi concesso la grazia al colonnello Joseph L. Romano III, in relazione alla condanna alla pena della reclusione (7 anni, ndr) e alle pene accessorie (interdizione perpetua dai pubblici uffici, ndr) inflitta con sentenza della Corte d’Appello di Milano del 15 dicembre 2010, divenuta irrevocabile il 19 settembre 2012. La decisione è stata assunta dopo aver acquisito la documentazione relativa alla domanda avanzata dal difensore avvocato Cesare Graziano Bulgheroni, le osservazioni contrarie del procuratore generale di Milano e il parere non ostativo del ministro della Giustizia». Per la cronaca: il colonnello era fra gli imputati del rapimento e delle successive torture dell’imam Abu Omar, non si è presentato mai al processo, non ha mai confessato alcunché, non si è mai pentito del gesto, non ha chiesto scusa a nessuno, non ha mai scontato un giorno di carcere e per la giustizia italiana era un latitante al pari del superboss Matteo Messina Denaro. La grazia giunse dal Colle dopo appena 7 mesi dalla pronuncia definitiva della Cassazione e con il parere contrario dei magistrati. C’è ancora qualche anima bella o dannata disposta a sostenere la tesi che il presidente della Repubblica non poteva adottare lo stesso metodo nei confronti di Silvio Berlusconi? Chiamiamo le cose con il loro nome: è mancato il coraggio per concedere la grazia. Il provvedimento avrebbe aperto una fase nuova nella storia di questo Paese, sarebbe stato l’atto di non ritorno verso la pacificazione dopo vent’anni di guerra combattuta nel nome dell’eliminazione per via giudiziaria del Cavaliere il quale, statene certi, avrebbe abbandonato la politica attiva. Il capo dello Stato ha avuto l’opportunità di consegnarsi alla storia e non l’ha fatto. E solo quando giungerà quel famoso giorno in cui gli avvenimenti di oggi potranno essere riletti senza veli e senza partigianerie capiremo se al suo mancato gesto dovremo aggiungere i caratteri poco commendevoli del cinismo, della pavidità o del calcolo politico. Nel quadro tenebroso dell’oggi trova un posto nitido Enrico Letta, il presidente del Consiglio che ha conferito a questo Paese una stabilità degna di un cimitero, come ha giustamente notato il Wall Street Journal. Incapace di avviare le riforme oramai improcrastinabili per l’Italia, Letta non è stato neppure capace di imporre il più impercettibile distinguo sulla giustizia (settima anomalia) ed è rimasto avvinghiato al doroteismo stucchevole di una linea che voleva tenere distinte la vicenda di Berlusconi e le sorti dell’esecutivo quando anche un bambino ne coglieva l’intimo intreccio. Ma i bambini, si sa, hanno la vista lunga. E ora tutti sanno, anche quelli dell’asilo, che l’unico orizzonte di Letta non è quello di varare le riforme, giustizia compresa, ma quello di mantenere il potere. E infatti eccoci all’ottava anomalia, Angelino Alfano: ha mollato il Pdl per fondare il Nuovo centrodestra, che al momento si distingue solo per la fedeltà interessata al governo. Sarebbe toccato proprio ad Angelino costringere Napolitano e Letta a guardare la realtà, a spalancare gli occhi sullo scempio del diritto che si stava consumando, a denunciare con argomenti solidi e di verità l’inganno di una procedura interpretata in maniera torbida e manigolda. Come quella della retroattività della legge Severino sulla decadenza (nona anomalia), che una pletora di giuristi e politici di buon senso non affini ma certamente lontani dal mondo berlusconiano voleva affidare al vaglio della Corte costituzionale per un’interpretazione autentica. Anche per questo motivo il luogotenente del Cav avrebbe dovuto elevare il caso B a caso internazionale, avrebbe dovuto sfidare in campo aperto i satrapi dell’informazione truccata. E invece ha preferito chinarsi sulla propria poltroncina, talmente affascinato, e impaurito di perderla, da consumare lo strappo di ogni linea politica e di ogni rapporto umano con il proprio leader. Napolitano, Letta, Alfano: in questo triangolo delle Bermude, che si autoalimenta nel nome dello status quo e di un governo fatto solo di tasse e bugie, c’è finito Silvio Berlusconi. E la conclusione della storia è stata ovvia: l’hanno inghiottito, macinato ed espulso senza tanti complimenti. Neppure il colpo di reni finale hanno sfruttato i tre del triangolo mortale, quello offerto dalle nuove prove squadernate dall’ex premier per chiedere la revisione del processo. Un percorso perfettamente legalitario, quello del Cav, condotto all’interno del perimetro disegnato dal Codice di procedura penale e che avrebbe dovuto fermare la mannaia dell’espulsione dal Senato. Per mille motivi, ma soprattutto per una possibile e atroce beffa: se la Corte d’appello darà ragione al Cavaliere e lo proscioglierà, lui si troverà già fuori da Palazzo Madama. E nessuno potrà dirgli: «Prego, ci scusi, si accomodi e riprenda il suo posto». Con il corollario non secondario che, senza lo scudo da senatore, i picadores in toga potranno infilzare il Cav e compiere l’ultimo sfregio: l’arresto (decima anomalia). In questa cornice assai triste tocca togliersi il cappello di fronte al coraggio di Francesco Boccia, deputato del Pd di prima fila (almeno fino al 9 dicembre, quando Matteo «Kermit» si presenterà sul palco della segreteria del partito) che martedì 26 novembre, dopo aver visto gli elementi esposti da Berlusconi, ha dichiarato: «Se fosse così mi aspetto una revisione del processo come per qualsiasi altro cittadino». E ancora: «In un Paese normale si sarebbe aspettata la delibera della Corte costituzionale sull’interpretazione della legge Severino». Un Paese normale questo? È una battutona, ditelo a Matteo «Kermit», che magari se la rivende. Dovrà fare in fretta, però. Perché adesso inizia un’altra faida, che lo metterà contro Letta e Napolitano. I tre non possono convivere: i loro interessi non sono convergenti, i loro orizzonti non corrispondono. Per questo, già prima dell’8 dicembre, ne vedremo delle belle. Sarà il seguito della politica da avanspettacolo che ci hanno rifilato negli ultimi mesi. Successe più o meno la stessa cosa ai tempi di monsieur de Robespierre e dei giacobini. Fatto fuori il re si illusero di avere la Francia in pugno. Manco per niente. Iniziarono a scannarsi l’un l’altro. Fin quando un giorno accompagnarono Robespierre, l’Incorruttibile, al patibolo. Gli gridavano dietro: «Morte al tiranno». Avete capito la storia?
Dopo gli Anni di piombo e le decine di magistrati uccisi dalle Brigate rosse e dall'eversione di destra e di sinistra la corrente di Md più vicina al Partito comunista scala le gerarchie della magistratura e impone il suo diktat, come racconta al Giornale un ex giudice di Md: «Serve una giurisprudenza alternativa per legittimare la lotta di classe e una nuova pace sociale». Ma serviva una legittimazione incrociata. Non dallo Stato né dal popolo, ma da quel Pci diventato Pds in crisi d'identità dopo il crollo del Muro di Berlino. Tangentopoli nacque grazie a un matrimonio d'interessi e un nemico comune: Bettino Craxi.
Quell'abbraccio tra Pci e Md che fece scattare Mani pulite. Magistratura democratica pianificò l'alleanza col Pds sul giustizialismo per ridare smalto alle toghe e offrire agli eredi del Pci il ruolo di moralizzatore contro la corruzione in Italia, scrive Sergio d'Angelo su “Il Giornale”. «La piattaforma politico-programmatica elaborata per la nuova Magistratura democratica poteva convincere ed attirare buona parte dei giovani magistrati, cresciuti politicamente e culturalmente nel crogiolo sessantottino. Ma bisognava fornire a Md una base giuridica teorica che potesse essere accettata dal mondo accademico e da una parte consistente della magistratura. Ancora una volta fu la genialità di Luigi Ferrajoli a trovare una risposta: «La giurisprudenza alternativa (...) è diretta ad aprire e legittimare (...) nuovi e più ampi spazi alle lotte delle masse in vista di nuovi e alternativi assetti di potere (...). Una formula che configura il giudice come mediatore dei conflitti in funzione di una pace sociale sempre meglio adeguata alle necessità della società capitalistica in trasformazione». In qualunque democrazia matura la prospettiva tracciata da Ferrajoli non avrebbe suscitato altro che una normale discussione accademica tra addetti ai lavori: ma la verità dirompente era tutta italiana. Celato da slogan pseudorivoluzionari, il dibattito nel corpo giudiziario ad opera di Md negli anni '70 e '80 presentava questo tema fondamentale: a chi spetta assicurare ai cittadini nuovi fondamentali diritti privati e sociali? Al potere politico (e di quale colore) attraverso l'emanazione di norme (almeno all'apparenza) generali ed astratte, o all'ordine giudiziario con la propria giurisprudenza «alternativa»? Un dubbio devastante cominciò a infiltrarsi tra i magistrati di Md. Se la magistratura (o almeno la sua parte «democratica») era una componente organica del movimento di classe e delle lotte proletarie, allora da dove proveniva la legittimazione dei giudici a «fare giustizia»? Dallo Stato (come era quasi sempre accaduto), che li aveva assunti previo concorso e li pagava non certo perché sovvertissero l'ordine sociale? Dal popolo sovrano? Da un partito? Quelli furono anni tragici per l'Italia. Tutte le migliori energie della magistratura furono indirizzate a combattere i movimenti eversivi che avevano scelto la lotta armata e la sfida violenta allo Stato borghese: i giudici «democratici» pagarono un prezzo elevato, l'ala sinistra della corrente di Md rimase isolata mentre l'ala filo-Pci di Md mantenne un basso profilo. Dell'onore postumo legato al pesante prezzo di sangue pagato dai giudici per mano brigatista beneficiarono indistintamente tutte le correnti dell'ordine giudiziario, compresa Md e la magistratura utilizzò questo vernissage per rifarsi un look socialmente accettabile. Solo la frazione di estrema sinistra di Md ne fu tagliata fuori, e questo determinò - alla lunga - la sua estinzione. Alcuni furono - per così dire - «epurati»; a molti altri fu garantito un cursus honorum di tutto rispetto, che fu pagato per molti anni a venire (Europarlamento, Parlamento nazionale, cariche prestigiose per chi si dimetteva, carriere brillanti e fulminee per altri). Quelli che non si rassegnarono furono di fatto costretti al silenzio e poi «suicidati» come Michele Coiro, già procuratore della Repubblica di Roma, colpito il 22 giugno 1997 da infarto mortale, dopo essere stato allontanato dal suo ruolo (promoveatur ut amoveatur) dal Csm. L'ala filo Pci/Pds di Md, vittoriosa all'interno della corrente, non era né poteva diventare un partito, in quanto parte della burocrazia statale. Cercava comunque alleati per almeno due ragioni: difendere e rivalutare un patrimonio di elaborazione teorica passato quasi indenne attraverso il terrorismo di estrema sinistra e la lotta armata e garantire all'intera «ultracasta» dei magistrati gli stessi privilegi (economici e di status) acquisiti nel passato, pericolosamente messi in discussione fin dai primi anni '90. Questo secondo aspetto avrebbe di sicuro assicurato alla «nuova» Md l'egemonia (se non numerica certo culturale) sull'intera magistratura associata: l'intesa andava dunque trovata sul terreno politico, rivitalizzando le parole d'ordine dell'autonomia e indipendenza della magistratura, rivendicando il controllo di legalità su una certa politica e proclamando l'inscindibilità tra le funzioni di giudice e pubblico ministero. Non ci volle molto ad individuare i partiti «nemici» e quelli potenzialmente interessati ad un'alleanza di reciproca utilità. Alla fine degli anni '80 il Pci sprofondò in una gravissima crisi di identità per gli eventi che avevano colpito il regime comunista dell'Urss. Non sarebbe stato sufficiente un cambiamento di look: era indispensabile un'alleanza di interessi fondata sul giustizialismo, che esercitava grande fascino tra i cittadini, in quanto forniva loro l'illusione di una sorta di Nemesi storica contro le classi dirigenti nazionali, che avevano dato pessima prova di sé sotto tutti i punti di vista. La rivincita dei buoni contro i cattivi, finalmente, per di più in forme perfettamente legali e sotto l'egida dei «duri e puri» magistrati, che si limitavano a svolgere il proprio lavoro «in nome del popolo». Pochi compresero che sotto l'adempimento di un mero dovere professionale poteva nascondersi un nuovo Torquemada. Il Pci/Pds uscì quasi indenne dagli attacchi «dimostrativi» (tali alla fine si rivelarono) della magistratura che furono inseriti nell'enorme calderone noto come Mani Pulite: d'altronde il «vero» nemico era già perfettamente inquadrato nel mirino: Bettino Craxi. Chi scrive non è ovviamente in grado di dire come, quando e ad opera di chi la trattativa si sviluppò: ma essa è nei fatti, ed è dimostrata dal perfetto incastrarsi (perfino temporale) dei due interessi convergenti. Naturalmente esistono alleanze che si costituiscono tacitamente, secondo il principio che «il nemico del mio nemico è mio amico», e non c'è bisogno di clausole sottoscritte per consacrarle. Quando il pool graziò il Pds e i giudici diventarono casta. Mani pulite con la regia di Md sfiorò il partito per dimostrare che avrebbe potuto colpire tutti Il Parlamento si arrese, rinunciando all'immunità. E così consegnò il Paese ai magistrati - continua Sergio d'Angelo Per rendersi credibile alla magistratura, il tacito accordo tra Md e Pds avrebbe dovuto coinvolgere magistrati della più varia estrazione e provenienza politica e culturale. Nel 1989 era entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale che apriva la strada ad un'attività dell'accusa priva di qualunque freno, nonostante l'introduzione del Gip (giudice delle indagini preliminari), in funzione di garanzia dei diritti della difesa. C'è un significativo documento - intitolato I mestieri del giudice - redatto dalla sezione milanese di Md a conclusione di un convegno tenutosi a Renate il 12 marzo 1988, in casa del pm Gherardo Colombo. In quel testo l'allora pm di Milano Riccardo Targetti tracciò una netta distinzione tra «pm dinamico» e «pm statico», schierandosi naturalmente a favore della prima tipologia, come il nuovo codice gli consentiva di fare. Che cosa legava tra loro i componenti del pool Mani pulite? Nulla. Che Gerardo D'Ambrosio (chiamato affettuosamente dai colleghi zio Jerry) fosse «vicino» al Pci lo si sapeva (lui stesso non ne faceva mistero), ma non si dichiarò mai militante attivo di Md. Gherardo Colombo era noto per aver guidato la perquisizione della villa di Licio Gelli da cui saltò fuori l'elenco degli iscritti alla P2: politicamente militava nella sinistra di Md, anche se su posizioni moderate. Piercamillo Davigo era notoriamente un esponente di Magistratura indipendente, la corrente più a destra. Francesco Greco era legato ai gruppuscoli dell'estrema sinistra romana (lui stesso ne narrava le vicende per così dire «domestiche»), ma nel pool tenne sempre una posizione piuttosto defilata. Infine, Di Pietro, una meteora che cominciò ad acquistare notorietà per il cosiddetto «processo patenti» (che fece piazza pulita della corruzione nella Motorizzazione civile di Milano) e l'informatizzazione accelerata dei suoi metodi di indagine, per la quale si avvalse dell'aiuto di due carabinieri esperti di informatica. Il 28 febbraio 1993, a un anno dall'arresto di Mario Chiesa, cominciano a manifestarsi le prime avvisaglie di un possibile coinvolgimento del Pds nell'inchiesta Mani pulite con il conto svizzero di Primo Greganti alias «compagno G» militante del partito, che sembra frutto di una grossa tangente. Il 6 marzo fu varato il decreto-legge Conso che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti. Il procuratore Francesco Saverio Borrelli va in tv a leggere un comunicato: la divisione dei poteri nel nostro Paese non c'era più. Il presidente Oscar Luigi Scalfaro si rifiuta di firmare il decreto, affossandolo. Alla fine di settembre il cerchio sembra stringersi sempre di più intorno al Pds, per tangenti su Malpensa 2000 e metropolitana milanese: tra smentite del procuratore di Milano Borrelli e timori di avvisi di garanzia per Occhetto e D'Alema, la Quercia è nel panico. Il 5 ottobre Il Manifesto titola I giudici scagionano il Pds: l'incipit dell'articolo - a firma Renata Fontanelli - è il seguente: «. La posizione di Marcello Stefanini, segretario amministrativo della Quercia e parlamentare, verrà stralciata e Primo Greganti (il «compagno G») verrà ritenuto un volgare millantatore. Il gip Italo Ghitti (meglio noto tra gli avvocati come «il nano malefico») impone alla Procura di Milano di indagare per altri quattro mesi poi il 26 ottobre come titola il Manifesto a pagina 4 titola D'Ambrosio si ritira dal pool per impedire speculazioni sui suoi rapporti «amicali» con il Pds. Quali indicazioni si possono trarre da questa vicenda? Il pool dimostrò che la magistratura sarebbe stata in grado di colpire tutti i partiti, Pds compreso; la Quercia era ormai un partito senza ideologia e il suo elettorato si stava fortemente assottigliando (era al 16%): c'era dunque la necessità di trovare un pensiero politico di ricambio, che poteva venire solo dall'esterno; nessuna forza politica avrebbe mai potuto modificare l'assetto istituzionale nonché l'ordinamento giudiziario senza il consenso della magistratura; alla magistratura fu fatto quindi comprendere che l'unico modo di conservare i propri privilegi sarebbe stato quello di allearsi con un partito in cerca di ideologia. Il Psi con Bettino Craxi, Claudio Martelli e Giuliano Amato avevano minacciato o promesso un drastico ridimensionamento dei poteri e privilegi dell'ordine giudiziario. Ma la reazione delle toghe fu tanto forte da indurre un Parlamento letteralmente sotto assedio e atterrito a rinunciare ad uno dei cardini fondamentali voluto dai costituenti a garanzia della divisione dei poteri: l'immunità parlamentare. A questo punto il pallino passò al Pds, che non tardò a giocarselo. Senza una vera riforma il Paese resterà ostaggio del potere giudiziario. I giudici sono scesi in guerra per non rinunciare ai privilegi, guidati dalla nuova "giustizia di classe" che Md è riuscita a imporre alle toghe. È arrivato il momento di tirare le somme su quanto è accaduto tra magistratura e politica negli ultimi venti anni. Magistratura democratica avrebbe dovuto rappresentare una componente del «movimento di classe» antagonista allo sviluppo capitalistico della società. L'ala filo-Pci della corrente fu decisamente contraria a questa scelta così netta, e per molti anni praticò una sorta di «entrismo» (né aderire né sabotare). La scelta di classe operata dalla sinistra di Md presentava rischi pesantissimi di isolamento all'interno della magistratura e tra le forze politiche egemoni nella sinistra, che la lotta armata delle brigate rosse evidenziò immediatamente nel corso degli anni '80 («né con lo Stato né con le Br? I brigatisti compagni che sbagliano?»). Alla fine degli Anni di piombo, in pratica l'ala «rivoluzionaria» della magistratura non esisteva già più, e quella filo-Pci ebbe campo libero. Il crollo dell'Urss gettò il partito egemone della sinistra nello sconcerto: il Pci non aveva più un'ideologia, né il cambiamento di sigla (Pds) poteva rivitalizzarlo. Al contrario, l'ala di Md filo Pci/Pds aveva costruito una immagine ed una ideologia di sé stessa - pagata anche col sangue di suoi aderenti di spicco - che poteva essere spesa su qualunque piazza, ma le mancava un alleato sotto la forma partito. L'interesse di entrambi era comunque troppo forte perché l'alleanza sfumasse, anche se non mancarono resistenze e ricatti reciproci: così, il Pci/Pds fu duramente minacciato (ed anche in piccola parte colpito) durante la stagione di Mani Pulite. Alla fine, intorno al 1994, l'alleanza andò in porto, e un partito senza ideologia accolse e fece propria (probabilmente senza salti di gioia) un'ideologia senza partito. Due ostacoli, tuttavia, si frapponevano tra questa alleanza e la conquista del potere: uno era il cosiddetto Caf (Craxi, Andreotti, Forlani); l'altro era interno alla magistratura, formato da tutti quei giudici che da sponde opposte si opponevano a questa operazione. Il primo ostacolo fu eliminato attraverso Mani pulite, al secondo si applicarono vari metodi; dal promoveatur ut amoveatur, ai procedimenti disciplinari, alla elevazione al soglio parlamentare eccetera. Così la magistratura più restia fu lusingata con l'obiettivo di mantenere i privilegi e la fetta di potere (anche economico) cui era stata abituata, al punto di farle accettare impunemente l'accordo che era sotto gli occhi di tutti. Il compito di questa Md era pressochè esaurito, in quanto il nemico principale (il Caf ma soprattutto Bettino Craxi) era stato abbattuto. Quando un nuovo nemico si presentò all'orizzonte, i cani da guardia dell'accordo (ora la magistratura nel suo complesso) non ci misero molto a tirar fuori zanne ed artigli, con l'appoggio del loro referente politico. Fantasie, opinioni personali, dirà qualcuno. Può darsi, ma certo occorre riflettere su tre punti cruciali dell'inchiesta Mani pulite, che sono - come tanti altri elementi - caduti nel dimenticatoio della Storia. Come abbiamo detto in precedenza, tra i membri del pool non c'era assolutamente nessuna identità culturale o «politica», e non può non destare perplessità la circostanza che essi furono messi insieme per compiere un'operazione così complessa e delicata: fu davvero per garantire il pluralismo e l'equidistanza fra i soggetti coinvolti o, come abbiamo sostenuto, per raccogliere e compattare tutte le diverse anime della magistratura? Quando esattamente fu costituito il pool? Al riguardo non abbiamo nessuna certezza, ma di sicuro esso esisteva già il 17 febbraio 1992, data dell'arresto di Mario Chiesa: chi, nei palazzi di giustizia milanesi e non solo, aveva la sfera di cristallo? L'allora console statunitense a Milano Peter Semler dichiarò di aver ricevuto da Antonio Di Pietro - nel novembre '91 - indiscrezioni sulle indagini in corso, il quale gli avrebbe anticipato l'arresto di Mario Chiesa (avvenuto nel febbraio '92) e l'attacco a Craxi e al Caf. In realtà, la magistratura nell'arco di oltre vent'anni e fino ai giorni nostri ha difeso sé stessa e il proprio status di supercasta: non già per motivi ideologico-politici bensì per autotutela da un nemico che appariva pericolosissimo. La casta, in altri termini, ha fatto e sempre farà quadrato a propria difesa, a prescindere dall'essere «toghe rosse» o di qualunque altro colore. L'accanimento contro Silvio Berlusconi riguarda - più che la sua persona - il ruolo da lui svolto ed il pericolo che ha rappresentato e potrebbe ancora rappresentare per la burocrazia giudiziaria e per gli eredi del Pci/Pds. Si può senz'altro convenire che i giudici Nicoletta Gandus (processo Mills), Oscar Magi (processo Unipol, per rivelazione di segreto istruttorio), Luigi de Ruggero (condanna in sede civile al risarcimento del danno per il lodo Mondadori in favore di De Benedetti) abbiano militato nella (ex) frazione di sinistra di Md, come pure il procuratore Edmondo Bruti Liberati (noto come simpatizzante del Pci/Pds): si può supporre che a quella corrente appartenga pure la presidente Alessandra Galli (processo di appello Mediaset). Nel novero dei giudici di sinistra si potrebbe anche ricomprendere la pm Boccassini: ma gli altri? Chi potrebbe attribuire in quota Md il giudice Raimondo Mesiano (primo processo con risarcimento del danno a favore di De Benedetti), il presidente Edoardo D'Avossa (I° grado del processo Mediaset), la presidente Giulia Turri (processo Ruby), il pm Fabio De Pasquale, il pm Antonio Sangermano, il presidente di cassazione Antonio Esposito e tutti gli altri che si sono occupati e si stanno occupando del «delinquente» Berlusconi? La verità è che la magistratura italiana da tempo è esplosa in una miriade di monadi fuori da qualunque controllo gerarchico e territoriale, essendo venuto meno (grazie anche al codice di procedura penale del 1989) perfino l'ultimo baluardo che le impediva di tracimare; quello della competenza territoriale, travolto dalla disposizione relativa alle cosiddette «indagini collegate» (ogni pm può indagare su tutto in tutto il Paese, salvo poi alla fine trasmettere gli atti alla Procura territorialmente competente). Ciascun pm è padrone assoluto in casa propria, e nessuno - nemmeno un capo dell'ufficio men che autorevole - può fermarlo. E la situazione non fa altro che peggiorare, come è sotto gli occhi di tutti coloro che sono interessati a vedere. La magistratura italiana - unica nel panorama dei Paesi occidentali democratici - è preda di un numero indeterminato di «giovani» (e meno giovani, ma anche meno sprovveduti) magistrati pronti a qualunque evenienza e autoreferenziali. Focalizzare l'attenzione solo su Magistratura democratica significa non cogliere appieno i pericoli che le istituzioni nazionali stanno correndo e correranno negli anni a venire, con o senza la preda Berlusconi.
L'ala «ex» comunista del Pd - dal canto suo - non può più abbandonare l'ideologia giustizialista, che ormai resta l'unica via che potrebbe portare quella forma-partito al potere. Una democrazia occidentale matura non può fare a meno di riflettere su questi temi, cercando una via di uscita dall'impasse politico-istituzionale in cui questo Paese si è infilato per la propria drammatica incoscienza, immaturità ed incapacità di governo: con buona pace di una ormai inesistente classe politica.» Sergio D'Angelo Ex giudice di Magistratura democratica.
A riguardo sentiamo il cronista che fa tremare i pm. "Sinistra ricattata dalle procure". Dopo 35 anni a seguire i processi nelle aule dei tribunali Frank Cimini è andato in pensione ma dal suo blog continua a svelare le verità scomode di Milano: "Magistrati senza controllo", scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. «Antonio Di Pietro è meno intelligente di me»: nel 1992, quando i cronisti di tutta Italia scodinzolavano dietro il pm milanese, Frank Cimini fu l'unico cronista giudiziario a uscire dal coro. Sono passati vent'anni, e Cimini sta per andare in pensione. Confermi quel giudizio? «Confermo integralmente». Sul motivo dell'ubriacatura collettiva dei mass media a favore del pm, Cimini ha idee precise: «C'era un problema reale, la gente non ne poteva più dei politici che rubavano, e la magistratura ha colto l'occasione per prendere il potere. Di Pietro si è trovato lì, la sua corporazione lo ha usato. Mani pulite era un fatto politico, lui era il classico arrampicatore sociale che voleva fare carriera. Infatti appena potuto si è candidato: non in un partito qualunque, ma nelle fila dell'unico partito miracolato dalle indagini». Uomo indubbiamente di sinistra, e anche di ultrasinistra («ma faccio l'intervista al Giornale perché sennò nessuno mi sta a sentire») Cimini (ex Manifesto, ex Mattino, ex Agcom, ex Tmnews) resterà nel palazzo di giustizia milanese come redattore del suo blog, giustiziami.it. E continuerà, dietro l'usbergo dell'enorme barba e dell'indipendenza, a dire cose per cui chiunque altro verrebbe arrestato. Sulla sudditanza degli editori verso il pool di Mani Pulite ha idee precise: «Gli editori in Italia non sono editori puri ma imprenditori che hanno un'altra attività, e come tali erano sotto scacco del pool: c'è stato un rapporto di do ut des. Per questo i giornali di tutti gli imprenditori hanno appoggiato Mani pulite in cambio di farla franca. Infatti poi l'unico su cui si è indagato in modo approfondito, cioè Berlusconi, è stato indagato in quanto era sceso in politica, sennò sarebbe stato miracolato anche lui. C'è stato un approfondimento di indagine, uso un eufemismo, che non ha pari in alcun paese occidentale. Ma lui dovrebbe fare mea culpa perché anche le sue tv hanno appoggiato la Procura». Da allora, dice Cimini, nulla è cambiato: nessuno controlla i magistrati. «Il problema è che la politica è ancora debole, così la magistratura fa quello che vuole. Il centrosinistra mantiene lo status quo perché spera di usare i pm contro i suoi avversari politici ma soprattutto perché gran parte del ceto politico del centrosinistra è ricattato dalle procure. Basta vedere come escono le cose, Vendola, la Lorenzetti, e come certe notizie spariscono all'improvviso». Nello strapotere della magistratura quanto conta l'ideologia e quanto la sete di potere? «L'ideologia non c'entra più niente, quella delle toghe rosse è una cavolata che Berlusconi dice perché il suo elettorato così capisce. Ma le toghe rosse non ci sono più, da quando è iniziata Mani pulite il progetto politico che era di Borrelli e non certo di Di Pietro o del povero Occhetto è stata la conquista del potere assoluto da parte della magistratura che ha ottenuto lo stravolgimento dello Stato di diritto con la legge sui pentiti. Un vulnus da cui la giustizia non si è più ripresa e che ha esteso i suoi effetti dai processi di mafia a quelli politici. Oggi c'è in galera uno come Guarischi che avrà le sue colpe, ma lo tengono dentro solo perché vogliono che faccia il nome di Formigoni». Conoscitore profondo del palazzaccio milanese, capace di battute irriferibili, Cimini riesce a farsi perdonare dai giudici anche i suoi giudizi su Caselli («un professionista dell'emergenza») e soprattutto la diagnosi impietosa di quanto avviene quotidianamente nelle aule: «Hanno usato il codice come carta igienica, hanno fatto cose da pazzi e continuano a farle». Chi passa le notizie ai giornali? «Nelle indagini preliminari c'è uno strapotere della Procura che dà le notizie scientemente per rafforzare politicamente l'accusa». E i cronisti si lasciano usare? «Se stessimo a chiederci perché ci passano le notizie, i giornali uscirebbero in bianco».
"La politica ha delegato alla magistratura tre grandi questioni politiche, il terrorismo, la mafia, la corruzione, e alcuni magistrati sono diventati di conseguenza depositari di responsabilità tipicamente politiche". A dirlo è Luciano Violante, ex presidente della Camera e esponente del Partito democratico. Secondo il giurista, inoltre, "la legge Severino testimonia il grado di debolezza" della politica perché non è "possibile che occorra una legge per obbligare i partiti a non candidare chi ha compiuto certi reati". "È in atto un processo di spoliticizzazione della democrazia che oscilla tra tecnocrazia e demagogia", ha aggiunto, "Ne conseguono ondate moralistiche a gettone tipiche di un Paese, l’Italia, che ha nello scontro interno permanente la propria cifra caratterizzante". Colpa anche di Silvio Berlusconi, che "ha reso ancora più conflittuale la politica italiana", ma anche della sinistra che "lo ha scioccamente inseguito sul suo terreno accontentandosi della modesta identità antiberlusconiana". "Ma neanche la Resistenza fu antimussoliniana, si era antifascisti e tanto bastava", aggiunge. Quanto alle sue parole sulla legge Severino e la decadenza del Cavaliere, Violante aggiunge: "Ho solo detto che anche Berlusconi aveva diritto a difendersi. Quando ho potuto spiegarmi alle assemblee di partito ho ricevuto applausi, ma oggi vale solo lo slogan, il cabaret. Difficile andare oltre i 140 caratteri di Twitter". E sulle toghe aggiunge: "Pentiti e intercettazioni hanno sostituito la capacità investigativa. Con conseguenze enormi. Occorrerebbe indicare le priorità da perseguire a livello penale, rivedendo l’obbligatorietà dell’azione che è un’ipocrisia costituzionale resa necessaria dal fatto che i pubblici ministeri sono, e a mio avviso devono restare, indipendenti dal governo".
Io quelli di Forza Italia li rispetto, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Conoscendoli, singolarmente, li rispetto molto meno: ma nell'insieme potrebbero anche sembrare appunto dei lealisti, dei coerenti, delle schiene dritte, gente che ha finalmente trovato una linea del Piave intesa come Berlusconi, come capo, come leader, come rappresentante di milioni di italiani che non si può cancellare solo per via giudiziaria: almeno non così. Non con sentenze infarcite di «convincimenti» e prove che non lo sono. Dunque rispetto quelli di Forza Italia - anche se in buona parte restano dei cavalier-serventi - perché tentano di fare quello che nella Prima Repubblica non fu fatto per Bettino Craxi e per altri leader, consegnati mani e piedi alla magistratura assieme al primato della politica. Solo che, dettaglio, Forza Italia ha perso: ha perso quella di oggi e ha perso quella del 1994. E non ha perso ieri, o un mese fa, cioè con Napolitano, la Consulta, la legge Severino, la Consulta, la Cassazione: ha colpevolmente perso in vent'anni di fallimento politico sulla giustizia. Dall’altra c’è qualcuno che ha vinto, anche se elencarne la formazione ora è complicato: si rischia di passare dal pretenzioso racconto di un’ormai stagliata «jurecrazia» - fatta di corti che regolano un ordine giuridico globale - all'ultimo straccione di pm o cronista militante. Resta il dato essenziale: vent’anni fa la giustizia faceva schifo e oggi fa identicamente schifo, schiacciata com'è sul potere che la esercita; e fa identicamente schifo, per colpe anche sue, la giustizia ad personam legiferata da Berlusconi, che in vent'anni ha solo preso tempo - molto - e alla fine non s'è salvato. Elencare tutte le forzature palesi o presunte per abbatterlo, magari distinguendole dalle azioni penali più che legittime, è un lavoro da pazzi o da memorialistica difensiva: solo la somma delle assoluzioni - mischiate ad amnistie e prescrizioni - brucerebbe una pagina. Basti l'incipit, cioè il celebre mandato di comparizione che fu appositamente spedito a Berlusconi il 21 novembre 1994 per essere appreso a un convegno Onu con 140 delegazioni governative e 650 giornalisti: diede la spallata decisiva a un governo a discapito di un proscioglimento che giungerà molti anni dopo. L’elenco potrebbe proseguire sino a oggi - intralciato anche da tutte le leggi ad personam che Berlusconi fece per salvarsi - e infatti è solo oggi che Berlusconi cade, anzi decade. Ciò che è cambiato, negli ultimi anni, è la determinazione di una parte della magistratura - unita e univoca come la corrente di sinistra che ne occupa i posti chiave - a discapito di apparenze che non ha neanche più cercato di salvare. I processi per frode legati ai diritti televisivi non erano più semplici di altri, anzi, il contrario: come già raccontato, Berlusconi per le stesse accuse era già stato prosciolto a Roma e pure a Milano. Ciò che è cambiato, appunto, è la determinazione dei collegi giudicanti a fronte di quadri probatori tuttavia paragonabili ai precedenti: ma hanno cambiato marcia. Si poteva intuirlo dai tempi atipici che si stavano progressivamente dando già al primo grado del processo Mills, che filò per ben 47 udienze in meno di due anni e fece lavorare i giudici sino al tardo pomeriggio e nei weekend; le motivazioni della sentenza furono notificate entro 15 giorni (e non entro i consueti 90) così da permettere che il ricorso in Cassazione fosse più che mai spedito. Ma è il processo successivo, quello che ora ha fatto fuori Berlusconi, ad aver segnato un record: tre gradi di giudizio in un solo anno (alla faccia della Corte Europea che ci condanna per la lunghezza dei procedimenti) con dettagli anche emblematici, tipo la solerte attivazione di una sezione feriale della Cassazione che è stata descritta come se di norma esaminasse tutti i processi indifferibili del Paese: semplicemente falso, la discrezionalità regna sovrana come su tutto il resto. Il paradosso sta qui: nel formidabile e inaspettato rispetto di regole teoriche - quelle che in dieci mesi giudicano un cittadino nei tre gradi - al punto da trasformare Berlusconi in eccezione assoluta. Poi, a proposito di discrezionalità, ci sono le sentenze: e qui si entra nel fantastico mondo dell'insondabile o di un dibattito infinito: quello su che cosa sia effettivamente una «prova» e che differenza ci sia rispetto a convincimenti e mere somme di indizi. Il tutto sopraffatti dal dogma che le sentenze si accettano e basta: anche se è dura, talvolta. Quando uscirono le 208 pagine della condanna definitiva in Cassazione, in ogni caso, i primi commenti dei vertici piddini furono di pochi minuti dopo: un caso di lettura analogica. E, senza scomodare espressioni come «teorema» o «prova logica» o peggio «non poteva non sapere», le motivazioni della sentenza per frode fiscale appalesavano una gigantesca e motivata opinione: le «prove logiche» e i «non poteva non sapere» purtroppo abbondavano e abbondano. «È da ritenersi provato» era la frase più ricorrente, mentre tesi contrarie denotavano una «assoluta inverosimiglianza». Su tutto imperava l’attribuzione di una responsabilità oggettiva: «La qualità di Berlusconi di azionista di maggioranza gli consentiva pacificamente qualsiasi possibilità di intervento», «era assolutamente ovvio che la gestione dei diritti fosse di interesse della proprietà», «la consapevolezza poteva essere ascrivibile solo a chi aveva uno sguardo d’insieme, complessivo, sul complesso sistema». Il capolavoro resta quello a pagina 184 della sentenza, che riguardava la riduzione delle liste testimoniali chieste dalla difesa: «Va detto per inciso», è messo nero su bianco, «che effettivamente il pm non ha fornito alcuna prova diretta circa eventuali interventi dell’imputato Berlusconi in merito alle modalità di appostare gli ammortamenti dei bilanci. Ne conseguiva l'assoluta inutilità di una prova negativa di fatti che la pubblica accusa non aveva provato in modo diretto». In lingua italiana: l’accusa non ha neppure cercato di provare che Berlusconi fosse direttamente responsabile, dunque era inutile ammettere testimoni che provassero il contrario, cioè una sua estraneità. Ma le sentenze si devono accettare e basta. Quando Berlusconi azzardò un videomessaggio di reazione, in settembre, Guglielmo Epifani lo definì «sconcertante», mentre Antonio Di Pietro fece un esposto per vilipendio alla magistratura e Rosy Bindi parlò di «eversione». Il resto - la galoppata per far decadere Berlusconi in Senato - è cronaca recente, anzi, di ieri, Il precedente di Cesare Previti - che al termine del processo Imi-Sir fu dichiarato «interdetto a vita dai pubblici uffici» - è pure noto: la Camera ne votò la decadenza ben 14 mesi dopo la sentenza della Cassazione. Allora come oggi, il centrosinistra era dell’opinione che si dovesse semplicemente prendere atto del dettato della magistratura, mentre il centrodestra pretendeva invece che si entrasse nel merito e non ci si limitasse a un ruolo notarile. Poi c’è il mancato ricorso alla Corte Costituzionale per stabilire se gli effetti della Legge Severino possano essere retroattivi: la Consulta è stata investita di infinite incombenza da una ventina d’anni a questa parte - comprese le leggi elettorali e i vari «lodi» regolarmente bocciati – ma per la Legge Severino il Partito democratico ha ritenuto che la Corte non dovesse dire la sua. Il 30 ottobre scorso, infine, la Giunta per il regolamento del Senato ha stabilito che per casi di «non convalida dell’elezione» il voto dovesse essere palese, volontà ripetuta ieri dal presidente del Senato: nessun voto segreto o di coscienza, dunque. Poi - ma è un altro articolo, anzi, vent'anni di articoli - ci sono le mazzate che il centrodestra si è tirato da solo. La Legge Severino, come detto. Il condono tombale offerto a Berlusconi dal «suo» ministro Tremonti nel 2002 - che l'avrebbe messo in regola con qualsivoglia frode fiscale – ma che al Cavaliere non interessò. Il demagogico inasprimento delle pene per la prostituzione minorile promosso dal «suo» ministro Carfagna nel 2008. Però, dicevamo, non ci sono solo gli autogol: c’è il semplice non-fatto o non-riuscito degli ultimi vent’anni. Perché nei fatti c’era, e c’è, la stessa magistratura. Non c’è la separazione delle carriere, lo sdoppiamento del Csm, le modifiche dell’obbligatorietà dell’azione penale, l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione, la responsabilità civile dei giudici, i limiti alle intercettazioni. Ci sono state, invece, le leggi sulle rogatorie, la Cirami, i vari lodi Maccanico-Schifani-Alfano, l’illegittimo impedimento: pannicelli caldi inutili o, per un po’, utili praticamente solo a lui. Per un po’. Solo per un po’. Fino al 27 novembre 2013.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
LA TRUFFA IDEOLOGICA DELLA SINISTRA E LA SUA AVVERSIONE CONTRO SILVIO BERLUSCONI.
Eco fu il migliore della sinistra che si crede sempre migliore. Incarnò alla perfezione la presunta superiorità antropologica dei progressisti sugli "altri". Rinunciò a capire gli italiani che sognavano una destra liberale preferendo attaccare il mondo berlusconiano, scrive Alessandro Gnocchi, Domenica 21/02/2016, su “Il Giornale”. Nel 2005 Luca Ricolfi scrisse il saggio Perché siamo antipatici. La sinistra e il complesso dei migliori (Longanesi). Il sociologo analizzava la reazione degli intellettuali, più o meno militanti a seconda dei casi, di fronte all'avanzata del berlusconismo. Già nel 1994, dopo la clamorosa sconfitta della gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto, si faceva strada la teoria delle due Italie. Una virtuosa, minoritaria e di sinistra. L'altra avida, corrotta, meschina, maggioritaria e di destra. Una colta, amante della lettura. L'altra ignorante, schiava delle televisioni. Tra i molti esempi di questa mentalità, sorda e cieca innanzi al Paese, felice di crogiolarsi nel pregiudizio, Ricolfi citava anche il professore Umberto Eco. In effetti Eco, nel 2001, su Repubblica aveva teorizzato «al meglio» la superiorità antropologica della sinistra, e diviso i cittadini di destra in due categorie. La prima. L'Elettorato Motivato è composto dal «leghista delirante», dall'«ex fascista», e da tutti coloro che, «avendo avuto contenziosi con la magistratura, vedono nel Polo un'alleanza che porrà freno all'indipendenza dei pubblici ministeri». La seconda. L'Elettorato Affascinato «non ha un'opinione politica definita, ma ha fondato il proprio sistema di valori sull'educazione strisciante impartita da decenni dalle televisioni, e non solo da quelle di Berlusconi. Per costoro valgono ideali di benessere materiale e una visione mitica della vita, non dissimile da quella di coloro che chiameremo genericamente i Migranti Albanesi». Marcello Veneziani riassunse in una formula poi ripresa da tutti - incluso Ricolfi - tale modo di vedere le cose: «razzismo etico». Rientrano in questo schema intellettuale, che ha avuto un nefasto influsso sulla vita culturale del Paese, alcune provocazioni del professore: gli appelli contro Berlusconi, lo sciopero dei consumi di prodotti delle aziende di Berlusconi, la promessa (non mantenuta) di abbandonare il Paese in caso di vittoria elettorale di Berlusconi, il paragone tra Hitler e Berlusconi, le rampogne contro il populismo e il fascismo strisciante di Berlusconi. Non sorprende che, a un certo punto, Eco fosse rimproverato da una parte dei suoi compagni di strada (oltre Ricolfi, ricordiamo Franco Cordelli, Erri De Luca, Gianni Vattimo) perché parlava soltanto di Berlusconi, ottenendo l'effetto di renderlo ancora più forte, mentre ignorava le gravi lacune della sinistra. Lui rispose così alle critiche, in un'intervista rilasciata a Dino Messina e pubblicata dal Corriere della Sera: «Guardi, l'Italia nei cinque anni appena trascorsi si è messa sulla strada del declino. Se andiamo avanti così diventiamo definitivamente un Paese da Terzo Mondo. Figurarsi se di fronte a un tale rischio mi metto a parlare della barca di D'Alema, che pure mi permetterebbe di fare delle bellissime battute». Era appena uscito A passo di gambero. Guerre calde e populismo mediatico (Bompiani, 2006) una raccolta di saggi sull'era Berlusconi. Al di là dello sdegnato giudizio etico, c'era poco. A Eco, come a molti altri, mancava la curiosità di scoprire davvero chi fossero e cosa volessero i milioni di italiani che speravano in una svolta liberale. La sua ultima avventura editoriale, la fondazione della casa editrice La Nave di Teseo, appena varata insieme con Elisabetta Sgarbi, rispondeva al desiderio di non pubblicare i suoi ultimi libri con la Mondadori della famiglia Berlusconi, che aveva acquistata Rcs Libri, e con essa la Bompiani, il suo editore storico. Venerdì prossimo La nave di Teseo pubblicherà Pape Satàn Aleppe. Cronache di una società liquida, libro che nasce dalle Bustine di Minerva, la rubrica di Eco sul settimanale l'Espresso. Si parlerà anche di politici. Almeno uno, sapete già chi è.
La «Nave» della superiorità antropologica, scrive Alessandro Gnocchi, Mercoledì 25/11/2015, su "Il Giornale". Ieri è andato in scena, sulle pagine de la Repubblica, l'eterno ritorno dell'anti-berlusconismo, la malattia senile della sinistra rimasta senza idee. Questa volta il bersaglio è Marina Berlusconi, presidente del Gruppo Mondadori. L'occasione per lucidare le armi impolverate è fornita dalla fondazione di una nuova casa editrice, La nave di Teseo. Al timone ci sarà Elisabetta Sgarbi, che ha rassegnato le dimissioni da Bompiani in seguito alla acquisizione di Rcs Libri (e quindi di Bompiani) da parte del Gruppo Mondadori. Una concentrazione, a suo dire, preoccupante perché viatico alla omologazione della proposta editoriale. Con sé, Elisabetta Sgarbi avrà editor e autori provenienti anch'essi da Bompiani: Mario Andreose, Eugenio Lio, Umberto Eco, Sandro Veronesi, Pietrangelo Buttafuoco, Edoardo Nesi e altri. Due giorni fa, da Segrate era filtrato il dispiacere per questa decisione. Elisabetta Sgarbi rifiutava interpretazioni politiche o ideologiche. Meglio la frammentazione o la concentrazione per rilanciare il settore? La qualità è appannaggio dei piccoli editori, dei grandi o di entrambi? A ciascuno le proprie opinioni. A questo punto, in qualunque Paese al mondo, la parola sarebbe passata al mercato, cioè ai lettori. Ma siamo in Italia, e ci ha pensato la Repubblica a trasformare la questione editoriale in questione ideologica, mettendo il cappello su La nave di Teseo. Per accendere le polveri, bastano le parole di Elisabetta Sgarbi, che racconta dal suo punto di vista il rapporto con Marina Berlusconi: «Non ha capito perché ce ne andiamo. E soprattutto non ha accettato la possibilità di una nostra autonomia editoriale e gestionale». Glossa di Umberto Eco: «Qualsiasi cosa avesse detto, Marina non avrebbe capito». Ieri pomeriggio Elisabetta Sgarbi, in un'intervista al sito IlLibraio.it, ha aggiunto: «Ognuno avrebbe dovuto rinunciare a qualcosa per tenere la Bompiani unita. Ma se si è proprietari del 100% di qualcosa, non si è tenuti a raggiungere accordi». E ha descritto come «svolti nella più assoluta cordialità» gli incontri con «Ferrari, Ernesto Mauri (soprattutto), e una volta con Marina e Silvio». Secondo indiscrezioni, inoltre, i «fuoriusciti» hanno anche provato a comprare Bompiani. Tentativo non realistico. In ogni caso, l'indipendenza del marchio, all'interno del Gruppo, non è mai stata in discussione come suggerisce la storia delle precedenti acquisizioni di Segrate. Chiedere informazioni a Eugenio Scalfari, pubblicato da Einaudi e omaggiato con un Meridiano Mondadori. Comunque a la Repubblica non importa la ricostruzione dei fatti. Importa solo che Marina di cognome faccia Berlusconi perché questo consente di rilanciare un «grande» classico: la superiorità antropologica della sinistra. Ecco la prosa di Francesco Merlo: «E torna la contrapposizione dei tipi, che sono opposti per stile e per educazione, due donne-capitano che non possono stare sulla stessa barca, anzi sulla stessa nave, Elisabetta su quella di Teseo, il fragile e felice legno degli scrittori, e Marina sulla barca dell'industria culturale più grande e più decaduta d'Italia. E infatti l'una parlava di umanesimo cosmopolita e l'altra di azienda, l'una di autori da allevare e l'altra di vendite che non aumentano. Ed Elisabetta fa imbizzarrire Umberto Eco mentre Marina si consulta con Alfonso Signorini». Sono «donne incompatibili e incomunicabili non per ideologia, ma per antropologia». Esistono dunque due specie. Di là ci sono le persone colte, raffinate, disinteressate; di qua gli ignoranti, i rozzi, gli affaristi. Questa grottesca rappresentazione della realtà perseguita l'Italia da vent'anni, svilendo ogni dibattito. L'industria culturale «più decaduta» è la sinistra che vive di pregiudizi.
Ecco cosa pensiamo di Umberto Eco. Il coccodrillo-verità di Libero, scrive Fausto Carioti il 21 febbraio 2016 su “Libero Quotidiano”. De mortuis nihil nisi bonum. Ma se il defunto è l'intellettuale italiano più noto nel mondo c' è anche l’obbligo della verità. Tutta, inclusa quella sgradevole. L' autore del Nome della rosa è stato tante cose. Politicamente parlando è stato l'intellettuale più autorevole tra coloro che hanno diviso l'Italia in due, per venti lunghissimi anni. Da una parte chi studia, legge (preferibilmente Repubblica e Micromega) e ha una coscienza: l'Italia dei giusti. Dall' altra, l'Italia della barbarie: delinquenti, favoreggiatori di delinquenti, subumani della cultura. In parole povere: tutti coloro che hanno votato per Silvio Berlusconi. Una dicotomia che ha fatto di Umberto Eco il grande teorico della inferiorità etico-culturale degli elettori di centrodestra. Il difetto di Eco non era la sua antipatia viscerale per il Cavaliere, che nel 2006 lo spinse ad annunciare la fuga dall' Italia (figuriamoci) se avesse vinto Berlusconi e che è appartenuta e appartiene a tanti, anche a destra e che spocchiosi non sono (non sempre, almeno). Era invece il disprezzo antropologico dell'intellettuale illuminato per milioni di italiani. Quel «razzismo etico» che gli è costato un giudizio durissimo da un intellettuale di sinistra senza paraocchi come Luca Ricolfi. Il quale, ricordando come si comportò nella seconda metà degli anni Novanta la categoria cui lui stesso appartiene, scrisse sulla Stampa: «Fu proprio in quell' epoca che la sinistra, tramortita e incredula di fronte a un elettorato che aveva osato preferirle Berlusconi, iniziò a rivedere drasticamente il proprio giudizio sugli italiani. Visto che non la votavano, e le preferivano quel cialtrone di Berlusconi, gli italiani dovevano essere un popolo ben arretrato, individualista, amorale e privo di senso civico. Una teoria, questa, che raggiunse il suo apice, al limite del ridicolo, con l'appello elettorale di Umberto Eco nel 2001, in cui gli italiani che avessero osato votare Berlusconi venivano descritti con un disprezzo ed un semplicismo che, in una persona colta, si spiegano solo con l'accecamento ideologico». Accecamento ideologico: per un intellettuale, cioè per colui la cui identità e professione sono le idee, l'accusa peggiore. È anche quella che dipinge meglio l'Eco degli scritti politici (chiamiamole pure invettive). Dall' appello firmato nel 1971 contro il «commissario torturatore» Luigi Calabresi - padre del direttore di quella Repubblica che ieri commemorava Eco - agli appelli, alle interviste, a certe "Bustine di Minerva" vergate per l'ultima pagina dell'Espresso. L' apice, ma anche la teorizzazione che ha dato dignità a tanti deliri del progressismo italiano (vale la pena di ripeterlo: intrinsecamente razzisti, perché basati sulla superiorità antropologica dell'homo sinistriensis), è proprio l'appello che Repubblica mise in pagina l'8 maggio del 2001. Tonitruante sin dal titolo: «Non possiamo astenerci dal referendum morale». Lì Eco divideva «l'elettorato potenziale del Polo» in due. C'era l'Elettorato Motivato, del quale facevano parte «il leghista delirante», «l'ex fascista» e quelli che, «avendo avuto contenziosi con la magistratura, vedono nel Polo un'alleanza che porrà freno all' indipendenza dei pubblici ministeri». E poi c' era l'Elettorato Affascinato, composto da chi legge «pochi quotidiani e pochissimi libri», persone che «salendo in treno comperano indifferentemente una rivista di destra o di sinistra purché ci sia un sedere in copertina». «Che senso ha parlare a questi elettori di off shore», inveiva Eco, «quando al massimo su quelle spiagge esotiche desiderano poter fare una settimana di vacanza con volo charter?». Criminali e gente in malafede, dunque, assieme a ignoranti lobotomizzati dalle televisioni e da un sogno di benessere a buon mercato. Spiriti meschini, paria del suffragio universale, personaggi che nella democrazia illuminista di Eco non avevano diritto alla cittadinanza e probabilmente nemmeno allo status di rifugiato. In quella pagina Eco scrisse anche che, se avesse vinto il Polo, «tutti i giornali, il Corriere della Sera, la Repubblica, la Stampa, il Messaggero, il Giornale, e via via dall' Unità al Manifesto, compresi i settimanali e i mensili, dall' Espresso a Novella 2000, sino alla rivista online Golem», sarebbero finiti nelle mani dello «stesso proprietario», ovviamente Berlusconi. Il quale, come noto, avrebbe vinto nel 2001 e nel 2008 per trovarseli tutti contro: la previsione dello scienziato sociale Eco fu falsificata, ma lo status dell'autore non ne risentì. Non avrebbe mai cambiato idea. Ripubblicò il testo del 2001 in una raccolta del 2006 (anno in cui ovviamente scrisse anche l' ennesimo appello in occasione dell' ennesimo «appuntamento drammatico» elettorale) e in quell' occasione difese gli insulti che cinque anni prima aveva distribuito su metà degli italiani, paragonando se stesso agli intellettuali che resistettero al fascismo: «Come se ai loro tempi si fosse imputato (si parva licet componere magnis) ai Rosselli, ai Gobetti, ai Salvemini, ai Gramsci, per non dire dei Matteotti, di non essere abbastanza comprensivi e rispettosi nei confronti del loro avversario». Il fatto che «oggi Umberto Eco a Ventotene ci va - se lo vuole - in vacanza», come ha scritto lo storico Giovanni Orsina, non pareva scuotere le sue certezze. Nel dibattito elettorale, argomentava Eco in quel gennaio di dieci anni fa, «le critiche all' avversario devono essere severe, spietate, per potere convincere almeno l'incerto». Ma allora è questo il compito dell'intellettuale? Insultare, drammatizzare, umiliare il prossimo affinché voti come lui gli dice di fare? Abitante spocchioso dei quartieri alti della Moralità, quando di mezzo c'era la politica Eco non aveva nulla della leggerezza e dell'umanità di un Edmondo Berselli, per restare nella sinistra colta di matrice bolognese. Una vita di successi, lo status di grande maestro universalmente riconosciuto, ma in fondo Eco è rimasto sempre lo stesso di quel saggio che scrisse a 29 anni, in cui Mike Bongiorno era definito «esempio vivente e trionfante del valore della mediocrità», la rappresentazione di «un ideale che nessuno deve sforzarsi di raggiungere perché chiunque si trova già al suo livello». Era già tutto lì, nel 1961. Disprezzo per l'italiano medio e accecamento ideologico inclusi. Accecato dall' ideologia, ha sparato ad alzo zero su chi non votava come voleva lui: criminali oppure ignoranti lobotomizzati dalle tv. Il manicheo che teorizzava l'inferiorità etica della destra Umberto Eco nel febbraio del 2011 al Palasharp di Milano chiede le dimissioni di Silvio Berlusconi durante una manifestazione organizzata da Libertà e Giustizia.
La Carlucci e il PdL contro i libri di scuola: “Propagandano il comunismo, vanno cambiati”, scrive "Giornalettismo" il 12/04/2011. Secondo 19 deputati del Popolo delle Libertà, scrive l’agenzia Dire, c’è bisogno di una commissione d’inchiesta per valutarne l’imparzialità. Dopo i giudici, anche i libri di testo contro Silvio Berlusconi. Secondo 19 deputati del Pdl, capitanati da Gabriella Carlucci, i testi scolastici di storia, su cui studiano migliaia di ragazzi, nasconderebbero “tentativi subdoli di indottrinamento” per “plagiare” le giovani generazioni “a fini elettorali” dando “una visione ufficiale della storia e dell’attualità asservita a una parte politica”, il centrosinistra, “contro la parte politica che ne è antagonista”, ossia il centrodestra. Di fronte a questa situazione definita “vergognosa”, secondo i parlamentari del Pdl, il parlamento “non può far finta di non vedere” e per questo chiedono, attraverso una proposta di legge, l’istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta “sull’imparzialità dei libri di testo scolastici”. Il progetto di legge è stato depositato alla Camera da Carlucci il 18 febbraio scorso e assegnato alla commissione Cultura il 14 marzo. In attesa dell’avvio dell’esame, in questi giorni la proposta è stata sottoscritta da altri colleghi di partito (ieri si sono aggiunte nuove firme e altre ancora ne stanno arrivando), tra cui il capogruppo Pdl in commissione Cultura, Emerenzio Barbieri. Nella premessa, gli esponenti di maggioranza si chiedono: “Può la scuola di Stato, quella che paghiamo con i nostri soldi, trasformarsi in una fabbrica di pensiero partigiano?” E la “battaglia partigiana”, secondo il firmatari, viene messa in atto “osannando l’attuale schieramento di sinistra” e “gettando fango sui loro avversari”. Per “capire la gravità del problema”, sostengono i 19 deputati, “basta sfogliare la maggior parte dei libri che oggi troviamo nelle scuole, sui banchi dei nostri figli”. Scopo della Commissione d’inchiesta? “Verificare quali sono i libri faziosi- spiega Barbieri interpellato dalla ‘Dire’- e dargli il tempo di adeguarsi prima di farli ritirare dal mercato, mica mandarli al macero…”. Gli altri firmatari della proposta di legge Carlucci, che mette ‘all’indice’ i libri di testo definiti “partigiani”, sono: Barani, Botta, Lisi, Scandroglio, Bergamini, Biasotti, Castiello, Di Cagno Abbrescia, Di Virgilio, Dima, Girlanda, Holzmann, Giulio Marini, Nastri, Sbai, Simeoni e Zacchera. Nella premessa, si fanno alcuni esempi dei testi ‘incriminati’, specificando che “in Italia, negli ultimi cinquant’anni, lo studio della storia è stato spesso sostituito da un puro e semplice tentativo di indottrinamento ideologico” retaggio “dell’idea gramsciana della conquista delle casematte del potere” che “si è propagato attraverso l’insegnamento della storia e della filosofia nelle scuole”. Si cita ‘La storia’ di Della Peruta-Chittolini-Capra, edito da Le Monnier, che descrive “tre personaggi storici: Palmiro Togliatti ‘un uomo politico intelligente, duttile e capace di ampie visioni generali’; Enrico Berlinguer, ‘un uomo di profonda onestà morale e intellettuale, misurato e alieno alla retorica; Alcide De Gasperi ‘uno statista formatosi nel clima della tradizione politica cattolica’”. Ma anche Elementi di storia’ di Camera-Fabietti, edito da Zanichelli, ‘reo’, ad avviso del Pdl, di sostenere che “l’ignominia dei gulag sovietici non è dipesa da questo sacrosanto ideale (il comunismo), ma dal tentativo utopico di tradurlo immediatamente in atto o peggio dalla conversione di Stalin al tradizionale imperialismo”. E ancora, la ‘Storia’, volume III, di De Bernardi-Guarracino, edito da Bruno Mondadori, per il quale dal 1948 “l’attuazione della Costituzione sarebbe diventato uno degli obiettivi dell’azione politica delle forze di sinistra e democratiche”. E si arriva ai tempi più recenti. “Con la caduta del Muro di Berlino e con la fine dell’ideologia comunista in Italia- si precisa nella premessa alla proposta- i tentativi subdoli di indottrinamento restano tali” e anzi “si rafforzano e si scagliano” contro “la parte politica che oggi è antagonista della sinistra”, quella guidata da Berlusconi. Nella proposta di legge Carlucci, sottoscritta alla Camera da altri 18 deputati Pdl per istituire una Commissione d’inchiesta per verificare “l’imparzialità dei libri di testo scolastici”, la messa all’indice viene supportata infine dai passaggi che descrivono gli ultimi 15/20 anni di storia politica italiana, ossia l’era berlusconiana. Uno degli esempi che, secondo i firmatari, “osanna” agli occhi degli studenti i partiti di centrosinistra lo si ritrova ne ‘La storia’ di Della Peruta-Chittolini-Capra, edito da Le Monnier, a proposito del Partito democratico della sinistra: “Il Pds- è scritto- intende proporsi come il polo di aggregazione delle forze democratiche e progressiste italiane” con “un programma di riforme politico sociali miranti a rendere più governabile il Paese”. Si tira poi in ballo la descrizione che L’età contemporanea di Ortoleva-Revelli, edito da Bruno Mondadori, fa di Oscar Luigi Scalfaro: “Dopo aver abbandonato l’esercizio della magistratura per passare all’attività politica nel partito democristiano” si è segnalato “per il rigore morale e la valorizzazione delle istituzioni parlamentari”. Ma il testo che più si distingue “per la quantità di notizie partigiane e propagandistiche” è, secondo i 19 deputati Pdl, quello di Camera e Fabietti. In Elementi di storia, citano, viene descritta l’attuale presidente del Pd, Rosy Bindi, come la “combattiva europarlamentare” che, ai tempi della militanza nella Democrazia cristiana, sollecitava ad “allontanare dalle cariche di partito” tutti “i propri esponenti inquisiti”. E come viene descritto l’antagonista Berlusconi? Nel 1994, citano ancora i parlamentari dalle pagine del libro di testo, “con Berlusconi presidente del Consiglio, la democrazia italiana arriva a un passo dal disastro”. Secondo gli autori, “l’uso sistematicamente aggressivo dei media, i ripetuti attacchi alla magistratura, alla Direzione generale antimafia, alla Banca d’Italia, alla Corte costituzionale e soprattutto al presidente della Repubblica condotti da Berlusconi e dai suoi portavoce esasperarono le tensioni politiche nel Paese”. L’elenco dei libri “naturalmente potrebbe continuare ancora per molto - conclude il Pdl - ma bastano questi esempi per capire la gravità della questione”.
L’INCHIESTA MANI PULITE.
L’inchiesta «Mani Pulite» a cura di Massimo Parrini su "Il Corriere della Sera".
Lunedì 17 febbraio 1992. Tangenti, arrestato presidente Pio Albergo Trivulzio. Mario Chiesa, 47 anni, presidente socialista del Pio Albergo Trivulzio, è arrestato in flagrante a Milano mentre riceve una tangente di sette milioni di lire.
Mercoledì 22 aprile 1992. Milano, otto arresti per tangenti. A Milano otto imprenditori sono arrestati per corruzione, concussione e abuso d’ufficio nell’ambito dell’inchiesta Mani pulite. Gli ordini di cattura nei confronti di Gabriele Mazzalveri, Franco Uboldi, Clemente Rovati, Giovanni Zaro, Claudio Maldifassi, Giovanni Pozzi, Bruno Greco e Fabio Lasagni sono stati richiesti dal pubblico ministero Antonio Di Pietro, titolare dell’inchiesta nata con l’arresto del presidente del Pio Albergo Trivulzio Mario Chiesa (17 febbraio). Gli arrestati devono rispondere di affari conclusi dal 1979 non con il Pio Albergo Trivulzio ma con altri enti: l’Ipab, l’ente comunale di assistenza, gli ospedali Fatebenefratelli, Gaetano Pini, Paolo Pini e Bassini.
Sabato 2 maggio 1992. Milano, avvisi di garanzia a Tognoli e Pillitteri. Avvisi di garanzia per due ex sindaci di Milano adesso deputati del Psi: Carlo Tognoli (ricettazione) e Paolo Pillitteri (ricettazione e corruzione). A tirarli in ballo è stato Mario Chiesa, l’ex presidente socialista del Pio Albergo Trivulzio dal cui arresto (17 febbraio) è nato il caso che si sta trasformando in uno scandalo nazionale.
Mercoledì 6 maggio 1992. Tangenti, arrestato Lodigiani. Mario Lodigiani, vicepresidente e legale rappresentante della Lodigiani Spa, la quarta impresa edile d’Italia, è arrestato con l’accusa di aver pagato una tangente di tre miliardi per conto di un consorzio di imprese che si sono assicurate l’appalto per il quadruplicamento del tratto Milano-Saronno delle Ferrovie Nord. Finisce in carcere anche Roberto Schellino, ex direttore tecnico della Cogefar-Impresit (impresa leader del settore, passata dal gruppo Romagnoli alla Fiat), accusato di aver pagato tangenti per la costruzione di un padiglione dell’ospedale di Bergamo. Finora sono 20 le persone finite in carcere nell’ambito dell’indagine Mani pulite: 14 imprenditori, 4 politici, 2 funzionari pubblici.
Venerdì 8 maggio 1992. Tangenti, confessa Rezzonico (Dc). Augusto Rezzonico, ex senatore democristiano ed ex presidente delle Ferrovie Nord, confessa di avere intascato una tangente miliardaria e di averla poi girata a Gianstefano Frigerio, segretario regionale della Dc: «Erano soldi per il partito».
Martedì 12 maggio 1992. Avviso di garanzia per Citaristi, tesoriere Dc. Il senatore Severino Citaristi, tesoriere nazionale della Dc, è raggiunto da un avviso di garanzia per illecito finanziamento del partito: accusato di aver incassato 700 milioni da un imprenditore, è il terzo parlamentare a finire sotto inchiesta dopo i socialisti Carlo Tognoli e Paolo Pillitteri.
Mercoledì 13 maggio 1992. Avviso di garanzia per Del Pennino (Pri). Antonio Del Pennino, capogruppo del Pri alla Camera e leader indiscusso dei repubblicani milanesi, è raggiunto da un avviso di garanzia (si parla di una tangente di un miliardo).
Sabato 23 maggio 1992. Suicida funzionario Usl: tangenti o falsa laurea? A Milano muore suicida (gas di scarico dell’auto) Franco Franchi, 54 anni, funzionario Usl e braccio destro di Antonio Sportelli, amministratore straordinario della USL 75/1 arrestato per aver intascato una bustarella sugli appalti all’ospedale San Paolo. Oltre al timore di essere coinvolto nell’indagine Mani pulite, sembra fosse turbato dalla scoperta (denuncia con lettera anonima) che non aveva mai preso la laurea in Giurisprudenza inserita nel curriculum. «Sono schiacciato dall’infamia, non posso resistere» ha scritto nel messaggio lasciato alla moglie.
Mercoledì 27 maggio 1992. Avviso di garanzia per Cervetti (Pds). Gianni Cervetti, deputato del Pds, riceve un avviso di garanzia nel quadro dell’inchiesta sui lavori della metropolitana; Renato Massari, deputato del Psi, riceve un avviso per le tangenti delle Ferrovie Nord e dell’Atm. A metterli nei guai sono stati il pidiessino Luigi Carnevale e il socialista Sergio Radaelli: il primo, ex vicepresidente della Metropolitana Milanese, accusa Cervetti di aver incassato a nome del partito 700 milioni di mazzette; il secondo dice di aver gestito in Svizzera svariati miliardi del Psi e attacca Massari, leader dei transfughi socialdemocratici passati al Garofano. Lo sviluppo delle indagini ha intanto portato alla formazione di un “pool Mani Pulite” diretto dal procuratore capo di Milano Francesco Saverio Borrelli, coordinato da Gerardo D’Ambrosio e composto, tra gli altri, da Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo.
Mercoledì 17 giugno 1992. Suicida il socialista Amorese. Renato Amorese, 49 anni, segretario del Psi di Lodi interrogato come testimone nelle indagini sullo scandalo delle tangenti, si toglie la vita sparandosi alla testa con una Beretta calibro 9 nell’auto parcheggiata in una stradina di campagna a Lodi Vecchio. Ascoltato il 15 giugno, i magistrati non avevano preso nei suoi confronti alcun provvedimento. Nell’ultima telefonata a un amico si è sfogato, «mi sputtanano, mi sputtanano», alla moglie lascia un biglietto con scritto «Sono un fallito, è per quello che già sai. Ti chiedo perdono». Su un altro foglio, indirizzato al magistrato Antonio Di Pietro, ha scritto: «Sono un uomo d’onore. Le ho detto la verità. Le farò avere il materiale che mi ha chiesto».
Venerdì 3 luglio 1992. Tangentopoli, Craxi alla Camera: «Tutti colpevoli». Intervenendo nel dibattito della Camera sulla fiducia al governo Amato, Bettino Craxi, segretario del Psi, sostiene che tutti i partiti che hanno un apparato, anche piccolo, «hanno fatto ricorso all’uso di risorse aggiuntive in forma irregolare o illegale» e che se questa materia deve essere considerata come un crimine «allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale». Conclusione: «Nessun partito è in grado di scagliare la prima pietra».
Giovedì 9 luglio 1992. Autorizzazione a procedere per Pillitteri & C. La Camera concede l’autorizzazione a procedere nei confronti di Carlo Tognoli, Paolo Pillitteri e Renato Massari (Psi), Antonio Del Pennino (Pri) e Gianni Cervetti (Pds), inquisiti per la vicenda delle tangenti a Milano. Non è accolta la richiesta di concedere l’autorizzazione per fatti nuovi che possono emergere nel corso del procedimento. Analoga decisione è presa sulla possibilità di sottoporre gli inquisiti ad arresti e perquisizioni. A favore delle autorizzazioni si esprimono tutti i gruppi parlamentari. Votate a scrutinio segreto, le domande di autorizzazione sono accolte con un grande margine di voti (più di quattrocento sì per tutti e cinque i deputati). La richiesta di arresto è respinta a scrutinio palese, 424 contro 113, sconfitti Lega, Msi-Dn, Rete e parte di Rifondazione Comunista; l’estensione dell’autorizzazione a procedere a fatti nuovi è respinta (395 contro 144) con gli stessi schieramenti.
Martedì 14 luglio 1992. Avviso di garanzia per De Michelis. Tirato in ballo nella vicenda della “bretella d’oro” dell’aeroporto di Venezia - Tessera, Gianni De Michelis, leader del Psi veneto, riceve dalla procura un avviso di garanzia per concorso in corruzione. L’ex ministro si dichiara «colpito e amareggiato per l’utilizzazione in sede giudiziaria di costruzioni sociopolitiche fantasiose». A Milano nuovi sviluppi nell’inchiesta di Antonio Di Pietro: arrestato Paolo Scaroni, amministratore delegato della Techint, avviso di garanzia a Luca Beltrami Gadola, imprenditore dissidente del Psi. Parte la richiesta di autorizzazione a procedere contro il senatore Severino Citaristi, segretario amministrativo della Dc.
Giovedì 16 luglio 1992. Arrestato Ligresti. Il costruttore Salvatore Ligresti è arrestato con l’accusa di concorso in corruzione aggravata su richiesta dei giudici milanesi: avrebbe pagato tangenti per la metropolitana e per le Ferrovie Nord. È l’arresto più clamoroso dall’inizio dell’inchiesta.
Martedì 21 luglio 1992. Tangenti, suicida messo comunale. Giuseppe Rosato, 39 anni, dipendente comunale sospettato di aver fatto il cassiere a nome di due ex amministratori del Psi inquisiti, si impicca all’ospedale di Novara, dove era ricoverato per una crisi depressiva.
Domenica 26 luglio 1992. Tangenti, suicida l’imprenditore Majocchi. Mario Majocchi, 56 anni, vicepresidente dell’Ance, l’associazione nazionale dei costruttori edili, e amministratore delegato della Nessi e Majocchi di Como, una delle maggiori imprese del Comasco, si uccide nella sua villa in Brianza con un colpo di pistola alla tempia. Il 24 luglio era stato interrogato dal pm Piercamillo Davigo in merito a una tangente pagata per i lavori sull’autostrada Milano-Serravalle. Non ha lasciato biglietti.
Mercoledì 2 settembre 1992. Suicida l’onorevole Moroni. Sergio Moroni, 45 anni, deputato socialista, si suicida a Brescia sparandosi in bocca con un fucile nella cantina del condominio dove abitava con la moglie e la figlia: aveva ricevuto due avvisi di garanzia nell’ambito dell’inchiesta per le tangenti, uno per il troncone che riguarda le discariche in Lombardia e sulle attività delle Ferrovie Nord, l’altro per i lavori all’ospedale di Lecco. Dal 1980 al 1987 era stato consigliere regionale ricoprendo gli incarichi di assessore al Lavoro, alla Sanità, ai Trasporti. Alle politiche del giugno 1987 era stato eletto alla Camera, poi era entrato a far parte della direzione nazionale del Psi (responsabile Sanità). Già segretario regionale del Psi in Lombardia, nel 1991 aveva assunto la responsabilità nazionale dell’ufficio Regioni. Ammalato da qualche mese (tumore al rene), era stato ricoverato per tutto luglio all’ospedale San Raffaele di Milano. Ultimamente era stato in Svizzera: doveva sottoporsi a un intervento chirurgico, non ancora eseguito perché secondo i medici era troppo debilitato fisicamente. Non ha lasciato alcun biglietto.
Giovedì 15 ottobre 1992. Avviso di garanzia per Balzamo (Psi). Vincenzo Balzamo, deputato e segretario amministrativo del Psi, riceve un avviso di garanzia per corruzione e violazione della legge sul finanziamento pubblico ai partiti.
Lunedì 26 ottobre 1992. Balzamo colpito da infarto. Vincenzo Balzamo, deputato e segretario amministrativo del Psi che il 15 ottobre ha ricevuto un avviso di garanzia per illecito finanziamento del partito e concorso in corruzione, è colpito da infarto.
Lunedì 2 novembre 1992. Muore Balzamo, tesoriere del Psi. Vincenzo Balzamo, deputato e segretario amministrativo del Psi che il 15 ottobre ha ricevuto un avviso di garanzia per illecito finanziamento del partito e concorso in corruzione, muore per le conseguenze di un infarto (26 ottobre). Nato nel 1929, da giovane era stato “frontista”, accanito sostenitore dell’alleanza col Pci, dopo il ’63 era diventato un riformista, quindi si era legato a Bettino Craxi diventando tra l’altro ministro dei Trasporti e della Ricerca scientifica. Morente ha mormorato: «La mia coscienza è a posto».
Martedì 15 dicembre 1992. Avviso di garanzia per Craxi. All’hotel Raphael di Roma Bettino Craxi, segretario del Psi ed ex presidente del Consiglio, riceve dai giudici di Milano un avviso di garanzia con l’accusa di concorso in corruzione, ricettazione e violazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti: in 18 pagine Antonio Di Pietro e i suoi colleghi gli contestano 41 episodi di malaffare calcolando bustarelle per 36 miliardi di lire.
Venerdì 8 gennaio 1993. Secondo avviso di garanzia per Craxi. Bettino Craxi, segretario del partito socialista ed ex presidente del Consiglio, riceve dai giudici milanesi un secondo avviso di garanzia. Accusato di corruzione e violazione del finanziamento ai partiti, deve rispondere di altre due tangenti: trecento milioni di lire per i lavori di riconversione della centrale nucleare di Montalto di Castro pagati a nome di una cordata di imprese da Enzo Papi, ex amministratore delegato della Cogefar Impresit; duecentottanta milioni sborsati da un altro gruppo di aziende per gli interventi in Valtellina dopo la frana dell’87.
Domenica 24 gennaio 1993. Arrestato il latitante Manzi. Giovanni Manzi, dirigente socialista ed ex presidente della società aeroportuale di Milano, latitante dal 10 giugno 1992, è arrestato dopo essere stato espulso da Santo Domingo.
Venerdì 29 gennaio 1993. Terzo avviso di garanzia per Craxi. In quella che secondo i magistrati è «la giornata più importante dell’inchiesta Mani pulite dall’arresto di Mario Chiesa», Bettino Craxi riceve il suo terzo avviso di garanzia, in cui gli vengono contestati otto capi d’accusa: quattro concorsi in concussione, una corruzione, tre violazioni della legge sul finanziamento pubblico dei partiti. Avviso di garanzia anche per Gianni De Michelis, per la prima volta accusato da Milano: concussione e finanziamento illecito insieme al deputato socialista Paris Dell’Unto e al senatore dc Giorgio Moschetti; concussione per Severino Citaristi (dc, sesto avviso), finanziamenti illeciti per Bruno Tabacci (Dc). Vengono inoltre eseguiti sette arresti: il più illustre fra gli ammanettati è Ugo Finetti, socialista, ex vicepresidente della Regione Lombardia, accusato di concussione e corruzione. A Roma viene perquisita la sede del Psi.
Mercoledì 3 febbraio 1993. Craxi, avviso di garanzia n° 4. Bettino Craxi, segretario del Psi ed ex presidente del Consiglio, riceve il quarto avviso di garanzia: stavolta l’atto di accusa si basa sulle dichiarazioni di Valerio Bitetto, ex consigliere d’amministrazione dell’Enel in quota socialista che ha raccontato i meccanismi dei pagamenti delle tangenti spiegando che alcune mazzette (7 miliardi) destinate al Psi venivano versate su un conto a Singapore. Replica di Craxi: «Bitetto è un cretino». Nuovi avvisi di garanzia anche per i socialisti Paolo Pillitteri e Giorgio Gangi (ex segretario amministrativo) e per il cassiere dc Severino Citaristi. Antonio Savoia, 51 anni, capogruppo del Pri alla Regione Lombardia, tenta di togliersi la vita con una miscela di alcol e barbiturici: lo trovano in coma nella sua macchina in una stradina nell’hinterland milanese, non è in pericolo di vita.
Giovedì 4 febbraio 1993. Polemiche per blitz Gdf a Montecitorio. La richiesta della Guardia di finanza (del sostituto procuratore della Repubblica di Milano Gherardo Colombo) alla Camera di acquisire copie dei bilanci del Psi suscita polemiche: il fallito blitz aveva per obiettivo il reperimento di carte ufficiali sui bilanci socialisti dal 1985 al ’91, materiale che, almeno fino al ’90, chiunque può ottenere consultando gli archivi di Montecitorio.
Domenica 7 febbraio 1993. Si costituisce Larini. Silvano Larini, 57 anni, latitante dal 18 maggio 1992 (“Il latitante d’oro di Tangentopoli”), titolare del “conto Protezione” appartenente al Psi sul quale la magistratura svizzera ha accolto il 22 gennaio la richiesta di rogatoria dei giudici milanesi, si costituisce. È praticamente certo che il suo arrivo nasce da una “trattativa” fra giudici e avvocato, tutto lascia supporre che sia pronto a parlare: nel primo avviso di garanzia spedito a Bettino Craxi, la metà dei reati contestati al segretario Psi erano considerati “in concorso” con Larini e le due posizioni sono intimamente legate.
Mercoledì 10 febbraio 1993. Avviso di garanzia al ministro Martelli. Tirato in ballo da Silvano Larini, titolare del “conto Protezione” su cui Roberto Calvi versò sette milioni di dollari, il socialista Claudio Martelli riceve un avviso di garanzia per concorso in bancarotta fraudolenta del Banco Ambrosiano (reato di cui si parla anche nella sesta informazione giudiziaria a Craxi) e si dimette da ministro di Grazia e giustizia (era il più forte candidato alla successione dello stesso Craxi come segretario del Psi).
Giovedì 11 febbraio 1993. Craxi si dimette dalla guida del Psi. Bettino Craxi si dimette da segretario del Psi, partito che guidava dal 15 luglio 1976. Giovanni Conso è nominato ministro di Grazia e giustizia (al posto del dimissionario Claudio Martelli).
Sabato 13 febbraio 1993. Avviso di garanzia per Cagliari (Eni). Gabriele Cagliari, presidente dell’Eni, riceve un avviso di garanzia per lo scandalo dell’Enimont. L’accusa è “peculato”, i 2.805 miliardi di lire versati per riacquistare le azioni della Montedison paiono ai magistrati una cifra eccessiva (1.000 miliardi di troppo). Avviso di garanzia anche per Sergio Castellari, ex direttore generale del ministero delle Partecipazioni Statali.
Mercoledì 17 febbraio 1993. Arrestata la segretaria di Craxi. Enza Tomaselli, segretaria di Bettino Craxi, è arrestata per concorso in corruzione aggravata: l’ha inguaiata Silvano Larini, ex latitante adesso collaboratore dei giudici che ha raccontato di aver portato «nella stanza accanto a quella di Craxi, in piazza Duomo 19, tangenti per sette-otto miliardi». Interrogata dai giudici, la Tomaselli sostiene che a ritirare quei soldi fu il segretario amministrativo del Psi, Vincenzo Balzamo, morto d’infarto il 2 novembre 1992. L’ex ministro Gianni De Michelis riceve due avvisi di garanzia, uno da Milano e uno da Roma. Craxi dice di aver appreso dai giornali l’invio dell’avviso n° 7.
Venerdì 19 febbraio 1993. Dimissioni per De Lorenzo e Goria, arresto per Carra. Francesco De Lorenzo (Pli) si dimette da ministro della Sanità in seguito all’arresto del padre Ferruccio, 89 anni, presidente dell’Enpam, ai domiciliari con l’accusa di aver intascato una tangente di un miliardo e settecento milioni; Giovanni Goria (Dc) si dimette da ministro delle Finanze per le voci sul suo coinvolgimento nello scandalo della Cassa di risparmio di Asti («accuse ingiuste, non fondate e neppure argomentate»); Enzo Carra, già portavoce dell’ex segretario della Dc Arnaldo Forlani, è arrestato dai giudici del pool Mani pulite con l’accusa di «aver reso false dichiarazioni durante l’interrogatorio del pubblico ministero»: convocato come testimone dai giudici Di Pietro e Davigo, si è trasformato in detenuto al termine di un interrogatorio durato oltre cinque ore durante le quali i due inquirenti hanno cercato invano di sapere da lui i nomi dei destinatari delle tangenti Enimont.
Lunedì 22 febbraio 1993. Arrestati Mattioli e Mosconi (Fiat). Francesco Paolo Mattioli, responsabile finanziario della Fiat, e Antonio Mosconi, amministratore delegato della Toro Assicurazioni, sono arrestati su richiesta dei giudici di Milano: l’accusa è di concorso in corruzione e violazione della legge sul finanziamento ai partiti. A tirarli in ballo è stato Maurizio Prada, cassiere milanese delle mazzette dc, il filone è quello delle tangenti sul sistema dei trasporti. In un comunicato la Fiat parla di «vivo stupore» per gli arresti ed esprime a Mosconi e Mattioli «piena solidarietà» ribadendo «l’assoluta convinzione che i due dirigenti dimostreranno al più presto la completa estraneità a ogni circostanza venga loro addebitata».
Giovedì 25 febbraio 1993. Trovato il cadavere di Castellari. Il cadavere di Sergio Castellari, ex direttore generale del ministero delle Partecipazioni statali coinvolto nelle indagini sulla maxitangente Enimont, è trovato da due agenti a cavallo su una radura verde in località Corvino, nella campagna tra Sacrofano e Formello. Scomparso il 17 febbraio, Castellari è morto per un colpo di pistola, la testa morsa dagli animali rende difficile l’individuazione del foro del proiettile. Resta da stabilire se si sia trattato di suicidio o omicidio. Orazio Savia, il giudice che lo accusava, dichiara sconvolto: «Non farò più il pubblico ministero. La giustizia è così: se si imbatte in un soggetto debole, lo stritola. Lo riduce e ti riduce, in qualche occasione, in condizioni drammatiche...». Avviso per La Malfa, arresto per Pesenti. Giorgio La Malfa riceve un avviso di garanzia per violazione della legge sul finanziamento dei partiti (un contributo di 50 milioni per i manifesti elettorali versato dal finanziere Gianni Varasi) e si dimette in lacrime da segretario del Pri. L’ingegner Giampiero Pesenti, uno dei big della finanza italiana, è arrestato per le mazzette promesse nel 1983 dalla Franco Tosi a Dc e Psi (7 miliardi a testa, respinge le accuse).
Lunedì 1 marzo 1993. Tangentopoli, arrestato Greganti (Pds). Primo Greganti, 49 anni, ex amministratore del Pci di Torino adesso iscritto al Pds, è arrestato in base alle dichiarazioni del manager socialista della Ferruzzi Lorenzo Panzavolta, che lo accusa di avere intascato una tangente di 621 milioni per conto del Pci. I giudici di Bologna fanno arrestare Michele De Mita, fratello di Ciriaco, per le vicende legate alla ricostruzione in Irpinia.
Martedì 2 marzo 1993. De Mita si dimette. Dopo che il fratello Michele è stato arrestato per le vicende legate alla ricostruzione in Irpinia, Ciriaco De Mita (Dc) si dimette dalla presidenza della commissione bicamerale per le riforme istituzionali (al suo posto Nilde Jotti, Pds).
Venerdì 5 marzo 1993. Tangentopoli, cdm approva decreto Conso. Il consiglio dei ministri approva un decreto che depenalizza le violazioni della legge sul finanziamento pubblico dei partiti, sottrae ai magistrati le inchieste in materia e istituisce un’autorità di vigilanza. Contro il decreto elaborato dal ministro Giovanni Conso, che appare all’opinione pubblica un colpo di spugna, si svolgono manifestazioni spontanee e si pronunciano i giudici di Milano. Scandalo per le manette al Dc Carra. A Milano Enzo Carra, già portavoce dell’ex segretario della Dc Arnaldo Forlani, sotto processo con l’accusa di «aver reso false dichiarazioni durante l’interrogatorio del pubblico ministero», è condotto nell’aula del tribunale in ferri e catene suscitando l’indignazione di gran parte del mondo politico. Forlani: «Se la carcerazione preventiva non è applicata correttamente, può essere come la tortura: i giudici dicono che con questo metodo hanno ottenuto dei risultati, ma anche la Gestapo li otteneva in questo modo...». Achille Occhetto, segretario del Pds: «La scena vista in tv mi ha profondamente turbato».
Lunedì 8 marzo 1993. Tangentopoli, Scalfaro non firma il decreto Conso. Il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro rifiuta di controfirmare il decreto Conso: approvato il 5 marzo dal Consiglio dei ministri, prevedeva la depenalizzazione delle violazioni della legge sul finanziamento pubblico dei partiti, la sottrazione ai magistrati delle inchieste in materia, l’istituzione di un’autorità di vigilanza.
Martedì 9 marzo 1993. Arrestato Cagliari (Eni). Viene arrestato Gabriele Cagliari, presidente dell’Eni: l’accusa del pool Mani pulite è corruzione aggravata, 4 miliardi di tangenti pagate dal Nuovo Pignone (Eni) su richiesta dei socialisti Valerio Bitetto e Bartolomeo De Toma per la fornitura di turbine a gas destinate alle centrali Enel. Con Cagliari, che si dimette dall’incarico, è arrestato il presidente del Nuovo Pignone Franco Ciatti. Craxi, autorizzazione a procedere. A Roma la Giunta della Camera concede l’autorizzazione a procedere contro Bettino Craxi per tutti i reati contestati: corruzione, violazione della legge sul finanziamento dei partiti, ricettazione. Saranno possibili anche perquisizioni personali e domiciliari. Per il definitivo via libera ai giudici servirà però un altro voto (scrutinio segreto) in aula.
Lunedì 15 marzo 1993. Avviso di garanzia per Altissimo (Pli). Renato Altissimo riceve un avviso di garanzia e si dimette da segretario del Pli: l’“informazione” si riferisce a una mazzetta da 50 milioni di lire che l’armatore Giovanni Barbaro gli avrebbe versato come illecito contributo al partito.
Martedì 30 marzo 1993. Avviso e dimissioni per il ministro Reviglio. Il ministro delle Finanze Franco Reviglio si dimette dopo aver ricevuto dal giudice Antonio Di Pietro, al quale si è presentato spontaneamente, un avviso di garanzia per ricettazione: secondo la procura milanese, durante il periodo in cui era presidente dell’Eni avrebbe accettato sei miliardi destinati al Psi di cui conosceva l’illecita provenienza.
Lunedì 5 aprile 1993
Tangentopoli, avvisi per Forlani e Andreotti. I democristiani Giulio Andreotti e Arnaldo Forlani sono raggiunti da avvisi di garanzia per violazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti: secondo la Procura di Milano il primo avrebbe chiesto all’imprenditore Giuseppe Ciarrapico 250 milioni con destinazione Roberto Buzio, ex segretario di Giuseppe Saragat e tesoriere occulto del Psdi; il provvedimento contro Forlani è stato provocato dalle dichiarazioni dell’ex direttore generale dell’Anas Antonio Crespo, che avrebbe confessato una tangente da un miliardo e 200 milioni “girata” a un uomo di fiducia dell’ex segretario Dc.
Lunedì 12 aprile 1993. Tangentopoli, suicidio a Pescara. Valerio Cirillo, 43 anni, consigliere comunale democristiano di Pescara, si suicida gettandosi dal sesto piano. Indagato e poi prosciolto per un appalto che ha mandato in carcere quasi tutto il comitato di gestione della Usl di Pescara di cui faceva parte, lascia un biglietto con scritto: «Sono innocente, non sono un corrotto».
Venerdì 23 aprile 1993. Romiti si schiera con il pool di Mani pulite. Dopo che l’Espresso ha rivelato i colloqui di Cesare Romiti con i magistrati del pool Mani pulite (aperta un’indagine sulla fuga di notizie), l’amministratore delegato della Fiat scrive una lettera al Corriere della Sera per chiarire che da qualche settimana «si sono cominciate a imboccare le vie d’uscita» sulla crisi che sta attraversando il Paese, aggiungendo che dopo un periodo di inerzia di tutte le istituzioni «sono apparse di grande rilevanza le iniziative sviluppate dalla magistratura negli ultimi mesi», «strumento di accelerazione del processo di cambiamento largamente desiderato». Conclusione: «È apparso evidente che il reale interesse di tutti quegli imprenditori che fanno veramente industria sia quello di agevolare il più possibile la piena ricostruzione di quanto avvenuto».
Sabato 24 aprile 1993. Tangentopoli veneta, suicida ex cassiere Dc. Gino Mazzolaio, 68 anni, ex segretario amministrativo della Dc di Rovigo, si suicida gettandosi nell’Adige poco lontano dalla chiesa di Boara Pisani (Padova). Coinvolto in un’inchiesta su alcuni episodi di corruzione, concussione, turbativa d’asta e violazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti (appalti per la costruzione di ospedali in varie località del Veneto), il 16 marzo era stato raggiunto da un ordine di custodia cautelare firmato dal giudice istruttore del tribunale di Venezia Carlo Mastelloni su richiesta del sostituto procuratore Carlo Nordio. Lascia moglie e due figli, cui dedica un biglietto: «Carissimi, non so più resistere a quanto sta succedendo pur essendo completamente innocente. Vi chiedo scusa per il gesto che sto per compiere, pregherò per voi da lassù».
Giovedì 29 aprile 1993. La Camera salva Craxi. La Camera (scrutinio segreto) vota quattro “no” alle richieste di autorizzazione a procedere avanzate dalla procura di Milano nei confronti dell’ex segretario del Psi Bettino Craxi: il primo “no” implica per i magistrati l’impossibilità di ordinare perquisizioni a Roma anche domiciliari e cioè di mettere le mani su registri, estratti conto, bilanci, contratti e così via (316 no, 245 sì); il secondo “no” riguarda i reati di corruzione continuata e aggravata commessi a Milano (291-273); il terzo “no” si riferisce alla ricettazione – consumata a Roma e a Milano – milioni e milioni che sarebbero finiti nelle tasche dell’ex segretario del Psi e dei quali era nota la provenienza illecita (307-253); il quarto “no” riguarda un episodio di corruzione avvenuto in un luogo imprecisato e a una data incerta (304-257). Via libera alle indagini per un episodio di presunta corruzione avvenuto a Roma (282-278) e per la ripetuta violazione della legge sul finanziamento dei partiti, ampiamente ammessa da Craxi (314-244). Di fatto, Craxi viene sottratto alle richieste inquisitorie del pool di Mani pulite per la stragrande maggioranza degli episodi criminosi considerati e contestati. In diverse città si svolgono spontanee manifestazioni di protesta. I ministri del Pds (Augusto Barbera, Vincenzo Visco, Luigi Berlinguer) e il verde Francesco Rutelli si dimettono dal governo varato il giorno prima da Carlo Azeglio Ciampi.
Venerdì 30 aprile 1993. Hotel Raphael, monetine su Craxi. A 24 ore dal “no” della Camera all’autorizzazione a procedere contro Bettino Craxi, l’ex segretario del Psi è fatto bersaglio di una piogga di monetine lanciate dai manifestanti che lo aspettano fuori dall’hotel Raphael (Roma).
Mercoledì 5 maggio 1993. Autorizzazione a procedere, il voto diventa palese. Dopo le polemiche per i quattro “no” a scrutinio segreto che il 29 aprile hanno sottratto Bettino Craxi alle inchieste del pool Mani pulite, la giunta per il regolamento della Camera introduce il voto palese nell’esame delle autorizzazioni a procedere.
Martedì 11 maggio 1993. Arrestato Pollini, ex tesoriere del Pci. I carabinieri arrestano Renato Pollini, ex senatore e fino al 1989 segretario amministrativo del Pci, e Fausto Bartolini, ex direttore del Conaco (il consorzio delle cooperative rosse di costruzioni), accusati di corruzione con l’aggravante di aver violato la legge sul finanziamento dei partiti. I provvedimenti riguardano le tangenti sulle forniture alle Ferrovie tra l’86 e l’88, un sistema descritto da Giulio Caporali, ex consigliere pci delle Fs condannato per le “lenzuola d’oro”, che ha parlato di contributi pagati dalle Coop e imprese private come Sasib, Ansaldo e Socimi (che avrebbe versato centinaia di milioni su conti esteri del Pci). La segreteria del Pds respinge ogni coinvolgimento.
Mercoledì 12 maggio 1993. Arrestato Nobili, presidente dell’Iri. Franco Nobili, presidente dell’Iri, è arrestato a Roma per corruzione e violazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti: contro il numero uno della più grande holding pubblica i giudici di Mani pulite hanno emesso un mandato con nove pagine di contestazioni per il periodo 1978-1990: tangenti pagate ai partiti per appalti delle centrali Enel di Brindisi e Montalto.
Mercoledì 19 maggio 1993. Arrestato Burlando, sindaco di Genova (Pds). Il sindaco di Genova Claudio Burlando è arrestato con l’accusa di truffa e abuso di atti d’ufficio: giovane e promettente leader del Pds, è indagato nell’ambito dell’inchiesta per l’opera colombiana del sottopasso di Caricamento, nella zona dell’Expo. Finiscono in carcere anche altre sette persone, tra queste il costruttore edile Emanuele Romanengo, presidente della Sci e del consorzio Irg2, che ha realizzato l’opera. Burlando è raggiunto anche da un secondo ordine di custodia cautelare in relazione a un’altra inchiesta sulla mancata realizzazione di un megaparcheggio in centro.
Domenica 4 luglio 1993. Prodi interrogato da Di Pietro. Il presidente dell’Iri Romano Prodi viene interrogato a Milano da Antonio Di Pietro sui rapporti tra l’azienda e i partiti. Ai giornalisti spiega: «Mi sembra ovvio che chi è stato presidente dell’Iri per sette anni venga sentito in qualità di persona informata sui fatti». Prodi, già in carica dal 1982 al 1989, è tornato in carica dopo l’arresto del suo successore Franco Nobili (12 maggio). Dalla porta chiusa i giornalisti sentono Di Pietro che urla «...soldi alla Dc....».
Martedì 13 luglio 1993. Arrestato Garofano (Montedison). Giuseppe Garofano, il “Cardinale” della finanza, ex presidente della Montedison ricercato da sette mesi per lo scandalo delle tangenti, è arrestato a Ginevra. Accusato di aver dato 250 milioni alla Dc, gli avvocati dicono che è pronto a parlare «di tutto e di tutti».
Martedì 20 luglio 1993. Cagliari suicida a San Vittore. Gabriele Cagliari, 67 anni, ex presidente dell’Eni in carcere dal 9 marzo (133 giorni), si suicida a San Vittore, soffocato da un sacchetto di plastica. Il 3 luglio aveva spedito alla moglie Bruna una lettera arrivata il 5 con l’avvertenza «Da aprire dopo il mio ritorno a casa»: vi annunciava l’«atto di ribellione» che si apprestava a compiere nel caso in cui i giudici avessero scelto di tenerlo in galera, un meccanismo studiato a suo dire «per annichilire e distruggere la persona, non per fare giustizia». Antonio Di Pietro commenta: «È una sconfitta». Saverio Borrelli: «Purtroppo la Giustizia nel suo cammino si imbatte in lutti e lascia lutti alle sue spalle... È un dolore soprattutto per chi guida il carro della giustizia». Il ministro Giovanni Conso: «Il governo mediterà attentamente sulla questione della custodia cautelare, per adottare iniziative anche alla luce di quanto risulterà nelle prossime ore dalle indagini avviate». Alla sede della Dc di piazza del Gesù (Roma) arriva un fax: «Democristiani, anche solo uno alla volta, ma suicidatevi tutti. Abbiamo tempo e pazienza. E voglia di godere».
Giovedì 22 luglio 1993. Garofano coinvolge Gardini. Giuseppe Garofano, ex presidente della Montedison arrestato a Ginevra il 13 luglio, dichiara che i fondi neri della società erano stati istituiti da Raul Gardini per pagare le tangenti dell’Enimont.
Venerdì 23 luglio 1993. Suicida Gardini, in carcere i vertici della Ferruzzi. Raul Gardini, 60 anni, ex leader del gruppo Ferruzzi, si suicida nella sua abitazione di Milano sparandosi un colpo alla tempia sul suo letto. Sul comodino lascia un biglietto di sette parole, l’ultimo messaggio alla moglie, ai figli e alla suocera: «Idina, Eleonora, Ivan, Maria Speranza, Isa. Grazie». Nessuno ha sentito la detonazione nell’appartamento del settecentesco Palazzo Belgioioso, in casa c’erano il figlio Ivan, 24 anni, e il maggiordomo, Franco Brunetti, che alle 8.45 ha aperto la porta della camera da letto scoprendo il cadavere. Nelle ore successive scattano gli arresti preannunciati dalle confessioni di Giuseppe Garofano, ex presidente della Montedison: finiscono in manette Carlo Sama, uomo forte del gruppo Ferruzzi dopo l’uscita di scena di Gardini; Vittorio Giuliani Ricci, amministratore della Fermar; Sergio Cusani, finanziere di area socialista; un quarto ordine di cattura riguarda Giuseppe Berlini, uomo della Ferruzzi in Svizzera, che si trova a Losanna; il quinto sarebbe stato proprio per Gardini. Accuse: falso in bilancio, corruzione, violazione del finanziamento ai partiti. In serata Sama e Cusani vengono portati nel carcere di Opera, Giuliani Ricci viene rimesso in libertà.
Martedì 24 agosto 1993. Avviso di garanzia per Stefanini, tesoriere Pds. Marcello Stefanini, tesoriere del Pds, riceve un avviso di garanzia dal magistrato Tiziana Parenti: riguarda la tangente pagata da un manager del gruppo Ferruzzi, Lorenzo Panzavolta, a Primo Greganti, ex funzionario comunista titolare del conto Gabbietta. Per i lavori alle centrali dell’Enel, Panzavolta versò a Greganti 621 milioni sul conto svizzero: secondo le confessioni del manager erano per il Pci, secondo quello che è ormai noto come “il compagno G” erano quattrini elargiti «per libera scelta» e il Pci non c’entrava nulla. Il senatore Stefanini si dichiara innocente, il Pds protesta per la violazione del segreto istruttorio.
Venerdì 3 settembre 1993. Enimont, arrestato il giudice Curtò. Diego Curtò, 68 anni, presidente del Tribunale di Milano, è il primo magistrato arrestato nell’ambito dell’inchiesta Mani pulite: è accusato di corruzione aggravata e abuso d’ufficio a fini patrimoniali, 400 mila franchi svizzeri che Vincenzo Palladino, ex custode delle azioni Enimont, ha raccontato di avergli pagato.
Domenica 19 settembre 1993. Greganti torna a San Vittore, perquisita sede Pds. Dopo ore di ricerche, Primo Greganti, l’ex funzionario comunista titolare del conto Gabbietta, si costituisce ai carabinieri di Castiglione Torinese («ho saputo che i giudici di Milano mi cercano») e viene ricondotto a San Vittore, dove era già stato recluso dall’1 marzo al 31 maggio, prima di essere scarcerato per decorrenza dei termini (la detenzione più discussa di tutta l’inchiesta). Stavolta lo accusano di avere intascato una tangente di 400 milioni, episodio confermato dall’imprenditore Domenico Gavio, costituitosi nelle stesse ore dopo una latitanza di oltre tredici mesi. A 24 ore dall’arresto di Marco Fredda, responsabile del patrimonio del Pds, per la prima volta i carabinieri perquisiscono la sede dell’ex Pci di via delle Botteghe Oscure.
Lunedì 20 settembre 1993. Tangenti Sanità, arrestato Poggiolini. Duilio Poggiolini, ex componente del Cip farmaci ed ex direttore generale del servizio farmaceutico del ministero della Sanità, ricercato dal 3 luglio nell’ambito dell’inchiesta sulle tangenti per il prezzo dei medicinali, è arrestato a Losanna in un’azione congiunta della polizia svizzera, italiana e dell’Interpol: era nascosto in una clinica privata, ricoverato sotto falso nome, su di lui pendono ben cinque ordinanze di custodia cautelare per vari episodi di corruzione. Nello scandalo è coinvolta anche la moglie Pierre De Maria.
Giovedì 30 settembre 1993. Trovato il “tesoro” di Poggiolini. Aperta la cassaforte di Duilio Poggiolini, ex componente del Cip farmaci ed ex direttore generale del servizio farmaceutico del ministero della Sanità arrestato in Svizzera il 20 settembre, il sostituto procuratore di Napoli Alfonso D’Avino scopre un tesoro stimato in 200-300 miliardi di lire fra conti bancari, monete, diamanti e altri preziosi: 6.000 sterline d’oro (alcune risalgono alla prima metà del XIX secolo, le più recenti valgono 130 mila lire l’una), centinaia e centinaia di Krugerrand sudafricani (560 mila lire l’una), 50 monete dell’antica Roma, alcune delle quali d’oro, recanti le insegne della gens Antonina e di quella Flavia; 20 diamanti da 1,2 carati ecc.
Giovedì 28 ottobre 1993. Via all’immunità parlamentare. Dopo un ping pong tra le due Camere andato avanti per un anno e mezzo con otto votazioni parlamentari, il Senato approva in via definitiva la riforma dell’immunità parlamentare: mediante la definitiva modifica dell’art. 68 della Costituzione, l’autorizzazione a procedere a carico dei parlamentari viene abolita per le indagini e prevista solo per le perquisizioni, le intercettazioni telefoniche e l’arresto.
Venerdì 29 ottobre 1993. Fondi neri Sisde, arrestato Malpica. Riccardo Malpica, il prefetto che fino al 1991 ha diretto il Sisde, è arrestato con l’accusa di concorso in peculato continuato e aggravato. Il gip Terranova firma anche altri cinque ordini di arresto destinati a funzionari del Sisde, fra questi Maurizio Broccoletti, ex direttore amministrativo che 24 ore prima si è presentato in procura con un carico di documenti (si parla di 49 miliardi finiti in società immobiliari e depositi all’estero).
Sabato 30 ottobre 1993. Ordine di custodia per De Benedetti. Carlo De Benedetti, presidente dell’Olivetti, riceve un ordine di custodia cautelare dai giudici di Roma che indagano sulle forniture al ministero delle Poste. Ai militari che lo cercano nelle abitazioni di Milano e Torino viene risposto che è all’estero per il week-end dei Santi e rientrerà il 2 novembre. Tramite i suoi legali, fa sapere che è pronto a collaborare con i magistrati.
Martedì 2 novembre 1993. Arresti domiciliari per De Benedetti. Carlo De Benedetti, presidente dell’Olivetti colpito da un ordine di custodia cautelare dei giudici di Roma che indagano sulle forniture al ministero delle Poste, si costituisce all’alba ai carabinieri di Milano. Condotto nel carcere romano di Regina Coeli, viene interrogato dal gip Augusta Iannini e dal pm Maria Cordova. A fine giornata gli vengono concessi gli arresti domiciliari.
Mercoledì 3 novembre 1993. Fondi neri Sisde, messaggio tv di Scalfaro. Alle 22.30 il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro respinge con un messaggio televisivo a reti unificate il tentativo di coinvolgerlo nello scandalo del Sisde: «A questo gioco al massacro io non ci sto». Secondo Antonio Galati, ex responsabile dei fondi riservati, dal 1982 al 1992 tutti i ministri dell’Interno hanno ricevuto 100 milioni al mese (unica eccezione Amintore Fanfani).
Martedì 7 dicembre 1993. Arrestato Patelli, cassiere della Lega. Alessandro Patelli, segretario organizzativo ed ex cassiere della Lega, viene arrestato per violazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti, causa un contributo di 200 milioni ricevuto dal gruppo Ferruzzi alla vigilia delle elezioni 1992. Il mandato di cattura è stato firmato dal gip Italo Ghitti su richiesta di Antonio Di Pietro. Contro Patelli ci sono le dichiarazioni di Carlo Sama, ex amministratore del gruppo, e di Sergio Portesi, responsabile delle relazioni istituzionali della Ferruzzi.
Venerdì 17 dicembre 1993. Processo Cusani, in aula Craxi e Forlani. Al Palazzo di giustizia di Milano, durante il processo per le tangenti Ferruzzi Enimont (imputato Sergio Cusani), Antonio Di Pietro interroga Bettino Craxi, ex segretario del Psi che mostra lo smalto dei giorni migliori: «I 75 miliardi? Ho letto, ho letto. Ho letto quello che Sama dice, che ero molto carismatico. E a questo titolo, cioè come omaggio al mio carisma politico, mi avrebbero messo a disposizione 75 miliardi. Beh, mi si consenta l’ironia di dire che allora il mio carisma vale 150 volte quello di Martelli e 200 quello di La Malfa... E una maxipalla questa maxitangente». In breve: «Tutti sono colpevoli, tutti sapevano». L’ex segretario della Dc Arnaldo Forlani appare invece pallido e impacciato: la saliva condensata agli angoli della bocca, tenta di evitare risposte dirette dicendo che non sapeva, negando anche l’evidenza e scaricando tutto sull’ex tesoriere Severino Citaristi. I telegiornali mandano in onda la versione pressoché integrale degli interrogatori.
Mercoledì 13 luglio 1994. Varato il decreto Biondi. Il governo Berlusconi emana un decreto del ministro della Giustizia Alfredo Biondi che favorisce gli arresti domiciliari nella fase cautelare per la maggior parte dei crimini di corruzione. I critici lo chiamano spregiativamente “decreto salva-ladri”.
Martedì 19 luglio 1994. Ritirato il decreto Biondi, “Caporetto” del governo. Dopo una settimana di proteste (l’opposizione, i magistrati, la gente scesa in piazza), il governo lascia cadere il “decreto Biondi” (“salvaladri”, per i critici) sulla custodia cautelare, facendolo bocciare dalla commissione Affari Costituzionali. Il provvedimento pare adesso figlio di nessuno: il ministro della Giustizia Alfredo Biondi dice che avrebbe preferito un disegno di legge, il ministro dell’Interno Roberto Maroni avrebbe firmato senza leggere fidandosi della firma del presidente Scalfaro, che a sua volta si giustifica parlando di “atto dovuto”. Giuliano Ferrara, ministro per i Rapporti con il Parlamento, ammette: «Sì, forse abbiamo peccato di dilettantismo. Ed è vero che la vicenda si è risolta in una Caporetto».
Venerdì 29 luglio 1994. Arresti domiciliari per Paolo Berlusconi. Dopo un giorno di latitanza, Paolo Berlusconi si costituisce. Interrogato per sette ore dai giudici milanesi, parla dei tre episodi che gli vengono contestati: pagamenti ai finanzieri che ispezionavano tre società Fininvest (Videotime, Mediolanum, Mondadori) per un totale di 330 milioni di lire. In serata gli vengono concessi gli arresti domiciliari.
Martedì 22 novembre 1994. Scoop del Corriere: invito a comparire per Berlusconi. Il Corriere della Sera rivela che Silvio Berlusconi, a Napoli per presiedere il vertice internazionale del G7 sulla criminalità organizzata, ha ricevuto dalla Procura di Milano un invito a comparire: l’ipotesi di reato è concorso in corruzione per le mazzette alla Guardia di Finanza pagate da Mondadori, Mediolanum e Videotime. Il presidente del Consiglio accusa i magistrati di aver violato il segreto istruttorio.
Martedì 6 dicembre 1994. Antonio Di Pietro lascia la magistratura. Finita la requisitoria al processo Enimont, Antonio Di Pietro, il pm più famoso dell’indagine Mani pulite, annuncia con una lettera al procuratore capo Francesco Saverio Borrelli l’addio alla magistratura.
Sabato 3 giugno 1995. Di Pietro nel registro degli indagati. Antonio Di Pietro sarebbe finito sul registro degli indagati: nessuno conferma (il registro è teoricamente segreto) ma neppure smentisce. Il pm di Brescia Fabio Salamone, a capo dell’inchiesta, si limita a dire: «È una storia delicata di cui non voglio e non posso parlare». L’ex magistrato di Mani pulite spiega: «Sono stato io stesso a denunciarmi. E a denunciare. Questa storia dei dossier costruiti nei mie confronti deve finire». Reato ipotizzato concussione, l’indagine riguarda i soldi che Di Pietro avrebbe chiesto e ottenuto per ripianare i debiti di gioco di Eleuterio Rea, ex poliziotto e grande amico del magistrato adesso capo dei vigili urbani milanesi, 600 milioni di lire pagate, secondo le voci, da Giancarlo Gorrini, ex proprietario della Maa assicurazioni per il cui fallimento è stato condannato a tre anni e sei mesi. Secondo l’accusa, Di Pietro, all’epoca dei fatti sostituto procuratore di provincia, sarebbe colpevole anche di appropriazione indebita causa una Mercedes avuta gratis dalla Maa.
Venerdì 21 luglio 1995. È ufficiale: Craxi è un latitante. Durante un’udienza nel processo della tangenti pagate per l’appalto della metropolitana milanese, viene ufficializzata la latitanza di Bettino Craxi: secondo i magistrati si deve ritenere che l’ex presidente del Consiglio ed ex segretario del Psi si sia sottratto all’ordinanza di custodia cautelare, visto che ne è stato abbondantemente informato dai giornali.
Lunedì 20 novembre 1995. La procura chiede il rinvio a giudizio di Di Pietro. Con le accuse di abuso d’ufficio e concussione (relative a sette diversi episodi) i pm bresciani Fabio Salamone e Silvio Bonfigli chiedono il rinvio a giudizio di Antonio Di Pietro. Lo stesso provvedimento è sollecitato per altri nove indagati, tra cui Paolo Berlusconi e Cesare Previti, accusati di concorso in concussione.
Giovedì 22 febbraio 1996. Di Pietro: non luogo a procedere. L’ex magistrato Antonio Di Pietro è prosciolto dalle accuse di concussione e di abuso d’ufficio (le più gravi): il gip di Brescia Roberto Spanò decreta il non luogo a procedere perché i fatti non sussistono. L’accusa più pesante, quella di concussione, riguardava la vicenda del decreto Gaspari: i pm sostenevano, in sostanza, che Di Pietro nell’89 aveva sfruttato lo stato di soggezione psicologica di un suo inquisito (il ministro Gaspari) al fine di ottenere la nomina a direttore del progetto di informatizzazione degli uffici giudiziari di Milano (decreto che venne approvato dal Consiglio dei ministri ma che poi – a seguito di vivaci proteste – fu modificato prima della registrazione alla Corte dei Conti: il nome di Di Pietro fu sostituito con quello del presidente della Corte d’appello).
Mercoledì 6 marzo 1996. Seconda vittoria per Di Pietro. Come già il 22 febbraio, il gip di Brescia Roberto Spanò proscioglie l’ex magistrato di Mani pulite Antonio Di Pietro da due accuse di concussione e tentata concussione, chiudendo così definitivamente il capitolo legato all’informatizzazione: i pubblici ministeri accusavano Di Pietro di aver fatto pressioni, nel ’91, sull’ex vicesegretario regionale della Democrazia cristiana Francesco Rivolta (da lui inquisito) al fine di diventare capo dell’ufficio automazione del ministero.
Venerdì 29 marzo 1996. Terza vittoria per Di Pietro, rinvio a giudizio per i complottatori. Terza vittoria per l’ex magistrato di Mani pulite Antonio Di Pietro: il gup di Brescia Anna Di Martino lo scagiona dalle accuse dell’assicuratore Giancarlo Gorrini (vedi 3 giugno 1995): «Non luogo a procedere perché i fatti non sussistono». Vengono invece rinviati a giudizio i quattro imputati accusati di aver costretto Di Pietro a lasciare la magistratura (concussione): Paolo Berlusconi, Cesare Previti, Ugo Dinacci, Domenico De Biase (prosciolti Eleuterio Rea e Paolo Pillitteri). Secondo i pm Fabio Salamone e Silvio Bonfigli, di fronte alle iniziative di Di Pietro che aveva alzato il tiro sul presidente del consiglio Silvio Berlusconi inviandogli un mandato di comparizione (22 novembre 1994), sarebbe scattato un ricatto: attraverso Paolo Berlusconi e il ministro della Difesa Cesare Previti, l’assicuratore Giancarlo Gorrini sarebbe stato mandato da Ugo Dinacci, capo degli ispettori del ministero di Grazia e Giustizia, per raccontare la storia dei cento milioni e della Mercedes dati a Di Pietro (23 novembre 1994). Subito dopo – sempre secondo la tesi di Salamone e Bonfigli – ci sarebbero stati una serie di contatti con Di Pietro e, ottenuto dal magistrato l’impegno a dimettersi dopo la requisitoria al processo Enimont, l’inchiesta sarebbe stata rapidamente chiusa chiamando a deporre all’ispettorato Osvaldo Rocca, braccio destro di Gorrini e amico di Di Pietro, che avrebbe scagionato pienamente il pm di Mani pulite. Il 6 dicembre l’addio alla toga di Di Pietro avrebbe fatto rallentare – secondo l’accusa – le indagini su Berlusconi e sulla Fininvest.
Mercoledì 24 aprile 1996. Di Pietro ha denunciato Salamone e Bonfigli. Si viene a sapere che Antonio Di Pietro ha denunciato Fabio Salamone e Silvio Bonfigli, promotori delle inchieste su di lui concluse con tre distinte archiviazioni. In due esposti presentati il 2 e il 22 aprile alla Procura generale di Brescia (e già trasmessi per competenza alla Procura di Milano, al Csm, alla Procura generale della Cassazione e al ministero di Grazia e giustizia), oltre a segnalare irregolarità tecniche nelle indagini, l’ex pm di Mani pulite ha elencato una serie di motivi per i quali Salamone avrebbe dovuto astenersi dalle inchieste su di lui, sottolineando in particolare la circostanza – sempre smentita da Salamone – secondo la quale fu proprio Di Pietro ad avviare le indagini su Filippo Salamone, fratello del magistrato coinvolto nella Tangentopoli siciliana.
Domenica 15 settembre 1996. Riesplode Tangentopoli, arrestato Necci (FS). Lorenzo Necci, amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato, è arrestato su richiesta dei magistrati di La Spezia. Accuse: truffa, associazione per delinquere, falso in bilancio, peculato, corruzione, abuso in atti d’ufficio. Finiscono in cella anche l’ex deputato dc Emo Danesi, il banchiere Pierfrancesco Pacini Battaglia e la sua segretaria. L’inchiesta riguarda l’acquisto da parte delle Ferrovie di quote della società che gestisce i terminal per container: secondo l’accusa sarebbe stato pagato un prezzo gonfiato, con fondi girati poi a Necci.
Giovedì 19 settembre 1996. Pacini Battaglia: «Si è pagato per uscire da Tangentopoli». Uno dei tanti colloqui captati dalle Fiamme gialle nell’ambito dell’inchiesta che ha portato tra l’altro all’arresto di Pierfrancesco Pacini Battaglia scatena una polemica che potrebbe riguardare l’intera portata dell’istruttoria milanese su Tangentopoli: «Io sono uscito da Mani pulite – dice il banchiere in un nastro dell’11 gennaio – soltanto perché si è pagato, non cominciamo a rompere i coglioni: quelli più bravi di noi non ci sono nemmeno entrati, forse se io avessi studiato la strada prima non sarei nemmeno entrato in Mani pulite». A quel «si è pagato» vengono date due chiavi di lettura opposte: una, legittimista, l’interpreta come sinonimo di coinvolgimento penale, Pacini Battaglia a Milano è plurindagato, ha dovuto chiamare in causa amici, consegnare conti miliardari e subire un gravissimo danno di immagine. Questo sarebbe il “prezzo pagato”. Il banchiere, però, è sempre sfuggito all’arresto, viene considerato un maestro del pentimento a rate, in diversi esposti più o meno anonimi è indicato come «un miracolato». «Non so esattamente che cosa intendesse con quella frase – replica il procuratore capo di Milano Francesco Saverio Borrelli – ma se Pacini Battaglia intende che sono stati pagati dei soldi, si assume tutte le responsabilità. E sono responsabilità molto gravi, ve lo assicuro». Il pm di Brescia Fabio Salamone include Pacini Battaglia e il suo avvocato Rosario Lucibello fra i testimoni chiesti dall’accusa nel processo che si aprirà a Brescia il 23 settembre.
Lunedì 23 settembre 1996. Inizia il processo sul complotto contro Di Pietro. Alla II sezione del Tribunale di Brescia inizia il processo contro Paolo Berlusconi, l’ex ministro della Difesa Cesare Previti, il capo degli 007 del ministero Ugo Dinacci e l’ispettore Domenico De Biase, accusati di aver ordito un complotto per costringere Antonio Di Pietro a lasciare la magistratura. Attraverso il suo avvocato Massimo Dinoia, Di Pietro decide di costituirsi parte civile: in apparenza è una contraddizione, ma la mossa, spiega il legale riaccendendo vecchie polemiche con i pm, è dettata dal timore che l’accusa, chiamando a testimoniare persone che nulla hanno a che vedere con la vicenda, trasformi il dibattimento in un processo a Di Pietro per fatti dai quali è già stato scagionato. I pm Fabio Salamone e Silvio Bonfigli si oppongono alla richiesta, ma il tribunale, presieduto da Francesco Maddalo, accoglie la costituzione di parte civile. Di Pietro al Tg1: nessun favore a Pacini Battaglia. A poche ore dall’inizio del processo bresciano contro i presunti autori del complotto che lo avrebbe costretto a lasciare la magistratura, l’ex pm di Mani pulite Antonio Di Pietro concede una lunga intervista (un monologo) al Tg1 con la quale respinge le accuse del banchiere Pierfrancesco Pacini Battaglia, che in una telefonata intercettata dalla Guardia di Finanza ha detto di aver pagato per evitare la galera (vedi 19 settembre 1996). Intervista di Antonio Di Pietro al Tg1, lunedì 23 settembre 1996. «Preferisco mantenere il riserbo anch’io, perché voglio capire che succede. Ma una cosa è certa: non c’è mai stato alcun interesse privato, personale, tra noi e Pacini Battaglia e quindi lui se ha delle cose da dire le dica per dissolvere tutti i dubbi. Altra cosa certa: se qualcuno dice che con Pacini Battaglia abbiamo usato i guanti di velluto, si sbaglia di grosso. Esistono quintali di documenti, lo abbiamo ascoltato per decine di ore, lo abbiamo interrogato almeno venti volte. All’epoca svelò fatti di eccezionale rilevanza sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo. Ora tutti sanno che cosa è Tangentopoli, ma all’epoca bisognava scavare, scavare. Certo Pacini Battaglia, come quasi tutti gli inquisiti di Tangentopoli, ha detto solo una parte di quello che sapeva, ma non potevamo mica torturarlo. Ho letto che si vanta di aver avuto un’archiviazione a Milano. Non è vero. Io ho lasciato la procura il 7 dicembre e non il 6 perché come ultimo atto ho chiesto il rinvio a giudizio di Pacini Battaglia. A Milano è stato inquisito diverse volte, io ho chiesto decine e decine di rogatorie in Svizzera proseguite dai miei colleghi... Dice una mostruosità chi afferma che Pacini ha avuto un trattamento di favore, e se si dice che lo abbiamo fatto per motivi diversi si dice una calunnia. Ho l’animo esacerbato. Ho i pubblici ministeri di Brescia che si oppongono a che io mi costituisca parte civile, ho una campagna diffamatoria che vuol fare passare l’inchiesta di Mani pulite per un’inchiesta a metà. Chi come me ha vissuto quell’inchiesta e l’ha fatto con tutta la dedizione possibile si sente offeso e credo che offesi si sentano anche i miei colleghi quando si sentono attaccati. A loro va la mia solidarietà. Ho sentito dire che sarei stato io, quel giorno di marzo del ’93, a mandare via sbrigativamente Pacini. Quell’interrogatorio non l’ho fatto io e non sono stato io a rimettere in libertà Pacini Battaglia. Chi ha preso la decisione l’ha presa perché aveva il parere positivo di tutti i colleghi dopo l’apporto collaborativo di Pacini Battaglia».
Giovedì 10 ottobre 1996. Scalpore per nuove intercettazioni Pacini Battaglia. Vengono diffuse le trascrizioni di nuove intercettazioni telefoniche che hanno per protagonista il banchiere Pierfrancesco Pacini Battaglia, arrestato il 15 settembre nell’ambito dell’“Operazione container” (l’inchiesta dei magistrati di La Spezia che ha fatto finire in carcere pure Lorenzo Necci, amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato). Si tratta di virgolettati nei quali Pacini Battaglia parla di amicizie utili fra i magistrati di Milano, di Roma e di Brescia, pronuncia una frase che nella trascrizione suona inquietante («A me Di Pietro e Lucibello mi hanno sbancato»), accenna a un misterioso conto estero intestato a Mazzoleni, cognome della moglie e del suocero del magistrato simbolo di Mani pulite. Parlando di Di Pietro e dell’avvocato Rosario Lucibello (suo difensore), Pacini Battaglia dice all’avvocato Marcello Petrelli: «Se li arrestano per me è solo un piacere». Di Pietro, ministro dei Lavori pubblici del governo Prodi, replica con una denuncia depositata nella caserma dei carabinieri di La Spezia: «Escludo che io o i miei familiari abbiamo una lira all’estero». Lucibello denuncia lo «stillicidio sospetto» e l’«inaccettabile metodo della estrapolazione di frasi» che porta a uno «stravolgimento» del significato complessivo delle intercettazioni.
Giovedì 17 ottobre 1996. Salamone rimosso dall’inchiesta su Di Pietro. Dopo sei mesi di battaglia a colpi di esposti, istanze e memorie, Antonio Di Pietro riesce a bloccare il sostituto procuratore Fabio Salamone, il magistrato autore delle indagini su di lui che dopo tre proscioglimenti voleva “rifargli il processo”: il procuratore generale di Brescia Marcello Torregrossa rimuove Salamone (e con lui Silvio Bonfigli) dalla funzione di pubblico ministero nel processo sul presunto complotto per costringere l’ex pm di Mani pulite a lasciare la magistratura, la motivazione è ravvisata in una «grave inimicizia» fra Di Pietro e Filippo Salamone, fratello del pm. Al posto di Salamone e Bonfigli, Torregrossa designa Raimondo Giustozzi, che tra lo sconcerto generale si presenta in aula consegnando al presidente Francesco Maddalo copia del provvedimento della procura generale che – a quanto si dice – non ha precedenti nella storia giudiziaria.
Giovedì 14 novembre 1996. Di Pietro si dimette da ministro. Con una lettera a Palazzo Chigi, Antonio Di Pietro si dimette da ministro dei Lavori pubblici del governo Prodi. Lettera di dimissioni di Antonio Di Pietro, giovedì 14 novembre 1996. «Sig. Presidente, ho da poco saputo dal Tg5 che sarei stato sottoposto ad indagini dalla Procura della Repubblica di Brescia, per un insieme di fatti a me non noti sia perché non li ho commessi sia perché nessuno me ne ha dato notizia. Sono anni ormai che vengo sottoposto ad indagini ed accertamenti di ogni tipo – legali ed illegali – sempre ingiustamente come dimostrano le numerose sentenze di proscioglimento che mi riguardano. Eppure il tiro al piccione continua perché mi si deve far pagare ad ogni costo l’unica mia vera colpa (di cui peraltro sono orgoglioso): aver voluto fare ad ogni costo e fino in fondo il mio dovere. A questo punto dico: “Basta!”. Basta, con certi magistrati invidiosi e teorizzatori! Basta, con organi investigativi iperzelanti e fantasiosi! Basta, con la stampa che crea le notizie prima ancora che accadano! Basta, con i calunniatori prezzolati che mettono tutti sulla stessa barca solo per salvare i loro mandanti! Basta, con quegli avvocati che non hanno saputo accettare i verdetti dei giudici ed oggi cercano scuse per giustificare le loro sconfitte processuali! Basta, dar spazio e credito a imputati rancorosi e vendicativi! Basta, soprattutto, con chi vuole usare la mia persona per delegittimare per un verso l’inchiesta Mani pulite e per l’altro il Governo e le Istituzioni! Tolgo il disturbo e non risponderò più ad alcuna provocazione. Buon Futuro. Antonio Di Pietro. P.S.: Ti prego vivamente di non propormi alcun invito al ripensamento, perché le mie dimissioni sono irrevocabili, come testimonia questa mia doppia firma».
Lunedì 25 novembre 1996. Borrelli: «Di Pietro disse: “Berlusconi lo sfascio io”». Nonostante siano passati ormai quasi due anni (6 dicembre 1994), il clamoroso addio di Antonio Di Pietro al pool Mani pulite fa ancora discutere: al processo di Brescia sul presunto complotto per farlo dimettere, Francesco Saverio Borrelli, procuratore capo di Milano, racconta che Di Pietro sostenne fino all’ultimo l’invio dell’avviso di comparizione all’allora premier Silvio Berlusconi (22 novembre 1994), al punto da promettere «poi in aula ci vado io e a quello lo sfascio».
Mercoledì 29 gennaio 1997. Di Pietro, il complotto non ci fu. La Procura di Brescia sentenzia che non ci fu complotto contro l’ex pm di Mani pulite Antonio Di Pietro per indurlo a lasciare la magistratura: dopo due giorni di camera di consiglio, Cesare Previti, Paolo Berlusconi, Ugo Dinacci e Domenico De Biase sono assolti perché «il fatto non sussiste».
Giovedì 18 febbraio 1999. Nuova assoluzione per Di Pietro. Sotto processo per corruzione, l’ex pm di Mani pulite Antonio Di Pietro è assolto dal Gip di Brescia Anna De Martino «perché il fatto non sussiste». Vengono assolti anche il banchiere tosco-svizzero Pierfrancesco Pacini Battaglia (secondo l’accusa ne aveva comprato i favori), l’avvocato Giuseppe Lucibello (secondo l’accusa aveva asseritamente beneficiato dei favori) e il costruttore Antonio D’Adamo, l’imprenditore sulle cui confessioni la Procura di Brescia aveva riposto buona parte del destino dell’inchiesta. In lacrime alla proclamazione del verdetto, poco dopo Di Pietro è colto da un lieve malore che lo costringe a un passaggio dal pronto soccorso.
Mercoledì 19 gennaio 2000. Muore Bettino Craxi. Ad Hammamet (Tunisia) muore Bettino Craxi: nato a Milano il 24 febbraio 1934, dal 15 luglio 1976 all’11 febbraio 1993 era stato segretario del Psi, dal 4 agosto 1983 al 17 aprile 1987 presidente del Consiglio. Carriera politica terminata causa l’indagine Mani pulite, nel 1994 aveva lasciato l’Italia (prima che, il 12 maggio, gli venisse ritirato il passaporto). Era stato condannato con sentenza passata in giudicato a 5 anni e 6 mesi per corruzione nel processo Eni-Sai (12 novembre 1996), a 4 anni e 6 mesi per finanziamento illecito per le mazzette della metropolitana milanese (20 aprile 1999); in primo grado era stato condannato a 4 anni e una multa di 20 miliardi di lire per il caso All Iberian (13 luglio 1998, pena poi prescritta in appello il 26 ottobre 1999), a 5 anni e 5 mesi per le tangenti Enel (22 gennaio 1999); in appello era stato condannato a 5 anni e 9 mesi per il conto protezione (sentenza poi annullata dalla Cassazione con rinvio il 15 giugno 1999), in appello bis a 3 anni per il caso Enimont (1 ottobre 1999). Era stato inoltre rinviato a giudizio per i fondi neri Montedison (25 marzo 1998) e per i fondi neri Eni (30 novembre 1998).
Nota di lettura: per problemi di spazio, non sono stati inseriti nella cronologia tutti gli esiti processuali dei personaggi coinvolti nell’inchiesta Mani pulite, bisogna però tenere presente che alcuni degli arrestati sono stati poi assolti nelle aule di tribunale.
Mani pulite. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. L'espressione Mani pulite designa una controversa stagione degli anni novanta in Italia, caratterizzata da una serie di indagini giudiziarie condotte a livello nazionale nei confronti di esponenti della politica, dell'economia e delle istituzioni italiane. Le indagini portarono alla luce un sistema di corruzione, concussione e finanziamento illecito ai partiti ai livelli più alti del mondo politico e finanziario italiano detto Tangentopoli. Furono coinvolti ministri, deputati, senatori, imprenditori, perfino ex presidenti del Consiglio. Le inchieste furono inizialmente condotte da un pool della Procura della Repubblica di Milano (formato dai magistrati Antonio Di Pietro, Piercamillo Davigo, Francesco Greco, Gherardo Colombo, Tiziana Parenti, Ilda Boccassini e guidato dal procuratore capo Francesco Saverio Borrelli e dal suo vice Gerardo D'Ambrosio) e allargate a tutto il territorio nazionale, diedero vita ad una grande indignazione dell'opinione pubblica e di fatto rivoluzionarono la scena politica italiana. Partiti storici come la Democrazia Cristiana, il Partito Socialista Italiano, il PSDI, il PLI sparirono o furono fortemente ridimensionati, tanto da far parlare di un passaggio ad una Seconda Repubblica.
Origine dell'espressione. Il primo ad usare l'espressione Mani pulite fu il politico italiano Giorgio Amendola, deputato per il Partito Comunista Italiano, in un'intervista a Manlio Cancogni pubblicata da Il Mondo, il 10 luglio 1975, in risposta alle critiche che venivano mosse all'onestà nella gestione delle amministrazioni pubbliche allo stesso PCI: «Ci hanno detto che le nostre mani sono pulite perché non l'abbiamo mai messe in pasta. Come se non si potessero avere dei grandi affari amministrando l'opposizione in una certa maniera». L'espressione Mani pulite fu ripresa e usata, poi dal giornalista e scrittore italiano Claudio Castellacci in un libro dal titolo omonimo pubblicato nel 1977. Tre anni più tardi il presidente della Repubblica Sandro Pertini, in un discorso ai giovani, tenuto nel 1980, disse: «Chi entra in politica, deve avere le mani pulite». In un'accezione ristretta, l'indagine "Mani pulite" è quella gemmata dal "fascicolo virtuale" (n. 9520) aperto alla Procura della Repubblica presso il tribunale di Milano nel 1991 dal pool omonimo. In un'accezione allargata, di "Mani pulite" si parla anche per le altre indagini per reati contro la pubblica amministrazione condotte nello stesso periodo dalla procura di Milano (es. ENI-Sai) e, più in generale ancora, in tutte le altre procure italiane che diedero corso nel medesimo periodo ad indagini contro il malaffare in politica (si parlò di "Mani pulite" napoletana per le indagini contro Francesco De Lorenzo, Antonio Gava e Cirino Pomicino, di "Mani pulite" romana per le indagini su Moschetti, di "Mani pulite" genovese, piemontese, ecc.).
17 febbraio 1992: la scoperta di Tangentopoli. Mario Chiesa, il "mariuolo isolato". «Tutto era cominciato un mattino d'inverno, il 17 febbraio 1992, quando, con un mandato d'arresto, una vettura dal lampeggiante azzurro si era fermata al Pio Albergo Trivulzio e prelevava il presidente, l'ingegner Mario Chiesa, esponente del Partito Socialista Italiano con l'ambizione di diventare sindaco di Milano. Lo pescano mentre ha appena intascato una bustarella di sette milioni, la metà del pattuito, dal proprietario di una piccola azienda di pulizie che, come altri fornitori, deve versare il suo obolo, il 10 per cento dell'appalto che in quel caso ammontava a 140 milioni.» Tangentopoli cominciò il 17 febbraio 1992. Il pubblico ministero Antonio Di Pietro chiese ed ottenne dal GIP Italo Ghitti un ordine di cattura per l'ingegner Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio e membro di primo piano del PSI milanese. Chiesa era stato colto in flagrante mentre intascava una tangente dall'imprenditore monzese Luca Magni che, stanco di pagare, aveva chiesto aiuto alle forze dell'ordine. Magni, d'accordo coi carabinieri e con Di Pietro, fece ingresso alle 17:30 nell'ufficio di Mario Chiesa, portando con sé 7 milioni di lire, corrispondenti alla metà di una tangente richiestagli da quest'ultimo; l'appalto ottenuto dall'azienda di Magni era infatti di 140 milioni e Chiesa aveva preteso per sé il 10%, quindi una tangente da 14 milioni. Magni aveva un microfono e una telecamera nascosti e, appena Chiesa ripose i soldi in un cassetto della scrivania, dicendosi disponibile a "rateizzare" la transazione, nella stanza irruppero i militari, che notificarono l'arresto. Chiesa, a quel punto, afferrò il frutto di un'altra tangente, stavolta di 37 milioni, e si rifugiò nel bagno attiguo, dove tentò di liberarsi del maltolto buttando le banconote nel water; ma invano. La notizia fece scalpore e finì sulle prime pagine dei quotidiani e dei telegiornali. Bettino Craxi, leader dello stesso PSI, con l'obiettivo di ritornare alla presidenza del Consiglio, dopo le elezioni politiche di primavera, negò, intervistato dal Tg3, l'esistenza della corruzione a livello nazionale, definendo Mario Chiesa un mariuolo isolato, una "scheggia impazzita" dell'altrimenti integro Partito Socialista che "in cinquant'anni di amministrazione a Milano, non aveva mai avuto un solo politico inquisito per quei reati".
L'allargamento delle indagini anticorruzione e le elezioni del 1992. Rinchiuso nel carcere di San Vittore, Chiesa in un primo momento non confessò. Il PM Di Pietro che, nelle indagini sull'ingegnere aveva scoperto e messo sotto sequestro due conti svizzeri, "Levissima" e "Fiuggi", chiamò al telefono l'avvocato di Chiesa, Nerio Diodà, e gli disse: «Avvocato, riferisca al suo cliente che l'acqua minerale è finita.» Così, sotto interrogatorio, Chiesa rivelò che il sistema delle tangenti era molto più esteso rispetto a quanto affermato da Craxi. Secondo le sue dichiarazioni, la tangente era diventata una sorta di "tassa", richiesta nella stragrande maggioranza degli appalti. A beneficiare del sistema erano stati politici e partiti di ogni colore, specialmente quelli al governo come appunto la DC e il PSI. Chiesa fece anche i nomi delle persone coinvolte. Vista la delicata situazione politica, in piena campagna elettorale, Antonio Di Pietro mantenne sulle indagini il più assoluto riserbo, mentre alcune formazioni come la Lega Nord iniziarono a cogliere la sempre più crescente indignazione popolare per raccogliere voti (con lo slogan "Roma ladrona!"). Altre, come la Dc, sottovalutarono il "peso politico" di Mani Pulite e altri ancora come Bettino Craxi accusarono la Procura di Milano di muoversi dietro un «...preciso disegno politico». Le elezioni di aprile furono segnate dal crescere dell'astensione e dell'indifferenza della popolazione nei confronti di una politica chiusa e ingabbiata negli stessi schemi dai tempi del dopoguerra, incapace di rinnovarsi malgrado gli epocali cambiamenti storici di quegli anni. Il calo di consensi investì quasi tutti i maggiori partiti: la DC calò dal 34,3 % al 29,6; il PSI, che nelle precedenti consultazioni aveva toccato i suoi massimi storici, scese di un punto percentuale; PRI, PLI e PSDI conservarono le loro posizioni. Il PDS e PRC, eredi del disciolto PCI, persero complessivamente un quarto dei voti. I veri vincitori delle elezioni furono la Lega Nord e La Rete, due formazioni di recente fondazione, sviluppatesi una nell'Italia settentrionale, l'altra nel Meridione, che registrarono un vero e proprio boom, facendo della moralizzazione e del rinnovamento politico dei veri e propri cavalli di battaglia. Subito dopo le elezioni, molti industriali e politici furono arrestati con l'accusa di corruzione. Le indagini iniziarono a Milano, ma si propagarono velocemente ad altre città, man mano che procedevano le confessioni. Una situazione grottesca accadde quando un politico socialista confessò immediatamente tutti i propri crimini a due carabinieri che erano arrivati a casa sua, per poi scoprire che i militari erano venuti semplicemente per notificargli una multa. Fondamentale, per questa espansione esponenziale delle indagini, fu la diffusa tendenza dei leader politici a privare del proprio appoggio i politici meno importanti che venivano arrestati; questo fece sì che molti di questi si sentissero traditi e spesso accusassero altri politici, che a loro volta ne accusavano altri ancora. Nel Parlamento che si formò, il quadripartito (DC, PSI, PSDI e PLI) conservava comunque la maggioranza assoluta dei seggi ma l'ondata di arresti e di avvisi di garanzia lo indebolirono fortemente. Quando, a maggio, le Camere appena riunite furono chiamate a eleggere il nuovo Presidente della Repubblica, le votazioni si tennero in un clima di caos totale (in quegli stessi giorni veniva ucciso il giudice Giovanni Falcone) e fu affossata dapprima la candidatura di Arnaldo Forlani, poi quella di Giulio Andreotti. Alla fine, fu eletto il democristiano Oscar Luigi Scalfaro, candidato dei "moralizzatori". Scalfaro si rifiutò di concedere incarichi ai politici vicini agli inquisiti: Bettino Craxi, che aspirava a tornare alla presidenza del Consiglio, dovette rinunciare in favore di Giuliano Amato. Ad agosto, Craxi attaccò Di Pietro sull'Avanti!, organo del suo partito: «Non è tutto oro quello che luccica. Presto scopriremo che Di Pietro è tutt'altro che l'eroe di cui si sente parlare. Ci sono molti, troppi aspetti poco chiari su Mani Pulite». Il 2 settembre 1992 il politico socialista Sergio Moroni si uccise. Lasciò una lettera in cui si dichiarava colpevole, affermando che i crimini commessi non erano per il proprio tornaconto ma a beneficio del partito, e accusò il sistema di finanziamento di tutti i partiti. Bettino Craxi, segretario del PSI molto legato a Moroni, si scagliò contro stampa e magistratura sostenendo che si fosse creato un "clima infame". La figlia Chiara, politicamente impegnata nel centrodestra negli anni a seguire, sarebbe divenuta una delle voci più critiche nei confronti di Mani Pulite. A settembre viene resa nota un'indagine della Procura di Brescia su un ex ufficiale dei carabinieri che avrebbe girato l'Italia per raccogliere notizie compromettenti sulla vita privata di Di Pietro. Due suoi amici avrebbero ricevuto offerte in denaro per rivelare che il magistrato avrebbe fatto uso di droga. L'indagine venne archiviata. Secondo alcune dichiarazioni dello stesso Craxi, il capo della polizia, Vincenzo Parisi, lo avrebbe incontrato e gli avrebbe riferito che era in possesso di tabulati telefonici su contatti fra Di Pietro e l'avvocato Giuseppe Lucibello su un loro "misterioso" viaggio in Svizzera.
La reazione dell'opinione pubblica. L'opinione pubblica, dopo l'iniziale smarrimento, si schierò in massa dalla parte dei PM: la giustificazione stessa della legge sul finanziamento pubblico ai partiti veniva percepita come priva di senso, visto che per anni era stata spiegata con le necessità di sostentamento della politica ed ora si scopriva che ciò non aveva fatto venir meno la corruzione. Nacquero comitati e movimenti spontanei, furono organizzate fiaccolate di solidarietà con il pool, sui muri comparvero scritte come "W Di Pietro", "Di Pietro non mollare", "Di Pietro facci sognare" e "Di Pietro tieni duro!". Si diffusero persino slogan come "Tangente, tangente. E i diritti della gente?" o "Milano ladrona, Di Pietro non perdona!", o anche "Colombo, Di Pietro: non tornate indietro!"; vennero distribuiti orologi rappresentanti "l'ora legale". Nei sondaggi dell'epoca, la popolarità di Di Pietro e del pool raggiunse la percentuale record dell'80%, la cosiddetta "soglia dell'eroe".
1993: tentativi di resistenza. La pioggia di avvisi di garanzia. Nelle elezioni locali di dicembre si confermò la crisi dei partiti tradizionali: la DC e il PSI persero ciascuno circa la metà dei voti. Le inchieste proseguirono e si estesero in tutta Italia, offrendo un panorama di corruzione diffusa dal quale nessun settore della politica nazionale o locale appariva immune. Politici e imprenditori di primissimo piano furono inquisiti e travolti da una pioggia di avvisi di garanzia. Tra questi anche Bettino Craxi, che a febbraio dovette dimettersi da segretario del Partito Socialista. Una mole ingentissima di procedimenti (72) furono intentati anche contro il tesoriere DC Severino Citaristi. Sulla spinta delle crescenti proteste popolari, il governo Amato s'impegnò a sollecitare le dimissioni di ogni suo componente raggiunto da un avviso di garanzia. Le inchieste toccarono inevitabilmente anche molti ministri, tanto che l'esecutivo raggiunse una percentuale di dimissioni senza precedenti. Dopo alcune affermazioni di Umberto Bossi, circa il coinvolgimento di un personaggio di altissimo livello, gli stessi ambienti della Procura milanese divulgarono una "velina" alla stampa in cui si precisava che nessuna delle supreme cariche dello Stato (Presidente della Repubblica, Presidenti di camera e Senato, Presidente del consiglio) era nel mirino delle inchieste in corso. Le indagini fecero emergere anche l'esistenza di conti personali, dove venivano dirottati i soldi delle tangenti, che venivano sfruttate quindi non soltanto per sostenere le spese dei partiti. Ad esempio, come avrebbe sancito la sentenza della Corte d'Appello di Milano del 26 ottobre 1999, Bettino Craxi utilizzò i fondi provenienti dalle mazzette oltre che per pagare «gli stipendi dei redattori dell'Avanti!», anche per una serie di impieghi inequivocabilmente personali:« Non ha alcun fondamento la linea difensiva incentrata sul preteso addebito a Craxi di responsabilità ‘di posizione’ per fatti da altri commessi, risultando dalle dichiarazioni di Tradati che egli si informava sempre dettagliatamente dello stato dei conti esteri e dei movimenti che sugli stessi venivano compiuti, e dispose prelievi sia a fine di investimento immobiliare (l’acquisto di un appartamento a New York), sia per pagare gli stipendi dei redattori dell’Avanti!, sia ancora per versare alla stazione televisiva Roma Cine Tivù (la denominazione legale di GBR di cui era direttrice generale Anja Pieroni, legata a Craxi da rapporti sentimentali) un contributo mensile di cento milioni di lire. Lo stesso Craxi dispose poi l’acquisto di una casa e di un albergo in Roma, intestati alla Pieroni». A febbraio, il socialista Silvano Larini si costituì e confessò la verità sul "conto protezione", che aveva come reale destinatario il Partito Socialista nelle persone di Martelli (percettore materiale) e Craxi; Martelli si dimise da Ministro della giustizia e si sospese dal partito, pregiudicandosi ogni possibilità di succedere a Craxi, che in quelle ore era dimissionario da segretario nazionale. Martelli sarà poi condannato in appello nel 2001. Nelle nuove elezioni amministrative del 6 giugno 1993 il Pentapartito conobbe un pesante tracollo: la DC perse nuovamente metà dei voti e il Partito Socialista praticamente sparì. La Lega Nord divenne la maggior forza politica dell'Italia settentrionale, conquistando anche la città di Milano, dove fu eletto sindaco Marco Formentini. L'opposizione di sinistra si avvicinava alla maggioranza, ma mancava ancora di unità e di comando. La Falange Armata, formazione eversiva di destra sospettata di legami con i servizi segreti deviati, mandò il primo messaggio di morte al pool. Secondo le dichiarazioni di alcuni pentiti, la mafia progettava di eliminare Di Pietro, per un favore da ricambiare verso un politico del Nord.
Il decreto Conso: il "colpo di spugna". Il 5 marzo 1993, il governo varò un decreto legge (il decreto Conso, da Giovanni Conso, il Ministro della Giustizia che lo propose), che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti e definito per questo il "colpo di spugna". Il decreto, che recepiva un testo già discusso e approvato dalla Commissione Affari Costituzionali del Senato, conteneva un controverso articolo che dava alla legge un valore retroattivo, e che quindi avrebbe compreso anche gli inquisiti di Mani Pulite. L'allarme che le inchieste di Tangentopoli rischiavano di insabbiarsi fu lanciato dal pool milanese in televisione: l'opinione pubblica e i giornali gridarono allo scandalo e il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro per la prima volta nella storia repubblicana rifiutò di firmare un decreto-legge, ritenendolo incostituzionale. Conso diede le dimissioni; pochi giorni dopo il referendum del 18 aprile 1993 (promosso dal democristiano dissidente Mario Segni), gli elettori votarono in massa a favore dell'introduzione del sistema maggioritario. Fu un segnale politico molto forte della sempre più crescente sfiducia nei confronti della politica tradizionale; il governo Amato, intravedendo nel risultato del referendum un segnale di sfiducia nei suoi confronti, rassegnò le dimissioni il 21 aprile. Il Parlamento non riuscì a formare un nuovo governo politico: Scalfaro decise perciò di affidare ad aprile la presidenza del Consiglio al governatore della Banca d'Italia Carlo Azeglio Ciampi, il quale costituì un governo tecnico, il primo nella storia d'Italia. Ciampi si pose due obiettivi fondamentali: una nuova legge elettorale che doveva essere scritta "sotto dettatura" del referendum (approvata alla fine dell'anno, introduceva un sistema per tre quarti maggioritario) e il rilancio dell'economia (che stava vivendo una difficilissima stagnazione, con la lira precipitata ai minimi storici).
La contestazione a Craxi. Il 30 aprile la Camera dei deputati negò l'autorizzazione a procedere nei confronti di Bettino Craxi, uno degli inquisiti più celebri di Tangentopoli. Il giorno prima Craxi si era presentato nell'aula e in un discorso ammise di aver ricevuto finanziamenti illeciti ma si giustificò sostenendo che i partiti non potevano sorreggersi con le entrate legali e attaccò l'ipocrisia di coloro che, all'interno del Parlamento, sostenevano le tesi dei magistrati, ma in realtà anche loro avevano beneficiato del sistema delle tangenti. Mentre il presidente della Camera, Giorgio Napolitano, leggeva i risultati delle votazioni, contrari all'autorizzazione, i deputati della Lega Nord e del MSI insultarono i colleghi dando loro dei "ladri" e degli "imbroglioni". La mancata autorizzazione scatenò una reazione violentissima: diversi ministri del neonato governo diedero le dimissioni per protesta (tra di loro Francesco Rutelli e Vincenzo Visco). Studenti dei licei romani manifestarono per le strade della Capitale, alcune Università furono occupate, in molte città le sedi del PSI furono assalite dai manifestanti; la stessa sezione nazionale in Via del Corso fu oggetto di una sassaiola, scongiurata da alcune cariche della polizia. Nel pomeriggio i partiti di sinistra (PDS, Verdi, Partito della Rifondazione Comunista e altri) indissero una manifestazione a Piazza Navona, mentre il MSI ne allestì una parallela davanti a Montecitorio: entrambe chiedevano lo scioglimento delle Camere. Al termine delle manifestazioni, un gruppo di persone si avvicinò all'Hotel Raphael, nel centro di Roma, che era la residenza capitolina di Craxi. Quando il leader socialista uscì dall'albergo, i manifestanti gli lanciarono oggetti di ogni tipo, soprattutto monetine; altri sventolavano banconote (gridando: «Bettino, vuoi pure queste?»), e nel frattempo venivano scanditi slogan contro il politico socialista che auspicavano il carcere («Bettino, Bettino il carcere è vicino») o addirittura il suicidio.
Il caso degli emoderivati infetti. Nel 1993 Duilio Poggiolini e altri importanti personaggi della sanità di allora vennero indagati per un giro di corruzione a vari livelli, incluse bustarelle delle case farmaceutiche Bayer e Baxter per il commercio di flaconi di sangue intero ed emoderivati infetti con AIDS ed epatiti presi da tossicodipendenti, galeotti e persone con rischiose attività sessuali. Le persone, che in conseguenza di questo sono state infettate durante le trasfusioni, si sono costituite parte lesa durante i processi.
La "stagione dei suicidi" e gli attacchi a Di Pietro. A metà marzo fu reso pubblico uno scandalo per 250 milioni di dollari, riguardante l'Ente Nazionale Idrocarburi (ENI). Il flusso di accuse, arresti e confessioni non si arrestò. Nel frattempo, Di Pietro chiese una rogatoria sui conti di Craxi a Hong Kong. La Falange Armata inviò una nuova minaccia: «...gli uccideremo il figlio». A giugno venne arrestato il primo manager Fininvest, Aldo Brancher. Secondo Marco Travaglio, il 12 luglio Silvio Berlusconi inviava un fax a Il Giornale, di cui era proprietario, intimando di «sparare a zero sul pool». Ma i condirettori Indro Montanelli e Federico Orlando si rifiutarono. Il 17 luglio 1993 Il Sabato, settimanale di Comunione e Liberazione, pubblicò un dossier sulla corruzione nella politica della prima Repubblica, sul fatto che la magistratura ne sarebbe stata al corrente e sulle presunte malefatte di Di Pietro, il quale sarebbe stato in combutta con diversi imprenditori, che in cambio di denaro avrebbe protetto dalle indagini. Il dossier, che indagava sulle proprietà immobiliari e patrimoniali di Di Pietro accresciute in modo esponenziale, era attinto da un manoscritto del giornalista Filippo Facci circolato in forma anonima all'inizio del 1993 dopo essere stato acquistato da un fantomatico editore irlandese; i suoi contenuti si sarebbero riversati nelle campagne giornalistiche contro il pool condotte negli anni successivi, come il dossier Achille e gli altri addebiti che in sede giudiziaria furono confutati, quando a partire dal 1995 varie sentenze giudicarono infondate quelle campagne scandalistiche. Il GICO di Firenze concluse le indagini sull'Autoparco di Milano e sulle protezioni accordate dalla mafia: con questi addebiti nell'autunno 1993 la Procura di Firenze ordinò tre mesi di arresti tra gli ufficiali di polizia che collaboravano con il pool di Milano. Il rapporto del Gico cita, a sostegno della richiesta di arresti, anche un «collaboratore», Salvatore Maimone, autore di accuse anche a tre sostituti procuratori milanesi. Maimone poi dichiarò che le accuse ai pm gli erano state sollecitate ed in ogni caso il processo agli ufficiali di polizia si concluse con le loro assoluzioni. Il 20 luglio 1993, l'ex-presidente dell'ENI, Gabriele Cagliari, da oltre 4 mesi di carcere preventivo, si uccise, dopo aver scritto una lettera in cui accusava i PM di Milano di tenerlo in carcere con l'intento di farlo confessare; in seguito, sua moglie restituì oltre 6 miliardi di lire di fondi illegali. Tre giorni dopo si uccise con un colpo di pistola anche Raul Gardini, presidente del gruppo Ferruzzi-Montedison. Gardini aveva saputo dal suo avvocato che stava per essere coinvolto nelle indagini di Mani pulite sulla tangente Enimont. Alcuni ipotizzarono che il suicidio di Gardini abbia avuto tra le cause scatenanti, oltre al tentativo di eludere il proprio coinvolgimento nel caso Enimont, anche l'intento di non esporsi a collegamenti con Cosa Nostra che stavano emergendo dalle indagini; altri ancora ipotizzarono addirittura che il suicidio fosse in realtà un omicidio premeditato negli ambienti politici e che si inscrivesse in un disegno di copertura della corruzione cui appartenne anche il presunto suicidio di Sergio Castellari.
Le tangenti rosse. Il sostituto procuratore Tiziana Parenti, da poco nel pool milanese, nel marzo 1993 divenne il PM delle "tangenti rosse" al PCI-PDS con le accuse al parlamentare Marcello Stefanini, tesoriere del Pds, per le tangenti versate dal gruppo Ferruzzi a Primo Greganti, il cosiddetto "compagno G".
Il processo Cusani. Nel frattempo iniziò il processo a Sergio Cusani. Cusani era accusato di reati collegati ad una joint venture tra ENI e Montedison, chiamata Enimont, nella quale aveva fatto da agente di collegamento tra Raul Gardini e il mondo politico nazionale: la sua fedeltà alla memoria del suo vecchio patron, tragicamente defunto, fu probabilmente l'unico argine ad un'ennesima chiamata di correità dei politici, comunque inquisiti per le dichiarazioni convergenti degli altri manager del gruppo Ferruzzi (Garofalo e Sama). Ecco perché il giudizio abbreviato, chiesto a sorpresa dall'imputato e celermente concesso dalla Procura, si trasformò in un'insperata occasione di confrontare il silenzio di Cusani con le prove a suo carico, mostrando come esse fossero sufficienti ad un impianto accusatorio che avrebbe poi retto alla prova anche del successivo troncone del processo ENIMONT. Il processo fu trasmesso in diretta dalla Rai, registrando ascolti record: celebri furono gli accesi scontri verbali fra Di Pietro e l'avvocato di Cusani, Giuliano Spazzali, durante i quali il magistrato impiegava il suo colorito linguaggio popolare (il cosiddetto "dipietrese"), che ne aumentarono la popolarità e l'affetto del popolo e sarebbe diventato una delle sue caratteristiche più famose. Cusani non era una figura di primo piano, ma nell'affare Enimont erano coinvolti molti politici di primo piano e molti di loro furono chiamati a deporre come testimoni. Tra questi, l'ex Presidente del Consiglio, Arnaldo Forlani, che, rispondendo ad una domanda, disse semplicemente «Non ricordo». Nelle fotocolor e nelle riprese video fatte dai giornalisti, Forlani appariva molto nervoso e sembrava non rendersi conto della goccia di saliva che si accumulava sulle sue labbra; questa immagine assurse a simbolo dell'assenza di self control di chi era per la prima volta chiamato a rendere conto delle proprie azioni. Bettino Craxi, invece, ammise che il suo partito aveva ricevuto i fondi illegali, anche se negò che ammontassero a 93 milioni di dollari. La sua difesa fu, ancora una volta, che «lo facevano tutti» ma la sua deposizione, al contrario delle precedenti, non venne interrotta dal pubblico ministero d'udienza, Antonio Di Pietro, il quale reagì alle critiche per questa sua inusuale condotta processuale, dichiarando alla stampa che per la prima volta vi era stata una piena confessione. Anche la Lega Nord e il disciolto PCI, che sostenevano pubblicamente i magistrati e le loro inchieste, furono coinvolti nelle chiamate in correità: sulla base di queste, nel successivo processo ENIMONT Umberto Bossi e l'ex tesoriere Alessandro Patelli furono condannati per aver ricevuto 200 milioni di finanziamenti illegali, mentre le condanne di Primo Greganti e di alcuni esponenti milanesi toccarono il partito comunista solo marginalmente. Nel processo emerse anche, che una valigia contenente denaro era pervenuta in Via delle Botteghe Oscure, nella sede nazionale del PCI, ma le indagini si erano arenate, dato che non si erano trovati elementi penalmente rilevanti nei confronti di persone fisiche. In proposito il Pubblico Ministero Antonio Di Pietro disse: «La responsabilità penale è personale, non posso portare in giudizio una persona che si chiami Partito di nome e Comunista di cognome». Alcuni detrattori di Di Pietro ritengono tuttavia che il PM non abbia fatto il possibile per individuare i componenti del PCI responsabili di corruzione: ipotesi che Di Pietro liquida come «un'autentica falsità».
1994: La guerra tra Berlusconi e Di Pietro. Le Fiamme sporche. Nel frattempo, le indagini si allargarono oltre i confini della politica: il 2 settembre 1993, fu arrestato il giudice milanese Diego Curtò. Il 13 marzo 1994, Il Giornale - che dopo le dimissioni polemiche di Montanelli era passato in mano a Vittorio Feltri - associò il nome di Curtò e dell'imprenditore Salvatore Ligresti ai magistrati del pool, Davigo, Di Pietro e Francesco Di Maggio. Sarebbero stati tutti soci di una cooperativa edilizia. Feltri fu poi condannato per diffamazione, in quanto quella cooperativa non era mai esistita. Il 15 la Falange Armata minaccia di nuovo Di Pietro: «Gli metteremo il tritolo sotto la macchina». Il 21 aprile, 80 uomini della Guardia di Finanza (fu per questo coniato il termine "fiamme sporche") e 300 personalità dell'industria furono accusate di corruzione. A giugno si scoprì che nell'inchiesta delle "Fiamme sporche" era coinvolta anche la Fininvest. Alcuni giorni dopo, un manager della Fiat ammise la corruzione con una lettera a un giornale. Lo stesso giorno, Berlusconi denunciò al PG di Milano, Giulio Catelani, presunti abusi del pool nelle perquisizioni negli uffici di Publitalia.
Il decreto Biondi. Nel 1994, Silvio Berlusconi entrava in politica (con le sue parole, "scende in campo") e a fine marzo il suo partito vinse le elezioni. Poco dopo la vittoria, Berlusconi propose pubblicamente a Di Pietro di entrare a far parte del suo governo come Ministro dell'Interno e a Davigo come Ministro della Giustizia, ma entrambi rifiutarono. Nel 2006, Berlusconi negò di aver mai chiesto ai due magistrati di entrare nel suo governo. Nel corso del 1993 ed a seguito della sua testimonianza al processo Cusani, emersero sempre più prove contro Bettino Craxi: con la fine della legislatura e l'abolizione dell'autorizzazione a procedere, si fece sempre più vicina la prospettiva di un suo arresto. Il 15 aprile 1994, con l'inizio della nuova legislatura in cui non era stato ricandidato, cessò il mandato parlamentare elettivo e, di conseguenza, venne meno l'immunità dall'arresto. Il 12 maggio 1994 gli venne ritirato il passaporto per pericolo di fuga, ma era già troppo tardi perché Craxi, come si seppe solo il 18 maggio, era già ad Hammamet, in Tunisia; il 5 maggio era stato avvistato a Parigi. Il 21 luglio 1995 Craxi fu dichiarato ufficialmente latitante. Il 13 luglio 1994 il governo emanò un decreto legge (cosiddetto "decreto Biondi" - dall'allora Ministro della Giustizia Alfredo Biondi - spregiativamente soprannominato dai critici "salva-ladri") che favoriva gli arresti domiciliari nella fase cautelare per la maggior parte dei crimini di corruzione. Il decreto fu votato lo stesso giorno in cui alle semifinali della Coppa del Mondo, l'Italia sconfiggeva la Bulgaria. Questa coincidenza alimentò il sospetto che si volesse sfruttare un momento in cui l'opinione pubblica era distratta dai Mondiali. Qualche giorno dopo furono diffuse le prime immagini dei politici accusati di corruzione, che uscivano dal carcere per effetto del decreto Biondi. Fra le scarcerazioni più clamorose vi fu quella dell'ex Ministro della Sanità Francesco De Lorenzo, che venne persino contestato da un gruppo di giovani mentre raggiungeva la sua abitazione nel centro di Roma. L'uscita di De Lorenzo dal carcere provocò numerose polemiche in quanto la gente trovava particolarmente odiosi i furti ai danni del Servizio Sanitario Nazionale, che avrebbero rispettato le leggi dello Stato, incluso il così detto "decreto Biondi", ma che non potevano lavorare in una situazione di conflitto tra il dovere e la loro coscienza, chiedendo, con un comunicato letto da Di Pietro in diretta televisiva, di venire "assegnati ad altri incarichi". L'opinione pubblica insorse indignata: il cosiddetto "popolo dei fax" comunicò il proprio dissenso alle redazioni dei giornali e delle televisioni. Alleanza Nazionale e la Lega Nord, alleati di Berlusconi, minacciarono di togliere la fiducia all'esecutivo. Il decreto viene frettolosamente ritirato: si parlò in effetti di un "malinteso" e il Ministro dell'Interno, Roberto Maroni, sostenne che non aveva nemmeno avuto la possibilità di leggerlo. Secondo una dichiarazione di Roberto Maroni, il decreto sarebbe stato ispirato dal ministro della Difesa Cesare Previti, avvocato di Berlusconi. Il 28 luglio venne arrestato Paolo Berlusconi, fratello del premier, con l'accusa di corruzione.
La denuncia contro il pool. A settembre, il Ministro per i Rapporti col Parlamento Giuliano Ferrara annuncia la sua intenzione di denunciare il pool per attentato alla Costituzione. Verrà denunciato solo Borrelli e in seguito assolto. Il 29 settembre, Sergio Cusani denunciò i giudici del pool per diffamazione e d'omissione d'atti d'ufficio. Il generale Giuseppe Cerciello, imputato nello scandalo delle "fiamme sporche", denunciò Borrelli, Colombo e Di Pietro al CSM per presunte manovre intorno al Gip Andrea Padalino. I processi dimostreranno che queste accuse erano tutte invenzioni. Di Pietro prosegui le sue indagini nei confronti di Berlusconi: il 3 ottobre venne arrestato Giulio Tradati, altro manager Fininvest, il fratello Paolo fu rinviato a giudizio. Vennero scoperte nuove prove sui "fondi segreti" di Craxi, tra cui una super-tangente di 10 miliardi di lire di Berlusconi al leader socialista, tramite la società offshore All Iberian. Il 14 ottobre il ministro Biondi fece partire la prima ispezione contro i magistrati. Per gli ispettori, le inchieste del pool erano tutte corrette. La Falange inviò nuove minacce: «Di Pietro ha i giorni contati. La sua vita è destinata a finire presto». Il 18 novembre i magistrati trovarono, perquisendo l'abitazione del dirigente di Canale 5, Massimo Berruti, la prova che Berlusconi avrebbe ordinato di inquinare le prove sulla corruzione Fininvest. Il 21 novembre, su ordine di Borrelli, i carabinieri notificavano per telefono a Berlusconi l'invito a comparire e gli comunicarono due dei tre capi d'imputazione a lui attribuiti. La notizia venne rivelata in esclusiva l'indomani dal Corriere della Sera e il Cavaliere accusò i magistrati di aver violato il segreto istruttorio, passando la notizia al giornale. Si scoprirà poi che erano state fonti vicine al premier a passare la notizia al Corriere. Le indagini della procura di Brescia videro i magistrati prosciolti dall'accusa di violazione del segreto (perché il segreto cade nel momento in cui l'interessato viene a conoscenza dell'invito a comparire) e le accuse di Berlusconi archiviate. Il 23 novembre l'assicuratore Giancarlo Gorrini, si recò al Ministero della Giustizia e denunciò Di Pietro: lo avrebbe ricattato e avrebbe preteso da lui un prestito di 100 milioni senza interessi, una Mercedes, l'affidamento alla moglie, l'avvocato Susanna Mazzoleni, di tutte le cause della sua compagnia, l'accollo tutti i debiti contratti alle corse ippiche da un certo Eleuterio Rea. Il 24, Biondi avviò un'inchiesta parallela e segreta sul magistrato. Ma il capo degli ispettori, Dinacci, confidò al giudice De Biasi (incaricato di condurre l'inchiesta) che «Previti ha detto di distruggere Di Pietro e che Gorrini era stato pagato». Il 26 novembre, Di Pietro venne avvertito dallo stesso Previti che al Ministero gli stavano preparando una "polpetta avvelenata". Dopo essersi consultato con i colleghi del pool, Di Pietro decise di redigere una memoria da inviare al Csm. Poi cambiò idea e il 6 dicembre, dopo l'ultima requisitoria per il processo Enimont, si dimise dalla magistratura. Fu la fine di Mani pulite. Qualche giorno dopo cade il governo Berlusconi. L'inchiesta sulle "fiamme sporche" venne trasferita dalla Corte di Cassazione a Brescia. De Biasi archiviò l'inchiesta su Di Pietro, scagionandolo completamente: «I fatti non hanno nessuna rilevanza disciplinare».
1995: i complotti contro Di Pietro e i magistrati. A febbraio la denuncia di Cusani contro Di Pietro fu archiviata dal Giudice per le indagini preliminari di Brescia. Viene sventato un attentato contro Gerardo D'Ambrosio. Il Gico di Firenze riaprì l'inchiesta Autoparco. Alla Procura venne consegnato un dossier di 263 pagine, con accuse precise contro i magistrati Di Maggio, Nobili, Armando Spataro e Ilda Boccassini. La Procura archiviò poi, definitivamente, l'inchiesta. In primavera viene riportato da alcuni giornali che Di Pietro si candiderà alla Camera dei deputati nelle liste del Polo delle Libertà. Di Pietro, dopo alcuni incontri con Berlusconi e Previti, negò un suo prossimo ingresso in politica, chiarendo che non avrebbe appoggiato alcun partito. Il 7 aprile Di Pietro venne denunciato dall'avvocato Carlo Taormina e dal generale Cerciello per presunte pressioni su un maresciallo dei carabinieri affinché denunciasse Berlusconi e Cerciello. Il maresciallo smentisce tutto e l'accusa viene archiviata dal GIP di Brescia. Il 13 aprile Berlusconi sostiene in un'intervista che Di Pietro gli avrebbe confidato che non condivideva affatto l'invito a comparire stilato contro di lui, ma l'ormai ex pm smentisce.
Nuove ispezioni contro il pool. Il 5 maggio, il Ministro della Giustizia Filippo Mancuso annunciò una nuova ispezione a Milano. I giudici avrebbero fatto pressioni sugli ispettori, già inviati da Biondi, affinché scagionassero il pool. Venne aperta un'inchiesta anche sui suicidi di Gabriele Cagliari e di Sergio Moroni. Le ispezioni scagionarono totalmente il pool e nella relazione, Mani Pulite viene difesa per «l'estrema correttezza dell'azione dei magistrati». Il procuratore generale Catelani avviò un'indagine informale contro Borrelli. Un settimanale aveva pubblicato le foto del magistrato impegnato a cavalcare un cavallo con la siglia G.G., la quale corrisponderebbe a Giancarlo Gorrini. In realtà il cavallo apparteneva a Giovanni Gennari, figlio del noto finanziere Giuseppe Gennari, colui che nel 1992 fu protagonista della scalata alla Banca Nazionale dell'Agricoltura (BNA); Borrelli denunciò Catelani al Csm. Il 20 maggio Berlusconi e altri dirigenti Fininvest sono rinviati a giudizio con l'accusa di aver corrotto la Guardia di Finanza.
Le accuse di Salamone. È a giugno del 1995 che le accuse contro Di Pietro toccarono il culmine. Il PM bresciano Fabio Salamone interrogò Gorrini e Paolo Pillitteri, quindi iscrisse Di Pietro nel registro degli indagati per concussione: avrebbe premuto sugli imprenditori Gorrini e D'Adamo affinché si accollassero i debiti di Rea. L'11 giugno Di Pietro venne inquisito per un'altra concussione ai danni di Gorrini (un prestito di 100 milioni, una Mercedes e un pacchetto sinistri dell'assicurazione di Gorrini a favore dello studio della moglie dell'ex pm, Susanna Mazzoleni). Il 19 sempre Salamone indagava Di Pietro per abuso d'ufficio e per pressioni sui politici milanesi per far diventare Rea il comandante dei vigili urbani milanesi. Il quotidiano Il Giornale pubblicò un nuovo scoop contro Davigo: il magistrato sarebbe stato membro di una cooperativa diretta dal generale Cerciello, accusato di corruzione. In realtà Davigo aveva lasciato la cooperativa subito dopo l'ingresso di Cerciello. Berlusconi presentò un esposto alla Cassazione per presunte fughe di notizie ai suoi danni e per l'accanimento persecutorio del pool nei confronti delle sue aziende. Il 20 giugno si diffuse la falsa notizia che Di Pietro sarebbe stato arrestato. Poco dopo, il 30 giugno, Bettino Craxi dalla Tunisia inviava un lungo fax a tutte le redazioni dei giornali in cui riportava i tabulati telefonici che gli aveva consegnato Parisi e si dichiarava disponibile a farsi interrogare da Salamone. In una lettera al Giornale, Craxi spiegò che «...le recenti inchieste stanno dimostrando che Mani Pulite era tutta un bluff. Avevo ragione io quando sostenevo che Di Pietro era manovrato». In una successiva missiva, Craxi denunciò un viaggio di Di Pietro in Costarica, durante il quale egli avrebbe concordato con "alti esponenti della finanza internazionale" le indagini di Mani Pulite. Si scoprirà poi che Di Pietro fu mandato colà per ragioni di sicurezza, in quanto un pentito aveva rivelato che la mafia voleva ucciderlo.
Il dossier Achille e il caso Dinacci. Nel settembre 1995 Di Pietro denunciò due agenti della sua scorta: anziché proteggerlo, riferivano ad altri i suoi spostamenti. Denunciò anche l'agente del Sismi, Roberto Napoli, che confessò di averlo spiato su ordine dei servizi segreti (il cosiddetto "dossier Achille" ordinato da un mandante sconosciuto per infangare il pool) dalla fine del 1992. Nel frattempo però Di Pietro ricevette nuove accuse: avrebbe pagato un affitto a prezzi stracciati per un appartamento nel centro di Milano e per abuso d'ufficio nel piano d'informatizzazione della procura di Milano, da lui diretto alla fine degli anni ottanta. Accuse di ogni tipo (tra cui il falso ideologico e l'abuso d'ufficio) arrivarono anche contro Davigo, Borrelli, Colombo e altri magistrati milanesi. A novembre la Procura della Repubblica di Roma indagò contro Borrelli, Davigo, Colombo e il GIP Italo Ghitti, perché avrebbero ricattato il capo degli ispettori ministeriali, Ugo Dinacci, tramite un'inchiesta su suo figlio Filippo.
1996: il pool viene scagionato. Fra la fine e l'inizio del nuovo anno, Di Pietro e il pool vennero via via scagionati da tutte le accuse. Già a dicembre 1995, il GIP di Brescia archiviò tutte le inchieste di Salamone. Quest'ultimo venne anzi censurato e denunciato al Csm: era il fratello di un uomo fatto condannare da Di Pietro a 18 mesi di carcere. Il 16 gennaio 1998 Salamone venne condannato definitivamente dal Csm. Il 29 marzo, il Gip di Brescia assolse Di Pietro per tutti i reati a lui ascritti (in particolare per le accuse di Gorrini) con la formule: "i fatti non sussistono". La Corte d'Appello confermò successivamente questa sentenza il 9 luglio 1997. La sentenza, inoltre, accusava Gorrini di aver concordato le varie accuse contro Di Pietro insieme a Paolo Berlusconi e a Sergio Cusani. I sottufficiali dei carabinieri Giovanni Strazzeri e Felice Corticchia vennero condannati per calunnia nei confronti di Di Pietro. Salamone ha successivamente denunciato Di Pietro per diffamazione, ma la sua citazione fu successivamente rigettata dal tribunale civile di Roma il 13 ottobre 2003. In quello stesso anno (il 1996) si tennero le nuove elezioni politiche anticipate: vince la coalizione di centrosinistra de L'Ulivo. Romano Prodi era il nuovo presidente del Consiglio e Di Pietro entrò nel suo governo come Ministro dei Lavori Pubblici. Si dimise pochi mesi dopo perché raggiunto da nuove accuse. Definitivamente prosciolto, nel 1997, si candidò al Senato per il centro-sinistra, nel collegio del Mugello rimasto vacante. Venne eletto con oltre il 66% dei consensi battendo l'avversario del Polo, Giuliano Ferrara.
Il dopo-Mani pulite. L'apparente trionfo della "rivoluzione dei giudici" (che si disse aver prodotto una "Seconda Repubblica" in Italia) si dimostrò di breve durata. Fra la metà degli anni '90 ed i primi anni del nuovo secolo la questione della corruzione politica calò nell'ordine delle priorità dell'azione pubblica. Simbolo drammatico di questo ritorno al passato fu il suicidio dell'imprenditore brianzolo Ambrogio Mauri, regolarmente escluso dagli appalti per la fornitura di automezzi perché si rifiutava di pagare tangenti, il 21 aprile 1997.
La strategia della prescrizione. Dopo il 1994 il rischio che i processi venissero cancellati a causa della prescrizione divenne molto concreto e la cosa era chiara sia ai giudici che ai politici. Durante questo periodo alcuni scrittori e commentatori politici ritennero d'individuare una comune volontà di opporsi alla magistratura da parte di entrambe le coalizioni politiche. Secondo questi opinionisti - che all'epoca denunciarono un'asserita alleanza politica di fatto contro la magistratura - sia il Polo sia l'Ulivo (specialmente sotto la leadership di Massimo D'Alema) avrebbero ignorato le richieste del sistema giudiziario di finanziamenti per acquistare equipaggiamenti. Secondo gli stessi autori, inoltre, le riforme giudiziarie promosse dal centrosinistra avrebbero reso i già penosamente lenti processi italiani ancora più lenti e avrebbero reso più facile e frequente la caduta in prescrizione di numerosi reati. Al contrario, la totalità della dottrina ha salutato positivamente l'intento del legislatore di introdurre nell'ordinamento italiano i principi del primato del contraddittorio e della parità delle armi tra accusa e difesa - entrambi tipici dei sistemi giuridici delle democrazie liberali europee - pur manifestando talvolta qualche riserva in merito alla sua implementazione in concreto.
Craxi e Previti. I destinatari più illustri delle inchieste condotte dalla magistratura milanese ebbero sorti diverse. Craxi accumulò diversi anni di condanne definitive e scelse la latitanza - secondo i suoi sostenitori, l'esilio volontario - ad Hammamet in Tunisia, dove risiedette dal 1994 fino alla sua morte, avvenuta il 19 gennaio 2000. Nel 1998 invece Cesare Previti, ex manager Fininvest e parlamentare nelle fila del partito fondato da Berlusconi, evitò il carcere grazie all'intervento del Parlamento, anche se Berlusconi e i suoi alleati erano all'opposizione. Il procedimento proseguì e produsse una condanna per corruzione in atti giudiziari, confermata dalla Cassazione, con la conseguenza della decadenza dalla carica di deputato nel 2007, a seguito della perdita dei requisiti di elettorato passivo.
Le elezioni successive al 2001: le vittorie di Berlusconi e l'affermazione elettorale di Di Pietro. Le elezioni politiche del 2001 segnarono una nuova vittoria di Silvio Berlusconi e della Casa delle Libertà, la coalizione che lo sosteneva, i quali ebbero la meglio sull'Ulivo e sul suo candidato Francesco Rutelli. L'esito elettorale fu considerato un segnale importante della nuova considerazione che Mani pulite aveva, a distanza di dieci anni, nell'opinione pubblica: un atteggiamento indifferente se non ostile per quella che venne considerata una stagione chiusa. Persino i politici, che all'inizio degli anni novanta avevano sostenuto apertamente il pool cambiarono idea: la Lega Nord denunciò un uso abusivo e prevaricatore della giustizia da parte di certa magistratura, Gianfranco Fini riconobbe i meriti dei giudici nel saper eliminare un sistema corrotto, ma sostenne che essi non avevano saputo fermarsi entro i propri confini. Antonio Di Pietro è oggi presidente dell'Italia dei Valori e ha posto al centro della sua battaglia politica i valori della legalità e della moralizzazione delle istituzioni. L'ex pubblico ministero (dopo che nel 2000 aveva rotto con la coalizione di centrosinistra per non dare il suo voto di fiducia al governo di Giuliano Amato, che per Di Pietro aveva ostacolato come premier le sue indagini), corse da solo con il movimento "L'Italia dei Valori", ma nonostante avesse conseguito il 3,9% dei suffragi, in base alla legge elettorale, non riuscì ad entrare in Parlamento. L'ingresso avvenne poi, nel 2006, a seguito della vittoria elettorale di Prodi, che lo nominò di nuovo Ministro, e fu confermato nel 2008 dalla scelta di Veltroni di consentire solo all'IDV l'apparentamento con il suo Partito Democratico.
Statistiche su Mani pulite. L'inchiesta Mani pulite, durata due anni e condotta da cinque magistrati, ha portato a 1300 fra condanne e patteggiamenti definitivi. Gli autori del libro Mani pulite, la vera storia (2002) affermano che dei 430 assolti nel merito (il 19%), non tutti sono stati riconosciuti estranei ai fatti. Alcuni imputati (gli autori citano come esempio 250 imputati per le tangenti riguardanti la Cariplo) pur avendo commesso il fatto, non sono stati ritenuti punibili: i giudici hanno ritenuto il fatto commesso, ma li hanno assolti con la formula «il fatto non costituisce reato» in quanto non vennero considerati pubblici ufficiali. In quest'ottica gli assolti perché riconosciuti estranei ai fatti contestati scenderebbero a circa 150 (il 6%). Gli autori aggiungono inoltre che di quei 150 molti sono stati assolti grazie alle riforme giudiziarie dell'Ulivo, che tramite l'art. 513 c.p.p. (giudicato poi incostituzionale) e la riforma denominata «giusto processo», hanno invalidato le prove di vari procedimenti. Vi è tuttavia da dire che nel momento in cui vi è una promessa corresponsione in denaro o altra utilità ad una persona perché questa ponga in essere un determinato atto, non vi è alcun reato, a meno che quest'ultima non sia appunto un pubblico ufficiale, nel qual caso possono profilarsi i reati di corruzione o concussione. Viceversa, come sembra essere avvenuto nella maggioranza dei processi di Mani Pulite conclusisi con l'assoluzione, la questione attiene ai rapporti tra privati cittadini che non integrano in alcun modo il fatto-reato. È stato infine sottolineato da autorevole dottrina come l'orientamento della magistratura nel suo complesso sia stato, in quel periodo, particolarmente rigorista in ambito di reati contro la pubblica amministrazione: ciò che sarebbe stato permesso, tra l'altro, dalla peculiare indeterminatezza di fondo della fattispecie di concussione (art. 317 c.p.), ritenuta suscettibile di rilievi di incostituzionalità. È stata infatti ricondotta a "concussione" anche la condotta del pubblico ufficiale che aveva ricevuto danaro da privati senza aver esercitato su di loro alcun tipo di pressione, limitandosi a beneficiare degli effetti dell'operato di chi l'aveva preceduto nella carica (cosiddetta concussione ambientale). Un tale rigorismo è stato difeso dall'ex procuratore Gerardo D'Ambrosio, ancora tre lustri dopo: «Se avessimo ragionato così negli anni 90 non ci sarebbe stata Mani Pulite. Tutti coloro che indagavamo dicevano che facevano le cose per migliorare la situazione, ma noi abbiamo scoperto che invece la peggioravano con appalti inutili e vuoti. Il principio di legalità va difeso sempre e comunque.»
Il costo delle tangenti. Nel 1992 l'economista Mario Deaglio calcolò la ricaduta economica del giro di tangenti sui conti dello Stato, e quindi, in definitiva, sulle tasche dei cittadini. Infatti, la lievitazione dei costi degli appalti, finalizzata all'ottenimento dei margini fraudolenti, nonché i lavori inventati ex novo per generare il giro di tangenti, ha una ripercussione rilevante sui costi che lo Stato si accolla nei lavori pubblici, tale che, in alcuni casi, l'esborso per le opere pubbliche viene ad essere due, tre, quattro e più volte il corrispettivo per analoghe opere pubbliche realizzate in altri paesi europei. Deaglio ha stimato che il giro delle tangenti generasse orientativamente:
10 000 miliardi di lire annui di costi per i cittadini;
un indebitamento pubblico fra 150 000 e 250 000 miliardi di lire;
tra 15 000 e 25 000 miliardi di interessi annui sul debito.
Di fatto, il 1992 fu un anno drammatico per i conti dello Stato. Il rapporto debito/PIL superò il 105%[41]. Il 13 agosto 1992 l'agenzia Moody's declassò il rating italiano ad Aa2 per via dell'insicurezza degli investimenti realizzabile in Italia in quel momento. Per porre un argine alla bancarotta, il governo Amato fu costretto a varare, nell'autunno di quell'anno, una finanziaria pesantissima per l'epoca: 92 000 miliardi di tasse, con in aggiunta il prelievo forzato del 6 per mille su tutti i conti correnti bancari italiani, considerato il vero e proprio "scontrino finale" di Tangentopoli.
La critica storiografica. La rivalutazione di Mani pulite. Mani pulite è tuttora al centro di un ampio dibattito storiografico e politico. Le inchieste sono state difese e rivalutate da molti sostenitori della politica pulita come Beppe Grillo, Marco Travaglio e Peter Gomez, che hanno scritto libri e articoli in difesa dei magistrati. Molti hanno visto in Mani pulite una "rivoluzione pacifica della società civile", riprendendo una definizione di Indro Montanelli.
La proposta di Commissione parlamentare di inchiesta. Fin dal 1992 venne proposta l'istituzione di una Commissione parlamentare d'inchiesta su Tangentopoli, per accertare gli illeciti arricchimenti conseguiti da titolari di cariche elettive e direttive, nonché per formulare idonee proposte per la devoluzione allo Stato dei patrimoni di non giustificata provenienza e per la repressione delle associazioni a delinquere di tipo politico. Nella XI Legislatura la Camera dei deputati giunse ad approvare all'unanimità, il 7 luglio 1993, un testo unificato che recepiva l'esigenza della Commissione d'inchiesta, ma il relativo disegno di legge si arenò in Commissione al Senato. Nella successiva legislatura la proposta ottenne un parere favorevole da parte della Commissione Giustizia del Senato. Ma perse di spinta propulsiva dopo che fu approvato un emendamento della maggioranza che puntava ad orientarne i lavori di ricerca "storiografica": esso intendeva accertare se la conduzione delle inchieste avesse riscontrato omissioni o "zone bianche"; si trattava di un indirizzo che - non escludendo una conduzione selettiva o "mirata" di quelle inchieste - andava oggettivamente in consonanza con la richiesta, avanzata dalla Tunisia, da Bettino Craxi. La proposta - con il discusso emendamento, che ne stravolgeva il senso originario - fu votata dalla Camera, nella nuova legislatura, il 3 novembre 1998, durante la quale venne rigettata, insieme alle varie discordanti proposte avanzate da gli altri gruppi parlamentari. L'idea di una Commissione d'inchiesta riprese velocità dopo che il gruppo di Forza Italia depositò il 28 settembre 1999 una proposta di Commissione bicamerale di inchiesta sui comportamenti dei responsabili pubblici, politici e amministrativi, delle imprese pubbliche e private e sui loro reciproci rapporti (A.C. 6386); e una proposta identica di Commissione monocamerale, da istituire presso la Camera dei deputati, sempre ai sensi dell'articolo 82 della Costituzione. Lo stesso giorno proposte simili furono avanzate dallo Sdi e dai Ds. Il 21 gennaio 2000, l'allora Presidente del Consiglio Massimo D'Alema rilanciò l'idea in un intervento alla Camera. Ma anche stavolta le divisioni e le divergenze fra i vari partiti fecero naufragare il progetto. Lo "scivolamento" dello strumento dell'inchiesta nell'intento di riscrittura della storia del decennio passato divenne esplicito nella XIV legislatura. Paradossalmente, dagli eredi (anche familiari) di Bettino Craxi non giunse che una riedizione del testo licenziato dalla Camera il 26 gennaio 2000 (vedasi l'Atto Camera 1427, mentre l'Atto Camera 1867 riproduce il testo del Senato): la pacatezza della proposta deriva probabilmente dal diverso strumento prescelto per ottenere la "riabilitazione" del defunto, e cioè i due ricorsi dichiarati ammissibili dinanzi alla Corte dei diritti umani di Strasburgo. Fu invece proprio del progetto di legge n. 2019 (d'iniziativa Cicchitto e Saponara) l'aver proposto l'istituzione di una "Commissione parlamentare di inchiesta sull'uso politico della giustizia", che oltre a "disfunzioni" accertasse "l'eventuale presenza all'interno dell'ordine giudiziario di orientamenti politico-ideologici e rapporti di interdipendenza con forze politiche parlamentari o extra parlamentari; l'eventuale influenza di motivazioni politiche sui comportamenti delle autorità giudiziarie; le conseguenti deviazioni della giustizia determinate dalla gestione politicamente mirata dell'esercizio dell'azione penale; l'effettività del principio costituzionale dell'obbligatorietà dell'azione penale, e l'eventuale esistenza di un esercizio discrezionale e selettivo della funzione giudiziaria; gli eventuali tentativi di interferenza di magistrati, singoli o associati, con l'attività parlamentare e di Governo, in contrasto con il principio costituzionale della separazione dei poteri". L'introduzione di questo ulteriore, e diverso oggetto dell'inchiesta determinò l'insuccesso della proposta, che non ebbe più seguito dopo la fine della XIII legislatura. Da un lato chi riteneva che la propria parte politica fosse vittima di un uso politico delle indagini, trovatosi al potere con la XIV legislatura, impegnò il Parlamento non più con proposte di commissioni d'inchiesta ma direttamente con leggi volte a prevenire il fenomeno denunciato. Chi invece riteneva che si dovesse indagare se le indagini della magistratura avevano colpito più qualcuno che qualcun altro (e se ciò sia dipeso solo "dalla facilità di reperire prove in un caso o di riscontrare un maggior grado di corruzione in un altro") - ed a tal fine auspicava l'istituzione di una "Commissione che (...) non dovrebbe occuparsi né di corrotti, né di corruttori, ma della corruzione" - già all'epoca invitava a diffidare dall'utilizzo dell'inchiesta per riportare al suo interno la polemica contro determinate inchieste ed in prosieguo giunse a stigmatizzare le "antiche provenienze" (in tema di schieramenti politici sul tema giustizia) come un classico caso in cui "i morti hanno afferrato i vivi".
Critiche. Il pool di Mani pulite e le loro indagini sono stati oggetto di forti critiche. Ad esempio Silvio Berlusconi ha dichiarato: «I magistrati milanesi abusavano della carcerazione preventiva per estorcere confessioni agli indagati» (Silvio Berlusconi, 30 settembre 2002). Mentre taluno sostiene che nessun esempio sarebbe mai stato trovato per dimostrare tale accusa, altri citano i casi di alcuni suicidi giudicati eloquenti. Il manager pubblico Gabriele Cagliari, ex presidente dell'Eni, si soffocò con una busta di plastica nel carcere di San Vittore il 20 luglio 1993: nella versione poi diffusasi nell'ambiente politico sarebbe stato vittima della Procura di Milano perché, prima di compiere l'estremo gesto, avrebbe più volte chiesto ai magistrati di essere interrogato per chiarire la sua posizione. Risulta però che al momento del suicidio, per il pool di Di Pietro fosse già uomo libero, visto che ne aveva già richiesto la sua scarcerazione: Cagliari era tenuto ancora in carcere per un altro processo milanese, quello sul caso Eni-Sai (uno dei processi che portò alle condanne definitive di Craxi). Stando a quanto ricostruito successivamente a Cagliari, sentito dal pubblico ministero Fabio De Pasquale, erano stati promessi gli arresti domiciliari, probabilmente anche in virtù delle sue dichiarazioni sulla tangente che Salvatore Ligresti avrebbe pagato a DC e PSI, ma l'arresto di Ligresti il 19 luglio, che diede una ricostruzione differente dei fatti, portò la procura a ritenere che un'eventuale scarcerazione di Cagliari gli avrebbe consentito di inquinare eventuali prove. Pochi giorni dopo, il 23 luglio, anche l'imprenditore Raul Gardini si tolse la vita in casa a Milano, poco prima di ricevere l'avviso di garanzia per le indagini nei suoi confronti. I detrattori di "Mani pulite" sottolineano come la misura cautelare della custodia in carcere, la massima prevista dall'ordinamento, fosse stata utilizzata nei confronti di persone per lo più incensurate, socialmente, lavorativamente e familiarmente inserite, così che qualsiasi pericolo di fuga, inquinamento probatorio o reiterazione del reato non fosse ragionevolmente ipotizzabile, o tutt'al più scongiurabile, mediante semplici arresti domiciliari: tutte misure che avrebbero dovuto essere assunte per limitare l'impatto delle indagini sulla vita personale dei rei, e che non sarebbero state assunte per le predominanti esigenze di visibilità dei magistrati inquirenti. Un'altra critica riguarda il presunto uso politico della giustizia per denigrare e portare allo scioglimento partiti o movimenti politici. Si ritiene che dalle inchieste di Mani Pulite siano stati colpiti esclusivamente esponenti politici della DC o del PSI, e nessun esponente politico di rilievo del PCI. Giulio Maceratini osserva che questa miratezza delle indagini non poteva essere una casualità ed è stata consapevolmente voluta per affondare il PSI e la DC e favorire l'elezione del PCI, che fino ad allora non era mai riuscito a governare l'Italia tramite le libere elezioni. Maceratini afferma inoltre che sembra strano che, in un ambiente così corrotto come era l'Italia di quei tempi descritta dai magistrati di Mani Pulite, il PCI non avesse tratto nessun beneficio dal sistema politico economico vigente; a queste dichiarazioni Gianfranco Fini, leader dello stesso partito di Maceratini, risponde che «Qui e fuori di qui la stragrande maggioranza degli italiani ha un sentimento di gratitudine per quei magistrati che hanno smascherato il volto perverso del sistema tangentocrate. Detto questo è evidente che da parte nostra non ci deve essere alcun timore per ogni indagine che viene fatta». Peraltro alcuni eredi della tradizione comunista sono apparsi più travagliati in ordine alla questione della deriva consociativa sottostante alla Prima repubblica, che coinvolgeva anche il loro partito. In merito a queste critiche è stato fatto notare dal giornalista Marco Travaglio che «...i primi due politici arrestati in Mani Pulite erano dell'ex Pci: Soave e Li Calzi. Il pool di Milano inquisì quasi l'intero vertice del Pci-Pds milanese. E poi le prime elezioni dopo Tangentopoli non le vinsero le sinistre: le vinse Berlusconi». Inoltre furono indagati anche Marcello Stefanini, segretario amministrativo nazionale del Pds, successivamente prosciolto, e Primo Greganti, uomo legato al partito comunista che subì "uno dei più lunghi periodi di custodia cautelare". Altro addebito - di tipo eminentemente processuale - fu quello fondato sullo squilibrio conoscitivo tra magistratura requirente e giudicante, che rendeva necessitate molte delle decisioni di competenza di quest'ultima (specie quelle cautelari, assunte necessariamente in assenza di contraddittorio con la difesa): già nel processo a Cusani la difesa lamentava che alcune decisioni del GIP riproducevano note a margine e post-it apposti sul fascicolo con la grafia di Antonio Di Pietro. Ma solo dopo molti anni - terminato il suo lavoro a Milano e quello di membro elettivo del CSM - il GIP milanese Italo Ghitti ammise che le decisioni da lui assunte nel 1992-1993 erano spesso pedissequi accoglimenti delle richieste della Procura della Repubblica, non essendogli possibile o pratico revisionare tutti gli elementi di prova (che venivano ritenuti fondati spesso senza neppure aver avuto il tempo di esaminarli): a sua volta, sostenne Ghitti, lo stesso PM spesso prende per buone le attività di indagine effettuate dalla polizia giudiziaria, senza un reale riscontro. Nel 1994, il Governo Berlusconi I inviò degli ispettori per indagare su eventuali scorrettezze commesse dai magistrati della Procura di Milano, tra cui quelli del pool di Mani pulite. Nella loro relazione finale, presentata il 15 maggio 1995, gli ispettori riferirono al nuovo Governo affermando che: ««Nessun rilievo può essere mosso ai magistrati milanesi, i quali non paiono aver esorbitato dai limiti imposti dalla legge nell'esercizio dei loro poteri» (relazione finale degli ispettori inviati dal Governo Berlusconi I, 15 maggio 1995). Un altro acerrimo critico dei magistrati di Mani pulite è il critico d'arte e politico Vittorio Sgarbi: i suoi attacchi televisivi ai giudici ed al giustizialismo raggiunsero livelli tali che la Corte costituzionale, con le sentenze nn. 10 e 11 del 2000, li sottrasse all'area dell'insindacabilità delle opinioni espresse da un parlamentare (di cui all'articolo 68, primo comma della Costituzione).
Tangentopoli nella cultura di massa. Il termine "Tangentopoli" negli anni successivi all'inchiesta Mani Pulite venne ripreso per essere adattato ad altri tipi di scandali giudiziari ("affittopoli", "vallettopoli", ecc..). Il termine, nel periodo delle inchieste, venne utilizzato anche per un gioco da tavolo, chiamato Tangentopoli, la lunga corsa della corruzione, realizzato dai giornalisti campani Maurizio Landi e Mimmo Cordopatri. Nel 1993 usciva poi un videogioco, edito dalla Xenia edizioni ed ideato da Guglielmo Duccoli e Roberto Piazzolla, dal titolo Il grande gioco di Tangentopoli, dove si interpretava il "giudice De Petris", che combatteva a colpi di avvisi di garanzia gli onorevoli di PLI, PSDI e DC, doveva impedire la crescita della bandiera del PDS e dell'edera del PRI, evitare da essere colpito dalle inchieste ministeriali sulla magistratura e contemporaneamente evitare che versioni Pac-matizzate di Bettino Craxi, Paolo Cirino Pomicino e Pietro Longo si impossessassero del denaro degli appalti pubblici.
IL POOL DI MANI PULITE.
Un pool, nell'ambito della magistratura italiana è un termine che individua un gruppo di magistrati che si occupa di una stessa indagine. Esso costituisce un efficace strumento di indagine, ed uno degli elementi fondamentali che hanno portato all'istaurazione di diversi processi, ad esempio contro le Brigate Rosse e Prima Linea, durante gli anni di piombo, al maxiprocesso di Palermo in Italia contro Cosa Nostra e all'inchiesta di Mani Pulite.
FRANCESCO SAVERIO BORELLI.
Francesco Saverio Borrelli. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Francesco Saverio Borrelli (Napoli, 12 aprile 1930) è un ex magistrato italiano.
Biografia. Figlio di Manlio, magistrato. Laureato in giurisprudenza con una tesi intitolata Sentimento e sentenza. È agnostico Pubblico ministero, entrò in magistratura nel luglio del 1955. Nel dicembre del 1983 divenne Procuratore aggiunto presso il Tribunale di Milano, e tenne tale incarico fino al maggio del 1988, data in cui divenne capo dello stesso ufficio. Dal marzo 1999 alla pensione nell'aprile 2002 è stato procuratore generale della Corte d’appello milanese. La quasi totalità della sua carriera giudiziaria - circa 40 anni - ha avuto come epicentro il capoluogo lombardo, dove è stato giudice presso il Tribunale, consigliere della Corte d'appello, Presidente di sezione del Tribunale, per poi passare all'ufficio del PM. Nel febbraio 1992, con l'inizio dell'inchiesta sul Pio Albergo Trivulzio cominciò l'era di tangentopoli e diresse il pool di magistrati che indagò sullo scandalo politico cd. di Mani Pulite insieme ad Antonio Di Pietro, Ilda Boccassini, Piercamillo Davigo e Gherardo Colombo e si segnalò come uno dei magistrati più determinati: fu lui, ad esempio, a spedire al leader socialista Bettino Craxi il primo avviso di garanzia. Dal 1999 al 2002, per sua stessa richiesta, fu nominato Procuratore Generale presso la Corte d'Appello di Milano; finì così la stagione di Mani Pulite. Il 12 gennaio 2002 in questa veste concluse nella sua relazione, all’inaugurazione dell’anno giudiziario in Corte d’appello, coniò lo slogan «resistere, resistere, resistere» contro le riforme del governo Berlusconi. Il 23 maggio del 2006, dopo un grave scandalo che coinvolse pesantemente il mondo del calcio italiano, fu nominato capo dell'ufficio indagini FIGC dal commissario straordinario di tale organismo, Guido Rossi. In seguito alle dimissioni di quest'ultimo nel settembre 2006, durante un'audizione parlamentare a Montecitorio, Borrelli lasciò a sua volta l'incarico, per poi ritornare dopo aver parlato con il nuovo commissario straordinario, Luca Pancalli. Abbandonò definitivamente l'incarico nel giugno 2007. Nel marzo dello stesso anno fu nominato, su proposta del Consiglio Accademico, Presidente del Conservatorio di Milano. Insieme all'ex collega e amico Gerardo D'Ambrosio, fu tra i firmatari dell'appello per la candidatura di Walter Veltroni alla guida del Partito Democratico, in vista delle elezioni del 14 ottobre 2007.
Biografia di Francesco Saverio Borrelli. Napoli 12 aprile 1930. Ex magistrato (1955-2002). Dal 1992 al 1998 capo della Procura di Milano, divenne noto durante l’inchiesta del pool Mani pulite. Dal 1999 alla pensione procuratore generale della Corte d’appello milanese, in seguito è stato capo dell’ufficio indagini della Federcalcio (maggio 2006-giugno 2007) e presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (marzo 2007-aprile 2010). Due fratelli maggiori e una sorella minore, Borrelli nacque dal secondo matrimonio del magistrato Manlio (figlio e nipote di magistrati) con Amalia Jappelli detta Miette. «Fino a sette anni non sapevo che i miei fratelli avessero avuto un’altra madre, morta quando erano piccolissimi. Nessuno mi aveva mai detto nulla. Me lo rivelò un uomo stupido ridacchiando: “Ma che fratelli, i tuoi sono fratellastri”. Fu uno shock tremendo. Corsi a casa disperato. Volevo sapere, capire. I miei avevano voluto salvaguardare l’uguaglianza tra fratelli: non dovevo sentirmi un privilegiato perché io avevo entrambi i genitori. Mi chetai, ma mi restò a lungo una fantasia di abbandono, il timore, che più tardi ho saputo comune a molti bambini, di essere un trovatello. Tremavo nel mio lettino e pregavo che non fosse così». Dopo due anni a Lecce, nel 1936 la famiglia traslocò a Firenze: maturità al liceo classico Michelangelo, laurea in giurisprudenza con Piero Calamandrei (titolo della tesi Sentenza e sentimento) prese il diploma di pianoforte al conservatorio Cherubini. Dal 1953 a Milano, dove il padre era stato nominato presidente di Corte d’appello, nel 1955 vinse il concorso per entrare in magistratura. Dal 1957 sposato con Maria Laura Pini Prato, insegnante di inglese conosciuta all’università che gli diede i figli Andrea e Federica, passò vent’anni al Civile, prima in Pretura, poi in Tribunale occupandosi di fallimenti e diritto industriale, infine in Corte d’Appello. Passato al Penale, dal ’75 all’82 fu in corte d’Assise, nel 1983 arrivò alla Procura della Repubblica, nel 1992, l’anno dell’inizio dell’indagine Mani pulite, ne divenne il capo. Quando, nell’aprile del 2002, Borrelli andò in pensione, a Palazzo Chigi c’era nuovamente Silvio Berlusconi. Il 3 gennaio di quell’anno, aprendo il suo ultimo anno giudiziario, l’ex procuratore capo di Milano aveva lanciato lo slogan «Resistere, resistere, resistere». Nel maggio 2006, in piena Calciopoli, Guido Rossi lo chiamò a guidare l’ufficio indagini della Federcalcio: «Rifiutare mi sembrava una vigliaccata». Nel marzo 2007 divenne presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (la più prestigiosa università musicale d’Italia): «È una nuova sfida, l’ennesima che affronto con gioia e un certo tremore». In contemporanea annunciò l’addio alla Figc: «Per ora mantengo il posto in Federcalcio, non c’è incompatibilità. Se sono uscito dall’ombra lo devo solo a Guido Rossi. Dopo la nomina del calcio mi riconoscono tutti, i taxisti e anche i più giovani. Ma a luglio, con il nuovo statuto da me suggerito, l’ufficio indagini confluirà nella Procura federale. Non voglio fare il Procuratore federale: c’è Stefano Palazzi, è molto più giovane di me». Nell’aprile 2010 il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, cui spetta la nomina della carica di presidente degli istituti musicali, gli negò il secondo mandato triennale alla presidenza del Verdi: «Ragioni evidentemente politiche. Appartengo a una corporazione che è in odio alle alte sfere della politica. Evidentemente non devo essere gradito agli esponenti del governo. Ma la mia amarezza è soprattutto quella di aver saputo della mia mancata conferma in modo indiretto, senza comunicazione ufficiale. Sono sempre stato abbastanza umile da accettare le critiche, ma ciò che mi offende è il metodo. Ho lavorato con passione in questi anni». (Giorgio Dell’Arti Catalogo dei viventi 2015.
ILDA BOCCASSINI.
Ilda Boccassini. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Ilda Boccassini (Napoli, 7 dicembre 1949) è un magistrato italiano, procuratore aggiunto della Repubblica presso il tribunale di Milano.
Biografia. Dopo la laurea in giurisprudenza entra in magistratura, con funzioni effettive, nel 1979 prestando servizio dapprima alla Procura della Repubblica di Brescia, e ottenendo poco dopo il trasferimento alla Procura della Repubblica di Milano. Si occupa, quasi subito dopo il suo arrivo a Milano, di criminalità organizzata. La sua prima inchiesta di rilevanza nazionale viene denominata Duomo Connection e ha come oggetto l'infiltrazione mafiosa nell'Italia settentrionale. L'inchiesta è portata avanti con la collaborazione di un gruppo di investigatori guidati dall'allora tenente Ultimo, il capitano divenuto poi famoso per l'arresto di Totò Riina. Sono gli anni delle prime collaborazioni anche con il giudice Giovanni Falcone, che sfoceranno in un legame di profonda amicizia. All'inizio degli anni novanta entra in rotta di collisione con altri colleghi del pool antimafia milanese e ne viene estromessa dall'allora Procuratore Capo Francesco Saverio Borrelli, ma porta comunque a termine il processo sulla Duomo Connection. Dopo le stragi di Capaci e Via D'Amelio, nel 1992, chiede di essere trasferita a Caltanissetta dove rimane fino al '94 sulle tracce degli assassini di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Collabora nuovamente con Ultimo alla cattura di Riina e scopre, in collaborazione con altri magistrati applicati a quelle indagini, mandanti ed esecutori delle stragi Falcone e Borsellino. Dopo una breve parentesi alla Procura di Palermo torna a Milano e, su richiesta del Procuratore Borrelli, si occupa dell'inchiesta denominata Mani pulite subentrando ad Antonio Di Pietro dimessosi dalla magistratura il 6 dicembre del 1994. Collabora, quindi, con i colleghi Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo, Armando Spataro e Francesco Greco, seguendo in particolare gli sviluppi delle inchieste riguardanti Silvio Berlusconi e Cesare Previti. Continua ad operare presso la Procura di Milano dove si occupa di indagini sulla criminalità mafiosa e sul terrorismo. Ha diretto a partire dal 2004 le indagini della DIGOS che il 12 febbraio 2007 hanno portato all'arresto di 15 sospetti appartenenti all'ala movimentista delle Nuove Brigate Rosse, denominata anche Seconda Posizione. Secondo l'accusa, la presunta organizzazione terroristica, operante nel Nord Italia, stava preparando attentati contro persone e aziende. Il 28 maggio 2009 il Plenum del Consiglio Superiore della Magistratura (CSM) l'ha promossa alla funzione di Procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Milano. In seguito indaga sul caso riguardante l'affidamento di una giovane donna marocchina, definito giornalisticamente caso Ruby, nota negli ambienti della politica e della moda, che avrebbe compiuto alcuni furti. L'inchiesta interessa, tra gli altri, l'ex presidente del Consiglio dei Ministri italiano Silvio Berlusconi che, secondo l'accusa, avrebbe esercitato indebite pressioni sulla questura di Milano per ottenere suo rilascio e che l'avrebbe pagata in cambio di prestazioni sessuali quando era ancora minorenne. A causa di quest'incarico e di altre attività che hanno impegnato le procure della Repubblica nelle indagini su Silvio Berlusconi per reati quali concorso esterno in associazione mafiosa, prostituzione minorile, concussione, corruzione, strage, appropriazione indebita, traffico di droga, riciclaggio di denaro sporco, abuso d'ufficio, frode fiscale e falso in bilancio, Berlusconi l'ha indicata fra gli appartenenti ad una frangia della magistratura, da lui definita "sovietica" e "comunista". Si ricorda l'attacco da parte de Il Giornale che, su indicazione di Matteo Brigandì, componente del CSM, citato poi in giudizio per la diffusione dell'informazione stessa, all'inizio del 2011, ricorda che nel 1982 il magistrato era stato sottoposto a provvedimenti disciplinari a causa di atteggiamenti personali concludendo quindi che la Boccassini non avesse l'autorità morale per condurre le indagini su Berlusconi. Nel dicembre 2011 viene inclusa dalla rivista statunitense Foreign policy al 57º posto nella lista delle personalità nel mondo che nel corso del 2011 hanno influenzato l'andamento del mondo nella politica, nell'economia, negli esteri.
In tempi in cui la magistratura si può accanire contro un Premier e questo, anziché intervenire sulle anomalie del sistema, personalizzando li accusa di essere sovversivi e comunisti, ci si chiede cosa accadrà al povero cristo. Intanto su “Il Giornale” del 27 gennaio 2011 esce quest’articolo “La doppia morale della Boccassini”, di Anna Maria Greco su "Il Giornale". Nel 1982 la Boccassini venne sorpresa in "atteggiamenti amorosi" con un giornalista di Lotta Continua. Davanti al Csm si difese come paladina della privacy. E fu assolta. Ora fruga nelle feste di Arcore, ma allora parlò di "tutela della sfera personale". “Ve la immaginate l’agguerrita pm dello scandaloso «caso-Ruby», che ha frugato nelle feste di Arcore e ascoltato le conversazioni pruriginose delle ragazze dell’Olgettina, nelle vesti della paladina della privacy? Eppure, per difendere se stessa al Csm da accuse boccaccesche, che definisce «un’inammissibile interferenza», Ilda Boccassini dichiara: «Sono questioni che attengono esclusivamente alla sfera della mia vita privata, coperta, come tale, da un diritto di assoluta riservatezza». Succede molti anni fa, nel 1982, quando l’allora giovane sostituto alla Procura di Milano viene sottoposta a procedimento disciplinare. L’accusa, si legge negli atti del Csm, è di «aver mancato ai propri doveri, per aver tenuto fuori dell’ufficio una condotta tale da renderla immeritevole della considerazione di cui il magistrato deve godere, così pure compromettendo il prestigio dell’ordine giudiziario». Diciamo subito che, l’anno dopo, la Boccassini viene assolta a palazzo de’ Marescialli. E proprio in nome della tutela alla riservatezza della vita personale. La sezione disciplinare del Csm, infatti, «nel ribadire il proprio orientamento in materia di diritto alla privacy del magistrato, ritiene che il comportamento della dottoressa Boccassini non abbia determinato alcuna eco negativa né all’interno degli uffici giudiziari, come provano le attestazioni dei colleghi della Procura, né all’esterno». Il fatto di cui si parla appare banale, perché riguarda abbracci e baci con un uomo per strada, a due passi dal Palazzo di Giustizia. «Atteggiamento amoroso», lo definiscono con scandalo nel rapporto di servizio due guardie di scorta ad un pm aggiunto della Procura. Il «lui» in questione non è uno sconosciuto, ma un giornalista di «Lotta continua», accreditato presso l’ufficio stampa del tribunale. Salteranno fuori altri episodi e si parlerà anche di rapporti con un cronista dell’Unità. Il tutto va collocato in un contesto preciso: quello degli Anni di piombo, di scontro, tensioni, sangue e forte militanza politica anche da parte di magistrati e giornalisti sulla linea che lo Stato doveva tenere verso i terroristi. Poco prima di questi fatti, nel 1979, uno dei pm di Milano e cioè Emilio Alessandrini, era stato ucciso da esponenti di Prima linea mentre andava a Palazzo di Giustizia. Lo ricorda il Procuratore capo Mauro Gresti, quando si decide a segnalare la questione e a chiedere il trasferimento d’ufficio della Boccassini, parlando di altri episodi «disdicevoli» dentro la Procura, legati a «presunti comportamenti illeciti», tra l’autunno 1979 e l’inverno 1980, che prima non aveva denunciato. A segnalare incontri molto ravvicinati, violente liti, riunioni serali in ufficio erano stati un ex-carabiniere addetto alle pulizie e un tenente colonnello dell’Arma. Gresti sottolinea che a farlo muovere non fu tanto «lo sconcerto procuratomi dall’esibizione di affettuosità più consone all’intimità di quattro mura che alla pubblicità di una via, ma piuttosto lo sconcerto per la constatazione che l’oggetto delle affettuosità della Boccassini era una persona solita a frequentare gli ambienti della Procura di Milano per ragioni della sua professione giornalistica». Una persona che più volte aveva «manifestato il proprio acido dissenso verso la linea della fermezza adottata dai magistrati della Procura nella lotta al terrorismo e alle sue aree di supporto», con un «atteggiamento di critica preconcetta all’operato delle istituzioni». Sembra che il Procuratore si preoccupi di legami personali che possano favorire fughe di notizie o, addirittura, l’ispirazione di articoli e campagne di stampa contro il suo ufficio. In particolare, critica la politicizzazione di magistrati come la Boccassini (già allora aderente alla corrente di sinistra Magistratura democratica), che avevano anche sottoscritto un documento di solidarietà per un imputato di terrorismo che, con lo sciopero della fame, chiedeva di essere trasferito in un carcere normale. E contro le carceri speciali, sottolinea il Procuratore allegando alcuni articoli, contemporaneamente scriveva anche il giornalista amico di Ilda. Per Gresti, quell’iniziativa dei pm era stata «un proditorio attacco all’atteggiamento di intransigente e ferma lotta all’eversione proprio dei magistrati dell’ufficio stesso che trattavano di terrorismo, nonché una chiara manifestazione di dissenso dalla loro linea, del tutto inopportuna e tale da poter sottoporre a pericoli la loro incolumità personale». In sostanza, dice con durezza il Procuratore, va bene la libertà d’opinione, ma così si poteva anche involontariamente «additare come obiettivi da colpire i magistrati impegnati nella difesa intransigente delle istituzioni». E qui Gresti ricorda proprio Alessandrini, «barbaramente trucidato dai terroristi in un vile attacco». Questa lettera al Procuratore generale della Cassazione e al Pg della Corte d’appello è del giugno 1982, mentre si celebra il processo disciplinare iniziato a dicembre, che si concluderà con l’assoluzione. È provocata dall’iniziativa di 27 pm (c’è anche Alfonso Marra, quello dimessosi per la P3), che a marzo insorgono in difesa della Boccassini, «ingiustamente offesa anche nella sua dignità di donna» anche da una «pubblicità di per sè umiliante». Parlano di «pettegolezzo» che incide nella «sfera della riservatezza personale» e di rischio per tutti di «inammissibile interferenza nella vita privata». Il primo a firmarla è Armando Spataro, collega della Boccassini alla Procura e suo difensore a Palazzo de’ Marescialli. È lui a redigere la memoria difensiva dell’aprile ’82, in cui spiega che la pm non è voluta entrare nel merito delle accuse rivoltele in nome della privacy, ritenendo «umiliante» dover spiegare e giustificare rapporti personali con un giornalista, di cui Spataro difende la correttezza. E aggiunge: «Il concreto esplicarsi della vita privata del magistrato, come quella di ogni cittadino, non può essere soggetto a limiti o divieti precostituiti per legge». Dunque, non può essere sanzionato alcun rapporto personale con persone che lavorano nello stesso ambito. Sempre che non si arrivi a comportamenti scorretti, come «la rivelazione ad un giornalista di notizie coperte da segreto istruttorio». La difesa non convince e c’è il rinvio a giudizio della Boccassini. Ma il Pg della Cassazione, Sofo Borghese, chiede la «perentoria censura» con il trasferimento, non per questioni di sesso, moralità o decoro. Per lui i comportamenti del pm sono gravi «non certo per il compiaciuto scambio di vistose affettuosità» vicino al Palazzo di Giustizia, ma perché l’altro è un giornalista accreditato al tribunale. «Intuibili perciò - afferma il Pg - le facili battute, il pettegolezzo spicciolo, le maliziose insinuazioni e, soprattutto, il sospetto - fondato o meno non importa - nell’ambiente giornalistico, forense o in altri a questi vicini, che la pubblicazione di talune notizie possa ricollegarsi a privilegiate confidenze». Per Borghese «urge» intervenire, per «evitare prevedibili intollerabili malintesi o capziose strumentalizzazioni tali da non consentire di amministrare giustizia nelle condizioni richieste dal prestigio dell’ordine giudiziario». Il sostituto pg Antonio Leo sostiene l’accusa, si svolge l’istruttoria, si ascoltano i testi, si ricostruiscono altre vicende. Tutto per appurare se il pm ha tenuto «in ufficio o fuori una condotta tale che comprometta il prestigio dell’ordine giudiziario». Per smontare il capo d’accusa, Spataro fa stralciare gli altri episodi e sostiene che si tratta solo di un fatto privato che non si è svolto «secondo modalità illecite o anche solo sconvenienti». È «non soltanto perfettamente lecito, ma anche assolutamente normale». La sentenza di assoluzione della sezione disciplinare del Csm, guidata dal vicepresidente Giancarlo de Carolis, arriva ad aprile ’83.”
Boccassini, una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia, scrive “Imola Oggi”. Il paragone fra certi p.m. di Magistratura Democratica e gli estremisti della Brigate Rosse è sicuramente improprio ma il fanatismo e la propensione agli affari degli uni e degli altri è sicuramente simile. Ilda Boccassini appartiene, secondo la stampa, a una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia. Suo zio Magistrato Nicola Boccassini fu arrestato e condannato per associazione a delinquere, concussione corruzione, favoreggiamento e abuso di ufficio perchè spillò con altri sodali e con ricatti vari 186 milioni di vecchie lire a un imprenditore. (Vendeva processi per un poker repubblica). Anche suo padre Magistrato e suo cugino acquisito Attilio Roscia furono inquisiti. Suo marito Alberto Nobili fu denunciato alla procura di Brescia da Pierluigi Vigna, Magistrato integerrimo e universalmente stimato per presunte collusioni con gli affiliati di Cosa Nostra che gestivano l’Autoparco Milanese di via Salamone a Milano. (Attacco ai giudici di Milano Repubblica) (Brescia torna inchiesta autoparco). Non se ne fece niente perchè la denuncia finì nelle mani del giudice Fabio Salomone, fratello di Filippo Salomone, imprenditore siciliano condannato a sei anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso. L’Autoparco milanese di via Salomone era un crocevia di armi e di droga ha funzionato per 9 anni di seguito (dal 1984 al 1993), fu smantellato dai magistrati fiorentini e non da quelli milanesi e muoveva 700 milioni di vecchie lire al giorno. A Milano tutti sapevano che cosa si faceva lì dentro. Visto ciò che è emerso a carico del marito per l’Autoparco e visto ciò che sta emergendo a carico del giudice Francesco Di Maggio (anche lui della Procura di Milano) relativamente alla strage di Capaci anche il suo trasferimento a Caltanisetta nel 1992 appare sospetto. In realtà a quel tempo sei magistrati massoni della Procura di Milano appoggiavano il progetto di Riina e Gardini, i quali erano soci, di acquisire Eni e poi di fondare Enimont e quindi da un lato favorivano l’acquisizione di denaro da parte di Cosa Nostra tutelando l’Autoparco (700.000.000 di vecchie lire al giorno di movimento di denaro) tutelando i traffici con il c.d. metodo Ros (502.000.000 di euro di ammanchi) e simulando con altre inchieste minori (Duomo Connenction, Epaminonda) un contrasto alla mafia che in realtà non c’era, dall’altro con Di Maggio intervennero pesantemente in Sicilia già nel 1989 per contrastare un attacco della FBI americana contro i corleonesi attraverso il pentito Totuccio Contorno e facendo ricadere la responsabilità delle lettere del corvo su Falcone, poi attentato simulatamente dalla stessa Polizia. Poi nel 1992 sempre con uomini di Di Maggio contribuirono alla strage di Capaci ove morì Giovanni Falcone il quale si opponeva acchè il progetto Enimont, a quel tempo gestito da Andreotti e da Craxi, tornasse nelle mani di Gardini e di Riina. Ora è noto ormai che anche le Brigate Rosse eseguirono il sequestro Moro per affarismo e rifiutarono dieci miliardi di vecchie lire da parte del Papa Paolo VI per liberare Aldo Moro perchè qualcun altro le remunerò di più. Napolitano ha ben fatto appello più volte a questi Magistrati di moderarsi. Palamara non c’entra niente con questo discorso perchè è un buon Magistrato ed è affiliato a Unicost, una corrente di magistrati seri e responsabili e non a M.D. Il tutto sembrerebbe discutibile se il parente che si è messo in condizione di essere criticato fosse solo uno. Ma qui i parenti chiacchierati sono tre. Fra l’altro osservo che Alberto Nobili, dopo che si è separato dalla Boccassini, è tornato a essere un magistrato stimato, per cui viene il dubbio che nei casini ce lo abbia messo lei.
PIERCAMILLO DAVIGO.
Piercamillo Davigo. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Piercamillo Davigo (Candia Lomellina, 20 ottobre 1950) è un magistrato italiano, Consigliere della II Sezione Penale presso la Corte di Cassazione.
Biografia. Dopo essersi laureato in giurisprudenza all'Università di Genova è entrato in Magistratura nel 1978. Ha iniziato la sua carriera come giudice presso il Tribunale di Vigevano; poi dal 1981 è divenuto Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano, dove si è occupato prevalentemente di reati finanziari, societari e contro la Pubblica Amministrazione. In questo contesto ha fatto parte, nei primi anni Novanta, del pool Mani Pulite, insieme ai colleghi Antonio Di Pietro, Francesco Saverio Borrelli, Gerardo D'Ambrosio, Ilda Boccassini, Gherardo Colombo, Francesco Greco, Tiziana Parenti e Armando Spataro. È stato eletto nel parlamentino dell'Associazione Nazionale Magistrati (ANM), nella corrente di "Magistratura Indipendente". Successivamente è divenuto Consigliere della Corte d'Appello di Milano. Ricopre il ruolo di Consigliere alla Corte Suprema di Cassazione, II Sezione Penale, dal 28 giugno 2005. Ha scritto vari libri, di taglio prevalentemente scientifico. Fra i testi di divulgazione, si ricordano in particolare La Giubba del Re - Intervista sulla corruzione, scritto in collaborazione con Davide Pinardi, La corruzione in Italia - Percezione sociale e controllo penale, scritto a quattro mani con Grazia Mannozzi e Processo all'italiana con Leo Sisti. Nel 2012 è stato insignito del Premio Giovenale.
ARMANDO SPATARO.
Armando Spataro. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Armando Spataro (Taranto, 16 dicembre 1948) è un magistrato italiano, procuratore della Repubblica presso il tribunale di Torino, ex procuratore della Repubblica aggiunto presso il tribunale di Milano, coordinatore del Gruppo specializzato nel settore dell'antiterrorismo, ex segretario nazionale del Movimento per la giustizia (una delle correnti di sinistra dell'Associazione nazionale magistrati). Dirigente nazionale della ANM, di cui è anche segretario distrettuale a Milano.
Biografia. Entra in magistratura il 27 marzo 1975 e l'anno successivo è destinato come Sostituto Procuratore della Repubblica alla Procura della Repubblica di Milano dove ha svolto tutta la sua carriera occupandosi prima di sequestri di persona e poi di terrorismo di sinistra coordinando tutte le inchieste milanesi fino al 1989. Spataro divenne noto al grande pubblico quando fu incaricato dell'inchiesta sull'incidente automobilistico che causò la morte di Ronnie Peterson, durante il Gran Premio d'Italia del 1978. Al termine delle indagini, avanzò la richiesta della condanna a 8 mesi di reclusione per Riccardo Patrese, invece assolto con formula piena, per non aver commesso il fatto. Successivamente si è occupato di criminalità organizzata, traffico internazionale di stupefacenti ed è chiamato a partecipare alla Direzione distrettuale antimafia dal 1991 (anno della costituzione) al 1998, occupandosi soprattutto di indagini su 'ndrangheta e mafia siciliana. Dopo le dimissioni di Antonio Di Pietro, avvenute nel 1994, era stato chiamato dal procuratore generale di Milano Francesco Saverio Borrelli a fare parte del pool di "Mani pulite". Nel luglio del 1998 è stato eletto componente del Consiglio superiore della magistratura. Per questo si trasferisce a Roma fino alla scadenza del mandato (luglio 2002) quando ritorna alla procura di Milano con funzioni di procuratore della Repubblica aggiunto coordinando dal giugno 2003 il Dipartimento terrorismo ed eversione responsabile di indagini su terrorismo interno ed internazionale (in particolare di quello di matrice islamica, tra cui quelli sull'imam egiziano Abu Omar e su Mohammed Daki, noto per la sentenza di assoluzione pronunciata dal giudice Clementina Forleo, confermata in appello e rigettata dalla Cassazione). È autore di numerosi saggi (anche di diritto processuale comparato), commenti a testi di legge e pubblicazioni varie di carattere scientifico (riguardante materia di criminalità organizzata e terroristica e di tecniche investigative) pubblicati su testi vari e su riviste specializzate. Ha pubblicato anche un'autobiografia professionale, Ne valeva la pena. Storie di terrorismi e mafie, di segreti di Stato e di giustizia offesa (Laterza, Roma-Bari 2010): nucleo centrale è la vicenda dell'extraordinary rendition che ha avuto come vittima Abu Omar (2003) e che ha visto agenti della CIA agire con la collaborazione del Sismi. L'opposizione del segreto di Stato da parte dei governi Prodi e Berlusconi è per Spataro l'occasione per riflettere sui rapporti tra politica e magistratura e sulla violazione dei diritti umani con il pretesto della sicurezza. Il libro è valso a Spataro il premio Capalbio 2010 per la sezione Politica e istituzioni. Dal 30 giugno 2014 è procuratore della Repubblica di Torino, nominato dal plenum del CSM con 16 voti a favore su 24.
GERARDO D'AMBROSIO.
Gerardo D'Ambrosio Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. (Santa Maria a Vico, 29 novembre 1930 – Milano, 30 marzo 2014) è stato un politico e magistrato italiano, fra i protagonisti di Mani pulite.
Biografia. Diplomato al liceo classico e laureato a pieni voti in Giurisprudenza a Napoli nel 1952 con tesi in diritto amministrativo. Nel 1953 diventa procuratore legale, entra in Magistratura nel 1957. Dopo una breve permanenza alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Nola, viene destinato al Tribunale di Voghera. In seguito viene trasferito al Tribunale di Milano, dapprima come Pretore Civile (per cinque anni), poi come Giudice Istruttore Penale. Da rilevare che con quest'ultimo incarico ha, tra l'altro, condotto l'istruttoria relativa alla strage di Piazza Fontana. Il 27 ottobre 1975 pronuncia la controversa sentenza sulla morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, assolvendo il commissario Calabresi e gli altri uomini della questura milanese. Nel 1981 è assegnato alla Procura Generale di Milano con funzione di Sostituto Procuratore Generale, per otto anni. In questo periodo ha sostenuto l'accusa nei primi processi per terrorismo e nel processo conseguente allo scandalo dei petroli. Ha condotto inoltre le istruttorie relative agli illeciti del Banco Ambrosiano, che vedeva tra gli altri imputati Roberto Calvi. Nel 1989 è stato nominato Procuratore aggiunto di Milano ed ha diretto dapprima il Dipartimento criminalità organizzata e, dal 1991, quello dei reati contro la pubblica amministrazione. Nel 1991 è stato sottoposto con successo ad un trapianto di cuore. Dal 1992 è tra i protagonisti (insieme a Francesco Saverio Borrelli, Antonio Di Pietro, Piercamillo Davigo e Gherardo Colombo) del Pool che si occupa dell'inchiesta Mani pulite: sono gli anni di Tangentopoli, che gli dà grande notorietà. Nel 1999 è stato nominato Procuratore Capo della Procura della Repubblica di Milano, contribuendo alla riorganizzazione degli Uffici, necessitata dalla introduzione del Giudice unico. Nel 2002 è stato collocato a riposo per limiti di età. Il 21 maggio 2012 il consiglio comunale di Santa Maria a Vico, sua città natale, gli ha negato - con decisione presa a maggioranza - la cittadinanza onoraria, proposta nei mesi precedenti dall'associazione culturale locale Ethos Odv. In fase di discussione il sindaco sammariano Alfonso Piscitelli (Il Popolo della Libertà) ha dichiarato: «Anche se D'Ambrosio è un nostro illustre cittadino riteniamo non abbia volato troppo in alto, non sia stato al di sopra delle parti». È deceduto il 30 marzo 2014 all'età di 83 anni.
Collaborazione con giornali. Dal 2003 collaborò col quotidiano L'Unità; cominciò poi a scrivere anche per il settimanale Oggi. Nel 2005, inoltre, pubblicò presso la Casa editrice RCS il saggio La giustizia ingiusta.
Politica. In occasione delle Elezioni politiche 2006, accetta la candidatura proposta dai Democratici di Sinistra, di un seggio al Senato, risultando eletto nella Regione Lombardia. È stato componente della II Commissione permanente ("Giustizia") del Senato. Tra gli altri interventi in Aula, vanno menzionati quelli contro un provvedimento (poi approvato nell'estate 2006) d'indulto che prevedeva sconti di pena di tre anni. D'Ambrosio sosteneva che la quantificazione della riduzione di pena era eccessiva, in quanto sarebbero stati scarcerati molti più detenuti (secondo la stima di D'Ambrosio, circa 24.000) del previsto (la stima era di 10.000 scarcerazioni). Alle elezioni del 2008 è stato confermato senatore del PD.
GHERARDO COLOMBO.
Gherardo Colombo. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Gherardo Colombo (Briosco, 23 giugno 1946) è un ex magistrato italiano, attualmente ritiratosi dal servizio, divenuto famoso per aver condotto o contribuito a inchieste celebri quali la scoperta della Loggia P2, il delitto Giorgio Ambrosoli, Mani pulite, i processi Imi-Sir/Lodo Mondadori/Sme. Dopo aver conseguito la maturità classica, si iscrive all'Università Cattolica di Milano, presso la quale si laurea in giurisprudenza nel 1969. Nel 1979 - dopo aver lavorato per la RAS come supervisore - entra in magistratura e, dal 1972 al 1979, pera in qualità di giudice nelle udienze della VII sezione penale della Corte di Milano. Dal 1978 al 1989 è giudice istruttore e, dal 1987 al 1989, fa parte della commissione che esamina i materiali riguardanti importanti processi contro il crimine organizzato; l'analisi di tali procedimenti è situata all'interno della riforma del Codice di Procedura Penale da parte del Ministero di Grazia e Giustizia. Dal 1987 al 1990 partecipa in qualità di osservatore - per conto della Società Internazionale di Difesa Sociale - alla commissione di esperti per la cooperazione internazionale nella ricerca e nella confisca dei profitti illeciti. Dal 1989 al 1992 è consulente per la Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia, e nel 1993 è consulente per la Commissione parlamentare d'inchiesta sulla mafia. Dal 1989 è pubblico ministero presso la Procura della Repubblica di Milano. Fondamentale il suo contributo alle indagini e ai processi nell'ambito dell'operazione Mani pulite. Nel marzo del 2005 è stato nominato Consigliere presso la Corte di Cassazione A metà febbraio del 2007, in casuale coincidenza dello scadere del 15º anno dall'inizio dell'inchiesta Mani pulite, comunica le sue dimissioni da magistrato con lettera al Consiglio Superiore della Magistratura e al Ministero della Giustizia. Da allora si impegna nell'educazione alla legalità nelle scuole, attraverso incontri con studenti di tutta Italia, e proprio per tale attività ha ricevuto il Premio Nazionale Cultura della Pace 2008. Nel settembre 2009 viene nominato presidente della casa editrice Garzanti Libri. È membro Onorario del Comitato Scientifico d'Onore della Fondazione Rachelina Ambrosini. Il 5 luglio 2012 viene eletto nel cda della Rai su indicazione del Partito Democratico, l'elezione è avvenuta da parte della commissione di vigilanza Rai.
FRANCESCO GRECO.
Francesco Greco. Da Giorgio Dell’Arti, Catalogo dei viventi 2015. Scheda aggiornata al 22 settembre 2014. Nato a Napoli nel 1951. Magistrato. Procuratore aggiunto a Milano, è il coordinatore del pool sui reati finanziari, titolare tra l’altro delle inchieste del crac Parmalat e sulle scalate bancarie. Faceva parte del pool di Mani pulite. Figlio di un ammiraglio, entrò in magistratura nel 1977, arrivò a Milano dopo aver fatto l’uditore a Roma, «il suo nome acquista una piccola notorietà all’inizio degli anni Ottanta, quando fa incarcerare Pietro Longo, segretario del Psdi, responsabile di aver intascato una bustarella» (Il Foglio). «Da un punto di vista politico, Greco può essere definito così: un cane sciolto molto di sinistra. Che soprattutto aborre schieramenti e scuderie. Forse è anche per questo che in 15 anni ha ottenuto tanti successi professionali ma ha fatto poca (anzi nessuna) carriera. Raccogliendo molto rispetto (non c’è grande avvocato milanese che non ne parli, anche in privato, più che bene), ma stringendo poche amicizie» (Angelo Pergolini). Così lo descrive Luigi Bisignani ne L’uomo che sussurra ai potenti (Chiarelettere, 2013): «Greco non è solo uno preparato, è anche corretto, garbato e con una caratteristica precisa. Quando ti fa una domanda sa già qual è la risposta, perché è uno dei pochi che studia davvero carte e bilanci». Nel maggio 2014 fu fatto il suo nome come presidente di Equitalia al posto di Attilio Befera, candidatura poi sfumata. «Mentre i magistrati si azzuffano sull’attribuzione delle grandi inchieste, litigano davanti al Csm e si dividono in fazioni, lui svetta su tutti per metafisico potere e per superiorità professionale: è quasi un’algida statua di Fidia piazzata lassù, in alto, sulle rovine del Partenone. In realtà Francesco Greco, procuratore aggiunto e capo del pool reati economici e finanziari, è parte molto attiva nella guerra che ha trasformato in trincea i corridoi al quarto piano del tribunale: con la sua audizione al Csm si è rivelato come uno degli avversari più tignosi di Alfredo Robledo, l’altro procuratore aggiunto che va accusando di parzialità e abusi vari il capo, Edmondo Bruti Liberati. Il dio Greco però non si espone come un’Ilda Boccassini: non si fa notare, non alza la voce. Sì, è vero, ispira e firma il “manifesto” dei 62 sostituti favorevoli a Bruti e spinge per la sua riconferma alla guida della procura. Ma intanto ostenta il lavoro come strumento purificatore. (…) Una gioventù da extraparlamentare di sinistra, una maturità spesa dietro a tutte le più importanti inchieste finanziarie d’Italia, oggi Greco potrebbe essere davvero effigiato come copia moderna e solo lievemente appesantita di Ermes, l’alato e astuto dio degli scambi: perché anche lui nella corsa e nel dialogo si è rivelato un dio. Malgrado il fiato corto per le troppe sigarette, Greco è sempre in corsa per qualche nomina e pronto a dialogare con la politica. (…) Greco da febbraio (2014 – ndr) è il primo consulente fiscale del governo di Matteo Renzi sul “dossier Svizzera” per il rimpatrio dei capitali. Ma è dal lontano 1998 che la politica lo insegue, lo corteggia, lo considera il terminale più adatto per interloquire con la Procura di Milano. All’inizio di quell’anno, mentre in Parlamento la commissione bicamerale pareva in dirittura d’arrivo sulla riforma della giustizia, il suo presidente Massimo D’Alema spedì Giuliano Amato, ministro delle Riforme, da Greco: voleva capire proprio da lui se i pm milanesi potessero condividere una “soluzione politica” alla stagione di Mani pulite. Si incontrarono più volte. Alla fine Greco, astutamente, disse che quella decisione “spettava al Parlamento”. E cinque mesi dopo, in giugno, la bicamerale fallì. Poi il magistrato si ributtò nei fascicoli giudiziari. In primo grado ottenne la prima seria condanna a 4 anni per Silvio Berlusconi nel processo sulla frode fiscale Mediaset, che il 1° agosto 2013 si è concluso con la sentenza definitiva che ha affossato giudiziariamente il Cavaliere. Intanto di Greco e con Greco la politica si era rimessa a parlare, e molto, già nel 2005: in estate per le sue inchieste sulle parallele scalate all’Antonveneta e alla Bnl, e per quella dell’immobiliarista Stefano Ricucci alla Rcs; in dicembre per la voce che lo voleva successore di Antonio Fazio al vertice della Banca d’Italia. In quel periodo il pm si occupava del processo per il crac Parmalat, scriveva per il Sole 24 Ore e sosteneva che “il mercato finanziario italiano è il Far West dell’Occidente”. Da allora Greco è stato candidato ai più prestigiosi incarichi istituzionali in campo finanziario e tutti gli ultimi 5 governi, di destra come di sinistra, gli hanno affidato l’incarico di sovrintendere a qualche fondamentale riforma. (…) Perché Greco piace a sinistra? Perché di quella parte è sempre stato. Trascorsi giovanili nell’estrema più dura & arrabbiata (ai tempi di Tangentopoli esponeva sulla scrivania un ritratto di sé molto barbuto, molto capelluto, infagottato in un eskimo da battaglia), Greco è stato redattore di Mob, una rivista che alla fine degli anni Settanta era in prima linea nel contestare la legislazione antiterrorismo. Dal suo primo ingresso in tribunale, nel 1977, è stato vicino a Magistratura democratica, corrente di cui certo sottoscriveva “il rifiuto di un percorso gradualista che abbia come obiettivo la riforma del sistema capitalista”. Poi, con la vita e i processi, l’uomo si è moderato. Signorile nei modi come può esserlo il figlio di un ammiraglio napoletano, appassionato di vela e sci, Greco è stato un grande amico di Guido Rossi, il re degli avvocati d’affari con il quale per anni ha condiviso le vacanze alla Maddalena. In quell’isola, nell’estate 2008, Greco è stato fotografato seduto al bar in amichevole colloquio con Beppe Grillo. Nessuno ha mai svelato il mistero di quell’incontro, che però resta negli archivi come segno di un dialogo aperto anche con i 5 stelle. Meno facile è capire perché Greco piaccia anche a destra. Da quelle parti, è evidente, lo si teme ma lo si stima. Forse per l’equilibrio da sempre esibito nel ricorso alla custodia cautelare: dicono che il 23 luglio 1993, alla notizia che Raul Gardini si era sparato in vista dell’arresto chiesto da Antonio Di Pietro, Greco abbia pianto. “Non sono mai stato un appassionato di galere e manette” avverte. Tremonti l’ha introdotto nell’Aspen institute, l’esclusivo circolo bipartisan nel cui esecutivo siedono Prodi e Gianni Letta, Fedele Confalonieri e Francesco Micheli. (…) Anche nelle aule di tribunale, va detto, la lunga corsa di Greco ha incontrato rari ostacoli. (…)» (Maurizio Tortorella) [Pan 29/5/2014]. Sposato prima con un medico, poi con una collega.
ANTONIO DI PIETRO.
Antonio Di Pietro. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Antonio Di Pietro (Montenero di Bisaccia, 2 ottobre 1950) è un politico, avvocato ed ex magistrato italiano.
Ha fatto parte del pool di Mani pulite come sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Milano; nel 1996 è entrato in politica, e nel 1998 ha fondato il partito Italia dei Valori dal quale, nell'ottobre 2014, si allontana lasciando tutti gli incarichi. Dal punto di vista ideologico Di Pietro dichiara di essere di estrazione cattolica e di non essere né di destra né di sinistra, in un rifuggire dagli estremi che lo porta a considerarsi un liberale e un uomo di centro. Dopo aver conseguito un diploma di perito elettronico, nel 1971 a 21 anni emigra a Böhmenkirch, in Baden-Württemberg (Germania); la sua giornata si suddivide fra un lavoro da operaio lucidatore di metalli in una fabbrica metalmeccanica e un altro, il pomeriggio, in una segheria. Tornato in Italia, nel 1973, inizia gli studi all'Università degli Studi di Milano presso la facoltà di giurisprudenza, mentre lavora come impiegato civile dell'Aeronautica Militare. Nel 1978 termina gli studi universitari conseguendo la laurea; l'anno successivo, attraverso un pubblico concorso, assume le funzioni di segretario comunale in alcuni comuni del comasco. Nel 1980 vince un concorso della Polizia di Stato per Commissario e frequenta la Scuola Superiore di Polizia. Successivamente viene inviato al IV distretto come responsabile della Polizia Giudiziaria. Nel 1981, sempre alternando lavoro e studio, vince il concorso di uditore giudiziario: è assegnato, con funzione di Sostituto Procuratore, alla Procura della Repubblica di Bergamo. Nel 1985 passa alla Procura della Repubblica di Milano, dove si occupa soprattutto di reati contro la pubblica amministrazione. Si fa notare per la sua padronanza degli strumenti informatici, che gli consente una notevole velocizzazione delle indagini e un efficiente collegamento dei dati processuali. In questo modo, all'epoca di Tangentopoli, può svolgere una notevolissima mole di lavoro. Nel 1989 il Ministero di Grazia e Giustizia lo nomina consulente per l'informazione e membro di alcune commissioni ministeriali per la riorganizzazione informatizzata dei servizi della pubblica amministrazione. Nel 1991, in un articolo pubblicato sul mensile milanese Società civile, Di Pietro sostenne che la tangente data al politico dall'imprenditore in cambio dell'appalto costituiva un sistema così pervasivo da rappresentare la norma, nella Milano degli anni novanta; la tangente, che egli chiamava «dazione ambientale», a suo parere veniva oramai data talmente per scontata che praticamente non era necessario né chiederla né proporla: era automatica, «ambientale», appunto. «Più che di corruzione o di concussione, si deve parlare di dazione ambientale, ovvero di una situazione oggettiva in cui chi deve dare il denaro non aspetta più nemmeno che gli venga richiesto; egli, ormai, sa che in quel determinato ambiente si usa dare la mazzetta o il pizzo e quindi si adegua.» Le prove di quanto affermato in quell'articolo arriveranno con l'arresto di Mario Chiesa, il primo tassello di un gigantesco "effetto domino" che dette l'avvio alla fine della I Repubblica. Quale pubblico ministero di punta del cosiddetto Pool di Mani pulite, composto anche da altri magistrati come Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo, Ilda Boccassini e Armando Spataro, coordinati da Francesco Saverio Borrelli, ha messo sotto inchiesta per corruzione centinaia di politici locali e nazionali, tra cui alcune figure politiche di primo piano, come il segretario del Partito Socialista Italiano, Bettino Craxi. In riferimento ai fatti di quegli anni, Di Pietro ha rivelato, durante la puntata dell'8 ottobre 2009 della trasmissione televisiva Annozero, che, pochi giorni prima della strage di via d'Amelio (19 luglio 1992), in seguito ad una nota riservata dei ROS che lo indicava come probabile obiettivo di un imminente attentato, fu messo sotto protezione ed espatriato in Costa Rica, sotto il falso nome di Marco Canale. «C'era una riservata del ROS che diceva: "guardate che Borsellino e Di Pietro devono essere fatti fuori". Io vengo avvertito, tant'è che (...) a me viene dato un passaporto (...) di copertura a nome Marco Canale.» Il 6 dicembre del 1994, poco prima che si riuscisse a tenere alla Procura di Milano l'interrogatorio, che era previsto per il 26 novembre, dell'allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, indagato per corruzione, si dimetterà dalla magistratura. La spiegazione resa all'epoca fu quella di voler evitare "di essere tirato per la giacca", ma su questo dettaglio si ebbero nel tempo, da parte dello stesso Di Pietro, varie versioni: Di Pietro prima addusse l'esigenza che i veleni sul suo conto - dal "poker d'assi" di Rino Formica al dossier de "Il Sabato", dall'inchiesta del GICO sull'autosalone di via Salomone alle indagini bresciane attivate dalle denunce degli inquisiti - non danneggiassero l'immagine della Procura di Milano. Successivamente lamentò come ragione scatenante la fuga di notizie sull' avviso di garanzia a Berlusconi, reso noto durante la conferenza di Napoli sul crimine transnazionale mentre Di Pietro si trovava a Parigi per rogatorie internazionali. Una sentenza assolutoria nei confronti di diversi imputati, tra cui Paolo Berlusconi e Cesare Previti, accusati di aver fatto indebite pressioni affinché Di Pietro abbandonasse la magistratura, ha sostenuto che Di Pietro si fosse già determinato a lasciare la toga, presumibilmente per darsi alla politica, quando venne avanzata la richiesta di interrogare Silvio Berlusconi. La sentenza afferma anche che alcuni fatti ascrivibili al magistrato potevano presentare rilevanza disciplinare. Subito dopo le elezioni del 27 marzo 1994, Silvio Berlusconi gli chiede di abbandonare la magistratura e di entrare a far parte del suo governo come Ministro dell'Interno. Quando il Governo Berlusconi I era in formazione, ci furono una serie di incontri tra Silvio Berlusconi e Di Pietro, falliti definitivamente il 7 maggio 1994, con l'ultimo no di Di Pietro a Berlusconi a qualunque incarico di governo. Di Pietro di fronte a numerosi giornalisti ha sostenuto che, pur dichiarandosi lusingato, non accettò perché preferiva continuare il suo lavoro di magistrato, seguendo il consiglio di Francesco Saverio Borrelli (che avrebbe rivolto, con analogo successo, lo stesso consiglio a Piercamillo Davigo, cui Ignazio La Russa avrebbe offerto il ministero della giustizia). Secondo quanto affermato da Cesare Previti nel 1995, a Di Pietro era stato offerto il ministero degli Interni e quest'ultimo aveva manifestato la sua disponibilità. Le affermazioni di Previti contrastano con quelle fatte da Berlusconi durante l'ultima campagna elettorale e nel 1996, quando sostenne di non aver avuto il tempo di formulare l'offerta in questione, poiché Di Pietro lo aveva già messo al corrente del fatto che gli era stato sconsigliato di accettare l'offerta. Nel luglio del 1995 in un interrogatorio presso la procura di Brescia circa i suoi rapporti con Di Pietro, Silvio Berlusconi riferì di aver proposto al magistrato la direzione dei servizi segreti. Anni dopo, nella campagna elettorale del 2008, Berlusconi ha negato di aver offerto un Ministero a Di Pietro. Nel 1996 chiamato da Romano Prodi accetta di divenire ministro nel suo Governo sostenuto dalla coalizione dell'Ulivo, appena insediatosi dopo la vittoria nelle elezioni politiche di aprile. L'incarico affidatogli è il Ministero dei Lavori pubblici, ma decide di presentare le sue dimissioni dopo sei mesi, il giorno dopo in cui gli viene notificata da Brescia una nuova indagine nei suoi confronti (avviso di garanzia). Prodi respinge le dimissioni, ma Di Pietro non vuole tornare sui suoi passi. Verrà poi prosciolto dai 27 capi di accusa in tutti e dieci i processi perché il fatto non sussiste. Il 20 giugno 1997 il senatore del PDS Pino Arlacchi è nominato vicesegretario generale delle Nazioni Unite. Nelle settimane successive Massimo D'Alema d'intesa con Romano Prodi offrono a Di Pietro la possibilità di sostituire Arlacchi candidandosi per l'Ulivo nel collegio senatoriale del Mugello, in Toscana. Di Pietro accetta inaugurando così la sua attività politica. Il 9 novembre 1997 si tengono dunque le elezioni suppletive che Di Pietro vince contro Giuliano Ferrara per la coalizione di Silvio Berlusconi, Sandro Curzi per il PRC, e Franco Checcacci per la Lega Nord, con il 67,8% dei voti. Diventa così senatore e, come indipendente, aderisce al gruppo misto. Il neosenatore però lavora subito per la creazione di un gruppo parlamentare proprio, ma nel febbraio 1998 è costretto a rinunciarci preferendo lavorare alla creazione di un proprio movimento politico. Nasce così, il 21 marzo seguente a Sansepolcro, Italia dei Valori. A fondare il movimento ci sono anche Elio Veltri, la cui moglie è l'amica di famiglia Silvana Mura (oggi parlamentare e capogruppo IDV) che vede l'adesione anche di altri parlamentari, e insieme a loro forma un sottogruppo. Dopo la caduta del Governo Prodi I dell'ottobre del 1998, si verificano dei cambiamenti nell'assetto dei partiti alleati. Di Pietro è un sostenitore di Romano Prodi, lo considera come unico punto di riferimento, aderisce al progetto dei Democratici, che intende portare avanti l'idea unitaria formale dei partiti che sono a fondamento dell'Ulivo. Così nel febbraio 1999 viene deciso lo scioglimento del giovane movimento, per farlo confluire, insieme ad altre formazioni politiche, in quello di Prodi. Di Pietro viene scelto per svolgere l'importante ruolo di responsabile organizzativo. I Democratici debuttano alle elezioni europee dello stesso anno, ottenendo il 7,7% dei voti e sette seggi, e Di Pietro viene eletto eurodeputato con funzioni di Presidente di Delegazione del Parlamento europeo dapprima per le relazioni con il Sud America, poi per l'Asia centrale ed infine per il Sudafrica. In seguito a ripetuti dissidi con la linea portata avanti da Arturo Parisi, leader del partito, con il culmine nello strappo avvenuto quando Di Pietro sceglie di non votare la fiducia al nuovo governo Amato, il 27 aprile 2000 si separa dai Democratici. Rifonda quindi Italia dei Valori come partito autonomo nel settembre dello stesso anno, sempre con l'obiettivo di portare avanti le proprie battaglie politiche, mettendo sempre in primo piano temi come la valorizzazione e l'affermazione della legalità e la necessità di trasparenza amministrativa e a livello politico. Pur d'accordo nel contrastare la coalizione guidata da Silvio Berlusconi, per le elezioni politiche del 2001 Di Pietro non riesce a trovare un accordo e si presenta quindi da solo alla competizione elettorale. Tuttavia non risulterà eletto, non riuscendo a spuntarla nel collegio uninominale in Molise e non superando, con la sua lista al proporzionale, la soglia del 4%, seppur di poco (3,9%). Alla vigilia delle elezioni europee del 2004, Di Pietro aderisce all'appello di Prodi di presentarsi sotto un unico simbolo nel nome dell'Ulivo. Ma non tutti sono d'accordo con l'ingresso di Di Pietro (il fronte dell'opposizione è guidato dai socialisti dello SDI). E così nasce una nuova intesa elettorale con Achille Occhetto: insieme presentano la Lista Società Civile, Di Pietro-Occhetto, Italia dei Valori. Nel suo simbolo, la lista inserisce la dicitura "Per il Nuovo Ulivo", con un piccolo ramoscello d'ulivo, per sottolineare la chiara intenzione di partecipare alla rinascita e al rafforzamento della coalizione. Prodi, in un primo momento, plaude all'idea, ma poi Di Pietro e Occhetto (a campagna elettorale già avviata) sono costretti ad eliminare quel frammento del loro simbolo perché - dicono dalla coalizione - si potrebbe generare confusione fra gli elettori che potrebbero confonderlo con il "vero" Ulivo. La lista, comunque, corre regolarmente alle elezioni, ma il progetto è un fallimento: raccoglie soltanto il 2,1%. Occhetto abbandona immediatamente l'alleanza, cedendo il seggio di parlamentare europeo in favore del giornalista Giulietto Chiesa (come aveva anticipato prima delle elezioni) e conservando quindi il suo seggio al Senato. Di Pietro viene rieletto al Parlamento europeo nella circoscrizione sud, dopo aver ricevuto in tutta Italia quasi 200 000 preferenze. Iscritto al gruppo parlamentare dell'Alleanza dei Democratici e Liberali per l'Europa; membro della Conferenza dei presidenti di delegazione; della Commissione giuridica; della Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni; della Delegazione per le relazioni con il Sudafrica. Intanto, nasce la nuova coalizione di centrosinistra, chiamata L'Unione, che si apre ai contributi di Italia dei Valori e di Rifondazione Comunista. Il nuovo schieramento debutta alle elezioni regionali dell'aprile 2005: IdV ne è parte integrante in tutte le 14 regioni chiamate al voto, ma il partito conferma il suo trend negativo, raggranellando soltanto l'1,8% dei voti. Prodi, in vista delle elezioni politiche del 2006, lancia l'idea delle consultazioni primarie per la scelta del candidato premier. Il progetto va in porto, le primarie si organizzano e Di Pietro presenta subito la sua candidatura. Le primarie si svolgono il 16 ottobre 2005 con sette candidati: Di Pietro è arrivato quarto, raccogliendo 142.143 voti (il 3,3% dei consensi), alle spalle di Romano Prodi, che ha ricevuto l'investitura di candidato premier della coalizione, di Fausto Bertinotti e Clemente Mastella. Le elezioni politiche del 9 e 10 aprile 2006 fanno registrare un avanzamento dell'Italia dei Valori (che si attesta al 2,3% alla Camera e al 2,9% al Senato) grazie anche al buonissimo risultato conseguito in una circoscrizione tradizionalmente ostica per Di Pietro ed il centrosinistra, la Sicilia, in cui decisiva fu la presenza nelle liste dell'IdV di Leoluca Orlando, da un anno segretario regionale del movimento in terra sicula e che successivamente verrà nominato presidente del partito. Il successo nelle consultazioni arride all'Unione ed il 17 maggio 2006 Di Pietro viene nominato Ministro delle Infrastrutture nel secondo Governo Prodi. Lascia l'incarico di europarlamentare per accettare quello di deputato nazionale. In qualità di ministro delle infrastrutture, sospende la procedura di fusione tra la società autostrade e l'omologa spagnola Abertis, eccependo il danno economico che lo Stato avrebbe avuto dall'esecuzione di tale piano. Nel luglio del 2006 scoppia una polemica interna alla coalizione di governo, in particolare nei confronti del Ministro della Giustizia Clemente Mastella, a causa della forte contrarietà del partito di Di Pietro ad inserire i reati finanziari, societari e di corruzione all'interno del provvedimento di indulto. Il provvedimento è sostenuto, invece, in maniera trasversale da esponenti e partiti di entrambi gli schieramenti, esclusa la Lega Nord, il Partito dei Comunisti Italiani e gran parte di Alleanza Nazionale. Di Pietro manifesta davanti a Palazzo Madama prima dell'approvazione del provvedimento al Senato, insieme alla Lega Nord. Tuttavia, al contrario di tale partito, Di Pietro si è dichiarato a malincuore favorevole all'indulto come mezzo per svuotare le carceri solo dopo un cambiamento della riforma Castelli, come previsto dal programma dell'Ulivo. Tali richieste non vengono accolte e Di Pietro pubblica polemicamente sul suo sito web personale i nomi dei deputati che hanno votato a favore dell'indulto, tra i quali anche Federica Rossi Gasparrini dell'Italia dei Valori, poi passata all'Udeur. Afferma Di Pietro: «È sconcertante, davvero sconcertante, vedere l'Unione rinnegare nei fatti, con questo indulto, il programma che ha presentato ai cittadini e per cui è stata eletta. Il cittadino conta meno di zero, non può scegliere i suoi rappresentanti (con riferimento alla legge elettorale senza preferenze, ndr) e neppure vedere rispettato il programma di governo. A cosa serve l'istituzione parlamentare oggi? Quanto è lontana dagli elettori? È una domanda che noi politici dobbiamo farci e alla quale è necessario dare presto delle risposte.» In occasione delle elezioni politiche del 2008, Di Pietro entra in coalizione con il Partito Democratico. Il suo partito ottiene il 4,4% alla Camera dei Deputati e il 4,3% al Senato raddoppiando i suoi voti; l'ex magistrato sceglie di essere eletto nel natìo Molise, dove aveva raggiunto il miglior risultato in Italia, superando in entrambe le camere il Partito Democratico.
Nel 2013, in occasione delle elezioni politiche del 2013, decide di rinunciare a presentarsi con il suo partito per appoggiare la lista Rivoluzione Civile, guidata dal candidato premier ed ex magistrato Antonio Ingroia. Tuttavia i risultati delle elezioni non consentono a questa lista di superare le rispettive soglie di sbarramento per Camera e Senato, così Di Pietro resta fuori dal Parlamento. Il 26 febbraio si dimette da presidente dell'Italia dei Valori e il 2 maggio Rivoluzione Civile viene disciolta all'unanimità dai suoi costituenti. Il 28 giugno al Congresso dell'Italia dei Valori ufficializza le sue dimissioni da presidente del partito dichiarando di rimanere però militante dello stesso. Il nuovo leader del movimento è Ignazio Messina. Nel febbraio 2014, nel corso del programma L'aria che tira, annuncia la sua candidatura alle Elezioni europee di maggio non venendo poi candidato. Il 3 ottobre 2014, poco prima del raduno nazionale di Sansepolcro, Di Pietro decide di lasciare definitivamente l'Idv. Un voto che lo vede nettamente in minoranza (il 95% dei delegati approva infatti la linea politica del segretario Messina) sancisce l'addio al partito che, nel 1998, aveva fondato proprio nella località toscana. Di Pietro, in particolare, volendo portare avanti un'opposizione dura al Governo Renzi, già dopo le elezioni europee aveva criticato la scelta di riallacciare un rapporto di dialogo con il Pd. Di Pietro si schiera insieme a Casini ed a tutta la Casa delle Libertà contro la rimozione del capo della polizia De Gennaro, responsabile della polizia in carica durante le violenze del G8, adducendo come motivazione "non tanto il gesto ma le modalità di esecuzione", ritenendo preferibile che non venisse prontamente allontanato, troppo veementemente, un capo della polizia indagato per istigazione alla falsa testimonianza, allontanamento che Di Pietro definisce "una vendetta della sinistra massimalista". Altri membri del suo partito in tale occasione si sono augurati che a De Gennaro venissero affidati altri prestigiosi incarichi, cosa puntualmente accaduta, con la nomina a capo del gabinetto da parte di Amato. Di Pietro dichiara di opporsi alla riforma sulle intercettazioni che, a suo dire, avrebbe come obiettivo l'imbavagliamento dei giornalisti e la limitazione dei poteri della magistratura. L'ex magistrato sostiene le ragioni di Europa 7, che da tempo cerca di ottenere le frequenze per trasmettere, situazione per la quale lo Stato Italiano ha subito procedura di infrazione da parte della Comunità europea in data 19 luglio 2006 [2005/5086 C(2006) 3321]. In seguito alla condanna in primo grado di Salvatore Cuffaro per favoreggiamento semplice, ha scritto al Presidente del Consiglio, Romano Prodi, chiedendo la sospensione di diritto di Cuffaro, ai sensi della legge 19 marzo 1990, n. 55. Nel 2008, dopo le dimissioni di Mastella da Ministro della Giustizia, ha scritto a Romano Prodi, che aveva preso l'interim. In questa lettera, ha denunciato le nomine del Comitato direttivo della Scuola della Magistratura di Benevento, a cui, fra gli ultimi atti che aveva compiuto come ministro, Mastella aveva nominato persone del suo collegio elettorale, fra cui l'avvocato difensore della moglie dello stesso Mastella. Annuncia l'adesione di IdV all'iniziativa della rivista MicroMega per la manifestazione nazionale dell'8 luglio 2008 in Piazza Navona, contro le cosiddette "Leggi canaglia", denominata No Cav Day. La sua posizione riguardo al reato di immigrazione è cambiata diverse volte. Egli è passato dal considerarlo giusto (arrivando ad affermare che alcuni immigrati "meriterebbero il taglio degli attributi" e a sostenere pene detentive fino a tre anni nei confronti degli immigrati irregolari) al contrastarlo (considerandolo la causa del sovraffollamento carcerario e dichiarando che gli immigrati "non possono essere considerati di serie B, ma devono avere gli stessi diritti e doveri, a cominciare da quelli elettorali, dei cittadini"). Nel marzo 2010, in seguito alla firma del Presidente della Repubblica Napolitano sul decreto legge che avrebbe permesso la riammissione delle liste PdL nel Lazio e in Lombardia, Di Pietro affermò che bisognava valutare se ci fossero gli estremi per mettere sotto impeachment il Presidente della Repubblica in quanto, a suo dire, il Presidente della Repubblica aveva violato la Costituzione contribuendo alla stesura del testo. L'attacco suscitò la reazione sdegnata sia del governo, sia del resto dell'opposizione. Dopo le proteste del Movimiento 15-M che il 15 ottobre 2011 sono degenerate in duri scontri a Roma, il 17 ottobre 2011 alcuni organi di informazione hanno attribuito ad Antonio Di Pietro la volontà di introdurre una nuova "Legge Reale" per gestire situazioni di violenza durante le manifestazioni, mentre lo stesso Di Pietro ha subito respinto e smentito tali affermazioni.
Indagini giudiziarie e aspetti controversi.
L'inchiesta di Brescia. Dopo questi anni da protagonista della magistratura italiana, sono partite contro di lui diverse indagini giudiziarie, tutte risolte in assoluzioni piene o archiviazioni. Nel 1995 viene indagato dal sostituto procuratore di Brescia Fabio Salamone, ipotizzando reati di concussione e abuso d'ufficio in seguito a dichiarazioni rese dal generale Cerciello (sotto accusa in un processo sulla corruzione della guardia di finanza) ma il giudice per le indagini preliminari archivia il procedimento. Una seconda indagine viene aperta sempre a Brescia sulla base di affermazioni dall'avvocato Carlo Taormina (allora difensore del generale Cerciello), la testimonianza di Giancarlo Gorrini e dossier anonimi su presunti traffici illeciti tra l'ex pm e una società di assicurazioni. L'inchiesta successivamente prende una strada completamente diversa e il pm Salamone arriva ad ipotizzare un complotto finalizzato a far dimettere Di Pietro per mezzo di ricatti e dossier anonimi. Per fare luce sulla vicenda il pm interroga gli ispettori ministeriali Dinacci e De Biase, i ministri Alfredo Biondi, Cesare Previti e il presidente del consiglio Silvio Berlusconi, mentre suo fratello Paolo viene indagato per estorsione. Secondo le ricostruzioni dei pm tutto sarebbe iniziato dopo che fu recapitato a Silvio Berlusconi un invito a comparire dalla procura di Milano il 21 novembre 1994: Previti avrebbe telefonato all'ispettore ministeriale Dinacci e l'avrebbe messo in contatto con Gorrini il quale si sarebbe presentato lo stesso giorno all'ispettorato per presentare le sue documentazioni contro Di Pietro. Questo avveniva il 23 novembre 1994. Il 29 il ministro Alfredo Biondi ha ordinato di aprire l'inchiesta su Di Pietro. Il 6 dicembre Di Pietro annuncia le dimissioni ed il 10 l'inchiesta viene archiviata. È allora che Salamone mette sotto controllo diversi telefoni e dalle telefonate di Gorrini sulla vicenda emerge il nome di Paolo Berlusconi, suo conoscente e l'incriminazione per lo stesso. Successivamente vengono incriminati anche Cesare Previti, Sergio Cusani per estorsione e lo stesso Silvio Berlusconi per estorsione ed attentato ai diritti politici del cittadino. In questa inchiesta emerge l'esistenza di un dossier del SISDE su Di Pietro chiamato "Achille". Dopo le indagini si arriva ad un processo con imputati Previti, Paolo Berlusconi e gli ispettori ministeriali che indagarono sul Di Pietro. Il 18 ottobre 1996, mentre è ancora in corso il processo sul presunto complotto contro Di Pietro, la procura generale di Brescia rimuove dall'incarico i pm Salamone e Bonfigli per una presunta "grave inimicizia" con Di Pietro (che comunque non era imputato) che "giunge al livello di pervicace odio privato". Il successivo ricorso in cassazione di Salamone contro la decisione della procura viene respinto. Il 21 gennaio 1997 il procuratore che sostiene la pubblica accusa in sostituzione di Salamone (Raimondo Giustozzi) rinuncia ad interrogare i testimoni convocati dall'accusa e chiede subito l'assoluzione per tutti gli imputati. Istanza che viene accolta dal giudice.
Accusa di offesa e attacchi verso Napolitano. Il 3 febbraio 2009 Di Pietro è stato iscritto nel registro degli indagati dalla Procura di Roma con l'accusa di Offesa all'Onore o al Prestigio del Presidente della Repubblica (articolo 278 del codice penale). L'atto è conseguente alla denuncia presentata il 31 gennaio dall'Unione delle Camere Penali Italiane, secondo la cui lettura dei fatti Di Pietro, nel corso del suo intervento durante la manifestazione organizzata dall'Associazione Nazionale Familiari Vittime di Mafia il 28 gennaio 2008 a Piazza Farnese, non si sarebbe limitato a criticare il comportamento del Presidente Napolitano, ma avrebbe attribuito un atteggiamento mafioso ai suoi silenzi. Dal canto suo, Di Pietro ha risposto dal suo blog definendo l'iniziativa "Una mossa puramente politica [...] da parte del professore Oreste Dominioni, che sostiene di "non essere amico di questo o di quel governo", ma che è anche avvocato di famiglia Berlusconi oltre che Presidente dell'Unione delle Camere Penali", invitando anche a rivedere il video del suo intervento al fine di verificare come l'affermazione "il silenzio è mafioso" fosse inserita nella frase "Non siamo d'accordo sull'oblio che le istituzioni hanno nei confronti di questi familiari delle vittime. Vediamo le vittime del terrorismo, della mafia, della criminalità che vengono dimenticate ed abbandonate a sé stesse. Lo possiamo dire, o no? Rispettosamente! Ma il rispetto è una cosa, il silenzio un'altra: il silenzio uccide, il silenzio è mafioso, il silenzio è un comportamento mafioso.". Proprio in virtù di ciò il 13 febbraio 2009 la Procura della Repubblica di Roma, per mezzo del Procuratore Giovanni Ferrara e del PM Giancarlo Amato, ha richiesto l'archiviazione, ritenendo che: « "Una lettura attenta del complessivo intervento dell'onorevole Di Pietro consente di escludere che i riferimenti al 'silenzio mafioso' abbiano avuto quale destinatario il presidente della Repubblica. [...] Dovendosi esse [le affermazioni riferite al Capo dello Stato, NdR] invece inquadrarsi nell'esercizio di un legittimo diritto di critica che è consentito anche nei confronti delle più alte cariche dello Stato se espresso in forme continenti (qui senz'altro ravvisabili), nessuna offesa all'onore ovvero al prestigio del capo dello Stato possono essere ipotizzate. Da qui la ritenuta impossibilità di configurare la fattispecie prevista dall'articolo 278 c.p. e la conseguente decisione di non richiedere l'apposita autorizzazione prevista dall'art.313 primo comma c.p. nei confronti dell'indagato"». Di Pietro è tornato ad attaccare il Presidente della Repubblica sostenendo che la bocciatura dei referendum sulla legge elettorale avvenuta il 12 gennaio 2012 da parte della Corte Costituzionale sarebbe stata una scelta non giuridica ma di favore per compiacere il Capo dello Stato e la sua «maggioranza inciucista». Giorgio Napolitano ha replicato immediatamente che si tratta di «un'insinuazione volgare e del tutto gratuita che denota solo scorrettezza istituzionale».
Immunità parlamentare per diffamazione. Nell'aprile 2009 il Parlamento Europeo ha confermato (654 voti favorevoli, 11 contrari e 13 astenuti) l'immunità parlamentare a vantaggio di Di Pietro, bloccando la causa civile per diffamazione intentatagli dal giudice Filippo Verde a seguito di un articolo pubblicato sul sito dell'Italia dei Valori. Nel commentare il processo pendente dinanzi al Tribunale di Milano per la vicenda IMI-SIR/Lodo Mondadori, Di Pietro affermava che Verde era stato accusato di corruzione per aver accettato una tangente al fine di "aggiustare" una sentenza. In effetti, Filippo Verde non è mai stato coinvolto nella vicenda processuale del Lodo Mondadori, mentre lo è stato nel processo IMI-SIR, nell'ambito del quale era stato assolto da tutte le imputazioni contestategli. L'unico italiano che si è espresso con voto contrario è stato Roberto Fiore, europarlamentare di Forza Nuova. Ha invocato l'immunità parlamentare anche nel procedimento civile intentato da Salvatore Cuffaro presso il Tribunale di Palermo. In questo caso, il Tribunale non ha riconosciuto la sussistenza dei presupposti per l'insindacabilità delle proprie affermazioni ed ha condannato l'ex pm di mani pulite a risarcire Salvatore Cuffaro. La causa civile era stata avviata perché Di Pietro aveva linkato sul proprio sito internet, antoniodipietro.it, il video "Costanzo Show Cuffaro aggredisce Falcone" ed aveva affermato che Cuffaro avesse screditato Falcone. Il Tribunale di Palermo, con sentenza n. 1742/2013, ha riconosciuto che Cuffaro non aveva detto nulla contro Giovanni Falcone ed ha considerato diffamatorie le affermazioni di Antonio Di Pietro.
Sospensione dal Foro. L'Ordine degli Avvocati di Bergamo, Foro presso il quale l'ex magistrato attualmente esercita la professione di avvocato, in data 7 luglio 2009, ha inflitto ad Antonio Di Pietro la sanzione della sospensione disciplinare per la violazione del divieto di assumere incarichi contro ex clienti di cui all'articolo 51 del codice deontologico della professione forense. Il riferimento è al processo, svoltosi in Corte d'Assise a Campobasso, nel quale Di Pietro era il legale di parte civile per l'omicidio di Giuliana D'Ascenzo, compaesana di Montenero di Bisaccia, e nel quale imputato era Pasqualino Cianci, precedentemente assistito proprio da Di Pietro.
A cena con SISDE e CIA. Nel 2010 vengono rese pubbliche alcune foto risalenti al 1992 che ritraggono Di Pietro a cena in una caserma dei carabinieri con alcuni esponenti dei servizi segreti, tra i quali Bruno Contrada che solo nove giorni dopo sarà arrestato e poi condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione di tipo mafioso. Alla cena erano presenti anche alcuni agenti statunitensi della CIA.
CEPU. Fondato nel 1995, il CEPU ha inizialmente goduto dell'amicizia tra il suo fondatore Francesco Polidori e Di Pietro, che prese parte alle prime campagne pubblicitarie e tenne seminari in qualità di docente di Tecnica processuale. Inoltre, nel 1998 Di Pietro fondò l'Italia dei Valori in un hotel di Sansepolcro di proprietà del gruppo di Polidori. Successivamente, i legami tra Di Pietro e Polidori si sono indeboliti, e quest'ultimo si è candidato nella lista "Federalismo Democratico Umbro" senza stringere alleanze con partiti già presenti in Parlamento.
L'inchiesta di Report. Una puntata di Report dell'ottobre 2012 dedicata al patrimonio personale di Di Pietro ha suscitato notevoli polemiche che hanno avuto influenza anche sul partito Italia dei Valori, contribuendo alla fuoriuscita di alcuni esponenti, tra cui Massimo Donadi. Nella trasmissione si è affermato che Di Pietro sarebbe intestatario di 56 immobili (compresi garage, cantine e terreni), del valore stimato intorno ai 15 milioni di euro, e che parte di essi sarebbe stato acquistato utilizzando fondi ricavati dai rimborsi elettorali e da un lascito. Peraltro diverse accuse presentate verso Di Pietro erano già state valutate dalla magistratura, con sentenze a lui favorevoli. Di Pietro, tramite il suo blog, si è subito difeso portando come prova le visure catastali. Da questi documenti emergerebbe secondo Di Pietro che "un modesto appartamento diviso in due e da me regalato nel 2008 ai miei figli Anna e Totò, a Milano, è diventato nella campagna di calunnia 15 case"; ha aggiunto inoltre di aver "messo a disposizione di chiunque i documenti che dimostrano come in quell’agguato travestito da inchiesta siano state fatte passare per mie proprietà marciapiedi, svincoli, strade di accesso e persino giardinetti pubblici". Sempre dagli incartamenti del catasto si dedurrebbe che i due appartamenti di Bergamo costituiscono in realtà un solo appartamento, acquistato dalla moglie Susanna Mazzoleni. Ha infine dichiarato che sporgerà querela contro la giornalista di Report che ha condotto l'inchiesta. Tuttavia, nonostante gli annunci, decorso il termine di novanta giorni, Di Pietro non ha sporto querela, ma ha annunciato una causa civile.
Parte civile al processo per compravendita di senatori. Nel febbraio 2014 si costituisce parte civile per l'IdV al processo sulla presunta compravendita di senatori da parte di Silvio Berlusconi.
La famiglia. Antonio Di Pietro si è sposato nel 1973 con Isabella Ferrara, da cui lo stesso anno ha avuto il figlio Cristiano il quale siede nel consiglio regionale del Molise con l'IDV. Dopo il divorzio, si è sposato in seconde nozze nel 1994 con Susanna Mazzoleni, avvocato di famiglia benestante bergamasca (padre anch’egli avvocato e nonno notaio). Con lei ha avuto due figli: Anna e Antonio Giuseppe, detto Totò. Nel 2002 diventa nonno di tre gemelli.
Il tumore benigno alla prostata. Il 1º ottobre 2009 Di Pietro ha confidato al Corriere della Sera di essere stato operato, due mesi prima, per un tumore benigno alla prostata e di essersi già discretamente ristabilito. Di Pietro ha inoltre dichiarato, nella stessa intervista, di sentirsi solidale nei confronti di Silvio Berlusconi, il quale aveva subito anni prima un intervento simile.
Il "dipietrese". Alcuni aspetti del linguaggio utilizzato da Antonio di Pietro, dapprima come magistrato, e, in seguito, dopo l'abbandono dell'ordine giudiziario, nella sua azione politica, sono stati oggetto dell'attenzione dei media, che hanno coniato il neologismo "dipietrese", entrato nel gergo giornalistico e usato dallo stesso Di Pietro. Il fenomeno ha attratto l'attenzione dei linguisti, con articoli e commenti, per le sue caratteristiche innovative nel tradizionale modo di esprimersi della comunicazione pubblica in Italia, riconosciutegli in gradi diversi dai vari studiosi. Questo modo d'esprimersi è salito alla ribalta nelle aule giudiziarie, in occasione delle udienze pubbliche di processi della stagione di Mani Pulite, in cui Di Pietro, in qualità di pubblico ministero, sosteneva il ruolo della pubblica accusa. In particolare, è venuto all'attenzione di un vasto pubblico a seguito della messa in onda delle registrazioni delle udienze di quei processi. Il dipietrese si caratterizza per un lessico e un registro linguistico coloriti e popolari, con uno stile comunicativo spesso scevro da tecnicismi e formalismi, condito da espressioni tipiche, esclamazioni, detti proverbiali, neologismi funzionali, come «dazione» e «dazione ambientale», «fuggitore di notizie» (autore delle fughe di notizie), «mosca cavallina», «zanzata», «benedettiddio!» o «Santa Madonna!», «che c'azzecca?» («cosa c'entra?»), «Non ho capito!», «Scusi, non ho capito!» (frasi ed esclamazioni rivolte a testimoni o imputati per sottolineare la contraddittorietà di quanto dichiarato), «O è zuppa, o è pan bagnato», e l'affermarsi di numerose altre polirematiche e neologismi divenute patrimonio del linguaggio comune, come "Mani pulite" e "Tangentopoli". L'eloquio tende a uno stile nominale, pur senza eccedere, come altri, in nominalismi. Un'altra cifra distintiva è l'ampio uso di sigle in funzione di «parole piene»: «il PG» (Procuratore generale), «il GIP» (Giudice per le indagini preliminari), «il PM» (pubblico ministero). Quando il linguaggio di Di Pietro si manifestò per le prime volte, offrendosi a una vasta platea giornalistica e televisiva, in esso fu immediatamente riconosciuto un carattere di novità, rispetto a formulazioni linguistiche retoriche, pompose, scenografiche, tecnicistiche, stereotipate, o paludate, di quel linguaggio settoriale che la mente normalmente associa all'ambiente giudiziario. La novità del linguaggio si accompagnava alla novità della condotta dibattimentale, anch'essa fuori dagli schemi per quanto riguarda il modo di porgere le prove agli interlocutori del pubblico ministero, anche con l'utilizzo, veramente innovativo per l'epoca, di risorse informatiche e multimediali. Il giudizio sull'innovatività linguistica del dipietrese, assume toni diversi nelle opinioni dei linguisti: Michele Cortelazzo, ad esempio, senza negarne gli aspetti di novità, considera il linguaggio di Antonio Di Pietro ancora troppo vincolato ai paludamenti del tecnicismo giudiziario. Più severo è il giudizio di Raffaele Simone, che invece riconosce nel dipietrese i vizi perduranti del linguaggio della comunicazione pubblica italiana, «enigmaticità ed equivocità», accostate, nel suo caso, a una dose di «scombinatezza».
Di Pietro e Internet. A partire dal mese di gennaio del 2006 Di Pietro tiene un blog personale. Tra le iniziative di spicco, oltre alla pubblicazione di riflessioni personali, alla pubblicizzazione delle iniziative e degli incontri nazionali del partito e alla spiegazione della linea politica che egli segue, ha riproposto la spiegazione di tutte le decisioni prese all'interno del Consiglio dei ministri sotto forma di videoclip ospitate su YouTube, partire col CdM del 19 gennaio 2007 (e pubblicato poi sul blog il 22 gennaio). Il 28 febbraio seguente ha annunciato sul suo blog di aver aperto uno spazio per l'Italia dei Valori nella comunità virtuale Second Life, avendo acquistato un'isola su cui ha piantato la bandiera del partito. In seguito l'area è stata allestita con nuove costruzioni e, a partire dal 26 marzo, è sede per le riunioni di IDV AGORÀ, gruppo di avatar di Second Life che si riconosce negli ideali di Italia dei Valori. Il 12 luglio Antonio Di Pietro tiene la prima conferenza stampa ufficiale del partito su Second Life, davanti all'avatar di numerosi giornalisti e simpatizzanti che hanno interagito, ponendo domande anche per verificare che non fosse una registrazione. A causa di un articolo pubblicato sul proprio sito internet dal titolo "Vi difendiamo tutti da Cuffaro", Antonio di Pietro è stato condannato dal Tribunale Civile di Palermo, con sentenza n. 1742/2013, a risarcire Salvatore Cuffaro con la somma di € 6.000,00, oltre € 4.980,00 di spese legali ed alla pubblicazione della sentenza su "Il Corriere della Sera" e "La Repubblica", per aver detto erroneamente che lo stesso avrebbe screditato il giudice Giovanni Falcone nel corso di una trasmissione televisiva andata in onda nel 1991.
TIZIANA PARENTI.
Tiziana Parenti. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Tiziana Parenti detta Titti (Pisa, 16 aprile 1950) è un avvocato, politica ed ex magistrato italiana. Pisa 16 aprile 1950. Avvocato. Ex magistrato (era nel pool Mani pulite, versante tangenti rosse: fece arrestare il comunista Primo Greganti). Ex parlamentare (eletta con Forza Italia nel 1994 e 1996). «Candidarsi era giusto, lo rifarei. Nel 94 stava per andare al potere una classe dirigente vendicativa. Avevo già dato un’occhiata all’organigramma, in Procura: Occhetto presidente del Consiglio, Violante ministro dell’Interno... Un disastro». Ruppe con Berlusconi ai tempi della Bicamerale: «Ero stata mandata là e mi era chiaro che Berlusconi la usava per trattare sulle sue cose. Credeva ai suoi consiglieri, ma io glielo dicevo: “Guarda che non è qui che risolverai i tuoi processi”. Sono passata al gruppo misto e poi, nel 2001, non mi sono ricandidata. Non avrei saputo con chi farlo» (a Maria Latella). Presidente della commissione Antimafia dal 1994 al 96. Nel 2004 aderì alla Margherita di Rutelli. Assolta nel marzo 2007 a Genova nello stesso processo in cui un colonnello dei carabinieri fu condannato per aver gestito in modo spregiudicato droga e pentiti. Detta “Titti la rossa”.
Biografia. Dopo un'iniziale adesione giovanile al PCI di Pisa, entra in magistratura. Magistrato in servizio prima in corte d'assise, poi alla procura di Milano, "Titti la rossa" - come veniva soprannominata da alcuni giornalisti - fu il Pubblico Ministero dell'inchiesta denominata dai mass-media delle tangenti rosse, ed è stata sostituto procuratore del pool milanese dal marzo 1993 nell'inchiesta "Mani pulite". Dopo aver lasciato la magistratura ha intrapreso la professione di avvocato. Fecero scalpore le sue dimissioni dal pool e dalla magistratura e la successiva adesione a Forza Italia, nelle cui liste fu eletta alla Camera nel marzo 1994 nel collegio maggioritario di Mantova. Fu presidente della Commissione antimafia, nel corso della XII Legislatura. Rieletta nel 1996 alla Camera nel collegio maggioritario di Grosseto, aderì al gruppo di Forza Italia. Successivamente, nel 1998, fu tra i primi aderenti al nuovo partito dell'UDR di Francesco Cossiga. Aderì quindi ai SDI. Accusata nel 1995 di concorso in falso in atto pubblico in un'inchiesta contro alcuni ufficiali dell'Arma dei Carabinieri, viene assolta definitivamente nel 2009. Nel 2004 aderisce a La Margherita ed esercita l'avvocatura. Nel 2012 rientra nel Partito Socialista Italiano.
EXPO’, paura per la nuova tangentopoli, scrive Roberto Capocelli su “L’Avanti On line”. Il Presidente del Consiglio Renzi promette ancora una volta di “metterci la faccia”, mentre il commissario, Giuseppe Sala, per l’Expo sembra voler buttare acqua sul fuoco. Secondo Sala, incaricato di vigilare sula regolarità dei lavori dell’Expo, «il principale problema che ha causato ritardi è stato il maltempo». Sala, ascoltato in Commissione Antimafia, sciorina una serie di dati che sembrano essere orientati a promuovere l’Expo mentre, nel merito di ciò su cui è chiamato a rispondere, si limita a dire di aver dato troppa fiducia ad Angelo Paris, il direttore pianificazione e acquisti, «non sospettando che potesse tenere certi tipi di comportamenti». I comportamenti a cui fa riferimento sono di turbativa d’asta e corruzione ed hanno portato già all’arresto di numerose persone facendo parlare di una “tangentopoli due”. L’unica responsabilità di cui si fa carico il commissario è quella di non aver insistito abbastanza con il comune di Milano al fine di organizzare «una gara per il general contractor a cui affidare il cantiere». Titti Parenti, ex magistrato del pool di “Mani Pulite”, esponente socialista che ha vissuto in prima linea gli avvenimenti iniziati il 17 febbraio del ’92 con l’arresto di Mario Chiesa, amministratore del Pio Albergo Trivulzio, ha una lettura diversa di quanto accade oggi a Milano che restituisce all’Avanti! con la profondità della prospettiva storica.
«Onorevole Parenti, in relazione alle indagini dell’Expo si parla di una nuova Tangentopoli. Cosa pensa? Quali indicherebbe come differenze e quali come similitudini con i fatti di più di vent’anni fa?
«Più che delle differenze, io credo che ci si trovi di fronte a un’altra cosa. Mi spiego: certamente gli atti di corruzione sono uguali nelle modalità, non c’è dubbio. Ma, l’elemento davvero differente riguarda il ruolo della politica. Oggi la politica è più debole di quello che era vent’anni fa. Prima c’era una stabilità di punti di riferimento, cioè dei partiti e dei leader. Oggi, i punti di riferimento sono provvisori, mancano i grandi leader e i partiti si sgretolano. Sono caduti quei puntelli e non c’è più niente di tutto questo. Anche i personaggi che si avvicendano sulla scena, a parte casi clamorosi, sono personaggi un po’ provvisori. Non vedo grandi strateghi, grandi leader che hanno una storia. Tutto questo incide anche sulle modalità di corruzione».
Come?
«Proprio la provvisorietà che caratterizza questi leader li rende ancora più facili a pericolose condiscendenze verso pratiche poco trasparenti. Lo fanno per rimanere a galla, perché non hanno una forza propria. Per questo hanno bisogno di ricorrere a lobby, a giri di clientele. Certamente c’è un rinnovarsi di situazioni già viste, ma con soggetti senza un grosso “peso specifico”».
Eppure tra gli arrestati figura il nome di Primo Greganti, il “compagno G”. Una contraddizione rispetto al quadro che lei dipinge. No?
«No. Anzi. Proprio i tre nomi storici (Greganti, Frigerio e Grillo ndr) della politica venuti fuori che ci fanno capire la situazione. Sono loro a rappresentare una continuità paradossalmente proprio perché, nel contesto attuale, sono gli unici che hanno una storia consolidata e, di conseguenza, possono offrire affidabilità e capacità. Perché in queste situazioni non ci sono improvvisazioni».
Ma, come mai una persona come Greganti, continuava ad essere, a prescindere dall’accertamento delle sue responsabilità, un referente in fatto di opere come l’Expo?
«Non so come si possano essere create queste connessioni con personaggi “datati”. Sicuramente all’epoca di Tangentopoli si sarebbe dovuto adoperare indagini più approfondite per scoprire le tante radici che quelle persone avevano messo e questo ci aiuterebbe a capire quanto accade oggi. Invece, all’epoca, ci si concentrò sui leader dei partiti e non sui gregari senza considerare che spesso i leader neanche controllano gregari, gli danno carta bianca perché gli fanno comodo».
Che impressione le fa vedere il continuo riproporsi di dinamiche di corruzione?
«Tangentopoli è stata una mera illusione e la burocrazia è rimasta intatta. Si volle far credere che si era concluso il problema. Ma, il problema è profondo e affonda le radici nella società italiana che rende quasi sempre impossibile arrivare con i meriti propri, e questo vale per gli individui come per le imprese. Se qualcuno cerca di essere onesto, ma davanti si trova una schiera di disonesti che cercano di fregarlo ha poche alternative: se ne va o si accontenta di cose residuali. Oppure si adegua. È una lotta impari, sleale».
Dunque, mi sta dicendo che la corruzione è un fenomeno che attraversa trasversalmente la società italiana?
«Come ora emerge chiaramente, si tratta proprio di un fenomeno trasversale. Anche prima era trasversale solo che per ragioni complesse emergeva meno. Ma, oggi come ieri, sono tutti d’accordo: è una questione di logica, non è possibile che ce ne sia uno o due che fanno affari sporchi e gli altri stanno a guardare perché, se così fosse, il sistema non vivrebbe a lungo. Tutti sanno come vengono assegnati molti appalti e tutti devono essere coinvolti sennò finirebbe “la pacchia”. Il nostro è un Paese fatto per le “larghe intese” in tutto: il maggioritario non ci stava bene perche alcuni prendevano e altri no. Ora siamo ritornati con larghe intese ad avere una società espansa, anche nella corruzione».
Riguarda la politica come l’imprenditoria?
«Certo. Dobbiamo considerare che non abbiamo, in Italia, grandi imprese capaci di stare sul mercato, fatta eccezione per una parte del nostro export di qualità. Il resto sono imprese familiari, o piccole, o comunque imprese che non hanno una struttura adeguata. Da questo consegue che gli appalti si fanno con gli eccessi di ribasso che non permettono nessun margine di guadagno ad imprese serie. Sono competizioni volte al peggio invece che al meglio. È inevitabile, dunque, che si ricorra a raccomandazioni, mazzette, a referenze che, con il tempo, possono cambiare, ma si tratta pur sempre di operare in un sistema di relazione occulta. Manca la trasparenza e tutti lo sanno».
Cosa determina questo sottobosco?
«C’è una complicità tra società, potere politico e imprenditoriale che rende la nostra economia debole. L’Italia non è debole per la crisi, che certo peggiora le cose, ma è strutturalmente debole. Poi, quando qualcuno scopre l’acqua calda, arrivano le commissioni di inchiesta e le “task force”, che sono ulteriormente dispendiose e non risolvono il problema e che, oltretutto, sono a loro volta nominate non si sa in base a quali criteri. Ma il punto è che le persone non sono messe in grado di competere nell’ambito di un’attività professionale, nel lavoro. Per competere davvero e far emergere i migliori c’è bisogno di trasparenza».
Ci sono rischi concreti ce possa saltare l’Expo?
«Rispetto all’organizzazione dell’Expo mi pare che ci siano ritardi anche piuttosto gravi. Certamente non si può pensare di fare grandi opere in tempi biblici come è prassi da noi. Ci sono pratiche burocratiche che implicano corruzione e raccomandazioni che rallentano tutto e, già nella tempistica si può vedere che le cose non vanno. L’opera sicuramente è a rischio ed è a rischio la nostra credibilità, l’immagine del Paese nel mondo. Perché l’Expo rappresenta soprattutto una porta d’ingresso per persone interessate a investire che significa lavoro. Qui si parla di riforma del lavoro e di contratti, ma i contratti ci saranno quando c’è lavoro. Mi sembra che si parla di formalità prima di avere la sostanza. Quello che sta accadendo a Milano si sa all’estero».
Un danno considerevole per l’economia che, si dice, va rilanciata…
«Nessun investitore ha piacere a trovarsi in condizioni di grave rischio, e i fenomeni di corruzione e malcostume rappresentano uno svantaggio considerevole che viene valutato. E questo certo deprime ancora di più l’economia del Paese. La politica e il mondo imprenditoriale devono capire che così non si può andare avanti. Quello che vediamo non rappresenta un caso isolato, ormai il ‘re è nudo’. Ognuno si deve rendere conto che bisogna qualificarsi, attrezzarsi e ci si deve confrontare su problematiche necessità. Gli anni passano ma nessuno dice mai la verità, prima di tutto a se stesso e poi agli altri perché, da noi, se non sei nel compromesso sei escluso. È terribile vivere in una società così».
Titti Parenti: "La corruzione è organica all'Italia". L'ex magistrato parla della Tangentopoli infinita. "Sono cambiate le ragioni: allora non si rubava per arricchirsi". Titti la rossa, che nel '94 fu eletta per Forza Italia, ricorda: "Lasciai la magistratura quando Mani pulite prese una deriva politica". E ancora: "Corrotto e corruttore non sono diversi. Tutti coinvolti, anche i rossi". Francesco Ghidetti su “Il Quotidiano Nazionale”. Incontriamo Tiziana Parenti nella sua casa di Trastevere. Carte, appunti, ritagli di giornali e libri si accumulano nelle stanze. «Titti la rossa» adesso fa l’avvocato. Si occupa di questioni toste. ’Ndrangheta, per capirsi. Ma nessuno può dimenticare il suo ruolo di primissimo piano nel pool di Mani Pulite. Lei era il magistrato che si occupava di «tangenti rosse». Lei, che dopo una militanza nel Pci pisano, ha poi fatto politica in Forza Italia e nello Sdi.
Avvocato Parenti, Tangentopoli è storia o cronaca?
«Cronaca. Siamo ancora lì. Non ci si vuole rendere conto che la corruzione è organica al sistema-Italia. Vent’anni fa come oggi».
Un quadro non incoraggiante...
«Lo so. Non a caso uso la parola sistema perché indicativa di un modo di essere tipico della nostra società».
Però, nella tanto vituperata Prima Repubblica non si rubava...
«Sì, l’ho già sentita. Non si rubava per arricchirsi, ma per la lotta politica. Ora, io non devo scrivere saggi di storia comparata. Né giustificare certe pratiche di ladrocinio dei beni pubblici. Però, volendo parlare di contesto posso dire che prima le ragioni della corruzione erano diverse. L’Italia aveva avuto a che fare con i mostri del Novecento: fascismo, nazismo, comunismo. Occorreva accompagnarla lungo l’accidentato viale della democrazia per garantire sistema, lavoro, assistenza sanitaria».
All’inizio di Mani Pulite vi rendeste conto che l’Italia avrebbe subito un clamoroso trauma?
«A parte il fatto che bisogna vedere se davvero c’è stato questo cambiamento e se sia stato davvero così clamoroso. A parte il fatto che io arrivai dopo e per occuparmi di tangenti ‘rosse’. Detto ciò, tutto nasce dal Psi milanese e da Mario Chiesa in particolare. Una storia già scritta, mi sono sempre chiesta? Forse. Anche perché ci fu un allargamento che colpì altre forze politiche».
Alcuni dicono: non i «rossi».
«Per quel tipo di indagini c’era un’oggettiva difficoltà. Diciamo che con partiti come Psi, Dc, Psdi, Pri era più facile. Avevano sistemi più rozzi. Invece, si dipinse il Pci come fuori dal sistema. E quindi impermeabile alla corruzione. Un falso. I comunisti agivano su un doppio binario: prendevano soldi dal blocco sovietico e, dagli anni Ottanta, cominciarono a comportarsi come gli altri».
Contesto internazionale: cade il Muro, i cosacchi non arriveranno più, il ceto politico italiano può anche morire: vero? falso?
«Vero. In parte. Attenzione, però. Non è che nel 1989 cade il Muro e poco dopo la Prima Repubblica. Il processo era cominciato per lo meno quindici anni prima. Col Papa. Coi socialisti che aiutavano i patrioti polacchi».
Politici cattivi, imprenditori vittime.
«Figuriamoci. Corrotto e corruttore non sono figure diversamente cattive. Spesso le seconde sono le peggiori e ci guadagnano di più. Occhio: il populismo è il vero nemico della politica».
Lei poi entrò in politica.
«Sì. Però tentennai molto. Prima con Forza Italia, poi con i socialisti dello Sdi. Francamente, il punto era un altro. Volevo impegnarmi, certo. Ma, soprattutto, lasciare la magistratura. Furono anni per me di profondo disagio. Le indagini avevano preso una direzione politica che mi lasciò assai perplessa...».
Tiziana Parenti: «Quei fondi dall’Est su cui non si indagò», scrive Angelo Picariello su “L’Avvenire”. Tiziana Parenti, ovvero Titti la Rossa, quella delle tangenti al Pci mai provate, oggi fa l’avvocato a Roma con studio a Trastevere. Venti anni dopo Tangentopoli va col ricordo a quella primavera del ’94, a una fase che segnò la fine di Manipulite. «Berlusconi aveva vinto le elezioni. Stava formando il governo e io ero appena stata eletta deputata con Forza Italia. Correva voce che volesse Antonio Di Pietro a capo della Polizia. Io andai a dirgli che era un errore».
Ma non lo voleva ministro dell’Interno?
«Fra noi correva quest’altra voce e ne parlai con Berlusconi. Che non smentì, anzi si arrabbiò. L’uomo, un po’ come i comunisti, non ama esser contraddetto».
Invece lei...
«Gli dissi che non era un bel segnale. Lui evidentemente pensava invece che fosse importante in termini di immagine. Mi rispose seccato: «Guardi che non ho nemmeno un’inchiesta». «Ma ore ne arriveranno a decine, vedrà», gli risposi. E fui facile profeta».
Vuol dire che fino alla discesa in campo non c’era ancora traccia di scontro fra Procura milanese e Berlusconi?
«Ricordo i giornalisti di Fininvest che venivano a prendere le veline e come si arrabbiavano quando non gliele davano. Ma le telecamere fisse davanti alla Procura dalle reti di Berlusconi le ricordano tutti. Non era una vera direttiva, ma c’era il chiaro orientamento a risparmiare, da un lato le aziende di Berlusconi e dall’altro l’ex Pci. Perché potevano essere utili una copertura mediatica e politica».
Ma sul Pci risparmiato accusano lei. Perché la scelsero?
«Ho un sospetto: siccome nel mio profilo avevo dovuto dichiarare la mia passata iscrizione al Pci per tre anni, per come sono andate poi le cose potrebbero aver pensato a me - che avevo chiesto di essere collocata alla Dda - perché avevo il curriculum giusto per archiviare».
Ma che cosa le ha impedito di andare a fondo sulle tangenti all’ex Pci? Quella rogatoria mai arrivata sui 600 milioni versati da Panzavolta sul conto “Gabbietta” di Primo Greganti alla Banca di Lugano?
«Che fossero fondi per il Pci è chiaro, già la sola contestualità con i versamenti di tangenti agli altri partiti lo dimostra. Ma era solo un filone, c’era da indagare sulle coop rosse, e soprattutto sui fondi arrivati attraverso la Germania dell’Est».
Di questo non si è saputo niente.
«C’era uno scatolone alto così, pieno zeppo di attestazioni bancarie, ma andavano tradotte dal tedesco. Lei pensa sia facile farsi raccontare la provenienza dalle banche della Germania dell’Est?»
Poi si è dimessa da pm...
«E mi risulta che non ci abbia pensato più nessuno».
Ma perché lasciò?
«D’Ambrosio mi disse che l’inchiesta sul Pci era un «vagone staccato». Credo, in realtà, che non si volesse andare a fondo».
Ma Greganti nega e ha dimostrato che quei soldi gli servirono a comprare un appartamento.
«E lei ci crede?»
Su Berlusconi comunque hanno recuperato con gli interessi...
«Da leader politico è diventato un bersaglio, ma credo abbia inciso anche quell’offerta fatta da lui a Di Pietro che, sebbene non andò in porto, indispettì parte della Procura, nel frattempo spaccatasi proprio sulla scelta politica del loro ex collega. Il risultato è che i due filoni risparmiati dalle prime inchieste di Manipulite hanno caratterizzato questo ventennio inconcludente».
Berlusconi e i comunisti...
«Si sono fatti la guerra ma erano d’accordo a non fare le riforme, tanto che ora sono stati commissariati dai tecnici. E la corruzione impazza più di prima».
Ha mai visto ai suoi tempi 13 milioni spariti ad opera di un tesoriere?
«No, assolutamente. E infatti oggi è peggio. Da avvocato ora mi occupo di un caso che va avanti da sei anni, una compravendita di esami a Roma 3 e alla Sapienza. La corruzione impazza, neanche più con coperture ideologiche. Ovunque ci sia un potere da gestire e un do ut des da utilizzare».
Tiziana Parenti (ex Pm di Mani Pulite): Di Pietro riferiva dell’inchiesta all’America, scrive Giampiero Marrazzo su “L’Avanti On Line”. Una volta per tutte è stato detto: Antonio Di Pietro, soprannominato da qualcuno “Tonino l’Americano” aveva rapporti con gli amici d’Oltreoceano ben prima che l’inchiesta di Mani Pulite cominciasse ad entrare nel vivo. E non soltanto. Ai referenti diplomatici americani a Milano, l’ex pm, oggi leader dell’Idv, avrebbe anche rivelato in anticipo rispetto all’inizio degli arresti, il coinvolgimento di Craxi e della Dc. Andando avanti con ordine: ieri il quotidiano “La Stampa” pubblicava un’intervista postuma all’ex ambasciatore Usa in Italia, Reginald Bartholomew, il quale, ricordando il periodo iniziale del suo incarico, dichiarava: “Indagini giudiziarie, arresti di politici «presero subito il sopravvento sul resto del lavoro, perché la classe politica si stava sgretolando ponendo rischi per la stabilità del Mediterraneo», ed è in questa cornice che Bartholomew si accorge che qualcosa nel Consolato a Milano «non quadrava». Se fino a quel momento il predecessore Peter Secchia aveva consentito al Consolato di Milano di gestire un legame diretto con il pool di Mani Pulite «d’ora in avanti tutto ciò con me cessò», riportando le decisioni in Via Veneto”. Come se non bastasse oggi arriva la conferma sempre sul quotidiano torinese, con l’intervista all’ex Console americano a Milano Peter Semler, il quale seraficamente ricorda: «Parlai con Di Pietro, lo incontrai nel suo ufficio, mi disse su cosa stava lavorando prima che l’inchiesta sulla corruzione divenisse cosa pubblica. Mi disse che vi sarebbero stati degli arresti. Ci vedemmo alla fine del 1991, credo in novembre, mi preannunciò l’arresto di Mario Chiesa e mi disse che le indagini avrebbero raggiunto Bettino Craxi e la DC». Con la medesima tranquillità, quasi fosse cosa buona e giusta, Semler rivela nell’intervista a “La Stampa”, «Di Pietro mi piacque molto, poi fece il viaggio negli Stati Uniti organizzato dal Dipartimento di Stato (…). Gli fecero vedere molta gente, a Washington, a New York (…). Ero spesso in contatto con lui, ci vedevamo (…). Con me era sempre aperto, ogni volta che chiedevo di vederlo lui accettava, veniva anche al Consolato (…)». Sempre oggi sullo stesso giornale, Di Pietro risponde: «Non potevo anticipargli il coinvolgimento dei vertici di Dc e del Psi, perché, in quel novembre, già indagavo su Mario Chiesa ma non avevo idea di dove saremmo andati a parare. Semler confonde conversazioni avute in tempi e con persone diverse». A questo punto qualche domanda bisogna pur porsela: come mai Di Pietro riferiva all’allora console americano a Milano la nascita dell’inchiesta Mani Pulite? Soprattutto, quale importanza aveva, mediaticamente e politicamente parlando l’allora pubblico ministero, ben prima del famoso arresto del gestore dell’albergo Pio Trivulzio di Milano, Mario Chiesa, tanto da essere convocato dai più alti vertici diplomatici statunitensi? Abbiamo voluto porre questi ed altri quesiti a chi allora faceva parte proprio del pool di Mani Pulite, l’allora pubblico ministero Tiziana Parenti, già deputato di Forza Italia, che, in esclusiva all’Avanti! torna a parlare dei legami e delle sensazioni che aleggiavano nel palazzo di Giustizia di Milano.
Onorevole Parenti, allora, le nuove dichiarazioni sembrano darle ragione: quando lei disse che l’input dell’inchiesta non era soltanto italiano ma aveva radici americane, i suoi allora colleghi del pool, ad iniziare da Di Pietro la querelarono?
«Questa di Semler è una confessione a tutti gli effetti. Sono cose che tutti sapevano, ma che in pochi hanno voluto dire. Ma sono contenta che finalmente anche diplomatici americani l’abbiano rivelato. Perché se noi guardiamo la storia, è vero che esisteva la corruzione nei partiti, ma per quale motivo iniziarono quelle indagini e soprattutto perché in quel momento?»
Ce lo dica lei…
«Dopo la caduta del muro di Berlino si erano formate in Europa determinate problematiche politiche: l’Italia non faceva passi in avanti, era proprio come adesso, chiusa in guerre intestine, e gli americani avevano paura e intendevano condurla da qualche parte. Perché loro volevano continuare a navigare indisturbati nel Mediterraneo e la figura di Craxi per loro era troppo ingombrante. Basta osservare i precedenti eventi internazionali che vedevano coinvolti i rispettivi paesi: Italia e America».
Ma sappiamo che il legame del nostro Paese con gli Stati Uniti è ben lontano…
«E’ inutile nasconderci dietro un dito, l’Italia nasce sulla corruzione e sul protettorato americano, e questo è durato per 50anni. Poi qualcosa cambiò. Ma se non ci fosse stata una volontà specifica, visto che i nostri problemi erano ben precedenti alla data di inizio dell’inchiesta di Mani Pulite, forse quelle inchieste non si sarebbero mai fatte, o forse non sarebbero partite da Milano, regno del Psi di Craxi, e perché non da Roma o da Torino. Così come mi domando per quale motivo un console americano dovesse incontrare uno come Di Pietro che prima dell’arresto di Mario Chiesa era un emerito sconosciuto, non aveva condotto nessun inchiesta di rilievo. E non le nascondo che lo stesso arresto “in flagranza” di Chiesa mi sembrò orchestrato ad arte».
E il mondo della finanza?
«Va detto che anche gli imprenditori hanno avuto una grande parte nella spallata nei confronti della Prima Repubblica, visto che si dovevano ridisegnare proprio gli assetti politico-economici del Paese».
L’ex console Semler dichiara nell’intervista a “La Stampa” di essere stato amico di molti giudici milanesi di allora. Lei lo conobbe?
«Francamente non ho mai conosciuto questo signore. E anche questa mi sembra una cosa strana. Se è vero quello che dice su Di Pietro, non sapevo si potesse andare a rivelare indagini che avessero il segreto d’ufficio».
Quindi pensa che ci fu e che fu determinante il ruolo dell’America durante quel periodo del nostro Paese e negli anni immediatamente successivi?
«Assolutamente. Per noi era un periodo drammatico quel del ’92 e del ’93: c’erano state le uccisioni di Falcone e Borsellino, le bombe. L’impellenza ormai era di sciogliere le Camere, la situazione era scappata di mano e già allora me ne rendevo conto. Tanto che come cittadino, prima ancora che come giudice, tutto questo mi allarmava».
E Di Pietro come s’inserisce in questo contesto?
«Non so come si sia inserito, fatto sta che queste ultime dichiarazioni dimostrano dei suoi legami con gli Stati Uniti. Anche se non capisco dove l’ex console voglia andare a parare, ma sembra quasi voglia lanciare un messaggio. A chi e perché sarebbe curioso saperlo».
Insomma che direzione avrebbe dovuto prendere l’Italia secondo gli Usa?
«Questo non so dirglielo. Posso dirle però che io ho visto con i miei occhi dei fogli con su scritto quello che sarebbe dovuto essere l’organigramma delle massime cariche del nostro Stato, girava per il Tribunale di Milano. Ricordo ancora l’occasione: ero scesa al bar del Palazzo di Giustizia per la pausa pranzo e qualcuno me lo mostrò. Io pensai: ma siete sicuri che le cose andranno in questo modo! La mia impressione era che avessero pianificato tutto troppo presto. Comunque, se c’è del vero basterebbe analizzare i documenti che ci sono rimasti, a cominciare dall’archivio di Di Pietro, proprio quello di cui si parla nell’intervista di oggi».
Andreotti diceva: «Visto che non ho fantasia, possiedo un grande archivio, e ogni volta che parlo di questo archivio chi deve tacere, come d’incanto, inizia a tacere». Strano che anche Di Pietro tenga un archivio, non crede?
«Diciamo che di certo mi sembra strano che qualcuno abbia un archivio in casa».
Insomma come se ne esce da queste vere, presunte, parziali verità postume?
«Se non riscriviamo con serietà la vera storia di questo Paese, invece di aspettare che tutti se la portino nella tomba, è naturale che non avremo più una memoria, che la politica non andrà avanti e che questo tipo di reati ci saranno ancora».
Lei queste cose le ha già dette ed è stata querelata dagli altri componenti del pool. Com’è finita?
«Sono stata assolta dal tribunale di Brescia. Poi dalla Camera, in quanto onorevole, non è stata data l’autorizzazione a procedere nei miei confronti. Successivamente è stato sollevato il conflitto di attribuzione alla Corte Costituzionale, che a sua volta ha dichiarato l’improcedibilità verso di me. E per inciso, non ho mai accettato per le mie dichiarazioni alcuna transazione finanziaria con Di Pietro o altri del pool».
La Parenti sicura: «È nei servizi segreti», scrive Mariateresa Conti su “Il Giornale”. «La provenienza di Antonio Di Pietro è in una struttura parallela ai servizi segreti. Di Pietro su questo non ha mai fatto chiarezza...». Le parole sono attualissime. E chi parla, l'ex pm di Mani pulite, ex deputato ed ex presidente della Commissione anfimafia, Tiziana Parenti, è una voce più che autorevole. Solo che la dichiarazione riportata non è affatto attuale. Anzi, ha ben tredici anni. Tredici anni durante i quali quelle denunce, di Titti la Rossa ma non solo, sugli oscuri legami tra Tonino e i servizi segreti sono rimaste lettera morta. E tali, forse, sarebbero rimaste sino ad ora, se il leader Idv, tentando di giocare d'anticipo, non avesse gridato al complotto sul suo blog. Ma c'erano, c'erano eccome le denunce, su quei rapporti, alquanto anomali per un magistrato, con i servizi. Già 13 anni fa, appunto. È il settembre del 1996. A dare la stura, l'allora presidente del Cnel Giuseppe De Rita, che dalle colonne del Tempo lancia l'allarme che provoca un putiferio: «Da Tangentopoli e dalla vicenda mafiosa stiamo uscendo con un apparato di potere costituito dall’intreccio tra pubblici ministeri, polizia giudiziaria e forse servizi segreti incontrollabile e incontrollato che ci deve preoccupare». Un allarme grave, subito raccolto dall'onorevole Parenti, che cita espressamente Di Pietro in un'intervista al Tg delle 20 di Telemontecarlo. La Parenti conferma la contiguità dell'ex pm - nel frattempo ministro di Prodi - ai servizi segreti: «La sua provenienza - dichiara - come risulta a Brescia, è in una struttura parallela ai servizi segreti. Su questo Di Pietro non ha mai fatto chiarezza». I tempi televisivi sono tiranni. All'agenzia di stampa Ansa, invece, Titti dice un po' di più. Afferma di essere pienamente d'accordo con De Rita e spiega che la «connessione» tra pm, polizia e servizi segreti deriverebbe da «una politica scientifica» del Pci, che «sin dalla fine degli anni '60» avrebbe «allevato una certa magistratura e politicizzato la polizia». È una bagarre. I giornali ne parlano per giorni. La sinistra insorge, Di Pietro minaccia querele e poi denuncia. Ma qualche anno dopo, a febbraio del 2000, il tribunale di Bergamo gli dà torto e sentenzia: non luogo a procedere. Tre mesi dopo l'analisi della Parenti si fa ancora più dettagliata. Dalle colonne di Repubblica, sentita da una giornalista di punta del quotidiano di Scalfari, l'attuale direttora dell'Unità Concita De Gregorio, Titti la Rossa «spara - parola di Concita - colpi di cannone». Contro tutti: Scalfaro, il Pds, Borrelli. E Di Pietro. «Quello che dico - afferma - è tutto documentato in carte riservate in possesso della procura di Milano. Basterebbe indagare partendo da una domanda semplice: perché è cominciata Tangentopoli? Cos'è successo nella procura di Milano dal '90 al '92?». La Parenti è un fiume in piena: «È successo - continua - qualcosa a cui le indagini del Gico sono arrivate molto vicino, ed è per questo che le vogliono fermare. È successo che prima di Mario Chiesa c'erano altri, e in particolare un imprenditore che aveva, non so a che titolo, colloqui stretti con Di Pietro e che lo teneva in contatto con certi ambienti, per così dire, ambigui, in Italia e Oltreoceano». Ambienti ambigui? Oltreoceano? L'onorevole Parenti racconta un viaggio negli Usa, contatti con la Cia. Dice che Di Pietro, attraverso l'imprenditore suo amico della quale la Parenti non fa il nome, entra in contatto «con ambienti del dipartimento di giustizia Usa». E che nei mesi che intercorrono tra l'arresto di Mario Chiesa (febbraio '92) e l'entrata nel vivo di Mani pulite «va in America. La Cia - aggiunge - voleva far fuori il Psi e certa parte della Dc, perché non più affidabili. Caduto il muro di Berlino, crollato il comunismo, bisognava fare piazza pulita della vecchia classe politica e il Pds poteva essere un interlocutore affidabile. Allora Di Pietro va, e ottiene la legittimazione. La sua rete di rapporti, in Italia, è pronta». Anche questa volta è un putiferio. Di Pietro querela l'ex collega pm e la giornalista. La Camera fa scudo, sostiene che quelle dichiarazioni sono protette dall'immunità. E gli atti finiscono alla Consulta. La Parenti torna sul tema anche in altre occasioni, in dibattiti pubblici. Ma la sua voce resta inascoltata. Inascoltata. Ma perfettamente attuale oggi. A tredici anni di distanza.
L’ALTRA VERITA’. I RETROSCENA DI MANI PULITE.
Un libro ricostruisce Tangentopoli con retroscena e aneddoti.
«Berlusconi? Onestamente non posso dire che sia un mascalzone». Così parlò Carlo De Benedetti, il nemico pubblico numero uno del Cav. Parole dal sen fuggite? Tutt'altro. Ogni singola parola attribuita all'Ingegnere e contenuta nel libro di Paolo Guzzanti, «Guzzanti vs De Benedetti» (368 pp, Aliberti editore) è stata letta, ponderata e confermata dallo stesso editore di Repubblica ed Espresso. Dalla biografia scritta dall'ex vicedirettore del Giornale emerge il ritratto di un imprenditore che ammette di essere come Berlusconi: «È un autocrate come tutti noi imprenditori, ma come persona non è affatto cattiva ed è anzi sicuro di fare il bene. Il motivo per cui io lo combatto è che, essendo un imprenditore al comando del Paese, è per definizione un rischio per la democrazia. Anch'io, se mi mettessi a fare il politico, sarei un pericolo per la democrazia». Con Silvio siamo al rapporto di amore-odio. Anzi: «Io non lo odio, lo disapprovavo, è l'uomo che incarna un intero popolo in modo passionale, sentimentale, persino affettuoso. Lo dico da suo avversario: non è assolutamente una carogna».
Roba da far drizzare le orecchie ai colonnelli democratici. Anche perché di fianco all'elogio come imprenditore all'avversario Silvio, le accuse contro i vertici del Pd sono spietate. I primi a cadere sono D'Alema e Bersani: «Il segretario è inadeguato, lui e D'Alema stanno ammazzando il Pd». E su Baffino: «Credo che abbia fatto tantissimi errori e non capisca più la sua gente, come il caso Puglia insegna. Su Berlusconi come uomo politico il giudizio è estremamente negativo, ma almeno Silvio ha fatto qualcosa. D'Alema e quelli come lui non hanno fatto niente». Il De Benedetti che ne esce fuori sembra il prigioniero politico della sua stessa armata, da sempre schierata col centrosinistra. Come quando è lo stesso De Benedetti ad ammettere che «Ezio Mauro talvolta si fa un po' prendere la mano da certi suoi giornalisti...». Insomma, è l'Ingegnere la vera vittima del mostro politico che ha contribuito a creare: «Mi odiano, ci odiano e adesso si sono messi in testa che Ezio Mauro voglia diventare il leader del Pd e questo li fa impazzire. Sono ridotti così male che hanno inventato questa leggenda». Un po' di vetriolo c'è anche per l'ex premier Romano Prodi, regista della mancata acquisizione della Sme da parte di De Benedetti a vantaggio della cordata voluta da Bettino Craxi e guidata da Berlusconi, i cui strascichi giudiziari hanno portato alla sentenza di risarcimento monstre da 600 milioni di euro. È tutta colpa del Professore: «Io detestavo Craxi, la cosa è nota, ma in quel caso aveva perfettamente ragione: era il presidente del Consiglio e Prodi compiva un'operazione di quella portata dando via aziende statali senza nemmeno fargli una telefonata. Prodi così fece incazzare Craxi come una belva». C'è ancora il tempo per ricordare quando stava per restare una notte in galera per «colpa» della moglie di Bruno Vespa, l'allora gip romano Augusta Iannini, dopo aver ammesso di aver pagato tangenti ai politici («C'eravamo dentro tutti - dice De Benedetti - questa è la verità e questo era il metodo...»). Quel giorno del lontano 1993 l'editore di Repubblica li ricorda così: «La gip Iannini mi fece un interrogatorio nel pomeriggio a Regina Coeli, presente la pm Cordova. Poi a un certo punto la Iannini se ne andò e con la Cordova finimmo l'interrogatorio. A quel punto chiesi di andare via, ma la Pm disse: “Per me lei può uscire, pero c'è da firmare e siccome a quest'ora non c'è più il gip lei stanotte sta qui”. Allora io prendo il mio avvocato, lo mando a casa della Iannini, perché non voglio passare la notte a Regina Coeli e, con il parere favorevole del Pm, la Iannini ha firmato. E quindi alle dieci di sera sono uscito dalla prigione».
Da quanto detto si riporta il commento di Tiziana Maiolo su “Il Giornale”.
L'abilità di un finanziere come Carlo De Benedetti si coglie da mille particolari. I soldi. La rete di relazioni. Il cinismo. La capacità di lasciare una poltrona al momento giusto e con sostanziose liquidazioni. La forza di ripartire dopo un rovescio. E anche la fortuna di uscire sempre immacolato dalle vicende giudiziarie in cui finisce coinvolto.
Sarà una coincidenza, una combinazione singolare, una concomitanza casuale; sarà semplicemente che l'imprenditore che si è sempre proclamato «diverso» dai colleghi non aveva commesso quanto gli era stato addebitato. Ma il tarlo di un maligno interrogativo resta: essere l'editore più giustizialista d'Italia, difendere a oltranza i magistrati che indagano su Silvio Berlusconi, è un'assicurazione sulla vita?
Il caso più lontano nel tempo è quello del Banco Ambrosiano, tempio della P2.
Siamo negli Anni 80: De Benedetti entrò nell'istituto di credito con il 2 per cento del capitale e la carica di vicepresidente (il numero uno era Roberto Calvi) e ne uscì 65 giorni dopo, alla vigilia del crac, intascando una plusvalenza di 40 miliardi di lire. Fu accusato di concorso in bancarotta fraudolenta ed ebbe una condanna a 6 anni e 4 mesi di reclusione in primo grado, ridotta in appello a 4 anni e 6 mesi, e annullata senza rinvio dalla Cassazione.
Nei primi Anni 90 De Benedetti e altri sette manager furono assolti dall'accusa di elusione fiscale: il pm aveva chiesto per il presidente Olivetti la condanna a due anni e quattro mesi di reclusione e al pagamento di 15 milioni di multa per una presunta evasione di complessivi 37 miliardi di lire. Il sofisticato meccanismo si chiamava «dividend stripping» e consentiva, a certe condizioni, di usare i dividendi azionari come credito d'imposta. Inoltre, come ricordano Gianni Barbacetto, Peter Gomez e Marco Travaglio in «Mani sporche», De Benedetti «ha chiuso con due oblazioni da 50 milioni di lire ciascuna altrettanti processi per le manovre in Borsa sui titoli Olivetti (insider trading) e per i bilanci del gruppo di Ivrea (false comunicazioni sociali)». Sentenza, quest'ultima, revocata dopo la riforma del falso in bilancio voluta dal governo Berlusconi nel 2002.
Ma la vicenda più clamorosa fu il coinvolgimento di De Benedetti in Tangentopoli dopo l'arresto del direttore generale delle Poste, Giuseppe Parrella, e del suo segretario Giuseppe Lo Moro, il quale parlò di mazzette ricevute dalla Olivetti per la fornitura di telescriventi al ministero. Era il 1993, qualche anno dopo la battaglia per il controllo di Segrate sfociata nella sentenza. In maggio il finanziere anticipò i pubblici ministeri consegnando ad Antonio Di Pietro una memoria in cui ammetteva vari giri di tangenti perché «vittima del sistema»: in particolare oltre 10 miliardi di lire a Dc e Psi per l'appalto postale.
A novembre fu emesso un mandato di cattura a suo carico. De Benedetti si costituì, fu trasferito al carcere di Regina Coeli, interrogato nella notte dal pm Maria Cordova e dal gip Augusta Iannini, ottenendo gli arresti domiciliari e quindi la scarcerazione. Un trattamento di assoluto riguardo: mentre i manager di tante aziende aspettavano giorni prima di essere ascoltati da un magistrato e mesi prima di lasciare il carcere dopo aver vuotato il sacco, all'Ingegnere la rara tempestività della giustizia italiana consentì di evitare la cella. Da questo processo (l'accusa era corruzione) De Benedetti uscì in parte assolto e in parte prescritto.
Chi invece riuscì pienamente a trattare con i magistrati milanesi fu l’ingegner Carlo De Benedetti, che un bel giorno si presentò a un incontro concordato, raccontò la sua e tornò a casa con le sue gambe. Corse qualche rischio per la sua libertà invece al Palazzo di giustizia di Roma, dove non vigeva il «rito ambrosiano» e dove fu arrestato per un giorno, nello stupore dei suoi avvocati, che trovarono nella capitale due magistrati (non a caso due donne) poco inclini alla trattativa alla milanese. Il che può apparire stupefacente, vista la pessima immagine del tribunale di Roma, da sempre chiamato «porto delle nebbie», e la cui reputazione fu strumentalmente usata dai magistrati del pool ogni volta che si profilava un conflitto di competenza tra Milano e la capitale. (...). Il 30 aprile 1993 l’ingegner De Benedetti dichiara a la Repubblica, quotidiano con cui aveva qualche confidenza, di «non aver mai corrisposto finanziamenti ai partiti politici o a entità a essi collegate». Ma il Corriere della Sera del 17 maggio scriverà che «L’Ingegnere ha incontrato i giudici consegnando loro un memoriale sulle tangenti pagate dalla Olivetti». Stranamente due giorni dopo, il 19 maggio, esce una dichiarazione sul Wall street journal in cui l’uomo di Ivrea afferma con sincerità: «Se dovessi rifare tutto di nuovo lo rifarei: pagherei le tangenti ai politici per ottenere le commesse pubbliche». Il re della coerenza. La voce circolava in quei giorni. E De Benedetti aveva buoni avvocati e buoni orecchi. Così mise insieme un dossier e il 16 maggio 1993, di domenica, lontano da occhi indiscreti, nella caserma dei carabinieri di via Moscova a Milano, si incontrò con i pubblici ministeri Di Pietro, Colombo e Jelo. (...). De Benedetti conosce bene la lezione, e racconta di esser stato sistematicamente concusso dalle Poste italiane e dai partiti di governo. Ha speso in tutto tra i 15 e i 20 miliardi di lire, di cui 10 miliardi e 24 milioni solo alle Poste. La frase che detterà alle agenzie sembra fotocopiata dallo schema fisso gradito alla Procura: «In Italia negli ultimi quindici anni c’è stato un regime politico che ha prevaricato e taglieggiato l’economia. Grazie all’opera di pulizia fatta dai giudici è diventato possibile sconfiggere la tangentocrazia». Due giorni dopo, forse pensando, giustamente, che i magistrati non leggano la stampa estera, dirà al Wall street journal che l’avrebbe rifatto. Nessuno glielo contesterà, nessuno dei suoi collaboratori verrà indagato e nei suoi confronti non verrà richiesta nessuna rogatoria estera. (...).
A Roma Carlo De Benedetti ha a che fare con due donne magistrato piuttosto agguerrite, la pm Maria Cordova e la gip Augusta Iannini. Giovanni Maria Flick, che sarà in seguito il ministro alla Giustizia del primo governo Prodi nel 1996, è il difensore di De Benedetti ed è sconcertato davanti a una richiesta di arresto che a Milano non c’è mai stata. Ma il Palazzo di giustizia di Roma, nonostante la cattiva fama, è più «normale». Come dirà ai giornalisti la gip Augusta Iannini: Per me, la legge è uguale per tutti. L’ingegner Carlo De Benedetti è uguale al signor Mario Rossi, al signor Paolo Bianchi. E se i signori Mario Rossi o Paolo Bianchi fossero accusati degli stessi fatti contestati nell’ordine di custodia cautelare all’ingegner Carlo De Benedetti, sarebbero stati arrestati. La situazione è imbarazzante per il presidente dell’Olivetti, che riteneva di aver pagato pegno a Milano, dove è solo indagato, e invece si ritrova con un mandato di cattura a Roma per lo stesso reato. La verità, a quanto pare, è che a Milano si sarebbero accontentati del memoriale e non hanno approfondito lo scandalo di tutte quelle apparecchiature obsolete, stampanti e telescriventi, vendute dall’Olivetti al ministero delle Poste, costate parecchio, mentre dieci miliardi di lire finivano in tangenti. Naturalmente nel memoriale De Benedetti scriveva che queste tangenti gli erano state «estorte», ma questo è quel che dicevano tutti gli imprenditori. Se Milano si era accontentata, i magistrati romani erano piuttosto seccati, avevano raccolto una gran quantità di documenti e avevano cominciato a fare due conti. Si era creato anche un piccolo incidente diplomatico interno al Palazzo di giustizia, perché il procuratore capo Mele si era molto irritato nello scoprire che la dottoressa Cordova, sua sostituta, aveva chiesto la misura cautelare per De Benedetti senza consultarlo. Ne seguì un parapiglia di dichiarazioni, in cui si inserì anche il pm milanese Gherardo Colombo, e che alla fine giovò al presidente della Olivetti, che fu «un pochino» arrestato per un giorno e anche in seguito, tra archiviazioni e reati caduti in prescrizione, se la cavò.
1992, i trucchi del pool e gli errori di Craxi. Un docufilm in onda su History Channel ricostruisce con testimonianze inedite i metodi della squadra di Di Pietro. E ripropone le sottovalutazioni del leader socialista, come nella politica di oggi, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. Ormai su Mani Pulite si sta ritirando fuori di tutto, intrecciando fiction e cronaca, in un quadro forse un po' confuso che ha un solo punto fermo: oggi come allora, la maggioranza degli italiani non è più disposta a tollerare la corruzione. C'è un documentario che forse può aiutare a trovare qualche punto fermo, grazie ad alcune testimonianze e documenti d'epoca: “1992 attacco al potere”, che andrà in onda questa sera (14 aprile 2015) e il 21 aprile alle 23 su History Channel. Si apre con Luca Magni, l'imprenditore che consegnò la bustarella a Mario Chiesa che ha fatto crollare un intero sistema politico. Ricostruisce i fatti minuto per minuto. Dice che i magistrati «era come se avessero la macchina ma non sapessero farla partire, io sono stato la chiave che ha fatto partire tutto». Negli occhi di Magni non c'è più il senso di sfida che mostrava ventitre anni fa: non ha l'aria dell'eroe, sembra un uomo distrutto, piange. Il pregio del filmato è proprio quello di offrire prospettive diverse, molto personali. Ci sono i racconti di tutti gli uomini chiave della prima fase di Tangentopoli, i protagonisti rimasti nell'ombra che ricordano metodi e trucchi investigativi: il capitano dei carabinieri Roberto Zuliani e i due poliziotti Giancarlo Spadoni e Rocco Stragapede, veri factotum di Antonio Di Pietro. L'avanzata dell'indagine verso il cuore del potere viene narrata con ritmo e chiarezza. Forse per questo tra le righe emerge il dilemma più importante di quella stagione, ossia il ruolo che ha avuto nella vita italiana Bettino Craxi. Viene riproposto un documento unico: l'intervista televisiva in cui il leader socialista dà del “mariuolo” a Chiesa. «Mi preoccupo di creare le condizioni perché il paese abbia un governo in grado di affrontare le condizioni difficili che abbiamo davanti e mi ritrovo un mariuolo che getta un'ombra su tutta l'immagine di un partito che a Milano in cinquant'anni non ha avuto un amministratore condannato per reati gravi contro la pubblica amministrazione». È un momento decisivo, che incrina il silenzio di Mario Chiesa: dopo tre mesi tutti gli amministratori socialisti milanesi e lombardi saranno sotto accusa. Quelle parole sono state un errore tattico, che ha determinato una sconfitta strategica. E nascevano dall'incapacità di Craxi nel fare i conti con la situazione. Lo conferma Paolo Pillitteri, suo cognato ed ex sindaco di Milano: «Conoscevo Di Pietro, aveva i classici modi del contadino furbo, io ero molto preoccupato ed avevo ragione. Glielo dicevamo a Bettino. Lui non ascoltava: “Non dovete preoccuparvi, è una cosa locale, si ferma lì”. Noi invece abbiamo capito subito che l'inchiesta vuole espandersi: l'arresto di Chiesa era stato un colpo di gong, lui lo sottovalutò». Il primo maggio 1992 sono proprio gli avvisi di garanzia a Pillitteri e a Carlo Tognoli a rendere manifesta la portata dell'istruttoria. Con qualcosa altro che l'uomo forte del Psi non riesce a valutare: il meccanismo mediatico che si è innestato intorno ai magistrati di Milano, sulla spinta soprattutto delle reti Mediaset, cementando il consenso popolare verso i magistrati. «Un circo mediatico-giudiziario che non conoscevano», ammette Pillitteri «e creava il mito di Di Pietro. Il pool diventa un Olimpo che getta saette». Mentre invece le parole di Craxi non incutono più timore. Quando si rende conto della minaccia e cerca di giocare il suo poker, nei confronti di Di Pietro e degli altri partiti, non capisce che il tavolo è cambiato. I messaggi trasversali contro il magistrato, anche quelli che si riveleranno fondati, cadono nel nulla. Come accade all'avvertimento lanciato in Parlamento il 3 luglio, con un discorso che viene riproposto in “1992 attacco al potere”: «I partiti, specie quelli che contano su apparati grandi, medi o piccoli, giornali, attività propagandistiche, promozionali e associative, e con essi molte e varie strutture politiche operative, hanno ricorso e ricorrono all’uso di risorse aggiuntive in forma irregolare od illegale. Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale. Non credo che ci sia nessuno in quest’aula, responsabile politico di organizzazioni importanti che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro». C'è una seconda parte dell'intervento di Craxi che – depurata dagli attacchi del momento – sembra mantenere un'attualità politica: l'appello al cambiamento delle regole prima che gli illeciti distruggano la credibilità di tutti i partiti. «Un finanziamento irregolare ed illegale al sistema politico, per quanto reazioni e giudizi negativi possa comportare e per quante degenerazioni possa aver generato non è e non può essere considerato ed utilizzato da nessuno come un esplosivo per far saltare un sistema, per delegittimare una classe politica, per creare un clima nel quale di certo non possono nascere né le correzioni che si impongono né un’opera di risanamento efficace ma solo la disgregazione e l’avventura. A questa situazione va ora posto un rimedio, anzi più di un rimedio. È innanzitutto necessaria una nuova legge che regoli il finanziamento dei partiti e che faccia tesoro dell’esperienza estremamente negativa di quella che l’ha preceduta». Oggi le sovvenzioni pubbliche sono state abrogate e per questo il problema della natura dei contributi privati alla vita politica è diventato ancora più forte. Le indagini continuano negli ultimi mesi a evidenziare come in questo settore non ci siano né controlli efficaci, né trasparenza. Questo – come “l'Espresso” denuncia da mesi - riguarda soprattutto il canale lecito ma opaco delle fondazioni, usate da esponenti di tutti i partiti per raccogliere soldi. Nonostante accuse e sospetti siano crescenti, i segnali di riforma restano deboli. Il Parlamento non sembra deciso a prendere iniziative concrete per cambiare i meccanismi del finanziamento, con il rischio di sottovalutare la rapidità del cambiamento. E ripetere gli errori del 1992.
Realtà e non fiction nel 1992 di History. Mani Pulite raccontata da imprenditori e forze dell'ordine, scrive “L’Ansa”. Non è il 1992 raccontato su Sky dall'acclamata serie con Stefano Accorsi, Miriam Leone, Guido Caprino e Antonio Gerardi ma alla fine tra i titoli di coda non apparirà l'avvertimento che "le storie narrate sono frutto della fantasia degli autori" e "che qualsiasi collegamento con persone vissute e viventi è puramente causale". La storia dell'anno che sconvolse il nostro Paese, che "dal sassolino Mario Chiesa si trasformò in una frana inarrestabile", è raccontata senza filtro e senza risparmiare sui particolari in "1992 - Attacco al potere", in onda martedì 14 e 21 aprile alle 23.00 su History (canale 407 di Sky). E niente è casuale, "rielaborato" e "romanzato". Sarà per questo che vedere, dopo venti anni, l'imprenditore Luca Magni dalla cui denuncia partì "Mani Pulite" raccontare, con il groppo alla gola e le lacrime agli occhi come se non fosse passata che una manciata di minuti, la storia di quel giorno che sconvolse la sua vita e quella dell'Italia intera vale forse più di una fiction. E sentire dalla voce di Roberto Zuliani, capitano dei Carabinieri e nome in codice "Giaguaro", tutti i particolari dell'irruzione nello studio di Mario Chiesa e del suo arresto (anche il fatto che la storia delle mazzette gettate nel water è una balla) tiene incollati allo schermo. Il valore aggiunto delle due puntate di History infatti è proprio questo: i protagonisti non sono solo Chiesa, Antonio Di Pietro e Bettino Craxi ma tutti le persone meno conosciute che stavano al loro fianco e che svolsero un ruolo fondamentale in quei giorni, dai poliziotti e dai carabinieri che eseguirono le perquisizioni e gli arresti agli imprenditori che finirono al centro delle inchieste, dai giornalisti ai fotografi. La vicenda è raccontata con ritmo incessante tra interviste esclusive, materiale di repertorio inedito, ricostruzioni dei luoghi, delle indagini e degli interrogatori. Ecco allora il Di Pietro che, come racconta Filippo Facci all'epoca giornalista de L'Avanti, "faceva Di Pietro e cioè lo sbirro, quello che aveva sempre fatto". Ecco il collaboratore Rocco Stragapede, "la scatola nera" di Di Pietro, con cui il magistrato vive quasi in simbiosi e si capisce al volo tanto da condurre assieme interrogatori "da far paura". E lo spettatore, tenuto per mano da coloro vissero in prima linea quei giorni ma al Tg non comparvero mai, non vede solo il Di Pietro conosciuto ma può sbirciare nella sua sala degli interrogatori, dove lui siede sulla sedia al rovescio e appoggia sulla scrivania montagne di fascicoli gonfi come a dire "Caro indagato, noi di lei sappiamo tutto!". Se qualcuno aprisse quei fascicoli, ci troverebbe solo giornali vecchi ma il bluff regge alla grande. Oppure può scoprire che quando era pensieroso o preoccupato il magistrato di tirava giù i calzettoni e si grattava i polpacci per ore. O come racconta Giancarlo Spadoni, investigatore della Procura di Milano che era il primo ad arrivare e l'ultimo ad andarsene ed riuscito a inculcare alla sua squadra "un metodo di lavoro, legato all'organizzazione e all'informatica, che non aveva uguali in Italia".
"1992", l'anno che cambiò l'Italia. Sky mette in onda la fiction su Tangentopoli di Giuseppe Gagliardi, ideata da Stefano Accorsi. In scena la sconfitta dei vecchi partiti e la strategia dell’ex Cavaliere. Mentre la sinistra si rivela solo una comparsa, scrive Marco Damilano su “L’Espresso”. C’è, nelle prime scene di “1992”, l’immagine delle banconote che galleggiano nella tazza del cesso, i pezzi da centomila lire con Caravaggio che tornano su dallo scarico, come un rigurgito nella coscienza collettiva. I soldi, in quei primi anni Novanta, erano ancora qualcosa di fisico. Si toccavano, si annusavano, si buttavano via. Dalla finestra, per esempio: una sera d’estate gli abitanti del quartiere romano Flaminio avevano visto planare come aeroplanini di carta banconote per tredici milioni di lire, una mazzetta gettata dalla moglie di un notabile dc. E nel water: la tangente da 37 milioni che il pomeriggio del 17 febbraio 1992 l’ingegner Mario Chiesa, il socialista presidente del milanese Pio Albergo Trivulzio, cerca di far sparire mentre i carabinieri bussano alla porta. Era un lunedì, l’inizio di una settimana di routine per il burocrate della tangente, invece crollò un sistema durato decenni. E quel colpo di sciacquone equivale allo sparo di Sarajevo che portò all’estinzione gli Imperi invincibili della Prima Repubblica, i democristiani, i socialisti. La fine della belle époque dei partiti. E l’annuncio del Nuovo. Prodotta da Wildside e diretta da Giuseppe Gagliardi (Tatanka) da una idea di Stefano Accorsi, debutta il 24 marzo in prima TV su Sky Atlantic HD e in contemporanea su Sky Cinema 1 HD la fiction 1992, diretta da Giuseppe Gagliardi, da un'idea di Stefano Accorsi e sceneggiata da Alessandro Fabbri, Ludovica Rampoldi e Stefano Sardo. Sullo schermo, personaggi immaginari insieme ai protagonisti della cronaca politica. Arrivano in tv (dal 24 marzo 2015 su Sky Atlantic Hd) le dieci puntate della fiction sull’anno che cambiò l’Italia, il 1992 di Tangentopoli. La calata nel Parlamento romano dei barbari della Lega, il pool Mani Pulite di Antonio Di Pietro, la fine di Bettino Craxi, le stragi di mafia. E l’embrione dell’avventura politica di Silvio Berlusconi. Un anno ricostruito dal regista Giuseppe Gagliardi nei dettagli: cravatte, pettinature, trasmissioni (“Non è la Rai”), i pesantissimi cellulari. Volti famosi e storie sconosciute: la scelta narrativa degli sceneggiatori Alessandro Fabbri, Ludovica Rampoldi, Stefano Sardo è affiancare personaggi di fantasia a quelli reali (il pm Di Pietro, Francesco Saverio Borrelli, Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo, Marcello Dell’Utri, Umberto Bossi). «Abbiamo seguito la lezione di James Ellroy», spiega Lorenzo Mieli, il produttore della fiction con Wildside. «Mescolare la finzione con la realtà, i fatti della cronaca con le trame e i ricatti invisibili al cittadino e allo spettatore». “1992” è il nostro Italian Tabloid, in una Milano notturna, cupa, livida, una Gotham City in cui i vecchi potenti si aggirano da padroni e invece sono già morti, e i buoni non esistono. L’ideatore della serie è Stefano Accorsi, classe 1971, segnato come tutti i suoi coetanei da quei dodici mesi spartiacque: «Volevo capire cosa è successo quell’anno. E raccontare quella parte d’Italia che ha vinto, nel segno dell’ambiguità. In questa storia non ci sono personaggi giusti». L’attore sta girando l’Italia in teatro con il “Decamerone” di Boccaccio in cui interpreta Panfilo, sempre attuale: «Giorno non passa che novello scandalo scalza lo precedente... E li cittadini onesti smarriscon così fede e orgoglio di civica appartenenza e vien loro meno, speranza e fiducioso attendimento nel domani». In “1992” è Leonardo Notte, pubblicitario di successo, arrogante, spregiudicato, ansioso di consumare il presente per far dimenticare un passato che continua a tormentarlo. «Gli anni Ottanta sono finiti!», avverte durante una convention al cospetto di Dell’Utri. «E la crisi è un’opportunità». Per questo sarà incaricato dal presidente di Publitalia di studiare cosa si muove nel profondo della società. Chi rappresenterà il Nuovo quando i vecchi politici saranno spazzati via. Chi farà la scalata. A rileggere i testimoni più lucidi di allora si avverte il senso della Fine in arrivo. «La classe politica italiana sembra assoggettarsi a due spinte esattamente opposte, l’istinto di conservazione e un’oscura volontà di auto-annientamento», aveva scritto Edmondo Berselli sul “Mulino” nell’autunno 1991. Nella campagna elettorale del 1992, l’ultima dei partiti della Prima Repubblica, il Psi aveva girato un docufilm sul suo segretario Bettino Craxi, candidato a tornare a Palazzo Chigi. Ma i primi piani avevano rivelato un uomo stanco, lontano dal Capo che aveva interpretato la modernità per un decennio. «Va a finire che ci fa una migliore figura chi ha avuto l’accortezza di farsi riprendere da lontano, come Berlusconi, seduto di sbieco al pianoforte, bello come Julio Iglesias», commentò profetico Emanuele Pirella sull’“Espresso”. «All’elettore vien più voglia di votare Berlusconi che quell’affaticata comparsa di Craxi». In “1992” il passaggio dal vecchio al nuovo è confuso e feroce, come ogni trapasso. Scandito dagli homines novi, i vincenti di “1992”. I magistrati, i leghisti. Berlusconi. «Ognuno è rappresentato da un personaggio, un avatar che incarna la loro ossessione, la spinge all’estremo», spiega Mieli. Pietro Bosco, interpretato da Guido Caprino, è un reduce della guerra nel Golfo che si ritrova eletto per caso deputato della Lega, catapultato sul palcoscenico di Roma ladrona, tra gli intrighi, le trappole, le seduzioni della Capitale. Gli fa schifo la politica, entra sbandierando il “tutti a casa”, la sua irriducibile diversità rispetto agli uomini del potere in blu ministeriale, e invece ci cade dentro, fino in fondo. Luca Pastore (Domenico Diele) è un agente di polizia giudiziaria che lavora con Antonio Di Pietro, mosso da una sete di giustizia, anzi, di vendetta verso un industriale che gli ha distrutto la vita. Veronica Castello (Miriam Leone) vuole lavorare in tv, a “Domenica In”, a qualsiasi costo. L’ansia di cambiamento, di fare piazza pulita. La sete di giustizia che si trasforma in desiderio di vendetta, di purificazione. La brama di una vita in “prime time”. Questioni private che intrecciano le pulsioni profonde della società italiana degli anni Novanta, disposta ad auto-assolversi, dimenticare e a ricominciare. «L’elettorato non è moderato, è smodato, arrapato», grida Leo Notte, in questo stato nascente, di disperata vitalità, in cui tutto cambia e tutto è necessario prendere, cavalcare, afferrare, come l’Occasione di cui parla Machiavelli nel “Principe”, «senza quella occasione la virtù dell’animo loro si saria spenta». «Per lui il movimento è una condizione essenziale per sopravvivere. Era un estremista, si è trasformato in un pubblicitario senza smettere di essere contro il sistema, lo status quo», lo descrive Accorsi. «Il suo credo è lo stesso che canta Manuel Agnelli degli Afterhours: “Io maledico il modo in cui sono fatto/ Il mio modo di morire sano e salvo dove m’attacco”. Riesce sempre a farla franca, a morire sano e salvo». Come vorrebbero fare molti italiani nel 1992, pronti a buttarsi nella nuova avventura. La sinistra compare in una sola scena, è un pallido candidato alla Camera del Pds di Achille Occhetto, impaurito come la sua giacchetta marrone. Ma non c’è sinistra e non c’è alternativa, nell’Italia del 1992 e forse anche in questa. La corruzione c’è ancora, da Milano a Palermo. E se degli uomini nuovi di allora è già nota la parabola, le speranze bruciate, la rivoluzione giudiziaria immeschinita nei partitini personali degli ex pm, la Lega bossiana divorata dalle mollezze romane, Berlusconi che appare come un’ombra di luce già spenta, lo spettatore è colto dall’inquietudine di immaginare, in un’altra fase di cambiamento, che fine faranno gli uomini nuovi di oggi che gridano al tutti a casa e alla rottamazione del passato, la loro scalata al potere, famelica di illusioni. Nell’inizio è già visibile la fine. Qualcosa di familiare.
Padri, figli, corrotti e magistrati. La fiction (non manichea) sul ’92, scrive Mattia Feltri su “La Stampa”. John Wayne non c’è. Nessun giustiziere solitario, nessun supereroe spuntato dal retrobottega della nostra coscienza a riscattare gli umili e offesi. Non aspettatevi inquadrature di metaforici calci di fucile segnati di tacche a ogni potente abbattuto, intanto che la vecchietta o il ragazzino o il padre di famiglia risollevano la testa dalla polvere. Non è la biografia agiografica o problematica di un Tonino Di Pietro né quella collettiva di un pool che vediamo oggi, venti anni dopo, nelle foto di gruppo mentre avanza con lo sguardo che punta lontano, involontario e caricaturale nuovo Quarto stato di Pellizza da Volpedo, la serie di cui la prima puntata va in onda su SkyAtlantic, non è - nella sintesi che migliore non ci riesce - la storia di Mani pulite ma la storia di Tangentopoli, e cioè non è la storia del drappello di pm bensì la storia di come eravamo, noi abitanti della città delle mazzette. Una bella sorpresa: due decenni e tre anni dopo quel 17 febbraio - giorno dell’arresto di Mario Chiesa e inizio della fine della Prima repubblica - qualcuno è stato capace di ricacciare il secchio in quei complicati mesi senza attingere a retorica settaria. Non ci sono i buoni contro i cattivi. Non è il bene contro il male. I politici rubavano e furono presi con le mani nel sacco, e non erano né mostri né perseguitati. I magistrati indagavano con le timorose prudenze del contesto, espresse dal procuratore capo Francesco Saverio Borrelli che trattiene Di Pietro: «Per puntare in alto ci vogliono le spalle coperte». È un Di Pietro a cui luccicano gli occhi alla vista di cinque lettere stampate sul giornale - «Craxi» - perché è lì che vuole arrivare, introduzione a una giustizia redentrice che prima trova i colpevoli e poi le notizie di reato. E però non è questo il punto. Davvero non contano né Di Pietro né Borrelli né Craxi né Chiesa, conta molto di più tutto ciò che lì dentro c’è di fiction. I personaggi storici sono colonne del tempio dentro cui si muovono i personaggi di fantasia, i veri protagonisti, il ragazzone rientrato dalla guerra del Golfo senza un’idea di sé e del suo futuro che salva un capoccia leghista dall’aggressione di due albanesi, sarà candidato al Parlamento, salirà sul palco a urlare salivante che è ora di finirla adesso basta, «adesso tocca a noi», e tanto basta al nuovo entusiasmo: e lui poi va a liquidare il padre: «Presto avrò una casa quattro volte questa». C’è il collaboratore della procura determinato a incastrare l’imprenditore corrotto per una questione personale, pur di raccattare le prove violerà domicili, ingannerà ragazzine, minaccerà a mano armata e troverà la giornalista cui girare (di nascosto) le informazioni buone per gli scoop e per la fama degli inquirenti. C’è il giovane berlusconiano (Stefano Accorsi, ideatore della serie) collaboratore di Marcello Dell’Utri che per vendere la pubblicità a un inserzionista indeciso gli spiega che «la gente là fuori è orribile», si tratta soltanto di assecondarla: non diseducarla o traviarla, assecondarla. C’è tutto il nostro mondo, la ragazza che per la carriera in tv si concede a chi la piglia, i padri boriosi che non capiscono i figli, i figli tossici che mandano al diavolo i padri, la gente maleducata e velenosa, i grandi attici delle grandi baldorie, i miserabili appartamenti di miserabili rancori, c’è persino l’insegnante delle medie che salverà il mondo liberando i piedi dalla costrizione delle scarpe. Ricordate che niente è definitivo, i peggiori diventeranno i migliori, i pessimi risultati saranno prodotto delle buone intenzioni: è il festival molto credibile, compreso qualche inevitabile eccesso parodistico, dell’ambiguità morale che fa parte della nostra vita e della buona scrittura che la racconta.
Di Pietro: “Questa è fiction, Mani pulite invece è storia”. “1992” vista con l’ex pm: non dice come provarono a fermarci, scrive Paolo Colonnello su “La Stampa”. Già alla prima inquadratura, si preoccupa: «Oh, ma non è che quello lì con le chiappe all’aria sono io?». Lo «Zanza», anzi, lo «Zanzone» come Antonio Di Pietro veniva chiamato dagli allora giovani cronisti di Mani Pulite a significare la scaltrezza e la furbizia contadina, si accomoda sul divano. Chiede un caffè, ride di gusto: «Ah, no, meno male, non sono io… Eccomi, eccomi! C’è perfino il gilet bordeaux che usavo allora». Panoramica sulla Milano da bere: i rampanti di Publitalia, l’attricetta che si fa raccomandare, le ragazzine di Boncompagni, i ristoranti e la rucola: «Era così ma non per tutti: c’era chi se la godeva, chi faceva affari, chi faceva carriera…Io indagavo, ricordi?». E come dimenticarselo: 1992, un anno infernale. Prima puntata di un ventennio che sembra non aver mai fine. «Se si confronta un’informativa del ‘93 che feci insieme a Davigo sulla corruzione con quella che hanno fatto su Incalza adesso, ritrovi molti degli stessi nomi». Un po’ più stanco, più affaticato, l’avvocato Di Pietro 23 anni dopo ammette di non avere più grandi aspirazioni: «Sindaco di Milano? Ma con quale partito? E poi…». E poi? «Prima che finisca la serie in tivù, lo dico subito: se c’è un errore che non rifarei, è quello di mettermi in politica. Mannaggia... Ho 65 anni e devo dire che un po’ li sento». Di Pietro è ansioso di vedere la fiction. Non mangia, non beve, un asceta. Passa la prima scena di sesso e si sfila gli occhiali: «Prendo atto, però non mi pare necessaria…». Però il sesso è sempre stato un orpello fondamentale del potere. «Vero. Ma, se interessa, vorrei dire che durante la nostra inchiesta non abbiamo mai utilizzato il gossip per scoprire le tangenti». Certo è strano per un’inchiesta che nacque anche grazie alla causa di separazione tra l’ex presidente della Baggina, Mario Chiesa, e la sua ex moglie, Laura Sala. «Si, ma non ci fu bisogno di intercettazioni. Chiedemmo di poter vedere gli atti della separazione, poi lei ci parlò dei conti in Svizzera, “Levissima” e “Fiuggi”. Quando dissi a Chiesa che l’acqua minerale era finita, lui capì al volo e crollò. Fu l’inizio della fine». Alla scena dell’arresto di Mario Chiesa, lo «Zanza» chiede di mettere in pausa: «Non è vero che andò in bagno per buttare altri soldi. Quella storia la raccontò dopo una settimana e si riferiva a un’altra mazzetta di un altro imprenditore…». Osserva divertito l’ufficio del suo pool investigativo: «Seee… magari avessimo avuto tutto quello spazio!». È colpito dal rampante di Publitalia interpretato da Stefano Accorsi, chiamato da Marcello Dell’Utri a fondare Forza Italia: «Bisogna dire che Dell’Utri che racconta la storia della Repubblica delle Banane è convincente. Grazie a Berlusconi stiamo comprando banane ancora adesso. La differenza è che mo’ ci stanno tanti berluschini». E i «dipietrini»? «Anche quelli sono stati un problema. Mani Pulite iniziò ad affondare per la nascita dei tanti dipietrini d’Italia che senza avere una visione d’insieme del “sistema”, indagavano chiedendoci gli atti per competenza». Davvero Craxi all’inizio era un tabù? «Ma quando mai. Per noi Craxi all’inizio non era un problema. Cioè, sapevo, avendo visto come si era comportato in precedenza, che si sarebbe potuti arrivare a lui, ma davvero nell’inchiesta il suo nome non esisteva. Il “Cinghialone”, come lo chiamavate voi, era ancora lontano dalle carte…». Alla fine, rimane deluso: «Qui mi sembra che Mani Pulite sia solo uno sfondo, una scusa per raccontare altro». Emozioni? «Nessuna, io ho vissuto una realtà che mi ha riempito abbastanza. Mi basterebbe che qualcuno un giorno scrivesse come hanno cercato di delegittimarmi in tutti i modi… Non c’azzeccava niente. Speriamo nella storia, questa è solo fiction».
«Ma quali escort? Non andò così» Segni contesta la fiction «1992». La ricostruzione tv sugli anni di Tangentopoli e le critiche di uno dei protagonisti di allora, scrive Renato Bendetto su Il Corriere della Sera”. Nell’ultimo episodio di 1992, la serie tv di Sky sugli anni di Tangentopoli, Mario Segni appare scandalizzato. È rappresentato al tavolo di un ristorante: discute di politica e di possibili intese con alcuni uomini di Publitalia (la discesa in campo di Berlusconi in prima persona è di là da venire). Arrivano Olga, Irina e Katarina, tre prostitute ingaggiate per «siglare l’intesa». Segni si alza e se ne va indignato. A differenza del personaggio della serie, Mario Segni, quello vero, martedì sera non si è alzato, è rimasto davanti alla tv a guardare la puntata. Ma era scandalizzato: «Sono indignato. Hanno mistificato la realtà». Segni è stato tra i protagonisti (quando da deputato lasciò la Dc dopo il successo del referendum per il maggioritario) della stagione politica raccontata da 1992. Nulla di strano che il suo nome compaia nella serie di Sky, che mescola personaggi reali e di fantasia e racconta una storia di fiction nel contesto(reale) di Mani pulite: Dell’Utri lo vuole sondare come possibile leader di una «casa dei moderati»; a trattare c’è Leonardo Notte (Stefano Accorsi), protagonista della fiction, uomo marketing del Biscione incaricato del dossier politico. Notte e Segni sono insieme al ristorante: il deputato ex dc è indeciso sul dolce («vorrei una mousse, anzi no, una crostata. Aspetti... abbia pazienza. Ho cambiato idea... mi porti il menu»). Notte taglia corto: «Il dolce lo offre la casa». Arrivano le prostitute e l’intesa fallisce. Notte dirà a Dell’Utri: «Ci ha messo mezz’ora solo per scegliere il dolce, Segni non va da nessuna parte». «Possibile che si debba ridurre tutto a una volgare pochade?», si chiede Segni, quello vero, dopo aver visto la puntata. «I rapporti tra movimento referendario e la nascita di Forza Italia sono parte di una storia più complessa, che ha inizio con l’offerta di alleanza di Berlusconi e si conclude con il mio rifiuto. Una storia politica, non fatta di prostitute. I contatti furono diretti», specifica. E di quella scena smentisce tutto. A cominciare dall’anno: non fu il 1992. «Il primo contatto con Berlusconi fu a casa di Gianni Letta, nell’ottobre del 1993: al tavolo c’erano Berlusconi e Confalonieri». E nessuna prostituta russa. In effetti quella di Sky è una fiction: «Anche se ispirate a fatti realmente accaduti le storie narrate sono frutto della fantasia degli autori», è chiaramente espresso all’inizio di ogni puntata di 1992. Per Segni, «va bene mescolare realtà e finzione, ma quando nomi e cognomi sono quelli... Non puoi raccontare falsità e attribuirle a una persona specifica».
La serie tv su Tangentopoli. E Di Pietro pontifica in tv. Grazie a una fiction l'Italia prova a fare i conti con il proprio turbolento passato, con una classe politica spazzata via da un'inchiesta della magistratura, scrive Orlando Sacchelli su “Il Giornale”. Parte "1992", la serie tv di Sky dedicata a Tangentopoli e all'inchiesta che spazzò via un'intera classe politica. Fiction e realtà, sapientemente mescolati, suddivisi su dieci episodi. Un'operazione culturale oltre che "cinematografica". Perché non è solo una delle tante serie tv. Parla di un periodo su cui il nostro Paese ancora non ha fatto pienamente i conti. Ci sono stati i processi e le sentenze. E i cambiamenti politici che da esso sono derivati. Ma ci sono ancora tante omissioni. Il compito di mettere mano alla vicenda e inquadrarla nel modo migliore possibile tocca agli storici. Non può essere altrimenti. La tv fa spettacolo, anche se può offrire spunti di riflessione interessanti. E non bisogna dimenticare che, essendo prodotta da noi italiani (e venduta all'estero), la serie fornisce una chiave di lettura del nostro Paese a chi ci vedrà (e giudicherà) oltreconfine. La tesi che da una parte i politici fossero tutti ladri, e dall'altra, invece, ci fossero solo brave persone, che mai e poi mai si erano macchiate del reato di finanziamento illecito ai partiti, a distanza di ventitre anni si può considerare superata. E non solo perché Bettino Craxi lo disse in parlamento (e poi in tribunale a Milano). I bilanci dei partiti depositati in parlamento erano tutti (o quasi) farlocchi e chi doveva controllare non lo faceva. Così erano anche i soldi dall'estero e quello delle imprese che finanziavano la politica. Si è andati avanti così per oltre quarantacinque anni. Poi due amnistie hanno cancellato tutti i reati (fino al 1989) e da allora in poi si sono creati i presupposti (penali) per lo scoppio dello scandalo, esploso, com'è noto, il 17 febbraio 1992, con l'arresto di Mario Chiesa. Uno dei protagonisti dell'epoca, Antonio Di Pietro, impazza su giornali e tv. "Del film ho preso atto, quando ho saputo che lo stavano facendo - racconta Di Pietro a Sky Tg24 Pomeriggio -. La realtà l’avevo già vissuta e mi darete atto che già la realtà era davvero un film. Chi in quegli anni ha visto evolversi giorno dopo giorno l’inchiesta di Mani pulite ha visto un drammatico film di una storia italiana. Che poi, voglio dire, è come se stessimo sfogliando i giornali di questi giorni", dice l’ex pubblico ministero. "Prima dell’inchiesta Mani pulite - prosegue - a Milano ci furono molte inchieste contro la pubblica amministrazione. Quel sistema, all’interno della procura di Milano, lo avevamo ben individuato. Il problema delicato era sul piano processuale: la corruzione è un reato a concorso necessario, bisognava scoprire sia l’atto d’ufficio fatto per fare piacere a qualcuno, sia i soldi o l’utilità corrisposti: nel reato di corruzione si era puniti in due. L’inchiesta di Mani pulite ha permesso di scoprire casi in cui gli imprenditori non erano corruttori, ma subivano una tangente che non volevano subire. È stata una chiave di lettura che ci ha permesso di aprire quella scatola, ma come era fatta la scatola lo sapevamo già allora e purtroppo lo sappiamo ancora oggi". Per il lancio della serie Sky ha dato voce a diversi protagonisti dell'epoca: soprattutto politici e giornalisti. Oggi, accanto a Di Pietro, ha avuto spazio e voce anche Claudio Martelli, ex ministro del Psi e braccio destro, per anni, di Craxi. A lui il compito (arduo) di dare voce agli "sconfitti". "È stato fatto un lavoro monumentale di documentazione - dice Stefano Accorsi, ideatore e interprete di 1992 - ma il lavoro più prezioso è stato quello fatto dagli sceneggiatori per tenere fuori tutto quello che si è detto di Mani pulite nei 20 anni successivi e tutelare nel racconto la realtà dell’epoca, con lo stupore di fronte alla prima grande inchiesta sui vertici politici ed imprenditoriali e la speranza di cambiamento. L’idea di questa serie - prosegue - è nata nel 2011, pensando al fatto che erano passati quasi vent’anni da quegli avvenimenti senza che nessuno li avesse raccontati in tv". Tangentopoli è ormai lontana nel tempo. Ventitre anni sono tanti e i protagonisti, salvo rare eccezioni, sono spariti dalla scena. Qualcuno prova a riaffacciarsi (vedi Di Pietro). Altri, come l'ex pm Gherardo Colombo, scrivono libri (Lettera a un figlio su Mani pulite) tentando di spiegare ai giovani cosa accadde in quel periodo. La stessa operazione la fa la tv con la serie di Accorsi. Vedremo con quali risultati.
Sesso, soldi e potere ma quante lacune in 1992, la serie tv su Mani pulite. La fiction "1992" parla dell'inchiesta Mani pulite e delle vicende che portarono alla fine della Prima Repubblica. Poca politica e si vede subito che nel "mirino" c'è Berlusconi, scrive Orlando Sacchelli su "Il Giornale". Si parte subito in quarta, con lo spettacolare arresto di Mario Chiesa. Del resto non poteva essere altrimenti. Tangentopoli è iniziata da lì, dal Pio Albergo Trivulzio, noto ai milanesi come la "Baggina", l'istituto di ricovero per anziani a cui capo c'era l'esponente socialista. Chiesa intasca una mazzetta, gli inquirenti ascoltano tutto grazie a una microspia e irrompono nel suo ufficio. A nulla servono le scuse di Chiesa e del suo avvocato. Le banconote sono siglate, una ad una, e fotocopiate. Non si scappa. La tangente, pagata dall'imprenditore Luca Magni (sette milioni di lire, la prima di due rate, per un appalto complessivo di 140 milioni), dà il via all'inchiesta passata alla storia come "Mani pulite". Nasce Tangentopoli e, nel giro di pochi mesi, un'intera classe politica crollerà sotto i colpi della magistratura. La serie tv di Sky "1992" inizia così, con Antonio Di Pietro subito protagonista. Al centro della storia ci sono sei persone comuni, la cui vita si intreccia con il terremoto politico, civile e sociale innescato dalla maxi inchiesta. I personaggi di fantasia si muovono in parallelo a quelli reali. Questo per permettere agli autori un certo margine di libertà nello sviluppo della storia, che corre lungo i binari della realtà. Nelle prime due puntate trasmesse da Sky vengono subito ben tratteggiati i protagonisti: Leonardo Notte (Stefano Accorsi), rampante pubblicitario esperto di marketing, che lavora per Publitalia; il poliziotto Luca Pastore (Domenico Diele), che entra a far parte del pool di Mani pulite proprio quando inizia l'inchiesta; Bibi Mainaghi (Tea Falco), figlia viziata di un imprenditore milanese colluso con la politica; Veronica Castello (Miriam Leone), bella showgirl disposta a ogni compromesso pur di sfondare in tv; Pietro Bosco, ex militare rientrato dall'Iraq, che inizia un'avventura politica militando nella nascente Lega Nord. Accanto a loro ci sono i protagonisti reali, a partire da Antonio Di Pietro (interpretato da Antonio Gerardi), Piercamillo Davigo (Natalino Balasso), Francesco Saverio Borrelli (Giuseppe Cederna), Gherardo Colombo (Pietro Ragusa). Tra i personaggi veri c'è anche Marcello Dell'Utri (Fabrizio Contri), che fin dall'inizio apprezza le doti di Notte. Il racconto ha ritmo e gli attori sono bravi. Belle le musiche, tutte rigorosamente di quel periodo ("Non amarmi", di Aleandro Baldi e Francesca Alotta, "Everybody hurts" dei Rem), interessanti gli spezzoni dei tg dell'epoca. Ma a chi non ha vissuto quel periodo o letto qualcosa, questa serie fornirà qualche informazione utile per capire cosa è stata davvero Tangentopoli? Secondo noi no. Del resto non c'era d'aspettarsi troppo: si tratta di fiction non di un documentario e tantomeno di un approfondimento storico. In "1992" si capisce che si vuole andare a parare in una certa direzione. Il messaggio viene messo in bocca a Dell'Utri, che parlando con il rampante Notte (Accorsi) senza mezzi termini gli indica il suo obiettivo, con un mix tra spregiudicata filosofia politica e marketing: "Bisogna salvare la Repubblica delle banane". E il riferimento non è tanto all'impresa (Publitalia) quanto alla politica, la nuova formazione che dà lì a pochi mesi vedrà la luce. Per il resto c'è molta superficialità e una grande banalizzazione. Siamo solo alle prime due puntate ed è probabile che, grazie ai personaggi di fantasia, la serie vivrà un crescendo di emozioni e colpi di scena. C'è da sperarlo. Perché se dovessimo limitare il giudizio alla prima parte della storia, la delusione sarebbe grande. E non perché sappiamo già come va a finire. La politica vera si vede solo sullo sfondo: nei manifesti elettorali, nei comizi di Umberto Bossi e poco altro. Tutto qua? Chi ha visto House of cards sa come si può trattare l'argomento in una serie tv. Fiction, sì, ma con molta più sostanza. Tutta un'altra cosa rispetto a 1992. Forse il problema, per la serie ideata da Accorsi, è che si dovevano fare i conti con la realtà. E si è preferito limitarsi ai cliché.
Continua "1992 La serie": poco scandalo Tangentopoli e tanto anti-berlusconismo. Tutto ruotava intorno alla figura di Silvio Berlusconi come personaggio più desiderato dagli italiani? Troppo difficile da credere. O troppo facile, scrive Carola Parisi su “Il Giornale”. Giù la maschera. 1992 La Serie non parla di Tangentopoli. E dispiace, perché le premesse per un buon prodotto c’erano tutte. Ma la seduzione e la tentazione di trasformare il racconto di quello che fu uno dei momenti più imbarazzanti e confusi di questo Paese, in una velata critica a Silvio Berlusconi, a Fininvest e alla ancora non nata Forza Italia, era troppo forte. Si può capire che un certo salotto non abbia voglia di accedere a nuove chiavi di lettura. Che siano anche solo quelle della storia. Stupisce che sia quello stesso salotto che ama pavoneggiarsi al grido di: "Io la televisione non la guardo, preferisco un buon libro". "Qui mi sembra che Mani Pulite sia solo uno sfondo, una scusa per raccontare altro". Sono proprio le parole di Antonio Di Pietro, protagonista, in qualità di magistrato, e anima dello scandalo di Tangentopoli, a descrivere una ricostruzione filmica poco corrispondente alla realtà. Facile, facilissimo, farsi coccolare dalle braccia sicure dell’anti-berlusconismo. Ma è stata davvero Publitalia, con la sua fitta schiera di manager spietati, assassini, ex comunisti da banda armata e amanti dei ménage à trois nelle vasche idromassaggio, il centro della vita dell’Italia nel 1992? Tutto ruotava intorno alla figura di Silvio Berlusconi come personaggio più desiderato dagli italiani? Troppo difficile da credere. O troppo facile. Ed è Stefano Accorsi nei panni di Notte a portarsi sulle spalle tanta responsabilità. Lui è l’emblema di una politica vuota, partorita a tavolino tra slogan e marketing. Priva di contenuti. E questo sarebbe uno spaccato dello scandalo Tangentopoli? Sul finale della quarta puntata, Miriam Leone che interpreta Veronica, ambiziosa amante di Michele Mainaghi, imprenditore che decide di togliersi la vita dopo essere stato coinvolto nell’inchiesta Mani Pulite (ed anche nella triste vicenda della vendita di sangue infetto), disposta a tutto per ottenere un programma in tv, dopo una telefonata di raccomandazione a Berlusconi, bussa alla porta del Cavaliere. Ultima spiaggia per fare carriera in tv. Il rimando è chiaro e davvero poco velato, ma, oltre a strappare qualche facile ghigno, è uno scivolone banale per chi vorrebbe raccontare l’Italia che si delineò dopo l’arresto di Mario Chiesa. Eppure, la produzione è stata elogiata nel resto d’Europa. All’indomani del debutto al Festival di Berlino, ad esempio, il Frankfurter Allgemeine Zeitung ha applaudito 1992: "Raramente un paese ha il coraggio di guardarsi allo specchio come in questo caso". Sì, gli specchi di legno.
1992, un alieno chiamato Silvio Berlusconi: la serie mostra con coraggio la carica rivoluzionaria del Cavaliere, scrive di Francesco Borgonovo su “Libero Quotidiano”. C’è un’antipatia sottile e diffusa nei confronti di Stefano Accorsi. La frase «da un’idea di Stefano Accorsi», utilizzata da Sky per la promozione della serie 1992, è diventata un hashtag su Twitter, ovviamente per sfottere. Certo, ormai ci sono i libri di storia, Accorsi mica si è inventato l’epoca di Tangentopoli. Però non basta un cretino qualsiasi per ideare un prodotto come quello che sta andando in onda sulla pay tv. Lo dimostra il fatto che, tanto da destra quanto da sinistra, sono arrivate parecchie critiche. Ed è facile immaginare che tante altre ne arriveranno a breve, quando la figura di Silvio Berlusconi diventerà sempre più presente nella serie. Si può discutere fin che si vuole sull’accuratezza e sull’attendibilità storica di 1992, ma ci sono qualità che emergono oltre ogni ragionevole dubbio. Tanto per cominciare, è scritta benissimo. Leonardo Notte, il pubblicitario interpretato dallo stesso Accorsi, è un personaggio denso, sfaccettato. Il cognome e il fatto che vesta spesso di nero dovrebbero caratterizzarlo come una figura negativa, ma la faccenda è più complessa. Notte ha dei tratti demoniaci, è un Grande Seduttore, nonché un uomo che ha adattato i propri ideali all’epoca in cui vive. Dall’Autonomia Operaia bolognese è passato a Publitalia. Un percorso che hanno fatto in parecchi - sotto forme diverse, se vogliamo - in questo Paese. A Notte interessano i soldi, le donne, in parte anche il potere. Ma tutti i personaggi della serie sono così. La bellezza di 1992 sta nel fatto che non ci sono dietrologie o letture politicamente orientate. Emergono gli uomini e le loro brame. Ciascun protagonista è mosso da ambizioni personali. Di Pietro viene ripetutamente accusato di puntare soltanto a Bettino Craxi, di esserne ossessionato, di volerlo inchiodare con ogni mezzo, a costo di abusare della carcerazione preventiva (cosa che gli viene rinfacciata e che lui non smentisce). I personaggi fittizi che si agitano nel Palazzo di Giustizia di Milano sono spinti chi dal desiderio di vendetta, chi dalla necessità di racimolare soldi. In qualche modo, sono tutti «cattivi». Leonardo Notte, oltre all’egoismo, manifesta anche un enorme talento. Nel suo mestiere è una specie di genio, un Dottor House (o un Don Draper di Mad Men). Soprattutto, capisce per primo quali sono le potenzialità «politiche» del Cavaliere. Una delle scene più belle è quella in cui il politico democristiano e quello socialista - entrambi contattati da Marcello Dell’Utri perché lo aiutino a capire in che direzione va la corrente a Roma e dintorni - si trovano a tavola con Mariotto Segni. Vogliono chiedergli se ha intenzione di diventare il nuovo leader dei «moderati». Verso la fine della cena, ecco comparire Notte. Si siede a tavola e gli basta un dettaglio per capire che Segni non ha futuro: Mariotto non riesce a decidere se ordinare una mousse o un altro dolce, continua a cambiare idea. Uno così, non può andare da nessuna parte. Notte, con l’ausilio di tre escort russe, lo fa indispettire e manda a monte l’incontro. Questo perché ha capito la portata rivoluzionaria di Berlusconi. Dopo una convention (introdotta da Massimo Boldi, quello vero) esce sul balcone a fumare una sigaretta e guarda il cielo assieme a una collega. Parlano di Ufo. «Stasera c’è stato un avvistamento», dice. Si riferisce al Cavaliere, che ha tenuto un discorso. Proprio perché si tratta di una serie tv e non di un saggio storico, a emergere dal racconto di 1992 sono gli uomini. Quella che si tenta, semmai, è un’analisi antropologica. A un certo punto si riporta una frase di Formentini secondo cui gli uomini di Berlusconi sarebbero un esercito di plastica. Ed ecco che la camera scorre inquadrando la coda alla mensa di Publitalia: una sfilata di acconciature diverse ma simili. Appare un tipo umano unico, con minime variazioni. Ecco il lato negativo dell’antropologia berlusconiana. Ma c’è anche quello positivo: la carica sovversiva del «sogno», la spinta del cambiamento in un Paese soffocato, annichilito. Berlusconi è presentato appunto come un alieno che può portare un vento fresco in un Palazzo pieno di dinosauri. Questa ricerca di qualcosa di diverso, di uno scossone, pervade tutte le puntate della serie, con i suoi lati oscuri e le sue lame di luce. A molti non piacerà, perché dopo tutto il Cavaliere rappresenta ancora l’incarnazione del Male. Ma l’affresco dell’Italia è vivido, affascinante. 1992 è un prodotto ambizioso, a tratti letterario. Sarà anche un’idea di Accorsi, ma è una buona idea. Talmente buona che, come spesso capita alle opere di valore, parla del passato e sembra mettere in scena il presente. Con quel pizzico di speranze in più che, ventitrè anni fa, almeno c’erano.
1992, Mediaset contro Sky: "Quella fiction ci danneggia". Mediaset contro Sky. Oggetto del contendere: la fiction della tv di Murdoch su Mani Pulite. S'intitola "1992" e ricostruisce la storia di Tangentopoli, ma la storia così com'è stata messa in scena non è piaciuta affatto ai vertici del Biscione. Paolo Liguori, volto storico di Mediaset, su Il Giornale sottolinea come la fiction abbia falsificato le origini del concorrente. "Un'operazione di propaganda che non bada a spese a uso dei soliti nemici di Berlusconi". Sotto accusa la grande divisione tra buoni e cattivi: "Si qua Di Pietro e Mani Puliti, di là i corrotti, i partiti, Dell'Utri e Publitalia. Falso enorme perfino nei particolari: la Lega non è nata dopo l'arresto di Mario Chiesa e le televisioni Fininvest, come tutti ricordano, furono in prima linea davanti al Tribunale di Milano". Non piace, quindi, questa ricostruzione considerata troppo "di parte", un'ennesima occasione per attaccare l'acerrimo nemico Silvio.
Scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”: il Di Pietro da fiction non la racconta giusta. Elencare “quello che manca” in un film o in una fiction è facile e comodo, ci si possono riempire i libri: non è un caso che gli autori della serie «1992» (Sky, cominciata martedì scorso) si siano paraculati premettendo che «ogni riferimento a fatti accaduti» eccetera eccetera. Messa così, però, è facile e comodo anche per gli autori: perché i riferimenti a fatti accaduti ci sono eccome, con nomi e cognomi, e il prodotto è stato venduto all’estero con pretese storicizzanti. Alcuni personaggi di pura fantasia quindi vanno benissimo (poi possono piacere o meno) e altri personaggi sospesi tra fantasia e cronaca già sono discutibili: va bene anche questo, e infatti sono gli episodi pretesa aderenza con la realtà a lasciare un po’ così. Si può trasvolare sul dettaglio che lo svincolo autostradale Bologna-Borgo Panigale non c’era (non così) e che pure non esisteva un determinato modello di frigorifero. Si può ritenere imprescindibile che il grattacielo del Pirellone nella fiction appaia già ristrutturato (post incidente aereo del 2002) e che gli spot pubblicitari con la prima campagna ministeriale sull’Aids (quella con le sagome contornate di viola) risalga in realtà all’anno prima, al 1991, come pure la versione del programma «Avanzi» in cui si vedono Serena Dandini e Corrado Guzzanti. Fa niente anche per un divano di design che non era ancora stato disegnato, e pace anche se ormai non c’è scena milanese - ambientata in un bar - che non abbia per location la solita Belle Aurore di via Castelmorrone, sempre quella, due palle: oltretutto lo spacciano come bar vicino al tribunale anche se dista più di sei chilometri. E, oltretutto, nella fiction si vede un ufficiale di polizia giudiziaria che paga e se ne va senza scontrino.
1) Però, egregi autori, verso la fine della seconda puntata compare un mandato d’arresto che sembra disegnato al computer da un bambino: non sono fatti così, a esser precisi non erano neanche più d’arresto: erano i famigerati ordini di custodia cautelare. Nota: quegli interrogatori di gruppo coi tavolini uno affianco all’altro, seriali e con Di Pietro direttore d’orchestra, beh, non esistono e sono ridicoli.
2) Al di là di possibili inesattezze già evidenziate da Mario Chiesa circa il proprio arresto («non esiste nessun verbale che attesti la leggenda della tangente gettata nel water», ha detto) qui non si vuole segnalare un’imprecisione: tuttavia le modalità di quell’arresto, riviste oggi, fanno comunque comprendere quanto fosse diverso l’atteggiamento della magistratura a proposito della custodia cautelare. In Mani pulite, una sola chiamata in correità basterà per incarcerare chicchessia, ma prima di essa Antonio Di Pietro non si fece bastare la confessione di Luca Magni e neppure le intercettazioni telefoniche: predispose banconote segnate (in realtà solo una ogni dieci) e poi microfono e persino una telecamera che non funzionò. Solo allora arrestò Chiesa.
3) Nella fiction si vede un Di Pietro che garantisce riservatezza alla moglie di Mario Chiesa qualora l’avesse aiutato a individuare i conti in Svizzera dell’ex marito. A parte che fu lei a rivelarne l’esistenza agli inquirenti, Di Pietro in realtà la fece attendere per ore e ore in corridoio: e questo proprio per farla vedere ai giornalisti perché scrivessero di lei, cosicché l’ex marito intendesse.
4) A un certo punto un improbabile Di Pietro dice che il processo per direttissima a Mario Chiesa «ho deciso di non farlo». Non andò proprio così, Di Pietro infatti mica poteva decidere diversamente da qualcosa che il suo procuratore capo aveva già annunciato. L’ha raccontato Di Pietro stesso: «Mani pulite s’è fatta perché io - sì, io e solo io -, diciamo per sbaglio, “dimenticai” di depositare gli atti nei tempi prescritti per la direttissima...Borrelli aveva dato pubblicamente l’indicazione di depositare gli atti...erano in vista le elezioni del ’92, la tensione montava... A quel punto, io non ho la forza di dire al dottor Borrelli che non lo faccio perché voglio arrivare a un obiettivo preciso; e allora “mi sbaglio”». Borrelli a suo modo ha confermato: «Non immaginavo che dall’arresto di Chiesa potesse nascere quello che è nato, ma credo che non l’immaginasse nessuno. Non l’immaginava certamente Di Pietro».
5) Non c’è cronaca e sentenza ma soprattutto logica che porti a sostenere che Marcello Dell’Utri abbia pensato d’inventarsi un soggetto politico sin dall’inizio del 1992. Non quando arrestarono Chiesa (l’arresto fu a lungo snobbato) e neanche dopo le elezioni del 5 aprile 1992, che segnò certo un crollo storico della Dc ma perdite minime per il Psi, grande sponsor di Berlusconi. Le cui tv, va ricordato, sin da principio diedero manforte all’inchiesta. È vero che la Lega superò i 3 milioni di voti (quasi il 9 per cento) anche se fanno vedere che un tizio viene candidato quando le liste erano senz’altro già chiuse.
6) Qualche pignoleria. A un certo punto inquadrano il programma «Non è la Rai» trasmesso su Italiauno, ma al tempo andava in onda su Canale 5: passerà a Italiauno solo dal gennaio 1993. Il termine «cinghialone» riferito a Craxi, o cinghiale, non fu di Di Pietro, ma dei cronisti; comparve per la prima volta su l’Indipendente. In un baracchino vicino al Castello Sforzesco si vedono in vedita delle bottigliette di Gatorade che non esistevano. Sciocchezzuola finale: nella fiction si dice che la scuola steineriana «è una delle più care di Milano». Non è vero per niente. Siccome il riferimento è chiaramente ai figli di Berlusconi, andrebbe aggiunto che la sezione scolastica del caso era a Lambrate, e nasceva da una scissione dalla storica scuola steineriana di via Clericetti; era così malmessa che Veronica Berlusconi mandò personalmente degli imbianchini a mettere in ordine le aule.
Bene, ora siamo pronti per le puntate successive.
Tangentopoli:la storia scritta dai vincitori scrive Tiziana Maiolo su “Il Garantista”. Il 1992 mi evoca subito il numero 41, i quarantuno morti suicidi di Tangentopoli, che non hanno potuto scrivere la Storia per ovvie ragioni, ma anche perché la Storia la scrivono i vincitori, e loro erano i vinti. La storia dei Vinti è rimossa con fastidio, dopo che uno dei Pubblici Ministeri di Milano, Gerardo D’Ambrosio, aveva sentenziato, non senza un certo cinismo: «Evidentemente c’è ancora qualcuno che ha il senso dell’onore». Non un dubbio sul fatto che il circo mediatico-giudiziario del disonore che era stato cucito addosso a colpevoli e innocenti sia stato il vero assassino, che ha colpito con violenza la reputazione e la vita di persone che non avevano nessuna possibilità di difendersi, incarcerati, disorientati e sbeffeggiati. Ma dalla parte dei trionfatori, che in occasione della fiction di Sky invadono ogni angolo del pianeta della comunicazione, la storia è stata raccontata come il puro trionfo del Bene sul Male, un gruppo di magistrati-guerrieri senza macchia in lotta contro una classe politica corrotta che ammorbava l’intera società. Sulla scialuppa degli onesti erano saliti ben presto imprenditori in lacrime, giornalisti-coccodè, uomini politici con le tasche traboccanti di rubli, avvocati-accompagnatori alleati del Pubblici Ministeri. Ma la storia di Tangentopoli potrebbe anche essere raccontata come vera Storia Politica, come vicenda che segnò il trionfo massimo di una giustizia di parte, che ebbe come protagonisti magistrati politicizzati e un eroe tutt’altro che “senza macchia”. Che vide complici con le toghe innanzi tutto quegli imprenditori che avevano ben lucrato sul finanziamento illegale ai partiti, a tutti i partiti, e che mai se ne erano lamentati, finché l’arresto di otto di loro fece rendere conveniente agli altri immaginare di esser stati sfruttati. Sono gli stessi che, proprietari di giornali, decisero la campagna del Grande Sputtanamento degli uomini politici, quelli sconvenienti, i non allineati. Quelli che si salvarono dal carcere ripudiando se stessi e la propria storia e accoltellando quelli che erano stati i loro benefattori. La vacca non dava più latte. Non c’era più pane e loro scelsero le brioches. Il girotondo intorno ai protagonisti principali, magistrati e imprenditori, era fatto di avvocati di grandi e piccoli studi, che salivano festosi, ma in ginocchio, le scale fino al quarto piano del Palazzo di giustizia tenendo per mano i proprio assistiti pronti all’autodafè, mentre il Di Pietro di turno li riceveva in ciabatte, rideva e agitava manette. Quelli bravi, quelli amici, riuscivano a salvare l’assistito dal carcere e ne venivano ricompensati. In vario modo e da diverse parti. Avevano dimenticato il codice a casa, molti di questi avvocati, badavano al sodo e basta. C’erano poi i giornalisti-coccodè, i cronisti giudiziari che ogni mattina fiutavano la preda, giovani entusiasti che indossavano con orgoglio la maglietta che inneggiava all’eroe di Mani Pulite, lavoravano in pool e non tornavano mai in redazione a mani vuote, con il carniere pieno di verbali d’interrogatorio ( non erano ancora di moda le intercettazioni ), sicuri che avrebbe apprezzato il direttore, ma soprattutto l’editore, lo stesso che tremava se il campanello di casa suonava troppo presto il mattino. I fiaccolanti forse erano i più innocenti, cittadini che facevano il girotondo intorno al Palazzo, nella speranza-illusione che qualcosa cambiasse. Ma non c’erano solo loro, c’era un po’ di tutto, in quelle manifestazioni, compresi i cinici di nuovi movimenti politici che volevano solo sostituirsi agli altri, e anche quelli che erano sulla scialuppa di salvataggio, comunisti e democristiani di sinistra che si erano finanziati come gli altri, ma che si erano opportunamente alleati ai magistrati. Una folla di indifferenti, mentre ogni giorno saltavano le regole dello Stato di diritto, mentre veniva calpestata la Costituzione, mentre si violavano le competenze territoriali, la libertà personale e i diritti della difesa. Mentre si usava il carcere come tortura per far parlare la gente. Mentre si uccideva. Tanto la Storia la scrivono i vincitori, anche alle spalle dei quarantuno che non ci sono più.
Caro Pietro, servirebbero altri cent’anni…, scrive Piero Sansonetti il 30 marzo 2015 su “Il Garantista”. «Ti romperemo le ossa». Giorgio Amendola sibilò questa frase nell’orecchio di Pietro Ingrao, passandogli vicino nella sala dove si celebrava l’XI congresso del Pci, nel 1966. E non era un modo di dire. Nei mesi successivi Pietro Ingrao e tutti gli ingraiani furono emarginati, esclusi dalla vita politica del gruppo dirigente del Pci, del quale erano stati l’anima. «Ti romperemo le ossa» è una frase agghiacciante, specie se pronunciata da un grande intellettuale, comunista e borghese. Che fosse una frase metaforica non cambia molto, e dice invece molto su cosa fosse esattamente il Pci post-togliattiano, impasto di stalinismo profondo, di conservatorismo, di burocrazia, eppure sempre sulla breccia nella battaglia riformista. Oggi in Italia la sinistra non esiste più. Nel senso letterale della parola. Resta in piedi solo questo tentativo di Maurizio Landini, che però più che altro è un tentativo estremo di difesa, di resistenza. Di difesa dal renzismo. Il renzismo nasce nelle aree del centrosinistra ma si è strutturato come il più serio, robusto e insidioso tentativo di restaurazione classica, conservatrice e di destra. Il partito di Renzi è il partito di massa più di destra che abbia mai operato dalla caduta del fascismo ad oggi. Cos’è che ha spinto così a destra Renzi? L’assenza della sinistra. Renzi non è un leader ideologico, è un amministratore della politica, e non certo un creatore. Si è trovato a operare in un quadro nel quale la caduta e la scomparsa della sinistra ha creato un’onda, o quasi uno tsunami, che spinge tutto a destra, e lui ha seguito quest’onda, ha fatto surf. Quando è morta, in Italia, la sinistra? Non saprei dire la data di morte. Posso dire qual è secondo me la data nella quale iniziò l’agonia. È proprio il 1966, XI congresso del Pci. E non solo. Il ’66 è l’anno successivo alla chiusura del Concilio ed è l’anno che dà alla luce le prime avvisaglie del ’68. È un anno di grande fermento a sinistra. E l’XI congresso è il congresso nel quale il Pci decide come proseguire il suo cammino dopo la scomparsa di Togliatti. Fa i conti con la necessità di entrare nella modernità. Ma ha paura ad entrare nella modernità. Si confrontano e si danno battaglia due ipotesi riformiste molto distanti l’una dall’altra. La prima è quella di Amendola e del segretario Longo, i quali pensano che il Pci debba restare dentro l’idea stalinista di sempre, e cioè la convinzione che il fine della politica sia sempre e comunque e esclusivamente la presa del potere. La via per il potere, in quel momento, era l’avvicinamento al centrosinistra che, sebbene avesse subìto il colpo del ’64 (minacciato golpe militare e alt alle riforme più ardite) restava un solco sul quale camminare, e poteva essere condizionato da sinistra, e poteva, nei tempi medi, includere il Pci nel governo. La seconda ipotesi era quella di Ingrao, che pensava che si dovesse mettere in discussione il modello liberista, come si configurava allora, e che questo fosse possibile sfruttando la forza innovativa e ribelle che veniva dalle nuove generazioni e dal mondo cattolico, spaccando lo schieramento politico dell’establishment e offrendo al paese una modernità nella discontinuità. Ingrao immaginava il ’68, che ancora non era venuto, lo prevedeva, cercava già di indicargli un sentiero politico. E per fare questo poneva un’altra grande questione: la fine del centralismo democratico, l’apertura della discussione libera, della ricerca, del dissenso dentro la partito. Ingrao non era affatto un liberale. Qualche anno fa, l’ultima volta che l’ho intervistato, non sono riuscito a fargli spendere qualche parola buona per la “libertà borghese”, non lo interessava. Ingrao però ha sempre capito che la libertà, un certo grado di libertà, è essenziale per aprire le porte al pensiero e alla ricerca. E al dubbio. E Ingrao pensa che il pensiero, e la ricerca, e il dubbio, siano l’essenziale della politica. Per questo, Ingrao, l’uomo che più si identificava con la storia e la vita del Pci, secondo me, non ha mai avuto niente a che fare con il Pci. E’ la verità: niente a che fare con il Pci. Ingrao fu sconfitto all’XI congresso e messo fuori dai giochi politici. Il Pci restò il partito di Amendola, anche se poi fu chiamato Berlinguer a governarlo. La libertà di pensiero e di dubbio fu bandita. E lo stalinismo restò, temperato dalla burocrazia. La burocrazia diventò la chiave di tutto. Cos’è la burocrazia, in politica? Un meccanismo che attenua, leva via gli spigoli, addolcisce, e garantisce stabilità e strada dritta. È nemica degli eccessi, è utile per cancellare gli orrori maggiori dello stalinismo, ma soprattutto è nemica del pensiero, dell’anticonformismo. Il Pci è stato il partito regno della burocrazia. Cosa poteva farci, Pietro Ingrao, nel Pci? Domani compie cent’anni. Un secolo di battaglie politiche grandiose. Con questo cruccio: spesso ha avuto ragione, molte volte ha avuto paura, sempre ha perso. E con un grande cruccio per noi: se avesse vinto all’XI, e se in Italia fosse nata una sinistra anti-liberista e libertaria, che avesse tenuto sulla corda le classi dirigenti, non avesse accettato la subalternità al pensiero dominante, la storia d’Italia sarebbe stata diversa? In Italia quella sinistra, che è l’unica che può vivere nella modernità, non è mai nata. Ci portiamo ancora appresso la sconfitta dell’XI.
I TESTIMONI DI MANI PULITE.
Vent’anni di Mani Pulite. Quando la giustizia era giustizialista e l’ideale socialdemocratico non era rappresentato dall’ex PCI, scrive Iljester su “Paper Blog”. Quando si parla di ‘Mani Pulite’, il complottismo è un ingrediente quasi inevitabile, ma non tanto perché ci piace, quanto perché ripercorrendo gli eventi di quella stagione, tuttora la domanda è pressante: perché il partito socialista e la democrazia cristiana sì e il partito comunista no? Del resto non credo che Bettino Craxi mentisse quando affermò nell’aprile del 1993, nel suo discorso al Parlamento, che tutto il panorama politico italiano era coinvolto in un sistema di finanziamenti illeciti ai partiti. Era questo un sistema che non poteva non coinvolgere tutti. Non poteva essere che esistessero partiti — soprattutto grandi e potenti (e il PCI-PDS era piuttosto potente) — che lo ignorassero e non lo utilizzassero. Credo invece che ci si volle fermare lì. A un passo dalla completezza dell’indagine che fece crollare mezza Repubblica italiana. E questo rende ancora più evidente l’ingiustizia di quegli anni e l’idea che si volle agevolare una precisa parte politica a danno delle altre. Forse perché quella parte politica ormai era destinata a cadere in disuso, e forse perché il suo vero avversario non era la Democrazia Cristiana, ma il suo stesso partito ‘fratello’, il Partito Socialista, ormai il vero interlocutore a sinistra in un contesto socialdemocratico che teneva fuori i comunisti o gli ex-comunisti dal governo e persino dal PSE. Del resto, analizzando col senno di poi gli eventi di quegli anni ci si accorge come siamo in un contesto storico piuttosto particolare sia dal punto di vista nazionale che internazionale. Abbiamo la caduta del muro di Berlino e la Germania riunita. Abbiamo il dissolvimento dei regimi comunisti in Europa, abbiamo una forte crisi del socialismo reale in mezzo mondo e abbiamo gli attentati mortali (e mafiosi) a Falcone e Borsellino in un contesto di profonda debolezza economica della lira. Un vero e proprio momento di vulnerabilità politico-economica che se non fu orchestrato di sana pianta (e ci sarebbe voluto un Grande Fratello orwelliano per questo) fu comunque sfruttato per azzerare la politica italiana e sostituire come grande interlocutore a sinistra il partito socialista con il neonato partito post-comunista, appena riciclatosi come entità socialdemocratica dopo la fine del Comunismo, che altrimenti rischiava di scomparire nella soffitta delle obsolescenze ideologiche. Dunque, l’idea parve essere questa: ridisegnare il panorama politico italiano, spostando l’asse della politica italiana ancor più a sinistra, con un nuovo (per modo di dire) soggetto politico diverso dal partito socialista ma capace di prenderne il posto anche nel Governo. E Mani Pulite fu lo strumento forse inconsapevole di questo progetto. Fino a che punto poi ci siano state delle responsabilità personali, io sinceramente non lo so. So per certo che quando il Partito Socialista tracollò, trascinandosi dietro la Democrazia Cristiana, e si preannunciarono le elezioni del 1994, il Partito Democratico della Sinistra, l’ex P.C.I. (la mitologica macchina da guerra di Achille Occhetto) pensava già di avere il governo in tasca, forte del fatto che nel panorama politico — visto pure il clima di caccia alle streghe — non vi era (più) nessuna forza politica in grado di contrastarlo. Poi sappiamo come andò a finire quella storia. Ciononostante, i dubbi sulla completa bontà di quella stagione rimangono. L’Italia non è mai stato un paese cristallino (ma del resto, è difficile trovare una nazione che non abbia i suoi scheletri nell’armadio), e niente nel nostro paese è mai accaduto per caso. Perciò, a distanza di venti anni, ci si domanda ancora perché? Perché l’allora PDS, ex PCI, non fu toccato dal vortice giudiziario? Guardando l’Italia degli ultimi venti anni, è difficile credere alla integrale moralità di un partito ed è difficile pensare che quella stagione segnò la fine di un sistema di corruzione politica che tuttora persiste e insiste, coinvolgendo volente o nolente, guarda caso, anche l’erede di quel PCI scampato a Mani Pulite, oggi chiamato PD.
Mani pulite favorì alcuni imputati, scrive Franca Selvatici su “La Repubblica”. "Noi siamo usciti da Mani Pulite perché si è pagato... quelli più bravi di noi non ci sono nemmeno entrati". Così parlò Chicchi Pacini Battaglia nell' ormai celebre sfogo del 10 gennaio 1996. Gli aggiustamenti di tiro e le precisazioni fatte uscire dal carcere non sono bastate a dissipare l'ombra del dubbio sull'inchiesta milanese avviata nel 1992 da Antonio Di Pietro. Dubbi ne hanno, sicuramente, gli investigatori del Gico della Guardia di Finanza, che hanno indagato su Pacini e sulla "banda delle ferrovie". Le recentissime trame del banchiere e dei suoi amici dimostrano - secondo gli uomini delle Fiamme Gialle - che Mani Pulite non ha fatto emergere tutta la verità sulla corruzione. E' un concetto che gli investigatori ripetono più volte nel loro rapporto del 26 luglio ' 96 che ha dato corpo all'inchiesta spezzina e che oggi è - con vasti omissis - allegato agli atti depositati. Del "sodalizio" scoperto dal Gico fanno parte - si sottolinea nel rapporto - anche "vecchie conoscenze delle inchieste cosiddette Mani Pulite, essendo stati peraltro in tale contesto anche arrestati". Ne deriva - secondo gli investigatori - "che tali attività giudiziarie non avevano minimamente inciso sul vincolo associativo; ma anzi i partecipi stavano realizzando nuovi piani delittuosi a testimonianza dell'indissolubilità del vincolo". Il concetto è ulteriormente chiarito in un altro passaggio del rapporto: che "alcuni dei partecipi di attività illecita anche pregressa siano ancora strettamente legati al Pacini e che i capitali accumulati da essi con l'illecita attività siano gestiti dallo stesso Pacini" lo si capisce "dalle quotidiane disposizioni impartite dal Pacini alla segretaria Pensieroso". "Parallelamente - sostengono gli investigatori - tali circostanze dimostrano come il ruolo del Pacini, evidenziatosi nelle indagini condotte dalla autorità giudiziaria di Milano, sia emerso solo parzialmente e come la sua collaborazione con tale autorità giudiziaria sia stata meramente strumentale e rivolta esclusivamente a rendere dichiarazioni tese a limitare i danni". Della "estesa e pericolosissima lobby" che l'inchiesta di La Spezia ha scoperto attiva e rampante ancora nel corso del 1996 facevano parte - sostiene il Gico - anche Publio Fiori, Paolo Cirino Pomicino e Luigi Bisignani: "gli ultimi due vecchie conoscenze delle inchieste Mani Pulite". Ma gli investigatori si spingono più avanti: a loro giudizio, le nuove indagini hanno fatto emergere elementi di prova su "come alcuni partecipi (della lobby, ndr) possano essere stati favoriti da appartenenti alla autorità giudiziaria, in concorso anche con l'avvocato Federico Stella di Milano". Affermazione, a quanto pare, sviluppata in una parte del rapporto coperta da omissis. Le conclusioni del Gico sono molto pesanti. Mani Pulite ha fatto flop. Mani Pulite non ha tagliato alle radici la mala pianta. "Evidentemente - concludono le Fiamme Gialle - la sola via giudiziaria, peraltro notoriamente lunga e incerta, non è servita e non serve a debellare tale fenomeno che sembra connaturato alla vita sociale del nostro Paese. C' è peraltro da sottolineare che la cosiddetta via giudiziaria, già oggettivamente insufficiente vista la carenza di strutture, uomini e mezzi adeguati, appare - sia alla luce di noti fatti di cronaca che dai risultati della presente indagine - resa più difficile se non impossibile da attività contrarie ai doveri d' ufficio, quando non ci si trovi di fronte a vere e proprie partecipazioni associative, di un rilevante numero di appartenenti alla autorità giudiziaria". Soprattutto a Roma - precisano in un altro passo del rapporto - ma forse anche a Milano. Fra gli scampati di Mani Pulite, gli investigatori del Gico iscrivono a pieno titolo l'ex amministratore delle Ferrovie Lorenzo Necci, accusato di corruzione da vari arrestati ma difeso a spada tratta da Pacini Battaglia che da allora - secondo il Gico - lo tiene in pugno ("Sono il suo salvatore della patria", grida in una conversazione) oltre ad amministrarne i risparmi all' estero. Proprio ieri al tribunale del riesame, il pm Alberto Cardino ha depositato due intercettazioni che riguardano la moglie di Necci, Paola Marconi. E' il 22 gennaio 1996. Nei suoi uffici di viale Parioli, Pacini "annota appuntamenti e dazioni di denaro" con la segretaria Eliana Pensieroso (che secondo il Gico ha "accantonato un miliardo di lire nella banca svizzera del principale"). Pacini: "Devi segnà una scheda Paola e una scheda Renzo... Erre". Pensieroso: "Erre". Pacini: "Poi ti spiego tutto. Mi ci scrivi Erre, 1996, e ci metti: 80, 130, 140... fermati, posso sbagliare, Erre te lo do subito... fermati... dov'è? scusa, ecco... cento, cento?". Pensieroso: "... Quaranta mi ha detto: ' 96, 140". Pacini: "' 96, 140, segna". Pensieroso: "L'ho segnati". Pacini: "Ora ti dovresti segnare Paola... e ci scrivi ' 96, 30". Pensieroso: "Allora: '96, 30". Pacini: "E dobbiamo... a Paola... dargliene altri 70... lo puoi mettè fra parentesi, 30 più 70, poi ti si dice quando gli si danno... chiaro?". Qualche giorno più tardi, il 30 gennaio, Pacini e la segretaria fanno il riepilogo. Pensieroso: "Poi vabbè Orlando me lo segno io perché è roba mia... poi ci ho 70. Paola? Lei quel biglietto che le ho dato io me l'ha fatto strappare, però...". Pacini si vanta di avere rapporti privilegiati con alcuni di loro, ma li odia, li teme e li disprezza. "Ricordati bene - dice all'amico Emo Danesi - che tutta la gente ha sempre molta paura, non sa se tu sei controllato, non sa se i giudici ti guardano, non sa se c'hai quei servizi che ti controllano... sei in un merdume". I giudici che gli piacciono sono quelli che incassano e archiviano. Per questo è furioso con Giorgio Castellucci, il pm romano che coordina l'inchiesta sulla Tav e che non la chiude. L' 11 gennaio si sfoga con Danesi: "Io sono stato molto chiaro. Ho detto: ragazzi, chiamate Castellucci e gli dite: ' Hai preso i soldi? Sì. L'hai distribuiti con quegli altri? Sì. Ora hai rotto i coglioni, ora te questa pratica la chiudi perché se non la chiudi te, noi ti mandiamo sul giornale e ti diciamo anche come hai preso i soldi... perché noi ne abbiamo le palle piene". E il 2 febbraio rincara la dose: "Castellucci becca i soldi e incrimina gli altri... quello (Renato Squillante, ndr) becca i soldi e ci rompe i coglioni...". Il 19 febbraio Alessandra, figlia di Lorenzo Necci, si consiglia con Pacini Battaglia sul suo futuro politico. "Alle quattro vedo Letta per parlare un attimino del mio collegio", annuncia. Pacini è perplesso: "Io sono convinto che lui (il papà di Alessandra, ndr) non si schiera con Forza Italia... te fai Forza Italia e lui no... è troppo ridicolo". Alessandra: "Perché tu dici che lui si schiera a sinistra?". Pacini: "Lui credo che non si schieri da nessuna parte, poveromo, perché da qualsiasi parte si schiera lo fanno a pezzi...". Ma Alessandra è tentata e allora Pacini le suggerisce di fare una bella intervista, o meglio di farla fare a papà, per spiegare che lei è maggiorenne e ha fatto tutto di testa sua. Pacini: "Lo deve far papà, non tu... lo fai te dicendo: io ho preso la decisione contro il volere di mio padre...". Poi Pacini spiega ad Alessandra come pagarsi la campagna elettorale: "Io muovo i fondi neri, tu ti fai sponsorizzare da Ciarrapico, che c'ha tutti i soldi lui, e prendi Mazzi, Todini, Salini, è già risolto, lo mettono nel loro bilancio, alla luce del sole".
Dallo Ior a Mani pulite: le verità di Bisignani. Le rivelazioni nel libro intervista di Paolo Madron, scrive “Lettera 43”. Il destino dello Ior, che papa Francesco «ha intenzione di riformare trasformandolo in una vera banca della solidarietà al servizio dell'evangelizzazione». I rapporti dei servizi segreti degli Stati Uniti con Beppe Grillo. E il gotha della finanza, da Agnelli a De Benedetti, che «cercò disperatamente di bloccare il pool dei giudici di Milano» nell'inchiesta Mani pulite. Ne L'uomo che sussurra ai potenti, nel libro scritto con Paolo Madron, ed edito da Chiarelettere (in libreria dal 30 maggio) Luigi Bisignani alza il velo su fatti centrali della recente storia politica italiana, come la «congiura» di Alfano e Schifani alle spalle di Berlusconi prima che lo stesso Cavaliere annunciasse la sua nuova discesa in politica alle elezioni politiche di febbraio 2013. «Secondo alcune autorevoli indiscrezioni», svela, papa Francesco ha intenzione di fare della banca vaticana «uno strumento di aiuto per le chiese povere e per le missioni sparse nel mondo. I centri missionari saranno uno dei punti fondamentali di papa Francesco, secondo la miglior tradizione dei gesuiti». Secondo Bisignani, la riforma dello Ior avverrà attraverso la riclassificazione di tutti i conti e saranno «autorizzati solo quelli che fanno capo ufficialmente a congregazioni e ordini religiosi. Nessuno potrà più gestire fondi, depositi e titoli se non nell'esclusivo interesse di enti religiosi». Bisignani ha quindi spiegato che «la Curia conosce bene le sue intenzioni». «Non fu un caso se nel conclave precedente, per scampare il pericolo della sua salita al soglio pontificio come voleva il suo grande elettore di allora, Carlo Maria Martini, gesuita come lui, gli fu preferito Ratzinger. Meglio conosciuto nei palazzi apostolici e quindi considerato più malleabile». I rapporti dei servizi segreti degli Stati Uniti con Beppe Grillo sono il tema di un altro capitolo del libro- intervista. Bisignani oltre a raccontare una vicenda già conosciuta come il pranzo tra Beppe Grippo e alcuni agenti e diplomatici amercani e il dispaccio dell'ex ambasciatore Ronald Spogli, aggiunge: «Avendo avuto anch'io il dispaccio in mano, c'è qualcosa che andrebbe approfondito» in quanto sono stati occultati «chirurgicamente quasi tutti i destinatari sensibili» tra cui oltre alla Casa Bianca, al dipartimento di Stato e alla Cia «c'è da scommetterci ci fosse il dipartimento dell'Energia e la National secuity agency, che si occupa soprattutto di terrorismo informatico». «Agli americani è noto il rapporto strettissimo che Grillo ha con due loro vecchie conoscenze. Franco Maranzana, un geologo controcorrente di 78 anni, considerato il suo più grande suggeritore su tematiche energetiche e ambientali non politically correct, in contrasto così con la linea ecologica che viene attribuita al movimento. E soprattutto Umberto Rapetto, un ex colonnello della guardia di finanza». Secondo Bisignani l'incontro con Grillo dovrebbe essere avvenuto nel marzo del 2008 in quanto il rapporto dell'ambasciatore Spogli dal titolo Nessuna speranza. Un'ossessione per la corruzione reca la data del 7 marzo 2008. Con ogni probabilità, secondo Bisignani, quel documento è finito nelle mani del presidente Obama. Quindi fornisce le conclusioni del rapporto sulle idee di Grillo: «La sua miscela fatta di spumeggiante umorismo, supportata da dati statistici e ricerche, fa di lui un credibile interlocutore per capire dal di fuori il sistema politico italiano». Inoltre, racconta che dopo le elezioni del febbraio scorso una delegazione di grillini «capeggiata dai due capigruppo in parlamento, Vito Crimi e Roberta Lombardi, è andata a omaggiare l'ambasciatore David Thorne. Lo stesso che, parlando agli studenti, ha pubblicamente lodato il nuovo movimento come motore necessario per le riforme di cui ha bisogno l'Italia». La fortezza in cui si arroccò il capitalismo per respingere l'offensiva giudiziaria di Mani pulite contro il sistema delle tangenti fu «Mediobanca». «Fu lì», racconta Bisignani, «che si tenne una riunione riservata presieduta da Enrico Cuccia, il custode di tutti i segreti. Vi presero parte, oltre all'avvocato Agnelli e a Cesare Romiti, Leopoldo Pirelli accompagnato da Marco Tronchetti Provera, Carlo De Benedetti, Giampiero Pesenti, Carlo Sama per il Gruppo Ferruzzi e ovviamente l'amministratore delegato dell'istituto Vincenzo Maranghi». Proprio Maranghi, dopo una perquisizione della polizia giudiziaria a Piazzetta Cuccia, organizzò nella notte «un pulmino che portò via tutte quelle carte dal contenuto inquietante» che non erano state scoperte. Agli investigatori era infatti sfuggita una parete mobile «celata dietro una libreria in una delle sale del piano nobile dell'istituto, dove si custodivano altri segreti». Secondo Bisignani, «tutta la storia di Mediobanca è fitta di episodi simili» a quello sul 'pulmino' di Maranghi, come il caso dei fondi neri scoperti nella Spafid, la fiduciaria di Mediobanca che «custodiva la contabilità ufficiale e parallela dei grandi gruppi», fino alle «carte segrete su Gemina» rinvenute in «una botola» dalla guardia di finanza. Tornando alla riunione 'anti-pool' in Mediobanca «fu unanimemente decisa la totale chiusura a ogni possibile collaborazione con la procura di Milano» nonché la «perentoria denuncia dei metodi che stavano destabilizzando il paese e la sua economia». Cuccia incaricò Romiti di «coordinare ogni iniziativa» e ordinò «a quegli imprenditori che avevano interessi nell'editoria» di supportare la linea «senza tentennamenti». Il fronte però si sfaldò presto un po' perché i tg di Berlusconi, che «all'epoca non faceva parte del giro di Mediobanca», cavalcarono l'onda di Mani Pulite ma soprattutto perché le delle ammissioni di un dirigente Fiat «fecero cambiare radicalmente la strategia decisa» facendo scattare il «tana libera tutti».
Ci fu una regia occulta degli Usa dietro Mani pulite? Le rivelazioni dell'ex ambasciatore americano. L'ex ambasciatore americano in Italia Bartholomew, prima di morire, racconta che intervenne per spezzare i legami tra il Consolato Usa a Milano e il pool di Mani pulite, scrive Orlando Sacchelli il 29/08/2012 su “Il Giornale”. Domenica scorso è morto Reginald Bartholomew, ambasciatore degli Stati Uniti in Italia dal 1993 al 1997. Aveva 76 anni e servì il suo Paese sotto la presidenza di Bill Clinton. Prima di morire ha voluto togliersi alcuni sassolini dalle scarpe, raccontano dettagli inediti sulla sua esperienza nel Belpaese in quelli che furono anni molto caldi, in piena "Mani pulite", con la crisi finale (e poi la scomparsa) della Prima Repubblica e la nascita della Seconda. "Quella era la stagione di Mani Pulite - racconta l'ex ambasciatore - un pool di magistrati di Milano che nell’intento di combattere la corruzione politica dilagante era andato ben oltre, violando sistematicamente i diritti di difesa degli imputati in maniera inaccettabile in una democrazia come l’Italia". Sembra di risentire le parole di Bettino Craxi. Invece no. A puntare il dito contro certi metodi è un uomo non coinvolto direttamente nello scontro politico italiano. Un personaggio che potremmo definire super partes. "La classe politica si stava sgretolando - ha ricordato Bartholomew - ponendo rischi per la stabilità di un alleato strategico nel bel mezzo del Mediterraneo". Qualcosa, aggiunge, nel consolato a Milano "non quadrava". L’ex ambasciatore quel punto "rivendica il merito di aver rimesso sui binari della politica il rapporto fra Washington e l’Italia". In che modo? Pose fine a quello strano legame diretto che si era creato tra il Consolato e il pool di Mani pulite - tollerato dal suo predecessore Peter Secchia - e riportò la gestione dei rapporti a Roma, all'ambasciata. Potrebbe essere la conferma, sia pure indiretta, dell'esistenza di un rapporto tra gli Usa e l'inchiesta che spazzò via la classe politica che aveva governato l'Italia per oltre 40 anni. Una "manina" oltreoceano aveva schiacciato il bottone per far saltare tutti i vecchi equilibri (ormai superati vista la caduta del Muro) e ridisegnare la politica nel nostro Paese? L'ex ministro socialista Rino Formica alcuni mesi fa parlò del ruolo che, a suo dire, avrebbe giocato l'Fbi. Bartholomew racconta a Molinari anche di un'importante iniziativa che prese. Quella di far venire a Villa Taverna (sede dell'ambasciata Usa a Roma) il giudice della Corte Suprema americana Antonino Scalia, approfittando di una sua visita in Italia. Gli fece incontrare "sette importanti giudici italiani" e li spinse a confrontarsi sui metodi usati dalla Procura di Milano. "Nessuno obiettò quando Scalia disse che il comportamento di Mani pulite con la detenzione preventiva violava i diritti basilari degli imputati", andando contro i "principi cardine del diritto anglosassone". Il racconto poi vira sui nuovi interlocutori politici degli Usa dopo il disfacimento della vecchia classe politica: D'Alema, Fini e, inevitabilmente, Berlusconi. Il Cavaliere si presentò accompagnato da Letta e "voleva il mio imprimatur per la sua entrata in politica". C'è anche un curioso aneddoto su Prodi, che si offese a morte per non essere stato ricevuto alla Casa Bianca dopo il suo ingresso a Palazzo Chigi nel 1996. Bartholomew si sofferma anche sull’avviso di garanzia a Berlusconi del 1994, che fu anticipato dai giornali quando Berlusconi presiedeva, a Napoli, i lavori per la Conferenza mondiale sulla criminalità organizzata, sotto l'egida dell'Onu. L'ex ambasciatore rivela che fu "un’offesa al presidente degli Stati Uniti, perché era al vertice e il pool di Mani Pulite aveva deciso di sfruttarlo per aumentare l’impatto della sua iniziativa giudiziaria contro Berlusconi". C'è un po' di confusione sulle date: l'avviso, infatti, arrivò il 21 novembre 1994 e non nel luglio precedente durante i lavori del G7. La sostanza però non cambia di molto. Alcuni osservano che Bartholomew fu ambasciatore in Italia proprio negli anni in cui prese corpo il grande piano di privatizzazioni (o svendita?) del patrimonio pubblico del nostro Paese, pianificato a bordo del panfilo reale Britannia nel giugno 1992. Ma questo è un altro mistero su cui presto, forse, bisognerebbe provare a fare piena luce. Parlando a Radio 24 Antonio Di Pietro ha commentato la ricostruzione dell'ex ambasciatore: "Queste cose dette da una persona che non c’è mi spingono a dire 'pace all’anima sua'. Altrimenti l’avremmo chiamato immediatamente a rispondere delle sue affermazioni per dirci 'chi, come, dove e quando'. Io non ho mai incontrato questo Bartholemew, invece so che gli Stati Uniti all’epoca furono molto collaborativi per quanto riguarda le rogatorie che noi effettuammo. Vent’anni dopo una persona fa delle affermazioni in relazione a comportamenti che lo stesso suo Paese ha fatto in modo totalmente diverso, mi sembra una cosa che non ha né capo né piedi. Bartholemew è una persona che vuole sconfessare se stesso e il suo Paese e quindi non fa onore al suo Paese, ma ripeto non c’è più quindi pace all’anima sua". Di tutt'altro avviso è Bobo Craxi, responsabile Esteri del Psi nonché figlio dell'ex leader socialista: ""Appare con tutta evidenza l’inquietante intreccio, nel 1992-94, tra il pool dei magistrati milanesi e il Consolato generale dell’alleato americano. La mano straniera che ha orientato il golpe mediatico-giudiziario non è un’invenzione, ma è rivelato dalle parole del diplomatico americano: c’è materia per storici e per politici. Se non vi fosse anchilosi, bisognerebbe per lo meno promuovere una commissione d’inchiesta". Ma secondo Bobo Craxi "non verrà fatta neanche un’interrogazione parlamentare, in questa legislatura". Per Stefania Craxi (Riformisti italiani) "la verità si fa lentamente strada". La primogenita di Bettino Craxi si domanda: "Come mai nessuno si agita per proporre una Commissione parlamentare di inchiesta, l’unico strumento che potrebbe forse squarciare il fitto velo di ipocrisia che ancora copre quella torbida stagione?". Si fa sentire anche l'ex procuratore capo di Milano ai tempi di Mani pulite, Francesco Saverio Borrelli: "Mi stupiscono queste dichiarazioni perché provengono da un americano e se ci sono prassi poliziesche o carcerarie contrarie ai diritti dell’uomo sono proprio certe prassi seguite negli Usa". Anche lui, come Di Pietro, dice di non voler polemizzare con un defunto, ma respinge in modo secco quelle dichiarazioni "perché non c’è nulla di fondato". Gherado Colombo e Pier Camillo Davigo, invece, preferiscono non commentare.
La verità scottante dell'ex console americano: "Di Pietro mi anticipò l'inchiesta su Craxi e la Dc". Semler, console Usa a Milano ai tempi di Tangentopoli: "Alla fine del '91 Di Pietro mi anticipò l'arresto di Chiesa". E l'ex pm cosa dice? Continua a smentire, scrive Orlando Sacchelli, il 30/08/2012 su “Il Giornale”. L'ex ambasciatore degli Stati Uniti in Italia, Reginald Bartholomew, prima di morire ha svelato a un giornalista de La Stampa, Maurizio Molinari, gli stretti legami tra il Consolato americano di Milano e il pool di Mani pulite. Un retroscena inquietante. Subito Di Pietro e Borrelli sono scattati sulla difensiva. Il primo minacciando querela (come al solito), il secondo argomentando che "se c'è qualcuno che viola i diritti umani sono proprio gli americani" (Batholomew ha accusato il pool di aver operato violando in modo inaccettabile i diritti della difesa). Oggi tocca a Peter Semler, 80 anni, ex console degli Stati Uniti a Milano, dare la propria versione dei fatti. L'uomo che avrebbe avuto un filo diretto con Di Pietro in un'intervista a La Stampa racconta particolari molto interessanti. "Parlai con Di Pietro, lo incontrai nel suo ufficio, mi disse su cosa stava lavorando prima che l'inchiesta sulla corruzione divenisse cosa pubblica. Mi disse - aggiunge - che vi sarebbero stati degli arresti". Altri dettagli su cui riflettere: i due si incontrarono alla fine del 1991 ("credo in novembre", dice Semler). E Di Pietro cosa fa? Preannuncia al console americano che l'esponente socialista milanese Mario Chiesa stava per essere arrestato (le manette scattarono il 17 febbraio 1992). Ma che interesse aveva, il pm, a svelare il contenuto - segreto - delle proprie indagini a un diplomatico americano? Semler va avanti e racconta: "Mi disse (Di Pietro, ndr) che le indagini avrebbero raggiunto Bettino Craxi e la Dc. Aveva ben chiaro dove le indagini avrebbero portato". Preveggenza? Semplice fiuto di ex poliziotto? O qualcosa di più? Gli interrogativi sono tanti. L'ex console prosegue parlando del viaggio di Di Pietro negli Stati Uniti: "Sono stato io a suggerire all'ambasciata di Roma di invitarlo, poi fu il Dipartimento di Stato a organizzargli il viaggio. Avvenne dopo l'inizio delle indagini". E il suo giudizio sull'ex pm a distanza di anni resta molto positivo: "Era un personaggio straordinario, cambiò l'Italia". Insomma, Semler conferma quanto raccontato da Bartholomew. Di Pietro continua a respingere al mittente ogni accusa. E in un'intervista a La Stampa puntualizza: "Mani pulite non è cominciata nel '92. E' cominciata a metà degli Anni Ottanta con una serie di inchieste che portarono a nulla per ragioni politiche... noi invertimmo il percorso. Che Dc e Psi e anche il Pci fossero partiti corrotti in Italia lo sapevano tutti. In fondo Mani pulite fu la scoperta dell'acqua calda". Sappiamo bene, però, che a essere spazzati via furono i partiti che erano al governo. L'ex Pci si salvò. E sugli "strani" rapporti con Semler? Di Pietro ammette, ma solo in parte: dice che lo incontrava perché lui (l'ex console) lo desiderava: "Faceva il suo lavoro, voleva capire e capì perfettamente". Poi dice: "Non ho mai violato il segreto istruttorio". Semler, però, dice il contrario. Uno dei due mente.
Lo strano legame degli Usa con il pool di Mani pulite, scrive “Il Giornale”. La regia degli Usa dietro Mani pulite. O meglio, un legame troppo stretto fra Washington e il Pool di Antonio Di Pietro. Una liason che passava attraverso il consolato di Milano. È una voce autorevole, anzi autorevolissima, quella che a tanti anni di distanza dà corpo a una delle leggende che accompagnarono la Rivoluzione italiana: quella che sosteneva la vicinanza fra l'establishment statunitense e i pm della Procura di Milano. A confermare quella lettura inquietante di uno dei periodi più controversi e drammatici della storia italiana è, nientemeno, l'ex ambasciatore in Italia Reginald Bartholomew. Le sue parole sono state raccolte circa un mese fa da Maurizio Molinari della Stampa e il colloquio è stata pubblicato ieri dal quotidiano torinese, tre giorni dopo la morte del diplomatico, avvenuta domenica a 76 anni in un ospedale di New York. Bartholomew, ricorda Molinari, fu catapultato a Roma in piena tempesta. Mani pulite era scoppiata il 17 febbraio dell'anno precedente, il 1992, con l'arresto di Mario Chiesa e il Pool macinava arresti su arresti. L'Italia era di fatto nelle mani di un gruppetto di magistrati, osannato dall'opinione pubblica: Antonio Di Pietro, Piercamillo Davigo, Gherardo Colombo, Gerardo D'Ambrosio, il coordinatore, il procuratore della Repubblica Francesco Saverio Borrelli. Clinton, preoccupatissimo per la piega che aveva preso il nostro Paese, di fatto in decomposizione, decise di puntare su un ambasciatore non politico. Finalmente nel '93 ecco il veterano del Foreign Service in Via Veneto. «Qualcosa non quadrava - è il suo racconto - nel rapporto fra il consolato Usa di Milano e il pool Mani pulite», un gruppo di magistrati «che nell'intento di combattere la corruzione dilagante era andato ben oltre violando sistematicamente i diritti di difesa degli imputati in maniera inaccettabile in una democrazia come l'Italia, a cui ogni americano si sente legato». Dunque, come si può capire, la realtà era molto complessa. Ma la sostanza era che l'allora console generale a Milano Peter Semler aveva dato disco verde a Borrelli e ai suoi pm. E questo per Bartholomew era inaccettabile. Se il suo predecessore a Villa Taverna aveva lasciato fare, lui decise che così non si poteva andare avanti. Bartholomew, su cui Clinton aveva scommesso, era convinto che la nuova Italia, uscita dalle macerie della prima repubblica, dovesse essere disegnata da una nuova classe politica e non da un manipolo di toghe. «D'ora in avanti - svela il diplomatico, riferendosi a quel rapporto speciale fra il consolato e il palazzo di giustizia - tutto ciò con me cessò». Anzi, Bartholomew prese alcune iniziative per sensibilizzare l'establishment americano su quel che stava avvenendo nelle aule di giustizia italiane. Qualcosa che andava ben oltre i confini dello stato di diritto. Così l'ambasciatore fece venire a Villa Taverna «il giudice della Corte Suprema Antonino Scalia, sfruttando una sua visita in Italia, per fargli incontrare sette importanti giudici italiani e spingerli a confrontarsi con la violazione dei diritti di difesa da parte di Mani pulite». Infine Bartholomew parla di quel che accadde nel'94 con l'avviso di garanzia a Berlusconi e in realtà sembra pasticciare con le date mescolando l'arrivo in Italia per il G7 di Clinton, nell'estate, e l'emissione del provvedimento giudiziario che colpì il premier, recapitato direttamente in edicola dal Corriere della Sera in autunno, nel corso di una conferenza internazionale contro la criminalità. «Si trattò - spiega lui - di un'offesa al presidente degli Stati Uniti, perché era al vertice e il pool di Mani pulite aveva deciso di sfruttarlo per aumentare l'impatto della sua iniziativa contro Berlusconi». «Gliela feci pagare - è la secca conclusione - a Mani pulite». Come? Forse altre rivelazioni arriveranno con una seconda probabile puntata, ma certo Barholomew racconta di aver tessuto freneticamente la tela dei rapporti con i politici emergenti: D'Alema, Berlusconi, Fini. Ignorò invece completamente Di Pietro e soci. «Queste cose dette da una persona che oggi non c'è più - ribatte ai microfoni di Radio24 Antonio Di Pietro - mi spingono a dire pace all'anima sua. Altrimenti l'avremmo chiamato immediatamente a rispondere delle sue affermazioni per dirci chi, come, dove e quando. Io - aggiunge l'ex pm - non ho mai incontrato questo Bartholomew, invece so che gli Usa all'epoca furono molto collaborativi per quanto riguarda le rogatorie». Ancora più duro Francesco Saverio Borrelli: «Mi stupiscono queste dichiarazioni perché provengono da un americano e se ci sono prassi poliziesche o carcerarie contrarie ai diritti dell'uomo sono proprio certe prassi seguite negli Usa. Non voglio polemizzare con un defunto, ma respingo quelle dichiarazioni e valutazioni radicalmente, perché non c'è nulla di fondato». Per Bobo Craxi, figlio di Bettino, Bartholomew narra invece quel che si è sempre sospettato: «La mano straniera che ha orientato il golpe non è un'invenzione e esprimere stupore e sorpresa per l'intervista sarebbe persino riduttivo». E il capogruppo del Pdl alla Camera Fabrizio Cicchitto si sofferma sui «singolari rapporti fra il consolato di Milano e Di Pietro», riproponendo una domanda antica: «Ma chi era Di Pietro?».
Da Chiesa all’avviso a Berlusconi. I segreti dell’inchiesta e di uno scoop. Protagonisti e retroscena dell'inchiesta che ha cambiato l'Italia, scrive Goffredo Buccini su “Il Corriere della Sera”. Eravamo giovani, pensavamo che il bene stesse tutto di qua e il male tutto di là. Mani pulite la vedemmo così, dall’inizio e per molto tempo. Mario Chiesa l’avevano preso del resto come un magliaro, mentre cercava di buttare nel water una mazzetta da sette milioni d’allora, lirette: il cattivo ridotto a caricatura per punizione. In quei primi giorni girava una battuta tra noi, nella sala stampa del Palazzo di Giustizia: «Figuriamoci se parla!». Al tempo, non usava. Infatti l’ingegnere amico di Bettino Craxi, che si sognava sindaco di Milano ed era frattanto diventato signore e padrone della «Baggina», l’ospizio dei milanesi con un patrimonio immobiliare miliardario, se ne restò muto come un pesce nelle prime settimane a San Vittore. Aveva due insidiose spine nel fianco, è vero: Luca Magni, il piccolo imprenditore che, strangolato dalle tangenti, s’era rivolto al capitano dei carabinieri Roberto Zuliani per disperazione e l’aveva inguaiato; e Laura Sala, che di Chiesa era la moglie separata, e aveva cominciato a raccogliere per la causa civile carte bancarie che sarebbero poi diventate micidiali in mano agli investigatori. Tutto sommato, però, il primo arrestato di Mani pulite aveva fondati motivi per essere fiducioso e per pensare che stavolta non fosse diversa dalle altre. Quando, sette anni prima, avevano portato in galera Antonio Natali, presidente della Metropolitana milanese e imbuto delle tangenti per i partiti di maggioranza e opposizione, Craxi in persona s’era mosso, da presidente del Consiglio, per fargli coraggio con una calorosa visitina in cella. Poi lo aveva fatto eleggere senatore, e allorché Saverio Borrelli aveva chiesto l’autorizzazione a procedere, il Senato gliel’aveva negata tra applausi da centro, destra e sinistra dell’emiciclo, raccontano i verbali della seduta. L’inchiesta Mani pulite poteva cominciare già nell’85, ma allora i partiti comandavano, gli imprenditori avevano il loro tornaconto, le ruberie finivano sotto la voce «costi della politica» e tutti facevano finta che fosse normale. «Figuriamoci se parla!», ci dicevano quindi vecchie lenze della giudiziaria come Annibale Carenzo o Adriano Solazzo, al bar senza orpelli di via Freguglia che odorava di mensa aziendale, in un Palazzo di Giustizia che, come loro, ne aveva vissute tante ma era assolutamente marginale nella mappa del reale potere cittadino e mai aveva visto un politico finire e restare seriamente impigliato nella rete. Chiesa lo sapeva. E aspettava con calma che venisse qualcuno a liberarlo. Lo chiamavano «il Kennedy di Quarto Oggiaro» per via del ciuffo giovanilista. Dal Pio Albergo Trivulzio, la «Baggina» per la sua collocazione nella periferia grigia e dignitosa di Baggio, questo manager svelto di mano aveva distribuito case a prezzi stracciati ad amici e amici degli amici, giornalisti inclusi, e aveva tenuto la borsa aperta per le bustarelle socialiste del dopo-Natali. Ne sapeva insomma abbastanza per essere convinto di finire tra i salvati con un trattamento simile all’antico boss della Metro, che di Craxi era ritenuto da molti il papà politico. Il 17 febbraio Ettore Botti, capocronista del Corriere, richiamò chi era di corta: al telefono di casa, perché i cellulari (giganteschi e pesanti, Fabio Poletti di Radio Popolare usava uno zaino per portare il suo, da campo...) ce li avrebbero «cuciti» addosso solo di lì a poco, quando l’inchiesta sarebbe diventata un lavoro senza pausa dalle nove di mattina alle due di notte. Ettore era un napoletano che aveva fatto strada a Milano: calvinista creativo, generoso e iracondo, detestava intrallazzi e intrallazzatori e s’era puntato già da un pezzo la fasulla icona della metropoli da bere che nascondeva party alla coca, modelle alla Terry Broome e tanta, tanta politica marcia. «Questo è uno grosso, ma chissà se parla», disse. Era già un passo avanti rispetto al «figuriamoci» di noi ingenui, Ettore aveva fiuto e talento. A Milano giravano del resto da anni barzellette sui socialisti ladri, e finivano per insozzare così la migliore tradizione d’una città governata per decenni da socialisti e socialdemocratici perbene, quelli come Bucalossi o Aniasi, che avevano fatto la Resistenza, creato una metropoli operosa e aperta, incoraggiato una cultura di cui Streheler e il Piccolo Teatro erano solo la manifestazione più visibile. Prima che arrestassero Chiesa un ragazzo di bottega della cronaca giudiziaria poteva imparare molto sull’inossidabilità di certa politica, assistere allo smantellamento del processo per le tangenti Icomec, agli inutili sforzi del sostituto procuratore Francesco Greco per acciuffare ancora e sempre Natali, reso inattaccabile dal Parlamento. Si intuiva una corruzione «sistemica», come nel caso delle bustarelle all’assessorato per l’Edilizia privata, con l’ufficetto parallelo da cui Sergio Sommazzi velocizzava le pratiche dei grandi costruttori milanesi. Di gente come Silvano Larini si parlava a mezza voce, come di una fantomatica foto di Craxi col boss Epaminonda che tutti cercammo e nessuno trovò mai: nelle notti di Brera balordi e politici, fandonie e perdizioni si mischiavano in un cocktail fascinoso come una canzone della Vanoni. Il primo squarcio davvero imbarazzante, e subito richiuso, venne da un’inchiesta pittoresca, cui pochi crederono davvero. A fine anni Ottanta, nel nucleo operativo dei carabinieri di via Moscova lavorava un tenente toscano con una faccia da bambino che gli faceva dimostrare persino meno della sua età. Si chiamava Sergio De Caprio, tutta Italia l’avrebbe conosciuto più tardi come il Capitano Ultimo capace di piantare una Beretta sulla faccia di Totò Riina. A Milano s’inventò la Crimor, la squadretta specializzata contro boss e picciotti, mettendo insieme gli avanzi delle altre sezioni, mattocchi come lui che nessuno voleva tra i piedi. Usavano nomi di battaglia come Aspide o Vichingo, si mimetizzavano per settimane vivendo come i sospetti che pedinavano, piazzavano cimici ovunque. Seguendo Tonino Carollo, rampollo ripulito del clan Fidanzati che assieme a un gruppo di immobiliaristi sognava di lottizzare terreni a sud di Milano, finirono per inciampare in Attilio Schemmari, potente assessore all’Urbanistica, e a sfiorare Paolo Pillitteri, primo cittadino e cognato di Craxi, che quando entrava a San Siro si faceva precedere in tribuna vip da un portavoce capace di dire seriamente frasi come «fate largo, sta passando il sindaco». In Procura c’era una giovane pm, Ilda «la Rossa» Boccassini, che a volte superava per passione certi limiti e che, tanto per avviare l’interrogatorio della moglie d’un indagato, le chiese: «Signora, lo sa che suo marito ha un’amante?». L’inchiesta di Ilda e Ultimo la chiamammo Duomo Connection, senza molta fantasia, il grande intrigo di Pizza Connection era di pochi anni prima: costò il futuro politico a Schemmari (un altro che, come Chiesa, si sognava sindaco) ma arrivò meno lontano di quanto immaginassimo. Presero un po’ di colletti bianchi, qualche prestanome, Pillitteri fu lambito con cautela, nei giornali di Milano il Psi contava parecchio. Questa era la città dove tutto incominciò. Tonino Di Pietro ha raccontato di recente a Marco Damilano che, prima delle vacanze di Natale del 1991, ci fu una riunione tra i rappresentanti degli imprenditori e i segretari amministrativi dei partiti nazionali. Le «migliori imprese», un centinaio, erano tutte coinvolte nel sistema, ha ricordato. Si stabilirono le percentuali, quella volta: 25 per cento alla Dc, 25 al Psi, 25 ai ministri in carica dei partiti minori, 25 al Pci-Pds non in forma di quattrini ma di quota lavoro per le cooperative. Un anno prima di pizzicare Chiesa, Tonino aveva descritto nel numero di maggio di Società Civile il sistema della dazione ambientale, dove salta il confine tra corruzione e concussione, e chi deve pagare non aspetta nemmeno la richiesta perché sa che in quell’ambiente così fan tutti. A Natale 1991, il sistema aveva ormai una sua contabilità condivisa. Ma i soldi stavano finendo, e con essi andava logorandosi il patto che tutto teneva. In questa Milano, Di Pietro era l’archetipo dell’outsider furbo e deciso a salire in alto. Stava nella stanza 254 della Procura, esattamente all’altro capo del lunghissimo corridoio che si dipanava dagli uffici del procuratore Borrelli: un segno di marginalità, perché il peso dei sostituti si misurava con la prossimità al capo. Eppure Tonino ne faceva anche un tratto di indipendenza. Andava per le spicce. Quattro anni prima, indagando sulle patenti facili, aveva arrestato un centinaio di esaminatori e esaminandi, li aveva fatti portare in una caserma della stradale e li interrogava sbraitando, agitandosi, passando a grandi falcate da un terzo grado all’altro, con un innato senso scenico. Aveva messo in piedi anche lui una squadretta come quella di De Caprio. Ma i suoi moschettieri, raccolti in prevalenza tra poliziotti e vigili urbani, non sembravano pervasi dal sacro fuoco come i carabinieri di Ultimo. Comunicavano un senso di trattativa. Come Tonino. Rocco Stragapede, il più fedele, ciabattava come Tonino, come Tonino ammiccava, lasciandoci passare infine con il sussiego d’un maggiordomo fidatissimo. Lui ci riceveva nella 254 coi piedi sulla scrivania, si tirava su i calzoni e si grattava le caviglie con voluttà: chiamava tutti noi, ragazzini borghesi dagli studi facili, «dottori», un po’ con rispetto e un po’ con ironia. Faceva il Bertoldo, stava sperimentando un personaggio, il figliolo di mamma Annina, il contadino di Montenero di Bisaccia emigrato al nord, laureato chissà come mentre faceva mille lavori e assurto infine alla gloria della toga: noi non sapevamo nemmeno dove fosse Montenero di Bisaccia. Se recalcitrava nel darci qualche notizia talvolta banale, lo punivamo storpiandogli il cognome tutti insieme, nei pezzi del giorno dopo: diventava per refuso Antonio Di Dietro, e allora borbottava senza prendersela più di tanto. Eravamo tutti attorno ai trent’anni, la sala stampa non era ancora affollata dai colleghi delle tv, i vecchi marpioni della giudiziaria non credevano s’andasse lontano e lasciavano fare a noi ragazzini. In quei primi giorni d’inchiesta, la scoperta di una seconda cassaforte segreta di Chiesa ci apparve una notizia clamorosa e definitiva. Nemmeno Di Pietro immaginava fino in fondo dove si sarebbe arrivati. Borrelli, figlio d’arte (il padre Manlio era stato presidente di corte d’appello), napoletano raffinato e certo non inviso dapprincipio ai salotti politici della città, l’aveva sempre guardato dalla siderale distanza del corridoio, entomologo illustre che contempla una curiosa specie d’insetto: continuava a gravarlo di processetti per droga, finché una parola sbagliata cambiò il corso degli eventi come una valanga. L’ingegnere della Baggina aveva resistito quando Di Pietro gli aveva scovato in Svizzera i conti Levissima e Fiuggi e, beffardo, aveva sibilato all’avvocato Diodà: «Riferisca al suo cliente che l’acqua minerale è finita». Crollò quando Craxi, sotto una pressione popolare inattesa che di lì a poco sarebbe sfociata nel terremoto elettorale del 5 aprile (crollo del pentapartito, primo boom della Lega), gli affibbiò il famoso epiteto di «mariuolo»: una mela marcia isolata, insomma. C’era un prefabbricato giallo al centro del cortile della procura: attorno carabinieri e poliziotti, dentro Tonino e il «mariuolo». Ogni tanto Nerio Diodà faceva capolino per prendere aria, e aveva una faccia diversa. Chiesa stava parlando, parlò per sette giorni. Quando smise di parlare, ci fu un attimo di sospensione, giusto il tempo di digerire il risultato elettorale. Poi, il 22 aprile, arrestarono otto imprenditori: avevano lavorato per il Pio Albergo Trivulzio, pagato il solito obolo all’ingordo ingegnere. Entrarono a San Vittore, confessarono, uscirono. Noi stavamo nei giardinetti davanti al carcere, basiti, a prendere appunti, quando spuntò Vittorio D’Ajello, difensore di uno degli otto, un vecchio avvocato chiacchierone e affabile che ne aveva viste di cotte e di crude, e quasi strillò: «Andranno avanti per anni! Faranno centinaia di arresti!». Verso sera, Di Pietro si lasciò andare a una confessione con Paolo Colonnello, il cronista del Giorno, che tra noi gli era più vicino: «Potrei arrivare a Craxi… ma bisogna andarci piano». Quella notte, chiusi i giornali, noi ragazzi della giudiziaria la tirammo lunga in una trattoria di via Moscova vicino al Corriere. Il pool dei giornalisti nacque così, quando capimmo che ci sarebbero stati da raccontare dieci avvisi di garanzia e cinque arresti al giorno, e bisognava controllare che le notizie fossero tutte vere e non inquinate, in un contesto dove già si vedevano all’opera i primi avvelenatori di pozzi: non vale la pena di evocare qui la corte dei miracoli di faccendieri, cialtroni, spie a mezzo servizio e finti giornalisti che già da quel ’92 hanno messo le loro mani sporche dentro e sopra Mani pulite, sarebbe un’altra storia. E si è detto fin troppo su quel gruppetto di ragazzi che fummo; ma per il tempo che durò la nostra leale collaborazione tra cronisti di testate rivali – meno d’un anno – nessuna notizia fu occultata, ciascuna fu verificata almeno due volte, i colleghi dei giornali più deboli e quindi più esposti a pressioni politiche furono protetti dal fatto che tutti gli altri giornali avrebbero dato quella notizia e dunque capiredattori e direttori non avrebbero avuto motivo di censurare il loro lavoro. Il salto di Mani pulite avvenne perché gli otto imprenditori denunciarono i cassieri segreti dei partiti, gli «elemosinieri», e mandarono in galera personaggi come Maurizio Prada della Dc o Sergio Radaelli del Psi: così il muro del silenzio si incrinò. Uno del calibro Prada, allora presidente dell’azienda municipale dei trasporti, dovette infatti vivere la faccenda come un tradimento e iniziò a raccontare le tangenti che le aziende a loro volta offrivano per primeggiare. Un’autentica reazione a catena, tipica del sistema messo a punto da Di Pietro: vai dentro, denunci i complici, diventi per loro inaffidabile, esci. Confessioni estorte? Indubbiamente sì, da un certo punto di vista. E tuttavia perfettamente legali. Roberto Mongini, presidente milanese della Dc, capace di emergere da San Vittore indossando una maglietta «Mani Pulite Team» che fece furore, ha di recente spiegato a Federico Ferrero come, se non fosse stata usata la carcerazione preventiva «con mano piuttosto pesante», è chiaro che avrebbe parlato il 10 per cento di chi ha invece confessato. Si potrà discutere altri vent’anni sull’accettabilità di una procedura del genere (sempre avallata da un gip, sempre dallo stesso gip, Italo Ghitti). Quasi tutte le grandi aziende finirono nei guai, la Fiat tra le prime: il Corriere di Ugo Stille, allora affidato di fatto al vicedirettore Giulio Anselmi, aveva Fiat nella proprietà ma tenne la barra dritta. Sei giorni dopo la confessione degli otto, ventitré giorni dopo le elezioni politiche, Borrelli capì che Tonino non poteva restare solo, e gli affiancò due pm di cui aveva grande fiducia, Colombo e Davigo. Gherardo Colombo era un colto cattolico di sinistra che aveva guardato in faccia il drago, avendo scoperto col collega Turone gli elenchi della P2 e lavorato sui fondi neri dell’Iri. Piercamillo Davigo era un giurista affilato, incorruttibile, prodotto di una destra perbenista e militaresca. I nemici lo chiamavano Vichinsky, il procuratore delle purghe staliniane. A conoscerlo, lo si sarebbe detto più simile a Javert, il drammatico sbirro dei Miserabili. «Non ci sono innocenti ma colpevoli non ancora scoperti», usava dire, ed era difficile capire fin dove scherzasse. Dietro di loro, il procuratore aggiunto Gerardo D’Ambrosio, «zio Jerry», da molti sospettato di essere una quinta colonna del Pci che gli avrebbe pagato gli studi da ragazzo povero, in realtà giudice espertissimo dai tempi di piazza Fontana, amico di Galli e Alessandrini ammazzati dal terrorismo rosso. Il Primo maggio caddero sotto gli avvisi di garanzia il sindaco in carica e il suo predecessore, Paolo Pillitteri e Carlo Tognoli. Si aprì ufficialmente la caccia a Craxi, che al bar del tribunale presero a chiamare «Cinghialone»: la 2021 dimensione umana degli indagati era già passata in un tritacarne e dimenticata. Anche da noi giornalisti. Nato un metodo, molto controverso, nato il pool Mani pulite, l’Italia impazzì. «Liberaci dal male che ci perseguita», scrivono a Tonino da ogni parte dello Stivale. Nascono comitati, si fanno fiaccolate, manifestazioni di sostegno sotto Palazzo di Giustizia al grido di «Tonino non mollare!», si mescolano le facce di Sabina Guzzanti e Paolo Rossi a quelle degli ancora missini di Gianfranco Fini. Escono agiografie in cui si racconta seriamente che l’estate prima Di Pietro ha salvato una donna che stava affogando in mare, portandola al sicuro con poche maschie bracciate, acclamato «come un Dio» dagli altri bagnanti. Va a ruba il poster degli Intoccabili con le facce del pool in fotomontaggio, Borrelli e i suoi si concedono due passi in Galleria e l’evento diventa un bagno di folla. In capo a un anno le televisioni renderanno permanente questo show, con il bravo Andrea Pamparana a seguire i processi per il nuovo tg di Mentana e il surreale Paolo Brosio piantato da Fede davanti alle rotaie del tram ad annunciare la fine del mondo: tv berlusconiane, perché a lungo il Cavaliere tentò, se non di andar d’accordo coi pm, di farli suoi, come fuoriclasse stranieri che è meglio giochino nella tua squadra. Mi capitò di scendere a Montenero di Bisaccia per la morte di mamma Annina, la madre di Di Pietro, e di portare da Milano in macchina con me Davigo e Colombo: fu come avere sui sedili il Gigi Riva dei mondiali messicani e il Mussolini della conquista d’Etiopia, alle stazioni di servizio la gente cercava di entrarmi nell’abitacolo dai finestrini. Molto, e molto di male, si può dire adesso di tanti voltagabbana che, dopo avere votato e omaggiato potenti e corrotti per decenni, si misero ad applaudire come tricoteuse coloro che stavano mozzandone la testa. E tuttavia nella garagista che dalle parti del tribunale ci implorava, «dite a Tonino che sto con lui», c’era anche altro, una voglia di cambiare genuina, poi andata persa. Quella fu l’estate di Craxi, ancora a giugno candidato alla presidenza del Consiglio e affossato da una prima ondata di indiscrezioni sui verbali di Chiesa. Sentendo che il suo tempo stava per finire, Bettino pronunciò un memorabile discorso alla Camera sul sistema di finanziamento della politica che sapeva di chiamata in correità per tutti gli altri leader di partito (tranne un giovane Massimo D’Alema, nessuno fiatò). Poi, nel segno di quella duplicità tra uomo di Stato e nemico dei magistrati che lo stava perdendo, lasciò circolare voci insistenti sul suo «poker contro Di Pietro», un miscuglio di veleni e mezze notizie che riscaldarono molto il clima di quei mesi già roventi: apripista di un lungo elenco di rivelazioni vere o presunte, tutte volte a dimostrare che l’eroe nazionale era un mezzo eroe o, addirittura, un poco di buono. Dalla Mercedes facile ai cento milioni in prestito a costo zero, dai rapporti con D’Adamo e Gorrini all’abitudine che Pillitteri aveva di chiamarlo simpaticamente «Ninì» quando non era ancora un pm spaccamontagne, dall’amicizia con il discusso ex capo della Mobile Eleuterio Rea fino all’ambiguo Chicchi Pacini Battaglia sulla cui intercettazione («sbancato» o «sbiancato» da Tonino?) si interrogheranno i posteri se ne avranno voglia, va rammentato che Di Pietro conosceva, sì, qualcuno tra quelli che arrestò e tuttavia l’arrestò ugualmente, e che è uscito pulito da una lunga serie di processi: anche se non ama ricordare che il proscioglimento a Brescia conteneva rilievi deontologici abbastanza insidiosi da porre in una luce meno romantica il suo successivo abbandono della magistratura, con la toga sfilata per l’ultima volta davanti alle telecamere, in diretta come tutto quello che avveniva ormai in tribunale, il 6 dicembre ’94. Tuttavia, se in questa parte della vicenda non tutti gli angoli sono stati illuminati è anche colpa di noi giornalisti, di quegli stessi che seguirono l’inchiesta dalle prime battute. Giovani entusiasti com’eravamo, non ci demmo pena di guardare se in tanto fango ci fosse qualche fiorellino di verità. Manichei come chi trova in ogni atto giudiziario la conferma di ciò che ha sempre pensato, derubricammo alla voce «veleni» quanto di dissonante poteva emergere dal 22 23 passato di Di Pietro, perdendo così qualcosa della nostra funzione. Fu un grave errore, perché lasciammo per mesi il monopolio di questi filoni a un giornalismo di parte, preso in una logica di scontro tra fazioni, e dunque non consentimmo ai lettori indipendenti e moderati di formarsi sin da subito un’opinione in proposito. Ma più grave, perché avveniva sotto i nostri occhi ogni giorno, fu non dare peso alla processione degli avvocati accompagnatori, quei legali che in barba alla loro deontologia salivano in procura non per difendere il cliente ma soltanto per farlo confessare in fretta ciò che i pm volevano: grave fu non interrogarci subito sull’archetipo di questa stravagante categoria forense, il mercuriale e quasi ignoto Geppino Lucibello, amico intimo di Di Pietro, diventato in un attimo e per lungo tempo l’avvocato che con più certezza garantiva all’indagato un veloce disbrigo della pratica e spesso gli evitava il fastidioso passaggio all’ufficio matricola del carcere milanese. Il 15 dicembre del ’92 si levarono infine grida di giubilo in sala stampa quando arrivò la notizia che a Craxi era stato consegnato il primo avviso di garanzia. Troppi erano, ormai da troppo, troppo vicini all’inchiesta. Il primo a suicidarsi fu Renato Amorese, segretario socialista di Lodi: non un personaggio di primo piano, ma la dignità non presuppone appeal da copertina. «Mi hanno sputtanato», disse. Sergio Moroni, deputato socialista, s’ammazzo il 2 settembre, dopo avere mandato a Napolitano, allora presidente della Camera, una lettera terribile in cui s’interrogava su una politica da cambiare ma parlava anche di processo «sommario e violento» e di «decimazioni». Sua figlia Chiara, che ne ha ereditato la passione e siede in Parlamento, ha raccontato a Federico Ferrero che era insopportabile per lui «essere scaraventato nel calderone dei ladri». Poi si uccisero Gabriele Cagliari e Raul Gardini. Il saggio recente di Ferrero cita uno studio di Nando Dalla Chiesa e colloca a 43 il numero delle vittime «per cui è accertata una morte cagionata dall’onta del coinvolgimento nel giro della corruzione e del finanziamento illecito». Molti anni dopo è doveroso riflettere su questo dato. In un’Italia che festeggiava, come liberata dall’invasore, l’azione dei pm che annunciavano di dovere «rovesciare il Paese come un calzino», c’era chi, abbandonato in un cono d’ombra con le proprie paure e i propri rimorsi, decideva di non poter sopravvivere in questo mondo sottosopra. La sensazione di uno smottamento complessivo era tangibile. A dicembre del ’93, un anno dopo il primo avviso di garanzia a Craxi e un anno prima dell’addio di Di Pietro alla toga, Saverio Borrelli accettò di darmi una delle tre interviste che, in nemmeno dieci mesi, gli avrebbero attirato l’astio di una bella fetta di mondo politico o di ciò che ne sarebbe rimasto. Mancava poco alle nuove elezioni legislative, che si sarebbero poi tenute a marzo del ’94. I partiti tradizionali affogavano, Achille Occhetto pensava di avere tra le mani una «gioiosa macchina da guerra», sui muri delle grandi città erano apparsi manifesti misteriosi con bambini su sfondo azzurro che balbettavano teneramente uno slogan: «Fozza Itaia». Alla domanda «non temete di influenzare pesantemente il voto?», Borrelli mi rispose: «Vorrei rilanciare la palla sull’altra sponda, a chi farà politica domani: prendete consapevolezza di questa situazione, dico io. Chi sa di avere scheletri nell’armadio, vergogne del passato, apra l’armadio e si tiri da parte. Tiratevi da parte prima che ci arriviamo noi…». È difficile capire perché un magistrato introverso, che da ragazzo si sognava pianista e aveva indossato la toga solo cedendo al padre, uno che se n’era stato zitto fino ai sessant’anni e oltre, decidesse di colpo di uscire allo scoperto così clamorosamente. Può darsi, come insinuano molti, che le luci della ribalta abbagliarono l’antico giurista secchione. Può darsi anche, però, che il procuratore sentì davvero come compito suo quello di esporsi per mettere al riparo i propri sostituti: la sua successiva uscita di scena, in punta di piedi, con il solo incarico di presidente dell’amato Conservatorio di Milano che poi gli sarebbe stato tolto dalla Gelmini senza troppi complimenti, farebbe propendere per questa seconda ipotesi. Alcuni eventi avevano infatti caricato sulle spalle dei magistrati milanesi un fardello pesante come mai. Nell’inchiesta erano entrati la Fininvest di Berlusconi e il Pci-Pds, e i fascicoli relativi avevano portato uno strascico ideologico inquinante. Il filone delle tangenti rosse venne affidato a Tiziana Parenti, detta Titti, che subito puntò sul tesoriere Pds Marcello Stefanini per le mazzette che sarebbero state versate dal gruppo Ferruzzi a Primo Greganti. In galera, il «compagno G.» ruppe lo schema confessione-scarcerazione e non disse una parola sul suo partito, accreditando ulteriormente l’idea di una certa diversità comunista. Titti non aveva grande esperienza, pareva spaesata nella macchina ormai rodata del pool, dal suo buen retiro all’Elba accusò i colleghi più anziani di «isolarla»; il tifo della stampa di destra non l’aiutava di certo. L’avviso di garanzia a Stefanini fu il punto di non ritorno nella crisi dei suoi rapporti con D’Ambrosio, incaricato di sovrintendere a questo filone e da sempre sospettato di essere troppo tenero con Botteghe Oscure. Le accuse reciproche di avere voluto affossare o salvare gli ex comunisti accompagneranno entrambi: Titti avrà un seggio con Forza Italia e poi mollerà la politica, D’Ambrosio è attualmente un senatore del Partito democratico. È ormai il tempo dei grandi latitanti. Il 7 febbraio del ’93 si consegnerà a Di Pietro, appena varcato il valico di Ventimiglia dopo mesi trascorsi in Polinesia, Silvano Larini, l’architetto amico di Craxi, l’uomo delle notti al Giamaica di Brera, detentore di uno dei segreti più resistenti della storia repubblicana: il mistero del conto Protezione, numero 633369 sull’Ubs di Lugano, spuntato per la prima volta oltre dieci anni addietro dalle carte della P2 di Licio Gelli. Il conto è sempre stato suo, spiega, ma Craxi, accompagnato da Claudio Martelli, durante una passeggiata tra corso di Porta Romana e piazza Missori, nell’autunno dell’80, gli chiese di prestarglielo per operazioni di finanziamento all’estero: i primi tre milioni e mezzo di dollari arrivarono il mese stesso, altrettanti furono accreditati a febbraio dell’anno successivo. La via della latitanza l’aveva presa anche Giovanni Manzi. Meno picaresco dell’architetto, Manzi era presidente della società aeroportuale e soprattutto veniva considerato uno dei grandi collettori delle tangenti socialiste. A metà gennaio, pochi giorni prima della resa di Larini, Ettore Botti nel suo ufficio da capocronista del Corriere ebbe una dritta buona da Adriano Solazzo, il decano dei cronisti giudiziari, ormai pensionato ma sempre informatissimo: Manzi era stato visto qualche settimana addietro a Santo Domingo, puerto escondido dei fuggiaschi di mezzo mondo. Ettore volle mandare me, che avevo pochissima esperienza di estero. Il direttore Paolo Mieli mi mise accanto Alessandro Sallusti, a quel tempo formidabile collega dell’ufficio centrale. Sandro e io partimmo con l’incarico di trovare almeno una foto, una ricevuta, insomma una prova non taroccata del passaggio di Manzi nell’isola dove vero e falso s’acquistavano per un pugno di banconote. Sbarcati in quella specie di lunapark del sesso gremito di italiani pieni di voglie, ci dividemmo andando dove vanno due cronisti che non sanno che pesci pigliare: Sandro in ambasciata, io nel giornale locale. Entrambi con una domanda cauta ma chiara: dove potrebbe sistemarsi un connazionale danaroso che desidera riservatezza? La sera ci ritrovammo in albergo con la medesima risposta: Casa de Campo, un resort di lusso con cinquecento ville, a un’ora e mezzo di macchina dalla capitale. Ci mettemmo una settimana, villa dopo villa, cancello dopo cancello, con un pacco di foto del «señor Giovanni» e un pacchetto di dollari da distribuire ai giardinieri. All’ultima villa, quella giusta, dietro un ennesimo cancello sbattuto in faccia, sentimmo parlare italiano. Restammo acquattati nell’erba davanti al muro di cinta per tutta la mattina. Quando Manzi ci mandò fuori il suo gigantesco guardaspalle, Julio, cominciò la trattativa: avevamo ricostruito i suoi quattro indirizzi precedenti, Santo Domingo era un’isola cara ai socialisti, se voleva lasciar fuori chi l’aveva aiutato doveva incontrarci. La mattina 26 27 dopo «el señor Giovanni» si lasciò intervistare nel nostro albergo. I poliziotti non l’avevano trovato per mesi; due giornalisti qualsiasi, venuti da Milano, ci misero sette giorni. Fu uno scandalo, i dominicani non poterono più far finta di nulla: dovettero arrestarlo, rimpatriarlo. Manzi scese dall’aereo a Malpensa e trovò i carabinieri, noi trovammo Botti che «corrompendo» il personale di terra era venuto a prenderci sotto la scaletta dell’aereo per festeggiarci. Quell’autunno gli italiani guardarono in diretta tv il disfacimento dell’Italia sino ad allora conosciuta. Il 28 ottobre Di Pietro portò in aula, per la tangente Enimont, Sergio Cusani: tutte le udienze furono trasmesse dalla Rai in una infinita soap opera che registrò ascolti clamorosi. Bocconiano, ex leader del Movimento studentesco, amico personale di Gardini, Cusani era accusato di avere mediato tra il patron della Ferruzzi e i politici. Non volendo tradire il rapporto con Gardini, morto nel frattempo suicida, rifiutò di collaborare coi pm e mantenne – tra i pochi – un atteggiamento di grande dignità, scegliendo il difensore più lontano per storia e attitudine dagli «avvocati accompagnatori»: Giuliano Spazzali, un passato in Soccorso Rosso, vero antagonista della cultura del pentimento catartico sottesa a Mani pulite. Decidendo di processarlo da solo, Di Pietro volle trascinare alla sbarra in qualità di testimoni, e dunque con l’obbligo di rispondere e dire il vero, i principali leader dei partiti che finora erano sempre sfuggiti a un confronto diretto con lui grazie alle guarentigie parlamentari. Processualmente, zero. Mediaticamente, un cataclisma. Ne sortirono udienze memorabili. I milanesi facevano la fila nei corridoi del tribunale per trovare posto in aula. Tutti, tranne l’orgoglioso Craxi, uscirono con le ossa rotte. Il penoso farfugliamento di Arnaldo Forlani, incapace di controllare la propria salivazione davanti alle telecamere, resta forse l’immagine più imbarazzante di quel cambio di stagione. Di Pietro, esaltato dalle tv e da firme importanti come Gian Antonio Stella e Paolo Guzzanti infine apparse accanto a noi ragazzi a ritrarne il profilo, affinò il dipietrese, cominciando a usare scientificamente frasi come «che c’azzecca?», entrate poi nel lessico popolare. Quello, per lui, fu il vero diploma di laurea. Quell’autunno gli italiani guardarono in diretta tv il disfacimento dell’Italia sino ad allora conosciuta. Il 28 ottobre Di Pietro portò in aula, per la tangente Enimont, Sergio Cusani: tutte le udienze furono trasmesse dalla Rai in una infinita soap opera che registrò ascolti clamorosi. Bocconiano, ex leader del Movimento studentesco, amico personale di Gardini, Cusani era accusato di avere mediato tra il patron della Ferruzzi e i politici. Non volendo tradire il rapporto con Gardini, morto nel frattempo suicida, rifiutò di collaborare coi pm e mantenne – tra i pochi – un atteggiamento di grande dignità, scegliendo il difensore più lontano per storia e attitudine dagli «avvocati accompagnatori»: Giuliano Spazzali, un passato in Soccorso Rosso, vero antagonista della cultura del pentimento catartico sottesa a Mani pulite. Decidendo di processarlo da solo, Di Pietro volle trascinare alla sbarra in qualità di testimoni, e dunque con l’obbligo di rispondere e dire il vero, i principali leader dei partiti che finora erano sempre sfuggiti a un confronto diretto con lui grazie alle guarentigie parlamentari. Processualmente, zero. Mediaticamente, un cataclisma. Ne sortirono udienze memorabili. I milanesi facevano la fila nei corridoi del tribunale per trovare posto in aula. Tutti, tranne l’orgoglioso Craxi, uscirono con le ossa rotte. Il penoso farfugliamento di Arnaldo Forlani, incapace di controllare la propria salivazione davanti alle telecamere, resta forse l’immagine più imbarazzante di quel cambio di stagione. Di Pietro, esaltato dalle tv e da firme importanti come Gian Antonio Stella e Paolo Guzzanti infine apparse accanto a noi ragazzi a ritrarne il profilo, affinò il dipietrese, cominciando a usare scientificamente frasi come «che c’azzecca?», entrate poi nel lessico popolare. Quello, per lui, fu il vero diploma di laurea. Era pronto all’ultimo grande salto, in politica. Il nuovo padrone dell’Italia, Silvio Berlusconi, uscito trionfatore dalle elezioni del 27 marzo 1994, pensò di offrirgli il trampolino del ministero degli Interni, invitandolo a parlarne a Roma, in via Cicerone, nello studio di Cesare Previti. Tonino ha raccontato di avere cortesemente rifiutato, avendo un lavoro da finire (quello di ripulire l’Italia, evidentemente). Io ho sempre saputo che fu fermato in corsa da Borrelli e da Davigo, altro oggetto dei desideri del nuovo centrodestra berlusconiano. Il clima, tra politica e magistratura, era, se possibile, perfino peggiorato. In un’intervista agli inizi di maggio, Borrelli mi disse che, ove tutto fosse precipitato, loro avrebbero accettato un incarico di governo «se Scalfaro gliel’avesse chiesto». Gli diedero del golpista. In realtà la risposta venne dopo mie estenuanti insistenze e molte ipotetiche e subordinate, ma il titolo uscì secco: essendo il procuratore un galantuomo, non smentì una virgola. Ben più grave, dal punto di vista dei rapporti tra poteri dello Stato, il pronunciamento di Di Pietro e dei suoi colleghi a luglio, che affossò il decreto del neoministro Biondi sui limiti alla carcerazione preventiva: ancora e sempre in diretta tv, si minacciarono dimissioni di massa, forzando la mano al presidente Scalfaro che non firmò il decreto. La pausa estiva non placò le acque. Tra governo e pm si andava allo scontro finale. Il 5 ottobre Borrelli si lasciò intervistare di nuovo e mi disse che sarebbero arrivati «a livelli altissimi». Si riferiva all’inchiesta su Telepiù, ma tutti lessero quella frase come un preavviso di garanzia a Berlusconi. Che il Cavaliere fosse ormai nel mirino era un segreto di Pulcinella. Quando successe ero a Roma, alla Camera: Paolo Mieli mi aveva fatto inviato e spedito a seguire anche la politica, era il 21 novembre. Gianluca Di Feo, il mio socio di quegli anni, da figlio di carabiniere qual era, capì che quel movimento di generali in procura non poteva spiegarsi, come gli dissero, con la festa della Virgo Fidelis, protettrice dell’Arma: sapeva che non erano quelli i giorni giusti. Si attivò così la macchina dei nostri controlli, in poche ore Gianluca ed io arrivammo all’invito a comparire che i pm di Milano avevano mandato a Berlusconi mentre presiedeva a Napoli una conferenza mondiale sulla criminalità. Una storia molte volte raccontata, compreso l’abbraccio con Mieli prima di andare a scrivere, il suo scaramantico fondo di dimissioni pronto nel cassetto, la notte insonne che io e Gianluca passammo nel timore di avere preso un abbaglio. Molte volte ci chiesero chi fosse la nostra fonte. Gianluca e io siamo gli unici a conoscerne l’identità. Non l’abbiamo ovviamente mai rivelata allora, anche protetti da un direttore galantuomo come Mieli, non lo faremo certo adesso. Fece bene la Procura a mandare quell’atto al presidente del Consiglio mentre era impegnato su un palcoscenico mondiale? Penso di no. Dovevamo pubblicare la notizia noi, quando l’avemmo? Sono sicuro di sì. Il resto non credo sia così importante in un Paese che vent’anni dopo ancora non ha riportato il proprio tasso di corruzione a livelli fisiologici. Pochi mesi fa, è tornata al disonore delle cronache l’autostrada Milano-Serravalle. Fu uno dei piatti forti dell’estate 1992. Bruno Binasco, un imprenditore ora indagato, lo era anche allora, sia pure come braccio destro di Marcellino Gavio, che nel frattempo è morto. Con qualche ragione, questo decano dell’intrallazzo racconta di avere conosciuto tutti i politici. Tutti. Mani pulite non ci ha salvato, forse perché dovevamo salvarci da soli. Dovremo farlo, prima o poi: per non restare ingabbiati altri vent’anni in un déjà vu collettivo peggiore di qualsiasi galera.
Filippo Facci su “Libero Quotidiano” racconta Mani Pulite: così Di Pietro diventò idolo. Tangentopoli 20 anni dopo: murales, strisioni, titoloni dei giornali: un carrozzone che ha reso il pm "meglio di Pelè". Ieri raccontavamo che i cosiddetti principi del foro, con poche eccezioni, durante Mani pulite non batterono chiodo. Non era sfuggito che avvocati poco noti, ma graditi ad Antonio Di Pietro, erano i difensori di tutti i principali accusatori di Tangentopoli: cambiare avvocato si traduceva in un cambio di atteggiamento e in una potenziale svolta processuale, ergo si usciva dal carcere o neppure ci si entrava. Il semi-sconosciuto Giuseppe Lucibello, compagno di bisboccia di Tonino, assunse difese clamorose come quella del banchiere Pierfrancesco Pacini Battaglia. Anche il democristiano Roberto Mongini, che di legali ne cambiò addirittura tre, cambiò e cominciò a parlare. Uno come Salvatore Ligresti rimase in carcere per cinque mesi sinché cambiò avvocati e fu subito liberato previo cambio di atteggiamento. Autentica guerra di nervi fu poi quella combattuta da Michele Saponara, presidente dell’Ordine degli Avvocati: il socialista Loris Zaffra, da lui difeso, rimase a San Vittore per sei mesi sinché non dette incarico a un altro e fu l’apriti sesamo. Eppure, fiutata l’aria, Zaffra era giunto a far verbalizzare: «Non intendo avvalermi di un altro avvocato». «La Procura», accusò Saponara, «fece sapere alla famiglia di Zaffra che se voleva tornare libero doveva cambiare avvocato». A tal proposito, ascoltato dagli ispettori ministeriali nel 1995, Saponara produrrà una testimonianza secondo il quale un pm del Pool aveva urlato a Zaffra: «Se non cambia legale, si dimentichi di uscire». Ma le accuse non trovarono conferma. Col tempo, e col progredire dell’inchiesta, architrave di Mani pulite diverrà invece lo studio del professor Federico Stella, eminenza grigia, difensore dell’Eni e futuro ghostwriter di Antonio Di Pietro. Il professor Stella difese l’imprenditore Fabrizio Garampelli, che con le sue confessioni spedì in galera praticamente chiunque tranne se stesso; difese uno sterminato numero di dirigenti dell’Eni «buono» ed elaborerà ben due proposte di legge per uscire da Tangentopoli, entrambe appoggiate dal Pool: una a ottobre 1992, elaborata in seno all’Assolombarda, di cui pure era difensore, e un’altra praticamente identica nel settembre 1994, presentata in pompa magna alla Statale di Milano. A dispetto di queste semplificazioni, comunque, in Mani pulite trovarono spazio anche avvocati con posizioni più varie e sfumate. Quando L’Espresso nella primavera 1993 pubblicò una specie di hit parade degli avvocati di Tangentopoli (titolata «Primo Bovio, ultimo Chiusano») il presunto vincitore, Corso Bovio, scrisse così al settimanale: «La qualità di un avvocato non si misura dalla durata della carcerazione... Credo che la sua funzione sia quella di far rispettare la dialettica del processo. Mi autoassolvo, ma non sento di assolvere il mio ruolo... Perry Mason non è famoso perché pilota le confessioni o patteggia le pene. Oggi sono vincenti l’inquisizione, il pentitismo, lo Stato di Polizia con le sue manette e le sue galere». Intanto il pool proseguiva con una tripartizione precisa: Di Pietro interrogava, Colombo spulciava le carte e Davigo vergava le richieste di autorizzazione a procedere. Italo Ghitti invece autorizzava gli arresti «privilegiando la rapidità al cesello», come dirà Colombo. Dirà invece Di Pietro, appena più grezzo: «Io andavo dai colleghi e segnalavo un’operazione che mi puzzava. "Vedi che cosa è successo qui?" Questo secondo me è un reato di porcata... Cari Davigo e Colombo, cavoli vostri, entro domattina trovate una soluzione che dal punto di vista giuridico non faccia una piega perché non voglio rischiare una sconfitta dal tribunale della Libertà”». Traduzione: io lo metto dentro, il come e il perché trovatelo voi. Ha raccontato Primo Greganti, storico inquisito comunista: «Avevano emesso un mandato d’arresto illegittimo. Ma, dopo aver ammesso l’errore, Di Pietro mi disse: “Adesso vado da Davigo, e vedrai che lui un motivo per tenerti dentro lo trova”. Fatto sta che tornai in cella per altri ventisei giorni». A Di Pietro era permesso tutto, anche perché si avviava a divenire un eroe nazionale: partecipò alla festa della Polizia e l’applaudirono per due minuti. Il suo status era cambiato in un niente: gli avevano riverniciato la stanza, aveva quattro scrivanie, tre computer e due poltroncine girevoli in similpelle. Gli giungevano migliaia di lettere da tutt’Italia, soprattutto immaginette sacre e santini di Padre Pio, e la sera le portava a casa per leggerle al figlio. Il Corriere della Sera, nella sola settimana dal 7 al 15 maggio, sfoderò questi titoli: «Il pm contadino, quasi un eroe», «La domenica tranquilla dell’eroe», «Il fascino discreto dell’uomo onesto». Il dipietrismo nacque ufficialmente in maggio. La prima scritta era stata individuata nel parcheggio dello stadio di San Siro: «Di Pietro, sei meglio di Pelè». Poi un «Grazie Di Pietro» in via Manin e poi lo striscione «Di Pietro sindaco» ancora a San Siro. E così via. «La rabbia degli onesti corre sui muri» titolò l’Unità del 10 maggio. A metà del mese ecco la prima fiaccolata pro Di Pietro con cabaret finale a cura di Lella Costa, David Riondino, Paolo Rossi più una giovanissima Sabina Guzzanti. Il 30 maggio, su Italia Uno, Gianfranco Funari nel suo programma «Mezzogiorno italiano» fece partire uno spot quotidiano con immagine di Di Pietro che camminava e una voce di sottofondo che lo incitava: «Vai avanti... vai avanti...». Anche la strage di Capaci registrò il tentativo di sfruttare la morte di Falcone per portare acqua a Mani pulite. Il magistrato morì un sabato, e lunedì 25 maggio «la Repubblica» uscì in edizione straordinaria col titolo «L’ultima telefonata con Di Pietro». La morte del magistrato siciliano ebbe il potere di accelerare l’elezione del presidente della Repubblica dopo un interminabile gioco di fumate nere, veti e contro-veti. Il 25 maggio elessero Oscar Luigi Scalfaro, sponsorizzato da Marco Pannella e Bettino Craxi, che non se ne pentiranno mai abbastanza. Dopo le tormentate elezioni di Giorgio Napolitano e Giovanni Spadolini alla Camera e al Senato, anche la corsa per palazzo Chigi s’avviava a conclusione: «Craxi», sussurravano tutti. Ma la sera del 3 giugno la notizia era un’altra: «C’è anche il nome di Craxi nell’inchiesta sulle tangenti» disse il Tg1. Di Pietro precisò: «Allo stato il mio ufficio non ha rilevato nulla di penalmente rilevante che possa riguardare la famiglia Craxi». Allo stato, Craxi non sarebbe stato presidente del Consiglio, punto. La sua parabola si fece discendente anche se il 3 luglio pronunciò un discorso alla Camera destinato a passare alla Storia, parole che per buona parte riverserà in un altro discorso che pronuncerà il successivo 29 aprile 1993, giorno precedente all’assedio dell’Hotel Raphael. Craxi chiese al Parlamento di assumersi le proprie responsabilità per trovare una soluzione politica alla crisi della Prima Repubblica. Lo fece quando mancavano quasi sei mesi a un suo coinvolgimento effettivo in Mani pulite, e quando l’eventualità che potesse essere inquisito pareva semplicemente impensabile. Racconterà il segretario amministrativo della Dc Severino Citaristi: «Dissi a Forlani che era il momento di prendere posizione, ma invano». Secondo Giovanni Pellegrino, Pds, allora presidente della giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato, «Quando Craxi fece quel discorso c’era ancora qualche margine per fare almeno delle riforme che consentissero di uscire dal pantano, ma non se ne fece niente perché Occhetto aveva altri programmi: pensava che il Pds sarebbe uscito indenne e che gli altri partiti sarebbero stati cancellati dalla geografia politica». Agosto fu il mese dei tre corsivi sull’«Avanti!» vergati da Bettino Craxi. Il segretario socialista il 23 la mise giù dura: «Col tempo potrebbe persino risultare che il dottor Di Pietro è tutt’altro che l’eroe di cui si sente parlare, e che non è proprio oro tutto quello che riluce». Senza farla tanto lunga: il poker di Craxi non era un bluff, tutte le carte - Mercedes svendute, frequentazioni, prestiti eccetera - verranno calate negli anni successivi e saranno decisive per le dimissioni di Di Pietro dalla magistratura. Ma allora non c’era neanche il tavolo per giocare. Di fatto, per qualche tempo, fioccarono le scarcerazioni: «Come mai», notò anche il Corriere della Sera, «Di Pietro rinuncia alla sua proverbiale risolutezza? Perché una linea tanto morbida?» Se lo chiese anche Gherardo Colombo: «È successo che tornando dalle ferie estive dissentisse su iniziative di Piercamillo e mie in tema di custodia cautelare... Ciò si verificava contestualmente al fatto che la stampa avesse avuto da ridire su alcuni aspetti dell’indagine». Ma forse, a contribuire a una certa cautela, il 3 settembre era stato anche il terribile suicidio del deputato socialista Sergio Moroni. La sua toccante lettera spedita al Presidente della Camera, letta al Tg2 e pubblicata da tutti i giornali, denunciava un clima da caccia alle streghe e risvegliò qualche orgoglio parlamentare. Ma erano colpi di coda. Il 19 settembre il cassiere socialista Vincenzo Balzamo passò da Palazzo di Giustizia e fu preso d’assalto dai cronisti: e nessuno di loro ricorda quel giorno con particolare orgoglio. Ma la sindrome era tale che L’Avanti!, poco tempo dopo, titolò «Querci: ho dato 400 milioni a Balzamo» quando nessun altro giornale fece altrettanto, anche perché Balzamo intanto era sul letto di morte. Il 2 novembre fu stroncato da un infarto e l’Indipendente titolò in prima pagina «Balzamo, infarto da mazzetta». Quello stesso giorno altri giornali titolavano invece «Di Pietro in autostrada soccorre una ferita» e resta il fatto che tutte le accuse contro il segretario amministrativo del Psi, di lì poi, sarebbero state deviate su Craxi.
Filippo Facci su "Libero Quotidiano. Mani Pulite vent'anni dopo: Tangentopoli? E' finita per coprire Tonino Di Pietro. Il leader Idv di dimise alla fine del 1994, spaventato dall’ispezione ministeriale: aveva troppe cose da nascondere. Sono in pochi ad avere il coraggio di dire la verità (tutta) circa la fine di Mani pulite: perché è una verità che non serve a nessuno. Non serve a quei manettari professionali che hanno sempre bisogno di prefigurare un'elite disonesta e vessatoria (in genere politica) che a loro dire lucra su una maggioranza onesta e vessata, ciò che un tempo avrebbero chiamato società civile. Non serve ai partiti d'ampio respiro che vorrebbero rappresentare grandi fasce di popolazione: troppo estese per poter rivendicare moralità e moralismi come precetti-cardine. Non conviene alla magistratura più militante, tantomeno conviene a quell'informazione che sullo sfondo della contrapposizione casta/cittadini si illude di raschiare eternamente copie e ascolti. Sicché circolano scampoli di verità. Mani pulite finì perché Antonio Di Pietro si dimise alla fine del 1994: il neogoverno berlusconiano gli sventolò un'ispezione ministeriale davanti al naso e poi, un secondo dopo che si era dimesso, la richiuse; Di Pietro ammise pubblicamente di essere rimasto condizionato dall'ispezione - se non ricattato - talché si dimise dopo averne saputo la chiusura, e però intanto continuò a spiegare al mondo che non aveva niente da nascondere. Un sostanziale baratto, un affare in cui ciascuno pensava di fottere l'altro: da una parte perché Di Pietro da nascondere aveva un sacco di cose (tutte nero su bianco nella sentenza del Tribunale di Brescia n.65/1997 del 29.1.1997, dove si spiega che certi suoi comportamenti gli avrebbero fruttato perlomeno dei provvedimenti disciplinari) e dall'altra perché le sue ambizioni politiche erano stagliate da un pezzo, e lo si è visto. E perché? Perché «Mani pulite è finita, i tempi sono cambiati, non c’è più acqua nel mulino delle indagini, voglio scendere da cavallo prima di essere disarcionato»: così aveva confidato al gip Italo Ghitti nell'aprile precedente. Senza un certo clima, poi, Di Pietro valeva poco: e lo dimostra quando accadde al Pool dopo l'abbandono. Pm come Paolo Ielo ed Elio Ramondini tentarono di riesumare, concludere, archiviare o smistare procedimenti che erano stati l'architrave di Mani pulite: ma che erano rimasti un po' così, sospesi in quella fase preliminare dominata dagli interrogatori di Di Pietro, che in definitiva aveva portato sino in fondo solo il processo-vetrina a Sergio Cusani e il processo Enimont che ne era il clone: istruttorie semplici perché fondate perlopiù su confessioni. Ramondini e Ielo ebbero l'ingrato compito di raccappezzarsi nelle montagne di faldoni di cui soltanto Di Pietro conosceva una logica che spesso non c'era. Ramondini scoprì che montagne di atti sulla Fiat erano preclusi alle procure di mezz'Italia. Ielo perdette mesi per riordinare le carte dei filoni Pci-Pds, e quei pochi processi che si sono conclusi si devono a lui. La vecchia guardia del Pool, invece, puntava su Berlusconi: e questo convinceva pochissimo una larghissima fetta di Paese. Lo scenario era stava cambiando. Prima c'era Di Pietro che martellava, mentre agli altri pm, come dirà Francesco Greco, «competeva un lavoro di ricostruzione successivo agli interrogatori... ma la situazione si è modificata nel corso del 1994 quando le collaborazioni diminuirono fino a cessare. Fu lo stesso Di Pietro a dire che non arrivava più acqua al suo mulino, la tecnica investigativa cambiò». L'acqua, a dirla tutta, arrivava al mulino direttamente dal carcere. Era il carcere, irrogato o temuto, che stimolava le collaborazioni. Era il carcere, coi suoi effetti, che era venuto a mancare durante quel cambio di stagione che Tonino aveva subodorato. E' quasi divertente come i colleghi Barbacetto e Gomez e Travaglio, nel loro tomo «Mani pulite», appena rinfrescato, cerchino di dissimulare questa verità elementare: «Fin dai primi interrogatori, per una fortunata e forse irripetibile somma di abilità investigative, situazioni psicologiche e condizioni politiche, economiche e ambientali, i magistrati si trovano davanti persone che presto o tardi finiscono per confessare». Cioè: confessavano perché erano in galera e volevano uscire. Confessavano perché non volevano finirci, bene che andasse. Erano quelle le «situazioni psicologiche»: le altre, «politiche, economiche e ambientali», fecero parte del contesto «irripetibile» che permise un uso spropositato delle manette. La prassi di Mani pulite, sin dall'inizio, aveva ipotizzato reati i più gravi possibili così da giustificare ogni volta la carcerazione preventiva: questo anche per violazioni di tipo amministrativo come il noto finanziamento illecito dei partiti. Per capirlo, in fondo, è sufficiente guardare quanti dei 1230 condannati di Mani pulite abbiano subito delle carcerazioni preventive a dispetto di pene poi risultate inferiori ai due anni, condanne ossia a cosiddette pene sospese, con la condizionale: quasi tutti. E' noto: effettive condanne al carcere, alla fine di Mani pulite, praticamente non ce ne sono state. Eppure la regola è sempre stata chiara: tizio, se è presumibile che sarà condannato a meno di due anni, in carcere preventivo, non ce lo dovresti mettere; certo, la regola implica una capacità «prognostica» - direbbe un tecnico - di prevedere a quanti anni Tizio sarà probabilmente condannato: tra i compiti del magistrato c'è anche il cercare di presumerlo. Diciamo che il Pool ha sempre presunto molto male. Di Pietro ne era maestro da sempre: sparare reati incredibili e sbattere dentro perché tanto, per derubricare un reato, c'era sempre tempo. Il clima manettaro che aveva permesso ogni cosa, dalla fine del 1994 e con le dimissioni di Di Pietro, scomparve. Dall'altra parte, bene o male, c'era una classe politica rinnovata e legittimata, non è che il Pool avrebbe potuto respingere a vita tutte le norme del Parlamento. Dall'estate 1994, oltretutto, molti indagati dell'inchiesta sulle Fiamme Gialle (e su Berlusconi) non avevano collaborato neppure se carcerati: perché erano militari, forse, o perché non vollero e basta. Capitò anche con la Fininvest: del resto collaborare, assecondare l'accusa, non è obbligatorio. Dirsi innocenti, o crederlo, o addirittura esserlo, è ancora possibile, è lecito: e non per questo si marcisce dentro, nei paesi civili. Nei paesi civili si va in galera dopo una condanna, non prima. E si attende il processo con la prospettiva di finirci, non di uscirne. Da qui la svolta spiegata dal pm Francesco Greco: «Dopo le dimissioni di Di Pietro cominciammo a lavorare prevalentemente su documenti e con altre tecniche, quali intercettazioni telefoniche ed ambientali, in precedenza trascurate in quanto non necessarie». Non necessarie perché c'era il carcere. Ora, invece, potevano e dovevano ricominciare a lavorare come dei magistrati normali. Ma questi sono scampoli di verità, come detto. La verità tutta, per dirla male, anzi malissimo, è che troppa gente rimase insospettita dal mancato coinvolgimento dei vertici del Pci e viceversa dalla pervicacia con cui si puntava su Berlusconi. Ma detta un po' meglio, il vero problema non fu la serpeggiante impressione che Mani pulite fosse ormai agli sgoccioli: stanca, talvolta astratta, con tutti quei cronisti che ciondolavano per i corridoi facendosi domande sul proprio futuro. Altri colpi di scena, del resto, non sarebbero mancati. Il problema, come il Pool non comprese per forma mentis, fu che l’inesorabile fine di una stagione non potè non coincidere con l'indagine sulla Guardia di Finanza. Quegli imprenditori che cominciarono a confessare d’aver pagato anche i finanzieri, perché chiudessero un occhio, fu l'inizio di una voragine che in potenza non avrebbe mai avuto fine. Un reparto accusò l’altro, un reparto arrestò l’altro. Intere legioni di militari finirono in carcere e alcuni erano collaboratori del Pool: qualcuno arrestato, qualcuno suicidato. Quell’immagine di finanzieri che iniziavano ad arrestarsi tra di loro divenne la metafora di un Paese che si stava divorando. Onesti e disonesti, concussi e concussori, taglieggiatori e vittime: parole sempre più svuotate di significato, termini utili per delimitare, secondo fazione, le proprie simpatie e i propri interessi. Nel Paese in cui tutti pagavano tutti si scoprì che, poveretti, gli agenti della Guardia di Finanza incassavano mazzette perché avevano stipendi da fame, e trescavano con l’esercente che, poveretto, senza fatture false avrebbe chiuso bottega, e trescavano col grande stilista che, poveretto, senza fatture false la bottega non l’avrebbe neanche aperta. La famosa dazione ambientale, che da lontano e sui giornali pareva solo un’associazione per delinquere, era vicina, vicinissima: dal fiscalista, dal commercialista, dal certificatore di bilanci, dall’impiegato comunale e regionale e statale, dall’avvocato, dal notaio, in negozio, al bar, nelle famiglie, con la domestica, nel 740, nello scontrino che non ti hanno dato, ma che tu non hai preteso. La cosiddetta inchiesta «Fiamme sporche» contò centinaia e centinaia di indagati ma comincerà a trasfigurare lo spettacolo di Mani pulite agli occhi del suo pubblico, a confondere proscenio e platea, a disamorare progressivamente da un'ubriacatura legalitaria ormai triennale e che dapprima era parsa tuttavia così liberatoria, espiatoria, deresponsabilizzante. Poi non più. Dirà anni dopo Francesco Saverio Borrelli: «L’atteggiamento dell’opinione pubblica cominciò a cambiare più o meno in coincidenza con l’indagine sulla Guardia di finanza... finché si trattò di colpire l’alta politica e i suoi rappresentanti, i grandi personaggi dei partiti che stavano sullo stomaco a tutti, non ci furono grandi reazioni contrarie. Anzi. Ma, quando si andò oltre, apparve chiaro che il problema della corruzione non riguardava solo la politica, ma larghe fasce della società, insomma che investiva gli alti livelli proprio in quanto partiva dal basso». Dirà pure Piercamillo Davigo: «Le vicende che mi hanno più depresso sono le piccole vicende. Mi sono capitati processi dove centinaia di persone hanno pagato somme di qualche milione per non fare il servizio militare. Centinaia di persone... Eppure tutti i giovani venivano da buone famiglie che li finanziavano, perché a diciannove anni non si hanno dei milioni cash nel portafogli. Questo la dice molto lunga sulla diffusione di certi comportamenti e sulla valutazione che di essi viene data nel complesso della società». La ciliegina finale è a cura di Enzo Carra, ex portavoce democristiano (ora all'Udc) che proprio Davigo aveva fatto condannare: «Mani pulite fu un piccolo squarcio nei nostri vizi pubblici e privati; poteva essere una grande occasione per metterli sotto accusa, questi vizi, insieme ai corrotti e ai corruttori. E’ stata una grande occasione mancata per cambiare le regole e i comportamenti nella nostra società... Con un’eccezionale prova dell’italianissima arte di arrangiarsi il cammino è ripreso come prima, o quasi... Invece di cambiare sistema si è cambiato discorso». Non c'è molto altro da aggiungere.
Filippo Facci su "Libero Quotidiano": Eccessi e le forzature che stravolsero Mani Pulite. Vent'anni dopo. I pm di Milano hanno calpestato l'articolo secondo cui solo in aula una testimonianza diventa prova. La verità è che il Pool di Milano era assortito fantasticamente e fu insuperabile nel fare ciò che volle fare. Di Pietro. Davigo. Colombo. Borrelli. Poi Ielo e Greco. Un po' meno D'Ambrosio, che in realtà non faceva un tubo se non dichiarazioni disastrose. Resta che per abbattere una Repubblica - che non è, in genere, un compito del potere togato - il Pool e tutta la magistratura stravolsero o sovra-interpretarono il Codice di procedura penale varato nel 1989: lo neutralizzarono e poi ridestarono come un frankenstein inquisitorio/accusatorio. A un Di Pietro usato come ariete (le manette come regola) si affiancò infatti una contro-legislazione operata dall’alto: alcune sentenze della Corte Costituzionale (su tutte la 255/92) e una legge suicida (il Decreto Scotti-Martelli) ristabilirono lo strapotere delle indagini preliminari; ai pm era sufficiente estrarre verbali d’interrogatorio e riversarli in processi che non contavano più nulla, ridotti a vidimazioni notarili delle carte in mano all’accusa. La loro totale discrezionalità dipendeva perlopiù dalla loro buona o cattiva disposizione, dalle trattative ossia che l’indagato fosse disposto ad accettare pur di uscire dal procedimento o dalla galera preventiva: colpevole o innocente che si ritenesse. Le condanne di Mani pulite (si parla di Milano) nacquero in maggioranza da patteggiamenti e riti abbreviati: 847 su 1254, esiti che erano stati ottenuti quando il carcere preventivo era la regola e quando nelle indagini tutto si esauriva, complice la stampa e le sue storture. Tutti quei nuovi riti erano divenuti le scorciatoie pagate a caro prezzo da chi aveva voluto uscire dal tritacarne giudiziario, dal Rito ambrosiano: ma tutto erano fuorché normalità, soprattutto per chi non era disposto a starci. Forse non è un caso che tra i 1320 indagati che il Pool spedì ad altre procure competenti il numero dei proscioglimenti fu altissimo. Tutta gente non colpevole ma che non figura, però, nella casistica ufficiale di Mani Pulite, come se Milano avesse teso a sbarazzarsi delle posizioni scomode e indisponibili alla confessione liberatoria. Si dovrà aspettare anni perché una riforma elementare ristabilisca un principio chiave che Mani pulite aveva fatto a pezzi: l'articolo 513, quello in base al quale solo nel processo una testimonianza può diventare una prova, non nel parlatorio di un carcere o in una caserma di polizia. Esattamente come accade nei film americani, dove tutto ciò che non avviene durante il processo, semplicemente, non esiste. In una sentenza bresciana che trattava delle omissioni di Mani pulite - sentenza favorevole a Di Pietro - il giudice fu costretto a scrivere che «le mancanze di approfondimenti rilevate appaiono del tutto in linea con i già evocati frenetici ritmi di lavoro che connotarono la prima fase di Mani Pulite». Chiamato a testimoniare, il pm Francesco Greco la mise così: «Difficilmente in Mani pulite i filoni investigativi venivano approfonditi oltre un certo livello, perché non c’era il tempo per farlo. Scoperto un episodio si andava a quello dopo». Il Pool era composto da gente cazzuta e competente, ma Mani pulite per certi aspetti fu un’indagine superficiale in cui la velocità primeggiò sulla qualità e sull’accuratezza. I magistrati sceglievano gli obiettivi a seconda delle possibilità del momento, e fu Francesco Saverio Borrelli a parlare di «Blitzkrieg»: «Era la guerra lampo tipica degli eserciti germanici, una penetrazione impetuosa su una fascia molto ristretta di territorio, lasciando ai margini le sacche laterali». Il Pool agiva allo stesso modo: «Tendeva ad arrivare rapidamente ad assicurarsi risultati certi, lasciando ai margini una quantità di vicende da esplorare in un secondo momento». Il punto è che i risultati giunsero perciò in un secondo momento (quando giunsero) oppure dal 1994 in poi, quando la stampa e il Paese già pensavano ad altro. Le carte che dimostrano come il Pds si finanziò in maniera illecita, per fare l'esempio più clamoroso, diventarono migliaia in tutto lo Stivale: ma non se ne accorse nessuno, perché nella fase più calda ed efficace - quando tutto era possibile, forzature comprese - il Pool si era concentrato sul Psi e sulla Dc. Il Pci-Pds si salvò anche per questo. Il Pool di Milano fece delle scelte. Forse non poteva evitarle, ma le fece, e questo contribuì a scrivere una storia perlomeno parziale. Per descrivere i singoli casi (segretari di partito abbattuti o neppure sfiorati, imprenditori salvati e altri suicidati, Eni buono ed Eni cattivo eccetera) non basterebbe un libro, ma il vizio d'origine è riscontrabile sin dai primi mesi dell'inchiesta, quando si propinò la favoletta degli imprenditori concussi e dei cattivi concussori, cioè i politici. Il 28 novembre 1992, a botta calda, il famoso Mario Chiesa fu condannato a sei anni e sei mesi e sei miliardi da restituire: il 160 per cento dei soldi ricevuti; mentre Fabrizio Garampelli, il concusso, difeso da legali graditi all'accusa, dovette rimborsare solo il 15 per cento senza che frattanto avesse mai smesso di lavorare: la sua azienda vinceva gli appalti del Pio Albergo Trivulzio da vent'anni - con ogni presidente - e continuò a farlo. Altri imprenditori se la cavarono con meno di due anni e la condizionale. Dirà lo stesso Mario Chiesa: ««Tangentopoli non nasce solo per la prepotenza dei politici. Di imprenditori estorti non c’è nemmeno l’ombra... corruttori pronti a prendere calci nel culo, a subire ogni vessazione, sempre pronti a presentarti ventisette donne pur di non uscire dalla loro nicchia ed evitare di misurarsi col libero mercato... Una logica da gironi danteschi: nel primo c’erano le imprese garantite per i lavori a cavallo del miliardo, nel secondo quelle per opere sui tre miliardi... sino alla Cupola, sei o sette imprese che si riuniscono e pianificano investimenti e leggi ad hoc per dividersi gli appalti secondo una logica mafiosa». Confermerà, molti anni dopo, Piercamillo Davigo: «Le imprese si sono sempre giustificate dicendo che erano state costrette a farlo, che erano concusse, ma quello che si è appurato nei processi o nei patteggiamenti, con le innumerevoli condanne, mi fa propendere per l’altra ipotesi, quella di una prevalente corruzione. Anche perché, molte volte, al versamento delle tangenti si accompagnavano sistematiche pratiche di alterazione delle gare attraverso gli accordi tra le imprese stesse. Insomma, molti imprenditori costituivano una categoria di soggetti abituati a vivere di ‘protezione’, al riparo della concorrenza, con un mercato privilegiato in cui gli appalti venivano suddivisi e spartiti al loro interno; in questa situazione il costo delle tangenti era rappresentato, a ben vedere, da cifre tutto sommato modiche rispetto ai benefici che se ne ottenevano». Mani pulite è anche questo, anzi, fu soprattutto questo, un'inchiesta giudiziaria che ebbe conseguenze politiche alla cui ombra potè accadere ogni cosa. E per forza: il Paese, agli albori del 1993, era un groviglio di manette, di malcontento e di retorica. Retate ad Ancona, Vercelli, Bergamo, Monza, in tutte le città d'Italia. Una manifestazione contro la manovra economica degenerò in scontri con 60 feriti. Gli scioperi fiorirono dappertutto e vennero contestati i sindacati. La Lega invitò a non acquistare i Bot, fallì un attentato contro la sede della Confindustria, scesero in piazza i commercianti contro l'annunciata minimum tax. Al segretario della Cisl, Sergio D’Antoni, tirarono un bullone in testa. Arrestarono l'intera giunta regionale dell’Abruzzo e l'intera giunta comunale di Vercelli. Ma è impossibile, ora, spiegare lo scenario in cui scivolavano le inchieste di quel periodo, ed è ancor oggi impossibile trovare un filo comune tra accadimenti che mozzavano il respiro: la bomba che il 14 maggio 1993 scoppiò al quartiere Parioli di Roma, l'autobomba che il 27 luglio scoppiò a Milano in via Palestro, le altre due l'indomani scoppiarono a Roma in piazza San Giovanni in Laterano e a San Giorgio al Velabro. L'opinione pubblica e i mass media si ritrovarono in un conformismo che si pensava smarrito. Durante il funerale delle vittime di via Palestro si distinsero frasi come queste: «Metteteli tutti a pane e acqua: la forca, ci vuole la forca!»; «Giuràtelo che li metterete tutti alla forca!»; Di Pietro, fatti ridare i soldi che hanno rubato, devi sequestrare tutto, hai capito?». Dopo quel paio di suicidi eccellenti che avevano calamitato l’attenzione sui metodi della magistratura (Gabriele Cagliari e Raul Gardini) si ripartì tranquillamente in quarta. Un sondaggio, elaborato dopo i suicidi, spiegava che il 60 per cento degli italiani riteneva che la carcerazione andasse bene così. Ormai la magistratura prendeva i contorni di un grande gendarme con potere d’interdizione permanente su uomini e cose. Un faro accecante sul vuoto della politica. Il mondo giornalistico intanto esplodeva in entusiasmi conformisti di cui solo noi siamo capaci, come l'era Monti in parte dimostra. Il settimanale «L’Europeo» regalava gli adesivi circolari «Forza Di Pietro», «Panorama» esaltava l’Italia «dei tanti Di Pietro che sono fedeli alle mogli, una nuova specie di uomo». Chiara Beria di Argentine scriveva sull'Espresso sempre su Di Pietro: «Un implacabile nemico delle mazzette, un giudice mastino che interrompe i lunghi, estenuanti interrogatori offrendo Ferrero Rocher». Maria Laura Rodotà scriveva su Panorama: «Il nuovo eroe italiano, il nuovo modello, a grande richiesta... Di Pietro, eroe tranquillo, un role model, un modello di comportamento italiano». Laura Maragnani scriveva su Donna: «Di Pietro fa sognare anche le donne. Piace. Strapiace. C'è chi lo definisce un sex symbol, un eroe per gli anni Novanta... Dicono di lui che sia duro, testardo, di metodi spicci. E che sia onesto, onestissimo. Basta questo a farlo adorare alle donne? O è merito anche del suo anti-look, del calzino corto che si ribella alla tirannia sell'apparire?». Ah, saperlo.
Si è tradito sulle manette facili ai tempi di Mani Pulite. Il commento di Filippo Facci. L'ex pm ribatte alle accuse, ma finisce per ammettere: non ho mai violato la legge, volontariamente. «Cosa può dirci dei rapporti tra Craxi e Ligresti?». La domanda fu rivolta a Mario Chiesa pochi giorni dopo il suo arresto (17 febbraio 1992, alba di Mani pulite) e peccato che non c’entrasse un tubo con la faccenduola per cui Chiesa era stato arrestato. Ma per almeno un anno, di lì in poi, la parola «Craxi» diverrà la parola più ricorrente dell’intera inchiesta nonché «l’apriti sesamo» in grado di far lasciare il carcere a chiunque si decidesse a pronunciarla, venendo così incontro alle attese degli inquirenti. Ecco perché ci vuole un certo coraggio (o semplice ignoranza o cattiva memoria, a distanza di vent’anni) per negare o non ricordare che Bettino Craxi e il Psi siano stati palesemente l’obiettivo di Mani pulite sin dal principio", spiega Filippo Facci su Libero in edicola oggi. In questi giorni Antonio Di Pietro, uno dei grandi protagonisti di Tangentopoli, è stato accusato di aver usato in modo scriteriato la carcerazione preventiva nel corso dei giorni dell'inchiesta. E l'ex pm ribatte, ma si tradisce e finisce per ammettere: non ho mai violato la legge, volontariamente. E infatti sono i numeri a rivelare l'utilizzo politico che il pool fece delle manette. Per ogni reato - questo il metodo - si ipotizzava l'affiliazione a un sistema per giustificare la detenzione. E questo lo capirono tutti, non solo gli ex ambasciatori Usa (che oggi, seppur post-mortem, lo accusano).
Cimici, furti, spiate e bombe: quanti gialli nell'era del pool, scrive Filippo Facci su "Libero Quotidiano". Nei primi anni di Mani pulite una trentina di case, uffici e studi vengono «visitati» non si sa da chi. Tra questi quelli dei parlamentari Arnaldo Forlani, Giorgio Postal (sottosegretario ai Servizi di sicurezza), Calogero Pumilia, Riccardo Misasi, Calogero Mannino, Guido Carli (a quest’ultimo rubano la chiave del suo studio privato al ministero del Tesoro), Gianni De Michelis, Carmelo Conte, Rino Formica, Margherita Boniver (nei giorni in cui presentava una relazione sul caso Moro), Carlo Vizzini, Alfredo Biondi, Giorgio Pisanò, Silvia Costa, Gianfranco Macis (della Commissione stragi, sostenne che cercassero alcuni documenti) e Giovanni Galloni (vicepresidente del Csm). Il 9 gennaio 1991 Vincenzo Parisi, ascoltato dalla Commissione stragi, afferma che «vorrebbero fare dell’Italia una terra di nessuno». I Servizi segreti? «Escludo quelli di casa nostra». Il 19 giugno 1991, giorno in cui si apprende del trasferimento a Roma di Giovanni Falcone, viene visitato l’ufficio del ministro della Giustizia Claudio Martelli. Il 19 marzo 1992 viene visitato l’ufficio romano del ministro dell’Interno Vincenzo Scotti. Il 20 marzo 1992 viene visitato l’ufficio del sottosegretario alla Difesa Clemente Mastella. Nello stesso giorno viene visitato il monolocale del giornalista Michele Santoro. Il 16 marzo 1992 l’agenzia Ansa trasmette d’intesa la notizia di una circolare del capo della polizia Vincenzo Parisi in cui si allertano i prefetti contro un fantomatico piano mirante a destabilizzare le istituzioni. «In tale ottica», spiega Parisi, «potrebbero inquadrarsi l’intrusione notturna negli archivi della Commissione parlamentare sul caso Bnl-Atlanta e la serie di furti e avvertimenti a danno di periti, consulenti, difensori, giornalisti, ufficiali di polizia giudiziaria connessi all’inchiesta condotta dal giudice Rosario Priore sul caso Ustica». Dal giugno 1992 in poi circolò una quantità incredibile di verbali falsi, «veline» e dossier anonimi. Tra il 5 e il 6 luglio 1992, ignoti s’introducono nell’ufficio milanese di Bettino Craxi di piazza Duomo. Due porte blindate vengono superate senza scasso ma non viene asportato nulla. L’inquilina della porta accanto (peraltro, in quel periodo, intervistata da Piero Chiambretti), uscita nottetempo in pianerottolo per via di alcuni trambusti notturni, raccontò di essere stata così tranquillizzata: «Non si preoccupi, Pubblica sicurezza». Episodio analogo due giorni dopo al Club Turati di via Brera 18, dove Vittorio Craxi, figlio di Bettino, aveva un ufficio. Identiche modalità di scasso nell’ufficio di un’associazione di cui era presidente Anna Craxi. Visite notturne sono state denunciate anche da un legale di Craxi, Enzo Lo Giudice, e dall’ex segretaria Enza Tommaselli. Il 5 febbraio 1993 una telefonata annuncia una bomba nell’ufficio romano di Stefania Craxi e Marco Bassetti. La Digos, intervenuta, non trova bombe ma, nell’appartamento adiacente, rinviene un calco della serratura dell’ufficio. Negli stessi giorni il deputato Dc Bruno Tabacci denuncia il ritrovamento di una microspia nella tasca laterale della sua automobile. Nel marzo 1993 un inconoscibile personaggio offriva materiale (fotocopie di assegni della Cassa di Risparmio di Torino, tabulati, verbali di protesto) allo scopo di dimostrare che Giuseppe Davigo, padre di Piercamillo, avesse emesso assegni a vuoto per decine di milioni nel corso del 1992. Il 16 aprile 1993 l’avvocato Giuseppe Lucibello scopre una microspia lungo il cavo telefonico del suo ufficio. Il 27 luglio 1993 bombe a Milano e a Roma. Ventidue minuti dopo la mezzanotte, Palazzo Chigi rimane telefonicamente isolato fino alle tre. Nel dicembre 1993 e nel gennaio 1994 vengono visitati gli appartamenti romani di due deputati leghisti. L’onorevole Publio Fiori trova una «cimice» nella cornetta del telefono e un’altra viene trovata più tardi dai tecnici intervenuti per la bonifica. Il 27 e 28 aprile 1995 vengono visitate le congregazioni di Piazza Pio XII e l’ufficio dell’arcivescovo argentino Jorge Mejia. Spariscono vari fascicoli riservati. Nell’agosto 1995 viene devastata e semidistrutta persino l’abitazione dello scrivente, come regolarmente denunciato. Vengono asportati alcuni documenti d’archivio. In un’altra visita del primo ottobre vengono asportati alcuni floppy-disk. L’11 e 12 novembre 1995 vengono visitati gli uffici del dicastero del cardinale Joseph Ratzinger e messi a soqquadro. Vengono inoltre saccheggiati i cassetti del sottosegretario alla Congregazione monsignor Joseph Zlathansky (contenevano dossier in copia unica sulle carriere degli ecclesiastici). Il 29 novembre 1995 viene visitato l’appartamento del parlamentare Giuseppe Tatarella. Il 4 febbraio 1996 viene visitato l’appartamento di Marco Pannella. Nello stesso periodo vengono visitati gli uffici di Willer Bordon e Clemente Mastella. Nel febbraio 1996 si apprende che erano stati intercettati per clonazione oltre duecento telefoni cellulari di politici, manager, giudici e giornalisti. Tra questi: i parlamentari Gianni Letta e Adolfo Urso, l’ex questore Achille Serra, alcuni dirigenti del Pds, della Rai, del Centro nazionale ricerca, della Consob, il giudice Michele Coiro, un generale della guardia di finanza e uno dei carabinieri, sette cronisti di La Repubblica e due dell’Ansa. Il 21 marzo 1996 nell’appartamento del parlamentare Cosimo Ventucci irrompono quattro uomini vestiti come poliziotti. Lo immobilizzano, maltrattano la moglie e la figlia e spariscono senza asportare nulla. Il 6 luglio 1996 viene visitato l’appartamento del parlamentare Roberto Maroni.
Chi ricorda quando Pisapia sparava a zero su Di Pietro? Oggi costretti a convivere, ma in passato il sindaco di Milano criticava Tonino: "Arresti per le confessioni", scrive Filippo Facci su "Libero Quotidiano". Politica significa scendere a patti col diavolo o addirittura con Di Pietro. Non esiste passato, non esiste memoria: altrimenti mettere insieme tre personaggi come loro - Antonio Di Pietro, Giuliano Pisapia e Bruno Tabacci - risulterebbe impossibile. È vero, alla fine l’Italia dei valori non è entrata nella giunta milanese: ma spunteranno altri incarichi, perché la politica è questo. Resta da chiedersi: ma come fanno? Non si fa politica col risentimento, è vero, ma lo stesso: come fanno? Cominciamo con Bruno Tabacci, uno che a poco più di trent'anni dirigeva l'ufficio studi del Ministero dell’Industria e in seguito ha diretto la segreteria tecnica del Ministero del Tesoro. Dal 1987 al 1989 è stato presidente della Regione Lombardia e ha affrontato brillantemente l'emergenza dell'alluvione in Valtellina, poi è arrivato Di Pietro e gli ha rovinato la vita. No, non solo con Mani pulite: prima ancora. Nel 1989 Tabacci fu indagato nella cosiddetta inchiesta «Oltrepò Pavese» (che verteva su anomale distrazioni della Protezione Civile a favore di un centinaio di parroci) ma dopo un po’ di frittura fu prosciolto una prima volta. Però aveva già tratto un’impressione precisa: «Di Pietro», disse, «era ansioso di utilizzare le inchieste anche per la pubblicità che gliene derivava sui giornali. Un furbo. Ho scoperto dopo che le mie frequentazioni milanesi erano più prudenti delle sue». Poi, eletto deputato nell’anno di Mani pulite, la procura di Mantova notificò a Tabacci quattro avvisi di garanzia, e chiese anche l’autorizzazione per arrestarlo: per scongiurare che scattassero le manette dovette intervenire il pidiessino Giovanni Correnti. Ma nel 1996 Tabacci fu prosciolto ancora. Poi, nella primavera 1993, riecco Di Pietro a chiedere l’autorizzazione a procedere sempre contro di lui: ricettazione e finanziamento illecito dei partiti. E Tabacci, nel marzo 1996, fu assolto anche per questi due reati. Morale: per colpa di Di Pietro era stato decapitato come presidente della regione Lombardia, come segretario regionale della Dc e come aspirante ministro: anzi, a margine dell’ultimo proscioglimento, nel 1996, Tabacci dovette avvedersi che ministro, semmai, era divenuto il suo accusatore. Ecco: come fanno? Come fa, lui, a stare dalla stessa parte di uno come Di Pietro? Come è possibile che nel gennaio 2008, a proposito di nuovi partiti, si leggesse addirittura di una fantomatica «cosa bianca» condivisa da Tabacci e Di Pietro? Poi c'è Giuliano Pisapia, che non era soltanto l'avvocato di Tabacci: era e resta un garantista coi fiocchi, figlio di quel professor Giandomenico Pisapia che era stato relatore del nuovo Codice Penale varato nel 1989. Doveva essere una rivoluzione copernicana, quel Codice: nelle intenzioni si proponeva la terzietà del giudice, la pari dignità giuridica tra accusa e difesa, la custodia cautelare come extrema ratio, la segretezza delle indagini, la pubblicità del processo, soprattutto la prova e il contraddittorio che dovevano formarsi rigorosamente in aula. E chi è stato il prim'attore nello stravolgimento del Nuovo Codice, simbolicamente ma anche praticamente? Lui, quel Di Pietro che Pisapia aveva già conosciuto quando istruiva sconosciutissime indagini sulle messaggerie telefoniche del Videotel: «Di Pietro», ha raccontato Pisapia, «fece scattare un grosso blitz: senza seguire le regole, alcune persone, anziché essere invitate a comparire come previsto dal Nuovo codice, furono prelevate alle 6 di mattina e portate non in Procura ma nella sede della Criminalpol, e interrogate con modalità non conformi al Codice, nella convinzione che questo modo choccante di interrogare favorisse la racconta di dichiarazioni utili». Un'inchiesta finita in nulla. Poi lo aveva incontrato ancora nell’inchiesta cosiddetta Patenti facili, un'istruttoria estenuante durante la quale Di Pietro chiese assoluzioni e derubricazioni per gli stessi reati che pure gli avevano consentito arresti di massa. Disse Pisapia: «L'ho conosciuto all'interrogatorio di un'anziana titolare di una scuola guida che era stata convocata a piede libero ma con modalità estranee al Codice, e cioè non con un formale invito a comparire in Procura ma con una telefonata e in una caserma della polizia stradale. Pochi giorni dopo ho ritrovato Di Pietro all'interrogatorio di un funzionario della Motorizzazione civile, arrestato. Tutte e due furono prosciolti: la donna già alla fine delle indagini preliminari, l'uomo in appello, dopo aver scontato numerosi mesi tra carcere e arresti domiciliari. Da subito emerse chiaramente la sua concezione dell'arresto o della minaccia all'arresto, troppo spesso finalizzato alla ricerca della prova, della confessione». Ora quell'uomo è suo alleato politico, suo e di Bruno Tabacci. Non esiste passato, non esiste memoria.
«Mani Pulite ha tolto libertà a magistrati». Le accuse della Forleo in un libro: «Indagare sulla destra va bene, ma se cambi colore di caimano ti fai male», scrive Giuseppe Guastella su “Il Corriere della Sera”. «Fino a Tangentopoli, e fino a qualche anno fa, il problema era dell’indipendenza della magistratura dal potere politico, adesso è dell’indipendenza del magistrato rispetto alla magistratura». Il «singolo magistrato» che «non si vuole allineare, non si vuole schierare, vuole essere libero, finisce per pagare i suoi errori. E li paga cari». Parola del gip Clementina Forleo, che il Csm ha trasferito a Cremona per incompatibilità ambientale, la quale vede questa situazione come la conseguenza degli «eccessi» di Mani Pulite, specialmente nell’uso del carcere, che hanno «rafforzato il consenso popolare verso certa politica» e minato «la fiducia» nei magistrati. Torna sul tema dei «poteri forti», Forleo, in un libro-intervista di Antonio Massari (Alberti). Nel '94, quando lei diventò giudice a Milano, i «magistrati erano uniti» nella «battaglia fisiologica e sempre in corso» contro un potere politico che «aveva un colore ben definito: c’era un nemico». «Berlusconi?», chiede l’autore. «Il pool si ribellò a un decreto del governo Berlusconi» risponde parlando in astratto. I fatti erano «gravissimi, ma lo strumento carcerario doveva essere limitato ai più gravi». E anche se «il sistema era talmente radicato che c’erano poche vie d’uscita», non farlo fu un errore. Il risultato del rafforzamento del potere politico è che ora i magistrati sono «più prudenti» e gli inquirenti «finiscono comunque per rispondere alle logiche di potere interne, nonostante l’obbligatorietà dell’azione penale», ragiona Forleo, gip dell’inchiesta Unipol- Antonveneta, firmataria della custodia per il banchiere Gianpiero Fiorani, chiedendosi retoricamente se «Fazio (indagato, ndr.) e sua moglie sarebbero rimasti liberi all’epoca di Tangentopoli». «Fiorani, in galera, c’è finito. Fazio invece no. Né lui che all’epoca dei fatti era il governatore della Banca d’Italia, né sua moglie che, peraltro, non mi risulta sia stata indagata, neanche per favoreggiamento, nonostante fosse anch’ella in contatto con Fiorani» con cui scambiava «informazioni importanti». «Oggi si è rotto l’idillio tra certa magistratura e certa politica e ciò ha causato autentici scempi, quale il silenzio dell’Anm di fronte alla vicenda di Luigi de Magistris», il quale aveva scoperto che tra i magistrati potevano esserci «personaggi conniventi con i potentati politici ed economici». La magistratura faccia «i conti con se stessa» affrontando «la questione morale», perché «oggi il singolo magistrato è più debole» e c’è il rischio che qualcuno possa «scivolare in comodi compromessi», come le è già capitato di vedere con amarezza. Le sue posizioni a difesa di de Magistris, per la separazione delle carriere, contro le correnti e la richiesta al Parlamento di usare nell’inchiesta Unipol le telefonate degli allora ds Latorre e D’Alema («consapevoli complici di un disegno criminoso», scrisse) hanno dato il via ai «vergognosi attacchi» contro di lei, anche dalla magistratura: «Si sono toccati i fili che fanno morire. Perché fino a quando s’era attaccato il nemico della magistratura, il nemico di destra, era andato tutto bene. Avevo avuto la solidarietà. La magistratura era stata compatta nel proteggere il giudice Forleo. Poi, quando spunteranno caimani d’altro colore, tutti si dilegueranno». Tre giorni dopo, lesse l’appello ai giudici del presidente Napolitano alla «riservatezza» e a non inserire in atti «valutazioni non pertinenti» come «una pressione» che le fece «male», «un’offesa al Paese». In un altro passaggio definisce caimano «il potere esecutivo, qualunque colore abbia». Il libro ripercorre i procedimenti del Csm che l’avrebbe trasferita dopo «un processo sommario», «una pagina nera nella storia della magistratura» che l’ha fatta sentire come «un dissidente perseguitato», dichiara. Lì parlò dell’ex procuratore Gerardo D’Ambrosio il quale, eletto senatore ds, si schierò «contro la trascrizione delle telefonate». Lo vide andare a pranzo con i pm delle scalate bancarie e la cosa la indignò: «Se qualcuno lascia la toga per diventare un politico, poi dovrebbe avere il buon gusto di non creare confusione di ruoli. Io non ho avuto dubbi sul rigore dei colleghi: colsi l’inopportunità del gesto di D’Ambrosio». L’ex procuratore ha sempre ribattuto che si trattò di un incontro occasionale e non si parlò delle inchieste. Una rivelazione, infine. Ha ricevuto la proposta di candidatura. Da chi? «Non dal centrodestra» né dall’Idv di Di Pietro.
Tutti si definiscono giornalisti, pochi lo sono veramente. Testimonianza “Per fatto personale”, scritta da Filippo Facci. "Alla fine del mio «Di Pietro, la storia vera» c’è un fuori-capitolo che racchiude alcune peripezie personali che ho sempre omesso di raccontare. Non farlo neppure stavolta sarebbe stata reticenza."
Avevo ventiquattro anni e volevo fare il giornalista. Nel gennaio 1991 vantavo già tre o quattro querele e fu allora che incontrai Antonio Di Pietro per la prima volta. Avevo cominciato presto, e dal giornaletto in cui spadroneggiavo, a Monza, approdai a delle collaborazioni con «l’Unità» e con «la Repubblica». Tuttavia le querele giungevano scientificamente solo al giornaletto che mi dava da vivere e che perciò dovetti lasciare.
Di Pietro lo conobbi appunto per una querela: era in toga e me l’indicarono; gli rivolsi un saluto formale che lui non ricambiò. Non gl’importava nulla di quella causa, lo si capiva. Sembrava mestamente annoiato dalle sciocchezze e dalle querele di me giornalistucolo, e quella sua burocratica indolenza non me la sarei più schiodata dalla mente. La querela non ebbe seguito.
Finito il militare, i miei contatti con «l’Unità» e con «la Repubblica» erano saltati. Mi ero sposato l’anno prima, a ventitré anni, ed ero disoccupato: l’unico contatto che riuscii a procurarmi fu con la redazione milanese dell’«Avanti!», dove per un paio d’anni avrei lavorato da abusivo. A me importava solo di fare il giornalista.
Mi diedi da fare. Di Pietro lo rividi nel dicembre 1991 quando mi mandarono a intervistarlo con la testuale premessa che era «amico nostro». L’incontrai di nuovo seguendo Mani pulite: l’«Avanti!» era ritenuto il giornale dei ladri e lo chiamavano «la gazzetta degli avvocati», e tra una diffidenza e l’altra i nervi di una mia collega avevano cominciato a cedere; avevano mandato avanti me perché secondo il mio caporedattore ero un «cane sciolto».
Ma un cronista dell’«Avanti!», al tempo, aveva poche alternative tra l’essere considerato un cane sciolto o l’essere considerato un cane. Ricordo quando entrai nella sala stampa del palazzo di giustizia e tutti uscirono, come capitò anche a un cronista del «Secolo d’Italia». Ricordo quando davanti a una clinica privata, dove un famoso finanziere era agli arresti ospedalieri, il gruppetto dei cronisti cambiava marciapiede a seconda della mia posizione. Quando mi capitò di pubblicare dei verbali d’interrogatorio che guastarono i piani di chi scriveva in pool, poi, un collega mi disse a brutto muso che secondo lui i miei verbali erano falsi. Un altro cronista mise in relazione la fuga notturna di un dirigente socialista con una mia possibile spiata. Lo scrisse pure.
In tutto questo la situazione si era fatta ancora più complicata perché la sede romana dell’«Avanti!» vedeva nella redazione milanese un avamposto craxiano – ciò che era – e man mano che decresceva il potere di Craxi cresceva anche il tentativo di isolarci e di toglierci peso. Io formalmente neppure esistevo: non avrei potuto neanche stare in redazione; il direttore di allora, su cui non esprimo un’opinione perché non ho l’immunità parlamentare, si chiamava Roberto Villetti e ogni tanto telefonava da Roma per sincerarsi che io fossi rimasto a casa o scrivessi comunque da fuori, quando invece in redazione praticamente ci dormivo. A un certo punto, in un periodo in cui peraltro non arrivava più una lira perché le tangenti erano finite – questo l’avrei appreso poi – Villetti prese a togliermi anche la firma dagli articoli: ma neppure sempre, a giorni alterni, quando capitava. Pensai di aggirare l’ostacolo ricorrendo alla doppia firma col mio caporedattore milanese, Stefano Carluccio, un amico: ma a un certo punto il direttore risolse togliendo solo la mia firma e lasciando quella di Carluccio sotto articoli che però avevo scritto io.
Nell’insieme: lavoravo da abusivo per il giornale dei ladri, ero disprezzato dai colleghi e da chiunque in quel periodo sapesse dove scrivevo, completamente gratis, in teoria non potevo neppure entrare in redazione e sotto i miei articoli c’era la firma di un altro. Però c’era la salute.
Continuai a seguire Di Pietro e Mani pulite anche quando l’atmosfera si fece ancora più elettrica e quando due persone che conoscevo, inquisite, si suicidarono. Scrivere sull’«Avanti!» certo mi forzava a guardare le cose da un punto di vista speculare, ma probabilmente c’entrava anche il mio carattere e un’età in cui avevo davvero poco da perdere. In ogni caso il clima che ribolliva nel paese non mi piaceva. Mi venne naturale raccogliere del materiale su cui lavorare: di giorno, quindi, seguivo la cronaca, e la sera ci ragionavo, approfondivo, scrivevo, ne discutevo sino a tarda notte.
Continuai a occuparmi di Di Pietro anche quando l’«Avanti!» chiuse i battenti e rimasi a spasso. Era la fine del 1992. Fu un brutto colpo, soprattutto perché ormai ero catturato dagli avvenimenti. La redazione era chiusa ma spesso ci dormivo dentro perché a casa c’era qualche problema. Presi a indagare, feci domande in giro, raccolsi ritagli di giornale. Un paese intero invocava manette e io intanto fingevo di fare il giornalista come di consueto: assumevo informazioni, le ordinavo, le assemblavo, ne parlavo: solo che, il giorno dopo, non usciva nessun mio articolo. Mi limitavo a ingrassare e limare un mio libro impossibile, una sorta di rivisitazione della carriera di Di Pietro e della sua inchiesta devastante. Non avevo nient’altro da fare, né di nient’altro m’importava.
Era il periodo dei governi che non riuscivano a governare, l’anno delle bombe a Milano e a Roma, delle speculazioni internazionali: l’atmosfera da torbido complotto era illuminata solo dalla mirabolante traiettoria di Antonio Di Pietro. Un sondaggio, tra «abbastanza», «molta» e «moltissima», gli attribuiva il 90 per cento della fiducia degli italiani. Neppure certi suicidi eccellenti avevano scosso l’opinione pubblica: il 60 per cento degli italiani riteneva che l’uso della carcerazione preventiva andasse bene così. Neppure quel clima da carboneria e la mia vocazione di bastiancontrario mi divertivano più: ero pur sempre un ragazzo di ventisei anni che voleva fare il giornalista. Cercai di defilarmi.
Scrivevo. Il libro era ormai denso e particolareggiato sino alla paranoia, quasi quattrocento pagine che ingenuamente e nelle maniere più improbabili tentai di proporre a qualche casa editrice. Non interessò a nessuno perché ero un perfetto sconosciuto, ma nondimeno perché era il periodo che era. Sulla copertina di «tv Sorrisi e Canzoni» l’icona del magistrato più amato dagli italiani troneggiava su un titolo cubitale: Di Pietro facci sognare.
Conobbi Bettino Craxi semplicemente telefonandogli: fu poco prima che quasi lo linciassero all’Hotel Raphaël, all’inizio del 1993. Non dirò nulla di lui. Conobbi altre persone tra le più care, in quel periodo: uomini e ragazzi che difendevano storie che non erano le loro, e che dicevano follie che un giorno sarebbero state ovvie. L’effervescenza di Mani pulite mi disvelò codardie raggelanti e dignità insospettabili.
Il mondo delle persone normali, a poco a poco, mi perse. Sfumarono amicizie e affetti, il matrimonio era ormai consunto, mio padre intanto leggeva il forcaiolo «Indipendente» di Vittorio Feltri. Poi, un giorno di aprile, mi telefonò un personaggio di una fantomatica casa editrice straniera, uno che diceva di aver saputo del mio dattiloscritto da qualche collega di Palazzo Marino, la sede del Comune di Milano. Si disse interessato. Ci vedemmo due volte in un bar del centro e nel secondo incontro mi mostrò anche un libro pubblicato da questa casa editrice straniera, la Marshall di Dublino. Nel trattenere una copia del mio lavoro mi disse che uno scritto come il mio in Italia non sarebbe mai stato pubblicato, e con mio sbigottimento mi diede una busta che – verificai poi – conteneva 4 milioni in contanti. Gli lasciai anche due mie foto. Una, lo feci per scherzare, mi ritraeva che avevo circa un anno.
A metà luglio il settimanale «Il Sabato» pubblicò un dossier che conteneva tutta una serie di notizie imbarazzanti per Antonio Di Pietro. Erano cose che perlopiù conoscevo e che nel mio libro fantasma avevo sviluppato in parte meglio e in parte peggio. Furono sbrigativamente bollate come «calunnie» come capitava a ogni minimo rilievo mosso contro Di Pietro, ma fu un altro fatto a colpirmi. Mi suonavano stranamente familiari, di quel dossier, almeno un paio di passaggi. Ebbi l’impressione che l’estensore avesse quantomeno consultato il mio libro fantasma, ma fu solo un primo campanello d’allarme. Presto un altro episodio l’avrebbe terribilmente superato.
Il mio ex caporedattore, Stefano Carluccio, mi convinse a fare causa all’«Avanti!» così da ottenere almeno il praticantato d’ufficio, un riconoscimento legale che mi avrebbe permesso di fare l’esame da giornalista professionista. All’Ordine della Lombardia c’era Franco Abruzzo, ritenuto vicino a quel che rimaneva del Psi. La mia causa fu accolta. A Roma feci l’esame scritto e scelsi un tema sul cosiddetto «nuovismo» maturato dopo Mani pulite, anche se l’enfasi della titolazione avrebbe potuto indurmi a migliori consigli. Fui soddisfatto del mio lavoro, ma tempo dopo appresi che mi avevano bocciato. Diedi di nuovo l’esame scritto e scelsi l’analisi di un decreto legge sulla giustizia, il Decreto Gargani. Presi il voto più alto di tutta la sessione. Preparai l’orale e intanto non combinavo granché.
Nel dicembre 1992 avevo conosciuto l’ex sindaco di Milano Paolo Pillitteri, ex amicone di Antonio Di Pietro, e mi aveva già confidato qualche notevole aneddoto su Tonino, Ninì come lo chiamava lui. Passavo a trovarlo nella ridicola speranza che potesse aiutarmi a trovare lavoro e mi dava udienza anche perché era avvolto da una solitudine impressionante. Un giorno mi mostrò un faldone pieno di appunti infarciti di correzioni illeggibili, voleva una valutazione. La forma faceva abbastanza schifo e glielo dissi, ma gli proposi di fare un libro intervista purché corredato di domande e risposte vere. Pillitteri aveva lottizzato e piazzato giornalisti ai più alti livelli, ora aveva me. Ci mise un po’ ad accettare. A lavoro finito, l’ex sindaco mi favorì due appuntamenti con due editori, ma andò male. Nel febbraio 1994 tentai di mia iniziativa con la romana Newton Compton e sorpresa: accettarono. Mi posero dei tempi di consegna strettissimi così da uscire entro le elezioni del 27 marzo. Ero sbalordito.
L’esame orale da giornalista fu sempre in febbraio. Si doveva discutere una tesina scelta dal candidato e rispondere a un po’ di domande. I commissari sbirciarono il voto dello scritto e si compiacquero. Ma poi, di fronte a una commissione composta da magistrati e giornalisti, cominciai a discutere la tesina «Commistioni tra magistrati e giornalisti nell’inchiesta Mani pulite» perché ero fatto così. Anche un po’ scemo, a riguardarmi oggi, ma ero uno che non mollava mai. Gli altri aspiranti professionisti sgranarono gli occhi di fronte all’harakiri e l’esame non fu piacevole, durò almeno il doppio del consueto e anche la camera di consiglio si protrasse per un’ora secca. Fui promosso col minimo dei voti, grazie, appresi, a un commissario che poi venne a cercarmi.
Ero finalmente un disoccupato professionista e pensai che l’importante fosse non fermarsi. Cominciai a girare da un avvocato all’altro per raccogliere varie storie di malagiustizia, mia vecchia passione di quando sedicenne militavo nei Radicali. Cercai di condensare queste storie in un altro volume in cerca di fortuna. Ogni tanto ripensavo all’improbabilità di quell’editore straniero, tutte le stranezze, i contanti senza ricevuta, neppure un numero telefonico o un indirizzo dove rintracciarlo. Era sparito e pensai che potesse essere normale in un periodo in cui nulla lo era.
Un vecchio amico di mio padre lavorava alla neonata «Voce» di Montanelli, e provai lì. Erano in overbooking, ma il tizio mi procurò un appuntamento con Maurizio Belpietro, vicedirettore del «Giornale». Quest’ultimo mi accompagnò dal capo della cronaca di Milano, Daniele Vimercati, e gli propose di mettermi alla prova. Ma non mi chiamò mai. Era un ottimo giornalista, era vicino alle posizioni di Bossi e io ero uno che aveva lavorato all’«Avanti!» da abusivo.
Un mattino mi segnalarono uno dei tanti anonimi su Mani pulite che circolavano per le redazioni. C’era una copertina grigia col titolo Gli omissis di Mani pulite e risultava edito da una certa «Marshall Ltd-Irlanda», firmato da Anonimo giornalista. Centonovantadue pagine fitte. Era il mio libro, Anonimo giornalista ero io. Sulla retrocopertina, piccolina, c’era anche la mia foto di quando avevo un anno.
Rimasi di sale. Da una parte la rabbia per quell’incredibile lavoro perduto nell’oceano degli anonimi, dall’altra un timore irrazionale di venire scoperto per aver fatto qualcosa che in realtà non volevo neppure nascondere. Fu difficile non parlarne con nessuno per mesi, per anni. Tanto più quando il settimanale «Panorama», poco tempo dopo, in un trafiletto, fece cenno al volume e titolò Veleni contro Mani pulite. Mi raccontarono che alcuni colleghi della giudiziaria si divertirono con la caccia all’autore e seppi che non sospettarono di me perché non mi ritenevano all’altezza.
Il libro intervista con Pillitteri, Io li conoscevo bene, uscì a marzo inoltrato. «Panorama» ci dedicò un’intera pagina e altri articoli uscirono sulla «Stampa» e sul «Messaggero». Spesso neppure mi nominavano, ma fui contento anche se dell’argomento principe del libro, Antonio Di Pietro e certi suoi legami imbarazzanti, preferirono non parlare.
Già lavoravo ad altro: la raccolta delle storie di malagiustizia mi appassionava. In luglio, nei giorni del disgraziato Decreto Biondi, il mio amico Luca Josi mi propose di presentarle sotto forma di libro in via di pubblicazione, anche se propriamente non c’era il libro e non c’era l’editore; diceva che si poteva contrapporlo a quanti, a fronte delle lagnanze garantiste, invocavano ogni volta esempi e casi concreti.
Nella saletta di un hotel romano, non certo grazie a me, intervennero Vittorio Sgarbi, l’avvocato Nicolò Amato e il professor Paolo Ungari. Uscì un trafiletto sul «Giornale» e uno sul «Corriere della Sera». Fu un risultato, dati i tempi. Qualche giorno dopo si fece vivo tal Roberto Maggi, già editore di Sgarbi con la sua Larus di Bergamo. Aveva letto il trafiletto sul «Corriere». Disse che il libro gli interessava molto ma tutto venne rimandato a settembre. Gli credetti. Passai l’intero agosto a lavorarci sopra.
In settembre, dopo ripetuti rinvii, Maggi si rese irreperibile e compresi poi perché: stava per pubblicare La Costituzione italiana: diritti e doveri commentata da Antonio Di Pietro con prefazione di Francesco Cossiga. Presto avrebbe editato anche due testi di educazione civica sempre firmati dall’ex magistrato. Roberto Maggi cercò di convincermi che aveva grandi progetti e che non avrebbe avuto problemi a pubblicare anche me, perché era un liberale, e la cosa incredibile è che io credetti anche a questo. Continuai a lavorarci. Non ero cretino: ero di mente lineare, poco incline al barocchismo e al retroscena, figlio di mezzi tedeschi, soprattutto crederci era gratis.
Il mio ultimo appuntamento alla Larus di Bergamo fu il 3 febbraio 1995. Attesi due ore in una saletta e poi eccomi nell’ufficio di Maggi, dove appesa al muro c’era una gigantografia di Antonio Di Pietro firmata da Bob Krieger. Mi spiegò che non poteva permettersi di pubblicare il mio lavoro perché l’aveva mostrato all’ex magistrato. In sostanza aveva cercato di farsi bello con lui bloccando il mio libretto. Questo disse, almeno. Rimasi malissimo.
I primi di giugno 1995 ero a Monza a giocare a pallacanestro. Non possedevo un telefono cellulare e sul bordo del campetto d’un tratto comparve mio padre: mi disse che mi stavano cercando urgentemente dal «Giornale», quotidiano che intanto lui era passato a leggere. Finii la partita e solo molto più tardi, da una cabina del telefono, appresi che Di Pietro era stato inquisito a Brescia, e mi proposero di scrivere un articolo tipo «io l’avevo detto» sulla base di quanto avevo già scritto nel libro-intervista a Pillitteri. Dovetti precipitarmi al «Giornale» con la canottiera ancora madida di sudore e ricordo l’orrore negli occhi di Vittorio Feltri che allora se la tirava con l’eleganza british-campagnola. Scrissi un affresco sul reticolo di amicizie discutibili dell’eroe nazionale. Il giorno dopo, più di un quotidiano fu costretto a inseguirmi. «L’Unità», circa il libro intervista con Pillitteri, scrisse di «veleni», e «la Repubblica» che «il pamphlet rischia di diventare un best seller che pare già depositato agli atti dell’inchiesta di Brescia». Il best seller mi fruttò in tutto 1.081.623 lire. Cominciai a scrivere sul piccolo quotidiano «L’Opinione» grazie a una raccomandazione di Pillitteri, ma stavano per addensarsi nubi davvero nere.
Procure e redazioni, al tempo, erano invase da scritti anonimi contro la magistratura milanese, e si prospettava l’ombra di un Mister X che fungesse da suggeritore dei cosiddetti veleni indirizzati contro Di Pietro. Il clima da spy-story era a mille. Il 3 luglio 1995 sul «Giornale» lessi questo titolo: Mister X era già in un libro di due anni fa. Sottotitolo: Un memoriale anonimo pubblicizzò tutti i veleni e gli omissis del gruppo di Mani pulite. Testo: «Oggi andrebbe a ruba. Allora, nel maggio 1993, circolò per il tribunale come i samizdat clandestini del dissenso russo. Gli omissis di Mani pulite, un pamphlet di 192 pagine, raccontava già tutto. Gli anonimi e i Mister X che sono venuti dopo avevano alle spalle quel superdossier».
Avevo la certezza che non sarebbe finita lì. Ebbi l’irrazionale sensazione che qualcuno mi stesse cercando. Non mi trovò la Spectre, ma Stefano Zurlo del «Giornale». Mi telefonò e mi chiese esplicitamente se Mister X fossi io. Negai. Per giorni. A un mio generalizzato timore si accompagnava la consapevolezza che la storia dell’inglese che scippa i libri dei giovani cronisti era incredibile, nel senso di poco credibile.
Cedetti, ovviamente. La verità per la verità interessava relativamente, lo sapevo bene: la scoperta di un ingenuo Mister X probabilmente avrebbe potuto smentire chi prefigurava dei potenti burattinai di centrodestra dietro la diffusione dei dossier anonimi. Decisi di correre il rischio. Al «Giornale» incontrai Maurizio Belpietro per la quinta volta in una quinta veste diversa: prima ero stato un imberbe che cercava lavoro, poi l’autore di un libro intervista con Pillitteri, poi l’autore di un libro inesistente su casi di malagiustizia, poi un giocatore di basket avvolto da un alone non propriamente di mistero, ora un Mister X di ventotto anni che viveva al quartiere Giambellino. Gli chiesi come avessero fatto ad arrivare a me e mi rispose che mi aveva riconosciuto dalla foto di bambino stampata dietro il dossier.
«Il Giornale», il 24 luglio, aprì la prima pagina con uno spaventoso titolone: Ecco l’autore del dossier Di Pietro. Sottotitolo: Filippo Facci, un giovane cronista dell’«Avanti!», scrisse due anni fa un rapporto in cui anticipava le accuse all’eroe di Mani pulite. Si insisteva ancora col «samizdat clandestino del dissenso russo». Stavo per finire in un mare di guai. La Procura di Brescia mi convocò e mi interrogò per sei ore: il samizdat russo finì agli atti. Anche il libro intervista con Pillitteri era già finito agli atti. Vi finì anche la faccenda del libro sui casi di malagiustizia fermato dalla Larus. Mi chiesero del presunto editore inglese o irlandese e risposi che mi si era presentato come «Olinco» o forse «Holinko», non avevo mai visto il suo nome per iscritto. Gli inquirenti, com’era prevedibile, mi chiesero se avessi mai ricevuto altri dossier anonimi e gli consegnai quelli che avevo. Vollero sapere se li avessi utilizzati per scrivere il mio libro e li invitai a verificare che in qualche caso li avevo addirittura smentiti. Il giorno dopo, sul «Giornale»: Caso Di Pietro, cronista sotto torchio. Sottotitolo: Sei ore e mezzo senza neanche una pausa caffè. Pochi giorni dopo trovai la casa perquisita e devastata da chi cercava chissà che cosa. Non mancava nulla, a parte qualche documento poco significante. Sporsi denuncia alla polizia e fui interrogato di nuovo a Brescia.
Settembre coincise con propositi di rinnovata normalità: scrivevo sempre per «L’Opinione», mi concentravo sul lato oscuro di Antonio Di Pietro e setacciavo nuovi casi di malagiustizia. Ogni tanto, almeno una volta alla settimana, sentivo Craxi al telefono. Mi chiamava lui. Gli piaceva che io venissi praticamente dal nulla, per quanto poteva saperne.
Il 12 settembre 1995 sulla «Repubblica» uscì un articolone titolato Il Mistero Holinko. Sottotitolo: Salamone indaga su un libro contro Mani pulite. Un estratto: Chi è il signor Anthony Holinko? E chi si nasconde dietro la Marshall Ltd, casa editrice fantasma con sede forse a Dublino? La Digos bresciana sta indagando sul misterioso emissario dell’ancor più misteriosa Marshall, la casa editrice che nel ’93 pubblicò il libro Gli omissis di Mani pulite, un pamphlet che in Italia circolò semiclandestino, spesso in fotocopie, e che anticipava alcuni dei temi recenti delle accuse contro Di Pietro. Il pm Salamone sta cercando di capire se esistono dei legami tra la casa editrice irlandese e un’altra entità oscura apparsa sullo scenario recente di Mani pulite, l’agenzia investigativa americana, ma con ufficio di corrispondenza a Parigi, che avrebbe svolto, per conto di chissà chi, lunghe indagini sul passato dello scopritore di Tangentopoli.
Brescia. Dublino. L’America. Parigi. Il Giambellino. Un mattino mi contattò l’ex mezzobusto del Tg2 Alda D’Eusanio, mai conosciuta prima. Disse che aveva letto le mie disavventure e mi elencò dei colleghi che le avevano parlato bene di me, tutti nomi però a me sconosciuti. La incontrai a Roma e mi spiegò che per il programma «L’Italia in diretta», su Raidue, avrei potuto fare dei servizi su casi di malagiustizia purché non trattassero di politici. Accettai e iniziai la trafila per il contratto. Pensai che potessero c’entrare Pillitteri o Craxi.
Il 14 settembre ero ancora a Monza a giocare a pallacanestro. Trillò il cellulare che mi ero finalmente procurato: era Craxi. Cercai di capire se c’entrasse con la faccenda di Raidue: «La conduttrice mi ha parlato di come si potrebbe trattare il tema del garantismo», gli dissi, omettendo nomi e cognomi come era d’uso. Ma non riuscii a capire.
La conclusione della telefonata, testuale, fu la seguente:
Craxi: A te ti controlleranno il telefono, devo supporre…
Facci: Sì, forse, ma non è un problema…
Craxi (scherzoso): Nessunissimo problema, neanch’io nessunissimo problema…
In realtà c’era problema. Aspettando la Rai, mi ributtai sull’«Opinione » e su Di Pietro, tema che tirava molto. Furoreggiava l’inchiesta su Affittopoli e io mi ero fissato di trovare i dati sull’appartamento a equo canone che il Fondo pensioni Cariplo aveva concesso all’ex magistrato alla fine degli anni Ottanta. Ne avevo già scritto nel mio libro fantasma e nel mio libro intervista a Pillitteri, con tanto di indirizzo, ma la notizia non era mai deflagrata. Mi procurai lo schedario del Fondo pensioni Cariplo e un funzionario mi diede tutte le conferme del caso. Mi capitò di parlarne al telefono col mio amico Luca Josi. Sinché un mattino, per coincidenze varie, capii che «il Giornale» avrebbe probabilmente sparato la notizia l’indomani e mi prese il panico. Allertai il direttore dell’«Opinione», Arturo Diaconale, e scrissi l’articolo in un battibaleno. Nel tentativo di anticipare «il Giornale» telefonai a tutte le agenzie di stampa perché preannunciassero quel che «L’Opinione» avrebbe pubblicato, ma servì a poco. «Il Giornale» l’indomani sparò la notizia in prima pagina e quasi nessuno si accorse che sull’«Opinione» ne avevo scritto anch’io. Era il 22 settembre.
Il pandemonio fu il 29 settembre. Il pubblico ministero Paolo Ielo, al Tribunale di Milano, denunciò «campagne giornalistiche coordinate da Hammamet» e citò espressamente gli articoli che «il Giornale» aveva dedicato all’equo canone di Di Pietro: disse che la diffusione della notizia era stata pilotata da Craxi a Vittorio Feltri, e la riprova, aggiunse, ne era un’intercettazione telefonica tra Craxi e Luca Josi, il mio amico. Feltri venne additato come un robot craxiano e i telegiornali di mezzogiorno si scatenarono. Io ci misi poco a capire com’era andata davvero: io avevo parlato a Josi dell’articolo che stavo preparando per «L’Opinione» e lui probabilmente ne aveva fatto cenno a Craxi, ma le varie telefonate erano state intercettate e i magistrati avevano capito che si parlasse di un articolo per «il Giornale» anziché per «L’Opinione». Passai una mezz’ora disperata: che fare? Esporsi di nuovo? Temevo per il mio contratto con la Rai.
Mi esposi, chiaro. Telefonai al «Giornale» e feci pure fatica a farmi ascoltare. Il giorno dopo, morale, ecco un’altra intervista dove spiegavo tutta la dinamica. Vittorio Feltri titolò il suo editoriale Esigiamo pubbliche scuse e però scrisse così: «Filippo Facci, e non un mio redattore, ha attinto notizie da fonte socialista riguardo a Di Pietro … “L’Opinione” ha pubblicato la notizia in questione proprio su segnalazione di Luca Josi. Facci, che è persona onesta, ammette tutto ciò in un’intervista che riportiamo». Ma come? Era il contrario della verità: io nell’intervista non dicevo niente del genere, non avevo attinto a nessuna fonte socialista, avevo solo parlato a Josi di un articolo che stavo preparando. Ma niente da fare, Feltri ripeté le stesse cose al «Messaggero» e alla «Repubblica». In un’intervista al «Corriere della Sera» giunse a dire: «Avevo ragione. Abbiamo rintracciato Filippo Facci il quale ci ha confermato quel che sospettavamo». Cioè: adesso erano stati loro ad aver capito, e ad aver rintracciato me, ricettore di notizie provenienti da Hammamet.
Il robot craxiano ero diventato io. Telefonai al «Giornale» e l’indomani fu abbozzata una rettifica dallo stesso Feltri, ma era tardi: un altro delirante articolo di un cronista giudiziario, sempre e incredibilmente sul «Giornale» dello stesso giorno, mi citava tra gli «irriducibili collaboratori di Craxi» e cercava di dimostrare chissà che cosa con un collage di intercettazioni varie. Intanto «la Repubblica» titolava Craxi, il burattinaio e il «Corriere della Sera» È Craxi il segretario di Forza Italia. Tutti i giornali pubblicarono centinaia di intercettazioni tra Craxi e il resto del mondo. Altri telefonisti craxiani erano Veronica Lario, moglie di Silvio Berlusconi, e giornalisti come Enrico Mentana, Emilio Fede e Bruno Vespa. Un altro telefonista, Alessandro Caprettini, direttore dell’«Italia settimanale», fu licenziato. Il mio ex compagno di scrivania all’«Avanti!» Luca Mantovani, portavoce del parlamentare di Forza Italia Vittorio Dotti, fu licenziato a sua volta perché aveva spedito a Craxi la copia di un’interrogazione parlamentare. Mancavo io.
Tra i telefonisti c’era anche Alda D’Eusanio, l’ex mezzobusto che mi aveva proposto il lavoro alla Rai. I giornali pubblicarono un’intercettazione dove lei diceva a Craxi «Sarò la tua voce» e l’associarono a un’altra intercettazione, questa:
Craxi: A te ti controlleranno il telefono, devo supporre…
Facci: Sì, forse, ma non è un problema…
Craxi (scherzoso): Nessunissimo problema, neanch’io nessunissimo problema…
C’era problema. «L’Unità» del 5 ottobre deprecava il mio «contratto milionario» (66 milioni di lire lordi per un anno) e tre interpellanze parlamentari fecero il resto. Il contratto venne stracciato con il consenso del presidente della Rai Letizia Moratti. In sintesi: avevo dato una notizia vera, l’equo canone goduto da Di Pietro, e avevo perso il lavoro.
Nel giorno in cui «l’Unità» sanciva la fine di ogni mia velleità contrattuale, oltretutto, «Panorama» mi ritirava in ballo per il libro fantasma: un lungo e complicato articolo citava un dossier anonimo che avevo consegnato alla Procura di Brescia, uno dei tanti, e lo definiva «in stile Fbi». Si ritirava in ballo il samizdat russo o irlandese scritto al Giambellino. Il quotidiano «L’Indipendente» titolò Di Pietro spiato dai servizi segreti, citandomi.
Avevo ventott’anni, volevo fare il giornalista.
Nel periodo successivo divenni una specie di pendolare tra Milano e Brescia, nella duplice veste di cronista e di testimone. Di Pietro ormai era nel mio destino. Un’altra mia inchiesta sull’«Opinione», dopo una testimonianza che rilasciai sempre a Brescia, fece aprire un filone d’indagine contro l’ex magistrato per alcune sue presunte concussioni al ministero della Giustizia. Senza farla troppo lunga: mi sarebbe capitato di far iscrivere Di Pietro nel registro degli indagati altre due volte.
Di Pietro mi seppellì di querele e mi denunciò anche per calunnia. In una memoria difensiva chiese di appurare i miei rapporti con Craxi e di inoltrare rogatorie internazionali in Irlanda. Quando si discusse il rinvio a giudizio per calunnia, pochi mesi dopo, l’udienza preliminare durò sei ore e io e Di Pietro sfiorammo lo scontro fisico. L’ex magistrato ce l’aveva in particolare col mio libro fantasma: «È da quel dossier» disse «che sono cominciati tutti i miei guai». Ma quel dossier, che diversamente da altri non era un dossier ma solo un disperato e tentato libro, diceva tutte cose vere. Cose che reggono, ancor oggi, la prova del tempo. Fui prosciolto.
L’aria cambiò lentamente, ma cambiò.
Le storie di malagiustizia che riuscivo a trovare, grazie al rinnovato garantismo berlusconiano e al mio buon rapporto con Maurizio Belpietro, ottennero spazio sul «Giornale». Presi a collaborare anche con «Il Foglio» di Giuliano Ferrara. Ogni tanto, per esempio su «Panorama», uscivano articoli imbarazzanti che mi esaltavano come «il cronista che sapeva troppo». Un quotidiano di Trento, non trovandomi, e in mancanza d’altro, intervistò mio padre. Dopo vari tentativi nel 1996 riuscii a trovare un editore anche per il libro sui casi di malagiustizia, intitolato Presunti colpevoli: lo pubblicò Mondadori. Altri giornali si soffermarono sul mio caso e a dirla giusta fu «Il Foglio»: «Dopo tre anni di peregrinazioni, Filippo Facci ha trovato l’editore, ma più probabilmente le condizioni politiche». Era la verità. Le stesse condizioni politiche, un anno dopo, mi permisero di pubblicare una prima biografia su Antonio Di Pietro sempre per Mondadori. Temendo chissà che cosa, Di Pietro disse alla «Repubblica»: «So cosa vogliono fare, … chi lo fa. E ho preso le mie contromisure. Anzi vorrei dare un consiglio: chi sta realizzando la diffusione di un pamphlet che mi riguarda, ci pensi due volte».
Il libro uscì lo stesso. In autunno, davanti al palazzo di giustizia milanese, per la stupida legge dei corsi e ricorsi, ci fu una manifestazione del centrodestra in cui il libro fu addirittura agitato da qualche manifestante, o questo almeno lessi.
I primi di giugno 1999 ero di nuovo a Monza a giocare a pallacanestro quando un mio compagno di squadra mi disse che alla sua fidanzata, studentessa alla Cattolica, avevano chiesto di me durante un esame. Impossibile, dissi. Era vero. L’esame era Storia del giornalismo italiano e nel tomo intitolato appunto Storia del giornalismo italiano dalle origini ai giorni nostri, a pagina 366, c’era un capitoletto titolato «Le fonti e le disavventure delle notizie». Si parlava di «tre casi limite, espressione di tre diversi momenti della storia italiana: portano il nome di Zicari, Pecorelli e Facci».
Di Giorgio Zicari ricordavo che era talmente ben informato che l’accusarono di essere colluso coi servizi segreti, di Mino Pecorelli che ebbe la fama di ricattatore prima di essere preso a revolverate nel 1979. Il terzo ero io.
"Curiosa e ambigua la vicenda di Filippo Facci, un giovane di 26 anni nel 1993, che rimane disoccupato quando l’«Avanti!» chiude il 31 dicembre 1992. Il quotidiano del Partito socialista, fondato il 25 dicembre 1896 da Leonida Bissolati, viene travolto dallo scandalo di Tangentopoli che distrugge la carriera politica di Bettino Craxi, costretto a fuggire in esilio nella sua villa di Hammamet, Tunisia. Facci è autore di un libro intervista al cognato di Craxi, Paolo Pillitteri, ex sindaco di Milano. S’intitola Io li conoscevo bene. Nel 1993, colleziona particolari e notizie su Antonio Di Pietro, ne escono centonovantadue pagine che documentano le amicizie pericolose del pubblico ministero più famoso d’Italia e simbolo del rinnovamento morale. Il dattiloscritto viene pagato 4 milioni da un oscuro personaggio, sedicente editore di una piccola casa editrice irlandese. Alcuni mesi dopo, pagine del libro iniziano a comparire sui quotidiani, ma il volume ancora non è stampato. Circolerà in seguito clandestinamente. I contenuti entreranno nell’inchiesta giudiziaria su Di Pietro che si concluderà a Brescia nel marzo 1996 con il proscioglimento dell’ex magistrato."
In autunno ricevetti qualche invito residuo a presentare la biografia su Di Pietro, e uno mi colpì in particolare: era del Rotary Club Milano Giardini, accanto al palazzo della stampa dove c’era la redazione dell’«Avanti!». Il giornalista che mi aveva invitato era lo stesso che anni prima aveva impaginato quel Di Pietro, facci sognare che troneggiava sulla copertina di «tv Sorrisi e Canzoni». Fu lui a dirmelo. Quella sera, per farmi voler bene, dissi subito qualcosa che ripeto ancor oggi: «Negli anni di Mani pulite, la percentuale di italiani favorevoli ad Antonio Di Pietro ha oscillato tra il 90 e il 95 per cento. Se mi applaudite, ora, presumo che sia perché al tempo rientravate in quel residuo 5-10 per cento».
Nel maggio 2000, vagando per Milano in motorino, imboccai sparato via Giulio Uberti in netto contromano: un’auto blu dovette inchiodare e rischiò seriamente di mettermi sotto, la ruota anteriore del mio scooter si fermò a non più di un centimetro dal suo paraurti. Alzai il braccio per scusarmi. Mi avvicinai e vidi che alla guida c’era il pubblico ministero Paolo Ielo, autore peraltro di un paio di querele contro di me. Sembrava impietrito. Abbassò il finestrino e mi disse: «Facci, ma se poi ti mettevo sotto, chi ci credeva che era colpa tua?».
Antonio Di Pietro, per molti anni, rifiutò ogni invito in programmi televisivi dove fosse prevista la mia presenza. Ha cambiato atteggiamento dal 2005 in poi.
Dei colleghi che uscivano dalla sala stampa quando vi entravo io, ora, almeno quattro sono discreti amici. Il collega che mi accusò d’aver pubblicato dei verbali falsi è passato a scrivere gialli metropolitani, come in fondo faceva già allora. L’altro collega che m’accusò di aver favorito la fuga di un dirigente socialista ha sposato una mia amica.
Nel tardo agosto 2009, con il ritorno di Vittorio Feltri in via Negri, ho abbandonato «il Giornale» dopo quindici anni. Il collega che fece un collage di intercettazioni telefoniche sul «Giornale» e fece strappare il mio contratto, Gianluigi Nuzzi, oggi condivide il mio stesso incarico – inviato speciale a «Libero» – sotto il mio stesso direttore, Maurizio Belpietro.
Dal 1992 a oggi è passata una mezza generazione e ci sono giovani e meno giovani che di Antonio Di Pietro sanno a malapena che faceva il magistrato. Credo di aver scritto questo libro anche per loro.
Sallusti: “Ho scoperto il pied a terre di Indro”. Scrive Davide Brullo su “Il Giornale”. Alla fine, sono riusciti a farlo ridere. Ospite nel giardino della Villa Mussolini in Riccione, venerdì sera, davanti a un popolo piuttosto folto (500 persone circa) Alessandro Sallusti ha inaugurato il ciclo “Riccione Incontra”. Stimolato dalle domande di Edoardo Sylos Labini, il direttore de il Giornale si è “sbottonato”, svelando i lati più intimi della sua vita. L’ostinato difensore di un pensiero “altro”, controcorrente e contro le mode imperanti, notoriamente impassibile, ha domato la folla con inedita abilità retorica. Ridendo. Sallusti che ride. In pubblico. Un evento mitologico. Ecco alcuni brani, montati come un film iridescente, del dialogo.
Gli esordi, ovvero: un direttore già da bambino. «Il primo giornale penso di averlo disegnato per le vie di Como, a 9 o 10 anni. Faccio il mestiere che ho sempre sognato di fare, più per fortuna che per merito, questo è davvero un dono di Dio. Ero un bambino inquieto e insoddisfatto. Per questo ho preso tante di quelle botte da mio padre…».
Il passato ingombrante. «Mio nonno è stato un ufficiale dell’esercito, passato alla Repubblica Sociale, poi fucilato. Questa storia ha sempre gravato sulla mia famiglia, come un peso insormontabile».
Il Battaglione San Marco: il militare necessario. «Non sono mai stato uno studente modello. Ho fatto l’Istituto tecnico e in anni in cui tutti erano ammessi agli Esami di Stato, mi fermarono. Una vergogna. Immediatamente mi diressi allo sportello del distretto militare. Mi dissero che se firmavo come volontario per il Battaglione San Marco avrei potuto partire dopo due settimane. Firmai. Il militare ha cambiato la mia vita in modo determinante, per questo penso che sia necessario ripristinare la leva obbligatoria. E quando penso ai nostri marò, beh, penso che questo Paese ha ormai perso il senso dell’onore».
Con Don Giussani sulla spider rossa. Considerazioni sulla fede. «Ho cominciato all’Ordine, che era il giornale più scalcagnato di Como, legato alla Curia, che dopo poco, in effetti, chiuse. Fui dirottato a Il Sabato, dove ero noto più che altro perché andavo in redazione con la spider rossa. Così un giorno Don Giussani viene a far visita alla nostra redazione e mi pretende. “Mi porti a fare un giro sulla tua spider rossa?”. Certo, dico io. In macchina, però, per vincere il mio imbarazzo, dico a Giussani che non sono di Comunione e Liberazione. Lui scoppia a ridere, “ma cosa vuoi che mi importi, io non so neanche se credo in Dio!”. Giussani era davvero un uomo straordinario. Mi ritengo un cattolico. Ma non sono un uomo baciato dalla vera fede».
Ersilio Tonini e l’esistenza di Dio. «Quando diventai caporedattore di Avvenire fui convocato a Ravenna dall’allora presidente del giornale, il Cardinale Ersilio Tonini. Di fronte a una minestrina – è sempre stato secco, magrissimo – mi disse, “il suo è un compito difficile perché dovrà mediare tra centinaia di Vescovi che la pensano diversamente su tutto. Anche sull’esistenza di Dio”».
1987: gli anni con Indro Montanelli. «Il Giornale non era un quotidiano, era un salotto. Assistere alle riunioni di redazione, con Montanelli a fare da regista sornione, era come andare al cinema gratis. Ricordo che un giorno il direttore, verso mezzanotte, passò da noi giovani, che parlavamo di donne. Scoccò la battuta folgorante: “non è che a me non mi tira più, è che non so più quando mi tira!”».
1994: il grande scoop. «Quando ero al Corriere della Sera pubblicai la notizia del premier Berlusconi indagato. Era la prima volta che veniva indagato un Presidente del Consiglio, giornalisticamente era uno scoop. All’epoca il direttore era Paolo Mieli. Il giorno dopo successe il finimondo, con perquisizioni della polizia e interrogatori. Nascosi le carte e i nastri che denunciavano l’indagine nella borsa di mia moglie. Poco dopo si aprì il caso di Primo Greganti, tesoriere della sinistra, e Mieli fu costretto a scusarsi in diretta Rai. La differenza di trattamento tra il caso Berlusconi e il caso Greganti mi fece capire che per me era ora di lasciare il Corriere: non sopportavo più il clima opprimente, il fiancheggiamento delle procure. Volevo la mia libertà».
“Libero” nasce davanti alla salamella. «Conobbi Vittorio Feltri quando ero direttore de La Provincia. Dopo un incontro pubblico, ci offrirono delle salamelle. Lì mi disse, su due piedi, “vieni con me a fondare un giornale?”. Accettai. Cominciò allora una avventura editoriale entusiasmante. Il concetto giornalistico di Feltri? Eccolo: quando scrivi di una persona dì che è uno stronzo, quando parli di un Paese dì che è un Paese di merda».
100mila copie per una Maserati. «All’inizio non avevamo un soldo. Ci fu anche un imprenditore riminese, Stefano Patacconi, che mise un po’ di soldi dentro Libero, ma poi si suicidò. Ci aiutarono gli Angelucci, ma il giornale viaggiava intorno alle 20mila copie. Un giorno, un po’ abbattuto, Feltri mi getta un depliant che presentava la nuova Maserati. Nacque una sfida. Se fossimo arrivati a 100mila copie mi avrebbe regalato una Maserati. Le superammo. Ma la Maserati durò poco: l’ho venduta perché consumava troppo e perché era ridicolo girare in Maserati».
Berlusconi e Renzi: differenze al telefono. «Ho girato per 12 giornali e svariati editori, beh, nessuno è più liberale di Silvio Berlusconi e di suo fratello Paolo. Il difetto di Berlusconi è che è troppo buono e rispettoso degli avversari, altrimenti sarebbe ancora Presidente del Consiglio. Telefona quando hai un problema, è di una solidarietà infinita. Al contrario, Matteo Renzi telefona quando è arrabbiato. Un giorno mi ha telefonato incazzato nero, insultandomi. Diciamo che sono modi diversi di fare politica».
1 dicembre 2012: l’arresto e la vergogna. «Una vicenda pazzesca, che la dice lunga su questo Paese. La Digos fece irruzione durante una riunione del Giornale, interrompendola, per procedere all’arresto per diffamazione e omesso soccorso. In realtà, mi aspettavano all’uscita del Giornale, perciò dormii tre giorni in redazione, scoprendo, tra l’altro, il pied a terre di Montanelli… Così, furono costretti a irrompere. Mi scortarono per portarmi a casa. Pretesi il carcere. Uscii con i poliziotti, che mi portarono in Questura con l’accusa di evasione. Intervenne perfino il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, per commutare la pena da detentiva in pecuniaria. Mentre mi riportarono a casa mi telefonò Berlusconi: “senti Alessandro, abbiamo capito la tua posizione, ma se evadi ancora ti faccio fare il giro del quartiere a calci nel sedere”».
Juventino represso. «Sono della Juventus, lo ammetto. Un giorno, un po’ per sfida, andai a San Siro con Berlusconi. Milan-Juventus. Dopo cinque minuti segna il Milan. Tutti esultano, io mi esprimo con un tiepido applauso. Le televisioni Sky mi riprendono. Poco dopo sono beccato da un sms di mio figlio, “Infame”».
Amo Daniela (mica la Santanché). «Amo Daniela e stimo la Santanché, che non amo. Stare con Daniela è semplice, stare con Santanché è molto complicato».
Un po’ di cronaca: Grecia. «Sono tra quelli che hanno sperato per il “No” al referendum. Giusto per vedere la Merkel in difficoltà. Ma adesso mi pare che Tsipras abbia già calato le braghe».
Caso Berlusconi. «Berlusconi è un uomo di genio. Non è mica caduto per le “Olgettine”, come vogliono farci credere, ma perché non voleva allinearsi a Francia e Germania».
Isis. «A forza di non essere noi stessi, siamo noi che abbiamo issato le bandiere dell’Isis. Sono per le radici cristiane nella Costituzione europea e per i Crocefissi nelle scuole».
Gay. «Uno Stato non deve tutelare l’amore: altrimenti perché non posso sposarmi con due donne o con il mio cane? Compito di uno Stato è tutelare l’unione che produce nuovi cittadini, i figli. Per il resto, è giusto che ogni persona si ami come desidera. Quando mia nipote mi confessò di essere lesbica le risposi: “abbiamo qualcosa in comune, ci piace la stessa cosa!”».
"La politica ha delegato alla magistratura tre grandi questioni politiche, il terrorismo, la mafia, la corruzione, e alcuni magistrati sono diventati di conseguenza depositari di responsabilità tipicamente politiche". A dirlo è Luciano Violante, ex presidente della Camera e esponente del Partito democratico. Secondo il giurista, inoltre, "la legge Severino testimonia il grado di debolezza" della politica perché non è "possibile che occorra una legge per obbligare i partiti a non candidare chi ha compiuto certi reati". "È in atto un processo di spoliticizzazione della democrazia che oscilla tra tecnocrazia e demagogia", ha aggiunto, "Ne conseguono ondate moralistiche a gettone tipiche di un Paese, l’Italia, che ha nello scontro interno permanente la propria cifra caratterizzante". Colpa anche di Silvio Berlusconi, che "ha reso ancora più conflittuale la politica italiana", ma anche della sinistra che "lo ha scioccamente inseguito sul suo terreno accontentandosi della modesta identità antiberlusconiana". "Ma neanche la Resistenza fu antimussoliniana, si era antifascisti e tanto bastava", aggiunge. Quanto alle sue parole sulla legge Severino e la decadenza del Cavaliere, Violante aggiunge: "Ho solo detto che anche Berlusconi aveva diritto a difendersi. Quando ho potuto spiegarmi alle assemblee di partito ho ricevuto applausi, ma oggi vale solo lo slogan, il cabaret. Difficile andare oltre i 140 caratteri di Twitter". E sulle toghe aggiunge: "Pentiti e intercettazioni hanno sostituito la capacità investigativa. Con conseguenze enormi. Occorrerebbe indicare le priorità da perseguire a livello penale, rivedendo l’obbligatorietà dell’azione che è un’ipocrisia costituzionale resa necessaria dal fatto che i pubblici ministeri sono, e a mio avviso devono restare, indipendenti dal governo".
Io quelli di Forza Italia li rispetto, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Conoscendoli, singolarmente, li rispetto molto meno: ma nell'insieme potrebbero anche sembrare appunto dei lealisti, dei coerenti, delle schiene dritte, gente che ha finalmente trovato una linea del Piave intesa come Berlusconi, come capo, come leader, come rappresentante di milioni di italiani che non si può cancellare solo per via giudiziaria: almeno non così. Non con sentenze infarcite di «convincimenti» e prove che non lo sono. Dunque rispetto quelli di Forza Italia - anche se in buona parte restano dei cavalier-serventi - perché tentano di fare quello che nella Prima Repubblica non fu fatto per Bettino Craxi e per altri leader, consegnati mani e piedi alla magistratura assieme al primato della politica. Solo che, dettaglio, Forza Italia ha perso: ha perso quella di oggi e ha perso quella del 1994. E non ha perso ieri, o un mese fa, cioè con Napolitano, la Consulta, la legge Severino, la Consulta, la Cassazione: ha colpevolmente perso in vent'anni di fallimento politico sulla giustizia. Dall’altra c’è qualcuno che ha vinto, anche se elencarne la formazione ora è complicato: si rischia di passare dal pretenzioso racconto di un’ormai stagliata «jurecrazia» - fatta di corti che regolano un ordine giuridico globale - all'ultimo straccione di pm o cronista militante. Resta il dato essenziale: vent’anni fa la giustizia faceva schifo e oggi fa identicamente schifo, schiacciata com'è sul potere che la esercita; e fa identicamente schifo, per colpe anche sue, la giustizia ad personam legiferata da Berlusconi, che in vent'anni ha solo preso tempo - molto - e alla fine non s'è salvato. Elencare tutte le forzature palesi o presunte per abbatterlo, magari distinguendole dalle azioni penali più che legittime, è un lavoro da pazzi o da memorialistica difensiva: solo la somma delle assoluzioni - mischiate ad amnistie e prescrizioni - brucerebbe una pagina. Basti l'incipit, cioè il celebre mandato di comparizione che fu appositamente spedito a Berlusconi il 21 novembre 1994 per essere appreso a un convegno Onu con 140 delegazioni governative e 650 giornalisti: diede la spallata decisiva a un governo a discapito di un proscioglimento che giungerà molti anni dopo. L’elenco potrebbe proseguire sino a oggi - intralciato anche da tutte le leggi ad personam che Berlusconi fece per salvarsi - e infatti è solo oggi che Berlusconi cade, anzi decade. Ciò che è cambiato, negli ultimi anni, è la determinazione di una parte della magistratura - unita e univoca come la corrente di sinistra che ne occupa i posti chiave - a discapito di apparenze che non ha neanche più cercato di salvare. I processi per frode legati ai diritti televisivi non erano più semplici di altri, anzi, il contrario: come già raccontato, Berlusconi per le stesse accuse era già stato prosciolto a Roma e pure a Milano. Ciò che è cambiato, appunto, è la determinazione dei collegi giudicanti a fronte di quadri probatori tuttavia paragonabili ai precedenti: ma hanno cambiato marcia. Si poteva intuirlo dai tempi atipici che si stavano progressivamente dando già al primo grado del processo Mills, che filò per ben 47 udienze in meno di due anni e fece lavorare i giudici sino al tardo pomeriggio e nei weekend; le motivazioni della sentenza furono notificate entro 15 giorni (e non entro i consueti 90) così da permettere che il ricorso in Cassazione fosse più che mai spedito. Ma è il processo successivo, quello che ora ha fatto fuori Berlusconi, ad aver segnato un record: tre gradi di giudizio in un solo anno (alla faccia della Corte Europea che ci condanna per la lunghezza dei procedimenti) con dettagli anche emblematici, tipo la solerte attivazione di una sezione feriale della Cassazione che è stata descritta come se di norma esaminasse tutti i processi indifferibili del Paese: semplicemente falso, la discrezionalità regna sovrana come su tutto il resto. Il paradosso sta qui: nel formidabile e inaspettato rispetto di regole teoriche - quelle che in dieci mesi giudicano un cittadino nei tre gradi - al punto da trasformare Berlusconi in eccezione assoluta. Poi, a proposito di discrezionalità, ci sono le sentenze: e qui si entra nel fantastico mondo dell'insondabile o di un dibattito infinito: quello su che cosa sia effettivamente una «prova» e che differenza ci sia rispetto a convincimenti e mere somme di indizi. Il tutto sopraffatti dal dogma che le sentenze si accettano e basta: anche se è dura, talvolta. Quando uscirono le 208 pagine della condanna definitiva in Cassazione, in ogni caso, i primi commenti dei vertici piddini furono di pochi minuti dopo: un caso di lettura analogica. E, senza scomodare espressioni come «teorema» o «prova logica» o peggio «non poteva non sapere», le motivazioni della sentenza per frode fiscale appalesavano una gigantesca e motivata opinione: le «prove logiche» e i «non poteva non sapere» purtroppo abbondavano e abbondano. «È da ritenersi provato» era la frase più ricorrente, mentre tesi contrarie denotavano una «assoluta inverosimiglianza». Su tutto imperava l’attribuzione di una responsabilità oggettiva: «La qualità di Berlusconi di azionista di maggioranza gli consentiva pacificamente qualsiasi possibilità di intervento», «era assolutamente ovvio che la gestione dei diritti fosse di interesse della proprietà», «la consapevolezza poteva essere ascrivibile solo a chi aveva uno sguardo d’insieme, complessivo, sul complesso sistema». Il capolavoro resta quello a pagina 184 della sentenza, che riguardava la riduzione delle liste testimoniali chieste dalla difesa: «Va detto per inciso», è messo nero su bianco, «che effettivamente il pm non ha fornito alcuna prova diretta circa eventuali interventi dell’imputato Berlusconi in merito alle modalità di appostare gli ammortamenti dei bilanci. Ne conseguiva l'assoluta inutilità di una prova negativa di fatti che la pubblica accusa non aveva provato in modo diretto». In lingua italiana: l’accusa non ha neppure cercato di provare che Berlusconi fosse direttamente responsabile, dunque era inutile ammettere testimoni che provassero il contrario, cioè una sua estraneità. Ma le sentenze si devono accettare e basta. Quando Berlusconi azzardò un videomessaggio di reazione, in settembre, Guglielmo Epifani lo definì «sconcertante», mentre Antonio Di Pietro fece un esposto per vilipendio alla magistratura e Rosy Bindi parlò di «eversione». Il resto - la galoppata per far decadere Berlusconi in Senato - è cronaca recente, anzi, di ieri, Il precedente di Cesare Previti - che al termine del processo Imi-Sir fu dichiarato «interdetto a vita dai pubblici uffici» - è pure noto: la Camera ne votò la decadenza ben 14 mesi dopo la sentenza della Cassazione. Allora come oggi, il centrosinistra era dell’opinione che si dovesse semplicemente prendere atto del dettato della magistratura, mentre il centrodestra pretendeva invece che si entrasse nel merito e non ci si limitasse a un ruolo notarile. Poi c’è il mancato ricorso alla Corte Costituzionale per stabilire se gli effetti della Legge Severino possano essere retroattivi: la Consulta è stata investita di infinite incombenza da una ventina d’anni a questa parte - comprese le leggi elettorali e i vari «lodi» regolarmente bocciati – ma per la Legge Severino il Partito democratico ha ritenuto che la Corte non dovesse dire la sua. Il 30 ottobre scorso, infine, la Giunta per il regolamento del Senato ha stabilito che per casi di «non convalida dell’elezione» il voto dovesse essere palese, volontà ripetuta ieri dal presidente del Senato: nessun voto segreto o di coscienza, dunque. Poi - ma è un altro articolo, anzi, vent'anni di articoli - ci sono le mazzate che il centrodestra si è tirato da solo. La Legge Severino, come detto. Il condono tombale offerto a Berlusconi dal «suo» ministro Tremonti nel 2002 - che l'avrebbe messo in regola con qualsivoglia frode fiscale – ma che al Cavaliere non interessò. Il demagogico inasprimento delle pene per la prostituzione minorile promosso dal «suo» ministro Carfagna nel 2008. Però, dicevamo, non ci sono solo gli autogol: c’è il semplice non-fatto o non-riuscito degli ultimi vent’anni. Perché nei fatti c’era, e c’è, la stessa magistratura. Non c’è la separazione delle carriere, lo sdoppiamento del Csm, le modifiche dell’obbligatorietà dell’azione penale, l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione, la responsabilità civile dei giudici, i limiti alle intercettazioni. Ci sono state, invece, le leggi sulle rogatorie, la Cirami, i vari lodi Maccanico-Schifani-Alfano, l’illegittimo impedimento: pannicelli caldi inutili o, per un po’, utili praticamente solo a lui. Per un po’. Solo per un po’. Fino al 27 novembre 2013.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
DELINQUENTE A CHI?
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
"Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni".
"I mafiosi non sono solo i Riina o i Provenzano. I soggetti collusi con la mafia sono ovunque, sono nelle istituzioni pubbliche, siedono anche in Parlamento". Così il presidente del Tribunale di Palermo, Leonardo Guarnotta, al convegno “La mafia non è solo un problema meridionale”, organizzato a Palermo il 29 novembre 2013 dall'associazione Espressione Libre. "In mancanza di sanzioni, ma soprattutto in assenza di una autoregolamentazione deontologica, la responsabilità politica rimarrà impunita, nulla più che un pio desiderio, con la conseguenza che si è arrivati a candidare e fare eleggere a Palermo, politici sotto processo per concorso esterno in associazione per delinquere di tipo mafioso, come Marcello Dell'Utri e Calogero Lo Giudice" ha detto ancora Guarnotta al convegno. Il riferimento a Dell'Utri e Lo Giudice arriva nella parte della relazione di Leonardo Guarnotta, quando parla di lotta alla mafia perché "è indispensabile l'impegno della società civile perché la partita, cioè la lotta alla mafia, che non possiamo assolutamente permetterci di perdere, si gioca nella quotidianità", ha detto il presidente del Tribunale di Palermo. Guarnotta poi ha voluto rimarcare che questa lotta si gioca "nelle scelte, individuali e collettive, non escluse le scelte elettorali, cioè le scelte che vengono fatte dai segretari di partito nel selezionare i candidati, da inserire nelle liste e quelle che operano gli elettori nell'esercizio del diritto-dovere di designare i loro rappresentanti al Parlamento e nelle istituzioni".
BERLUSCONI: CONFLITTO INTERESSI; INELEGGIBILITA’; ABITUALITA’ A DELINQUERE. MA IN CHE ITALIA VIVIAMO?
"Ci è stato negato il diritto di difenderci". L'avvocato Ghedini che assiste Berlusconi da 16 anni: "Superato ogni limite Ascoltati soltanto i testi dei pm, a noi ne hanno concessi appena 6", scrive Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Avrebbe voluto parlare di più, almeno tre o quattro ore, ma l'invito del presidente Antonio Esposito a stringere i tempi lo ha spinto ad essere più breve. Veloce ma ugualmente efficace nel cercare di convincere i giudici della Cassazione che nel tessuto della sentenza della Corte d'Appello di Milano sui diritti Tv Mediaset «manca la prova che Berlusconi abbia partecipato al reato». Comincia da qui l'arringa dell'avvocato Niccolò Ghedini. Un processo che è diventato il «suo incubo notturno», senza un solo elemento probatorio contro il Cavaliere, condizionato dai tempi della prescrizione e dove sarebbero stati violati i diritti della difesa. E al pg Antonio Mura che martedì aveva chiesto di lasciare fuori dall'aula le passioni replica che è d'accordo con lui, ma che per gli avvocati non vale: «Nel nostro mestiere le passioni ci devono accompagnare». «Ci stato negato il diritto alla prova - attacca Ghedini - c'è un limite all'applicazione del codice ma in questa storia è stato ampiamente superato. Sono 16 anni che difendo il Cavaliere, sicuramente troppi, e da sempre sento dire che dobbiamo difenderci nel processo e non dal processo. Ma come facciamo a difenderci nel processo con il Tribunale che mi dice di concordare con il pm le domande per i testi?». Si sofferma a lungo sui testimoni negati, ridotti dai 171 richiesti inizialmente ai 6 effettivamente sentiti in 100 udienze, per di più comuni alle altre difese, mentre quelli della Procura sono stati citati dal primo all'ultimo. Ghedini ammette che inizialmente la loro lista testi fosse effettivamente «un po' entusiastica», ma poi quei nomi sono stati ridotti su invito dei giudici a 76. Eppure non è bastato. «Ce ne hanno concessi prima 22 - spiega il legale - poi 14, salvo dirci che erano lontani dal nucleo essenziale della questione. Ma come si fa a dire che David Mills o i dirigenti Mediaset che nel 2003 e nel 2004 si erano occupati degli ammortamenti fossero lontani dal nucleo dell'imputazione? E come è possibile non voler sentire i dirigenti della major? Gli unici testimoni ascoltati sulle asserite società fittizie hanno detto di aver sempre operato con il gruppo, quindi hanno smontato la tesi accusatoria e infatti non vengono neppure citati nelle sentenze». C'è poi il capitolo sulla responsabilità soggettiva di Berlusconi e qui la memoria deve tornare a quelle due sentenze «dimenticate», una proprio della Cassazione, in cui si esclude che l'ex premier avesse responsabilità nella gestione di Mediaset negli anni '90 e si afferma che fosse l'azienda a decidere gli ammortamenti. «Stavolta il concetto usato dall'accusa è stato più raffinato del non poteva non sapere - sostiene Ghedini - è stato detto che un buon imprenditore come Berlusconi non poteva non avvedersi che i ricavi erano gonfiati». La ricostruzione del Pg («Efficace e fantasiosa in alcune soluzioni tecnico giuridiche») viene contestata punto per punto. «Il pg - sostiene Ghedini - ha detto che per Berlusconi ci sarebbero state attività ulteriori oltre alla fatturazione. Quindi mi sarei aspettato delle integrazioni rispetto alle motivazioni della Corte d'Appello, in cui non c'è nulla a riguardo. Integrazioni che non ci sono state perché non ci sono attività ulteriori oltre la fatturazione». Le ultime parole sono per il ruolo di International Media Service, una delle società considerate scatole vuote. «Il pg non ha affrontato questo tema perché era il più debole. Ims era una società consolidata, che ha versato fino all'ultimo centesimo gli utili alla capogruppo e che aveva costi bassissimi. Faccio fatica a capire come possa essere considerata fittizia».
I fatti, così come li racconta Franco Coppi nell'aula Brancaccio della Cassazione, sono di una semplicità disarmante, scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”. Silvio Berlusconi non è colpevole di frode fiscale: il reato non c'è com'è stato configurato nelle due sentenze che lo hanno portato all'ultimo grado di giudizio, perché riguardano un comportamento «non penalmente rilevante». Con un'arringa che fa capire, anche ai più digiuni di diritto, perché merita appieno il titolo di principe dei cassazionisti, il legale del Cavaliere chiede l'annullamento della pronuncia d'appello, «frutto di un pregiudizio cementato dal collante del cui prodest» e di un «abnorme travisamento della prova», per descrivere il leader del Pdl come «il dominus di una catena truffaldina», mentre non gestiva più il suo impero dalla discesa in politica del '94 ( come dimostrerebbero altre sentenze, Mills e Mediatrade, mai acquisite). Solo in subordine, Coppi chiede l'annullamento con rinvio alla Corte d'appello: se la sua tesi non venisse accolta il reato di frode fiscale andrebbe derubricato in quello di false fatturazioni. La pena sarebbe più bassa e, per i termini ridotti di prescrizione, sarebbe già estinto o a rischio di estinzione. «Berlusconi doveva essere assolto già in primo grado - dice l'avvocato - le prove sono state travisate e i fatti che gli vengono contestati non sono di rilevanza penale». Il professore parla con uno tono sempre misurato e più che rispettoso della corte, spesso si scusa per le ripetizioni di tesi già espresse dagli altri legali. Comincia a parlare alle 17 e 30, dopo Niccolò Ghedini e per oltre due ore inaugura, nella difesa di Berlusconi, uno stile tutto nuovo: spiega con garbo, argomenta con rigore, analizza, documenta e smonta le accuse con motivazioni che appaiono più che convincenti. Premette, citando il giurista Francesco Carrara, che «quando la politica entra dalla porta del tempio, la giustizia fugge impaurita dalla finestra». È solo con le ragioni del diritto che Coppi vuole vincere. Così, se nella prima parte dell'arringa entra nel merito delle sentenze, sempre sul piano della legittimità, nella seconda tira fuori l'asso nella manica e, con il sorriso sulle labbra, distrugge alla radice la ragione stessa del processo. In punta di diritto, il professore afferma che per questi fatti si poteva parlare semmai di «abuso di diritto» con finalità di «elusione» delle tasse, cioè solo di un illecito amministrativo e tributario. Che potrebbe avere conseguenze penali in una precisa circostanza qui assente: il contrasto con una disposizione antielusiva. Per Coppi, della legge 74 del 2000 sui reati tributari, va preso in considerazione l'articolo 2 (dichiarazione infedele) e non il 4 (dichiarazione fraudolenta), com'è stato fatto per la condanna di Berlusconi. «Siamo fuori - spiega - dall'ambito di applicazione dell'articolo 2 e della frode fiscale, che comporta fatture per operazioni inesistenti». Quelle per l'acquisto di diritti tv, sono invece operazioni reali, di società «non fittizie», con pagamenti «fatturati» e un rincaro di prezzo «giustificato». Cambia, dunque, la loro stessa «fisionomia». L'avvocato cita diverse sentenze della Cassazione civile, sezione tributaria, oltre a pronunce delle Sezioni Unite e verdetti come quello per gli stilisti Dolce e Gabbana. Alla sezione feriale, presieduta da Antonio Esposito che come gli altri segue con massima attenzione ogni sua parola, offre la possibilità di scrivere una pagina nuova nella giurisprudenza della Suprema Corte traendo conclusioni già implicite negli altri pronunciamenti.
L'avvertimento di Craxi a Berlusconi ai primi tempi dell'esilio ad Hammamet: "La macchina giudiziaria agirà anche contro di te", scrive Stefania Craxi su “Il Giornale”. L'avvertimento di mio padre a Berlusconi («La macchina giudiziaria agirà anche contro di te») risale ai primi tempi del suo esilio ad Hammamet. Craxi era rimasto molto impressionato dall'avviso di garanzia recapitato a Berlusconi, allora presidente del Consiglio, direttamente a Napoli dove stava presiedendo una conferenza internazionale sulla criminalità. Assurda l'accusa, ma ancora più straordinarie le modalità della consegna. L'avviso di garanzia fu infatti pubblicato a tutta pagina dal Corriere della Sera, e portato a conoscenza dell'allora capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, prima ancora di essere consegnato all'interessato. Craxi voleva capire. Voleva capire chi avesse dato il via alla Procura di Milano per l'attacco al Psi e agli altri partiti storici della democrazia italiana. Che Mani Pulite fosse una iniziativa del procuratore Borrelli, non lo credeva, e non lo avrebbe creduto nemmeno un bambino. Pensava che dietro alla Procura di Milano ci fossero i soldi che sempre accompagnano i sommovimenti politici. C'erano i soldi dietro Guglielmo Giannini e l'Uomo Qualunque, fin quando De Gasperi persuase l'allora presidente della Confindustria Cicogna a tagliare i finanziamenti; c'erano i soldi dietro Tambroni; recentemente, chissà se c'erano i soldi dietro il tentativo di Gianfranco Fini di disarcionare Berlusconi? Mio padre si arrovellava per capire l'origine dello tsunami che aveva distrutto la democrazia in Italia, e ora che la giustizia politicizzata si era rimessa in moto, avvertiva Berlusconi, facile profeta, dei guai che lo attendevano: «C'è un vero e proprio piano al massacro che procede con gradualità e per linee convergenti ma che ha al fondo un obiettivo, uno e uno solo, e cioè Silvio Berlusconi». È un vero scandalo che a più di vent'anni dai fasti di Mani Pulite non esista ancora non dico un libro, ma almeno un saggio che scavi a fondo la verità di Tangentopoli; è un vero scandalo che la giustizia politica imperversi ancora fino a condizionare lo svolgimento della vita politica del paese. È avvilente che la democrazia italiana debba ancora attendere con trepidazione un verdetto di giudici ormai impossibilitati ad essere imparziali. Ma io sono convinta che qualsiasi sia il verdetto della Cassazione, Berlusconi saprà dimostrarsi più forte dei suoi persecutori, un soggetto politico di primo piano pronto a mettere gli interessi della Nazione davanti ai suoi interessi personali.
Il Pd, prima Pci-Pds-Ds, che in questo ventennio ha fatto dell’antiberlusconismo il suo unico vero programma per tenere unite le anime più disparate. "Non si può pensare di eliminare l'avversario attraverso una legge": per battere Grillo e Berlusconi, il Partito democratico deve "tirare fuori le idee e non gli avvocati". Lo ha detto il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, a margine della cerimonia di chiusura dell'anno accademico della "Johns Hopkins University" di Bologna. "Pensare come ha fatto qualche parlamentare del mio partito che si possa sconfiggere Beppe Grillo facendo una legge per dire che il M5s non può partecipare alle elezioni è ridicolo - ha ribadito Renzi -. Non si può pensare di eliminare l'avversario attraverso una legge; puoi sconfiggerlo con le idee e le proposte". Questo, secondo il sindaco, "vale per Berlusconi esattamente allo stesso modo" pensando di sconfiggerlo "attraverso l'interpretazione di una norma". Per Renzi "non si può pensare dopo 19 anni di dire che Berlusconi è ineleggibile, perché se lo era, lo era anche prima. Per battere e mandare a casa Berlusconi e per battere Grillo il Pd deve tirare fuori le idee, non gli avvocati". Infine un riferimento all'Esecutivo. "Non si può sapere quanto durerà il governo Letta perché non è uno yogurt che ha indicata la scadenza sulla confezione. Se fa le cose va avanti, se non le fa va a casa" ha evidenziato Renzi. Renzi aveva già detto e riconferma: la speranza di sconfiggere il Cavaliere per via giudiziaria è «un errore» che la sinistra ha alimentato troppo a lungo. Detto questo, l'eventuale condanna di Berlusconi a quattro anni, tre coperti dall'indulto, rappresenta un unicum nella storia italiana per l'indiscutibile rilievo politico del personaggio. Ex premier per quattro volte, leader del Pdl, fama internazionale, si ritroverà a fare i conti con una pena che, anche se solo di un anno, cambierà profondamente la sua vita personale e pubblica. Né, per lui, potranno essere sovvertite le regole che valgono per i normali cittadini. Se alla pena si aggiungerà anche l'interdizione - 3 o 5 anni poco cambia - Berlusconi rischia di trovarsi anche senza la copertura parlamentare che comunque gli garantisce spazi più ampi di movimento.
BERLUSCONI E CRAXI: DUE CONDANNATI SENZA PASSAPORTO.
I due condannati, senza passaporto. Analogie e differenze delle storie di Berlusconi e Craxi dopo la sentenza della Cassazione, scrive Paolo Sacchi su “Panorama”. «La vede, signora, la fine che avrebbero voluto farmi fare…». 21 gennaio 2000, giorno dei funerali di Bettino Craxi. Cinque della sera, Hammamet, cimitero cristiano, lapidi bianche, tra la Medina e il mare, che guarda l’Italia. La famiglia Craxi volle che «Bettino» fosse sepolto così: con la bara rivolta verso l’Italia negata. Per alcuni minuti il Cavaliere, allora spodestato da Palazzo Chigi, ma già in rimonta dopo una lunga traversata nel deserto, e senza il thè del fim di Bernardo Bertolucci, girato proprio in Tunisia, si apparta. Si nasconde e piange a dirotto dietro a una tomba del cimitero cristiano di Hammamet. Chi scrive lo raggiunge. Ha gli occhi ancora umidi. Lui si riprende e scolpisce in via riservata con la cronista la frase («Lo vede che fine avrebbero voluto farmi fare») che probabilmente avrà accompagnato, come una sfida ma al tempo stesso una minaccia, le sue tre volte tre di presidente del Consiglio, negli ultimi vent’anni di politica italiana. Era sinceramente commosso e profondamente addolorato quel giorno il Cavaliere per la morte dell’amico Bettino, e già presagiva che per lui sarebbe stata dura. Anzi, durissima. Invitò a pranzo all’Abou Nawas di Tunisi i socialisti superstiti, allora guidati da Enrico Boselli. Li chiamò a una battaglia di libertà, ma loro, che avevano all’epoca ministri nel governo di Massimo D’Alema, nicchiarono. Fino a scomparire. In molti in questi vent’anni hanno tirato per la giacca, e da morto, Bettino Craxi. Sarebbe stato con la destra o la sinistra? Di certo lui non sarebbe stato con quelli che nei momenti più drammatici degli ultimi giorni all’ Hopital Militaire di Tunisi, definì «i miei assassini», ovvero gli eredi del Pci. Non sarebbe stato neppure con Forza Italia. Ma forse un po’ più vicino a Forza Italia sì, se proprio avesse dovuto scegliere. La sua ultima idea era quella di fare un federazione liberalsocialista con un ritorno al sistema proporzionale. Di certo, Berlusconi per lui era un vero e sincero amico. Tant’è che Craxi confidò a chi scrive: «Vedrai proveranno a farlo fuori con l’arma giudiziaria». E ancora: «Non è vero che fui io a consigliargli di entrare in politica, gli dissi semplicemente: se te la senti, fallo. Mi sono sempre chiesto come ha fatto a prendere tutti quei voti, io mi sono fermato alla soglia del 12 o 13 per cento.» Craxi-Berlusconi: ora c’è anche il ritiro di un passaporto che li accomuna. Ma Craxi, come ha ricordato Berlusconi a «Libero», fu costretto all’esilio (aveva una richiesta di condanne di oltre 20 anni e il suo partito lo abbandonò). Berlusconi consegnerà il suo passaporto, ma gli resterà quello datogli da quasi dieci milioni di elettori. Anche questo l’ex premier e leader socialista, politico a tutto tondo, sulla cui tomba continuano ad andare scolaresche e turisti italiani in pellegrinaggio, all'epoca divisi tra craxiani e anticraxiani, a suo modo, da statista e leader visionario, aveva previsto.
DA ALMIRANTE A CRAXI CHI TOCCA LA SINISTRA MUORE.
Da Almirante a Craxi chi tocca la sinistra muore, scrive Marcello Veneziani su “Il Giornale”. Vorrei conoscere la segreta legge in base alla quale chi si oppone alla sinistra è sempre un delinquente. Cito tre esempi principali, diversi per stile ed epoca, più altri casi paralleli. Quarant'anni fa il delinquente si chiamava Giorgio Almirante. Aveva ottenuto un gran successo elettorale, riempiva le piazze, spopolava in tv. Perciò si decise che era un criminale, e dunque andava messo fuori legge col suo partito. Badate bene, il Msi in quella fase era meno fascista di prima, era in doppiopetto, era diventato destra nazionale, apriva a liberali e monarchici, aveva perfino (...) (...) partigiani. Ma allora risorse il fronte antifascista. La stessa criminalizzazione era avvenuta nel '60 quando l'Msi aveva svoltato in senso moderato, appoggiando un governo centrista, presto rovesciato da un'insurrezione violenta di piazza. L'antifascismo veniva sfoderato non quando si sentiva odore di fasci ma quando si sentiva odore di voti e di governo. Su Almirante piovvero stragi e accuse tremende, si creò un cordone sanitario per isolare la destra, la sua stampa e le sue idee, si favorì una scissione. La persecuzione finì quando il Msi tornò piccolo e innocuo. Le accuse di fascismo non risparmiarono neanche due combattenti antifascisti come Sogno e Pacciardi che erano però militanti anticomunisti. La campagna infame si accanì col Quirinale: Leone, eletto con i voti del Msi e senza quelli del Pci, fu massacrato e costretto a dimettersi, con accuse poi rivelatesi infondate. Vent'anni fa il delinquente si chiamava Bettino Craxi, e la sua associazione a delinquere era non solo il Psi, ma il Caf, che comprendeva Andreotti e Fanfani vituperato anticomunista (poi sostituito da Forlani). Craxi aveva inchiodato il Pci all'opposizione, aveva conquistato la centralità del sistema politico, voleva modernizzare lo Stato. Eliminato. Parallelamente Cossiga, da quando si emancipò dall'intesa consociativa che lo aveva eletto al Quirinale e cominciò a esternare contro i partiti, fu linciato, minacciato di impeachment, accusato di stragi e delitti. Fino a che Cossiga depose ogni progetto gollista e si limitò a esercitare l'arte del paradosso. Andreotti è un caso contorto ma anche lui diventò un delinquente solo quando smise di presiedere i governi consociativi. Ora il delinquente si chiama Berlusconi, dopo un ventennio di caccia all'uomo. Vi risparmio di farvi la storia del berluschicidio, vi esce ormai dalle orecchie. Dirò solo che rispetto agli altri lui ha l'aggravante tripla di essere ricco, di non essere un politico e di avere un grande elettorato. Con lui ci sono altri casi annessi (anche extrapolitici, come Bertolaso e don Verzè). Esempio? Il modello Lombardia di Formigoni&Cl, un sistema di potere analogo a quello delle coop rosse in Emilia, con le stesse ombre, ma con risultati di eccellenza in termini di amministrazione. Massacrato mentre le coop rosse furono risparmiate. Per la sanità la Lombardia fu indagata di pari passo con la Puglia di Vendola, ma con una differenza: la prima funzionava bene, la seconda no. Risultato: la prima fu sfasciata a norma di legge, la seconda no. Anche lì l'aggravante era il largo consenso recidivo a Formigoni. Cos'hanno in comune i casi citati? Erano antagonisti della sinistra. E poi un'altra peculiarità: da Almirante a Pacciardi e Sogno, da Fanfani a Cossiga, a Craxi e a Berlusconi, volevano una repubblica presidenziale, bestia nera del Partito-Principe. Il mistero resta: come mai tutti coloro che si oppongono alla sinistra sono delinquenti, chi per eversione, chi per golpismo, chi per malaffare? C'è una spiegazione logica, scientifica a questa curiosa coincidenza? Cosa c'era di vero nelle accuse? Almirante era fascista, è vero, ed è pure vero che alcuni neofascisti erano violenti; ma Almirante e il suo partito non c'entravano nulla con stragi, assassini e violenze, di cui furono più vittime che artefici. Craxi navigò alla grande nel sistema delle tangenti, è vero, usò modi illeciti per finanziare la politica, ma la tangente fu inventata storicamente dalla sinistra dc parastatale e i finanziamenti illeciti, prima di Craxi riguardò la Dc, il Psi antecraxi, gli alleati, più i soldi che arrivavano da Mosca al Pci e le tangenti sull'import-export con l'est. Anche Berlusconi non è uno stinco di santo, ma se qualunque grande azienda italiana o qualunque grande partito italiano fosse setacciato, intercettato e perquisito con la stessa meticolosità, avrebbero trovato reati analoghi, anzi delitti peggiori e pure arricchimenti illeciti a spese del denaro pubblico. Appena si è scoperchiato l'affare Monte dei Paschi vedete cosa ne è venuto fuori, suicidi inclusi. Se avessero poi applicato il criterio usato per Berlusconi - il capo è colpevole degli illeciti compiuti nel suo regno - avremmo avuto in galera i due terzi del capitalismo nostrano e della partitocrazia. A questo punto la conclusione è netta: o avete il coraggio di teorizzare l'iniquità razziale di chiunque si opponga alla sinistra, e dunque il nesso etico e genetico tra antisinistra e criminalità, o c'è qualcosa di turpe nella sistematica criminalizzazione del nemico. Certo, non tutti i giudici che si sono occupati di Berlusconi e dei casi precedenti erano di parte. Alcuni decisamente sì, erano di parte; altri invece erano solo nella parte, ovvero accettate quelle premesse non puoi che avere quelle conseguenze; si crea un meccanismo a cascata, una coazione a ripetere e a non contraddire le sentenze dei colleghi di casta. Il punto era ridiscutere i presupposti dell'indagine, a partire dall'accanimento selettivo; e poi, a valle, porsi il problema della responsabilità, cioè considerare le conseguenze per l'Italia. I giudici non sono una vil razza dannata, sono nella media degli italiani: l'unica differenza è che solo loro dispongono di un potere assoluto, inconfutabile, irresponsabile. Che non risponde di sé né dei danni pubblici che arreca. La serra in cui fioriscono le sentenze è una Cupola editoriale-giudiziaria-finanziaria, benedetta da alcuni poteri transnazionali. Un allineamento di fatto, non un complotto premeditato; non è una congiura ma una congiuntura. La sinistra politica ne è solo il terminale periferico. Non sono affatto innocentista, ma l'esperienza mi conduce a una conclusione: ogni potere ha la sua fogna, in forme e misure diverse; ma alcune vengono portate alla luce e altre no. Usciamo in fretta dalla seconda repubblica: non quella nata nel '94, ma quella abortita dal '68.
BERLUSCONIANI CONTRO ANTIBERLUSCONIANI.
Berlusconiani Vs Antiberlusconiani: solito spettacolo penoso, scrive Diego Fusaro su “Lo Spiffero”. Si è per l’ennesima volta riproposto l’osceno spettacolo che tiene da vent’anni prigioniera la politica italiana: quel penoso conflitto tra berlusconiani e antiberlusconiani che continua a ottundere le menti, illudendole che il solo vero problema del nostro Paese sia l’incarcerazione del Cavaliere o, alternativamente, la sua santificazione in terra. Uno spettacolo patetico e, insieme, disgustoso. Se mai è possibile, per i motivi che subito dirò, l’antiberlusconismo è più spregevole dello stesso berlusconismo. Il berlusconismo non è un fenomeno politico. È, semplicemente, l’economia che aspira a neutralizzare la politica, riconfigurandola – avrebbe detto von Clausewitz– come la continuazione stessa dell’economia con altri mezzi. Non ha nulla a che vedere con il fascismo, con buona pace della sinistra perennemente antifascista in assenza integrale di fascismo. Il berlusconismo è osceno, perché è di per sé oscena la dinamica, oggi dilagante, della reductio ad unum operata dalla teologia economica, ossia di quell’integralismo economico che aspira a ridurre tutto all’economia, alla produzione e allo scambio delle merci. Il berlusconismo ne rappresenta l’apice, aggiungendo a questa oscenità pittoreschi elementi da commedia all’italiana su cui è pleonastico insistere in questa sede. Ma l’antiberlusconismo è ancora più osceno. Nella sua intima logica, l’antiberlusconismo si regge su un’esasperazione patologica della personalizzazione dei problemi. Quest’ultima si rivela sempre funzionale all’abbandono dell’analisi strutturale delle contraddizioni: ed è solo in questa prospettiva che si spiega in che senso per vent’anni l’antiberlusconismo sia stato, per sua essenza, un fenomeno di oscuramento integrale della comprensione dei rapporti sociali. Questi ultimi sono stati moralizzati o, alternativamente, estetizzati, e dunque privati della loro socialità, inducendo l’opinione pubblica a pensare che il vero problema fossero sempre e solo il “conflitto di interessi” e le volgarità esistenziali di un singolo individuo e non l’inflessibile erosione dei diritti sociali e la subordinazione geopolitica, militare e culturale dell’Italia agli Stati Uniti. Grazie all’antiberlusconismo, la sinistra ha potuto indecorosamente mutare la propria identità, passando dall’anticapitalismo alla legalità, dalla lotta per l’emancipazione di tutti al potere dei magistrati e dei giudici, dalla questione sociale a quella morale, da Carlo Marx a Serena Dandini, da Antonio Gramsci alla Gabbanelli. La sinistra, muta e cieca al cospetto della contraddizione capitalistica, ha fatto convergere le sue attenzioni critiche su una persona concreta (il Cavaliere), presentandola come la contraddizione vivente. In tal maniera, ha potuto cessare di farsi carico dei problemi sociali e della miseria prodotta dal sistema della produzione, illudendo l’elettorato e inducendolo a pensare che il sistema, di per sé buono, fosse inficiato dall’agire immorale e irresponsabile di un’unica persona. Quest’ultima, lungi dall’essere – nonostante i deliri di onnipotenza del caso – la causa della reificazione globale, ne è un effetto: più precisamente, si presenta come l’esempio vivente dell’illimitatezza del godimento gravido di capitale, che travolge apertamente ogni limite e ogni barriera, ogni legge e ogni istituzione che non riconosca il plus ultra desiderativo come unica autorità e come sola legge. L’antiberlusconismo ha permesso alla sinistra di occultare la propria adesione supina al capitale dietro l’opposizione alla contraddizione falsamente identificata nella figura di un’unica persona, secondo il tragicomico transito dal socialismo in un solo paese alla contraddizione in un solo uomo. Come l’antifascismo in assenza integrale di fascismo, così l’antiberlusconismo ha svolto il ruolo di fondazione e di mantenimento dell’identità di una sinistra ormai conciliata con l’ordine neoliberale (si pensi alle penose rassicurazioni di Bersani circa l’alleanza del PD con i mercati e con il folle sogno dell’eurocrazia indecorosamente chiamata Europa). Ingiustizia, miseria e storture d’ogni sorta hanno così cessato di essere intese per quello che effettivamente sono, ossia per fisiologici prodotti dell’ordo capitalistico, e hanno preso a essere concepite come conseguenze dell’agire irresponsabile di un singolo individuo. Per la sinistra oggi essere antiberlusconiani è l’alibi per non essere anticapitalisti. Permettendo di riconvertire la passione anticapitalistica in indignazione morale, l’avversione per le regole sistemiche ingiuste in loro difesa a oltranza, l’antiberlusconismo ha, pertanto, svolto una funzione di primo piano nella celere e performativa sostituzione dell’identità precedente della sinistra con una nuova e indecorosa fisionomia, quella dell’adesione cadaverica alle leggi del mercato e del capitale. Se la sinistra smette di interessarsi alla questione sociale e, più in generale, alla galassia di problemi che, con diritto, potrebbero compendiarsi nell’espressione programmatica “ripartire da Marx”, con il ricco arsenale di passioni politiche che in tale figura si cristallizzano, è opportuno smettere di interessarsi alla sinistra. I recenti fenomeni di piazza ne sono l’esempio più tragico: mentre il popolo dei berlusconiani si scontrava con quello degli antiberlusconiani, le sacre leggi del mercato facevano il loro corso, sconvolgendo, ancora una volta, le nostre vite, erodendo i diritti sociali. La situazione è, una volta di più, tragica ma non seria. La prima mossa da compiere per tornare a pensare e a praticare la politica è uscire dal vicolo cieco del conflitto tra berlusconiani e antiberlusconiani.
I ROSSI BRINDANO ALLA CONDANNA.
La stampa rossa cavalca l'odio e brinda alla nuova Liberazione. Piovono insulti e sberleffi dai giornali di sinistra: 1º agosto come il 25 aprile. Le offese di Repubblica: "Vecchio attore che fa pena", scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Gran fermento nelle redazioni di tanti giornali, da Repubblica al Fatto, dal Manifesto all'Unità. È scattata l'operazione sbianchettamento sui calendari: la festa della Liberazione non è più il 25 aprile, ma il 1° agosto, giorno fausto della condanna di Silvio Berlusconi. Basta con le anticaglie del secolo scorso, c'è un nuovo piazzale Loreto: è la piazza Cavour di Roma dove s'affaccia il Palazzaccio della Cassazione, il luogo dell'esecuzione, del ludibrio, dello sbeffeggio di «Al Tappone», come ha scritto con la consueta eleganza Marco Travaglio sul Fatto quotidiano, al quale non è bastato scrivere che «Al Capone è il suo spirito guida». Suo, di Berlusconi. La gioia è esplosa incontenibile come i tappi di champagne nelle ricorrenze più importanti. «Condannato». «Condannato il delinquente». «Cassato». «Il pregiudicato costituente». Un «proclama eversivo». Un irrefrenabile sentimento di «Vittoria alata», come ha titolato il Manifesto. Sì, vittoria, come in una gara tra buoni e cattivi, anzi tra i buoni e il Cattivo. «Certo in un Paese normale sarebbe stata auspicabile una sconfitta politica», ammette Giuseppe Di Lello. Ma che vuoi farci, bisogna accontentarsi: non si va troppo per il sottile pur di fare fuori il Cavaliere (e naturalmente tutti chiedono che gli venga tolta l'onorificenza assieme alla libertà). Dove non arriva la politica soccorre la magistratura: «In uno stato di diritto anche le sentenze svolgono il loro ruolo di controllo della legalità e da esse non si può prescindere», si legge sul quotidiano che ha Toni Negri tra i collaboratori. A Repubblica è tutto un fuoco d'artificio. Altro che la Resistenza partigiana: le truppe di Carlo De Benedetti si sentono il Cln del ventunesimo secolo, le nuove Brigate Garibaldi, i veri liberatori dal Nemico. Ebbro di esultanza, Francesco Merlo abbandona i toni raffinati del passato e scende nel volgare. Per lui Berlusconi è «un vecchio attore che per non subire la pena faceva pena». Il suo videomessaggio «una sceneggiata con la lacrima, come il gorgonzola e i fichi». Nel Pantheon del Cav, un «delinquente comune» e «mattatore nel baraccone della finta pietà», si trovano «solo gli evasori truffatori». E quando la dose di volgarità è finita subentra la violenza: «Davvero Berlusconi - arriva a scrivere Merlo - preferirebbe che dei forsennati lo trascinassero per strada e gli infliggessero qualche atroce supplizio». L'ex premier si è già preso nei denti una non metaforica statuetta del duomo di Milano: poca roba, per gli intellettuali chic di Repubblica. Anche Filippo Ceccarelli tira un sospiro di sollievo: «Si può dire che se l'è voluta, cercata e trovata - e adesso si spera che un po' si metta tranquillo». Ma, riconosce, «non sarà facile» liberarsi di questo «imputato permanente e privilegiatissimo»: «Troppe visioni, troppi processi, troppo di Berlusconi è stato sparso nella società perché lo si possa bruciare, liquidare, o sradicare nel tempo breve di un'estate», come sarebbe augurabile. Mai contenti, a Repubblica. Dove si definisce il videomessaggio «un proclama eversivo». E dove il direttore Ezio Mauro trasforma l'intera parabola del Cavaliere in un vortice di malaffare: «Il falso miracolo imprenditoriale che nella leggenda di comodo aveva generato e continuamente rigenerava l'avventura politica di Silvio Berlusconi ieri ha rivelato la sua natura fraudolenta». Berlusconi è stato condannato per aver evaso, nel 2002 e 2003, 7,3 milioni di euro a fronte di 709 milioni dichiarati: l'1 per cento in soli due anni. Che per Repubblica è sufficiente per gettare nel fango una vita intera. Nel calendario del Fatto - dove Travaglio si crogiola tra «fuorilegge», «delinquente matricolato», «pregiudicato costituente» - oltre alla nuova data della Liberazione appare anche un nuovo santo: è Fabio De Pasquale, il pubblico ministero che ha ottenuto la prima condanna definitiva per Berlusconi e, prima di lui, fu il primo a incastrare Bettino Craxi. Santo subito, più della beata Ilda Boccassini. Curiosità: il Fatto e il Manifesto hanno messo in prima pagina la stessa foto di Berlusconi corrucciato. Come insegnava la buonanima rossa di Mao, marciare divisi per colpire uniti.
QUANDO IL PCI RICATTO' IL COLLE: GRAZIA ALL'ERGASTOLANO.
Quando il Pci ricattò il Colle: grazia all'ergastolano. Moranino era fuggito a Praga e rientrò in Italia dopo l'atto di clemenza di Saragat, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. La storia non si ripete, però ci sorprende e ci spiazza. La storia, se si rileggono certi passaggi, può scombussolare le fondamenta dei ragionamenti che si ripetono in questi giorni surriscaldati di mezza estate. Si dice che la grazia non può essere un quarto grado di giudizio e che il condannato non può riceverla se non ha cominciato ad espiare la pena. Si ammucchiano tanti concetti, tutti politically correct, poi t'imbatti nella vicenda tragica e drammatica di Francesco Moranino, il comandante «Gemisto», comunista doc, partigiano, deputato e tante altre cose ancora e sei costretto a rivedere quei giudizi affrettati. Il caso Moranino è per certi aspetti ancora aperto come tante pagine controverse del nostro passato, ma alcuni elementi sono chiari. Il primo: nel 1955 il Parlamento concesse l'autorizzazione a procedere, la prima nel Dopoguerra, e Moranino fu condannato all'ergastolo per l'uccisione di cinque partigiani bianchi e di due delle loro mogli; il secondo: non rimase in Italia a scontare mestamente la condanna. No, fu aiutato dal Pci a scappare. Riparò a Praga e là attese gli eventi. Attenzione: Praga era la capitale di un paese nemico nell'Europa sull'orlo del conflitto degli anni Cinquanta e Sessanta. Da Praga Moranino portò a casa due risultati clamorosi; prima, nel '58, il presidente Giovanni Gronchi commutò la sua pena: dal carcere a vita a 10 anni. Poi nel '65 il suo successore Giuseppe Saragat gli concesse la grazia. Sì, avete letto bene. Il presidente della Repubblica cancellò con un colpo di spugna la pena. Saragat non si preoccupò del fatto che la grazia potesse sconfessare l'opera della magistratura e suonare appunto come un quarto grado di giudizio. Anzi, il presidente non si fermò neppure quando il procuratore generale di Firenze, chiamato ad esprimersi, diede un parere negativo. La grazia fu firmata lo stesso, anche se Moranino era latitante, in fuga oltre la Cortina di ferro. E, insomma, la sorprendente conclusione poteva essere interpretata come una resa dello Stato ad una parte. Per piantare la bandierina della grazia, Saragat scalò una parete di sesto grado, altro che la frode e l'evasione fiscale di cui si parla in questi giorni. Moranino naturalmente si proclamava innocente e poi tutto quel periodo storico convulso, la stagione della Resistenza e la sua coda nelle settimane successive al 25 aprile, era ed è oggetto di una grande disputa: le esecuzioni senza pietà dovevano essere coperte dallo scudo della Resistenza che tutto giustificava e assorbiva. La querelle, come è noto, si è trascinata nel tempo: il sangue dei vinti, come l'ha chiamato Giampaolo Pansa, non ha ancora trovato pace. Ma Saragat non si soffermò sulle conseguenze giuridiche di quell'atto e puntò dritto all'obiettivo della pacificazione. La politica, con i suoi accordi sotterranei, vinse su tutto il resto, anche sull'indecenza di un atto che, pur se bilanciato da misure di clemenza verso i neri della Repubblica sociale, sconcertò molti italiani. L'ha spiegato molto bene Sergio Romano rispondendo ad un lettore dalla colonne del Corriere della sera: «Credo che Giuseppe Saragat abbia pagato un debito di riconoscenza al partito che aveva contribuito ad eleggerlo». Saragat era diventato capo dello Stato il 28 dicembre 1964, con il contributo determinante del Pci. La grazia arrivò a tamburo battente il 27 aprile 1965. Ci fu probabilmente un baratto: l'elezione in cambio della chiusura di quel capitolo orrendo. Moranino rientrò con comodo, nel '68, e il Pci non ebbe alcun imbarazzo a ricandidarlo e a farlo rieleggere. A Palazzo Madama. L'Italia usciva così definitivamente dal clima avvelenato della guerra, ma il prezzo pagato allo stato di diritto fu altissimo. Era il ”Re del Grano”, l´inventore di Zemanlandia, il fautore del miracolo del Foggia in serie A e dell´Avellino in serie B, ma per tredici anni Pasquale Casillo, noto a tutti come “Don Pasquale” da San Giuseppe Vesuviano, pesava l´accusa del famigerato articolo 110 - 416bis, concorso esterno in associazione di stampo mafioso: un reato grave da cui Casillo, soltanto in tarda mattina del 16 febbraio 2007, è stato assolto dai giudici del tribunale di Nola, in provincia di Napoli, che hanno accolto le richieste del pubblico ministero Vincenzo D´Onofrio. Per Don Pasquale, dunque, assistito dall´avvocato Ettore Stravino e da Bruno Von Arx, è giunta l´assoluzione con formula piena per non aver commesso il fatto. Casillo fu arrestato il 21 aprile del 1994 non solo per associazione mafiosa, ma anche per truffa e peculato. Era stato accusato, insieme ad altri, infatti, di aver frodato l’Aima, l´Azienda di Stato per gli interventi nel mercato agricolo. Per questi ultimi reati è scattata la prescrizione, ma per Pasquale Casillo restava in piedi la ben più grave macchia, il 416bis, che da ieri non ha più nulla a che fare con l´ex Re del Grano. Un “impero”, quello di Casillo, che valeva milioni e milioni di euro e che gli deve essere restituito poiché sono stati revocati i provvedimenti di sequestro cautelare sulle aziende e sui beni personali. «In questa brutta storia, potevo perdere tutto ma non la dignità» ha dichiarato l´imprenditore. Nei primi anni ´90 l’industriale campano, presidente dell´Assindustria di Foggia, era il gotha dell´imprenditoria nazionale: il suo “impero” era impegnato in tutti i campi, dal commercio allo stoccaggio del grano, dai trasporti navali al mondo del calcio. E che calcio. Ma Casillo aveva anche partecipazioni importanti in istituti di credito (Banca Mediterranea e Caripuglia) e società immobiliari e turistiche. E poi, oltre al Foggia di Zeman, era proprietario anche di Salernitana e Bologna e voleva “mettere le mani” sulla Roma di Ciarrapico. Poi, quel 21 aprile, l´arresto a Foggia: a far emettere le ordinanze dai giudici di Napoli le deposizioni di un pentito della camorra, il boss Pasquale Galasso. Nonostante un pool di primarie banche, coordinate dall´ABI, avesse offerto un cospicuo finanziamento ponte di 100 miliardi di vecchie lire, rifiutato dal neoamministratore giudiziario del gruppo, scatta la molla dell´istanza di fallimento, richiesta dai creditori del gruppo Casillo. Nel maggio del 1994, su istanza del Banco di Napoli, finiscono in tribunale i libri della capogruppo, la “Casillo Grani Snc”, società in nome collettivo. E incomincia il pellegrinaggio dell´inchiesta principale. Casillo si è sempre dichiarato innocente, anzi «perseguitato dai giudici», e ha sempre richiesto di essere processato subito. Con gli anni vengono prescritti tutti gli eventuali reati fiscali. Restava, fino a ieri, solo il 416bis. E per Casillo il fantasma della mafia, anzi della camorra campana, svanisce, così come era svanito, qualche anno prima, per l´ex ministro dell´Interno Antonio Gava, che è stato assolto - come molti altri imputati eccellenti - in tutti i gradi nel processo per camorra basato in massima parte sulle dichiarazioni del medesimo pentito Pasquale Galasso, lo stesso accusatore di Casillo.
I magistrati, diceva Calamandrei, sono come i maiali. Se ne tocchi uno gridano tutti. Non puoi metterti contro la magistratura, è sempre stato così, è una corporazione.
In tema di Giustizia l'Italia è maglia nera in Europa. In un anno si sono impiegati 564 giorni per il primo grado in sede civile, contro una media di 240 giorni nei Paesi Ocse. Il tempo medio per la conclusione di un procedimento civile nei tre gradi di giudizio si attesta sui 788 giorni. Non se la passa meglio la giustizia penale: la sua lentezza è la causa principale di sfiducia nella giustizia (insieme alla percezione della mancata indipendenza dei magistrati e della loro impunità, World Economic Forum). La durata media di un processo penale, infatti, tocca gli otto anni e tre mesi, con punte di oltre 15 anni nel 17% dei casi. Ora, tale premessa ci sbatte in faccia una cruda realtà. Per Silvio Berlusconi la giustizia italiana ha tempi record, corsie preferenziali e premure impareggiabili. Si prenda ad esempio il processo per i diritti televisivi: tre gradi di giudizio in nove mesi, una cosa del genere non si è mai vista in Italia. Il 26 ottobre 2012 i giudici del Tribunale di Milano hanno condannato Silvio Berlusconi a quattro anni di reclusione, una pena più dura di quella chiesta dalla pubblica accusa (il 18 giugno 2012 i PM Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro chiedono al giudice una condanna di 3 anni e 8 mesi per frode fiscale di 7,3 milioni di euro). Il 9 novembre 2012 Silvio Berlusconi, tramite i suoi legali, ha depositato il ricorso in appello. L'8 maggio 2013 la Corte d'Appello di Milano conferma la condanna di 4 anni di reclusione, 5 anni di interdizione dai pubblici uffici e 3 anni dagli uffici direttivi. Il 9 luglio 2013 la Corte di Cassazione ha fissato al 30 luglio 2013 l'udienza del processo per frode fiscale sui diritti Mediaset. Processo pervenuto in Cassazione da Milano il 9 luglio con i ricorsi difensivi depositati il 19 giugno. Per chi se ne fosse scordato - è facile perdere il conto tra i 113 procedimenti (quasi 2700 udienze) abbattutisi sull'ex premier dalla sua discesa in campo, marzo 1994 - Berlusconi è stato condannato in primo grado e in appello a quattro anni di reclusione e alla pena accessoria di cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. Secondo i giudici, l'ex premier sarebbe intervenuto per far risparmiare a Mediaset tre milioni di imposte nel 2002-2003. Anni in cui, per quanto vale, il gruppo versò all'erario 567 milioni di tasse. I legali di Berlusconi avranno adesso appena venti giorni di tempo per articolare la difesa. «Sono esterrefatto, sorpreso, amareggiato» dichiara Franco Coppi. Considerato il migliore avvocato cassazionista d'Italia, esprime la sua considerazione con la sua autorevolezza e il suo profilo non politicizzato: «Non si è mai vista un'udienza fissata con questa velocità», che «cade tra capo e collo» e «comprime i diritti della difesa». Spiega: «Noi difensori dovremo fare in 20 giorni quello che pensavamo di fare con maggior respiro». Tutto perché? «Evidentemente - ragiona Coppi -, la Cassazione ha voluto rispondere a chi paventava i rischi della prescrizione intermedia. Ma di casi come questo se ne vedono molti altri e la Suprema Corte si limita a rideterminare la pena, senza andare ad altro giudice. Al di là degli aspetti formali, sul piano sostanziale, dover preparare una causa così rinunciando a redigere motivi nuovi, perché i tempi non ci sono, significa un'effettiva diminuzione delle possibilità di difesa». Il professore risponde così anche all'Anm che definisce «infondate» le polemiche e nega che ci sia accanimento contro il Cavaliere.
113 procedimenti. Tutto iniziò nel 1994 con un avviso di garanzia (poi dimostratosi infondato) consegnato a mezzo stampa dal Corriere della Sera durante il G8 che si teneva a Napoli. Alla faccia del segreto istruttorio. E’ evidentemente che non una delle centinaia di accuse rivoltegli contro era fondata. Nessun criminale può farla sempre franca se beccato in castagna. E non c’è bisogno di essere berlusconiano per affermare questo.
E su come ci sia commistione criminale tra giornali e Procure è lo stesso Alessandro Sallusti che si confessa. In un'intervista al Foglio di Giuliano Ferrara, il direttore de Il Giornale racconta i suoi anni al Corriere della Sera, e il suo rapporto con Paolo Mieli: «Quando pubblicammo l'avviso di garanzia che poi avrebbe fatto cadere il primo governo di Silvio Berlusconi, ero felicissimo. Era uno scoop pazzesco. E lo rifarei. Ma si tratta di capire perché certe notizie te le passano. Sin dai tempi di Mani pulite il Corriere aveva due direttori, Mieli e Francesco Saverio Borrelli, il procuratore capo di Milano. I magistrati ci passavano le notizie, con una tempistica che serviva a favorire le loro manovre. Mi ricordo bene la notte in cui pubblicammo l'avviso di garanzia a Berlusconi. Fu una giornata bestiale, Mieli a un certo punto, nel pomeriggio, sparì. Poi piombò all'improvviso nella mia stanza, fece chiamare Goffredo Buccini e Gianluca Di Feo, che firmavano il pezzo, e ci disse, pur con una certa dose di insicurezza, di scrivere tutto, che lo avremmo pubblicato. Parlava con un tono grave, teso. Quella notte, poi, ci portò in pizzeria, ci disse che aveva già scritto la lettera di dimissioni, se quello che avevamo non era vero sarebbero stati guai seri. Diceva di aver parlato con Agnelli e poi anche con il presidente Scalfaro. Ma poi ho ricostruito che non era così, non li aveva nemmeno cercati, secondo me lui pendeva direttamente dalla procura di Milano».
Si potrebbe sorridere al fatto che i processi a Silvio Berlusconi, nonostante cotanto di principi del foro al seguito, innalzino sensibilmente la media nazionale dello sfascio della nostra giustizia. Ma invece la domanda, che fa capolino e che sorge spontanea, è sempre la stessa: come possiamo fidarci di "questa" giustizia, che se si permette di oltraggiare se stessa con l’uomo più potente d’Italia, cosa potrà fare ai poveri cristi? La memoria corre a quel film di Dino Risi, "In nome del popolo italiano", 1971. C'è il buono, il magistrato impersonato da Tognazzi. E poi c'è il cialtrone, o presunto tale, che è uno strepitoso Gassman. Alla fine il buono fa arrestare il cialtrone, ma per una cosa che non ha fatto, per un reato che non ha commesso. Il cialtrone è innocente, ma finalmente è dentro.
Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia, i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730. Accadde che un vigile, a Montagnano, provincia di Campobasso, nel lontano 2 novembre 2005 fermò un uomo di 70 anni: la sua auto viaggiava con un solo faro acceso. Ne seguì una vivace discussione tra il prossimo multato e l'agente. Quando contravvenzione fu, il guidatore si lasciò andare al seguente sfogo: "Invece di andare ad arrestare i tossici a Campobasso, pensate a fare queste stronzate e poi si vedono i risultati. In questo schifo di Italia di merda...". Il vigile zelante prese nota di quella frase e lo denunciò. Mille euro di multa - In appello, il 26 aprile del 2012, per il viaggiatore senza faro che protestò aspramente contro la contravvenzione arrivò la condanna, pena interamente coperta da indulto. L'uomo decise così di rivolgersi alla Cassazione. La sentenza poi confermata dai giudici della prima sezione penale del Palazzaccio. Il verdetto: colpevole di "vilipendio alla nazione". Alla multa di ormai otto anni fa per il faro spento, si aggiunge quella - salata - di mille euro per l'offesa al tricolore. L'uomo si era difeso sostenendo che non fosse sua intenzione offendere lo Stato e appellandosi al "diritto alla libera manifestazione di pensiero". «Il diritto di manifestare il proprio pensiero in qualsiasi modo - si legge nella sentenza depositata - non può trascendere in offese grossolane e brutali prive di alcuna correlazione con una critica obiettiva»: per integrare il reato, previsto dall'articolo 291 del codice penale, «è sufficiente una manifestazione generica di vilipendio alla nazione, da intendersi come comunità avente la stessa origine territoriale, storia, lingua e cultura, effettuata pubblicamente». Il reato in esame, spiega la Suprema Corte, «non consiste in atti di ostilità o di violenza o in manifestazioni di odio: basta l'offesa alla nazione, cioè un'espressione di ingiuria o di disprezzo che leda il prestigio o l'onore della collettività nazionale, a prescindere dai vari sentimenti nutriti dall'autore». Il comportamento dell'imputato, dunque, che «in luogo pubblico, ha inveito contro la nazione», gridando la frase “incriminata”, «sia pure nel contesto di un'accesa contestazione elevatagli dai carabinieri per aver condotto un'autovettura con un solo faro funzionante, integra - osservano gli “ermellini” - il delitto di vilipendio previsto dall'articolo 291 cp, sia nel profilo materiale, per la grossolana brutalità delle parole pronunciate pubblicamente, tali da ledere oggettivamente il prestigio o l'onore della collettività nazionale, sia nel profilo psicologico, integrato dal dolo generico, ossia dalla coscienza e volontà di proferire, al cospetto dei verbalizzanti e dei numerosi cittadini presenti sulla pubblica via nel medesimo frangente, le menzionate espressioni di disprezzo, a prescindere dai veri sentimenti nutriti dall'autore e dal movente, nella specie di irata contrarietà per la contravvenzione subita, che abbia spinto l'agente a compiere l'atto di vilipendio».
A questo punto ognuno di noi ammetta e confessi che, almeno per un volta nella sua vita, ha proferito la fatidica frase “che schifo questa Italia di merda” oppure “che schifo questi italiani di merda”.
Quando la disinformazione è l’oppio dei popoli, che li rincoglionisce. I giornalisti corrotti ed incapaci ti riempiono la mente di merda. Anziché essere testimoni veritieri del loro tempo, si concentrano ad influenzare l’elettorato manovrati dal potere giudiziario, astio ad ogni riforma che li possa coinvolgere e che obbliga i pennivendoli a tacere le malefatte delle toghe.
Silvio Berlusconi: ossessione dei giornalisti di destra e di sinistra.
Il Caimano in prima pagina: vent'anni di copertine dell'Espresso. 88. La prima, il 5 ottobre del 1993. L'ultima, ma non ultima, il 25 novembre 2013. Ecco come l'Espresso ha sbattuto il Cavaliere in prima pagina.
5 ottobre 1993. Berlusconi a destra. Nuove Rivelazioni: QUI MI FANNO NERO! Dietro la svolta: Le ossessioni, la megalomania, la crisi Fininvest….
17 ottobre 1993. Esclusivo. I piani Fininvest per evitare il crac. A ME I SOLDI! Rischio Berlusconi. Rivelazioni. Il debutto in politica e l’accordo con segni. A ME I VOTI!
21 novembre 1993. Elezioni. Esclusivo: tutti gli uomini del partito di Berlusconi. L’ACCHIAPPAVOTI.
7 gennaio 1994. BERLUSCONI: LE VERITA’ CHE NESSUNO DICE. Perché entra in politica? Forse per risolvere i guai delle sue aziende? Che senso ha definirlo imprenditore di successo? Quali sono i suoi rapporti oggi con Crazxi? Cosa combina se si impadronisse del Governo? Quali banchieri lo vedono già a Palazzo Chigi? Esistono cosi occulti nella Fininvest? Chi sono? Insomma: questo partito-azienda è una barzelletta o una cosa seria?
4 marzo 1994. Speciale elezioni. CENTO NOMI DA NON VOTARE. Dossier su: buoni a nulla, dinosauri, inquisiti, riciclati, voltagabbana.
11 marzo 1994. DIECI BUONE RAGIONI PER NON FIDARSI DI BERLUSCONI. Documenti esclusivi da: commissione P2, magistratura milanese, Corte costituzionale.
29 luglio 1994. Troppe guerre inutili. Troppi giochetti d’azzardo. Troppe promesse a vuoto. Troppo disprezzo degli altri. Troppe docce fredde per lira e borsa….LA FANTASTICA CANTONATA DEGLI ITALIANI CHE SI SONO FIDATI DI BERLUSCONI.
26 agosto 1994. Tema del giorno. Atroce dubbio su Berlusconi: ci sa fare o è un…ASINO?
18 novembre 1994. Dossier Arcore: LA REGGIA. Storia di un Cavaliere furbo, di un avvocato, di un’ereditiera. Dossier alluvione. LA PALUDE. Storia di un governo ottimista e di una catastrofe.
14 aprile 1995. L’incubo di pasqua. Ma davvero la destra vince? VENDETTA!
9 giugno 1995. L’AFFARE PUBBLITALIA. Tre documenti eccezionali. 1. Dell’Utri. Viaggio tra i fondi neri. Della società che voleva conquistare un paese. 2. Berlusconi. Le prove in mano ai giudici: dal caso Berruti alla pista estera. 3. Letta. I verbali dei summit di Arcore. Con i big di giornali e televisioni Fininvest.
10 settembre 1995. Case d’oro/ esclusivo. L’ALTRA FACCIA DELLO SCANDALO. Rapporto sui raccomandati di sinistra. Rivelazioni: manovre ed imbrogli della destra.
17 settembre 1995. L’ALTRA FACCIA DI AFFITTOPOLI/NUOVE RIVELAZIONI. 745.888.800.000! Come, dove e quanto hanno incassato i fratelli Berlusconi rifilando palazzi e capannoni agli enti previdenziali.
25 ottobre 1995. SHOWMAN. Berlusconi ultimo grido. L’attacco a Dini e Scalfaro: astuzie, bugie, sceneggiate.
2 febbraio 1996. L’uomo dell’inciucio. Segreti, imbrogli, stramberie, pericoli…. SAN SILVIO VERGINE.
5 aprile 1996. Dall’album di Stefania Ariosto: festa con il cavaliere. C’ERAVAMO TANTO AMATI. Nuove strepitose foto/La dolce vita di Berlusconi & C. Caso Squillante/Tutto sui pedinamenti. E sui gioielli Fininvest. Se vince il Polo delle Vanità/Poveri soldi nostri…
24 ottobre 1996. D’Alema e Berlusconi: il nuovo compromesso. Origini, retroscena, pericoli. DALEMONI.
18 dicembre 1996. FORZA BUFALE. Rivelazioni. Chi e come alimenta la campagna contro Di Pietro. Qual è la fabbrica delle false notizie agghiaccianti sul Pool Mani Pulite. Che cosa fa acqua nei rapporti della Guardia di Finanza. I segreti dell’agenda di Pacini Battaglia. Le grandi manovre per l’impunità. E il ritorno di fiamma dell’amnistia. C’è in Italia un partito antigiudici. Ha capi, quadri, ha compagni di strada. Per vincere deve spararle sempre più grosse. Inchiesta su un malessere che non passa. E che nessuna riforma risolve.
3 maggio 1996. THE END.
10 aprile 1997. ALBANIA SHOW. Speciale/tragedie e polemiche, sceneggiate e pericoli.
3 agosto 2000. Esclusivo. Un rapporto dei tecnici della Banca d’Italia. COSI’ HA FATTO I SOLDI BERLUSCONI.
22 marzo 2001. LA CARICA DEI 121. Fedelissimi, folgorati e riciclati. Con loro Berlusconi vorrebbe governare l’Italia.
16 maggio 2001. L’AFFONDO. Berlusconi si gioca il tutto per tutto. Ma la partita è ancora aperta. Le urne diranno se sarà alba o tramonto.
24 magio 2001. E ORA MI CONSENTA. L’Italia alle prese con il Cavaliere pigliatutto.
19 dicembre 2001. GIUSTIZIA FAI DA ME. Sondaggio choc: i giudici, gli italiani e Berlusconi.
7 febbraio 2002. L’importante è separare la carriera degli imputati da quella dei giudici. L’ILLUSIONE DI MANI PULITE.
15 MAGGIO 2003. COMPARI. Negli affari, nella politica, nei processi. Berlusconi e Previti pronti a tutto. A riscrivere le leggi e a sconvolgere le istituzioni.
11 settembre 2003. Esclusivo. GLI ZAR DELLA COSTA SMERALDA. Le foto segrete dell’incontro Berlusconi-Putin.
29 gennaio 2004. RISILVIO. Vuole rifare il governo, rifondare Forza Italia, riformare lo Stato. E per cominciare si è rifatto.
13 maggio 2004. LE 1000 BUGIE DI BERLUSCONI. Il suo governo ha stabilito il record di durata. E anche quello delle promesse non mantenute. Ecco il bilancio.
24 giugno 2004. – 4.000.000. Ha perso voti e credibilità. Ora gli alleati gli presentano il conto. L’estate torrida del cavalier Silvio Berlusconi.
3 marzo 2005. AFFARI SUOI. Società e fiduciarie nei paradisi fiscali. Falsi in bilancio. Così Silvio Berlusconi dirottava i proventi del gruppo Mediaset sui diritti Tv.
7 aprile 2005. RISCHIATUTTO. Il voto delle regionali segnerà il destino dei duellanti. Romano Prodi e Silvio Berlusconi? Ecco che cosa ci aspetta dopo il verdetto delle urne.
21 aprile 2005. FARE A MENO DI BERLUSCONI. L’ennesima sconfitta ha chiuso un ciclo. Gli alleati del Cavaliere pensano al dopo. E a chi potrà prendere il suo posto.
2 febbraio 2006. PSYCHO SILVIO. Impaurito dai sondaggi tenta di rinviare la campagna elettorale. Occupa radio e tv. Promuove gli amici nei ministeri. Distribuisce una pioggia di finanziamenti clientelari. Così Berlusconi le prova tutte per evitare la sconfitta.
6 aprile 2006. DECIDONO GLI INDECISI. Identikit degli italiani che ancora non hanno scelto. Ma che determineranno l’esito del voto del 9 aprile.
9 novembre 2006. LA CASA DEI DOSSIER. Da Telecom-Serbia alle incursioni informatiche. Ecco il filo che lega le trame degli ultimi anni. Con un obbiettivo: delegittimare Prodi e la sinistra.
29 novembre 2007. Retroscena. VOLPE SILVIO. Il piano segreto di Berlusconi per far cadere Prodi e tornare al Governo. Fini e Casini azzerati. L’Unione sorpresa. Ma Veltroni è tranquillo. Non mi fanno paura.
24 aprile 2008. Elezioni. L’ITALIA DI B&B. Il ciclone Berlusconi. Il trionfo di Bossi. Lo scacco a Veltroni. E l’apocalisse della sinistra radicale rimasta fuori dal Parlamento.
15 maggio 2008. Inchiesta. LA MARCIA SU NAPOLI. Silvio Berlusconi arriva in città con il nuovo governo. Per liberarla dai rifiuti ma anche per spazzare via la sinistra da Comune e Regione.
25 giugno 2008. DOPPIO GIOCO. Si propone come statista. Aperto al dialogo. Ma poi Berlusconi vuole fermare i suoi processi. Ricusa i giudici. Vieta le intercettazioni. Manda l’esercito nelle città. Ed è solo l’inizio.
3 luglio 2008. Esclusivo. PRONTO RAI. Raccomandazioni. Pressioni politiche. Affari. Le telefonate di Berlusconi, Saccà, Confalonieri, Moratti, Letta, Landolfi, Urbani, Minoli, Bordon, Barbareschi, Costanzo….
19 febbraio 2009. Berlusconi. L’ORGIA DEL POTERE. L’attacco al Quirinale e alla Costituzione. Il caso Englaro. La giustizia. Gli immigrati. L’offensiva a tutto campo del premier.
19 marzo 2009. Inchiesta. PIER6SILVIO SPOT. Le reti Mediaset perdono ascolto. Ma fanno il pieno di pubblicità a scapito della Rai. Da quando Berlusconi è tornato al governo, i grandi inserzionisti hanno aumentato gli investimenti sulle tivù del cavaliere.
14 maggio 2009. SCACCO AL RE. Il divorzio chiesto da Veronica Lario a Berlusconi. Tutte le donne e gli amori del Cavaliere. La contesa sull’eredità. Le possibili conseguenze sulla politica.
11 giugno 2009. SILVIO CIRCUS. Per l’Italia la fiction: tra promesse fasulle e clamorose assenze come nel caso Fiat-Opel. Per sé il reality: le feste in villa e i voli di Stato per gli amici.
17 giugno 2009. Governo. ORA GUIDO IO. Umberto Bossi è il vero vincitore delle elezioni. E già mette sotto ricatto Berlusconi e la maggioranza. Nell’opposizione Di Pietro si prepara a contendere la leadership al PD, reduce da una pesante sconfitta.
25 giugno 2009. ESTATE DA PAPI. Esclusivo. Le foto di un gruppo di ragazze all’arrivo a Villa Certosa. Agosto 2008.
9 luglio 2009. Il vertice dell’Aquila. G7 E MEZZO. Berlusconi screditato dalle inchieste e dagli scandali cerca di rifarsi l’immagine. Con la passerella dei leader della terra sulle macerie. L’attesa per un summit che conferma la sua inutilità.
16 luglio 2009. SILVIO SI STAMPI. Tenta di intimidire e limitare la libertà dei giornalisti. Ma Napolitano stoppa la legge bavaglio. E i giornali stranieri non gli danno tregua. Umberto eco: “E’ a rischio la democrazia”.
23 luglio 2009. TELESFIDA. Tra Berlusconi e Murdoch è il corso una contesa senza esclusione di colpi. Per il predominio nella Tv del futuro. Ecco cosa succederà e chi vincerà.
30 luglio 2009. Esclusivo. SEX AND THE SILVIO. Tutte le bugie di Berlusconi smascherate dai nastri di Patrizia D’Addario. Notti insonni, giochi erotici, promesse mancate, E ora la politica si interroga: può ancora governare il paese?
12 agosto 2009. Governo. SILVIO: BOCCIATO. Bugie ed escort. Conflitti con il Quirinale. Assalti al CSM. Debito Pubblico. Decreti di urgenza. Soldi al Sud. Clandestini e badanti. Bilancio del premier Berlusconi. E, ministro per ministro, a ciascuno la sua pagella.
3 settembre 2009. DOPPIO GIOCO. Montagne di armi per le guerre africane. Vendute da trafficanti italiani a suon di tangenti. Ecco la Libia di Gheddafi cui Berlusconi renderà omaggio. Mentre l’Europa chiede di conoscere il patto anti immigrati.
10 settembre 2009. SE QUESTO E’ UN PREMIER. Si scontra con la chiesa. Litiga con l’Europa. Denuncia i giornali italiani e stranieri non allineati. E, non contento, vuol metter le mani su Rai 3 e La7.
1 ottobre 2009. GHEDINI MI ROVINI. Oggi è il consigliere più ascoltato del premier. Autore di leggi ad personam e di gaffe memorabili. Storia dell’onorevole-avvocato, dai camerati al lodo Alfano.
8 ottobre 2009. SUA LIBERTA’ DI STAMPA. Attacchi ai giornali. Querele. Bavaglio alle trasmissioni scomode della tv. Così Berlusconi vuole il controllo totale dell’informazione.
15 ottobre 2009. KO LODO. La Consulta boccia l’immunità, Berlusconi torna imputato. E rischia un’ondata di nuove accuse. Ma la sua maggioranza si rivolge alla piazza. E apre una fase di grande tensione istituzionale.
19 novembre 2009. LA LEGGE DI SILVIO. Impunità: è l’obbiettivo di Berlusconi. Con misure che annullano migliaia di processi. E con il ripristino dell’immunità parlamentare. Mentre Cosentino resta al governo dopo la richiesta di arresto.
16 dicembre 2009. SCADUTO. I rapporti con i clan mafiosi. Lo scontro con Fini. I guai con la moglie Veronica e con le escort. L’impero conteso con i figli. L’anno orribile di Silvio Berlusconi.
21 gennaio 2010. Palazzo Chigi. SILVIO QUANTO CI COSTI. 4.500 dipendenti. Spese fuori controllo per oltre 4 miliardi di euro l’anno. Sono i conti della Presidenza del Consiglio. Tra sprechi, consulenze ed eventi mediatici.
4 marzo 2010. UN G8 DA 500 MILIONI DI EURO. Quanto ci è costato il vertice tra la Maddalena e l’Aquila. Ecco il rendiconto voce per voce, tra sprechi e raccomandazioni: dal buffet d’oro ai posacenere, dalle bandierine ai cd celebrativi.
18 marzo 2010. SENZA REGOLE. Disprezzo della legalità. Conflitti con il Quirinale. Attacchi ai magistrati e all’opposizione. Scandali. E ora per la sfida elettorale Berlusconi mobilita la piazza. Con il risultato di portare il paese nel caos.
31 marzo 2010. STOP A SILVIO. Le elezioni regionali possono fermare la deriva populista di Berlusconi. Bersani: “Pronti al dialogo con chi, anche a destra, vuole cambiare”.
13 maggio 2010. IL CASINO DELLE LIBERTA’. Le inchieste giudiziarie. Gli scontri interni al partito. La paralisi del Governo. Dopo le dimissioni di Scajola, Berlusconi nella bufera.
27 maggio 2010. STANGATA DOPPIA. Prima il blocco degli stipendi degli statali, i tagli sulla sanità, la caccia agli evasori e un nuovo condono. Poi la scure sulle pensioni e un ritorno alla tassa sulla casa.
8 luglio 2010. I DOLORI DEL VECCHIO SILVIO. La condanna di Dell’Utri per mafia e il caso Brancher. La rivolta delle Regioni contro i tagli e l’immobilismo del governo. Le faide nel Pdl e i sospetti della Lega. Il Cavaliere alla deriva.
15 luglio 2010. SENZA PAROLE.
11 novembre 2010. BASTA CON ‘STO BUNGA BUNGA. BASTA LO DICO IO.
18 novembre 2010. QUI CROLLA TUTTO. Le macerie di Pompei. L’alluvione annunciata in Veneto. L’agonia della maggioranza. L’economia in panne. Per non dire di escort e bunga bunga. Fotografia di un paese da ricostruire.
16 dicembre 2010. La resa dei conti tra Berlusconi e Fini è all’atto finale. Chi perde rischia di uscire di scena. FUORI UNO.
22 dicembre 2010. FINALE DI PARTITA. Voti comprati. Tradimenti. Regalie…Berlusconi evita a stento la sfiducia, ma ora è senza maggioranza e deve ricominciare daccapo. Anche se resisterà, una stagione s’è chiusa. Eccola, in 40 pagine, di foto e ricordi d’autore.
27 gennaio 2011. ARCORE BY NIGHT. Un harem di giovanissime ragazze pronte a tutto. Festini, orge, esibizioni erotiche, sesso. L’incredibile spaccato delle serate di Berlusconi nelle sue ville. Tra ricatti e relazioni pericolose.
10 febbraio 2011. PRETTY MINETTI. Vita di Nicole, ragazza chiave dello scandalo Ruby. Intima di Berlusconi, sa tutto sul suo harem. Se ora parlasse.
26 maggio 2011. MADUNINA CHE BOTTA! Milano gli volta le spalle, Bossi è una mina vagante, il PDL spaccato già pensa al dopo. Stavolta Berlusconi ha perso davvero. Analisi di una disfatta. Che, Moratti o non Moratti, peserà anche sul governo.
21 giugno 2011. Esclusivo. VOI QUORUM IO PAPI. Domenica 12 giugno l’Italia cambia, lui no. Domenica 12 giugno l’Italia corre a votare, lui a villa Certosa a occuparsi d’altro. In queste foto, la wonderland del cavaliere. Lontana anni luce dal paese reale.
7 luglio 2011. Sprechi di Stato. IO VOLO BLU MA PAGHI TU. Il governo brucia centinaia di milioni per i suoi viaggi. E Berlusconi si regala due super elicotteri. A spese nostre.
21 luglio 2011. MISTER CRACK. La tempesta economica. La borsa in bilico. La paura del default. E un premier sempre isolato. Il varo della manovra è solo una tregua. Prima della resa dei conti. E spunta l’ipotesi di un governo guidato da Mario Monti.
25 agosto 2011. LACRIME E SANGUE. Diceva: meno tasse per tutti. Ma la pressione fiscale non è mai stata così alta. Chiamava Dracula gli altri. Ma ora è lui a mordere i soliti. Processo all’iniqua manovra d’agosto. Che ci cambia la vita e non tocca gli evasori.
15 settembre 2011. E SILVIO SI TAGLIO’ 300 MILIONI DI TASSE. Il Premier impone il rigore agli italiani. Ma gli atti sulla P3 svelano le trame per evitare la causa fiscale sulla Mondadori. Dal presidente della Cassazione al sottosegretario Caliendo, ecco chi si è mosso per salvarlo dalla maximulta.
29 settembre 2011. SERIE B.
13 ottobre 2011. SQUALIFICATO. Condannato dalla Chiesa, mollato dagli imprenditori, bocciato dalle agenzie di rating. E’ l’agonia di un leader né serio né credibile che non si decide a lasciare. Denuncia Romano Prodi a “L’Espresso”: Qualsiasi governo sarebbe meglio del suo.
17 novembre 2011. THE END. Berlusconi tenterà di sopravvivere, ma ha dovuto prendere atto della fine del suo governo. Intanto la crisi economica si fa sempre più drammatica e la credibilità dell’Italia è ridotta a zero. Non c’è più tempo da perdere.
19 gennaio 2012. I GATTOPARDI. Crescita, liberalizzazioni, lotta all’evasione e alla casta…Monti è atteso alla prova più dura. Ma i partiti frenano. Come se avessero voluto cambiare tutto per non cambiare niente.
5 luglio 2012. RIECCOLO. Attacco euro e Merkel. Destabilizza il governo Monti. Blocca la Rai. E rivendica la leadership del suo partito. Così Berlusconi prova ancora una volta a farsi largo.
14 febbraio 2013. VI AFFONDO IO. Pur di risalire al china Silvio Berlusconi sfascia tutto accende la campagna elettorale con promesse da marinaio e terrorizza i mercati. Davvero può farcela? Chi lo fermerà? E come dovrebbe reagire il PD? L’Espresso lo ha chiesto a due guru.
19 settembre 2013. BOIA CHI MOLLA. Accettare il silenzio la decadenza o l’interdizione. O fare un passo indietro prima del voto. Berlusconi ha pronta una via d’uscita. Per restare il capo della destra.
29 novembre 2013. EXTRA PARLAMENTARE. Per Berlusconi si chiude un ventennio e comincia lo scontro finale: fuori dal Senato e in piazza, dalle larghe intese all’opposizione dura. Contro il governo, contro Napolitano, contro l’Europa..
1977: quell'articolo premonitore di Camilla Cederna su Silvio Berlusconi. Uno splendido pezzo di una grande firma de "L'Espresso". Che aveva già capito tutto dell'ex Cavaliere, agli albori della sua ascesa. Il 9 maggio 2014 Silvio Berlusconi ha cominciato a scontare la pena per frode fiscale con il “servizio sociale” per gli anziani della Sacra Famiglia di Cesano Boscone. Ma continua a dominare le tribune elettorali, convinto di un destino da «padre della patria» e dei risultati di Forza Italia. Inarrestabile, come è sempre stato. Ecco gli albori della sua ascesa descritti da Camilla Cederna sul numero de “l’Espresso” del 10 aprile 1977: un articolo in cui del personaggio si capiva già tutto e pubblicato proprio dal “L’Espresso” il 12 maggio 2014. In un ambiente di lusso, saloni uno via l’altro, prati di moquette, sculture che si muovono, pelle, mogano e palissandro, continua a parlare un uomo non tanto alto, con un faccino tondo da bambino coi baffi, nemmeno una ruga, e un nasetto da bambola. Completo da grande sarto, leggero profumo maschio al limone. Mentre il suo aspetto curato, i suoi modini gentili, la sua continua esplosione di idee piacerebbero a un organizzatore di festini e congressi, il suo nome sarebbe piaciuto molto a C.E. Gadda. Si chiama infatti Silvio Berlusconi. Un milanese che vale miliardi, costruttore di smisurati centri residenziali, ora proprietario della stupenda villa di Arcore dove vissero Gabrio Casati e Teresa Confalonieri (con collezione di pittori lombardi del ’500, e mai nessun nudo per non offendere la moglie, religiosissima), quindi della villa ex Borletti ai margini del parco di Milano. Allergico alle fotografie («magari anche per via dei rapimenti», spiega con un sorriso ironico solo a metà) è soddisfattissimo che nessuno lo riconosca né a Milano né in quella sua gemma che considera Milano 2. Siccome è la sua prima intervista, è felice di raccontarmi la sua vita felice. Media borghesia, il papà direttore di banca che, a liceo finito, non gli dà più la mancia settimanale; ma lui non si dispera, perché, mentre studia legge, lavora in vari modi: suonando Gershwin o cantando le canzoni francesi alle feste studentesche. Non solo, ma fra un trenta e lode e l’altro, fa il venditore di elettrodomestici, e la sua strada è in salita: da venditore a venditore capo a direttore commerciale. Dopo la sua tesi di laurea sulla pubblicità (il massimo dei voti) inizia la sua vera attività entrando successivamente in due importanti imprese di costruzione. A venticinque anni crea un complesso di case intorno a piazza Piemonte, ecco quindi la fortunatissima operazione di Brugherio, una lottizzazione destinata al ceto medio basso, mille appartamenti che van via subito; e preso dal piacere di raccontare, ogni tanto va nel difficile, dice “congesto”, macrourbanistica, architettura corale, la connotazione del mio carattere è la positività, “natura non facit saltus”. Il suo sogno sarebbe esser ricercato in tutto il mondo per fare città, e “chiamiamo il Berlusconi” dovrebbe essere l’invocazione di terre desiderose di espandersi. Di Milano 2, l’enorme quartiere residenziale nel Comune di Segrate, parla come di una donna che ama, completa com’è di ogni bellezza e comfort, e centomila abitanti, che a dir che sono soddisfatti è dir poco. Lui legge tutte le novità di architettura e urbanistica, qualche best-seller ogni tanto, rilegge spesso “L’utopia” di Tommaso Moro, sul quale vorrebbe scrivere un saggio. Si ritiene l’antitesi del palazzinaro, si ritiene un progressista, è cattolico e praticante, ha votato Dc; e «se l’urbanistica è quella che si contratta fra costruttori e potere politico, la mia allora non è urbanistica». Grazie, e vediamo cosa dicono gli altri di lui. Lo considerano uno dei maggiori speculatori edilizi del nostro tempo che, valendosi di grosse protezioni vaticane e bancarie, vende le case e prende i soldi prima ancora di costruirle, lucrando in proprio miliardi di interessi. Si lega prima con la base dc (Marcora e Bassetti), poi col centro, così che il segretario provinciale Mazzotta è il suo uomo. Altro suo punto di riferimento è il Psi, cioè Craxi, che vuoi dire Tognoli, cioè il sindaco. E qui viene contraddetta la sua avversione verso l’urbanistica come compromesso tra politici e costruttori. La società di Berlusconi è la Edilnord, fondata nel ’63 da lui e da Renzo Rezzonico, direttore di una società finanziaria con base a Lugano, liquidata nel ’71 per segrete ragioni. Viene fondata allora la Edilnord centri residenziali con le stesse condizioni della compagnia di prima: lo stesso capitale sociale (circa 10 mila dollari), la stessa banca svizzera che fa i prestiti (la International Bank di Zurigo), ed ecco Berlusconi procuratore generale per l’Italia. Nel ’71 il consiglio dei Lavori Pubblici dichiara ufficialmente residenziale la terra di Berlusconi (comprata per 500 lire al metro quadralo nel ’63 e venduta all’Edilnord per 4.250). Da Segrate (amministrazione di sinistra prima, poi socialista e dc) vengono concesse all’Edilnord licenze edilizie in cambio di sostanziose somme di danaro. Umberto Dragone, allora capo del gruppo socialista nel consiglio di Milano, pensa che l’Edilnord abbia pagato ai partiti coinvolti il 5-10 per cento dei profitti (18-19 miliardi) che si aspettava da Milano 2. (Qualche appartamento arredato pare sia stato dato gratis ad assessori e tecnici dc e socialisti. Certo è che questo regalo lo ha avuto un tecnico socialista che vive lì con una fotomodella). «II silenzio non ha prezzo, ecco il paradiso del silenzio», era scritto sulla pubblicità di questa residenza per alta e media borghesia. Ma il silenzio da principio non c’era. L’aeroporto di Linate è lì a un passo, ogni 90 secondi decollava un aereo, intollerabili le onde sonore, superiori a 100 decibel. Così l’Edilnord si muove a Roma, manovrando i ministeri, per ottenere il cambio delle rotte degli aerei. Approfittando della vicinanza di un ospedale, il San Raffaele, diretto da un prete trafficone e sospeso a divinis, don Luigi Maria Verzé, manda ai vari ministeri una piantina in cui la sua Milano 2 risulta zona ospedaliera e la cartina falsa verrà distribuita ai piloti (con su la croce, simbolo internazionale della zona di rispetto), così le rotte vengono cambiate spostando l’odioso inquinamento da rumore da Milano 2 alla sezione nord-est di Segrate che per anni protesterà invano: e il prezzo degli appartamenti viene subito triplicato. Altre notizie. Berlusconi sta mettendo in cantiere la sua nuova Milano 3 nel Comune di Basiglio a sud della città, con appartamenti di tipo “flessibile”, cioè con pareti che si spostano secondo le esigenze familiari. In settembre comincerà a trasmettere dal grattacielo Pirelli la sua Telemilano, una televisione locale con dibattiti sui problemi della città, un’ora al giorno offerta ai giornali (egli possiede il 15 per cento del “Giornale” di Montanelli). «Troppi sono oggi i fattori ansiogeni», dice, «la mia sarà una tv ottimista». Staff di otto redattori, più tecnici e cameramen, quaranta persone in tutto. E pare che in questo suo progetto sia stato aiutato dall’amico Vittorino Colombo, ministro delle Poste e della Tv. Berlusconi aveva anche pensato di fondare un circolo di cultura diretto da Roberto Gervaso; la sua idea preferita però era quella di creare un movimento interpartitico puntato sui giovani emergenti, ma per adesso vi ha soprasseduto. Gli sarebbe piaciuto anche diventare presidente del Milan, ma la paura della pubblicità lo ha trattenuto. Massima sua aspirazione sarebbe infine quella di candidarsi al Parlamento europeo. Ci tiene anche a coltivare al meglio la sua figura di padre, cercando di avere frequenti contatti coi suoi figlioletti. Quel che deplora è che dalle elementari di adesso sia stato esiliato il nozionismo: a lui le nozioni, in qualsiasi campo, hanno giovato moltissimo. Camilla Cederna.
1977: Berlusconi e la pistola. Il fotografo Alberto Roveri decide di trasferire il suo archivio in formato digitale. E riscopre così i ritratti del primo servizio sul Cavaliere. Immagini inedite che raccontano l'anno in cui è nato il suo progetto mediatico. Con al fianco Dell'Utri. E un revolver sul tavolo per difendersi dai rapimenti, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. Formidabile quell'anno. È il 1977 quando il Dottore, come l'hanno continuato a chiamare i suoi collaboratori più intimi, diventa per tutti gli italiani il Cavaliere: il cavaliere del Lavoro Silvio Berlusconi. L'onorificenza viene concessa dal presidente Giovanni Leone all'imprenditore quarantenne che ha tirato su una città satellite, sta comprando la maggioranza del "Giornale" di Indro Montanelli e promette di rompere il monopolio della tv di Stato. È l'anno in cui il neocavaliere stabilisce rapporti fin troppo cordiali con il vertice del "Corriere della Sera" e in un'intervista a Mario Pirani di "Repubblica" annuncia di volere schierare la sua televisione al fianco dei politici anticomunisti. Fino ad allora lo conoscevano in pochi e soltanto in Lombardia: era il costruttore che aveva inventato Milano Due, la prima new town che magnificava lusso, verde e protezione a prova di criminalità. Il segno di quanto in quella stagione di terrorismo e rapine, ma soprattutto di sequestri di persona, la sicurezza fosse il bene più prezioso. E lui, nella prima di queste foto riscoperte dopo trentatre anni, si mostra come un uomo d'affari che sa difendersi: in evidenza sulla scrivania c'è un revolver. Un'immagine che riporta a film popolari in quel periodo di piombo, dai polizieschi all'italiana sui cittadini che si fanno giustizia da soli agli esordi pistoleri di Clint Eastwood. "Con una Magnum ci si sente felici", garantiva l'ispettore Callaghan e anche il Cavaliere si era adeguato, infilando nella fondina una piccola e potente 357 Magnum. È stato proprio quel revolver a colpire oggi il fotografo Alberto Roveri mentre trasferiva la sua collezione di pellicole in un archivio digitale: "Le stavo ingrandendo per ripulirle dalle imperfezioni quando è spuntata quell'arma che avevo dimenticato". Come in "Blow Up" di Antonioni, a forza di ingrandire il negativo appare la pistola: "All'epoca quello scatto preso da lontano non mi era piaciuto e l'avevo scartato". Roveri era un fotoreporter di strada, che nel 1983 venne assunto dalla Mondadori e negli anni Settanta lavorava anche per "Prima Comunicazione", la rivista specializzata sul mondo dei media: "Quando nel 1977 il direttore mi disse che dovevo fare un servizio su Berlusconi, replicai: "E chi è?". Lui rispose: "Sta per comprare il "Giornale" e aprire una tv. Vedrai che se ne parlerà a lungo"". Quella che Roveri realizza è forse la prima serie di ritratti ufficiali, a cui il giovane costruttore volle affidare la sua immagine di vincente. L'incontro avvenne negli uffici Edilnord: "Fu di una cordialità unica, ordinò di non disturbarlo e si mise in posa. Con mio stupore, rifiutò persino una telefonata del sindaco Tognoli". Il solo a cui permise di interromperlo fu Marcello Dell'Utri, immortalato in un altro scatto inedito che evidenzia il look comune: colletti inamidati e bianchi, gemelli ai polsini, pettinature simili. Sono una coppia in sintonia, insieme hanno creato una città dal nulla, con un intreccio di fondi che alimentano sospetti e inchieste. Una coppia che solo pochi mesi dopo si dividerà, perché Dell'Utri seguirà un magnate molto meno fortunato: Filippo Alberto Rapisarda, in familiarità con Vito Ciancimino. Tornerà indietro nel 1982, organizzando prima il colosso degli spot, Publitalia, e poi quello della politica, Forza Italia. La loro storia era cominciata nel 1974, trasformandosi da rapporto professionale in amicizia. Dell'Utri è anche l'amministratore di Villa San Martino, la residenza di Arcore. E dopo pochi mesi vi accoglie uno stalliere conosciuto a Palermo che fa ancora discutere: Vittorio Mangano, poi arrestato come assassino di Cosa nostra. Una presenza inquietante, che per la Procura di Palermo suggella le intese economiche con la mafia in cambio di tutela contro i sequestri. Nel 1977 però Mangano è già tornato in Sicilia. E Berlusconi tanto sereno non doveva sentirsi, come testimonia il revolver nella fondina. Ricorda il fotografo Roveri: "Dopo più di due ore di scatti mi invitò a pranzo ma prima di uscire tirò fuori da un cassetto due pistole, una per sé e una per l'autista. Di fronte alla mia sorpresa, si giustificò: "Ha idea di quanti industriali vengono rapiti?". Poi siamo saliti su una Mercedes che lui definì "blindatissima" per raggiungere un ristorante a soli 200 metri da lì". Sì, quelli in Lombardia erano anni cupi, prima che, grazie anche a Canale 5, alla nebbia di paura si sostituisse il mito luccicante della Milano da bere. Dall'archivio di Roveri ricompare il momento della svolta, quando si cominciano a materializzare i pilastri dell'impero del Biscione tra partiti, media e relazioni molto particolari. È la festa del 1978 che trasforma il Cavaliere in Sua Emittenza, con l'esordio di Telemilano nelle trasmissioni via etere. La politica ha il volto di Carlo Tognoli, sindaco socialista che per un decennio guida la metropoli mentre passa dagli scontri di piazza al jet set danzante della moda. Un personaggio defilato rispetto alla statura del grande sponsor di Berlusconi, quel Bettino Craxi che ne ha sorretto la crescita con decreti su misura, ricevendo in cambio spot e finanziamenti. Li univa la stessa cultura del fare che dà scarso peso alle regole, la stessa visione di una politica sempre più spettacolo, fino a plasmare la società italiana di oggi. In questa metamorfosi tutta televisiva la carta stampata ha avuto un ruolo secondario. All'epoca però l'attenzione era ancora concentrata sul "Corriere della Sera", la voce della borghesia lombarda. In questi scatti il direttore Franco Di Bella ammira soddisfatto il giovane Silvio. Rapporti letti in un'ottica molto più ambigua dopo la scoperta della P2: negli elenchi di Licio Gelli c'erano Di Bella, il direttore generale della Rizzoli Bruno Tassan Din e l'editore Angelo Rizzoli. E c'era pure il nome di Berlusconi, data di affiliazione gennaio 1978, anche se lui ha sempre negato l'iscrizione alla loggia delle trame. Sin da allora le smentite a qualunque costo sono un vizio del Cavaliere a cui gli italiani si sono abituati. Come i divorzi, che segnano la sua carriera professionale, quella politica e la vita privata. Nelle foto del party al fianco di Silvio c'è Mike Bongiorno, il testimonial della sua ascesa mediatica. Resteranno insieme tra alti e bassi fino al 2009: un altro legame chiuso con una rottura burrascosa. E c'è anche Carla Dall'Oglio che si offre ai flash sorridente, afferrando per il braccio un marito dall'aria distaccata. Lei ha 37 anni e da dodici è la signora Berlusconi: poco dopo, nel 1980, quella scena di ostentata felicità sarà spazzata via dal colpo di fulmine per Veronica Lario. Il divorzio è arrivato nel 1985, consolidato da una manciata di miliardi e da una decina di immobili: da allora Carla Dall'Oglio è scomparsa dalla ribalta, dove però sono sempre più protagonisti i suoi figli Marina e Piersilvio, i nuovi Berlusconi.
LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE. PASQUALE CASILLO.
PASQUALE CASILLO E BERLUSCONI.
Era il ”Re del Grano”, l´inventore di Zemanlandia, il fautore del miracolo del Foggia in serie A e dell´Avellino in serie B, ma per tredici anni Pasquale Casillo, noto a tutti come “Don Pasquale” da San Giuseppe Vesuviano, pesava l´accusa del famigerato articolo 110 - 416bis, concorso esterno in associazione di stampo mafioso: un reato grave da cui Casillo, soltanto in tarda mattina del 16 febbraio 2007, è stato assolto dai giudici del tribunale di Nola, in provincia di Napoli, che hanno accolto le richieste del pubblico ministero Vincenzo D´Onofrio. Per Don Pasquale, dunque, assistito dall´avvocato Ettore Stravino e da Bruno Von Arx, è giunta l´assoluzione con formula piena per non aver commesso il fatto. Casillo fu arrestato il 21 aprile del 1994 non solo per associazione mafiosa, ma anche per truffa e peculato. Era stato accusato, insieme ad altri, infatti, di aver frodato l’Aima, l´Azienda di Stato per gli interventi nel mercato agricolo. Per questi ultimi reati è scattata la prescrizione, ma per Pasquale Casillo restava in piedi la ben più grave macchia, il 416bis, che da ieri non ha più nulla a che fare con l´ex Re del Grano. Un “impero”, quello di Casillo, che valeva milioni e milioni di euro e che gli deve essere restituito poiché sono stati revocati i provvedimenti di sequestro cautelare sulle aziende e sui beni personali. «In questa brutta storia, potevo perdere tutto ma non la dignità» ha dichiarato l´imprenditore. Nei primi anni ´90 l’industriale campano, presidente dell´Assindustria di Foggia, era il gotha dell´imprenditoria nazionale: il suo “impero” era impegnato in tutti i campi, dal commercio allo stoccaggio del grano, dai trasporti navali al mondo del calcio. E che calcio. Ma Casillo aveva anche partecipazioni importanti in istituti di credito (Banca Mediterranea e Caripuglia ndr) e società immobiliari e turistiche. E poi, oltre al Foggia di Zeman, era proprietario anche di Salernitana e Bologna e voleva “mettere le mani” sulla Roma di Ciarrapico. Poi, quel 21 aprile, l´arresto a Foggia: a far emettere le ordinanze dai giudici di Napoli le deposizioni di un pentito della camorra, il boss Pasquale Galasso. Nonostante un pool di primarie banche, coordinate dall´ABI, avesse offerto un cospicuo finanziamento ponte di 100 miliardi di vecchie lire, rifiutato dal neoamministratore giudiziario del gruppo, scatta la molla dell´istanza di fallimento, richiesta dai creditori del gruppo Casillo. Nel maggio del 1994, su istanza del Banco di Napoli, finiscono in tribunale i libri della capogruppo, la “Casillo Grani Snc”, società in nome collettivo. E incomincia il pellegrinaggio dell´inchiesta principale. Casillo si è sempre dichiarato innocente, anzi «perseguitato dai giudici», e ha sempre richiesto di essere processato subito. Con gli anni vengono prescritti tutti gli eventuali reati fiscali. Restava, fino a ieri, solo il 416bis. E per Casillo il fantasma della mafia, anzi della camorra campana, svanisce, così come era svanito, qualche anno prima, per l´ex ministro dell´Interno Antonio Gava, che è stato assolto - come molti altri imputati eccellenti - in tutti i gradi nel processo per camorra basato in massima parte sulle dichiarazioni del medesimo pentito Pasquale Galasso, lo stesso accusatore di Casillo.
Casillo: il candidato ideale contro certe toghe rosse, scrive Ruggiero Capone su “L’Opinione”. «Presidente Berlusconi, dica a Pier Ferdinando Casini, dato che si dice cattolico: memento homo! Visto l’atteggiamento ostile che l’onorevole Casini ha assunto nei Suoi personali confronti, gli ricordi ciò che accadde la mattina dell’8 febbraio 1994, ultimo giorno utile per l’apparentamento delle liste delle famose elezioni che La videro entrare nell’orbita politica. Lei accettò che Mastella, Casini e D’Onofrio rientrassero in gioco (precedentemente rifiutati per la pretesa di avere ministero del Lavoro e Istruzione) solo per le pressioni che Le feci prima mediante Domenico Mennitti, mio ex direttore del “Roma”, poi attraverso Adriano Galliani e, infine, per l’intervento risolutivo di Marcello Dell’Utri alle 7:30, mentre la pietosa delegazione dei mendicanti avevano preso comunque l’aereo verso Milano, speranzosi in un miracoloso ultimo mio intervento presso di Lei. Ricordi a Casini che li fece prelevare in extremis all’aeroporto di Linate con una vostra macchina. Rammenti anche a Casini che intervenni dopo le ossessive e continue telefonate del giorno precedente continuate al mattino dell’onorevole Mastella, il quale mi riferì che in macchina (in taxi verso Fiumicino) con lui c’era anche Casini e D’Onofrio. Peccato, che non esistano tracce registrate! Eppure, essendo il sottoscritto, già dall’anno precedente, nel mirino dell’Antimafia di Napoli e, di lì a poco arrestato, mercoledì 21 aprile ’94, mi fa meraviglia che un “camorrista” della mio livello, e, a dire degli inquirenti, socio in malaffari di Alfieri e Galasso, non avesse il telefono sotto controllo! Di tutto questo, me ne se sono lamentato anche in un pubblico processo. Le pare verosimile? O non, piuttosto, che sia stato tutto messo a tacere? Poiché, delle due una: o il mio telefono non era sotto controllo, e sarebbe roba da inetti oppure è stato tutto dolosamente insabbiato. Le scrivo questo solo per ricordare a Lei chi ero, a Casini la sua ingratitudine (senza di Lei, politicamente, sarebbe già defunto) e allo Stato... qualche ridicola inadempienza! Saluti. Roma, 17 gennaio 2013, Pasquale Casillo». Questo il contenuto della missiva che Pasquale Casillo (all’epoca imprenditore agroalimentare di rilievo mondiale, editore del quotidiano Roma e proprietario di club calcistici) ha inviato a Silvio Berlusconi. «Attualmente ho la fedina penale integra! - precisa Casillo - Sono stato assolto, dopo ben 13 anni, su richiesta della stessa Procura che mi aveva arrestato, sequestrato l’intero patrimonio e conseguentemente fatto fallire tutte le aziende del mio Gruppo (56 aziende in tutto il mondo) che all’epoca fatturavano ben 2.000 miliardi, a causa di un amministratore giudiziario (il mio Bondi) la cui segretaria era una “segreteria telefonica”. Questo signore da me denunciato, e da ben quattro anni attendo un Ctu dalla procura di Napoli». Le persecuzioni giudiziarie nei riguardi di Pasquale Casillo sono durate 29 anni (iniziavano nel 1984). Ma l’imprenditore è poi risultato assolto in tutti i processi. Dopo decine di assoluzioni nessun giornale ha mai provveduto a riabilitare l’uomo dinnanzi all’opinione pubblica. Casillo ci rammenta i due casi più recenti in ordine di tempo. «Il fallimento della società capogruppo - spiega Casillo - la Casillo Grani snc, per una presunta accusa di bancarotta fraudolenta aggravata (un caso simile a Cirio e Parmalat che si consumava 10 anni prima) che si sarebbe prescritta dopo 18 anni e 6 mesi, ma che a 17 anni, guardo un po’! - rimarca l’imprenditore - essendo ancora allo stato indiziario (solo iscritta al modello 21) quindi senza neppure aver fatto un’udienza o un interrogatorio, è stata archiviata (12 marzo 2012) con motivazione “il fatto non sussiste”. È più grave assolvere col fatto non sussiste o che oggi comunque si sarebbe prescritta senza iniziare. Si sarebbe prescritta a febbraio 2013, non penso esista caso simile in Europa». L’episodio che ancora turba Pasquale Casillo è come sia stato costruito in suo danno il processo per “concorso in associazione camorristica”. «Processo per concorso in associazione camorristica - ci ripete Casillo con tono indignato - dopo quasi 13 anni unico imputato… in quaranta minuti (di cui 10 di camera di consiglio), senza contraddittorio dei pentiti, senza i testi di accusa e di difesa (ho rinunciato ai mie 70 testi): sono stato assolto con formula piena su richiesta della Procura. Non ho avuto il piacere di avere come testi d’accusa né il capo dei Ros di allora né quello della Dia, eppure avevano firmato i verbali. E pensare che i signori dell’antimafia avevano confuso l’ambasciatore Usa Peter Secchia con un camorrista...». Pasquale Casillo è ancora una persona solare, sorridente, alla mano. La persecuzione non ha nemmeno scalfito il suo carattere mite, pacioso. «Era un vero amico del calcio!», ci rammentava un signore incontrato in un bar di Foggia. Fu Casillo ad ingaggiare Zdenek Zeman per il Foggia calcio scivolato in C1: Casillo contribuiva di fatto alla costruzione d’una città per allenare i giovani, i giornali l’appellarono subito “Zemanlandia”, intanto svettava il “Foggia dei miracoli”. Così Zeman, dopo una stagione alla guida del Messina, non resisteva al nuovo ingaggio di Casillo, sempre nel Foggia, neopromosso in Serie B. Nel 1989 al “Foggia dei miracoli” fa solo ombra la Foggia che scende di tre punti nelle statistiche della disoccupazione, grazie alle assunzioni nella Casillo grani. 1993-1994, ultima stagione prima dell’addio di Zeman, il Foggia sfiora l’ingresso in Coppa Uefa, sconfitto (0-1) da un Napoli all’ultima giornata di campionato. Nonostante la persecuzione giudiziaria, Casillo non abbandona il campo. Nella stagione 2003-2004 all’Avellino calcio, Zeman ritrova il presidente Pasquale Casillo. Ed arriviamo al 20 luglio 2010, quando la famiglia dell’ormai storico presidente degli anni della ribalta (Pasquale Casillo) riacquista ufficialmente il Foggia, e naturalmente richiama come allenatore Zeman. «Il Foggia dei miracoli è tornato», urlano i tifosi per strada. Ma dopo aver continuato a pensare in grande, con l’approvazione di un accordo di programma per realizzare un nuovo stadio comunale e 1000 appartamenti a Foggia, la lobby dei costruttori mette in piedi mille paletti per far abortire il sogno. Oggi chi restituirà i posti di lavoro nella Casillo grani? Soprattutto chi risarcirà la famiglia Casillo di quasi 30 anni di malagiustizia? Oggi Foggia è l’ultima città d’Italia per Pil, ai tempi della Casillo grani se la batteva con le ridenti cittadine del centro-nord.
La provocazione di Casillo: "Io, sempre assolto, voglio Libera al mio fianco". Alla presentazione del libro di cui chiede il sequestro, scrive “Foggia città aperta”. E’ arrivato alla fine della presentazione. Si è seduto tra il pubblico. Tra i tanti accorsi per sentir parlare di ‘Criminali di Puglia. 1973-1994: dalla criminalità negata a quella organizzata’, il libro scritto da Nisio Palmieri ed edito dalle edizioni la meridiana. Completo scuro e aria di chi sta per sbottare. Per gridare tutto il suo disappunto nei confronti dell’autore che parla. Perché quello scritto da Nisio Palmieri è un libro che l’ha fatto arrabbiare, che ha risvegliato un passato che voleva dimenticare. Pasquale Casillo ieri sera non ha resistito. Del resto, la sua presenza nella Sala Marcone della Biblioteca Provinciale ‘La Magna Capitana’ di Foggia, era nell’aria. E alla fine si è materializzato. E’ apparso a tutti. Ed ha parlato. “Penso che mi abbiate riconosciuto" ha esordito l’ex re del grano. E dopo essersi alzato in piedi, ha preso la parola e davanti a tutti ha esposto il suo pensiero. “Ho chiesto alla procura di Trani il sequestro del libro perché Criminali di Puglia è un libro diffamatore, in cui mi vengono attribuiti delitti gravissimi che non ho mai commesso”. Poi, l’affondo verso l’autore, che nel suo libro ripercorre l’evolversi, l’insediarsi e l'espandersi della criminalità organizzata pugliese. “Non stimo affatto Nisio Palmieri, ma il suo libro mi ha dato l’occasione per raccontare nuovamente la mia vicenda personale, la vicenda giudiziaria di cui sono vittima e da cui sono sempre stato assolto”. Difficile togliergli la parola. Più facile, come farà Elvira Zaccagnino qualche ora dopo, affidare allo scritto il proprio commento. La presidente delle edizioni La meridiana racconta: “Non sono di Foggia. Non conosco Casillo - scrive la Zaccagnino - se non dai giornali di oltre 30 anni di cronaca pugliese e nazionale. Sempre assolto. E' vero. Ma ieri il suo fare, il suo dire, il suo ammiccare erano tipici di un modus inquietante. Il suo minacciare e dichiarare amicizia, il suo chiedere a Libera di essere al suo fianco a testimoniare la sua innocenza toglievano il respiro. La cappa sulla città l'ho respirata in quella sala”. Non manca un riferimento a Daniela Marcone. “A Daniela – evidenzia la Zaccagnino – Casillo dice anche di una lettera inviata da un sacerdote a don Luigi Ciotti che ha firmato la prefazione del libro. Noi lo sapevamo già. Daniela no. Quel prete in quella lettera scagiona Casillo da tutto, anche da ciò a cui non si fa riferimento nel libro e rimprovera Ciotti di essersi prestato a scrivere la Prefazione di un libro simile". E poi: “Casillo conclude dicendo che farà una conferenza stampa dove vuole accanto Daniela Marcone, che è referente di Libera ed è la figlia di Francesco Marcone, funzionario dello Stato ammazzato a Foggia, a testimoniare la sola verità: la sua".
"Mi chiedo da ieri sera - conclude la Zaccagnino - la ragione per cui 2 pagine di un libro fanno paura di fronte ai 56 e oltre processi da cui si è stati assolti. E mi chiedo come si faccia a fare di una città condominio una città comunità. La sfida è questa per aggrapparsi alla speranza. Condividere la cronaca di un momento forse è un modo per cominciare".
LA SINISTRA E LE TOGHE D’ASSALTO.
La sinistra e le toghe d'assalto: la vera storia del patto di ferro. La ricostruzione nel saggio di Cerasa: dalla nascita di Magistratura democratica a Mani pulite, gli eredi del Pci hanno reclutato le Procure. Diventandone succubi, scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. «Ha cominciato a chiamarmi l'Anm. «Non sappiamo con chi parlare al Pd. Per favore, abbiamo bisogno della Ferranti alla Giustizia». E io ho risposto obbedisco ai magistrati, mica al Pd». La richiesta dell'Associazione nazionale magistrati, rivelata (e poi smentita, come da prassi) dal catto-dem Beppe Fioroni nei primi giorni del governo Letta, è stata accontentata. Alla presidenza della commissione Giustizia della Camera siede proprio lei, Donatella Ferranti, ex magistrato, e di una corrente non a caso, Md (Magistratura democratica), le toghe di sinistra. L'interlocutore più gradito all'Anm, a costo di un'invasione di campo plateale. Che però non sorprende perché conferma un dato storico, l'alleanza tra sinistra e magistratura italiana. Un «ammanettamento» che ha radici lontane, dalla nascita di Md - nel clima del '68 - che nella sua assemblea nazionale si assegna il compito di «costruire un rapporto costante e articolato con le forze politiche di sinistra», alla «questione morale» come bandiera del Pci di Berlinguer (delegata poi alle Procure), al pool di Mani pulite che opera già come un'unità politica. Un processo ricostruito da Claudio Cerasa nel suo Le catene della sinistra, facendo parlare i testimoni di questa mutazione genetica (doppia: dei giudici e della sinistra). Racconta Sergio D'Angelo, ex magistrato schierato con Pci e poi Ds, a lungo in Md da cui poi ha preso le distanze: «Dopo Tangentopoli la politica ha iniziato a guardare al magistrato come ad una guida spirituale. E i magistrati di sinistra, che esercitano un'egemonia culturale nel mondo delle procure, hanno sposato la causa della rivoluzione politica». Una minoranza («un settimo sui 9mila magistrati in servizio», dice D'Angelo) diventata maggioranza culturale dentro la corporazione, al punto da dominarla e influenzarne anche le sentenze. Ammette un altro magistrato, Francesco Misiani: «Non posso negare che nelle mie decisioni da giudice non abbia influito, e molto, la mia ideologia». Ma quando scatta l'ammanettamento tra sinistra e toghe? Cerasa lo domanda a due magistrati di un'importante Procura, che per riservatezza non si svelano. Ma rispondono e indicano due tappe. La prima, Tangentopoli: «Lì molti di noi si sono convinti di avere una missione salvifica, di dover non solo combattere la corruzione ma di redimere l'Italia. E la sinistra si illude di poter prendere il potere con la magistratura». Il secondo, Berlusconi: «Assegnare alla magistratura il compito di eliminare Berlusconi - racconta uno dei due pm - ha dato alla magistratura un potere enorme che forse neanche la magistratura intendeva ottenere. Ma di fatto, da quando Berlusconi è in campo, bisogna riconoscere che la magistratura di sinistra è diventata un azionista importante, per non dire prioritario, dell'universo del centrosinistra». La saldatura è visibile dappertutto. Nelle carriere politiche di molti pm d'assalto, a cominciare da quelli del famoso pool. Di Pietro ministro del governo Prodi, Gerardo D'Ambrosio senatore del Pd, Borrelli supporter della segreteria Veltroni. «Ma il mondo di centrosinistra è pieno di magistrati che una volta poggiata la toga all'attaccapanni si sono buttati in politica» ricorda Cerasa. I nomi più noti: Anna Finocchiaro, Luciano Violante, Michele Emiliano, Pietro Grasso, ma pure i senatori Casson, Carofiglio e Maritati, la deputata Pd Lo Moro e poi la Ferranti. Magistrato è anche un consigliere Rai indicato dal Pd, Gherardo Colombo, anche lui ex pool. Proprio il Colombo che anni fa sulla rivista Questione Giustizia teorizzò la missione politica della magistratura. «Ritengo - scriveva l'ex pm - impraticabile una prospettiva di ritorno alla terzietà (per la magistratura, ndr), che risulterebbe soltanto apparente». Il giudice insomma, riassume Cerasa «ha il compito, quando necessario, di sostituirsi all'opposizione parlamentare». Il magistrato diventa militante, e la sinistra si consegna - manette ai polsi - alla sudditanza verso le Procure. Chi ha analizzato a fondo questo fenomeno è Violante, che da ex magistrato ha conosciuto entrambi i percorsi e il loro intreccio pericoloso. Il margine di libertà che i pm più schierati politicamente hanno per orientare un'inchiesta è enorme, dice Violante intervistato nel libro. I cardini sono due: l'obbligatorietà dell'azione penale (che diventa «uno scudo per giustificare indagini spericolate, fragili, ma efficaci sul piano politico») e poi «il controllo di legalità», cioè la funzione di ricerca del reato, di controllo della legalità, che spetta «alla polizia, allo Stato, alla politica». L'effetto è la sinistra che si ammanetta da sola al giustizialismo, la politica che si consegna alle Procure. Ai magistrati, aggiunge l'ex presidente della Camera, che «non ne rispondono a nessuno».
Io quelli di Forza Italia li rispetto, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Conoscendoli, singolarmente, li rispetto molto meno: ma nell'insieme potrebbero anche sembrare appunto dei lealisti, dei coerenti, delle schiene dritte, gente che ha finalmente trovato una linea del Piave intesa come Berlusconi, come capo, come leader, come rappresentante di milioni di italiani che non si può cancellare solo per via giudiziaria: almeno non così. Non con sentenze infarcite di «convincimenti» e prove che non lo sono. Dunque rispetto quelli di Forza Italia - anche se in buona parte restano dei cavalier-serventi - perché tentano di fare quello che nella Prima Repubblica non fu fatto per Bettino Craxi e per altri leader, consegnati mani e piedi alla magistratura assieme al primato della politica. Solo che, dettaglio, Forza Italia ha perso: ha perso quella di oggi e ha perso quella del 1994. E non ha perso ieri, o un mese fa, cioè con Napolitano, la Consulta, la legge Severino, la Consulta, la Cassazione: ha colpevolmente perso in vent'anni di fallimento politico sulla giustizia. Dall’altra c’è qualcuno che ha vinto, anche se elencarne la formazione ora è complicato: si rischia di passare dal pretenzioso racconto di un’ormai stagliata «jurecrazia» - fatta di corti che regolano un ordine giuridico globale - all'ultimo straccione di pm o cronista militante. Resta il dato essenziale: vent’anni fa la giustizia faceva schifo e oggi fa identicamente schifo, schiacciata com'è sul potere che la esercita; e fa identicamente schifo, per colpe anche sue, la giustizia ad personam legiferata da Berlusconi, che in vent'anni ha solo preso tempo - molto - e alla fine non s'è salvato. Elencare tutte le forzature palesi o presunte per abbatterlo, magari distinguendole dalle azioni penali più che legittime, è un lavoro da pazzi o da memorialistica difensiva: solo la somma delle assoluzioni - mischiate ad amnistie e prescrizioni - brucerebbe una pagina. Basti l'incipit, cioè il celebre mandato di comparizione che fu appositamente spedito a Berlusconi il 21 novembre 1994 per essere appreso a un convegno Onu con 140 delegazioni governative e 650 giornalisti: diede la spallata decisiva a un governo a discapito di un proscioglimento che giungerà molti anni dopo. L’elenco potrebbe proseguire sino a oggi - intralciato anche da tutte le leggi ad personam che Berlusconi fece per salvarsi - e infatti è solo oggi che Berlusconi cade, anzi decade. Ciò che è cambiato, negli ultimi anni, è la determinazione di una parte della magistratura - unita e univoca come la corrente di sinistra che ne occupa i posti chiave - a discapito di apparenze che non ha neanche più cercato di salvare. I processi per frode legati ai diritti televisivi non erano più semplici di altri, anzi, il contrario: come già raccontato, Berlusconi per le stesse accuse era già stato prosciolto a Roma e pure a Milano. Ciò che è cambiato, appunto, è la determinazione dei collegi giudicanti a fronte di quadri probatori tuttavia paragonabili ai precedenti: ma hanno cambiato marcia. Si poteva intuirlo dai tempi atipici che si stavano progressivamente dando già al primo grado del processo Mills, che filò per ben 47 udienze in meno di due anni e fece lavorare i giudici sino al tardo pomeriggio e nei weekend; le motivazioni della sentenza furono notificate entro 15 giorni (e non entro i consueti 90) così da permettere che il ricorso in Cassazione fosse più che mai spedito. Ma è il processo successivo, quello che ora ha fatto fuori Berlusconi, ad aver segnato un record: tre gradi di giudizio in un solo anno (alla faccia della Corte Europea che ci condanna per la lunghezza dei procedimenti) con dettagli anche emblematici, tipo la solerte attivazione di una sezione feriale della Cassazione che è stata descritta come se di norma esaminasse tutti i processi indifferibili del Paese: semplicemente falso, la discrezionalità regna sovrana come su tutto il resto. Il paradosso sta qui: nel formidabile e inaspettato rispetto di regole teoriche - quelle che in dieci mesi giudicano un cittadino nei tre gradi - al punto da trasformare Berlusconi in eccezione assoluta. Poi, a proposito di discrezionalità, ci sono le sentenze: e qui si entra nel fantastico mondo dell'insondabile o di un dibattito infinito: quello su che cosa sia effettivamente una «prova» e che differenza ci sia rispetto a convincimenti e mere somme di indizi. Il tutto sopraffatti dal dogma che le sentenze si accettano e basta: anche se è dura, talvolta. Quando uscirono le 208 pagine della condanna definitiva in Cassazione, in ogni caso, i primi commenti dei vertici piddini furono di pochi minuti dopo: un caso di lettura analogica. E, senza scomodare espressioni come «teorema» o «prova logica» o peggio «non poteva non sapere», le motivazioni della sentenza per frode fiscale appalesavano una gigantesca e motivata opinione: le «prove logiche» e i «non poteva non sapere» purtroppo abbondavano e abbondano. «È da ritenersi provato» era la frase più ricorrente, mentre tesi contrarie denotavano una «assoluta inverosimiglianza». Su tutto imperava l’attribuzione di una responsabilità oggettiva: «La qualità di Berlusconi di azionista di maggioranza gli consentiva pacificamente qualsiasi possibilità di intervento», «era assolutamente ovvio che la gestione dei diritti fosse di interesse della proprietà», «la consapevolezza poteva essere ascrivibile solo a chi aveva uno sguardo d’insieme, complessivo, sul complesso sistema». Il capolavoro resta quello a pagina 184 della sentenza, che riguardava la riduzione delle liste testimoniali chieste dalla difesa: «Va detto per inciso», è messo nero su bianco, «che effettivamente il pm non ha fornito alcuna prova diretta circa eventuali interventi dell’imputato Berlusconi in merito alle modalità di appostare gli ammortamenti dei bilanci. Ne conseguiva l'assoluta inutilità di una prova negativa di fatti che la pubblica accusa non aveva provato in modo diretto». In lingua italiana: l’accusa non ha neppure cercato di provare che Berlusconi fosse direttamente responsabile, dunque era inutile ammettere testimoni che provassero il contrario, cioè una sua estraneità. Ma le sentenze si devono accettare e basta. Quando Berlusconi azzardò un videomessaggio di reazione, in settembre, Guglielmo Epifani lo definì «sconcertante», mentre Antonio Di Pietro fece un esposto per vilipendio alla magistratura e Rosy Bindi parlò di «eversione». Il resto - la galoppata per far decadere Berlusconi in Senato - è cronaca recente, anzi, di ieri, Il precedente di Cesare Previti - che al termine del processo Imi-Sir fu dichiarato «interdetto a vita dai pubblici uffici» - è pure noto: la Camera ne votò la decadenza ben 14 mesi dopo la sentenza della Cassazione. Allora come oggi, il centrosinistra era dell’opinione che si dovesse semplicemente prendere atto del dettato della magistratura, mentre il centrodestra pretendeva invece che si entrasse nel merito e non ci si limitasse a un ruolo notarile. Poi c’è il mancato ricorso alla Corte Costituzionale per stabilire se gli effetti della Legge Severino possano essere retroattivi: la Consulta è stata investita di infinite incombenza da una ventina d’anni a questa parte - comprese le leggi elettorali e i vari «lodi» regolarmente bocciati – ma per la Legge Severino il Partito democratico ha ritenuto che la Corte non dovesse dire la sua. Il 30 ottobre scorso, infine, la Giunta per il regolamento del Senato ha stabilito che per casi di «non convalida dell’elezione» il voto dovesse essere palese, volontà ripetuta ieri dal presidente del Senato: nessun voto segreto o di coscienza, dunque. Poi - ma è un altro articolo, anzi, vent'anni di articoli - ci sono le mazzate che il centrodestra si è tirato da solo. La Legge Severino, come detto. Il condono tombale offerto a Berlusconi dal «suo» ministro Tremonti nel 2002 - che l'avrebbe messo in regola con qualsivoglia frode fiscale – ma che al Cavaliere non interessò. Il demagogico inasprimento delle pene per la prostituzione minorile promosso dal «suo» ministro Carfagna nel 2008. Però, dicevamo, non ci sono solo gli autogol: c’è il semplice non-fatto o non-riuscito degli ultimi vent’anni. Perché nei fatti c’era, e c’è, la stessa magistratura. Non c’è la separazione delle carriere, lo sdoppiamento del Csm, le modifiche dell’obbligatorietà dell’azione penale, l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione, la responsabilità civile dei giudici, i limiti alle intercettazioni. Ci sono state, invece, le leggi sulle rogatorie, la Cirami, i vari lodi Maccanico-Schifani-Alfano, l’illegittimo impedimento: pannicelli caldi inutili o, per un po’, utili praticamente solo a lui. Per un po’. Solo per un po’. Fino al 27 novembre 2013.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
DELINQUENTE A CHI?
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.
Francesco Caringella: "Troppi pm si sentono divi", scrive Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. Oggi nelle librerie di tutta Italia esce un nuovo romanzo. «Dove è la notizia?» vi chiederete. Eccola: questo intrigante legal thriller intitolato Non sono un assassino (Newton Compton Editori) è scritto da un giudice che con gli occhi disincantati del tecnico del diritto analizza il processo penale e redige una sentenza definitiva: tale rito in Italia è fallito. Non solo per colpa dei magistrati. L'autore si chiama Francesco Caringella, ha 49 anni, è barese ed è un membro del Consiglio di Stato. Ha vinto ogni genere di concorso (da commissario di polizia, da magistrato, da consigliere di Stato) e ha scritto manuali per insegnare ai ragazzi a emularlo. Intervistare Caringella consente di rileggere alcune pagine della nostra storia recente. A 26 anni è diventato giudice della settima sezione penale di Milano negli stessi giorni in cui esplodeva Mani pulite. Lui si insediava e il «mariuolo» Mario Chiesa veniva arrestato. Caringella a 29 anni fu il giudice estensore del mandato di cattura nei confronti di Bettino Craxi. Ed ecco la prima sorpresa.
«Dopo vent’anni mi chiedo se quella decisione sia stata giusta. E ho qualche rimorso. Non intendo dire che Craxi fosse innocente. La Cassazione ha confermato la sentenza di condanna. Ma mi chiedo se non ci potesse essere più umanità nei confronti di un uomo sconfitto. Se il legislatore e il potere giudiziario non potessero trovare una soluzione per consentirgli di curarsi in Italia e di affrontare il processo da uomo libero. O quanto meno da uomo sano. Averlo costretto a rimare in Tunisia gli ha probabilmente accorciato la vita».
Beh, sembra l'epitaffio di Mani Pulite.
«No. L’inchiesta era sacrosanta, ma ci sono state alcune forzature. Forse i magistrati non potevano prevedere il consenso popolare che accompagnò il loro lavoro e alcuni sono stati ubriacati da quell’improvviso successo».
Ritiene che l'indagine avesse fini politici? Tre dei pm di Mani pulite sono poi diventati parlamentari o ministri, due con la sinistra e una con Forza Italia.
«Non penso. Credo che la lettura giusta sia quella psicologica. Alcuni pm si sono trovati nei panni dei divi e hanno dovuto fare i conti con la loro vanità e le loro ambizioni personali».
Lei ha conosciuto tutti i pm di Mani pulite. Da chi non avrebbe voluto essere inquisito?
«Da Antonio Di Pietro. Ho letto i suoi interrogatori e ho capito che con quel suo fare poliziesco avrebbe fatto confessare pure un innocente, persino un santo. Ma era anche simpatico. Mi ricordo che una volta si rivolse alla corte con un saluto militare, battendo i tacchi».
Nel suo libro mi ha colpito la citazione dal libro di Dante Troisi, Diario di un giudice. Leggo: "Sono la sentinella e l'aula di udienza è la torretta da cui prendo la mira per colpire chi mi capita a tiro. Proverò così il piacere nel falciare le vite delle persone senza trascurare di lasciare indenne qualcuno per goderne la meraviglia".
Ha incontrato colleghi del genere?
«Per fortuna pochissimi. Forse uno solo. Era pugliese ed entrava in aula con il cipiglio di chi dovesse stanare gli ultimi giapponesi nell’arcipelago delle Okinawa. Per lui l’imputato era un nemico da sconfiggere».
Il potere che ha in mano un giudice non rischia di dare alla testa?
«Sicuramente. E per capire se i miei colleghi siano stabili psicologicamente ci sono i mesi di uditorato. Ma rarissimamente viene chiesta la decadenza di un neo magistrato. Con conseguente pregiudizio per la credibilità del sistema».
Ci sono toghe in cura psichiatrica che continuano a esercitare la propria funzione.
«Sarebbero necessari controlli periodici non solo sulla professionalità, ma anche sull’equilibrio dei magistrati».
Non svelerò il finale, ma di certo il suo giallo non fa una buona pubblicità al processo penale.
«Purtroppo la riforma del 1989 in Italia è fallita. Si pensava che grazie ai riti alternativi pochi processi sarebbero arrivati a dibattimento, snellendo i tempi della giustizia. È successo il contrario. Quasi tutti gli imputati scelgono di andare in aula e così invece di avere processi brevi con testimoni caldi, che ricordano bene i fatti su cui vengono interrogati, abbiamo processi lunghi con testimoni freddi».
Lei scrive che il "giudice conosce fatti impalliditi dal tempo nei pochi giorni d’udienza a disposizione".
«In Italia, per un eccesso di garantismo, abbiamo un secondo grado che è la replica del primo. A cosa serve? Allunga i tempi e ribaltando le sentenze crea sconcerto nei cittadini. Siamo l’unico paese con tre gradi di giudizio e due diversi collegi che fanno lo stesso lavoro non avvicinano alla verità, ma allontanano. Dopo la condanna in appello per Amanda Knox e Raffaele Sollecito, mi ha telefonato persino mia madre per chiedermene conto».
Che cosa pensa dei processi mediatici?
«Il peggio possibile. Non immagina quanto possano condizionare un magistrato che si trova a decidere su un fatto già giudicato mille volte in tv da colleghi togati, giornalisti, esperti vari. L’animo umano ha la tendenza a uniformarsi e una sentenza già scritta dai media è dannosissima».
Torniamo alla questione del giudizio d'appello. Quando una decisione viene ribaltata si ha la sensazione che la verità giudiziaria non esista…
«Purtroppo è così. Nel libro scrivo che tale verità è solo una bugia raccontata meglio. Forse sarebbe meglio dire che è la verità più verosimile. Duque da Rivas diceva che “in questo mondo traditore non c'è verità né menzogna. Tutto dipende dal colore del vetro attraverso cui si guarda”».
Dunque ammette l'esistenza di una magistratura politicizzata.
«Il colore del vetro per me dipende anche da bugie, pregiudizi ed errori, non solo dalle ideologie. Mi domando sono giuste le sentenze, per parlare solo delle ultime, che hanno assassinato politicamente Silvio Berlusconi e Luigi De Magistris? Rispondo che non esiste la sentenza giusta o sbagliata in senso assoluto. Ogni giudizio è opinabile. Resta solo la speranza che sia corretto».
Nel romanzo sostiene che un processo è una specie di partita di poker in cui tutti gli attori mentono e il giudice deve saper cogliere la verità in mezzo a tanti bluff.
«È vero. Non fanno eccezione l’imputato innocente e il testimone sincero che mentono, per dirla con il libro, “perché desiderano essere creduti e pensano che la menzogna sia più seducente della verità”. La verità per essere verosimile deve essere mescolata a un po’ di menzogna».
Un giudice, in mezzo a tutti questi inganni, come si districa?
«Quando ha un dubbio non aspetta altro che essere sedotto da una bella bugia, da quella di un pm avvenente o di un avvocato particolarmente eloquente. Anche per noi è difficile resistere a un'oratoria convincente o a una bellezza sconvolgente».
Sta dicendo che in un processo conta anche l'aspetto esteriore?
«Certo. Pure i giudici sono uomini e per di più fallibili. Io nel romanzo descrivo una pm seducente e il suo profumo di sandalo».
Il personaggio è ispirato a un magistrato esistente?
«Mi ricordava una collega di Milano, ma non posso dirle altro (sorride, ndr) se non che chiedeva sempre la condanna degli imputati…»
Il lettore sarà sconcertato da questa alea nel giudizio…
«Ma io sto parlando di quei pochi processi da fascia grigia, in cui le prove non sono schiaccianti».
In questi casi come ha giudicato?
«Nel 50% ho assolto e nell’altro 50 ho condannato».
Lei scrive anche che per un innocente è meglio essere giudicati da una donna e per un colpevole da un uomo. Perché?
«Le signore in toga quando esprimo questa mia teoria si offendono. In realtà è un complimento. Le colleghe mediamente sono più preparate e puntigliose e per questo è più difficile che sbaglino. Ma quando ritengono di aver le prove della colpevolezza non fanno sconti».
La sua tesi che le donne difficilmente puniscono un innocente sembrerebbe contraddetta dal processo Ruby…
«Ha ragione: in questo caso Berlusconi è stato condannato da tre donne e poi assolto in secondo grado. Ma questa potrebbe essere l’eccezione che conferma la regola».
Ha mai dovuto giudicare Berlusconi?
«Una volta, anche se ho lasciato la corte prima della fine del processo. Mi ricordo che venne in aula e la sua presenza fu molto teatrale. Passò l’intera udienza a sfogliare il codice penale».
Lei è il terzo magistrato pugliese che si cimenta nel noir, dopo Gianrico Carofiglio e Giancarlo De Cataldo. Tra voi chi è il più bravo come scrittore?
«Se devo scegliere uno solo, voto per me».
E come magistrato?
«Uguale, ma di questo sono più sicuro».
Magistratura, la casta e le degenerazioni, scrive Andrea Signini su “Rinascita”. “IMAGISTRATI SONO INCAPACI E CORROTTI, NE CONOSCO MOLTISSIMI”. Il Presidente Francesco Cossiga (Sassari, 26 Luglio 1928 – Roma, 17 Agosto 2010), appartenente ad una famiglia di altissimi magistrati e lui stesso capo del Consiglio Superiore della Magistratura, intervistato dal giornalista Vittorio Pezzuto, disse: “La maggior parte dei magistrati attuali sono totalmente ignoranti a cominciare dall’amico Di Pietro che un giorno mi disse testualmente: “Cosa vuoi, appena mi sarò sbrigato questi processi, mi leggerò il nuovo codice di procedura penale”. Nel corso della medesima intervista Cossiga sottolineava le scadenti qualità dei membri della magistratura, li definiva “incapaci a fare le indagini”. Da Presidente della Repubblica inviò i carabinieri a Palazzo dei Marescialli. Accadde nel 91, il 14 novembre, quando il presidente-picconatore ritirò la convocazione di una riunione del plenum nella quale erano state inserite cinque pratiche sui rapporti tra capi degli uffici e loro sostituti sull’assegnazione degli incarichi. Cossiga riteneva che la questione non fosse di competenza del plenum e avvertì che se la riunione avesse avuto luogo avrebbe preso «misure esecutive per prevenire la consumazione di gravi illegalità». I consiglieri del Csm si opposero con un documento e si riunirono. In piazza Indipendenza, alla sede del Csm, affluirono i blindati dei carabinieri e due colonnelli dell’Arma vennero inviati a seguire la seduta. Ma il caso fu risolto subito, perché il vicepresidente, Giovanni Galloni, non permise la discussione. Invitato a dare una spiegazione sull’incredibile ed ingiustificato avanzamento di carriera toccato ai due magistrati (Lucio di Pietro e Felice di Persia) noti per aver condannato ed arrestato Enzo Tortora e centinaia di persone innocenti nell’ambito dello stesso processo (tutti rilasciati dopo mesi di carcere per imperdonabili errori macroscopici), Cossiga rispose: “Come mi è stato spiegato, la magistratura deve difendere i suoi, soprattutto se colpevoli”. La sicurezza di quanto affermava il Presidente Cossiga gli proveniva da una confessione fattagli da un membro interno di cui non rivelò mai il nome ma risulta evidente che si tratti di un personaggio di calibro elevatissimo, “Un giovane membro del Consiglio Superiore della Magistratura, appartenente alla corrente di magistratura democratica, figlio di un amico mio, il quale mi è ha detto: “Noi dobbiamo difendere soprattutto quei magistrati che fanno errori e sono colpevoli perché sennò questa diga che noi magistrati abbiamo eretto per renderci irresponsabili ed incriticabili crolla”! invitato a dare delle spiegazioni sul come mai il nostro sistema (comunemente riconosciuto come il migliore al Mondo) fosse così profondamente percorso da fatali fratture, Cossiga tuonò: “La colpa di tutto questo è della DC! Lì c’è stato chi, per ingraziarsi la magistratura, ha varato la famosa “Breganzola” che prevede l’avanzamento di qualifica dei magistrati senza demerito. Ci pronunciammo contro quella Legge in quattro: uno era l’Avvocato Riccio, il deputato che poi fu sequestrato ed ucciso in Sardegna; Giuseppe Gargani, io ed un altro. Fummo convocati alla DC e ci fu detto che saremmo stati sospesi dal gruppo perché bisognava fare tutto quello che dicevano di fare i magistrati altrimenti avrebbero messo tutti in galera”. Questo breve preambolo ci deve servire come metro per misurare, con occhio nuovo, quanto più da vicino possibile, l’attuale situazione italiana. Dal 1992 (mani pulite), ad oggi, di acqua sotto ai ponti ne è passata assai. E tutta questa acqua, per rimanere nel solco dell’allegoria, ha finito con l’erodere i margini di garanzia della classe politica (vedi perdita delle immunità dei membri del Parlamento – 1993) espandendo quelli dei membri della magistratura. Membri i quali, poco alla volta, hanno preferito fare il “salto della scimmia” passando da un ramo all’altro (dal ramo giudiziario a quello legislativo e/o esecutivo) e ce li siamo ritrovati in politica come missili (di Pietro, de Magistris, Grasso, Ingroia, Finocchiaro…). Pertanto, quella che da decenni a questa parte viene rivenduta al popolo italiano come una “stagione di battaglia contro la corruzione politica”, in realtà nascondeva e tutt’ora nasconde ben altro. Il potere legislativo (facente capo al Parlamento), quanto il potere esecutivo (facente capo al governo), si sono ritrovati in uno stato di progressiva sofferenza indotta dalla crescente ed inarrestabile affermazione del potere giudiziario (facente capo alla magistratura). Che le cose stiano così, è fuor di dubbio! E “La cosa brutta è che i giornalisti si prestino alle manovre politiche dei magistrati” [Cossiga Ibid.]. Ecco spiegato come mai ci si ostini a ritenere “mani pulite” una battaglia alla corruzione e non già una battaglia tra i tre poteri dello Stato. Ma, scusate tanto, e il POPOLO?!? No, dico, siamo o non siamo noi italiani ed italiane – e non altri popoli diversi dal nostro – a pagare sulla nostra pelle lo scotto generato dalle conseguenze di queste “scalate al potere”? Non siamo forse noi quelli/e che stanno finendo dritti in bocca alla rovina totale, alla disperazione ed al suicidio di massa? COSA CI STANNO FACENDO DI MALE E’ PRESTO DETTO. Innanzi tutto, il riflesso peggiore che ci tocca subìre è dato dal fatto che, dal precedente (prima di “mani pulite”) clima culturale in cui eravamo usi vivere sentendoci protetti dalla magistratura (vedi garanzia di presunzione d’ innocenza), ci siamo ritrovati catapultati in un clima orrido in cui è “la presunzione di colpevolezza” a dettare il ritmo. E, di conseguenza, tutto il discorso è andato a gambe all’aria e le nostre libertà, nonché le nostre sovranità sono andate in fumo. E poi, chi di voi può affermare di non aver mai sentito ripetere sino alla nausea frasi del tipo “Lo deve stabilire la magistratura”, oppure “Lo ha stabilito una sentenza” od anche “Lo ha detto in giudice”; e allora? Forse queste persone (che restano sempre impiegati statali al servizio dello Stato e di chi vi abita) discendono dallo Spirito Santo? Sono o non sono esseri umani? E se lo sono allora posso commettere degli sbagli, sì o no? E se sbaglia un magistrato le conseguenze sono letali, sì o no? E allora per quale ragione da 22 anni a questa parte si sta facendo di tutto per collocarli nell’olimpo della saggezza? Perché è possibile sputtanare un esponente del ramo legislativo o di quello esecutivo e GUAI se si fa altrettanto con uno del ramo giudiziario? L’ex magistrato ed ex politico Antonio Di Pietro (definito da Cossiga “Il famoso cretino… che ha nascosto cento milioni in una scatola delle scarpe” e “Ladro” che si è laureato “Probabilmente con tutti 18 e si è preso pure l’esaurimento nervoso per prepararsi la Laurea” quando era a capo dell’IDV ci ha assillato per anni, farcendo all’inverosimile i suoi discorsi con frasi come quelle succitate. E come lui, ma dall’altro lato della barricata, Silvio Berlusconi ha infarcito i suoi discorsi contro la magistratura corrotta e bla bla bla. Ci hanno fatto un vero e proprio lavaggio del cervello, arrivando a dividere la popolazione in due: una parte garantista ed una giustizialista. Il vecchio e amatissimo strumento del “dividi et impera” inventato dai nostri avi latini per esercitare il potere sulla massa ignorante. Ma se due terzi della medesima torta sono marci e putrescenti (il potere legislativo e quello esecutivo), possibile che il rimanente terzo (potere giudiziario) sia l’unico commestibile? Certo che non lo è, è ovvio! La corruzione, in magistratura è a livelli raccapriccianti, “E’ prassi dividere il compenso con il magistrato. Tre su quattro sono corrotti” confessa Chiara Schettini (nomen omen) impiegata statale con la qualifica di giudice presso il Tribunale dei Fallimenti di Roma, anzi ex, visto che le hanno messo le manette ai polsi e poi sbattuta in galera con gravissime accuse di corruzione e peculato. Ricostruiamo quello che la stampa di regime non osa nemmeno sfiorare. “SONO PIU’ MAFIOSA DEI MAFIOSI” DICE SPAVALDAMENTE IL GIUDICE DI ROMA. La gente normale, quella che lavora per guadagnare e consegnare il bottino allo Stato vampiro, lo sa molto bene: se si può, meglio non fare causa! Si perde tempo, si perdono soldi e non si sa se ti andrà bene. E, stando a quanto sta emergendo da una prodigiosa inchiesta di cui prima o poi anche la stampa di regime sarà costretta a parlare, l’impressione poggia su basi solidissime. E sarebbe bene prendere le distanze da certa gente… più pericolosa dei delinquenti veri. In una elaborazione di un articolo de Il Fatto Quotidiano del 31 Dicembre 2013 apparsa l’1 Gennaio 2014 sul sito malagiustiziainitalia.it, si parla di “Perizie affidate a consulenti dall’ampio potere discrezionale e dai compensi stratosferici, mazzette spartite anche con i giudici. Un crocevia affaristico in cui è coinvolto il vertice dell’ufficio [quello di Roma]”, in riferimento alla vicenda che ha visto coinvolta Chiara Schettini di cui abbiamo appena accennato. La stessa Schettini, chiama in causa (è il caso di dire) anche la magistratura umbra, passivamente prona ai desiderata di quella romana: insabbiare gli esposti, far finta di nulla ed attendere che trascorrano i tempi era l’ordine da eseguire. Sotto interrogatorio, la Schettini ha confessato al giudice (onesto e che ringraziamo a nome di tutti i lettori e le lettrici di signoraggio.it): “Si entrava in camera di consiglio e si diceva questo si fa fallire e questo no”. Chi si esprime così non è un temibile boss della mala ma è sempre lei, il veramente temibile giudice Schettini, lei sì appartenente al ramo pulito del potere, proprio quello!!! Nella sua crassa arroganza venata di ottusa prosaicità, ella ricorreva sovente ad uscite agghiaccianti, sfornando un gergo truce da gangster matricolato. Intercettata telefonicamente mentre parlava col curatore fallimentare Federico Di Lauro (anche lui in galera) minacciava di farla pagare al suo ex compagno: “Guarda, gli ho detto, sono più mafiosa dei mafiosi, ci metto niente a telefonare ai calabresi che prendono il treno, te danno una corcata de botte e se ne vanno” (da Il Fatto, 8 Luglio 2013, R. Di Giovacchino). Non finisce qui. Sempre questo giudice donna, in un’altra intercettazione che ha lasciato di stucco gli inquirenti che l’hanno più e più volte riascoltato il nastro, parlando con un ignoto interlocutore, minacciava il “povero” Di Lauro in questi termini: “Io a Di Lauro l’avrei investito con la macchina… Lui lavorava con la banda della Magliana”. Ciliegina sulla torta: parlando al telefono con un perito del Tribunale, riferendosi all’insistenza di un Avvocato che non aveva intenzione di piegarsi supinamente al comportamento della Schettini, commentava: “Il suo amico Massimo [l’Avvocato insistente Ndr.] ha chiesto la riapertura di due procedimenti. Una rottura senza limiti. Gli dica di non insistere perché non domani, né dopo domani ma fra 10 anni io lo ammazzo”. Alla faccia della magistratura a cui tocca attenersi! Alla faccia delle parole del magistrato “che c’azzecckkhhA” Di Pietro colui il quale, dopo il salto della scimmia ci ha assillato ripetendo come un disco scassato che dobbiamo “affidarci alla magistratura”! come no! Si accomodi lei Di Pietro, prima di noi (senza balbettare come le accadde quando se la vide bruttina a Milano). Nell’articolo della Di Giovacchino leggiamo inoltre: “L’amico Massimo è in realtà l’avvocato Vita. Mai ricevuto minacce? “Non da Grisolia, però mi hanno telefonato persone con accento calabrese, consigli…”. Messaggi? “Mi dicevano lasci perdere la vecchietta…” La “vecchietta” è Diana Ottini, un tipo tosto, La giudice le consegnò 500 mila euro stipulando una promessa di vendita posticipata di 10 anni, affinché acquistasse la sua casa dal Comune. Ma venuto il momento lei la casa se l’è tenuta e il Tribunale le ha dato ragione. Non è andata altrettanto bene a Francesca Chiumento, altra cliente dell’avvocato Vita, che da anni si batte per riconquistare il “suo” attico in via Germanico: 170 metri quadri, terrazza su tre livelli, che il padre aveva acquistato dagli eredi di Aldo Fabrizi. La casa finì all’asta, nei salotti romani si parla ancora della polizia arrivata con le camionette. Anche quell’asta porta la firma della Schettini: la famiglia Chiumento era pronta a pagare, a spuntarla fu un medico del Bambin Gesù che offrì 50 mila euro di meno. L’appartamento di via Germanico alla fine fu rivenduto per 1 milione e 800 mila euro a una coppia importante. Lei figlia di un costruttore, che ha tirato su villaggi turistici tra Terracina e Sperlonga, lui avvocato della banca che aveva offerto il mutuo ai legittimi proprietari” [Il Fatto Ibid.]. E pensare che questa sguaiata stipendiata statale ha campato una vita sulle spalle di noi contribuenti ed ha potuto nascondere le sue malefatte per anni dietro la protezione del ruolo affidatole dallo Stato e di persone della sua medesima risma. Tutti suoi colleghi e colleghe. Allucinante. Semplicemente allucinante. Solamente dopo essersi impaurita a causa dei giorni trascorsi in prigione, ha confessato che il suo ex compagno “Trafficava anche con il direttore di una filiale di Unicredit su 900 mila euro gliene dava 200 mila” come stecca [malagiustizia. Ibid.]. L’organizzazione funzionava a gonfie vele, il timore di essere scoperti non li sfiorava nemmeno: ‘Non ti preoccupare [la rincuorava il compagno, quello della stecca all’Unicredit] sarà rimesso tutto perfettamente”. Suscita la ripugnanza leggere la storia di questa squallida persona la quale, nel frattempo, con lo stipendio da funzionario statale è riuscita ad accumulare un patrimonio di quasi 5 milioni di euro (quasi 10 miliardi di Lire) oltre ad attici a Parigi e Miami, ville a Fregene, un rifugio a Madonna di Campiglio… A proposito: il figlio della carcerata si è rivelato meno sveglio della mamma ma comunque fatto della medesima pasta! Infatti, mentre alla madre venivano serrati i polsi con le manette, lui riceveva l’sms in cui la madre stessa gli ordinava di fare “quello che sa” (Il Fatto, ibid.). Si avete proprio capito bene. Il figlio diciottenne, evidentemente al corrente delle attività della madre (e del padre) ed istruito a dovere su come agire in caso di necessità, si è prontamente attivato rendendosi complice della vicenda facendo sparire la valigetta col contante, frutto di una delle corruzioni cui la madre era avvezza. Solo che le sue limitate capacità hanno consentito, a chi ha effettuato la perquisizione, di ritrovare tutto all’istante. Ed il Consiglio Superiore della Magistratura dormiva in questi anni? Certo che no! Provvedeva, come fa spessissimo, a trasferirla presso la procura di l’Aquila per ragioni di incompatibilità ambientale. Non sarebbe male saperne di più su questa scelta curiosa. Che questa sia una vicenda riguardante un pugno di magistrati e non tutti i componenti della magistratura è lapalissiano, scontato ed evidente. E CI MANCHEREBBE ALTRO! Ma sappiate che il punto della questione non è arrivare a pronunciare frasi vuote quanto idiote del genere “Sono tutti uguali. Tra cani non si mordono…” qui c’è solo da fare una cosa: il POPOLO deve riconoscere il proprio ruolo di SOVRANO! E poi, non resta che risalire alla fonte del problema e, per farlo, NOI uomini e donne della cosiddetta “società civile” abbiamo il dovere di emanciparci. Se c’intendessimo (mi ci metto dentro anch’io – sebbene non sia un tifoso) di finanza e Stato come di calcio e cucina, con l’aiuto dei nostri veri angeli custodi seri (ed in magistratura ce ne sono eccome), il nostro futuro sarebbe radioso. Ripartire da un punto fermo è cogente. Tale punto risiede nella battaglia “persa contro la magistratura che è stata perduta quando abbiamo abrogato l’immunità parlamentare, che esistono in tutto il Mondo, ovvero quando Mastella, da me avvertito, si è abbassato il pantalone ed ha scritto sotto dittatura di quell’associazione sovversiva e di stampo che è l’Associazione Nazionale Magistrati” – F. Cossiga, Di Pietro… Ibid.
Non dimentichiamoci che di magistrati parliamo e delle loro ambizioni.
DA MANI PULITE A TOGHE PULITE.
Denunce e faide: i magistrati peggio dei politici, scrive Alessandro Da Rold su “L’Inkiesta”. Da Mani Pulite a Toghe Pulite. A distanza di vent’anni da Tangentopoli, quando notorietà e consensi erano agli apici, la magistratura italiana vive uno dei momenti più difficili della sua storia, spaccata tra le correnti, mal digerita agli occhi dell’opinione pubblica per la lungaggine dei processi e per i costi, in una guerra senza esclusione di colpi tra articoli sui giornali e persino indagini della stessa magistratura. Tra due settimane, il 25, 26 e 27 marzo, ci saranno le primarie per nominare i candidati al rinnovo del Consiglio Superiore della Magistratura. La campagna elettorale è in corso, tra spamming via mail, aperitivi e comizi nei vari tribunali, nello stile perfetto della nostra politica. C’è chi a bassa voce se ne lamenta, cercando di evitare di essere coinvolto. E a quanto pare sono tanti a cestinare missive di ogni tipo, dove si tengono «diari» della campagna elettorale o si citano frasi a effetto per conquistare qualche voto in più. Tre le correnti in campo: Unicost (sorta di Democrazia Cristiana delle toghe), Magistratura Indipendente (più vicina alla destra) e Area (zona centrosinistra). C'è poi il comitato Altra Proposta che in pratica si oppone a tutte le correnti e vorrebbe nuove regole di rappresentanza dell'autogoverno dei magistrati. Nel mentre l’attuale Csm deve nominare il nuovi procuratori capo di Torino, Bari, Salerno e Firenze. Alcune sedi sono vacanti da mesi, ma l’incrocio elettorale è talmente micidiale, tra logiche correntizie e di potere, che è stato tutto spostato a data da destinarsi. Si parla di inizio aprile, ma lo stesso vicepresidente del Csm Michele Vietti non ha ancora dato un data precisa. Ad aggiungere benzina sul fuoco, in questi giorni, si è messo Alfredo Robledo (vicino a Magistratura Indipendente), procuratore capo del pool contro i reati della pubblica amministrazione di Milano, che ha denunciato al Csm il Capo della Procura Edmondo Bruti Liberati perché avrebbe «turbato» e «turba la regolarità e la normale conduzione dell'ufficio»: una bomba atomica, scagliata contro uno degli storici leader di Magistratura Democratica, ora confluita in Area, ma soprattutto contro Francesco Greco capo del pool per reati finanziari e protagonista proprio di Tangentopoli con l'ex pm Antonio Di Pietro. Il fascicolo non è ancora arrivato sulle scrivanie di palazzo dei Marescialli, ma molti consiglieri hanno letto la notizia sul Corriere della Sera. Nei prossimi giorni la denuncia sarà girata con tutta probabilità alla prima commissione, quella addetta appunto a «rapporti, esposti, ricorsi e doglianze concernenti magistrati». Al tribunale di Milano parlano già di guerra senza esclusioni di colpi. Il clima è irrespirabile, considerando che l’ufficio di Robledo è a pochi metri da quello di Bruti Liberati. Quest’ultimo, intercettato dai cronisti, ha preferito non commentare, idem per Greco, storico pm di Mani Pulite, adesso nel calderone della denuncia, già accusato di non aver indagato su diversi reati fiscali e in particolare su Sea. Del resto, Robledo, in questo documento di 12 pagine, parla di violazione dei «criteri organizzativi» e racconta nel dettaglio diversi punti di rottura con il resto della procura. Come quando nel 2011, in seguito allo scoppio dell’indagine sull’Ospedale San Raffaele che avrebbe poi travolto la giunta lombarda di Roberto Formigoni, fu proprio Bruti Liberati, secondo Robledo, a sottolineare «che si trattava di una situazione molto delicata, essendo in corso trattative sulle quali non avrebbe voluto che le indagini influissero in qualunque modo». È un attacco pesante che avviene nel cuore di quel Palazzaccio che vent’anni fa si forgiava dei galloni per aver debellato la corruzione nella politica italiana, indagando sul Psi di Bettino Craxi e la Dc di Arnaldo Forlani. Ma da allora pare quasi che l’incantesimo della magistratura con i cittadini si sia spezzato. I sondaggi degli ultimi anni, spesso molto sporadici, sono in picchiata. Più del 50% degli italiani sostiene di non credere più nella giustizia. Non solo. I dati europei non sono confortanti. La giustizia civile italiana è la più lenta d’Europa dopo quella maltese e la prima per casi pendenti che attendono ancora una sentenza definitiva. È il risultato che emerge dal Quadro di valutazione Ue della giustizia 2014. «Sono preoccupata per quei Paesi che sono in fondo alla lista”, e dove magari “non ci sono progressi ma regressi”, ha affermato la commissaria alla Giustizia, Viviane Reding. Non solo. Per finanziare il sistema giudiziario in Europa si spendono 57,4 euro pro capite, in Italia la spesa arriva a 73 euro, soltanto in Svizzera e nel Nord Europa si spende di più, per un sistema più snello che pare funzionare. La nostra nazione ha il maggior numero di casi civili pendenti, ben 4 milioni e 986 mila. I tempi sono lunghissimi: in media circa 600 giorni per una sentenza solo di primo grado. Il quadro, in sostanza, non è per nulla confortante. E questo si aggiunge a faide su faide, in particolare proprio a Milano, dove i magistrati continuano a darsele di santa ragione. A ottobre, prima di Bruti Liberati e Greco, è stato il turno della Boccassini. «I giudici di provincia non capiscono nulla di mafia» disse durante un convegno alla Bocconi l’11 ottobre. Apriti cielo. Le toghe di provincia decisero di intervenire con un esposto sempre al Csm chiedendo all'organo di autogoverno delle toghe, di valutare le affermazioni a loro avviso «gratuite», «denigratorie» e «generiche» pronunciate da Ilda la Rossa. Da Milano a Torino fino a Firenze e Napoli è un brulicare di veleni e sospetti. Sotto la Mole Antonelliana ha da poco lasciato il posto Giancarlo Caselli, non senza polemiche. A novembre lasciò Magistratura Democratica dopo averla fondata e dopo anni di militanza. Il motivo fu un contributo dello scrittore Erri De Luca al giornale della corrente togata cosiddetta «rossa». In modo velato si parlava della rivoluzione degli anni ’70 e si dava solidarietà ai No Tav della Val Susa, che sono stati indagati e arrestati proprio dalla procura allora guidata da Caselli (oggi in pensione) lo scorso anno per le violenze al cantiere e, per alcuni, atti di terrorismo. Il magistrato di Alessandria se ne andò sbattendo la porta. A tutto questo si aggiungano pure le inchieste piovute sullo stesso Vietti e sugli ex magistrati che sono stati coinvolti nello scandalo Finmeccanica, con al centro una commessa da 550 milioni di euro per 12 elicotteri in India. L’ex presidente della corte d’Appello di Milano Giuseppe Grechi e l’ex presidente della corte d’Appello di Venezia Manuela Romei Pasetti, diventati consulenti di piazza Montegrappa, finirono nel tritacarne, indagati in un procedimento connesso. Il giudice per le indagini preliminari di Busto Arsizio, Bruno Labianca, scrisse: «Gli indagati, informati dell’esistenza di una indagine giudiziaria si sono attivati a porre in essere condotte di sovvertimento della genuinità delle prove, anche con tentativi di pretesa modifica della linea operativa dell’ufficio inquirente che procede e con l’asservimento o, quanto meno la compiacenza presso i maggiori organi di stampa». L'ennesima faida di una magistratura ormai allo sbando.